Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’ACCOGLIENZA

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Muri.

Schengen e Frontex. L’Abbattimento ed il Controllo dei Muri.

Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Quei razzisti come…

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come gli svizzeri.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i polacchi.

Quei razzisti come i lussemburghesi.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come i serbi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i bulgari.

Quei razzisti come gli inglesi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come i somali.

Quei razzisti come gli etiopi.

Quei razzisti come i liberiani.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i Burkinabè.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come i sudsudanesi.

Quei razzisti come i giordani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i siriani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli emiratini.

Quei razzisti come i dubaiani.

Quei razzisti come gli arabi sauditi.

Quei razzisti come i bielorussi.

Quei razzisti come gli azeri.

Quei razzisti come i russi.

 

INDICE TERZA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

La Storia.

L’11 settembre 2001.

Il Complotto.

Le Vittime.

Il Ricordo.

La Cronaca di un’Infamia.

Il Ritiro della Vergogna.

La presa del Potere dei Talebani.

Media e regime.

Il fardello della vergogna.

Un esercito venduto.

Il costo della democrazia esportata.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

Fuga da Kabul. Il Rimpatrio degli stranieri.

L’Economia afgana.

Il Governo Talebano.

Chi sono i talebani.

Chi comanda tra i Talebani.

La Legge Talebana.

La Religione Talebana.

La ricchezza talebana.

Gli amici dei Talebani.

Gli Anti Talebani.

La censura politicamente corretta.

I bambini Afgani.

Gli Lgbtq afghani.

Le donne afgane.

I Terroristi afgani.

I Profughi afgani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i giapponesi.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come gli indonesiani.

Quei razzisti come gli australiani. 

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i brasiliani. 

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Olocausto dimenticato. La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Gli olocausti comunisti.

E allora le foibe?

Il Genocidio degli armeni.

Il Genocidio degli Uiguri.

La Shoah dei Rom.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Chi comanda sul mare.

L’Esercito d’Invasione.

La Genesi di un'invasione.

Quelli che …lo Ius Soli.

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Due “Porti”, due Misure.

Cosa succede in Libia.

Cosa succede in Tunisia?

 

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        I Muri.

Migrazioni: i primi uomini nel Nord America. Luigi Bignami su Focus il 4 ottobre 2021.  La datazione di semi trovati accanto a impronte fossili dimostra che l'uomo è arrivato nel Nord America migliaia di anni prima di quanto si pensava. Una nuova importante scoperta offre la prova definitiva che l'uomo aveva colonizzato il Nord America ben 7.000 anni prima rispetto a quanto gli archeologi hanno finora pensato. Impronte fossili di uomini trovate sulla riva di un antico letto di un lago nel White Sands National Park (New Mexico), nel sud degli attuali Stati Uniti, risalgono infatti, a 23.000 anni fa, rendendole le più antiche mai trovate in Nord America. Lo studio, pubblicato su Science, racconta che le prime impronte erano state scoperte nel 2009, ma solo nel 2016 sono iniziate le analisi e le ricerche su alcune di esse. Alla conclusione che sono così antiche si è giunti dopo essere riusciti a datare dei semi trovati negli stessi sedimenti dov'erano impresse le tracce degli uomini. In passato non si era mai riusciti a fare lo stesso e tutte le datazioni erano effettuate su manufatti rinvenuti in prossimità di calchi - impossibile datare impronte in assenza di manufatti. E se ci si rifà a questi ultimi, non ne sono mai stati trovati che avessero più di 13-14.000 anni. Ecco perché si è sempre pensato che i primi uomini fossero arrivati in America del Nord sfruttando l'ultima glaciazione, la quale, causando un abbassamento dei mari, avrebbe permesso di passare dall'Asia alle Americhe attraverso ponti naturali. Tuttavia quegli uomini si sarebbero dovuti stabilire vicino all'Artico perché le calotte glaciali che coprivano il Canada avrebbero reso impossibile andare verso sud. Solo in seguito, tra 16.000 e 13.500 anni fa, quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi, sarebbe iniziata anche la migrazione verso il sud. La nuova scoperta impone però di rivedere questa narrazione dei fatti.

100.000 ANNI FA... Per Sally Reynolds (Bournemouth University, UK) «la nuova scoperta colloca definitivamente gli esseri umani nel Nord America in un momento in cui i ghiacci polari erano notevolmente espansi. Questo significa che gli umani sono migrati a sud in più ondate e una di queste è avvenuta prima dell'ultima era glaciale. Quelle prime persone potrebbero aver navigato lungo la costa del Pacifico. Poi, dopo che i ghiacciai si ritirarono, ci sono state altre migrazioni». Se l'ipotesi è corretta, vuol dire che i primi uomini arrivarono nelle Americhe prima di 100.000 anni fa.

PROVETTI NAVIGATORI. Indizi precedenti a questa ricerca che facevano pensare alla possibile esistenza di uomini nelle Americhe ben prima di 15.000 anni fa furono avanzate dopo che in una grotta del messico furono trovati reperti e manufatti che sembravano avere 32.000 anni: gli indizi, però, erano troppo vaghi per averne certezza. La domanda, a questo punto, è: come sono arrivati quei primi uomini al sito di White Sands? Al momento non c'è una risposta certa, ma un'ipotesi: forse in barca, salpando dall'odierna Russia o dal Giappone e navigando il Pacifico sottocosta. Se fosse così, erano provetti navigatori.

Luigi Bignami su Focus il 4 ottobre 2021.  

Rafforzare l’Ue ripartendo dagli Stati. Il “segreto” del Trattato del Quirinale. Lorenzo Vita su Inside Over il 26 novembre 2021. Rafforzare l’Europa ripartendo dai rapporti bilaterali tra Francia e Italia. Sembra essere questo il filo rosso che lega le clausole del Trattato del Quirinale. Un patto per blindare le relazioni italo-francesi ma anche per rilanciare il progetto europeo, ripetono le delegazioni dei due governi, i leader e gli osservatori. E in effetti anche le clausole del Trattato rimandano a una rinnovata sinergia tra Francia e Italia che vuole avere come frutto una maggiore forze del progetto dell’Unione. Quello che sembra risaltare nell’accordo siglato a Roma da Emmanuel Macron e Mario Draghi è anche un nuovo metodo che da tempo caratterizza la diplomazia europea. Uno modus operandi che dimostra come l’Unione europea stia vivendo una nuova era, in cui alle (spesso fumose) intese su base continentale si predilige un percorso bilaterale. Un iter in cui fino a questo momento è la Francia a fare da regista, a conferma che Macron, dal suo arrivo all’Eliseo, ha saputo imporre una certa visione non solo della politica estera francese, ma anche dell’Europa. Ma è un iter che sembra essere stato intrapreso anche dall’Italia, desiderosa di costruire maggiori legami con i Paesi confinanti e non solo nell’ottica degli obiettivi posti dall’agenda europea. Sono almeno tre gli accordi siglati dal presidente della Repubblica francese che lasciano intendere un percorso bilaterale che punta all’Europa guardando anche agli interessi nazionali. Il primo è stato quello di Aquisgrana, in cui ricordiamo che Francia e Germania hanno manifestato la volontà di essere i veri “motori” del processo di unificazione europea condividendo non solo progetti industriali strategici, ma anche scelte politiche da sviluppare poi in ambito Ue. L’asse franco-tedesco, cristallizzato nell’accordo bilaterale benedetto a suo tempo anche da Jean Claude Juncker e Donald Tusk, diventava così il fulcro per una spinta europea che ripartiva però non su base continentale, ma a cavallo del Reno. La diplomazia di Macron si è spinta però anche oltre la cornice franco-tedesca. Il presidente francese ha cavalcato l’onda lunga delle tensioni tra Grecia e Turchia per concludere con il premier ellenico, Kyriakos Mitsotakis, un accordo di mutua difesa che ha visto una chiara presa di posizione di Parigi a supporto di Atene. Il patto prevede soprattutto la vendita di navi e aerei alle forze armate greche, su cui abbiamo già ampiamente scritto. Ma quello che appare interessante, anche in questo caso, è che alla tenuità delle azioni dell’Unione europea si è sostituito un approccio bilaterale e nazionale del presidente francese. Un metodo diplomatico ben diverso dalle proiezioni quasi oniriche di un europeismo fumoso ma non pragmatico in cui è il singolo leader o il singolo Paese a fare da vero interlocutore di un altro Stato membro in crisi. Veniamo ora al trattato del Quirinale tra Italia e Francia. Anche in questo caso Francia e Italia hanno preferito sviluppare una sinergia bilaterale per poi puntare al rafforzamento generale dell’Unione europea. L’accordo ha un’ispirazione europeista, confermata anche dalle parole di Draghi a Villa Madama, ma allo stesso tempo si può notare come il premier italiano e il presidente francese abbiano voluto sottolineato la forte importanza dei rapporti tra i due Paesi. Stati che in questo momento, in assenza di una forte leadership tedesca, possono essere considerati come riferimenti politici di un’integrazione europea. Un progetto che appare improntato sempre più su un maggiore pragmatismo e una rinascita dell’interesse concreto rispetto a logiche politiche comunitaria ambiziose ma di scarsa impronta pratica. Come spiegato anche da un articolo di Ispi, “non mancano le obiezioni di chi fa notare che con la sua entrata in vigore, il Trattato rafforzerà soprattutto la posizione della Francia in Europa, che diventerà l’unico paese europeo a poter beneficiare contemporaneamente di due patti di cooperazione rafforzata”. Chiaramente questo è uno scenario possibile, ma è interessante comprendere come proprio per questo motivo c’è chi inizia a parlare con insistenza, anche a Roma, di un accordo simile a quello tra Italia e Francia ma con lo sguardo rivolto alla Germania. Uno strumento per far sì che Parigi non sia l’unica capitale di questa nuova stagione di accordi bilaterali all’interno del quadro europeo, ma anche un modo per fare intendere a tutto il continente che siamo di fronte a un’azione europea del tutto diversa. La riscoperta del multilateralismo interno all’Ue come mezzo per blindare proprio quei settori e quei desideri fatti proprio dall’agenda di Bruxelles, e che essa stessa non riesce a consolidare. Forse per la difficoltà di raggiungere un accordo unanime sui vari punti, forse anche per una certa facilità di accordi tra potenze rivali in molti settori ma affini in altri. Di fatto quello che però risulta sempre più chiaro è che l’Unione europea oggi è tutelata dagli Stati membri, che si uniscono in forme di cooperazione rafforzata per garantire i propri interessi ma con la prospettiva di fare anche (in futuro) un favore all’Ue. Italia e Francia insegnano. E forse indicano una nuova rotta europea: quella delle “più velocità” appare già nei fatti la via predominante.

L’Ue ha come perno il nostro premier. Cosa prevede il Trattato del Quirinale, come cambierà il patto di stabilità. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Novembre 2021. Indebolita verso est con l’uscita di scena di Angela Merkel e con la Germania che deve ancora rodare con il nuovo cancelliere, l’Europa deve rafforzarsi verso ovest per arginare i venti del nazionalismo che vengono, appunto, da est. Per elaborare strategie comuni rispetto al nodo delle immigrazioni, via terra e via mare. E rispetto ad altri dossier economici – dalle materie prime alle fonti energetiche passando per l’autonomia nella ricerca medica – che ci hanno messo a nudo durante la pandemia. Per non perdere terreno e mostrarsi compatta e autonoma nello scontro geopolitico tra Washington e Pechino che ha sempre Mosca dalla sua. È una partita chiave e molto più grande di quello che si può leggere nelle circa 30 pagine del Trattato del Quirinale che fissa i parametri di un accordo rafforzato tra Italia e Francia. E lo è soprattutto per il futuro dell’Europa. L’ottica di questo accordo, ha ricordato il presidente Mattarella nel colloquio con Emmanuel Macron giovedì sera al Quirinale, è «costruire un’Unione europea più forte, una necessità che anche la crisi pandemica ha messo in luce». È una premessa necessaria e che va ribadita per comprendere l’importanza strategica dell’accordo che aveva iniziato a muovere i primi passi nel 2017 (Gentiloni premier) e il cui iter si è poi raffreddato, quasi fermato. Possiamo dire che la colpa va cercata in entrambe le metà campo: prima il fallimento dell’acquisizione da parte di Fincantieri dei Chantiers de l’Atlantique; Parigi che scaricava migranti alla frontiera di Bardonecchia convinta che l’Italia li facesse passare senza fermarli; le rivalità in Libia per il controllo delle fonti energetiche; fino all’incontro – era il 2019 -tra l’allora ministro e vicepremier Luigi Di Maio e i Gilet gialli. Quella volta Parigi richiamò in patria l’ambasciatore. È stato uno dei momenti più difficili nei rapporti tra Francia e Italia. Ogni volta è stato il Presidente Mattarella che si è fatto carico di spiegare, convincere che si trattava, da parte italiana, di incidenti venali; di fare la voce grossa e pretendere rispetto quando è stata la Francia a non rispettare gli accordi. A ricucire, comunque e sempre, in nome di quel progetto europeo che ebbe in Spinelli, Monnet, Schuman e De Gasperi i padri fondatori. Ogni volta, in questi anni, è stato Mattarella a riprendere il filo di un discorso che con lungimiranza e visione non poteva essere lasciato cadere. Si può dire che i governi Conte 1 e 2 non hanno lavorato il dossier. È stato l’arrivo di Draghi a palazzo Chigi a riportarlo in agenda. La firma con la stretta di mano a tre ieri mattina al Quirinale è il capolavoro di Mattarella. Se concluderà veramente il suo settennato, come ripete ogni volta che può, questa bella foto di tre (quasi) generazioni europee sorridenti sarà uno dei ricordi più belli del Capo dello Stato. Dopo la firma al Quirinale, Draghi e Macron sono saliti a Villa Madama di buon mattino per definire al meglio gli undici capitoli del Trattato. E aggiungerne uno, voluto da Draghi: almeno una volta ogni tre mesi un ministro italiano parteciperà ad un Consiglio dei ministri francese e viceversa. Si tratta di una vera e propria condivisione di sovranità. E se si pensa quanto ciascuno Stato, in ogni sua parte e articolazione, sia geloso della propria sovranità, si capisce quanto questo articolo in più voluto da Draghi possa essere rivoluzionario. Il premier Draghi ha spiegato che il Trattato del Quirinale, «interviene in settori cruciali per i nostri Paesi: dalla sicurezza alla giustizia, dalla ricerca all’industria. Istituiamo un servizio civile italo-francese e creiamo un’unità operativa condivisa a sostegno delle forze dell’ordine. Per promuovere le relazioni tra regioni di confine, prevediamo un Comitato di cooperazione transfrontaliera. In ambito migratorio, riconosciamo la necessità di una politica di gestione dei flussi e d’asilo condivisa a livello europeo, basata sui principi di responsabilità e solidarietà». Italia e Francia si impegnano anche «a tutelare i sistemi agricoli e riconoscere le loro unicità. Diamo il via a nuove forme di cooperazione in ambito energetico e tecnologico, nella ricerca e nell’innovazione». In quel momento nei cieli di Roma è stato condiviso anche il passaggio delle Frecce Tricolori e della Patrouille de France. Fin qui il gemellaggio operativo rafforzato Italia-Francia. Che è soprattutto un patto rafforzato in funzione europea. Un passo importante verso gli Stati Uniti d’Europa che sono, fin dal discorso d’insediamento del governo Draghi, il vero obiettivo della sua Presidenza. L’accordo è infatti l’occasione per Draghi per ribadire la necessità di agire per creare una «vera difesa europea». «Cercare la sovranità europea – ha sottolineato – significa voler disegnare il proprio futuro come lo vogliamo noi europei. L’Europa deve sapersi proteggere, difendere i propri confini. Questo Trattato aiuta la costruzione della difesa europea che è complementare alla Nato. Un’Europa più forte – conclude – fa la Nato più forte». La Francia ha già firmato un Trattato analogo con la Germania (Trattato dell’Eliseo) ad Acquisgrana nel 1963. I due Patti sono, ha spiegato Macron, “complementari”. Anzi, c’è da chiedersi «perché si sia aspettato così tanto tempo per finalizzare l’accordo con l’Italia» . Il presidente francese che a gennaio assumerà la presidenza del Consiglio europeo e a maggio dovrà affrontare la ricandidatura all’Eliseo, ha spiegato che «era quasi un’anomalia» che non ci fosse con l’Italia un Trattato come quello che già esiste la Germania. «In Francia abbiamo l’ossessione di dire che quando le cose diventano complicate con la Germania, ci rivolgiamo all’Italia. Non funziona mai. Non è questo. L’Italia e la Germania sono complementari, sono differenti. Non bisogna cercare delle vie di sostituzione. L’Unione europea è un progetto politico non egemonico». L’obiettivo è «lavorare sempre più insieme. Proporre e avere idee, costruire accordi in 27». Senza l’ossessione della leadership. Tra le idee che Draghi porterà al tavolo dell’Unione dopo averla condivisa con Macron, è che le norme del Patto di stabilità non potranno tornare quelle che erano prima della pandemia. Unica voce in dissenso è stata quella di Giorgia Meloni che ha parlato di «delega in bianco a Parigi per trattare a nome nostro anche con la Germania». Massima soddisfazione per tutti i partiti di maggioranza: «È un patto che rafforza l’Italia e l’Europa». Ci sono un paio di dossier su cui sarà possibile subito misurare il punto di caduta di tante belle e importanti parole: gestione dei flussi migratori; Tim-Vivendi e la vendita di Oto Melara da parte di Leonardo. In prima fila, per l’appunto, c’è la franco-tedesca Knds.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Dagospia il 15 dicembre 2021. LA CADUTA DEL MURO? FU ANTICIPATA AL MONDO DA UN CRONISTA ITALIANO, RICCARDO EHRMAN, SCOMPARSO IERI A 92 ANNI. IL GIORNALISTA, A QUELL’EPOCA CORRISPONDENTE ANSA, CHIESE AL PORTAVOCE DEL GOVERNO DELLA DDR DEI PERMESSI DI VIAGGIO PER L'OCCIDENTE. SCHABOWSKI RISPOSE CHE "I BIGLIETTI PER LA LIBERTÀ SAREBBERO STATI CONCESSI A TUTTI" - EHRMAN GRIDO’ AL TELEFONO ALL’ANSA CHE...

Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 15 dicembre 2021. Il 9 novembre 1989 Riccardo Ehrman arrivò tardi alla conferenza stampa del secolo. I vertici della Ddr avevano preso una decisione storica. Anche Günter Schabowski, portavoce del governo, il giorno prima era arrivato tardi a una riunione cruciale del Comitato centrale. Non ne conosceva alcuni dettagli. Quando si presentò il pomeriggio successivo davanti alla stampa con un faldone di documenti, la sala era gremita di giornalisti. Ehrmann, all'epoca corrispondente dell'Ansa, fu costretto ad accovacciarsi davanti alla prima fila in attesa di fare la sua domanda. Quella fondamentale domanda, ci confessò nel 2009, gli era stata suggerita da un collega della Ddr. Ehrman chiese dunque a Schabowski dei permessi di viaggio per l'Occidente. La Ddr era da quarant' anni un carcere per i tedeschi dell'Est. Schabowski rispose che sì, quei biglietti per la libertà sarebbero stati concessi a tutti. Un collega tedesco lo interruppe, «da quando?». Schabowski, poco informato sulle conclusioni del Comitato centrale, mormorò «a quanto ne so, da subito». Sui documenti, in realtà, era segnato l'11 novembre. Ehrman gridò al telefono all'Ansa che il Muro di Berlino era caduto. Fecero fatica a credergli. Era vero. Migliaia di berlinesi cominciarono a riversarsi verso gli invalicabili passaggi verso Ovest. Gridando «aprite, aprite». I Vopos, dopo ore, cedettero. E il secolo breve finì. Anche grazie a un italiano, morto ieri a 92 anni. 

Muro di Berlino, il Pd scorda “la matrice”: non cita mai il comunismo. IL POST SUL CROLLO DEL MURO CHE DIVIDEVA LA GERMANIA. I DEM NON NOMINANO MAI L’URSS. Giuseppe De Lorenzo il 9 Novembre 2021 su Nicolaporro.it. Hai voglia a ripetere a Giorgia Meloni che non ha ancora fatto i conti col fascismo. Hai voglia a chiedere a Lega e Fdi di non avere “ambiguità” sulla dittatura nera. Perché se poi, quando si presenta l’occasione, perdi il treno per condannare l’orrore comunista, beh: un minimo di ipocrisia la dimostri. Succede che oggi sarebbe, anzi è, la ricorrenza della caduta del muro di Berlino costruito nel 1961. Il 9 novembre di 32 anni fa i tedeschi lo presero a picconate ponendo fine prima alla Ddr, un regime comunista, e poi a valanga all’intera Unione Sovietica. Momento storico di portata colossale. Che infatti oggi viene giustamente ricordato da tutti gli schieramenti politici in parlamento. Gli occhi, ovviamente, sono puntati sul Pd. Voglio dire: sono o non sono gli eredi più o meno diretti di quel Partito Comunista Italiano che va da Togliatti in giù? Bene. Uno va sulla pagina Facebook dei dem e si trova questo post qui, corredato da una delle foto più iconiche di fine anni ’80: un berlinese intento ad abbattere il muro che divideva la città in due. State a sentire: “Lungo 156 km e alto quasi 4 metri, il muro di Berlino, costruito nel 1961, impedì la libera circolazione delle persone verso la Germania dell’Ovest. Simbolo tangibile di una divisione territoriale e politica, non solo tedesca, la sua caduta segnò la fine della Guerra Fredda e della divisione in due dell’Europa e del mondo, e anticipò la riunificazione della Germania. Furono migliaia i berlinesi che presero parte alla demolizione di quel muro che li tenne in ostaggio per quasi trent’anni. La caduta, nel 9 novembre 1989, divenne così espressione del bisogno di autodeterminazione da parte di chi non accettò più divisioni forzate e conflitti. La fine del bipolarismo tra Oriente e Occidente aprì le porte alla riunificazione necessaria e all’Unione europea. La storia insegna che il desiderio di libertà è più forte di ogni muro. Ieri come oggi. Notate qualcosa di strano? Vi sembra mancare qualcosina? Provate a fare una ricerca per parole e cercate di capire se il Pd è davvero riuscito a non nominare mai la parola comunismo nelle quasi 800 battute del post. Ebbene sì, ce l’hanno fatta. Si sono dimenticati di specificare che quei mattoni furono messi per impedire ai berlinesi dell’Est di scappare dal presunto “paradiso comunista”. C’entra poco “l’autodeterminazione” contro le “divisioni forzate e i conflitti”. È solo fuffa la storia del “bipolarismo tra Oriente e Occidente”. Il “desiderio di libertà” non era generico, ma un anelito di liberazione dal regime sovietico. Non specificarlo, volutamente, significa tradire le 140 vittime dei Vopos, gli agenti della Polizia del popolo che sparavano contro chiunque tentasse di raggiungere l’Ovest. Scusi, Letta, ci spieghi: di che matrice era quel muro? Giuseppe De Lorenzo, 9 novembre 2021

Quel muro che da noi non è mai caduto. Paolo Guzzanti il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. Il Muro di Berlino è stato abbattuto trentadue anni fa, aprendo la breccia che fece venir giù l'impero sovietico. Il Muro di Berlino è stato abbattuto trentadue anni fa, aprendo la breccia che fece venir giù l'impero sovietico. Da noi in Italia la guerra fredda invece continua, quando sarebbe ora (e facile) archiviarla, scrivendo la parola fine, risarcendo tutti di un debito di verità. Quando arriva l'anniversario di quel Muro, i giornali ne parlano, ma quelli di sinistra omettono accuratamente di scrivere la parola «comunista», come se quel Muro fosse un'opera malvagia, ma priva d'autore. Eppure, l'autore c'era e ha un nome. Ma i comunisti italiani ancor oggi svicolano e diventano delicati e pudichi quando si tratta di ricordare che il Muro fosse un'opera dei governi comunisti. I comunisti italiani, quando capirono che aria tirava, saltarono (metaforicamente) sul manufatto con i picconi a dare una mano. Fingevano di festeggiare anziché provare pudore e come se il Muro non fosse stato il loro monumento e come se il presidente americano Ronald Reagan non avesse gridato Mister Gorbaciov, tear down this wall, «Butti giù quel muro, signor Gorbaciov». Si è stabilito da allora che la Guerra fredda sia finita, ma non è vero. In Italia la guerra continua. Nel tempo sono state spostate le quinte del teatro di questa guerra di cui l'ultimo atto è stato quello dell'antiberlusconismo forsennato, accompagnato dai carri armati giudiziari che hanno devastato e terrorizzato la politica e la democrazia senza approdare a nulla, anzi distruggendo le scelte legittime di milioni di italiani. Non sarebbe ora di chiudere questo rancoroso capitolo, con una decisione politica capace di restituire una parte del maltolto a tutta l'Italia liberale? Quell'Italia che si è vista scippare la libertà di esprimere la sua volontà politica? Contro quella volontà politica abbiamo assistito a devastazioni decennali della verità con sessanta processi di cui uno solo finito con una dubbia condanna su cui la Corte di Strasburgo ha storto il naso. Tutti sappiamo che è andata così. Il Muro di Berlino è un capitolo chiuso soltanto perché le due Germanie dell'Est e dell'Ovest, che si erano odiate in armi per tre decenni, sono state capaci di unirsi dopo l'abbattimento del Muro. L'Italia, che ha subito un vulnus trentennale, per non dire del cittadino Berlusconi, merita la pacificazione e merita di essere risarcita politicamente. Sarebbe una pacificazione win-win, di cui godrebbero tutti senza vincitori e vinti, nel momento in cui la storia e la politica italiana sono già cambiate in maniera irreversibile. Paolo Guzzanti

Il 2021 è l’anno dei muri anti migranti. Mauro Indelicato su Inside Over il 21 novembre 2021. Sembrano lontani i tempi in cui dall’Europa si levavano scudi contro i progetti di Donald Trump volti ad innalzare nuovi muri al confine con il Messico. Era il 2016, il rafforzamento della frontiera meridionale degli Stati Uniti per il tycoon newyorkese costituiva un punto di forza della sua campagna elettorale. Ma anche un fattore in grado di attirare critiche dal Vecchio Continente. Ma oggi è proprio in Europa che la strategia dei nuovi muri sembra aver attecchito. Le varie emergenze migratorie degli ultimi anni hanno lasciato il segno. E alla retorica sull’accoglienza sta iniziando a contrapporsi l’esigenza, pratica e reale, di presidiare le frontiere. Non solo in Polonia, teatro dell’ultima crisi migratoria, ma anche in altre parti. Il 2021 può essere considerato l’anno dei muri. Ne sono sorti ben tre e due di questi riguardano i confini esterni dell’Ue.

Il nuovo muro tra Polonia e Bielorussia

Quando i numeri a Varsavia si sono fatti pesanti, il governo ha subito intuito la vera drammaticità del problema. Ossia, che l’aumento di migranti dalla Bielorussia altro non era che un nuovo capitolo dello scontro tra Bruxelles e Minsk. La nuova rotta dell’immigrazione, capace di coinvolgere una Polonia già molto restia alle politiche di accoglienza e tra le promotrici del gruppo di Visegrad, ha avuto le sembianze di uno scontro politico. Per questo l’esecutivo polacco non ha esitato a blindare le frontiere. Nell’immediato ha inviato qualcosa come dodicimila soldati a presidiare le linee più calde del confine. Ma subito dopo ha messo in atto tutte le iniziative necessarie per costruire un vero e proprio muro. L’Europa non ha potuto fare altro che prenderne nota. Timidamente a ottobre il presidente della commissione, Ursula Von Der Leyen, ha dichiarato l’intenzione di Bruxelles di non finanziare la nuova barriera. Ma poche ore dopo il capogruppo del Ppe all’Europarlamento, Manfred Weber, l’ha smentita. Quest’ultimo ha fatto sapere di non porre eventuali obiezioni alla costruzione di un muro tra Polonia e Bielorussia.

Segno di un cambiamento di rotto molto evidente. Davanti alla cosiddetta “guerra ibrida” mandata avanti da Minsk, l’Europa si è rivelata pronta a non ostacolare la formazione di nuove barriere. Per Varsavia un vero e proprio via libera. Pochi giorni fa il ministro dell’Interno polacco Mariusz Kaminsky ha confermato il via libera all’iter per innalzare il nuovo muro. L’opera sarà lunga 180 km e alta 5.5 metri. Entro il 15 dicembre la posa della prima pietra, entro il giugno 2022 i cantieri saranno chiusi. In tal modo, prima della prossima estate, la Polonia spera di avere già funzionante il nuovo muro ed evitare nuovi ricatti dalla Bielorussia. La battaglia politica sulla barriera è destinata a spostarsi sul suo finanziamento. Il costo dell’opera in totale dovrebbe aggirarsi intorno ai 353 milioni di Euro. In soccorso a Varsavia per l’emergenza immigrazione sono in arrivo da Bruxelles 140 milioni di Euro. Ma l’esecutivo comunitario ha vietato alla Polonia di spendere questa cifra per finanziare in parte il muro. I soldi per la barriera cioè devono essere solo polacchi e non dell’Ue. Un modo forse per la commissione europea di rimanere “pulita” con la sua politica anti muri, pur di fatto sostenendo (anche indirettamente) la blindatura del confine.

Il muro in Grecia

La nuova barriera tra Polonia e Bielorussia non è la prima ad essere costruita nel 2021. Già ad agosto a fare discutere è stato un altro muro. Si tratta di quello posto lungo il confine terrestre tra Grecia e Turchia. Anche in questa zona di migranti negli anni scorsi ne sono transitati parecchi. E anche qui più volte sono andati in scena ricatti verso l’Ue. Ankara, quando doveva battere cassa a Bruxelles o voleva ottenere appoggi politici, non ha esitato ad aprire le frontiere. Dal canto suo Atene, pur attirandosi critiche dall’Europa, ha attuato la stessa strategia vista di recente in Polonia. Ossia schierare i militari e presidiare i punti più critici. Successivamente il governo guidato da Kiryakos Mitsotakis ha iniziato a costruire un muro. Prima solo lungo un parte del confine, ad agosto invece sono stati stanziati i fondi per ultimare definitivamente l’opera.

Il 20 agosto il ministro della Difesa greco Nikolaos Panagiotopulos ha visitato i luoghi dove la lunga barriera è pronta ad entrare in funzione: “Dobbiamo assolutamente agire – ha dichiarato il rappresentante dell’esecutivo ellenico ai giornalisti – non possiamo restare a guardare”. In totale, il muro è lungo 40 km ed è dotato anche di filo spinato, posti di guardia e impianti di videosorveglianza. Una vera e propria lingua di cemento e acciaio pronta a ostacolare i futuri tentativi di ingresso irregolare dalla Turchia. I lavori sono andati avanti a tempo di record. L’opinione pubblica ellenica a più riprese si è mostrata favorevole a questa maggiore blindatura dei confini terrestri.

Erdogan blinda i confini con l’Iran

Se la Grecia ha preferito guardarsi dalla Turchia, a sua volta Ankara ha deciso di chiudere le proprie frontiere con Teheran. Da qui passano i migranti provenienti dall’Afghanistan. Non è un caso che di muro con l’Iran si è ricominciato a parlare dall’arrivo dei talebani a Kabul. La presa del potere da parte degli studenti coranici ha scatenato un vero e proprio esodo, con centinaia di migranti in fuga verso occidente. Il territorio iraniano costituisce la via principale per raggiungere prima la Turchia e, da qui, l’Europa. Per questo il presidente Recep Tayyip Erdogan ha avviato la costruzione di una maxi barriera lunga quasi 300 km. Una parte del confine era già presidiata da un muro, ma adesso si sta dando vita alla costruzione di un’imponente opera capace di blindare quasi tutta la frontiera.

Le due emergenze migratorie del 2021, quella cioè bielorussa e afghana, hanno dato grande impulso alla strategia dei muri. Davanti all’avanzare delle due crisi, i governi coinvolti hanno scelto di controllare meglio i confini. Ma di certo quella delle maxi barriere è una tematica sdoganata già da anni. La costruzione in Europa di ben due muri in pochi mesi, ha certificato tra le altre cose il fallimento delle politiche comunitarie in tema di immigrazione. Nessuno si fida più della retorica e delle belle parole. Gli Stati che ricevono ondate di profughi vogliono cautelarsi. Anche a costo di spendere milioni di Euro per potenziare ogni singolo presidio.

Il dramma dei migranti. Confine tra Polonia e Bielorussia, tra lacrimogeni e ipocrisia muore il diritto internazionale. Giulio Cavalli su Il Riformista il 17 Novembre 2021. Per farsi un’idea del dramma che si sta consumando basterebbe ascoltare le parole di Abou Elias, un padre disperato appena arrivato in una delle città di confine polacche per cercare sua figlia Hilda Naaman, una dottoressa di 25 anni che stava arrivando in Europa dalla Siria. «Non può più camminare. Le unghie di mia figlia sono state strappate. I bielorussi sono venuti di notte, picchiandoli con un bastoncino elettrico… dicendo loro di andare in Polonia. I polacchi li hanno accolti solo per riportarli indietro», ha spiegato Abou Elias ai giornalisti della Reuters. Abou Elias è siriano, vive in Svezia ed è arrivato in Polonia perché conosce bene l’orrore e la disperazione di un viaggio migratorio ai confini dell’Europa, che lui stesso ha percorso nel 2014. Racconta di avere sentito la figlia al telefono solo in una manciata di occasioni. La figlia gli avrebbe raccontato che le autorità bielorusse chiedevano ai migranti di pagare 1.000 dollari solo per avere il 20% di carica della batteria di loro telefoni. «Lei è qui, a 40 chilometri di distanza, ci stanno giocando… La Polonia non li fa entrare, e l’altra (Bielorussia) non permette loro di tornare indietro. Non sono persone. Sono mostri, mostri, mostri», spiega tra le lacrime. Ieri sono scoppiati scontri tra i rifugiati bloccati e le guardie di frontiera polacche al confine polacco-bielorusso. Secondo il Ministero della Difesa Nazionale polacco i rifugiati al valico di frontiera di Kuznica che cercavano di entrare in Polonia avrebbero lanciato pietre contro le milizie polacche, che hanno risposto usando cannoni ad acqua e gas lacrimogeni. I cannoni d’acqua e i gas lacrimogeni sono solo un peggioramento delle precarie condizioni delle persone incastrate tra le due frontiere, senza cibo né cure. Il governo polacco ieri ha dichiarato che «il comportamento aggressivo dei migranti è coordinato dai servizi bielorussi e monitorato dai droni. A seguito di un attacco da parte di persone ispirate dalla parte bielorussa, uno dei poliziotti è rimasto gravemente ferito». Ovviamente le affermazioni non sono verificabili visto che l’accesso ai giornalisti continua a essere vietato. Di certo c’è che i bielorussi la scorsa notte hanno cominciato a spostare le persone accampate ancora più vicine al confine polacco che rimane controllato da già di 20mila uomini dell’esercito. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha condannato le azioni delle forze polacche bollandole come «assolutamente inaccettabili», in una conferenza stampa denunciando la violazione di «tutte le norme concepibili del diritto internazionale umanitario e altri accordi della comunità internazionale». Di tutt’altro avviso Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, che ha detto che l’alleanza è «profondamente preoccupata per il modo in cui il regime di Lukashenko sta usando i migranti vulnerabili come tattica ibrida contro altri paesi, e questo sta effettivamente mettendo a rischio la vita dei migranti». Il blocco è sempre lo stesso: la Russia che continua a sostenere Lukashenko mentre la comunità occidentale prende le parti della Polonia. L’Europa intanto ha ufficializzato nel corso della riunione dei ministri degli Esteri dei 27 Stati membri l’estensione del regime di sanzioni nei confronti della Bielorussia anche alle entità che organizzano o contribuiscono ad attività del regime di Aleksander Lukashenko che facilitano l’attraversamento illegale delle frontiere esterne dell’Ue. Il Consiglio UE ha chiarito per bocca del suo Alto rappresentante per gli Affari Esteri, Josep Borrell che «questa decisione riflette la determinazione dell’Unione europea a resistere alla strumentalizzazione dei migranti a fini politici. Stiamo respingendo questa pratica disumana e illegale. Al tempo stesso continuiamo a sottolineare l’inaccettabile repressione in atto da parte del regime contro la propria popolazione e noi risponderemo di conseguenza». Borrel ha anche puntato il dito contro la Russia dicendo di «non conoscere i segreti dei contatti tra Putin e Lukashenko. Ma è evidente che Lukashenko fa quello che fa perché conta sul forte sostegno della Russia. Lukashenko non poteva fare ciò che sta facendo senza un forte sostegno della Russia. Che poi ci sia un nesso con l’aumento delle truppe in Ucraina non posso saperlo». Dura la reazione del presidente bielorusso: «Ci minacciano di sanzioni. Ok, aspettiamo e vediamo. Pensano che io stia scherzando. Che sia una minaccia vuota. Niente del genere. Combatteremo. Abbiamo raggiunto il limite. Non c’è spazio per una ritirata». La Polonia intanto annuncia la costruzione di un muro entro la metà del 2022 mentre i contratti verranno firmati non prima del 15 dicembre. Il costo complessivo sarà di 353 milioni di euro, con i lavori che andranno avanti per 24 ore al giorno – divise in 3 turni – e partiranno prima della fine dell’anno. Il ministro degli Interni polacco Mariusz Kaminsky considera il muro «un investimento assolutamente strategico e prioritario per la sicurezza della nazione e dei suoi cittadini». Sarà lungo ben 180 km e alto 5,5 metri. La difesa dei confini tra l’altro sposta un’enorme mole di denaro. Come racconta Nello Scavo per Avvenire «prima di oggi le imprese hanno beneficiato del budget di 1,7 miliardi di euro del Fondo per le frontiere esterne della Commissione europea (2007-2013) e del Fondo per la sicurezza interna – frontiere (2014-2020) di 2,76 miliardi di euro. Per il nuovo bilancio Ue (2021-2027), la Commissione europea ha stanziato 8,02 miliardi di euro al Fondo per la gestione integrata delle frontiere; 11,27 miliardi di euro a Frontex (di cui 2,2 miliardi di euro saranno utilizzati per acquisire e gestire mezzi aerei, marittimi e terrestri) e almeno 1,9 miliardi di euro di spesa totale (2000-2027) per le sue banche dati di identità e Eurosur (il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere)». E qui, come al solito, esce tutta l’ipocrisia di questa Europa che finge di incastrarsi per poche migliaia di migranti. Quanto costerebbe accogliere quelle poche persone (sarebbero circa 3.500) a differenza di tutti gli armamenti? Perché nessuno fa notare che la quasi totalità dei migranti sul confine polacco sono potenzialmente meritevoli di protezione internazionale visto che provengono tutti da territori di guerra? Perché nessuno ha storto la bocca quando ad agosto 20mila afghani attraversano ogni giorno il confine con il Pakistan? Perché non ci si ricorda che l’85% dei rifugiati risiede ancora nei Paesi d’origine come l’Africa, l’Asia, Medioriente e Sud America? Dove sta il diritto internazionale su quelle persone all’addiaccio che sono diventate semplicemente un alibi per uno scontro economico e politico, carne di propaganda per sovranisti e regimi? La risposta, c’è da scommetterci, non arriverà presto.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Cosa sappiamo del muro anti migranti al confine tra Polonia e Bielorussia. Lorenzo Berardi su L'Inkiesta il 17 Novembre 2021. Costerà 350 milioni di euro, sarà lunga 200km e alta quasi sei metri. La costruzione inizierà tra pochi mesi e la lunghezza è stata raddoppiata rispetto ai piani originali. Nel frattempo è appena iniziata la costruzione di un altro muro d’acciaio di 508 chilometri lungo il confine lituano-bielorusso. Un muro lungo circa duecento chilometri e alto fra i cinque e i sei metri, sormontato da bobine di filo spinato. Un muro presidiato giorno e notte, senza sosta, da decine di migliaia di guardie di frontiera armate e monitorato palmo a palmo dall’alto da telecamere termiche e sensori di movimento montati su pali disposti a intervalli regolari. Una barriera insormontabile, per rendere impossibile o suicida qualsiasi futuro tentativo di passaggio di migranti dalla Bielorussia alla Polonia. Lo aveva presentato il 4 novembre il ministro degli Interni polacco Mariusz Kamiñski in una conferenza stampa a Varsavia, con tanto di rendering su come un tratto del futuro muro dovrebbe apparire. Un annuncio passato quasi sotto traccia, scavalcato nei giorni seguenti dalla crisi umanitaria e diplomatica che si sta dipanando in maniera sempre più drammatica lungo la frontiera fra Polonia e Bielorussia. Là dove oggi un muro ancora non c’è, ma esiste già uno sbarramento di filo spinato alto due metri e mezzo presidiato da 20mila uomini fra soldati dell’esercito polacco, guardie di frontiera e unità delle milizie territoriali volontarie istituite nel 2017. Il medesimo filo spinato che in questi giorni centinaia di migranti assiepati lungo la linea di confine dal lato bielorusso hanno tentato più volte di attraversare, tranciandolo o sollevandolo. Tentativi istigati o scatenati dalle insostenibili pressioni nei loro confronti fatte dall’esercito e dalle forze speciali del regime di Alexander Lukashenko. Una situazione che ha portato governo polacco, Unione Europea e Nato a parlare di guerra ibrida scatenata dalla Bielorussia. Una guerra di posizione combattuta lungo la frontiera sulla pelle di migliaia di uomini, donne e bambini afghani, siriani, curdi iracheni e yemeniti arrivati a Minsk con voli charter da Istanbul e dal Medio Oriente. Persone alle quali sedicenti agenzie turistiche bielorusse rilasciano visti d’ingresso, assicurazioni e vuote promesse d’ingresso nell’Unione Europea e che vengono condotte in pullman lungo il confine. Migranti che hanno pagato somme ingenti per questi viaggi e che ora si trovano fra due fuochi, spesso costretti ad accamparsi a ridosso del filo spinato, dalla parte bielorussa del confine. Da un lato persiste il fermo rifiuto del governo di Varsavia ad accoglierli – con tanto di respingimenti forzati per i migranti riusciti a varcare la frontiera e intercettati – dall’altro l’impossibilità di tornare a Minsk e da lì in patria: gli uomini di Lukashenko non glielo consentono. La costruzione del muro frontaliero polacco-bielorusso era stata anticipata il 4 ottobre scorso, durante una seduta del parlamento di Varsavia dallo stesso Kamiñski. «Sarà impenetrabile», aveva assicurato il ministro, aggiungendo che «Ogni tentativo di attraversarlo verrà individuato, con immagini e informazioni inviate istantaneamente alle nostre guardie di frontiera, le quali reagiranno immediatamente». Meno di un mese dopo, il 2 novembre, il presidente della Repubblica Andrzej Duda ha posto la sua firma sul progetto del muro, che in precedenza era stato approvato dalla Camera e dal Senato di Varsavia, nonostante il parere contrario di molti esponenti delle opposizioni. Il fatto che sia passato meno di un mese dal momento in cui la barriera di confine era stata introdotta nell’aula parlamentare a quello della sua approvazione istituzionale definitiva fa capire quanto il governo di Varsavia voglia erigerla in tempi rapidi. Il costo stimato dell’opera è di 1,6 miliardi di zloty, pari a 350 milioni di Euro. Dovrebbero essere sufficienti a coprire la costruzione di questa impenetrabile barriera, che si snoderà lungo la metà dei 418 chilometri della frontiera polacco-bielorussa e la cui costruzione dovrebbe cominciare nel giro di pochi mesi. Va aggiunto che, nel frattempo la lunghezza stessa della barriera anti-migranti polacca lungo il confine bielorusso è stata raddoppiata rispetto alle previsioni iniziali, che ipotizzavano un muro di un centinaio di chilometri. Una volta ultimato, il nuovo muro polacco-bielorusso si andrà ad aggiungere a una lista di recenti o recentissime barriere anti-migranti costruite lungo i confini dell’Unione Europea. La prima nazione dell’Ue a costruire una protezione di questo tipo fu l’Ungheria di Viktor Orbán, che nel 2015 ha eretto 175 chilometri di recinzione ipersorvegliata lungo il proprio confine con la Serbia. In seguito, è stata la volta della Grecia, che nell’agosto di quest’anno ha completato 40 chilometri di muro in un tratto della propria frontiera con la Turchia. Infine, a poche decine di chilometri dal futuro muro polacco-bielorusso è appena iniziata la costruzione di un muro d’acciaio di 508 chilometri lungo il confine lituano-bielorusso. I suoi lavori costeranno 152 milioni di euro, con un costo per chilometro assai inferiore a quello polacco poiché la barriera decisa dal governo di Vilnius sarà alta quattro metri anziché sei, e meno sofisticata. Nuove difese fisiche contro la ’minaccia dei migranti’ che si aggiungono alle imponenti ’barriere di separazione’ presenti sin dal 1993 nelle exclavi spagnole sul continente africano di Ceuta e Melilla, sui cui 20 chilometri complessivi si infrangono da anni le speranze di migliaia di persone intenzionate a entrare nell’Unione Europea. 

Stato d’emergenza a termine

Intanto lungo il confine prosegue lo stato d’emergenza proclamato dal governo polacco il 6 settembre scorso. Inizialmente doveva durare 30 giorni, ma a ottobre è stato esteso per altri 60. Impedisce a giornalisti, Croce Rossa, volontari delle Ong e persino parlamentari polacchi di avere accesso a una fascia larga tre chilometri a ridosso della frontiera con la Bielorussia. Da quasi tre mesi l’accesso a questa zona rossa è presidiato dalla polizia e dalla guardia di frontiera con innumerevoli posti di blocco e consentito solo a personale autorizzato e residenti locali. Una situazione che impedisce al personale medico e sanitario di prestare assistenza lungo il confine, costringendo Ong quali Grupa Granica a chiedere aiuto agli abitanti dei paesini della zona, ma anche a reporter di tutto il mondo di raccontare quanto vi sta accadendo.

Ecco perché quasi tutte le immagini della crisi umanitaria in corso a ridosso della frontiera, sul versante polacco, rilanciate dai media e sui social in questi giorni provengono dai migranti stessi o da fonti del ministero della Difesa di Varsavia. L’accesso al versante bielorusso della frontiera non è invece proibito ai giornalisti, ma vi si trovano soprattutto media vicini al regime di Lukashenko, come Sputnik, che propongono una lettura dei fatti vicina alle posizioni di Minsk e quindi accusatoria nei confronti della Polonia e dell’Ue in generale. Fra le pochissime eccezioni vi sono Bbc, Cnn e il canale Telegram dell’opposizione bielorussa Nexta, la cui sede è a Varsavia. La novità attesa nelle prossime due settimane è che lo stato d’emergenza deciso dal governo polacco non potrà essere esteso una seconda volta. Da inizio dicembre, quindi, l’accesso a giornalisti e personale medico nell’attuale zona rossa dovrebbe essere possibile e proprio in questi giorni l’esecutivo di Varsavia sta lavorando a una bozza per regolamentarlo. I dettagli precisi ancora non si conoscono e la situazione resta dinamica, ma è probabile che alcune delle attuali limitazioni nella zona rossa verranno revocate o perlomeno riviste. In attesa che comincino i lavori per la costruzione del nuovo impenetrabile muro voluto da Varsavia. 

La crisi bielorusso-polacca, non solo colpa di Minsk. Piccole Note il 17 novembre 2021 su Il Giornale. La crisi dei migranti al confine tra Bielorussia e Polonia ha creato le ennesime tensioni Est – Ovest e le ennesime recriminazioni contro Minsk e Mosca. Ciò nonostante riproponga un copione ormai stantio, che altre volte era stato affrontato senza altisonanti proclami ideologici e col pragmatismo del caso (vedi accordo con Erdogan).

Tanti articoli sul tema propongono così la nuova narrativa di Minsk che attenterebbe all’integrità dei confini europei, come se il passato non esistesse.

Migranti o persone?

A mettere sotto una luce diversa, e più realistica, la vicenda, è Kenan Malik sul Guardian, che irride le nuove altisonanti condanne di Minsk da parte dell’Unione europea, spiegando che, certo,  la Bielorussia è retta da un regime autoritario che sta strumentalizzando il flusso dei migranti, ma che a strumentalizzare queste persone è anche la Ue.

La dottrina di Bruxelles sui flussi migratori fa dei migranti non più uomini che hanno un cuore e pensano, ma minacce da tenere lontane in tutti i modi dai propri confini.

Così sul confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina uomini della sicurezza da tempo scacciano i migranti usando violenza; e così “le unità d’élite della guardia costiera greca, vestiti di nero, il volto nascosto da passamontagna e senza segni di identità, sequestrano regolarmente migranti, li mettono su zattere di salvataggio arancioni, fornite dall’UE, li spingono in mare verso la Turchia e li abbandonano al loro destino”.

L’accordo con l’Africa

Ma la dottrina sui migranti della Ue ha orizzonti più grandi. Così ai Paesi africani del Mediterraneo, da quelli democratici ai più dittatoriali (vedi alla voce Sudan) Bruxelles ha chiesto di fermare in tutti i modi i migranti, cacciandoli e rinchiudendoli in campi di concentramento, nei quali subiscono soprusi e violenze di ogni genere. Così in Sudan, dove a cacciarli sono le feroci milizie Janjaweed, così in Libia, le cui prigioni traboccano di detenuti che hanno osato sognare l’Europa.

“Per mantenere la Fortezza Europa, l’UE ha finanziato un’enorme settore industriale rivolto al rapimento e alla detenzione [dei migranti] in tutta l’Africa, dall’Atlantico al Mar Rosso, dal Mediterraneo fino al di là del Sahara”, scrive Malik.

“La UE da tempo strumentalizza le persone utilizzando gli aiuti come arma per far rispettare le sue politiche migratorie – aggiunge -. I paesi che accettano di fermare quanti vogliono entrare in Europa ricevono denaro. Coloro che si rifiutano perdono i finanziamenti”.

Le colpe dei polacchi

Non solo, la Ue ha condannato Lukaschenko per aver portato i migranti ai confini polacchi, imponendo addirittura sanzioni, ma ha omesso di sanzionare la Polonia per quanto avvenuto.

“Per quanto odiose siano le azioni di Lukashenko – scrive Malik -, il disastro umanitario al confine non è semplicemente il risultato delle azioni di una nazione. Anche le forze polacche hanno intrappolato i migranti. Varsavia ha imposto lo stato di emergenza , negando ai migranti cibo, acqua o assistenza medica e negando l’accesso ai giornalisti”.

“Nuove leggi consentono alla polizia di ignorare le richieste di asilo. Ufficialmente, otto persone sono morte a temperature sotto lo zero [contro le quali le guardie polacche hanno infierito anche con i cannoni ad acqua ndr…]; ma la cifra reale è probabilmente molto più alta”.

D’altronde Bruxelles non può sanzionare la Polonia perché “incidenti” simili sono avvenuti in Spagna, in Francia e altrove.

La destabilizzazione permanente

Non siamo irenici, e non pensiamo che la soluzione ai flussi migratori stia tutta nell’accoglienza dei milioni di esuli che bussano alle porte della Ue. E sappiamo bene quanti benefattori dell’umanità, incensati come tali sui media mainstream, lucrano su questa tragedia.

Ma sappiamo anche quanto sia non solo odioso e inaccettabile, ma anche pericoloso rinunciare alle ragioni umanitarie, non solo per quanti ne fanno le spese ai confini e dentro la Ue, ma per gli stessi cittadini europei, nei confronti dei quali, in determinate circostanze, cioè in caso di criticità del sistema, verranno adottati gli stessi criteri anche se con metodologie diverse.

Insomma, la questione migranti è complessa, e la crisi polacco-bielorussa è solo un aspetto, peraltro minimale, di una vicenda ben più ampia, che va risolta anzitutto eliminando, o quantomeno contendendo, i fattori di destabilizzazione dei Paesi mediterranei e africani, che per lo più sono posti dagli interessi dei Paesi occidentali.

Basti pensare al nascosto genocidio congolese, che registra da decenni, nelle sue regioni orientali, una lotta continua alimentata dall’esterno. Un genocidio che consente alle potenti BIg Tech di accedere al coltan, materia prima indispensabile a telefoni e computer, a prezzi più che ridotti.

La Polonia e la crisi con la Ue

Comunque al di là delle condanne altisonanti, i leader europei sono impegnati a trattare con Mosca, alla quale è stato chiesto di mediare con Minsk (di ieri la telefonata tra Macron e lo zar), e si spera che la questione sia risolta a breve.

A margine si può notare come tale crisi sia caduta come una manna per il governo polacco. Prima che scoppiasse, infatti, Varsavia aveva dato vita a un braccio di ferro con Bruxelles reclamando la superiorità delle leggi nazionali su quelle della Ue.

Un braccio di ferro che rischiava di travolgere il governo, che ora, invece, vede i suoi ex antagonisti impegnati a difendere le proprie ragioni contro quelle della Bielorussia.

Non che il contenzioso con la Ue sia svaporato, ma il tempo potrebbe  favorire quel compromesso inizialmente rigettato da entrambe le parti. E la crisi dei migranti, mettendo in stallo la controversia, ha offerto a Varsavia e alla Ue tempo prezioso.

La Polonia costruirà un muro al confine con la Bielorussia.

(ANSA-AFP il 16 novembre 2021) - La Polonia inizierà a costruire un muro al confine con la Bielorussia a dicembre. Lo annuncia il governo di Varsavia nel pieno della crisi migranti con Minsk. L'azione che sarà messa in campo attraverso la costruzione di una barriera al confine con la Bielorussia "è un investimento assolutamente strategico e prioritario per la sicurezza della nazione e dei suoi cittadini", ha detto il ministro dell'Interno di Varsavia Mariusz Kaminski. 

Bielorussia: telefonata tra Lukashenko e Merkel

(ANSA-AFP il 16 novembre 2021) - Il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko ha avuto un colloquio telefonico con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Lo riferisce l'agenzia di stato bielorussa. Al centro della telefonata, durata cinquanta minuti, la crisi dei migranti al confine con la Polonia.

Bielorussia: via libera Ue a estensione regime sanzioni.

(ANSA il 16 novembre 2021) - Via libera del Consiglio Ue all'estensione del regime delle sanzioni nei confronti della Bielorussia. La decisione, presa nella riunione dei ministri degli Esteri Ue, permette a Bruxelles di colpire individui ed entità che organizzano o contribuiscono ad attività del regime di Lukashenko che facilitano l'attraversamento illegale delle frontiere esterne dell'Ue. "Questa decisione riflette la determinazione dell'Unione europea a resistere alla strumentalizzazione dei migranti a fini politici. Stiamo respingendo questa pratica disumana e illegale. Al tempo stesso continuiamo a sottolineare l'inaccettabile repressione in atto da parte del regime contro la propria popolazione e noi risponderemo di conseguenza", ha detto l'Altro Rappresentante Ue per gli Affari Estyeri Josep Borrell.

Confine tra Bielorussia e Polonia, al via i lavori per il muro “anti-migranti”. Redazione su Il Riformista il 16 Novembre 2021. La Polonia inizierà a costruire un muro al confine con la Bielorussia a dicembre. Lo annuncia il governo di Varsavia nel pieno della crisi migranti con Minsk. I lavori dovrebbero essere completati nella prima metà del prossimo anno, ha comunicato ieri il ministero degli Interni polacco in una nota. Il ministero ha fatto sapere che i contratti saranno firmati entro il 15 dicembre e che i lavori sul confine inizieranno nel corso del mese, andando avanti 24 ore al giorno su tre turni. La barriera ha un costo stimato di 353 milioni di euro e si prevede che si estenderà per 180 chilometri, circa la metà della lunghezza totale del confine tra Polonia e Bielorussia. Il mese scorso il Parlamento aveva dato il suo via libera alla costruzione della barriera. Per il ministro dell’Interno di Varsavia, Mariusz Kaminski, la costruzione del muro alla frontiera con la Bielorussia «è un investimento assolutamente strategico e prioritario per la sicurezza della nazione e dei suoi cittadini». E sempre ieri il Consiglio Ue ha dato il via libera a un nuovo pacchetto di sanzioni contro Minsk, una «decisione che riflette la determinazione dell’Unione europea a resistere alla strumentalizzazione dei migranti a fini politici. Stiamo respingendo questa pratica disumana e illegale. Al tempo stesso continuiamo a sottolineare l’inaccettabile repressione in atto da parte del regime contro la propria popolazione e noi risponderemo di conseguenza», ha dichiarato l’Alto Rappresentante Ue per gli Affari Esteri Josep Borrell. Sul dramma dei profughi è intervenuto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «È sconcertante quanto avviene in più luoghi ai confini dell’Unione», ha detto ieri il Capo dello Stato in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Siena. «È sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e il non tenere conto della fame e del freddo cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione».

L’Europa riscopre i muri ai confini: “Dibattito aperto”. Lorenzo Vita su Inside Over il 10 novembre 2021. I muri ai confini non sembrano essere più un tabù nemmeno in Europa. Lo conferma il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, che a Berlino, durante un incontro organizzato dalla Konrad Adenauer Foundation, ha detto che in Ue è stato aperto “il dibattito sul finanziamento da parte dell’Ue dell’infrastruttura fisica delle frontiere”. Non solo, come riportano le agenzie, Michel ha anche concluso che il problema “deve essere risolto rapidamente perché i confini polacchi e baltici sono confini dell’Ue. Uno per tutti e tutti per uno”. Le parole di Michel, se non aprono definitivamente ai muri europei, di certo rappresentano delle vere e proprie picconate – per rimanere in tema – a una certa narrazione che per anni ha condannato qualsiasi tipo di chiusura dei confini. Curioso anche che come data scelta per questo discorso venga designata quella dell’anniversario della caduta del Muro per antonomasia, quello di Berlino, che per decenni ha ferito la capitale tedesca. Data simbolica per l’integrazione tedesca ma anche per quella europea, che proprio dalla Germania ha trovato la sua linfa vitale e la sua locomotiva politica. Curioso anche che il luogo di questa dichiarazione sia proprio la città tedesca che ha subito l’esistenza di una barriera al suo interno. Ma se le coincidenze di certo non giocano a favore di Michel, certamente è interessante che il presidente del Consiglio europeo cambi idee sul punto. E anzi, forse proprio la scelta di Berlino ci aiuta a capire cosa si nasconda dietro questa novità del panorama europeo. Perché è chiaro che qualcosa deve essere cambiato rispetto agli anni in cui all’esodo dal Mediterraneo e dalla rotta balcanica veniva risposto con frontiere aperte, accoglienza indiscriminata e condanna nei confronti dei Paesi che innalzavano barriere di filo spinato. Che cosa è cambiato? Come si può passare nell’arco di pochissimi mesi, se non settimane, dall’Europa dei confini che spariscono e delle porte aperte, a quella della chiusura delle frontiere addirittura paventando il finanziamento da parte di Bruxelles di barriere fisiche? “Stiamo affrontando un attacco brutale e ibrido ai nostri confini dell’Ue” ribadisce Michel, quasi a giustificarsi di fronte a questa mossa sorprendente. Ma la verità è che dietro questo cambiamento di prospettiva ci sono esigenze molto più pragmatiche e non meno importanti di una crisi di rifugiati che, come spiegato da Matteo Villa, responsabile del Programma migrazioni dell’Ispi, ad Adnkronos, è stato “ingigantito” proprio dalle autorità polacche. Per capire il problema bisogna innanzitutto capire che per l’Europa adesso è importante risolvere la crisi al confine tra Polonia e Bielorussia per evitare un pericoloso effetto-domino in un un’area, quella di Visegrad, già densa di insidie per l’impalcatura Ue. Il confine orientale è debole e le spine nel fianco sono molte, la Polonia serve all’Ue per blindare quel sistema e ricomporre le varie fratture sorte sullo stato di diritto e sui fondi europei. Aprire ai muri significa mostrare a Varsavia un canale di dialogo per superare le divisioni e provare a discutere su altri punti che stanno a cuore all’agenda di Bruxelles. Dall’altro lato, il fatto che Michel abbia parlato di muri a Berlino è simbolico. Perché è proprio la Germania a essere il primo Paese interessato a qualsiasi eventuale flusso di migranti. Nessuna rotta migratoria proveniente dalle frontiere orientali dell’Ue si ferma negli Stati di primo approdo, ma tutti cercano di raggiungere il cuore industriale ed economico: il territorio tedesco. Per Berlino, che si trova a dover gestire anche la nascita di un governo complesso come quello della “coalizione semaforo”, è utile avere la garanzia che la Polonia sia una barriera a eventuali flussi migratori. E serve che l’Europa non si metta di traverso anche per escludere che da Varsavia continuino a soffiare venti di frattura con l’Ue che non aiutano né la politica tedesca né la sua industria. Che la Germania sia ben contenta di questo rafforzamento delle frontiere polacche (e di ricomporre soprattutto il dissidio tra Varsavia e Bruxelles) lo dimostrano anche le parole al miele di Horst Seehofer, ministro dell’Interno in quota Csu, che ha detto anzi che Germania e Polonia “non possono farcela da sole”. Dichiarazioni che stonano abbastanza con la narrativa promossa anche dalla (quasi ex) cancelliera Angela Merkel, ma che confermano come il vento, anche a Berlino, stia cambiando. L’interesse ora è evitare crisi migratorie, anche se queste appaiono, come dicono gli esperti, ingigantite cavalcate per altri fini. Per colpire Lukashenko? Vladimir Putin? Per blindare i rapporti tra Polonia e Unione europea? Difficile dire quale sia l’interesse prevalente. Di certo è curioso che su questo fronte si parli di “guerra ibrida” mentre per altri è solo un flusso migratorio dovuto alla disperazione.

L'unione Europea pensa ad altre sanzioni. Cosa sta succedendo al confine tra Bielorussia e Polonia: perché migliaia di migranti sono stati bloccati. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Reti e filo spinato separano il confine tra Polonia e Bielorussia in una “guerra” sulle spalle dei migranti. “Vogliamo andare in Germania” gridano i migranti per lo più africani che dalla Bielorussia cercano di entrare in Polonia per poi arrivare all’agognata meta. Ma per riuscirci devono superare quella barriera e la colonna di militari polacchi che li respingono. Una guerra sulle spalle dei migranti perché in realtà è una partita politica tra le nazioni europee, Bieloruissia e Polonia. L’accusa al regime di Minsk è quella di aver strumentalizzato i migranti, dopo che sono circolati video che mostrano i soldati bielorussi scortare un migliaio di profughi con famiglie e bambini, la maggior parte delle quali provenienti dal Medio Oriente, nella foresta che delimita la regione polacca della Podlaskie. I soldati di Varsavia li hanno respinti con forza con lacrimogeni e manganelli. In alcuni filmati si sentono anche i colpi di arma da fuoco. “Ho pagato 20 mila euro ad un’agenzia di viaggi”, racconta una donna curda irachena al Guardian . “Sappiamo di essere strumentalizzati da Lukashenko, ma non abbiamo futuro”, ha dichiarato Ahmed alla Bbc. Minsk ha spedito le accuse al mittente negando qualsiasi coinvolgimento del governo nella faccenda e puntando invece il dito contro Varsavia denunciandone l’”un atteggiamento disumano e indifferenza nei confronti dei rifugiati”, con lo schieramento di 12mila uomini al confine. Stessa strategia stanno valutando in Lituania, mentre nei quartieri generali della Nato si dicono “preoccupati”. Questa mattina è intervenuto il premier polacco Mateusz Morawiecki: la crisi dei migranti al confine bielorusso minaccia “la stabilità e la sicurezza dell’intera Ue”, ha scritto il premier via Twitter. “Sigillare il confine è nel nostro interesse nazionale. Ma oggi sono in gioco la stabilità e la sicurezza dell’intera Ue”. La Germania rivolge un appello alla Ue. “La Polonia o la Germania non possono gestire questa crisi da sole”, ha detto al quotidiano Bild il ministro dell’Interno tedesco Horst Seehofer. “Dobbiamo aiutare il governo polacco a proteggere la sua frontiera esterna. Questo sarebbe compito della Commissione europea, faccio appello perché agisca”. Qualche settimana fa Varsavia aveva chiesto di sostenere i costi della costruzione di un muro per dividere i due confini. Richiesta respinta. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, parla di strumentalizzazione inaccettabile mentre la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, fa “appello agli Stati membri per estendere il regime di sanzioni nei confronti del regime bielorusso per questo attacco ibrido”. E annuncia una “lista nera per le compagnie aeree di Paesi terzi attive nella tratta di esseri umani”, il tutto dopo aver parlato con i primi ministri di Polonia, Lituania e Lettonia.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Polonia, forze bielorusse sparano in aria per creare caos. (ANSAil 9 novembre 2021) - Le forze di sicurezza bielorusse hanno "sparato colpi in aria, simulando situazioni pericolose" per destabilizzare ancora di più la situazione al confine con la Polonia. Lo ha detto il portavoce dei servizi speciali di Varsavia, Stanislaw Zaryn. "Sappiamo anche - ha aggiunto - che le autorità della Bielorussia stanno aiutando i migranti a distruggere le barriere al confine. Li vediamo portare loro gli strumenti per tagliare i cavi, per distruggere la recinzione". Media vicini al governo di Minsk, citati dalla tedesca Welt, riferiscono invece a loro volta di spari da parte polacca, ma non ci sono conferme. La Bielorussia mette in guarda la Polonia contro ogni "provocazione" al confine tra i due Paesi, dove si ammassano migliaia di migranti nella speranza di entrare in Ue. "Vogliamo anticipatamente mettere in guardia la parte polacca contro l'utilizzo di qualsiasi provocazione" contro la Bielorussia "per giustificare eventuali azioni bellicose illegali" contro i migranti. Lo comunica una nota del ministero degli Esteri di Minsk. "La nostra priorità più urgente" è chiudere i rubinetti degli arrivi di migranti "all'aeroporto di Minsk". Lo scrive la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, su Twitter. "Mentre intensifichiamo i contatti con i Paesi partner, continuerò a dare priorità alla protezione dell'integrità delle nostre frontiere esterne", aggiunge Johansson. Il regime di Lukashenko organizza voli di richiedenti asilo per attacchi ibridi alle frontiere dell'Unione europea, in Polonia, Lituania e Lettonia, come ritorsione contro le sanzioni dell'Unione europea. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha parlato col presidente polacco Andrzej Duda della "grave situazione" alla frontiera della Polonia. Lo rende noto lo stesso Stoltenberg su Twitter. "L'uso dei migranti da parte della Bielorussia come tattica ibrida è inaccettabile. La Nato è solidale con la Polonia e tutti gli alleati nella regione", aggiunge il segretario generale. Con la 'Enhanced forward presence' (presenza rafforzata avanzata), la Nato ha - già da anni - quattro battaglioni multinazionali nella regione Est dell'Alleanza, in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, (missioni stabilite dopo l'annessione della Crimea per un totale di oltre 4.600 unità), guidati rispettivamente da Regno Unito, Canada, Germania e Stati Uniti. Si legge sul sito della Nato. In particolare, in Lettonia l'Italia ha una truppa di 200 unità. "La loro presenza - viene evidenziato - chiarisce che un attacco a un alleato sarà considerato un attacco all'intera Alleanza". Fonti Nato spiegano che per il momento prosegue il monitoraggio della situazione alle frontiere con la Bielorussia e le consultazioni con gli alleati. Viene inoltre evidenziato che la riunione ministeriale Esteri, che si terrà a Riga, dal 30 al primo dicembre, era già stata fissata in Lettonia, prima della crisi col regime di Minsk. "Certo, la situazione è tesa e allarmante. Richiede una condotta molto responsabile da tutte le parti interessate". Lo ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, parlando della situazione alla frontiera tra Bielorussia e Polonia. Lo riporta l'agenzia Interfax.

(ANSA-AFP il 9 novembre 2021) - Sono circa 4.000 i migranti vicino a Kuznica, nei pressi del confine della Bielorussia con la Polonia, secondo i servizi speciali polacchi. "Ma secondo le nostre stime, potrebbero esserci tra i 12.000 e i 15.000 migranti in territorio bielorusso", ha dichiarato alla radio polacca Stanislaw Zaryn, portavoce dei servizi speciali di Varsavia. Il ministero della Difesa bielorusso ha respinto oggi le accuse di Varsavia secondo cui Minsk sta coordinando l'ondata di migranti che tentano di attraversare la vicina Polonia. "Il ministero della Difesa bielorusso ritiene infondate e non comprovate le accuse da parte polacca", si legge in un comunicato che accusa la Polonia di aumentare la tensione "deliberatamente". La Germania esorta l'Unione europea ad "agire" e ad aiutare a fermare il flusso di migranti che attraversano illegalmente la Polonia dalla Bielorussia. "La Polonia o la Germania non possono farcela da sole", ha detto al quotidiano Bild il ministro degli Interni ad interim Horst Seehofer. "Dobbiamo aiutare il governo polacco a proteggere il loro confine esterno. Questo sarebbe effettivamente il compito della Commissione europea. Ora li invito ad agire", ha detto. Nell'intervista alla Bild Seehofer ha detto di sostenere la decisione della Polonia di costruire un muro di confine. "Non possiamo criticarli... per aver protetto i confini esterni dell'Ue". "Non attraverso l'uso di armi da fuoco ovviamente, ma con altri mezzi che sono disponibili", ha aggiunto. La situazione, già molto tesa tra Minsk e Bruxelles è peggiorata dopo che sono circolate le immagini di centinaia di profughi in marcia verso la frontiera polacca. Varsavia ha respinto il loro ingresso e si è detta pronta a difendere i propri confini, mentre la Commissione Ue ha chiesto ai 27 di colpire il regime di Lukashenko con un nuovo giro di sanzioni. La Polonia quest'anno ha registrato oltre 23mila ingressi illegali di migranti da est, di cui quasi la metà a ottobre. Un segnale che la Bielorussia sta aumentato la pressione sull'Europa, come rappresaglia alle sanzioni.

Micol Flammini per “il Foglio” il 9 novembre 2021. Nella città polacca di Kuznica, al confine con la Bielorussia, gli elicotteri volano bassissimi, ai bambini è stato detto di non andare a scuola e le strade sono piene di polizia. Il ministro della Difesa polacco, Mariusz Blaszczak, ha aumentato il numero dei soldati lungo la frontiera a dodicimila dopo che per tutto il fine settimana arrivavano segnalazioni di lunghe code di migranti condotte da Minsk fino al confine. Le notizie  dalla frontiera non sono molte, dalle immagini sembra una guerra, ma tutto è filtrato dalla macchina della propaganda di Aljaksandr Lukashenka, il dittatore bielorusso che da mesi organizza il traffico di migranti dal medio oriente all’Ue, e dalle notizie riportate dal governo polacco che di fatto ha reso quel lembo di terra non raccontabile: ha indetto lo stato di emergenza, giornalisti e ong non possono avvicinarsi e ha anche rifiutato l’aiuto dell’Ue, pronta a sostenere Varsavia con Frontex. In questa guerra d’informazione in cui le vittime sono le persone lasciate nella terra di nessuno fuori dall’Ue, Lukashenka racconta di aver invaso la Polonia e il governo polacco racconta di doversi difendere. I migranti aumentano di giorno in giorno, in un altro video diffuso dalla polizia polacca si sente una voce registrata che arriva dalla Polonia e che dice che è vietato sfondare il filo spinato. Dall’altra parte del filo spinato, i migranti usano alberi, pietre e anche forbici – probabilmente fornite dagli uomini di Lukashenka – per creare un varco. I soldati polacchi usano sempre più spesso gas lacrimogeni. I voli dal medio oriente a Minsk sono aumentati, sono più di quaranta a settimana, arrivano circa mille persone al giorno e partono da Istanbul, da Damasco, da Dubai. I migranti vengono portati a Minsk dove non entrano neppure in una struttura di accoglienza, vengono lasciati per strada, alcuni giornalisti del posto raccontano che non gli è permesso prendere la metro o  entrare nei centri commerciali. Da Minsk vengono poi condotti verso il confine, spesso a bordo di furgoni, ma lunedì, dalle immagini diffuse dal governo polacco, si vedeva una grande carovana a piedi. Quando i migranti arrivano davanti al filo spinato non possono andare né avanti né indietro, i soldati bielorussi li spingono verso la barriera, spesso ferendoli. La situazione è di grande preoccupazione per tutti gli europei, in modo particolare per la Germania. Il ministro dell’Interno tedesco Horst Seehofer ha proposto di mandare rinforzi, ma il governo polacco ha declinato l’offerta. Secondo Minsk alla frontiera con Kuznica, un comune di poco più di quattromila abitanti dove di questi tempi la temperatura la notte scende sotto lo zero, sono accampate circa duemila persone. Secondo informazioni di intelligence riportate dal giornale bielorusso Reform, quella di oggi è stata soltanto una prova generale: Lukashenka sta preparando un’azione ancora più grande per i prossimi giorni.

Visti turistici e voli speciali: la rete di Minsk per ingannare i profughi. Fabio Tonacci La Repubblica il 9 novembre 2021. Partiti con la speranza di una via verso l’Europa, si trovano ostaggio di un ricatto politico: già 8 i morti. Gli ingannati sono finiti a crepare di freddo davanti al filo spinato polacco, dopo aver seguito una rotta artificiale creata a tavolino. Si sono fidati delle agenzie di viaggio, ma è stata una grande bugia. Di più. Una trappola umanitaria, di cui è accusato Aleksandr Lukashenko, l'ultimo dittatore d'Europa.

MARCO BRESOLIN per la Stampa il 10 novembre 2021. Stop ai voli delle compagnie aeree che trasportano i migranti dai Paesi africani e dal Medio Oriente verso Minsk. Se necessario, anche con sanzioni economiche che potrebbero persino arrivare al divieto di sorvolare lo spazio aereo europeo per una ventina di compagnie. Mentre la situazione al confine tra la Polonia e la Bielorussia si fa sempre più calda - con circa duemila persone bloccate alla frontiera dietro il filo spinato e Varsavia che parla apertamente di «rischio di conflitto armato» - l'Unione europea sta preparando un pacchetto di misure per isolare e punire il regime di Alexsandr Lukashenko che rilancia: «Non ci inginocchieremo davanti alla Ue». L'accusa di Bruxelles è chiara: la Bielorussia sta organizzando un traffico di esseri umani con «un atteggiamento da gangster». Ylva Johansson, commissaria Ue agli Affari Interni, descrive così il modus operandi: «C'è un regime disperato che invita i migranti ad andare nel loro Paese dicendo che è un modo facile per entrare nell'Ue. Queste persone pagano un'ingente somma di denaro (la stima è di circa 14 mila dollari per il «pacchetto completo»), vengono portate a Minsk, stanno lì in albergo per diverso tempo e poi viene facilitato il loro spostamento verso i confini con persone in abbigliamento militare che infine li spingono ad attraversare la frontiera in modo aggressivo». Il governo polacco avrebbe dimostrato con alcuni documenti il coinvolgimento delle autorità bielorusse, ma il ministero della Difesa di Minsk ha convocato l'addetto militare dell'ambasciata polacca per denunciare l'infondatezza delle accuse e ha invitato Varsavia «a evitare ogni provocazione per giustificare eventuali azioni bellicose illegali». L'Ue però crede alla versione polacca, tanto che ieri ha sospeso lo schema di facilitazione dei visti per i funzionari del regime di Minsk e oggi porterà avanti il lavoro per ulteriori sanzioni. Il pacchetto di misure sarà presentato agli ambasciatori dei 27 e potrebbe arrivare sul tavolo dei ministri degli Esteri già lunedì. Bruxelles vuole impedire a tutte le compagnie, anche a quelle europee, di fare affari con Belavia, per esempio bloccando la cessione di aerei in leasing. Nel frattempo è stato avviato un monitoraggio dei voli di alcune compagnie da Paesi come Marocco, Siria, Qatar, Sudafrica, Tunisia, Algeria, Libia, ma anche Russia. La diplomazia europea è al lavoro per convincere questi Paesi a bloccare i voli, diversamente scatteranno le sanzioni. Sulla blacklist potrebbero finire compagnie come Turkish Airlines e FlyDubai, oltre che alcuni tour operator. Un portavoce della Commissione ha parlato apertamente di un possibile coinvolgimento russo («È tra i Paesi che stiamo osservando con molta attenzione»), Varsavia è diretta: c'è la regia di Putin. Mosca si è subito schierata con Minsk. Ieri c'è stata una telefonata tra Vladimir Putin e Alexsandr Lukashenko, mentre il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha addirittura chiesto all'Ue di aiutare la Bielorussia con un sostegno economico come è stato fatto con la Turchia. Una dinamica che preoccupa la Nato, «pronta a fornire ulteriore assistenza agli alleati per mantenere la sicurezza nella regione». L'Ue è schierata al fianco di Varsavia, anche se l'atteggiamento del governo guidato da Mateusz Morawiecki desta sospetti. La Polonia da un lato chiede aiuto - per esempio con la richiesta di fondi per costruire la barriera ai confini -, ma dall'altro non fa avvicinare nessuno al proprio confine. Per esempio non ha accettato l'invio degli uomini di Frontex e non ha nemmeno richiesto il sostegno della protezione civile per i migranti che la Commissione è pronta a fornire. È anche questa opacità a far dubitare a Frontex sui numeri degli ingressi irregolari in Europa da Est forniti da Varsavia. Secondo la Polonia sarebbero oltre 23mila. Per sottolineare la gravità della situazione, il premier Morawiecki è andato a visitare le truppe al confine: «Chiudere il confine polacco è nostro interesse nazionale. Ma oggi è in gioco la stabilità e la sicurezza di tutta la Ue». Oggi intanto a Varsavia arriverà il presidente del Consiglio Ue Charles Michel per un incontro con la leadership polacca.

Recinzioni sfondate e migranti in fuga: caos al confine polacco. Federico Giuliani il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. Un gruppo di migranti ha attraversato la frontiera che divide Polonia e Bielorussia dopo aver rotto le recinzioni nei pressi delle località polacche di Krynki e Bialowieza. Oltre 50 migranti sono stati arrestati dalla Polonia per aver attraversato il confine che separa il Paese dalla Bielorussia. È stata una notte convulsa nella periferia dell'Europa, dove da giorni si sta combattendo un braccio di ferro indiretto tra Minsk e Bruxelles. Tra accuse reciproche e scintille sempre più pericolose, lo scenario sta diventando preoccupante.

Una situazione incandescente

Decine e decine di persone (seceondo alcune fonti sarebbero quasi 200) hanno attraversato la frontiera che divide Polonia e Bielorussia, dopo aver rotto le recinzioni nei pressi delle località polacche di Krynki e Bialowieza. Un portavoce delle guardie di frontiera ha spiegato che i migranti hanno abbattuto le barriere e ci sono stati momenti di violenza. Alcuni di loro sono stati intercettati e fatti rientrare in territorio bielorusso, mentre altri sono riusciti a fuggire.

Nel frattempo, la Bielorussia ha puntato il dito contro le forze polacche, ree di aver picchiato i migranti, nello specifico quattro persone di etnia curda intente ad entrare in Unione europea. I quattro "sono stati arrestati in Polonia dove avevano cercato di chiedere protezione e status di rifugiato", ha dichiarato in una nota il servizio delle guardie di frontiera bielorusse, diffondendo immagini che mostrano quattro uomini, alcuni con vestiti insanguinati e uno con tagli sulle mani, che si coprivano il viso.

"A giudicare dalle numerose ferite sui corpi dei migranti, le forze di sicurezza polacche hanno maltrattato le persone e, usando la forza, le hanno spinte oltre una recinzione di filo spinato al confine con la Bielorussia", si legge nella nota. Varsavia ha criticato Minsk per aver strumentalizzato l'episodio e l'intera vicenda.

Accuse reciproche

In tutto questo non poteva mancare la reazione della Russia. Mosca, per bocca del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, si è detta "molto preoccupata" per la situazione dei migranti al confine tra Bielorussia e Polonia. "La situazione resta estremamente tesa, inoltre, le tensioni stanno crescendo. Siamo molto preoccupati. Comprendiamo la complessità della situazione, ma qui, ovviamente, crediamo che il problema de facto sia con le persone. Diverse migliaia di profughi non vogliono rimanere in Bielorussia e richiedono asilo nei Paesi europei", ha detto Peskov.

Che cosa c'entra la Russia? Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki aveva accusato Mosca di avere responsabilità nella crisi e dichiarato che i migranti lungo il confine polacco non erano altro che parte di un attacco ibrido attuato dalla Bielorussia, protetta da Vladimir Putin. "Una dichiarazione completamente irresponsabile e inaccettabile", ha chiosato Peskov. Dal canto suo Putin ha discusso al telefono della situazione dei migranti con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Come riferisce il servizio stampa del Cremlino, la conversazione si è svolta su iniziativa tedesca. Il presidente russo ha suggerito di avviare una discussione sulla crisi dei migranti attraverso contatti diretti tra rappresentanti di Minsk e degli Stati dell'Unione europea coinvolti nella questione, condividendo con Merkel la preoccupazione per le conseguenze umanitarie della crisi migratoria.

La risposta dell'Ue

Nel frattempo, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha incontrato stamane a Varsavia Morawiecki. "Usare migranti vulnerabili come parte di un attacco ibrido va al di là del disprezzo. L'Ue non accetterà alcun tentativo di strumentalizzare i migranti", ha dichiarato ieri Michel su Twitter, esprimendo "piena solidarietà" ai Paesi membri dell'Ue. "Sono venuto per esprimere la solidarietà dell'intera Ue nei confronti della Polonia", ha quindi dichiarato lo stesso Michel una volta arrivato in terra polacca. Quello scatenato al confine con la Bielorussia è "un attacco ibrido brutale e improvviso. Bisogna agire in modo deciso, sulla base dei nostri valori comuni".

Intanto, lungo il confine tra Polonia e Bielorussia ci sono 15mila soldati dell'esercito polacco. "Il numero è stato aumentato e naturalmente, può essere aumentato ancora di più se necessario", ha fatto sapere Morawiecki. Il portavoce del governo, Piotr Muller, ha detto al portale wp.pl che la possibile chiusura totale del confine con la Bielorussia è uno degli scenari presi in considerazione. "Stiamo inviando informazioni al regime bielorusso che questo è possibile se non fermano le loro iniziative", ha detto a proposito dell'uso strumentale da parte di Minsk dei migranti alla frontiera", ha precisato Muller.

Allo stesso tempo, due bombardieri a lungo raggio russi Tu-22M3 hanno sorvolato la Bielorussia nel quadro di una esercitazione con le forze bielorusse, per controllare le forze di difesa aerea dell'Unione fra i due Paesi. Lo ha reso noto il Ministero della Difesa russo: "Durante il volo, gli aerei hanno testato l'interoperabilità con le postazioni di comando a terra della Russia e della Bielorussia". L'esercitazione si è svolta sotto il comando delle forze aeree bielorusse.

Federico Giuliani è nato a Pescia (Pistoia) nel 1992. Si è laureato in Comunicazione, Media e Giornalismo presso la Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" di Firenze. Si è poi specializzato in Strategie della Comunicazione Pubblica e Politica con una tesi sul sistema politico della Corea del Nord, Paese che ha visitato nel 2017. È iscritto all'Albo dei Giornalisti Pubblicisti dal 2015. L'Asia è il suo campo di ricerca. Dall'agosto 2018 si occupa regolarmente di vicende asiatiche per ilGiornale.it e InsideOver. Ha scritto due libri: Corea del Nord. Viaggio nel paese-bunker (Polistampa, 2018) e La Rivoluzione Ignota. Dentro la Corea del Nord. Socialismo, progresso e modernità (2019, La Vela). 

Come funziona la rotta bielorussa dell’immigrazione. Mauro Indelicato su Inside Over il 10 novembre 2021. Se si va a guardare il tabellone dell’aeroporto di Minsk, alle 11:10 ogni giorno è previsto l’atterraggio di un volo da Damasco della compagnia aerea siriana Cham Wings. Fino a qualche settimana fa nella lista delle partenze e degli arrivi vi erano anche i voli da e per Baghdad, operati da una compagnia privata irachena. É da queste tratte che arrivano i migranti dal Medio Oriente, è da qui che si sta originando la crisi migratoria capace di destabilizzare l’intera area orientale dell’Ue. La Bielorussia è lontana da raggiungere via terra dalle aree di provenienza degli aspiranti richiedenti asilo. L’unico modo per alimentare la rotta che tanto sta facendo discutere in queste ore è proprio quello di richiamare centinaia di persone tramite gli aerei. E così lo scalo della capitale Minsk si è trasformato negli ultimi mesi in uno degli snodi migratori più delicati.

Come arrivano i migranti in Bielorussia

La rotta turca ha delle dinamiche facilmente comprensibili. Dall’Iraq, dalla Siria o dall’Afghanistan si arriva a piedi o comunque via terra nella penisola anatolica. Poi da qui o si raggiunge la Grecia o l’Italia via mare oppure, al contrario, si procede sempre via terra verso la penisola balcanica. Tra il 2015 e il 2016 è andata così. Nel giro di pochi mesi, quasi un milione di migranti dal medio oriente si sono spostati in Turchia e poi grazie soprattutto alla rotta balcanica hanno raggiunto i Paesi del nord Europa. Più difficile è comprendere invece le dinamiche della rotta bielorussa. Il Paese si trova molto più a nord rispetto alle aree di origine dei flussi migratori. Se un cittadino iracheno o afghano volesse mettere piede in Europa tramite la Bielorussia, dovrebbe attraversare il Caucaso, risalire le coste russe del mar Nero, accedere in Ucraina e solo dopo entrare in territorio bielorusso. Oppure, in alternativa, una volta giunto in Turchia dovrebbe attraversare il mar Nero per sbarcare in Ucraina e risalire verso Minsk. Ma in entrambi i casi la via balcanica o mediterranea risulterebbe decisamente più semplice.

Chiaro quindi come un gruppo di migranti può raggiungere la Bielorussia solo in aereo. Se sempre più gruppi percorrono questa via, vuol dire che esistono dei vantaggi. A partire dalla facilità con cui è possibile accedere al Paese. A fianco delle rotte commerciali "tradizionali", che mettono in comunicazione Minsk con metropoli russe e capitali di Stati ex sovietici, sui tabelloni dell'aeroporto della più grande città bielorussa sono apparse di recente indicazioni per capitali mediorientali. Un volo al giorno collega Minsk con Damasco, due voli quotidiani invece con Dubai. Sono invece ben tre i viaggi giornalieri con Istanbul. Fino a settembre c'era anche una tratta diretta con Baghdad. L'Europa però ha intimato alle autorità irachene di evitare collegamenti con la Bielorussia e il volo non spunta più sul tabellone. Ciò non toglie che un migrante iracheno può comunque raggiungere Dubai o Istanbul e da lì imbarcarsi per Minsk. In poche parole, tra gli aspirati profughi si è diffuso il passaparola secondo cui è molto più semplice arrivare via aereo in Bielorussia e, da qui, avventurarsi alla volta delle frontiere dell'Ue.

Un passaparola che, tra le altre cose, è diventato virale per via di una politica di visti turistici molto accomodante portata avanti dal governo bielorusso. A sottolinearlo è la Reuters, secondo cui il presidente Lukashenko ha in tal modo richiamato, grazie anche alla compiacenza di alcune reti di trafficanti, migliaia di migranti nel suo Paese. Ed è così che ha potuto mettere in piedi il ricatto verso l'Europa dopo le sanzioni imposte da Bruxelles a Minsk.

Cosa accade a Minsk

Una volta arrivato in Bielorussia, un migrante aspira ad andare subito verso il confine e raggiungere il territorio comunitario. Sempre secondo la Reuters, molti cittadini iracheni, siriani o afghani sono convinti di poter entrare in un qualsiasi Paese dell'Ue con il visto rilasciato dal governo bielorusso. Ovviamente la notizia non è vera. Ma tanto basta per riempire i voli dal medio oriente a Minsk. Qui i migranti vengono fatti alloggiare negli alberghi per una o due notti. A rivelarlo è la tv lituana Lrt. Ai gruppi di aspiranti profughi viene venduto un vero e proprio "pacchetto turistico", comprendente biglietto aereo e alloggio a Minsk. Dopo le notti passate nella capitale bielorussa, ad entrare in azione sono i gruppi di trafficanti veri e propri. Per il governo polacco si tratterebbe di agenti delle forze speciali di Lukashenko, ma non è escluso che l'ultima tratta della rotta bielorussa venga gestita unicamente da organizzazioni criminali. Fatto sta che dagli alberghi di Minsk i migranti verrebbero, secondo le autorità di sicurezza lituane e polacche, prelevati e spediti al confine.

La direzione è duplice: i mezzi con a bordo i profughi sono diretti verso la Lituania oppure verso la Polonia. É così che si origina la crisi osservata nelle ultime settimane. A fronte di 80 ingressi illegali in tutto il 2020 tra la Bielorussia e le frontiere orientali dell'Ue, dal primo gennaio ad oggi di migranti ne sarebbe transitati già più di tremila. E almeno in diecimila sarebbero pronti a premere ancora lungo le frontiere. Nel frattempo a Minsk gli aerei dalle città mediorientali continuano ad atterrare pieni.

(ANSA-AFP l'11 novembre 2021) - La Bielorussia "reagirà" ad eventuali nuove sanzioni europee. Lo afferma il presidente bielorusso Alexandr Lukashenko.

(ANSA l'11 novembre 2021) - Aleksandr Lukashenko ha minacciato di interrompere il transito del gas verso l'Europa attraverso il gasdotto Yamal-Europe se l'Ue espande le sanzioni: lo riporta la Tass citando a sua volta l'agenzia bielorussa Belta. "Forniamo calore all'Europa, e per di più minacciano di chiudere la frontiera. E se interrompiamo l'erogazione di gas naturale lì?" ha detto Lukashenko. 

(ANSA l'11 novembre 2021) - Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha definito "senza fondamento" le accuse del premier polacco Mateusz Morawicki secondo cui Ankara lavorerebbe in sincronia con Mosca e Minsk facilitando il traffico di migranti dalla Turchia alla Bielorussia e aggravando la situazione al confine con la Polonia. Come riportato in un comunicato diffuso sui media turchi, Cavusoglu ha espresso "tristezza" per le parole del premier in una telefonata con il suo omologo polacco Zbigniew Rau e ha invitato la Polonia a mandare squadre di tecnici in Turchia per verificare la falsità delle affermazioni. Già ieri la compagnia di bandiera turca Turkish Airlines aveva negato che i suoi voli verso la Bielorussia avrebbero contribuito agli spostamenti illegali di migranti in un comunicato.

Marco Bresolin per "La Stampa" l'11 novembre 2021. Nell'Unione europea sta per cadere un altro tabù: presto gli Stati potrebbero utilizzare i fondi del bilancio comunitario per costruire muri e recinzioni di filo spinato anti-migranti. L'argomento è stato sdoganato durante il summit di ottobre su richiesta di 13 Stati, ma le tensioni di questi giorni al confine tra la Polonia e la Bielorussia hanno accelerato la pratica. Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha chiesto un parere al servizio giuridico del Consiglio e ieri è volato a Varsavia per annunciarne l'esito: «È legalmente possibile finanziare con i fondi Ue la costruzione di infrastrutture per la protezione dei confini dell'Unione. Ora spetta alla Commissione europea prendere una decisione». Ma Ursula von der Leyen - che ieri a Washington ha discusso della crisi bielorussa con il presidente americano Joe Biden - rimane scettica. Dal suo entourage spiegano che la posizione della presidente della Commissione non è cambiata rispetto all'ultimo vertice Ue, quando aveva negato questa possibilità, citando anche la contrarietà del Parlamento europeo. L'asse con l'Eurocamera, però, non sembra più così solido. Ieri, intervenendo nell'Aula di Bruxelles, il capogruppo del Ppe Manfred Weber ha aperto alla richiesta polacca: «In situazioni straordinarie i fondi Ue devono essere disponibili per queste attività». Il vero confronto, comunque, è tra i governi. E se alla fine dovesse prevalere la linea dei Paesi dell'Est, von der Leyen si adeguerà. La questione è al momento in cima alla lista delle priorità, tanto che già la prossima settimana o quella successiva ci sarà un vertice straordinario dei 27 leader in videoconferenza. Discuteranno del finanziamento dei muri e di ulteriori sanzioni economiche. Ieri gli ambasciatori degli Stati membri hanno dato il via libera al quinto pacchetto di misure restrittive: per ora c'è solo l'ok al quadro legale, ma nei prossimi giorni verranno definiti i soggetti e le entità da colpire. Il fronte dell'Est ha proposto un elenco di 29 individui più la compagnia aerea Belavia. L'adozione definitiva è prevista per lunedì, alla riunione dei ministri degli Esteri, ma i baltici e la Polonia già premono perché vogliono un sesto pacchetto con ulteriori sanzioni. La Germania è pronta a sostenere la loro richiesta, così come non sembra contraria all'idea di finanziare la costruzione dei muri perché teme di subire l'afflusso di migranti. Francia e Italia invece sono più caute. Il governo di Draghi, in particolare, teme che la questione bielorussa possa dirottare l'attenzione (e i fondi) dal Mediterraneo al fianco Est dell'Europa. Ma c'è la consapevolezza che prima o poi si andrà in quella direzione, magari con qualche paletto. Finora la Polonia ha rifiutato l'aiuto dell'Unione europea: non ha attivato il meccanismo di Protezione civile, non ha richiesto il supporto di Frontex e anzi nega l'accesso al personale delle agenzie Ue in una fascia di tre chilometri dal confine. Per non parlare dei giornalisti e delle Ong che vengono tenuti a distanza. «È ovvio che se vuole i fondi deve essere più trasparente», confida un diplomatico. Anche l'Alto commissario Onu per i rifugiati ha chiesto di avere «accesso immediato alle zone di confine» per dare un sostegno ai migranti e garantire le procedure per presentare le richieste di asilo, che al momento non vengono rispettate. «L'Unione europea potrebbe fare meglio sui diritti», ha avvertito Filippo Grandi intervenendo al Parlamento Ue, dove ha invitato gli Stati e le istituzioni europee ad evitare reazioni impulsive e quindi a rinunciare alla costruzione di nuovi muri. Ma la Polonia è determinata a portare avanti la sua richiesta. Fino a pochi giorni fa era nel mirino di Bruxelles per gli attacchi all'indipendenza della magistratura, mentre ora è diventata la vittima da difendere dagli attacchi: Varsavia sa di poter chiedere molto ai partner Ue. Vuole i fondi per il filo spinato, nuove sanzioni e il blocco dei voli verso Minsk. La Commissione ha avviato una serie di contatti con i Paesi di origine dei migranti e in particolare con l'organizzazione delle compagnie aeree arabe per chiedere loro di non farsi coinvolgere in quella che viene considerata una vera e propria tratta di esseri umani. Diversamente saranno sanzionate dall'Ue.

Mauro Mondello per "La Stampa" l'11 novembre 2021. Kruglany è l'ultimo villaggio «libero» prima della zona di emergenza pattugliata dagli uomini di esercito e guardie di frontiera polacche, un contingente che il ministro polacco della Difesa Blaszczak ha portato a 15.000 uomini, che potrebbero sfondare quota 20.000 con i riservisti già in allerta. Siamo a meno di dieci chilometri dal confine di Kunica, dove da ormai tre giorni stazionano, in condizioni drammatiche, migliaia di migranti nella speranza di poter raggiungere il territorio dell'Unione Europea. Pochi chilometri più in là dal posto di blocco si scorgono una trentina di case distribuite su due lati, in mezzo una traccia di terra che porta alla strada nazionale 19, la lunghissima lingua d'asfalto che taglia tutta la Polonia, dalla punta Sud di Barwinek, di fronte alla Slovacchia, fino alla Bielorussia. Un'infinita coda di mezzi pesanti aspetta di poter passare dall'altra parte, intorno gli autotrasportatori sperano in una pronta riapertura del checkpoint, chiuso ormai da due giorni, ostinati a non voler deviare sulla frontiera di Bobrowniki, settanta chilometri più a Sud, da dove arrivano notizie di code oltre le trenta ore per poter passare in Bielorussia. «Si sentono tutto il giorno il rumore degli elicotteri, le sirene della polizia, i colpi di pistola in lontananza, le truppe dell'esercito che passano qui intorno: sembra di essere in guerra», racconta Janusz Pawowski, un pensionato di 68 anni che ha sempre vissuto nel villaggio. Non sono solo gli elicotteri polacchi in operazione di pattugliamento a volare sopra i cieli di Kunica, in questo pezzo di Polonia che sembra davvero essere ormai entrato in guerra. Sul lato bielorusso del confine infatti, nella giornata di ieri, due bombardieri a lungo raggio russi Tu-22M3 hanno effettuato un'esercitazione congiunta con l'esercito di Minsk, per verificare, secondo quanto reso noto dal ministero della Difesa di Mosca «il coordinamento operativo con le postazioni di comando a terra della Russia e della Bielorussia», in un'ottica di difesa aerea integrata fra i due Stati. «La strumentalizzazione dei migranti contro l'Unione Europea da parte del regime bielorusso è inumana e completamente inaccettabile - recita la nota del portavoce di Angela Merkel dopo il colloquio telefonico di ieri con Vladimir Putin, durante il quale la Cancelliera avrebbe chiesto al presidente russo di «esercitare la sua influenza su Minsk». Putin ha ribadito il suo appoggio all'idea di un contatto diretto fra Ue e Aleksandr Lukashenko, un concetto ribadito anche dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, secondo cui «la Bielorussia ha ripetutamente suggerito di aprire un tavolo di consultazioni alla frontiera, per risolvere la questione sulla base delle leggi internazionali». Nella nottata un gruppo di circa 200 migranti è riuscito a oltrepassare il cordone di filo spinato all'altezza delle località di Krynki e Bialowieza, mentre altre sedici persone hanno cercato di entrare in Polonia vicino a Dubicze Cerkiewne: in tutto sono più di 350 i respingimenti messi in atto nella sola giornata di ieri dalle guardie di frontiera polacche. «Abbiamo emesso 48 decreti di espulsione e arrestato nove persone. Cinque di loro sono cittadini libanesi, tre iracheni e uno siriano. I detenuti hanno già dichiarato di voler richiedere la protezione internazionale - ha spiegato in conferenza stampa il Maggiore Katarzyna Zdanowicz - in totale, dal 26 ottobre, abbiamo emesso oltre 1050 decreti di espulsione dalla Polonia». Zdanowicz ha poi confermato che dal territorio bielorusso arrivano costantemente rumori di spari e segnali «non convenzionali, come il suono del ricaricamento delle armi». Nella notte continuano ad alzarsi colonne di fumo dal lato bielorusso della frontiera, traccia dei fuochi accesi dai migranti che cercano di resistere come possono alle rigide temperature notturne, scese ormai a meno due gradi Celsius: sono almeno dieci i profughi morti per assideramento, in queste stesse foreste, nelle scorse settimane. Altri cinque, secondo informazioni non confermate, potrebbero aver perso la vita nelle ultime 48 ore. «Non possiamo permettere che invadano la Polonia - ripete Janusz - scoppierebbe una guerra di religione e questo è un Paese cattolico. Ma dobbiamo aiutarli, non è possibile lasciarli a morire di freddo nel bosco». 

(ANSA l'11 novembre 2021) - Nel corso di una conversazione telefonica con la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente russo Vladimir Putin "si è espresso a favore del ripristino dei contatti tra i Paesi Ue e la Bielorussia allo scopo di trovare una soluzione" alla situazione al confine tra Bielorussia e Polonia: lo dichiara il Cremlino, ripreso dall'agenzia Interfax. "E' proseguita la discussione della situazione sul confine della Bielorussia con i Paesi europei. Le parti hanno riaffermato l'importanza della più rapida soluzione possibile della crisi migratoria in conformità alle regole umanitarie internazionali", riferisce il Cremlino stando a quanto riporta Interfax. Ieri da Berlino hanno fatto sapere che la cancelliera tedesca Angela Merkel ha avuto una telefonata con Putin sulla situazione ai confini fra Polonia e Bielorussia e nel colloquio ha chiesto al presidente russo di esercitare la sua influenza su Aleksandr Lukashenko. Merkel "ha sottolineato che la strumentalizzazione dei migranti da parte del regime bielorusso è disumana e inaccettabile e ha chiesto al presidente Putin di usare la sua influenza" per mettervi fine, ha scritto ieri su Twitter il portavoce Steffen Seibert. Aleksandr Lukashenko ha ufficialmente vinto le presidenziali bielorusse dell'agosto del 2020 con l'80% dei voti, ma questo risultato appare a molti osservatori frutto di massicci brogli elettorali e nei mesi successivi in Bielorussia si sono registrate proteste di massa contro il capo di Stato, al potere dal 1994 e soprannominato "l'ultimo dittatore d'Europa". Le manifestazioni pacifiche sono state represse dal regime a colpi di manganello e con ondate di arresti. Ue e Usa hanno imposto sanzioni al governo bielorusso, mentre la Russia ha sostenuto Lukashenko.

Giordano Stabile per "la Stampa" l'11 novembre 2021. Una fila di centinaia di persone, in attesa di salire sul volo della Cham Wings diretto a Minsk. Sono scene riprese con in telefonini all'aeroporto internazionale di Damasco. Immagini che documentano la "catena logistica" nascosta dietro l'afflusso di migranti verso la Polonia. Vladimir Putin ha chiesto aiuto all'alleato Bashar al-Assad e il raiss siriano ha risposto subito. Il governo siriano ha rilasciato migliaia di passaporti a cittadini che hanno intenzione di lasciare il Paese, al prezzo di 100 dollari e con la condizione che si imbarchino con destinazione Bielorussia. La compagnia Cham Wings, cioè le «ali di Damasco», ha inaugurato voli diretti, quasi ogni giorno. Partono siriani con la speranza di rifarsi una vita in Europa, curdi siriani e anche curdi e yazidi iracheni, che hanno inaugurato una nuova rotta dei migranti, attraverso il Nord-Est della Siria. Fino a qualche settimana fa partivano da Baghdad, ma poi il governo iracheno, su pressione di Bruxelles, ha bloccato questo genere di collegamenti. Putin e i suoi alleati regionali hanno trovato un'altra strada. L'importante è che dal Medio Oriente le porte siano aperte in direzione di Minsk e della frontiera polacca. Anche l'Iran si è messo a disposizione per facilitare la partenza dei rifugiati afghani sul suo territorio, vale a dire un bacino potenziale di almeno 800 mila persone, tale da innescare una crisi ancora più seria. Ma l'Iran per il momento non vuole aprire un nuovo contenzioso con i Paesi europei, alla vigilia dei colloqui di Vienna sul nucleare. Assad è invece il leader con il debito più grosso nei confronti dello "zar". Il 30 settembre 2015 era a un passo dal baratro, con i colpi di mortai dei ribelli che cadevano nel giardino del palazzo presidenziale, controllava appena un quinto del territorio. Dopo sei anni è di nuovo padrone di quasi tutta la Siria. L'intervento militare russo è stato provvidenziale. La diplomazia moscovita lo aiuta adesso a rientrare nei giochi politici. Ha riallacciato i rapporti con la Giordania, aperto la frontiera verso Amman, ripreso gli scambi commerciali e potrebbe fare da transito al gas egiziano promesso al Libano, con ricadute positive per le sue finanze disastrate. Mentre ieri ha ricevuto a Damasco la visita più attesa, quella del ministro degli Esteri emiratino Abdullah bin Zayed, il primo incontro ufficiale da dieci anni. Abu Dhabi ha un ruolo fondamentale nel Golfo e in Medio Oriente. È la capitale che più spinge per la riammissione della Siria nella Lega araba. Sarebbe la "normalizzazione" del regime baathista, per un decennio "Stato paria" nella regione. Gli emiratini lo fanno soprattutto in funzione anti-turca e anti Fratelli musulmani, per stoppare i disegni di Recep Tayyip Erdogan nel Nord della Siria. Assad adesso deve trovare un equilibrio fra gli amici arabi ritrovati e i vecchi sostenitori, Russia e Iran. I voli per Minsk sono il prezzo che deve pagare agli alleati tradizionali ma rischiano di pregiudicare la sua riabilitazione.

Andrea Nicastro per il "Corriere della Sera" il 12 novembre 2021. Questa storia aveva tutto per essere a lieto fine. E invece la disperazione tocca il fondo e scava con un uomo che urla rauco contro una donna. Attorno c'è un bosco di nebbia e una notte gelida in arrivo. Lui è un ragioniere che sbatte i piedi sulle foglie morte, si tira i capelli bagnati, strozza il tronco sottile di una betulla. I figli si accucciano contro la ruota davanti dell'auto che partirà senza di loro. Lei è una volontaria: ha un termos di tè zuccherato, biscotti, aspirina. Già questa sera potrebbero essere da un avvocato, ufficialmente richiedenti asilo. Vorrebbe dire un tetto, pasti caldi, un dottore. Lei, polacca, guarda i ragazzi tremare e le si bagnano gli occhi. Lui, libanese, è esausto, affamato, con due figli che stanno peggio del padre. È una famiglia di giacche, pantaloni e scarpe fradice. I capillari rotti negli occhi. Le spalle scosse dai brividi. Ma il ragioniere grida che c'è l'Accordo di Dublino e non vuole l'avvocato, non vuole le foto, non vuole essere registrato qui. Grida più a se stesso che a lei. Vuole la Germania e se deve annegare nella nebbia congelata, annegherà. Non era così quando sono partiti, due settimane fa, alle 3.30 dall'aeroporto di Beirut. C'era la mamma a salutarli con la sorellina, i nonni. Faceva caldo, le giacche erano nella borsa a mano. In tasca un cellulare per uno, i dollari cuciti nei pantaloni. Credevano di aver pensato a tutto. Avevano una power bank e, a memoria, i codici della banca online, i numeri dei cugini in Germania e dei «passatori» in Polonia. Il ragioniere ha 38 anni, i figli 12 e 14. Ha sempre lavorato in banca come la moglie, ma sono 13 mesi che la filiale è chiusa e i risparmi scendono a vista d'occhio. «Restare a Beirut significa precipitare nella povertà. In Germania, invece, posso farcela, non farò il ragioniere, ma sarò un imbianchino migliore di tanti altri. Loro avranno una vita». «Prima lo scalo a Istanbul, quindi accolti a Minsk dall'agenzia che ci ha procurato i visti. Sul pullmino con altri arabi dall'Iraq, dalla Siria, dal Kurdistan abbiamo versato quanto pattuito su Telegram. Cinquemila dollari a testa. Sconto famiglia. Altri pagavano anche 7 mila. Era compresa un albergo e il trasporto al confine dell'Unione Europea. Si va in Lituania, hanno detto. Ma noi preferiamo la Polonia, dobbiamo raggiungere la Germania. Volevano buttarci fuori, ma ho pagato. Mille dollari. Il secondo giorno l'agenzia ci ha portato a un autobus. Scendete al capolinea, ci sarà qualcuno ad aspettarvi. Non c'era nessuno». Hanno vagato, telefonato, chiesto aiuto fino a che è arrivata la polizia. Due notti in prigione, poi rilasciati, ma senza soldi né telefoni. «Era settimana scorsa. Da allora siamo passati in Polonia tre volte, sempre presi e rimandati indietro. Ho pagato online un albergo in Bielorussia, ma la polizia ci ha arrestati e quella volta mi hanno picchiato con i bastoni elettrici. Volevano i soldi. Hanno minacciato di togliermi i figli, di mandarci in Siria. Ho resistito. Il giorno dopo eravamo ancora al confine con molta più gente. Capivo di essere al limite, non potevo più sbagliare. La gente premeva sul filo spinato, ma di là i polacchi erano troppi e con gli spray urticanti. Tre notti al gelo, senza riparo. Non sapevo che le mani gonfie di freddo bruciassero. Abbiamo lasciato il gruppo e ci siamo incamminati lungo il confine». Eccoli in Polonia, oltre la zona militarizzata, segnalati alla volontaria da un contadino. Con lei davanti possono chiedere asilo in Polonia, ma la speranza è più forte dei brividi e della paura. L'auto di lei riparte. Il trafficante di uomini, l'ha giurato al cellulare, arriverà oggi. Ospitarli o trasportarli è illegale, lasciare delle coperte no. L'uomo e i suoi figli restano, una notte ancora, al gelo. Come i migliaia ancora al di là del filo spinato. Nel rispetto delle leggi. È su vite come la loro che la politica continua a giocare. Il presidente bielorusso Lukashenko minaccia di chiudere il gasdotto che «scalda l'Europa». «Pensino bene prima di imporci altre sanzioni». Vero. Lui e noi, però, abbiamo dormito al caldo.

Putin utilizza la Bielorussia come ricatto contro le sanzioni. Cosa sta succedendo tra Bielorussia e Polonia, cosa c’è dietro lo scontro sui migranti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Novembre 2021. «Questa canzone è dedicata a tutti coloro che sono testimoni di fatti enormi, e neppure se ne accorgono», cantava nel 1965 Enzo Jannacci introducendo la triste storia di Prete Liprando costretto al giudizio di Dio. La storia si ripete senza neanche prendersi il disturbo di presentarsi in forma di farsa. In queste ore, proprio mentre scriviamo, esseri umani vengono deliberatamente scaraventati sull’incerta frontiera tra Polonia e Bielorussia, che è uno Stato cuscinetto, o buffer-State come grande spazio che precede la Russia. Abbiamo sentito ieri il professor Romano Prodi in televisione, lui che è sempre stato un ammiratore e promotore di eccellenti rapporti con l’Urss prima e poi con la Federazione russa poi, dire con mestizia che di questa brutta storia è proprio la Russia che “ha in mano il pallino”. Di che pallino si tratta? Quello del gas. E anche quello del libero arbitrio negato al signor Lukashenko dichiaratosi Presidente vincitore delle ultime elezioni, contestate da tutti ma in particolare da Bruxelles. L’Unione europea non riconosce Lukashenko a causa dei brogli e delle violenze con cui è salito al potere e la sua risposta, che si suppone suggerita e sostenuta da Putin che è il suo “puppeteer” o burattinaio. Come Prodi conferma: il pallino ce l’ha in mano Vladimir Putin, il quale comanda su uno dei due grandi Stati perduti dell’ex Unione Sovietica. L’altro è l’Ucraina che martella continuamente con la presenza di truppe senza insegne né bandiera. Putin ha avuto una idea perfida e geniale: come ogni capo della Russia, sovietica o post- sovietica, odia i polacchi. La Polonia non esisteva fino alla fine della Prima guerra mondiale, quando fu estratta insieme alla Lituania dalle carni non più vive dell’ex impero zarista. L’Impero zarista che combatteva a fianco della Francia e dell’Inghilterra nella Grande Guerra fu messo in ginocchio dall’interno da Lenin e Trotskij con la Rivoluzione d’Ottobre e lo sterminio in uno scantinato dell’intera famiglia regnante dei Romanov, compresi donne e bambini uccisi a revolverate. La Russia fu costretta a firmare una pace separata con i tedeschi a Brest Litovsk, che allora era una città russa abitata da polacchi e che oggi si trova in Bielorussia, col nome semplificato in Brest. Quando si arrivò al trattato di pace di Versailles, i nuovi reggenti bolscevichi erano guardati dai vincitori come briganti internazionali. La nuova Polonia, appena nata diventò subito fortissima con molte ambizioni come guida di un “Commonwealth” con i Paesi Baltici e messa alle strette da Lenin, ingaggiò una determinata guerra con la nuova entità sovietica (non si chiamava ancora Urss) e la vinse. A perderla furono due giovani commissari spediti da Lenin sul campo: Leon Trotskij e Josef Stalin, entrambi umiliati per essere stati sconfitti nella prima guerra del nuovo stato rivoluzionario. Quando Stalin fece fucilare quasi tutti gli ufficiali superiori dell’Armata Rossa con le purghe del 1937, liquidò prima di tutto i responsabili ancora vivi della sconfitta, lasciando però l’Armata Rossa priva di quadri ufficiali fino all’invasione hitleriana del 22 giugno del 1941. Perché ricordare questi fatti vecchi più di ottanta anni? Per dare un senso al profondo odio dei polacchi per i russi, totalmente ricambiato, e spiegare perché la Polonia sia una delle più bellicose nazioni appartenenti alla Nato che da due decenni si comporta come se sapesse che prima o poi il regolamento finale dei conti con la Russia sarà inevitabile. Quando il presidente Obama lasciò il suo incarico, come ultimo gesto insediò in Polonia una specialissima brigata supertecnologica corazzata americana per la quale le autorità polacche indissero tre giorni di festa con discorsi e parate militari, i russi videro bene che l’equilibrio militare si era spostato fortemente a favore dei polacchi perché non erano in grado, almeno all’inizio, di contrapporre sistemi missilistici adeguati. Vladimir Putin sperò che Donald Trump, per cui faceva un tifo sfegatato e inquietante, una volta eletto avrebbe rimosso quel nucleo militare installato in Polonia. Ma Trump lo deluse: pur dichiarandosi molto amico dei russi non soltanto non toccò quel sistema di difesa della Polonia estremamente costoso, ma lo rafforzò. La Polonia si stava così trasformando in qualcosa di simile al modello che i polacchi avevano sempre avuto in mente persino ai tempi in cui avevano dovuto subire l’incorporamento nei possedimenti imperiali zaristi: una Polonia fortissima apertamente opposta alla Russia, con l’ulteriore odio immagazzinato, come in Ungheria, durante quasi mezzo secolo di sottomissione all’Unione Sovietica, terrorizzata al punto da favorire l’“auto-invasione” del generale Wojciech Jaruzelski, l’uomo che portava sempre gli occhiali neri per aver avuto gli occhi bruciati dalla tortura del riverbero della neve. In Italia se ne è parlato poco anche se i deputati Pd nel Parlamento europeo votarono a favore, ma nel 2019 la Polonia, l’Ungheria e gli altri Stati europei che avevano subito la perdita della libertà e anche sanguinose repressioni, chiesero e ottennero una Risoluzione del Parlamento in cui gli Stati dell’Europa occidentale riconoscono a quelli dell’Europa orientale il diritto a celebrare, oltre le date connesse con la sconfitta nazista, anche quelle connesse con la loro disgraziata storia sotto l’Unione Sovietica. Si discusse erroneamente di “equivalentismo” e il risultato fu quello che sappiamo. Quelli che siamo abituati a considerare Paesi sul filo della ribellione contro i principi fondatori dell’Unione reclamano il rispetto dei diritti che si sono visti riconoscere per il loro status dalla fine della guerra al 1989 e oggi – ieri l’altro per l’esattezza – la Polonia ha ricevuto un dono che sarebbe stato impensabile fino a una settimana fa: la totale solidarietà dell’Unione Europea alla Polonia finora considerata riottosa per non aver accettato la cessione di sovranità richiesta dall’Unione. Come è potuto accadere? Basta guardare le carte in tavola: la Bielorussia – stato cuscinetto e anche marionetta della Russia – aggravata dalle numerose sanzioni inflitte dall’Europa per aver negato la democrazia ai suoi cittadini, ha ripreso un’idea cinica e geniale che discende dalle politiche degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Ha cioè usato la disperazione degli esseri umani come innesco di un ordigno capace di scardinare i confini della Polonia e della Lituania. Le centinaia di migliaia di persone che si stanno accalcando lungo le frontiere orientali dell’Unione non sono formate da lunghe processioni di profughi che hanno risalito a piedi i Balcani fino ad arrivare alla Bielorussia, ma sono stati portati in quel Paese – secondo le informazioni di cui finora si dispone – con voli charter organizzati da compagnie di viaggio, regolarmente pagate o offerte in omaggio, non è chiaro. Essendo i polacchi come gli ungheresi del tutto sordi all’accoglienza dei flussi migratori più o meno naturali, si sono trovati di colpo di fronte a un fenomeno totalmente artificiale con cui il dittatore bielorusso ha creato e messo in azione una bomba umana. La Merkel ha subito telefonato a Putin, il quale non ha ammesso alcuna responsabilità mentre la Commissione europea prendeva la difficile decisione di schierarsi totalmente con il governo di Varsavia promettendo anche gli aiuti economici per opporre ostacoli lungo la lunga e molto penetrabile frontiera. Il che, tradotto nei termini politici di oggi, specialmente dopo l’era Trump, si chiama “muro”, una parola impronunciabile perché contiene già la sua condanna all’interno del suo significato. E questa è per ora l’unica punto di vantaggio incassato da Putin e dal suo vasto possedimento bielorusso. Ma dietro, oltre questi logori confini in parte figli del passato, si nasconde la guerra dei gasdotti e dello stesso prezzo del gas che sta mettendo in crisi l’Europa e anche l’Italia dove persino le vetrerie di Murano stanno chiudendo, a causa della bolletta del gas per scaldare e lavorare il vetro. Le previsioni sulla tenuta sociale di fronte agli aumenti energetici è un’altra bomba contenuta nella prima bomba, quella della immissione di migliaia di vittime umane sul terreno in cui si sta giocando una nuova guerra mondiale usando armi umane, carica di rischi irreversibili. A freddare moderatamente l’incandescenza politica planetaria è intervenuto l’ipotesi di un accordo climatico fra Stati Uniti e Cina in cui il presidente Xi, prossimo alla beatificazione del plenum del Partito comunista che lo sta per elevare ai fasti semidivini di Mao Zedong, ruba la scena a tutti per dichiararsi pronto a fare ciò che finora aveva totalmente negato, e cioè abbassare le emissioni di CO2 nella stessa misura degli Stati Uniti.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Giorgia Meloni, l'incontro con Viktor Orbàn a Roma: "Come va con Matteo Salvini?". "Siamo uniti, ma c'è competizione". Libero Quotidiano il 29 agosto 2021. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha incontrato il premier ungherese Viktor Orbán e il ministro della Famiglia e vicepresidente di Fidesz, Katalin Novak. Da qualche giorno Orbán si trova a Roma con la famiglia ufficialmente è in Italia per una vacanza e per prendere parte al Meeting della rete internazionale dei legislatori cattolici. Meloni e Orbán però si sentono e fissano una colazione per confrontarsi sui principali argomenti di attualità. "Ci vediamo sabato mattina all'Hotel Minerva", scrive il Corriere della Sera citando lo stesso Orban. "D'accordo" risponde la leader di FdI. Per un'ora e un quarto i due passano in rassegna una serie di temi. I due sono preoccupati dal flusso migratorio che potrebbe gravare ulteriormente sull'Europa. "La comunità europea si faccia carico di questi rifugiati sostenendo l'accoglienza nei paesi limitrofi, senza gravare ulteriormente sull'Europa. Occorre vigilare attentamente sulle possibili infiltrazioni terroristiche", si dicono analizzando in prospettiva l'attuale crisi afghana. Meloni si complimenta per i risultati della crescita ungherese, il dato migliore degli ultimi 30 anni. "Come fate? Qual è la ricetta?". Risposta di Orbán: "Abbiamo aiutato le imprese". "Da noi invece i ristori non sono arrivati, e il denaro lo abbiamo destinato alla spesa dei monopattini", replica divertita la Meloni. Orbán, racconta il Corriere, è anche incuriosito da quali siano oggi i rapporti fra la presidente dei conservatori europei e Matteo Salvini: "Come va con Salvini?", le chiede e la risposta è: "Siamo uniti ma la competizione c'è". Nessun incontro invece è previsto, per ora, tra il premier ungherese e il leader della Lega. 

La scure di Bruxelles per i diritti civili. Ma ha ignorato la minaccia dei migranti. Gian Micalessin il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. La Ue ha perseguito il governo ultra conservatore di Varsavia per il caso giustizia. Senza affrontare il nodo dei confini esterni. Su chi sia il responsabile dello spregiudicato assedio alla frontiera europea della Polonia restano pochi dubbi. Il mandante del nuovo ricatto all'Europa, condotto con la collaudata arma dei migranti, è inequivocabilmente il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko. È lui a far atterrare a Minsk con la complicità della compagnia di bandiera Belavia, e di altre spregiudicate linee aeree, centinaia di migranti curdi, afghani e siriani per poi spingerli verso la frontiera. L'obbiettivo, assolutamente evidente, è costringere l'Europa a trattare il ritiro delle sanzioni imposte alla Bielorussia dopo la ennesima e discussa rielezione del suo presidente. Ma se indicare il «cattivo» è facile, elencare i «buoni» non è altrettanto semplice. Difficile inserirvi una Polonia indifferente, in passato, a tutte le richieste di redistribuzione dei migranti avanzate da paesi perennemente in prima linea come Italia, Grecia e Spagna. Ma anche l'Europa, per quanto vittima di un palese ricatto, non può dirsi esente da colpe e responsabilità. L'indolenza e l'ignavia dell'Unione sono, in verità, ancor più gravi dell'egoismo polacco. E non solo per l'incapacità di esercitare quella sovranità sulle proprie frontiere esterne tante volte rivendicata. In questo caso la presunzione europea di controllare i propri confini esterni supera la soglia del ridicolo. Nonostante abbia sede e comando a Varsavia Frontex, l'agenzia europea preposta al controllo delle frontiere esterne, risulta, in questo momento, completamente tagliata fuori da una partita che rischia di sfociare in un scontro armato tra le forze di Lukashenko e quelle di Varsavia. Ma la fiacchezza e la debolezza di un'Europa incapace di contrapporsi alle pressioni di stati-canaglia come la Bielorussia o la Turchia sono, in fondo, fatti risaputi. Ben più grave è, in questo caso, l'evidente incapacità dell'Unione di distinguere tra una minaccia di portata veniale e una potenzialmente letale non solo per la Polonia, ma per l'intero continente. Anziché denunciare e disinnescare la spada di Damocle sollevatale sulla testa dal dittatore bielorusso, l'Europa ha preferito, negli ultimi mesi, cercar di metter alle corde un governo polacco accusato di infrangere e calpestare lo stato di diritto. Ma mentre i vertici della Commissione crocifiggevano con un foga quasi masochista uno stato membro responsabile di una discutibile, ma non irreversibile, riforma del sistema giudiziario, l'invasione manovrata da Lukashenko era già alle porte. I timori di una pressione esercitata sfruttando l'ondata di profughi in arrivo dall'Afghanistan circolava infatti dalla fine di luglio. E le intenzioni di Minsk erano state ripetutamente «indicate» e «rivelate» dai rappresentanti di Estonia, Lituania e Polonia. Ma l'Europa prigioniera delle sirene del progressismo ha preferito ignorare la minaccia evidente e concreta esercitata dal dittatore di Minsk, per inseguire quella più pretestuosa e ideologica evocata nel nome del politicamente corretto. Così nel tentativo di mettere alle corde un governo troppo conservatore per i gusti europei si è preferito ignorare la minaccia e la tragedia che montava alla frontiera polacca. E mentre il Consiglio Europeo metteva la sordina agli allarmi sull'emergenza migratoria sollevati da Mario Draghi, l'Europa si rivelava, una volta di più, incapace di prevenire un'emergenza varando misure e provvedimenti concreti. Dimostrandosi incapace di difendere gli interessi dei propri cittadini e inadeguata ad esercitare l'asserito ruolo di potenza sovranazionale.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1

Adesso la Polonia serve di nuovo all’Ue. Lorenzo Vita su Inside Over il 10 novembre 2021. Il nemico del mio nemico è pur sempre un amico. E se questo discorso vale per le “miserie” quotidiane, tanto più è valido per la strategia di un continente. Così, la Polonia guidata dal primo ministro Mateusz Morawiecki – quello che fino a qualche giorno fa era il peggior avversario interno dell’Unione europea – è tornata nel cuore dell’Europa. Trincea dell’Ue non tanto contro l’immigrazione incontrollata dalla Bielorussia, ma contro chi guida la Bielorussia, e cioè Aleksander Lukashenko.

La guerra ibrida

Per Bruxelles, il problema dell’arrivo dei migranti alle frontiere polacche è un atto di “guerra ibrida”. Non c’è un esodo incontrollato dato dalle contingenze economiche e politiche, ma una regia di Minsk per vendicarsi delle sanzioni europee. Varsavia passa addirittura oltre, con Morawiecki che nella riunione d’emergenza del parlamento polacco ha puntato dritto verso Vladimir Putin. Per il premier di Legge e Giustizia (PiS), Lukashenko potrà essere al limite “l’esecutore dell’ultimo attacco”, ma “il mandante è a Mosca”. Una lettura che in questo momento accontenta tutti e, come spiegato anche da Agi, sicuramente per Varsavia si rivela una boccata d’ossigeno. Ma è una boccata d’ossigeno che, allargando lo spettro, può servire soprattutto all’Europa per evitare di riflettere troppo su un problema che stava diventando impellente: la rotta intrapresa dal governo conservatore polacco.

La conferma arriva dalle mosse di queste ore della diplomazia europea. Innanzitutto si punta il dito contro la Bielorussia, ritenuta colpevole di avere scatenato una guerra ibrida sfruttando i flussi migratori. Accusa che per esempio non era mai stata accennata rispetto ad altri Stati in altri continenti, dove questa forma di pressione era stata solo sussurrata dagli osservatori. Per il fronte orientale, l’esodo di migranti non è mai stato considerato un problema di accoglienza, ma un atto di guerra. Ibrida, cioè combattuta con metodi non convenzionali, ma pur sempre guerra. E si sa che in un conflitto non si accettano divisioni né interpretazioni sui metodi utilizzati.

Solidarietà Ue verso la Polonia

Proprio per questo motivo, altro punto in favore di Varsavia è che tutti sono uniti nell’esprimere solidarietà al governo di Morawiecki. Nessun problema con militari al confine e filo spinato: se c’è una guerra, vale tutto. Anche se lo fa quel premier che fino a qualche giorno fa era considerato il simbolo dell’ultranazionalismo. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, è atterrato a Varsavia per incontrare il primo ministro. Si è mosso addirittura il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che ha parlato con il presidente polacco, Andrzej Duda, ribadendo che Minsk “sta usando i migranti come tattica ibrida inaccettabile” esprimendo piena solidarietà al Paese. Ed è arrivato anche il pieno sostegno della Germania, che attraverso il ministro dell’Interno ad interim, Horst Seehofer, ha chiesto all’Ue di agire perché Varsavia e Berlino “non possono farcela da sole”. “Dobbiamo aiutare il governo polacco a proteggere il loro confine esterno. Questo sarebbe effettivamente il compito della Commissione europea. Ora li invito ad agire”, ha detto il ministro alla Bild. Sulla stessa linea la Francia, che ha accusato il regime di Lukashenko di voler destabilizzare l’Ue lasciando che i migranti si ammassino ai confini con la Polonia. La difesa di Bruxelles nei confronti di Varsavia si è poi formalizzata anche nei capi d’accusa nei confronti di Minsk. Secondo alcuni rapporti, gruppi di migranti sarebbero arrivati in Bielorussia tramite voli commerciali e charter partiti da Emirati Arabi Uniti, Russia, Siria e Turchia. La commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson, ha detto che quello a cui assistiamo è “un regime disperato e illegittimo che sta invitando le persone ad arrivare sul loro territorio dicendo che si tratta di un modo facile e sicuro per entrare nell’Ue. Queste persone vengono portate a Minsk, fatte alloggiare in hotel, poi vengono portate alle frontiere, ma da lì non possono più tornare”. Per l’Europa, quella al confine tra Polonia e Bielorussia “non è una crisi migratoria ma una vera e propria aggressione da parte di un regime”. Per Varsavia, un sostegno così netto da parte di tutti i governi europei, anche di quelli più ostili alla sua linea politica, è una vittoria su tutta la linea. Isolato dopo le scelte sul fronte della magistratura e in generale sulle posizioni per i diritti civili, accusato di voler minare l’Ue e di essere quasi in procinto di una “Polexit”, minacciato con la chiusura dei rubinetti del Next Generation Eu per non essere in linea con il liberalismo propugnato a Bruxelles, ora il governo polacco è l’ultimo baluardo rispetto a quella linea di confine orientale che per molti significa Russia. Lo è per la Nato, lo è per l’Ue. E ci ricorda come la descrizione di un esecutivo o di un Paese, o anche di una crisi, possa cambiare rispetto alle contingenze del tempo. Adesso la Polonia serve di nuovo.

Meloni incontra Orban a Roma: "I rifugiati afghani non gravino sull'Ue". La Repubblica il 28 agosto 2021. La presidente di Fdi e il premier ungherese hanno ribadito la loro stretta collaborazione nel perseguire l'obiettivo comune del rafforzamento della Destra europea. "Ribadire la stretta collaborazione tra Fidesz, Fratelli d'Italia e i Conservatori europei nel perseguire l'obiettivo comune del rafforzamento della Destra europea". E' quanto si legge in una nota di FdI dopo l'incontro di oggi a Roma tra la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni e il premier ungherese Viktor Orban. "Meloni si è complimentata con Orbàn per i significativi successi della politica economica ungherese, che sta vivendo una fase di crescita senza precedenti negli ultimi 30 anni. L'occasione è stata importante anche per ribadire la stretta collaborazione tra Fidesz, Fratelli d'Italia e i Conservatori europei nel perseguire l'obiettivo comune del rafforzamento della Destra europea, nel nome del rispetto delle sovranità nazionali, della difesa della famiglia naturale e dell'identità cristiana, dell'economia sociale di mercato", si legge in una nota. "Oggi ho avuto il piacere di salutare Viktor Orbàn, in visita privata a Roma - scrive Meloni in un post su Fb - Abbiamo fatto il punto sulle vicende internazionali di questi giorni, a partire dall'Afghanistan e dalla necessità di coinvolgere i paesi confinanti nell'accoglienza dei profughi senza gravare ulteriormente sull'Europa. Ma abbiamo anche parlato di come sostenere la ripresa economica dalla pandemia. Insieme continuiamo a lavorare verso l'obiettivo comune di avere una destra europea sempre più forte e decisiva". Meloni e Orbàn, prosegue il comunicato, hanno anche "condiviso la necessità di vigilare attentamente sulle possibili infiltrazioni terroristiche". "Il confronto si è poi concentrato sulla gestione della pandemia e sulle ricette per la ripresa economica, che a detta dei due leader sarà quanto più significativa quante più risorse saranno destinate a sostenere le imprese, anzichè dilapidate in misure assistenziali", conclude la nota.

Il documento approvato a Bruxelles. Dossier migranti, cosa prevede il documento approvato a Bruxelles. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 28 Giugno 2021. Dieci minuti. È il tempo dedicato dai leader europei convenuti a Bruxelles alla discussione sul dossier migranti. Dieci minuti. E poi si passa ad altro. «Scandalo Ue». Parola che prendiamo in prestito da una dichiarazione del presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. Nella bozza di conclusioni del vertice Ue, che riguarda «la situazione della migrazione sulle varie rotte», si riconosce la necessità in alcuni casi «di una vigilanza continua e di un’azione urgente». Proprio questo senso di “urgenza” è stato inserito su insistenza dell’Italia. «Il Consiglio europeo ha discusso la situazione della migrazione sulle varie rotte – si legge nel documento -. Sebbene le misure adottate dall’Ue e dagli Stati membri abbiano ridotto i flussi irregolari complessivi negli ultimi anni, gli sviluppi su alcune rotte destano serie preoccupazioni e richiedono una vigilanza continua e un’azione urgente». Inoltre nella bozza si specifica l’obiettivo delle partnership e della cooperazione coni Paesi di origine e transito, finalizzata a «sostenere i rifugiati e gli sfollati nella regione, sviluppare capacità di gestione della migrazione, sradicare» il traffico di esseri umani, «rafforzare il controllo delle frontiere, cooperare in materia di ricerca e soccorso, affrontare la migrazione legale nel rispetto delle competenze nazionali, e garantire il rimpatrio e la riammissione». Nessun impegno concreto, nessuna reale condivisione. «Sappiamo che la dimensione esterna è essenziale – ha affermato nel suo intervento il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli – e che soltanto insieme ai nostri partner potremo pensare di governare la mobilità delle persone, forzata o volontaria, nel rispetto dei loro diritti. Sappiamo però anche che la dimensione esterna da sola non basta se non sapremo darci una politica comune di immigrazione e asilo al nostro interno. Qual è la comune responsabilità davanti a questo fenomeno globale? Il Parlamento europeo sta lavorando alle misure contenute nel Patto per l’immigrazione e l’asilo e siamo pronti a negoziare in modo pragmatico e utile. Definire norme comuni per l’accoglienza delle persone allo sbarco, per il salvataggio in mare. Non possiamo rinviare a riflettere su vie regolari di immigrazione controllata, lavorare insieme su corridoi umanitari e sugli strumenti offerti dalla politica comune dei visti per tutelare chi fugge da persecuzioni e guerre e ha diritto alla protezione internazionale». Per poi concludere: «Serve una politica comune di immigrazione e asilo al nostro interno». Il Consiglio «deve fare uno sforzo», perché «non possiamo continuare a non avere una politica europea» sui ricollocamenti. Quando avviene uno sbarco, succede che «la Commissione telefona» e chiede «chi può prenderne 50, chi può prendere i minori», ma la gestione di un fenomeno come «la migrazione può essere affidata ad un meccanismo così volontario? È un po’ scandaloso», rimarca Sassoli. E non è il solo scandalo consumatosi a Bruxelles. Nella bozza di conclusioni del vertice Ue, che riguarda “la situazione della migrazione sulle varie rotte”, si riconosce la necessità in alcuni casi «di una vigilanza continua e di un’azione urgente». Proprio questo senso di “urgenza” è stato inserito su insistenza dell’Italia. «Il Consiglio europeo ha discusso la situazione della migrazione sulle varie rotte – si legge nel documento -. Sebbene le misure adottate dall’Ue e dagli Stati membri abbiano ridotto i flussi irregolari complessivi negli ultimi anni, gli sviluppi su alcune rotte destano serie preoccupazioni e richiedono una vigilanza continua e un’azione urgente». Inoltre nella bozza si specifica l’obiettivo delle partnership e della cooperazione con i Paesi di origine e transito, finalizzata a «sostenere i rifugiati e gli sfollati nella regione, sviluppare capacità digestione della migrazione, sradicare» il traffico di esseri umani, «rafforzare il controllo delle frontiere, cooperare in materia di ricerca e soccorso, affrontare la migrazione legale nel rispetto delle competenze nazionali, e garantire il rimpatrio e la riammissione». In generale, rafforzare gli accordi di partenariato con i Paesi di provenienza in Africa sul «modello turco», è stata la parola d’ordine. Per questo la Commissione ha messo sul tavolo un sostegno complessivo da 5,7 miliardi di euro che dovrebbe essere presto approvato. «Draghi – dice a Il Riformista Emma Bonino – ha fatto bene a ricordare ai suoi recalcitranti partner europei che è dal 2018 che di migranti si è smesso di parlare in Europa a quel livello. Detto questo – sottolinea la senatrice ed ex ministra degli Esteri – quello che è venuto fuori è l’esternalizzazione delle frontiere senza neppure sfiorare la questione della ripartizione. Sulla parte esterna, con l’invito a rafforzare gli accordi bilaterali, il meccanismo sembra un po’ farraginoso laddove sembra voler scaricare sulla Commissione e su “Mr.Pesc” questa patata bollente. Andiamo, facciamo, e poi lo scaricabarile». La logica che sembra essere prevalsa nuovamente è quella “securitaria”. È così – riflette la leader Radicale – ma questo solo per quanto riguarda i confini esterni, perché all’interno, e di questo non si evita di parlare, la sicurezza la dà l’integrazione. Securitari, ma fuori. Al nostro interno, di regolarizzare queste persone per non lasciarle in mano alla criminalità neanche a parlarne. Tanto è vero che l’anno scorso, il decreto Bellanova per gli agricoli e le badanti, ha ricevuto 207mila richieste. Ad oggi, un anno dopo, le richieste verificate sono state 45mila. Per essere più credibili in Europa bisogna saper fare i compiti a casa, anche perché integrare le persone aumenta la sicurezza».

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Dal corriere.it l'8 ottobre 2021. Nuovi strumenti per proteggere le frontiere esterne dell’Ue di fronte ai flussi migratori, anche con il finanziamento europeo di recinzioni e muri: è quanto viene chiesto dai ministri dell’Interno di una dozzina di Paesi (Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Repubblica Slovacca) in una lettera indirizzata alla Commissione europea e alla presidenza di turno del Consiglio Ue. Il tema del rafforzamento dei confini esterni dell’Unione sarà affrontato dalla riunione dei ministri dell’Interno dei 27 prevista per oggi, venerdì 8 ottobre, a Lussemburgo. Nella lettera di quattro pagine («Adattamento della cornice legale Ue a nuove realtà») i 12 Paesi chiedono «nuovi strumenti che permettano di evitare, piuttosto che affrontare in seguito, le gravi conseguenze di sistemi migratori e di asilo sovraccarichi e capacità di accoglienza esaurite, che alla fine influiscono negativamente sulla fiducia nella capacità di agire con decisione quando necessario». Allo stesso tempo - si legge ancora in un passaggio del documento - «queste soluzioni europee dovrebbero mirare a salvaguardare il sistema comune di asilo riducendo i fattori di attrazione». Le barriere fisiche sembrano essere «un’efficace misura di protezione delle frontiere» che serve l’interesse di tutta l’Ue, non solo degli Stati membri di primo arrivo, «questa misura legittima dovrebbe essere ulteriormente e adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria». Al momento «ci sono forti pressioni migratorie: abbiamo l’aggressione di Lukashenko, un aumento degli arrivi attraverso il Mediterraneo e la rotta atlantica e anche un aumento dei movimenti secondari nell’Unione europea», perciò occorre «fare progressi sul Patto sull’immigrazione e l’asilo» che contiene «tutti i componenti per essere in grado di gestire la migrazione in un modo molto migliore», ha detto la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, al suo arrivo al Consiglio Ue Affari interni. 

FRANCESCA BASSO per il Corriere della Sera il 9 ottobre 2021. Il muro anti-migranti divide l'Europa. Dodici Paesi Ue hanno scritto alla Commissione europea e alla presidenza di turno slovena dell'Ue per chiedere nuovi strumenti per proteggere le frontiere esterne dell'Unione di fronte ai flussi migratori e di poter finanziare con il bilancio dell'Ue la costruzione di recinzioni e muri. Un primo stop è arrivato dalla commissaria Ue agli Affari interni, che ha parlato al termine del consiglio che si è tenuto a Lussemburgo: «Abbiamo davvero bisogno di rafforzare la protezione dei confini esterni dell'Unione - ha detto -. Alcuni Stati membri costruiscono barriere e li capisco. Ma non penso che sia una buona idea usare fondi Ue per costruirle». La presidenza slovena, invece, sostiene la proposta. Il documento è stato firmato dai ministri dell'Interno di Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Slovacchia. Il ministro sloveno Ales Hojs ha spiegato di non avere ricevuto la lettera e dunque di non avere avuto «l'opportunità di firmarla» ma «comunque ho avuto l'occasione di sostenerla pubblicamente» e ha ricordato che «dopo il disastro del 2015, la Slovenia ha deciso di erigere barriere, a sue spese, su parte del confine della Croazia, e continuerà a farlo». Sul tavolo del consiglio Affari interni c'era tra i punti all'ordine del giorno il rafforzamento delle frontiere esterne dell'Ue, incluso lo screening e la detenzione dei migranti (che sono parte del nuovo Patto sulla migrazione e l'asilo, i cui negoziati sono però in stallo). La lettera chiede l'adattamento della cornice legale Ue alle nuove realtà, in particolare «nuovi strumenti che permettano di evitare, piuttosto che affrontare in seguito, le gravi conseguenze di sistemi migratori e di asilo sovraccarichi e capacità di accoglienza esaurite». I Paesi Baltici e la Polonia sono in queste settimane sotto pressione per i migranti spinti al confine dal dittatore bielorusso Alexander Lukashenko con l'obiettivo di destabilizzare l'Unione. Varsavia e Vilnius stanno già erigendo barriere difensive. Per la commissaria Johansson non servono nuove proposte, va trovato invece l'accordo sul nuovo Patto per la migrazione e l'asilo che contiene una parte sulla protezione e il monitoraggio dei confini esterni dell'Ue. La ministra Luciana Lamorgese, che a margine del consiglio ha incontrato Johansson, ha spronato l'Ue a «colmare il ritardo fin qui accumulato, sviluppando, in tempi rapidi e con azioni concrete, gli impegni assunti sul fronte dei partenariati strategici con i principali Paesi del Nord Africa, a partire da Libia e Tunisia». Da Roma si è fatto sentire il leader della Lega Matteo Salvini: «Se ben 12 Paesi europei con governi di ogni colore chiedono di bloccare l'immigrazione clandestina, con ogni mezzo necessario, così sia. L'Italia che dice?».

La lettera di 12 Paesi Ue. I gendarmi d’Europa vogliono cancellare il diritto di asilo. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. Il 7 ottobre scorso i ministri dell’Interno di ben dodici Paesi della UE (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia) hanno inviato una lettera alla presidente della Commissione Europea. Non si tratta, come si vede, solo di paesi del noto gruppo di Visegrad ma di molti di più e di diverso orientamento politico. La missiva sollecita la Commissione europea ad adattare il quadro giuridico attuale dell’Unione a contrastare ciò che essi identificano come tentativi di strumentalizzazione della migrazione illegale per scopi politici attuati da Stati non Ue, nonché altre, non meglio definite minacce ibride (nel testo: hybrid threats). Nella lettera si fa esplicito rinvio alla relazione della Commissaria Von Der Leyen del 29 settembre scorso sullo stato dell’Unione laddove la Commissaria, riferendosi esplicitamente alla Bielorussia quale esempio, ritiene di evidenziare l’esistenza di un traffico di migranti sponsorizzato dallo stato (nel testo: State-sponsored migrant smuggling) inteso come una situazione in cui uno Stato crea e facilita artificialmente la migrazione irregolare usando la pressione migratoria come strumento per propri scopi politici. Nel citato discorso Von Der Leyen invoca in modo del tutto vago la necessità che la Ue, al fine di combattere ciò che ritiene un nuovo fenomeno, si doti di una sorta di cassetta degli attrezzi rafforzata che riunisca l’intera gamma di strumenti operativi, legali, diplomatici e finanziari a sua disposizione; tra gli interventi così genericamente auspicati la Commissaria ricorda, tuttavia, anche la necessità di assistere i migranti soggetti a tali strumentalizzazioni. È quanto meno dubbio che si possa definire un fenomeno politicamente nuovo quello della strumentalizzazione delle crisi migratorie da parte di paesi terzi ad ordinamento non democratico o esplicitamente autoritario, salvo che si identifichi come un fenomeno nuovo per entità e impatto in Europa proprio ciò che Von Der Leyen ha omesso del tutto di esaminare nella sua comunicazione sullo stato dell’Unione, ovvero che è l’Unione stessa a praticare da alcuni anni con paesi terzi accordi di ogni genere, per lo più segreti o comunque sottratti al controllo democratico parlamentare, come nel caso del non-accordo tra Ue e Turchia, per bloccare i migranti, senza prevedere alcun vincolo e alcuna condizione reale sulla tutela giuridica e sul trattamento sociale delle persone bloccate nei paesi terzi in virtù di tali accordi. È dunque in primo luogo la politica esterna dell’Unione in materia di asilo e di esternalizzazione delle frontiere a generare esplosive situazioni di crisi che, come è ovvio, possono venire strumentalizzate dai paesi terzi con cui si stringono accordi, salvo poi deplorarne il comportamento.

Non mi soffermo oltre sulla scarsa consistenza dell’analisi della presidente Von Der Leyen e torno all’esame del testo della citata missiva redatta dai dodici ministri. In essa si chiede di apportare significative modifiche all’attuale Codice Frontiere Schengen, ovvero al Regolamento (UE) 2016/399, in quanto in esso non vi sarebbero regole chiare riguardo alle azioni che gli Stati membri possono realizzare in caso di un attacco ibrido caratterizzato da un afflusso su larga scala di di migranti irregolari, (nel testo: a hybrid attack characterised by an artificially created large scale inflow of irregular migrants) facilitato, organizzato e/o spinto da un paese terzo. Curiosamente il documento non si ferma a meglio definire uno dei concetti fondamentali che propone ovvero quando il flusso dei migranti possa dirsi “artificiale”; si deve intendere un arrivo di persone forzate a lasciare il paese terzo ma che non vorrebbero farlo? È forse da considerare artificiale la scelta dei migranti di abbandonare il paese nel quale erano bloccati appena si presenta loro un’occasione data da un cambio politico? E ancora, riconoscendo che una strumentalizzazione politica di tali situazioni può portare gravi conseguenze, quali azioni vanno realizzate per gestire le crisi nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte? Si tratta di domande che non trovano alcuna risposta nel documento, il quale si limita a dolersi del fatto che nel diritto della Ue non sia prevista alcuna misura, tranne la sorveglianza delle frontiere, per impedire l’attraversamento illegale e che non sia prevista una barriera fisica come misura di protezione delle frontiere esterne dell’Ue. Si arriva dunque all’unica proposta: la realizzazione di barriere fisiche lungo tutte le frontiere esterne individuata come una misura permanente, a regime (e non come eventuale misura estrema in presenza di una crisi) la cui realizzazione deve essere un obiettivo prioritario per l’Unione (nel testo: Physical barrier appears to be an effective border protection measure that serves the interest of whole EU, not just Member States of first arrival). Colpisce in tutto il testo l’uso di un linguaggio militare nel quale le persone usate come armi improprie da parte degli stati terzi perdono del tutto la caratteristica primaria di essere vittime e, a ben guardare, perdono persino la caratteristica di essere persone. Nel testo della missiva non compaiono mai parole come assistenza, accoglienza, asilo, protezione se non in un unico passaggio laddove si fa riferimento a sistemi di migrazione e di asilo sovraccarichi e capacità di alloggio esaurite. Le persone alle quali la barriera fisica impedirebbe l’ingresso sono concepite come una massa indistinta di nemici e il documento non si pone in alcun modo l’interrogativo, giuridico prima ancora che etico, di come esaminare la loro posizione caso per caso e di come permettere l’accesso ad una procedura di esame della loro domanda di asilo magari condotta alla frontiera con procedura accelerata. Nella citata lettera il diritto di asilo come diritto fondamentale previsto dal diritto dell’Unione ed in particolare dalla Direttiva 2013/32/UE (procedure) quale diritto di chiedere protezione ad una frontiera esterna della UE, viene semplicemente e tacitamente abrogato. Sparisce contestualmente il divieto di respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra in quanto diviene possibile respingere alla frontiera chi si trova appena al di là del muro senza esaminare la sua situazione individuale. Quanto ai respingimenti collettivi, vietati dal diritto Ue, anch’essi divengono quindi possibili, anzi la norma. Cosa rimane in tale scenario del diritto d’asilo quale diritto fondamentale che sta alla base della civiltà giuridica europea? Di fatto più nulla. L’abrogazione di fatto del diritto d’asilo e la creazione di muri fisici non sono scindibili dall’uso impunito della violenza verso le persone che vengono respinte, giacché non esistono muri dolci dai quali le persone che cercano di entrare vengono allontanate seguendo una procedura rigorosa che prevede regole e condizioni. Il respingimento attuato per impedire di passare il muro, per essere efficace, deve essere rapido e sommario; e deve essere violento perché la violenza è parte delle misure di dissuasione. Diversamente è solo perdita di tempo e di soldi. È per queste evidenti e semplici ragioni che tutte le sperimentazioni che da tempo precedono la costruzione delle barriere fisiche attuate finora alle frontiere esterne dell’Europa, come quelli tra la Grecia e la Turchia, tra la Bulgaria e la Turchia, e quelle messe in atto da anni tra la Croazia e la Bosnia e appena svelate dalle agghiaccianti immagini pubblicate dal progetto di giornalismo “Lighthouse Report”, e da ultimo le violenze al confine tra Polonia e Bielorussia che hanno provocato la morte per stenti di diversi rifugiati, hanno, nella diversità delle circostanze, le medesime caratteristiche di violenza sistematica e di pianificata violazione proprio del Codice Frontiere Schengen nella parte in cui disciplina i respingimenti legittimi, ovvero assunti dopo un contatto con la persona, la verifica della sua situazione, ed attuato con provvedimento motivato e notificato affinché possa essere oggetto di un sindacato giurisdizionale. Ma una procedura legale è cosa sciocca ed impossibile da attuare se lo scopo non è il respingimento legittimo di chi non ha titolo ad entrare, bensì il respingimento del nemico. Se i dodici firmatari della missiva alla Commissione UE si fossero limitati a proporre delle nuove misure straordinarie da inserire nel diritto della Ue nel solo caso si verifichi un arrivo massiccio di migranti artificialmente spinti verso la Ue da parte di un paese terzo confinante, la loro proposta avrebbe potuto essere esaminata, criticata, rifiutata, emendata, all’interno del normale, anche aspro, confronto democratico. Ma ciò che è stato messo nero su bianco è tutt’altro: ovvero un tentativo di sovvertire principi fondamentali dell’ordinamento democratico dell’Unione, talmente inaudito che ritengo verrà esaminato dagli storici che studieranno la nostra epoca come uno dei più significativi manifesti ideologici del neo autoritarismo del XXI secolo. Se sono molte e complesse le sfide storiche del tempo presente, dalla gestione delle pandemie fino alla crisi climatica, ed ognuna delle risposte che diamo ci dice chi realmente siamo, la gestione delle migrazioni, e di quelle forzate in particolare, rimane la principale prova della tenuta della democrazia in Europa. Gianfranco Schiavone

Lucio Caracciolo per la Stampa il 12 ottobre 2021. La divisione fra Europa occidentale ed Europa orientale è ancora con noi. Semmai si accentua. Chi immaginava che l'apertura della cortina di ferro comportasse l'unificazione del Continente non faceva i conti con la maledizione del lungo periodo. La bipartizione disegnata alla fine della seconda guerra mondiale non era accidentale. Quando il 25 aprile 1945 le avanguardie sovietiche e americane si abbracciarono presso la cittadina sassone di Torgau, lungo il corso del fiume Elba, ristabilivano di fatto un tratto di limes romano, celebrato da Augusto nelle Res Gestae (26,2) quale confine della Germania più o meno assimilabile. Oltre il quale, secondo il fondatore su commissione angloamericana della Germania occidentale, il renano anti-prussiano Konrad Adenauer, cominciava la "steppa asiatica". Dopo l'Ottantanove i russi tornarono a casa da sconfitti. Avendo scaricato l'impero euro-orientale come zavorra nell'illusione di salvare così l'Urss. Noi euroccidentali scambiammo l'entusiasmo di quei popoli oppressi per spontanea adesione ai valori liberaldemocratici. Ma per gente a lungo costretta sotto il tallone di Mosca lo scambio non era tanto fra comunismo e libertà quanto fra comunismo e consumismo. Prima ancora, fra sottomissione allo straniero e indipendenza. Sovranità. Tradotto in geopolitica: prima la Nato, cioè gli Stati Uniti in Europa, poi l'Unione europea, leggi fondi comunitari. Soldati americani e soldi europei: il migliore dei mondi possibili. Ciò varrà ai popoli dell'Est la stizzita accusa di leso europeismo da parte di alcuni intellettuali occidentali, quelli che oggi bollano come "populista" chiunque non ne sottoscriva le verità. Piaccia o non piaccia, così stavano e così restano le cose. Ce lo ricordano in questi giorni tre significativi eventi, con la Polonia massima protagonista: la sentenza della Corte costituzionale polacca che considera incompatibili con la Carta nazionale alcuni articoli dei Trattati europei, così sancendo la superiorità del diritto interno sull'europeo; il prolungamento dello stato d'emergenza alla frontiera con la Bielorussia, dove migliaia fra militari e guardie di frontiera frenano il flusso di migranti in fuga (o inviati) dal regime di Lukaenka; la lettera inviata alla Commissione europea dai governanti polacchi insieme ai rappresentanti di altri undici Paesi, in netta maggioranza già pertinenti all'impero sovietico o alla stessa Urss (più Cipro, Grecia e Danimarca), per chiedere a Bruxelles di finanziare la costruzione di muri e barriere anti-migranti, richiedenti asilo compresi. Sintomatica al riguardo la risposta della commissaria competente, la socialdemocratica svedese Ylva Johansson: vi capisco, fate pure, ma non con i denari della cassa comune. La reazione degli euroccidentali, francesi e tedeschi in testa, è stata secca. Da Parigi si parla di "Polexit di fatto", quasi Varsavia si stesse estromettendo dall'Ue. Analogo il tono di Berlino, che ricorda alla Polonia gli impegni presi (ma non ricorda a se stessa i caveat che la Corte costituzionale di Karlsruhe ha da tempo indicato, specificando come sui diritti fondamentali non esista una supremazia automatica del diritto europeo sull'interno). Festa grande, invece, per i "sovranisti" d'ogni longitudine. Nostrani compresi. Varsavia non saluterà Bruxelles. Conviene però prendere atto che fra le molte e variegate faglie che ritagliano lo spazio dei Ventisette, ce n'è una troppo profonda per essere sanata: quella fra europei occidentali e orientali (alcuni nordici compresi), cresciuta su radici culturali e geopolitiche profonde secoli. La cortina di ferro non fu capriccio della guerra fredda. Né il "sovranismo" è attribuibile a un ciclo politico-ideologico. Europei dell'Est e dell'Ovest abitano tempi, non solo spazi, intimamente diversi. Per i primi, si tratta di consolidare l'indipendenza recentemente riconquistata. Polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, baltici e quanti altri vivono il loro Risorgimento, quando non il fortunoso battesimo di Stati inediti. Difficile concepire che aderiscano di cuore alle parziali cessioni di sovranità che noi euroccidentali concordammo, per impulso soprattutto americano, dopo la sconfitta collettiva nella seconda guerra mondiale. Nell'Ottantanove sembrava che il vento dell'Ovest avrebbe convertito l'Est, autopromosso Centro. Oggi il vento pare soffiare in direzione opposta. Prenderne atto sarebbe già un passo avanti per stabilire quale grado di integrazione sia davvero possibile fra le troppe Europe che chiamiamo Europa. È la storia, bellezza!  

Orbán sta con la Polonia e attacca la Ue. Ed è febbre anti-Europa anche in Francia. Gaia Cesare il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Orbán sta con la Polonia e attacca la Ue. Ed è febbre anti-Europa anche in Francia. Dopo la Polonia, la Francia? È una scossa pesante alle fondamenta dell'Unione europea, ma rischia di scatenare un terremoto la sentenza del 7 ottobre pronunciata dalla Corte Costituzionale polacca. I giudici di Varsavia, che agiscono sotto l'influenza politica del partito di governo, il PiS del premier polacco Mateusz Morawiecki, artefice delle nomine di 10 dei 14 componenti della Corte, hanno aperto lo scontro su un principio cardine dell'Unione europea: la superiorità del diritto europeo sul diritto nazionale. E adesso la stuzzicante e pazza idea di non dover subire la «supremazia europea» sta facendo breccia non solo fra i Paesi sovranisti come l'Ungheria di Viktor Orbán o la Slovenia di Janez Jana, ma anche nella Francia del super-europeista Macron, che tra sei mesi andrà alle urne per confermare o spodestare il suo presidente. I candidati in corsa per l'Eliseo, anche nella destra «moderata», non rigettano del tutto il principio e in alcuni casi lo difendono in pieno, come ha fatto ieri il sovranista Orbán, secondo cui «il primato del diritto dell'Ue dovrebbe applicarsi solo nelle aree in cui l'Unione ha competenza. E il quadro è stabilito nei trattati istitutivi dell'Ue». Per il premier ungherese la sentenza polacca è dovuta «alle cattive pratiche delle istituzioni europee, che non rispettano il principio di sussidiarietà e cercano di deprivare i diritti degli Stati membri, con la furtiva estensione dei poteri e senza emendare i Trattati». Bruxelles, è il senso, si allarga fino a dove non può, conclusione che l'Ue ha già rigettato, minacciando di usare «tutti i poteri» per difendere il primato del diritto europeo. Ma se la posizione di Orbán non desta sorprese, stupisce invece il fermento che la sentenza ha creato a Parigi. Mentre il governo denuncia «l'attacco gravissimo contro la Ue», la principale sfidante di Macron, Marine Le Pen, cavalca la nuova battaglia, dopo aver rinunciato all'idea di uscire dall'Unione europea e abbandonare la moneta unica. «Affermando il primato della sua legge costituzionale sulla legislazione europea, la Polonia esercita il suo diritto legittimo e inalienabile alla sovranità», ha spiegato la leader dell'estrema destra e candidata presidenziale del Rassemblement National, che promette di inserire il principio in Costituzione se arriverà all'Eliseo. Ancora più a destra di Le Pen, la insidia anche su questo, oltre che nei sondaggi e in famiglia, il possibile sfidante Eric Zemmour, editorialista e saggista non ancora candidato ufficiale ma sostenuto da papà Jean Marie Le Pen. In un comunicato Zemmour denuncia «il colpo di Stato federalista contro la Polonia», convinto che sia «tempo di restituire al diritto francese la sua primazia sul diritto europeo». Come se non bastasse, anche il conservatore Xavier Bertrand, in corsa per l'Eliseo, propone di introdurre in Costituzione «un meccanismo di salvaguardia degli interessi superiori della Francia». «Quando sono in gioco - spiega l'ex ministro ed ex «républicain» - la sovranità popolare deve prevalere». In attesa che il centrodestra moderato dei Républicains scelga il candidato alle presidenziali al Congresso che dovrebbe svolgersi il 4 dicembre, ad avvertire del rischio che la questione monti, trasformandosi in Polexit (l'uscita della Polonia dalla Ue) e chissà se in Frexit (la exit della Francia), è l'ex capo negoziatore europeo per l'uscita di Londra dalla Ue, Michel Barnier, in corsa fra i Repubblicani, convinto della necessità di una «sovranità giuridica», anche se solamente sulla materia immigrazione: «Se non cambiamo nulla, ci saranno altre Brexit». Gaia Cesare

TONIA MASTROBUONI per repubblica.it il 9 ottobre 2021. Lo scontro senza precedenti tra la Polonia e l'Unione europea rianima le destre sovraniste, attualmente orfane di argomenti "caldi". L'indignazione delle capitali europee - Francia e Germania in testa con tanto di dichiarazione congiunta dei ministri esteri - dinanzi alla decisione della Corte costituzionale polacca di dichiarare incostituzionali alcuni articoli dei Trattati europei ha catapultato leader e premier populisti sulle barricate. (...) Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha twittato che la pensa «come le Corti costituzionali tedesca, polacca e altre: la Costituzione voluta, votata e difesa dal popolo italiano viene prima delle norme decise a Bruxelles. Perché si può stare in Europa anche a testa alta, non solo in ginocchio come vorrebbe la sinistra». (...) Ma in Italia anche un partito di governo si è mobilitato a favore della gravissima sentenza polacca. Claudio Borghi, deputato della Lega, ha parlato di una mossa «sacrosanta», e i due eurodeputati Marco Zanni e Antonio Maria Rinaldi si sono buttati in un curioso calembour: «É bene ricordare che sono le Costituzioni nazionali a legittimare l'esistenza dell'Ue e del suo diritto e non può essere il contrario». Anche in questo caso sarebbe appena il caso di ricordare che ogni Stato che aderisca all'Unione europea accetta la primazia dei Trattati sulle leggi nazionali. (...) La reazione della Commissione europea è stata durissima. La presidente Ursula von der Leyen si è detta «profondamente preoccupata per la sentenza» e ha promesso che «useremo tutti i poteri che abbiamo ai sensi dei trattati per garantirlo». Non è ancora chiaro quali strumenti saranno messi in campo, ma è certo che i 58 miliardi di fondi del Recovery Fund bloccati da settimane in attesa che Varsavia rispetti le sentenze della Corte di Giustizia Ue a tutela dell'indipendenza dei giudici, non saranno scongelati. E intanto tre europarlamentari di peso della maggioranza hanno invitato Bruxelles ad applicare «immediatamente» il meccanismo che tutela il bilancio Ue dalle violazioni dello Stato di diritto. Il premier polacco Morawiecki ha insistito anche ieri che la Polonia non vuole uscire dall'Ue. E il politologo Michal Kolanko, intercettato al telefono, spiega che «il partito di governo Pis (Diritto e Giustizia) cerca da sei anni di dimostrare ai suoi elettori che non si inchina a Bruxelles. Tutte le sue "battaglie per la sovranità" ruotano intorno a questo messaggio. Ma finora si sono sempre fermati a un passo dal disastro, e cioè a un passo dal perdere i fondi europei. (…)

Quei muri contro i migranti in nome della patria. Forse un giorno i muri diventeranno il contrario – punti di sutura tra popoli e terre. E forse faremo pellegrinaggi per ricordare quanti provarono a scavalcarli. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'8 novembre 2019. Il muro più famoso al mondo – a parte quello dei Pink Floyd – non si vede. E non si vede non per una qualche diavoleria ipertecnologica ma perché non c’è più, e da mo’. Però, ne è rimasta l’evocazione, anche se sovrappensiero. Stiamo parlando di Wall Street, la strada del muro – centro della finanza mondiale, dove si giocano spesso i destini del mondo. Che si chiama così, perché un tempo c’era un muro, appunto. In realtà, era poco più che una palizzata, fatta erigere e poi rinforzare nel 1640 da Peter Stuyvesant, governatore dei Nuovi Paesi Bassi il cui gioiello era New Amsterdam, per tenere lontani i pellerossa – gli altri, i diversi, i nemici. Quando scoppiò la guerra fra inglesi e olandesi la palizzata divenne un vero e proprio muro di terra e legname alto 3,5 metri e fortificato. Ma non resse alla storia. E quando gli inglesi nel 1664 rinominarono la città in New York il muro scomparve. Ma non la strada – dove fino al secolo successivo commercianti e broker avevano l’abitudine di stipulare i loro patti di transazione. Così, un giorno del 1792 decisero di stilare un accordo e lo chiamarono Buttonwood Agreement, perché Buttonwood è il nome in inglese del platano sotto cui erano soliti fare i loro scambi. E questo è l’inizio del New York Stock Exchange. Forse è vero che gli uomini hanno da sempre costruito muri mentre edificavano ponti o luoghi di culto, acquedotti e arene, piazze di mercato e accampamenti. Il Vallo di Adriano, limen dell’impero romano che divideva la Britannia, provincia conquistata, dai barbari che abitavano oltre, è del II secolo dopo Cristo – e è ancora in piedi.E la Grande Muraglia Cinese ( una serie di muri, in realtà, e di difese naturali, costruiti in epoche e dinastie successive), lunga 8.852 chilometri, iniziò nel 215 avanti Cristo. E sta ancora in piedi. Mentre le mura di Gerico non ressero alle trombe dei sacerdoti guidati da Giosuè, milleduecento anni prima di Cristo. Senza bisogno di ricorrere all’aiuto divino, Janet Napolitano, che è stata Segretario alla Sicurezza interna dal 2009 al 2013, presidente Obama, disse una volta: «You show me a 50- foot wall, and I’ll show you a 51- foot ladder / tu mostrami un muro alto 50 piedi e io ti farò vedere una scala alta 51». Non credeva, Janet Napolitano, che pure si era battuta già da governatore dell’Arizona contro il traffico dell’immigrazione clandestina, che i muri fossero “la risposta” – un muro si può sempre scavalcare, per quanto alto tu possa farlo. Eppure, non solo al confine tra gli Stati uniti e il Messico il muro sembra essere “la risposta” dell’amministrazione Trump di fronte a un esodo di massa, dal Guatemala, dall’Honduras, dal San Salvador, che ha aspetti e proporzioni bibliche. Trump ha deciso di fare fuoco e fiamme per “onorare” la proposta di campagna elettorale di allungare e rafforzare un muro che già il presidente Clinton, e dopo di lui sia Bush che Obama, hanno esteso. Solo negli ultimi dieci anni sono diecimila i chilometri di muro costruiti nel mondo. E perciò, non stiamo parlando di muri “storici” – come quelli di Belfast, iniziati nel 1969 dopo i Troubles, che sono 99 come i nomi di Allah, e dividono protestanti e cattolici, passando per vie e vicoli e dividendo caseggiato da caseggiato, quartiere da quartiere e che, per cinismo della storia, si chiamano Peace- walls, e oggi, colorati di murales che celebrano un qualche caduto dell’Ira o delle milizie orange a seconda di dove li si guardi, sono diventati meta turistica, e speriamo che tali restino. O quello che spacca Cipro, lungo 184 chilometri, separando turco- ciprioti e greco- ciprioti, che si chiama linea verde perché Peter Young, il generale inglese che nel 1963 provò a mettere un freno al massacro fra etnie, aveva sottomano solo una matita verde per tracciare la divisione dell’isola in due metà. O quello che divide le due Coree. Ci sono i 1.800 chilometri di muro che dividono l’Arabia Saudita dallo Yemen; i 700 chilometri che separano l’Iran dal Pakistan; i 230 chilometri tra Israele e Egitto ( oltre quelli in Cisgiordania); i 482 chilometri tra lo Zimbabwe e il Botswana; i 2720 chilometri ( il record!) tra il Marocco e il Sahara occidentale. L’Europa d’altronde non fa che costruire muri: c’è il muro che ci divide dall’Africa e che sta nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla e fanno da confine con il Marocco, una barriera lunga venti chilometri, alta sei metri, che è costata decine di milioni dell’Unione europea, nell’ambito del programma Frontex. C’è il muro che ci divide dall’Asia, dalla Turchia, e che in realtà è un fiume, quindi è una barriera naturale, il fiume Evros, e avrebbe dovuto comprendere anche un fossato, ma a causa dei costi molto elevati la Grecia ha deciso di mantenere soltanto una doppia barriera di reticolato e filo spinato alta quattro metri. Da qui arrivano immigranti da Afghanistan, Pakistan, Armenia, Kurdistan, Iraq, Siria. E poi ci sono i muri – anche qui barriere di reticolati, spesso elettrificati – che dividono l’Ungheria dalla Serbia ma Orbàn vuole costruirne un altro per separarsi dalla Croazia. E quello che divide la Bulgaria dalla Turchia, un vero e proprio muro lungo i trenta chilometri di frontiera. Insomma, caduta the iron curtain, la cortina materiale e ideologica che spaccava l’Europa a metà, dal mar Baltico al mar Nero e che teneva lontano i temibili cosacchi dalle fontane di San Pietro e il corrotto capitalismo dalla pura anima slava, l’Europa continua a frammentarsi e a rinchiudersi. Come a Alphaville, la gate community di SanPaolo, Brasile, dove i ricchi hanno deciso di rinchiudersi – e fare le proprie scuole, le proprie palestre, i propri centri commerciali – per stare lontani dal mondo sporco e cattivo delle favelas e mettere più di mille guardie a vigilanza e protezione: come dice un giardiniere che ci va tutte le mattine a pulire le aiuole e poi la sera orna a casa, di qua Alphaville di là Alfavela. In Brasile, Alphaville – nata proprio seguendo le indicazioni architettoniche per la città ideale di Le Corbusier – si va riproducendo e in America le gate community sono ormai realtà stabili. E sembra l’incubo rovesciato di 1997: Fuga da New York, il film dove nell’isola di Manhattan chiusa da alti muri impossibili a valicare sono stati rinchiusi i reietti. Che stiano lì nel ghetto, e non ci contaminino. Finché. Un’utopia che si trasforma in distopia.I muri sono il paradosso dei nostri tempi: tempi che si presupponevano fatti di scambi e movimenti liberi di uomini, capitali e merci e che invece si vanno distorcendo in una frammentazione sempre più ristretta di comunità. Forse un giorno i muri diventeranno il contrario – punti di sutura tra popoli e terre. E forse faremo pellegrinaggi per ricordare quanti provarono a scavalcarli, e vi lasciarono la vita. Un po’ come accadde per tutto il Novecento con il “muro dei federati” di Parigi, al cimitero del Père Lachaise, contro il quale il 28 maggio del 1871 vennero fucilati 147 Comunardi i cui corpi furono gettati nelle fosse comuni con altre migliaia di insorti e che divenne meta di cortei pavesati di bandiere rosse, “il nostro lutto e il nostro orgoglio”.

Le "guerre sbagliate". L’orrore nascosto degli altri Afghanistan: il massacro sterminato non raccontato dai giornalisti occidentali. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 25 Agosto 2021. C’è un solo motivo per cui le immagini dei precipitati dagli aerei in fuga dall’Afghanistan sono inedite: e cioè perché nelle altre parti del mondo, dove pure c’è disperazione e impera il terrore, non ci sono operazioni di salvataggio né telecamere disposte a riprenderle. C’è un solo motivo per cui appare strepitoso il gesto delle madri che affidano i loro bambini ai militari: e cioè perché altrove, dove pure l’infanzia è destinata alla sopraffazione, alla fame, alla morte, non c’è nemmeno quel filo spinato a delimitare una zona franca di possibile salvezza. Una buona quota degli ottanta milioni di profughi nel mondo viene da Paesi in cui uomini, donne e bambini sono liberamente imprigionati, torturati, uccisi, senza che quel massacro abbia un confine preciso. Letteralmente, un massacro sconfinato: senza giornalisti che ne raccontino la tragedia, senza l’interferenza delle “guerre sbagliate” dell’Occidente, senza che siano chiamate in causa le responsabilità internazionali ora evocate giusto perché si tratta di rimpallarsele. Ci si pensi: basta che abbiano una destinazione australe o verso Est, ed aerei uguali a quelli da cui precipitavano quegli afghani aggrappati sorvolano ogni giorno la scena infinita delle impiccagioni, delle lapidazioni, dei campi di concentramento, dell’infanzia infibulata, dei bambini addestrati all’uso del fucile nell’attesa che il braccio sia abbastanza forte per adoperare il machete nelle decapitazioni. Il dramma afghano ci rinfaccia in modo esemplare la verità di una situazione più vasta, della quale non dovremmo più far finita di non sapere nulla quando un barcone di disperati si accosta all’Italia. Iuri Maria Prado

Storia d’Italia, 1961: la nascita del muro di Berlino che divise il mondo a metà. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Dicembre 2020. Tirarono su il Muro di Berlino, nell’agosto del 1961, fra la gente che urlava vedendo che non sarebbe potuta tornare a casa. Gli innamorati furono divisi, i genitori dai figli, i vecchi restarono alla finestra a guardare mentre i “Vopo” (Volken polizei, polizia del popolo) della Repubblica Democratica tedesca costruivano in fretta e furia barriere di cemento per sbarrare la strada ai berlinesi impazziti per la disperazione, che cercavano di fuggire o tornare a casa. Per capire questa storia bisogna ricordare quel che era accaduto dopo la sconfitta del 1945 ai tedeschi vinti. La Germania era stata suddivisa in due Stati: uno sotto il controllo sovietico e l’altro integrato nel sistema occidentale. Berlino, che si trovava all’interno della Germania comunista, era a sua volta divisa in due zone: quella occidentale, governata con libere elezioni e uno stile di vita europeo, e quello sovietico. I tedeschi della Rdt da anni fuggivano in massa dalla zona comunista e Nikita Krusciov, il successore di Stalin, decise di metter fine a questa emorragia con un muro, dividendo secondo le linee della suddivisione militare i cortili e le strade, senza preavviso né pietà. Quel muro restò in piedi per ventotto anni, fin quando l’ultimo Segretario generale del Partito comunista sovietico Michail Gorbaciov decise di metter fine alla vergogna di quella barriera, che fu demolita come tutti sappiamo a furor di popolo. Ma nel 1961 nessuno aveva mai sentito parlare di muraglie che dividessero città, separando le famiglie, benché esistessero allora come oggi due Coree e due Vietnam, oltre alle due Germanie. L’Unione Sovietica era all’apice della sua potenza e anche del suo prestigio. Nel 1961 l’Urss spedì il primo uomo nello spazio: le foto di Jurij Gagarin con la sua avveniristica tuta da esploratore spaziale con i simboli della falce e martello, dominarono le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Si ripeté lo straordinario fenomeno di stupore, timore e ammirazione già visto con il lancio del primo satellite artificiale sovietico Sputnik. I russi sembravano largamente avanti rispetto agli americani e le loro imprese spaziali erano interpretate ovunque come il prodotto di un sistema culturale, scolastico e anche economico, vincente. Possiamo azzardare forse oggi un paragone con ciò che accade in Cina, dove la tecnologia sembra essere più sviluppata di quella americana e la potenzialità cinese, oltre che la sua reale attuale potenza, sembra avere prospettive ineguagliabili. Il mondo si stava abituando al fatto che tre personalità si stavano affermando come autentici leader: il segretario sovietico Nikita Krusciov, il Presidente americano John Kennedy e Papa Roncalli che aveva assunto l’inconsueto nome di Giovanni XXIII. Tutti si rendevano conto che il mondo era sempre sul ciglio del baratro, che una guerra nucleare era sempre più probabile, e che tuttavia si poteva lavorare molto sullo stato delle cose per impedire che la catastrofe arrivasse. E così, miracolosamente, accadde. La catastrofe non ci fu e noi siamo ancora qui a raccontarla. Gli Stati Uniti stavano attraversando una brusca crisi interna per la questione dei diritti civili degli afroamericani che erano ancora sottoposti nel Sud alle cosiddette “Leggi di Jim Crow”. Queste consistevano nell’apartheid delle persone di colore come in Sud Africa. I neri erano liberi da circa un secolo, ma segregati. Avevano combattuto per il loro Paese in due guerre mondiali, si erano imposti nella musica e nello sport, nella letteratura, ma negli Stati governati dai democratici – oggi sembra un paradosso, ma è così – vivevano vite separate e umilianti rispetto alla società dei bianchi. John Kennedy, il primo presidente cattolico e dunque non “Wasp” (sigla che sta per bianco, anglosassone e protestante) era deciso a distruggere il sistema della segregazione a costo di mandare l’esercito a scortare i bambini neri a scuola insieme ai bianchi, cosa che poi realmente avvenne anche se a realizzarla fino in fondo fu il suo successore e allora vice Lyndon Johnson, dal momento che Kennedy fu assassinato a Dallas alla fine del ‘63. L’era kennediana era cominciata sotto una cattiva stella perché proprio nel 1961 fu tentata la fallimentare invasione di Cuba degli esuli anticastristi armati ma non protetti dagli americani. Il piano era stato approvato dal presidente Eisenhower, quando l’America si era sentita provocata e scioccata dalla decisione di Fidel Castro di imboccare una via rivoluzionaria vicina a quella sovietica e antiamericana. In realtà Fidel aveva tentato in tutti i modi di ottenere dagli Stati Uniti prestiti sostanziosi per far decollare l’economia cubana, sottratta al giro delle case da gioco e dei bordelli che aveva prosperato sotto la presidenza di Fulgencio Batista e dei suoi amici legati alla mafia italiana. Così, Kennedy non seppe o non volle dire di no al tentativo degli esuli anticastristi, ma proibì qualsiasi appoggio militare americano. Fu in questo modo che l’avventura si concluse in un disastro: gli esuli cubani sbarcarono alla Baia dei Porci dove trovarono ad attenderli le truppe regolari cubane che li uccisero o catturarono tutti. Quello fu l’ultimo atto di una politica sciagurata che poi ebbe come conseguenza mozzafiato la crisi dei missili e la più grave crisi che portò il mondo a un passo dalla guerra. Proprio in queste settimane Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura ed ex Presidente peruviano, anticomunista e liberale, ha scritto un romanzo – Tiempos recios (Tempi duri) – in cui racconta i mille tragici e deplorevoli errori commessi dagli Stati Uniti nell’America Centrale e nei Caraibi, a partire da un inutile golpe nel 1954 in Guatemala. Quegli errori furono certamente una delle cause della conversione di Fidel Castro da libertario a comunista sempre più ortodosso, fino a consentire che sul suolo cubano i sovietici creassero basi di lancio per missili che minacciavano gli Stati Uniti a un passo dalla Florida. In Italia si parla (e si urla, ci si insulta con profonda ira) su un tema che sta maturando: il centrosinistra. Ovvero, l’ingresso dei socialisti del Psi di Pietro Nenni (che fino ad allora erano stati chiamati “socialcomunisti”) nella vagheggiata “stanza dei bottoni” (definizione di Nenni) aprendo a sinistra, sulla scia dell’enciclica papale “De rerum Novarum”. Amintore Fanfani e Aldo Moro, detti anche “i cavalli di razza della Dc” si inseguivano nella competizione per conquistare la mano dei socialisti. Negli anni successivi sarebbe accaduto il grande evento, ma già nel 1961 era un tema rovente. E lo era perché non si sapeva come l’avrebbero presa gli americani. E come l’avrebbero presa i russi. E il Pci di Palmiro Togliatti (che la vedeva malissimo). A quell’epoca nessuno ancora sapeva che la grande decisione di accogliere i socialisti nenniani (con falce e martello sovrapposti al vecchio simbolo del sole che sorge su un libro aperto) stava maturando proprio alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e alla Cia, come poi molti documenti pubblici e pubblicati hanno dimostrato, cosa che in Italia era vietato dire e persino supporre. Io personalmente ho vissuto quell’avventura proprio nel nodo di congiunzione segreto, o meglio coperto, tra Italia e Stati Uniti. Ero uno studente e collaboravo con varie pubblicazioni per raggranellare un po’ di sostentamento e proprio attraverso il Partito socialista cui ero iscritto arrivai a uno straordinario settimanale che si chiamava Il Punto della Settimana, diretto da Vittorio Calef e cui collaboravano fra gli altri, Robert Kennedy fratello del presidente John, Pietro Nenni, Francois Fejto, pezzi del giornalismo comunista dissidente fra cui Alberto Jacoviello e una foresta di grandi firme. Quella rivista e alcune altre simili costituivano i lavori di preparazione di questo avvenimento incredibile: i socialisti italiani, alleati storici dei comunisti, stavano trattando per entrare nel Governo insieme a democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali. La Cia a quell’epoca era un’agenzia che oltre allo spionaggio vero e proprio usava l’arma culturale come strumento di penetrazione e di scontro con i sovietici. In quell’anno e nei successivi si svolgeva in Italia uno scontro violento nella cultura di sinistra e specialmente nelle arti figurative, tra modernisti favorevoli all’astrattismo e ortodossi di sinistra dediti al realismo socialista. La Cia sponsorizzava proprio nel 1961 e poi negli anni seguenti la promozione dei grandi pittori dell’astrattismo americano quali Jackson Pollock, Mark Rothko e gli altri di quella magnifica e controversa filiera. In Italia tutti gli artisti che erano stati fascisti dichiarati durante il Ventennio – praticamente tutti se si esclude Carlo Levi e, dopo le leggi razziali, Mario Mafai che aveva sposato una geniale artista ebrea lituana – guidati da Antonello Trombadori che era sia pittore che comandante partigiano e dirigente comunista, fecero atto di contrizione per le tentazioni astratte e si schierò con il realismo socialista imposto da Palmiro Togliatti. Ma non si trattava evidentemente di sciocche diatribe sull’arte. La Cia aveva intrapreso da tempo un’operazione di contrasto intellettuale in Europa e specialmente sulla Biennale di Venezia e sul mercato artistico. L’apertura a sinistra in Italia era un tema che coinvolgeva tutto: economia, letteratura, politica, ideologia, religione (“Ma per caso, questo Papa è comunista?”). Il kennedismo stava portando i suoi primi frutti e tutto l’asse politico ruotava allora intorno al privilegio che aveva il nostro Paese, considerato la “frontiera e cerniera” fra Est ed Ovest, con i comunisti più intelligenti e gli anticomunisti incoraggiati dai nuovi americani che sembravano gente brillante. Del resto definivano se stessi come “egghead” ovvero “teste d’uovo”, calve forse ma con molto cervello.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1961

3 gennaio – Il Presidente americano Eisenhower annuncia la rottura delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba.

17 gennaio – A Elisabethville viene assassinato l’ex Primo ministro congolese Patrice Lumumba.

20 gennaio – John F. Kennedy presta giuramento come 35° Presidente degli Stati Uniti d’America.

11 aprile – Bob Dylan debutta a New York.

12 aprile – Jurij Gagarin è il primo uomo nello spazio.

17 aprile – Esuli cubani, addestrati in Guatemala dalla Cia, invadono Cuba ma vengono respinti nella Baia dei Porci dalle Forze armate rivoluzionarie di Fidel Castro.

29 aprile – Viene fondato in Svizzera il Wwf.

15 maggio – Papa Giovanni XXIII promulga l’enciclica Mater et Magistra.

25 maggio – Kennedy annuncia l’inizio del Programma Apollo, finalizzato allo sbarco sulla Luna.

28 maggio – Peter Benenson lancia un appello a favore dell’amnistia per due giovani arrestati a Lisbona durante la dittatura di Antonio Salazar. La campagna di sensibilizzazione attrae migliaia di sostenitori e sfocia due mesi più tardi nella costituzione di un movimento per i diritti umani: Amnesty International.

31 maggio – Leonard Kleinrock, ricercatore del Mit, pubblica il primo articolo sulla commutazione di pacchetto, la tecnologia che sarà alla base di internet.

12 giugno – Un gruppo di terroristi compie in Alto Adige una serie di attentati dinamitardi. È la cosiddetta Notte dei fuochi.

2 luglio – Lo scrittore Ernest Hemingway si uccide con un colpo di fucile a Sun Valley, Idaho.

13 agosto – L’esercito della Repubblica Democratica tedesca inizia la costruzione del Muro di Berlino.

7 ottobre – A Parigi, un’imponente manifestazione pacifica, sostenuta da circa 30.000 algerini, viene repressa nel sangue dalla polizia su ordine dell’allora prefetto Maurice Papon. Le fonti ufficiali cercheranno di minimizzare l’evento e, ad oggi, non è ancora conosciuto il numero effettivo di morti, centinaia, e dispersi, migliaia.

25 ottobre – A Berlino, il dispiegamento di carri armati statunitensi e russi, da una parte e dall’altra del Muro, surriscalda una situazione già estremamente tesa.

30 ottobre – L’Unione Sovietica porta a compimento il lancio della Bomba Zar, avvenuto sull’isola di Novaja Zemlja, a nord del Circolo polare artico. È la più potente esplosione nucleare di tutti i tempi, circa 3.000 volte superiore a quella di Hiroshima.

11 dicembre – Gli Usa intervengono nella guerra del Vietnam.

15 dicembre – Viene emessa a Gerusalemme la sentenza di condanna a morte per il criminale nazista Adolf Eichmann.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il mostro di cemento abbattuto a furor di popolo. Storia del muro di Berlino, che 80 anni fa trasformò la città in prigione. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 16 Agosto 2021. Il muro di Berlino non fu fatto in un giorno, ma crebbe come un mostro proprio in questi giorni d’agosto di sessanta anni fa: calendario alla mano, bisogna avere almeno ottant’anni per ricordare il clima di quel mese d’agosto 1961, seconda settimana. Tutti quelli che sono nati dopo sono troppo giovani per ricordare l’enormità di quell’evento duraturo e mostruoso che mise agli arresti un popolo. In fondo, è più facile ricordare l’abbattimento a furor di popolo di quel muro nel 1989, quando Michail Gorbaciov raccolse l’invito del presidente americano Ronald Reagan che gli aveva gridato: “Mister Gorbaciov, tire down that wall, butti giù quel muro”. Ma come era nata questa storia unica nel mondo moderno e forse anche in quello antico? Sono stati costruiti muri di ogni genere, bastioni per difendere città e imperi dagli attacchi e dalle invasioni, ma mai per imprigionare gli abitanti. Questo fu il muro: una barriera per trasformare una città in prigione e da cui infatti a migliaia cercavano di scappare scavando gallerie catapultandosi oltre il muro, morendo colpiti dai mitra dei VoPo (la polizia popolare) o fracassandosi con un camion lanciato contro la barriera rafforzata da lastre d’acciaio. Quando fu terminato il muro di Berlino proseguì come una metastasi lungo il confine della Repubblica democratica tedesca governata da Walter Ulbricht: i villaggi, le case, i cortili, le famiglie, gli sposi, i nonni e i nipoti i fidanzati, gli amici furono separati dalla muraglia.

I berlinesi si erano accorti che qualcosa di pessimo era in preparazione perché all’inizio di agosto del 1961 comparvero in città folte squadre di spazzini e muratori scortate da agenti armati. Questi operai avevano l’ordine di ripulire un tracciato che attraversava la città. Comparve una striscia bianca dipinta col gesso e poi su quella striscia furono scavati dei fori quadrati e profondi in cui il giorno dopo furono infilati verticalmente pali di cemento. Allora i berlinesi capirono quel che stava succedendo anche se erano sicuri che qualsiasi ostacolo venisse eretto ci sarebbero state comunque delle uscite, dei passaggi. Ma qualcuno diceva che il muro non avrebbe avuto porte né finestre e avrebbe impedito anche lo sguardo attraverso le case e i cortili. Si sparse il panico. E allora Ulbricht, che fra le sue qualità di dirigente del partito aveva una naturale tendenza a mentire spudoratamente, si precipitò alla radio per pronunciare un discorso suadente in cui disse: «I nostri nemici capitalisti stanno spargendo la voce falsa secondo cui noi vorremmo costruire un muro a Berlino. Nulla di più falso. Non ci sarà nessun muro a Berlino». Chi ha visto il film Le vite degli altri ha visto una ricostruzione molto fedele del panico e dello smarrimento incredulo di quei giorni in cui i pezzi prefabbricati davano forma al mostro: cordoli di cemento in orizzontale. Grossi mattoni di graniglia bianca impilati con la calce. Poi lunghe putrelle di ferro sopra i mattoni. La gente era impazzita e aveva finalmente capito. I ragazzi più giovani si arrampicavano e cercavano di saltare dall’altra parte. I più vecchi urlavano alle impassibili guardie armate che dovevano andare a casa dove la moglie li aspettava. Niente da fare. Il panico diventò certezza e la gente restò a guardare la crescita del mostro con occhi pieni di lacrime. Era stato Ulbricht più che i russi a volere quella muraglia. Il vecchio comunista sopravvissuto ai nazisti e alle purghe staliniane era molto fiero di essere il capo di una Germania finalmente comunista, ma si era reso conto che più di tre milioni di tedeschi se l’erano filata passando a Berlino ovest. La Germania era stata divisa in quattro zone di occupazione: la più grande, quella sovietica, e poi quelle americana inglese e francese. Le zone occidentali erano state subito riunite in un’unica Germania federale che avrà come sua capitale Bonn, fino alla caduta del muro e il ritorno di Berlino capitale con Kohl. Ma la vecchia capitale declassata e occupata galleggiava nella Germania comunista e metà di essa era sotto il comando sovietico mentre l’altra metà era protetta dalle guarnigioni americane, francesi e inglesi. Erano funzionanti alcuni punti di passaggio fra le due metà del muro dove i berlinesi potevano transitare liberamente: il più famoso fu il checkpoint Charlie, sorvegliato dai carri armati americani, il portale da cui era possibile sparire dal mondo comunista e riapparire in quello occidentale. Di notte la Germania dell’Est era buia mentre quella occidentale tripudiava di luci. La guerra fredda era anche propaganda e la Germania occidentale era l’albero di Natale sempre acceso in cui tutti apparivano occupati, sereni, liberi. Soprattutto liberi. Quando cominciò la costruzione del muro a Berlino era cominciato anche il Festival cinematografico con le grandi star di allora, gli abiti da sera, i paparazzi, i giornalisti e i curiosi. La tragedia si stava consumando in maniera lenta ma terribilmente organizzata. Come abbiamo appunto detto aveva fatto tutto Ulbricht, il quale faceva la spola tra Berlino e Mosca dove andava a perorare la sua causa da Krusciov e dal ministro degli Esteri Gromyko sostenendo che lui non poteva guidare un paese in via di estinzione e che bisognava fare qualcosa e quel qualcosa doveva essere una barriera che impedisse ai suoi sudditi di filarsela in Occidente. Nikita era poco entusiasta di una soluzione che avrebbe portato a uno scontro con gli americani e nessuno poteva sapere come sarebbe finito quello scontro. Il nuovo presidente americano John Fitzgerald Kennedy aveva un volto simpatico e una espressione decisa, ma si limitò a lanciare un avvertimento generico: “Non azzardatevi a toccare Berlino”. Krusciov, che già lo odiava perché lo considerava un rampollo miliardario di una casta di imperialisti sfrontati decise di correre il rischio e dette ordine di tirare su il muro. Il comandante dei reparti blindati americani raccontò delle ore tremende in cui lui e i suoi uomini avevano ricevuto l’ordine da Washington di non sparare un colpo a nessun costo e di tenere le mani lontane dal grilletto. Di fronte avevano colonne di carri armati russi e gli uomini si guardavano dalle torrette mentre il muro seguitava a crescere con nuove integrazioni ingegneresche. Non c’era soltanto il muro: al di là si trovava uno spazio piatto dove sparare con le mitragliatrici a chi fosse evaso e poi fili spinati, punte di ferro e trappole. I berlinesi però già scavavano dovunque potessero e scoprivano i passaggi nelle fogne, organizzando spedizioni per andare a prendere figli e genitori. John Fitzgerald Kennedy fece la voce grossa ma confidò ai suoi che questa soluzione del muro, per quanto odiosa, metteva comunque ordine in una frontiera troppo carica di rischi dove la guerra sarebbe potuta scoppiare per caso. Ciò che stavano facendo i comunisti, disse, era orribile, ma al tempo stesso era quanto si meritavano perché una tale costruzione appariva un tale monumento alla vergogna da provocare un effetto di repulsione verso tutto ciò che era sovietico favorendo il mondo occidentale. La crisi durò fino a ottobre, quando finalmente gli schieramenti dei blindati furono ritirati a distanza ragionevole e la città prese un aspetto tristissimo ma in qualche modo normale. Krusciov ora diceva che Berlino con dentro americani, inglesi e francesi era un’offesa alla storia e che si trattava di una metastasi che bisognava al più presto eliminare mondando il territorio della Repubblica democratica tedesca da questa cisti. La sua prossima mossa sarebbe stata quella di assediare per fame Berlino Occidentale con il blocco delle autostrade e di tutti i mezzi di comunicazione. A quel blocco gli americani risposero con una delle loro operazioni più celebrate: un ponte aereo costosissimo e continuo che avrebbe rifornito la città occidentale di tutti i beni necessari, dalla carta igienica ai vestiti alle scarpe, il carburante, le stufe, le medicine, i pezzi di ricambio, ma anche di medici, tecnici e operai occidentali in grado di riparare e far ripartire la città. Negli anni 70 e 80 sono stato a Berlino molte volte al di qua e al di là del muro. Gli amici tedeschi mi dicevano che la lingua stava modificandosi, che ormai ad est ed a ovest si parlavano due forme diverse di tedesco, una occidentalizzante, l’altra fondata sul prussiano classico. Ulbricht fece rispolverare tutte le antiche uniformi tradizionali prussiane che davano all’armata popolare molte caratteristiche simili a quelle naziste. Del resto, tutti i nazisti sopravvissuti alla guerra si convinsero che i miglior affare era quello di passare alle dipendenze di Ulbricht il quale garantiva anche un forte nazionalismo revanscista contro gli americani, espressione utile per comprendere gli ebrei come elementi inquinanti della purezza tedesca benché rinnovata dal socialismo. Il muro era in piedi rafforzato da mille lame d’acciaio e continui rifacimenti e sopraelevazioni. Quando finalmente John Fitzgerald Kennedy venne per pronunciare il suo famoso discorso in cui disse “Uch bin eine Berliner” nell’anima dei berlinesi tremanti d’emozione prevalse l’amarezza perché il mondo occidentale, dovendo scegliere se rischiare uno scontro per difendere la loro libertà, aveva scelto la loro schiavitù e la stabilizzazione, all’ombra del muro della vergogna e della Realpolitik. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L’inizio della fine del comunismo europeo. Stefano Magni su Inside Over il 13 agosto 2021. Il 13 agosto di sessant’anni fa, nel 1961, le autorità della Repubblica democratica tedesca eressero di sorpresa il Muro di Berlino. La sorpresa, soprattutto, fu devastante per i berlinesi. Dal 1945, dopo la resa della Germania nazista, la capitale tedesca era stata suddivisa in quattro settori, uno per ciascuno degli eserciti alleati. I sovietici, che avevano conquistato materialmente la città l’8 maggio 1945, tenevano la parte più grande, tutti i quartieri orientali, incluso il Mitte, cuore del centro storico. Americani, britannici e francesi si “accontentarono” di tre settori più piccoli che comprendevano tutti i quartieri ad occidente della porta di Brandeburgo e del Reichstag, poi riunificati in Berlino Ovest. Quella parte di città, divenne una grande enclave della Repubblica federale tedesca incastonata nel cuore del territorio della Repubblica democratica. Essendo la zona di passaggio più facile, rispetto al confine fortificato e militarizzato fra le due Germanie, la popolazione dell’Est che riusciva a recarsi a Berlino aveva più probabilità di passare all’Ovest. Non era comunque un compito facile. Ben 251 persone vennero uccise dalle guardie di frontiera, nei checkpoint al confine fra l’Est e l’Ovest della città, dal 1949 al 1961. Ma il 13 agosto 1961 per i berlinesi fu uno choc: per la prima volta la divisione si materializzava sotto forma di un muro di cemento e filo spinato, sorvegliato da torrette di guardia, riflettori, cani addestrati al combattimento e uomini armati con l’ordine di “sparare per uccidere” a chiunque tentasse di passarlo. I video e le foto girate nelle prime ore e nei primissimi giorni della costruzione del muro testimoniano la foga con cui i berlinesi, presenti sul posto, si lanciarono dall’altra parte, rischiando la vita, prima che il Muro diventasse impassabile. In un celebre video, un Vopo, militare della Polizia popolare, salta uno sbarramento di filo spinato e defeziona all’Ovest. In un’altra sequenza mozzafiato, una ragazza si lancia nell’attraversamento del confine e, per pochi angosciosi secondi, i capelli le rimangono impigliati nel filo spinato. Una famiglia cala una parente anziana da una finestra di una casa sulla linea di confine. L’operazione spericolata viene interrotta dalla polizia che lancia un fumogeno nell’appartamento. Nelle testimonianze dei tedeschi orientali di allora si legge di incursioni improvvise di poliziotti seguiti da muratori muniti di mattoni, cazzuole e cemento: le finestre che davano sul muro furono improvvisamente murate. Di colpo, decine di migliaia di cittadini si ritrovarono prigionieri in casa loro. I primi a fuggire furono i più fortunati. Gli altri dovettero investire tutto il loro ingegno e coraggio per riuscire nell’impresa. La principale fu attraverso il “Tunnel 57”. Iniziato nel 1963 da un gruppo di studenti tedeschi occidentali e da un defezionista della Germania Est, Joachim Neumann, il 3 e il 4 ottobre del 1964 permise a 57 tedeschi orientali (da cui il nome dato successivamente al tunnel) di scappare ad Occidente. Fra questi fuggitivi c’era anche la fidanzata di Neumann, rimasta nell’Est e appena scarcerata. Mentre gli studenti dell’Ovest progettavano il tunnel, nell’aprile del 1963, nell’Est, un soldato di leva dell’Esercito Popolare si schiantava deliberatamente contro il nuovo muro, a bordo del mezzo corazzato che guidava, un veicolo trasporto truppe Spw-152. Non riuscì ad aprire una breccia e, cercando di arrampicarsi per saltare dall’altra parte, venne colpito e ferito dalle guardie di frontiera. La polizia della Germania occidentale, però, reagì rispondendo al fuoco e fu solo così che Wolfgang Engels (questo il suo nome) riuscì a passare dall’altra parte, più morto che vivo, ma libero. Un mese dopo, fu un cittadino austriaco a passare da una parte all’altra del confine, a bordo di un’auto sportiva, una Austin Healey Sprite decapottabile. Fece solo una piccola modifica: rimosse il parabrezza, prima di presentarsi con la capotte abbassata al confine fra Est e Ovest. Quando le guardie di frontiera gli chiesero di scendere, per un’ispezione, lui si sdraiò e premette l’acceleratore a tavoletta e l’intera auto, con lui e la sua fidanzata tedesca orientale a bordo, passò sotto il passaggio a livello. Più ingegnoso fu Klaus-Günter Jacobi che trasformò la sua piccolissima auto Bmw Isetta per accomodarvi l’amico Manfred Koster e passare il confine senza far notare nulla di strano. Quattro anni dopo, nel 1967, il nuotatore e ingegnere Bernd Boettger, combinò i suoi due maggiori talenti per costruire un mini-sommergibile con cui, a nuoto, passò la frontiera sul Baltico. Fu una missione rischiosissima: anche la frontiera marittima era pattugliata e sulle spiagge la polizia aveva trovato il modo, con l’uso di agenti chimici, di individuare in tempo reale ogni impronta lasciata dai fuggitivi. Il 16 settembre, non dal mare, ma dall’aria, il meccanico Peter Strelzyk e il muratore Günter Wetzel, passarono il confine, assieme alle loro famiglie al completo, usando una mongolfiera da loro costruita. Ci provarono due volte, fra il primo e il secondo tentativo di evasione riuscirono a sfuggire alla caccia scatenata dalla Stasi, il temibilissimo servizio segreto interno della Repubblica democratica. Con metodi meno rocamboleschi, ma non meno rischiosi, molti altri cittadini della Germania Est riuscirono a passare dall’altra parte della cortina di ferro, viaggiando in altri Paesi comunisti da cui era meno difficile uscire. La principale porta per l’Occidente fu sicuramente l’Ungheria. E nell’ultimo anno di divisione fra Est e Ovest, nel 1989, fu soprattutto l’apertura della frontiera ungherese con l’Austria che rese superfluo il Muro, ponendo le premesse per il suo abbattimento. Altre mete scelte come ponte per l’Occidente furono la Jugoslavia (allora neutrale) e la Bulgaria (confinante con la Grecia e la Turchia). Ma non era un compito facile. In tutti i Paesi del blocco sovietico la polizia collaborava con la Stasi per arrestare i tedeschi che provavano a fuggire. Meno nota è la storia di coloro che non ce l’hanno fatta. Almeno 140 persone, secondo le statistiche ufficiali, sono morte sul Muro. Di queste, ben 100 sono tedeschi orientali abbattuti dalle guardie di frontiera, 30 sono stati colpiti per errore durante tentativi di fuga, 8 sono le guardie di frontiera uccise, da chi fuggiva armato, da altre guardie di frontiera o da disertori. E fu proprio questa la peculiarità del Muro, che lo rende differente da tutti gli altri muri: serviva a tenere dentro i cittadini del regime che lo aveva costruito. In Occidente non lo abbiamo mai del tutto compreso, come dimostra una retorica molto di moda che lo paragona ai muri di frontiera (per controllare l’immigrazione), ai muri del Sud Africa (per separare i bianchi dai neri) o al muro di Israele (per difendere le città dai terroristi). Quando il presidente tedesco orientale Walter Ulbricht, d’accordo con Nikita Chrushev, decise di edificare il muro, lo fece perché l’emigrazione dei suoi cittadini stava svuotando il Paese. Dalla fondazione della Germania orientale nel 1949 all’estate del 1961erano infatti passati all’Ovest ben 3,5 milioni di tedeschi su 18 milioni in totale. Fu la prova tangibile del fallimento del sistema comunista, un regime da cui tutti volevano fuggire. Le energie che vennero spese per impedire alla gente di scappare non impedì comunque un netto declino demografico, fra fuggiti e non nati: da 18,3 a 16,4 milioni di abitanti, nei 40 anni esatti di storia della Germania Est. Contrariamente alla crescita demografica, da 51 a 62,6 milioni di abitanti, nella Germania Ovest, nello stesso arco di tempo. Si celebra in Europa la caduta del Muro il 9 novembre 1989. Ma il 13 agosto dovrebbe essere ricordata come la data in cui il comunismo, in Europa, iniziò il suo inarrestabile declino.

Sessant’anni dopo. E a Berlino divisero il cielo. Ezio Mauro su La Repubblica il 12 agosto 2021. Il 13 agosto 1961, in piena notte, iniziava la costruzione del Muro. Il simbolo della Guerra fredda non fu subito compreso dall’occidente. Ecco la cronaca di quelle ore che cambiarono il mondo. Scelsero la notte, come in un colpo di Stato che pietrificava la città. L’una del 13 agosto, sessant’anni fa, nel tempo sospeso tra un sabato e una domenica, quando il caldo e la voglia di vacanza svuotavano Berlino. Da giorni, quattrocento camion Zil verniciati di verde anonimo stavano viaggiando su strade secondarie, senza mai formare una colonna per non insospettire: trasportavano centosessanta tonnellate di filo spinato, 7300 metri cubi di cemento in blocchi anticarro, calce, mattoni, pali metallici, transenne, sacchi di sabbia. Nessuno sapeva a cosa servivano, nemmeno i tremila carristi acquartierati coi loro 300 panzer attorno alla zona centrale della città, neppure i cinquemila soldati tenuti in allerta nelle caserme di periferia, in attesa di ordini. Soltanto 120 minuti prima dell’“ora X” i comandanti dei reparti aprirono le buste con le disposizioni operative dell’operazione “Rose”, com’era chiamata in codice. Il primo segnale fu il buio. Si spensero le luci della città e della striscia di frontiera, l’oscurità scese sulla Porta di Brandeburgo. Quarantamila uomini si schierano sulla linea di confine tra le due Berlino, transennano l’area, fermano 12 linee della metropolitana, sigillano gli accessi alle fognature, fanno saltare l’asfalto, sbarrano 190 strade, bloccano 69 varchi di frontiera, impiantano i pali dei reticolati, innalzano 116 posti di vedetta. È il Muro, che corre a zig zag tra la zona sovietica e quella occidentale e nella sua cecità ideologica, nella sua ossessione politica taglia in due strade, chiese, canali, piazze e cimiteri come se portasse nel cuore della città, arroventandola, la guerra fredda che divideva il mondo in due e scaricava la sua elettricità proprio qui, a Berlino. Con le luci del mattino la città capì di essere stata murata, chiusa, imprigionata. Una notte aveva cambiato il suo destino, il potere aveva celebrato il suo abuso supremo e ora monitorava le reazioni degli abitanti, coi soldati sovietici mobilitati nelle caserme in assetto da combattimento, allarme 1, agli ordini del maresciallo Ivan Konev, eroe dell’Urss decorato con l’Ordine di Lenin, l’Ordine della Bandiera Rossa e l’Ordine della Rivoluzione d’Ottobre, l’uomo che aveva guidato le truppe nell’invasione dell’Ungheria, cinque anni prima. Una folla si radunò immediatamente davanti al mostro. Da Ovest, urla e proteste, insulti contro Walter Ulbricht, il capo della Ddr, e i sovietici. Da Est, sguardi increduli, e silenzio. Dall’una e undici minuti, quando aveva interrotto il programma musicale Melodien zar Nacht, la radio continuava a rovesciare la realtà ripetendo il comunicato ufficiale: «I governi dei Paesi del Patto di Varsavia chiedono al parlamento della Ddr di varare un nuovo ordinamento alla frontiera con Berlino Ovest per bloccare ogni attività sovversiva, in difesa dalle provocazioni condotte dall’Occidente». Era stata un’idea di Kruscev, il segretario generale del Pcus, Capo del Cremlino. Bisogna leggere il verbale della telefonata di due ore e 15 minuti tra lui e Ulbricht, il primo agosto, per capire l’urgenza e la necessità di recintare Berlino, per garantire la sopravvivenza della Ddr, dissanguata dalla crisi economica che razionava anche il latte e dall’emorragia di abitanti, per le fughe continue oltreconfine: 30.400 soltanto nel mese di luglio. «Senza il sostegno dei Paesi socialisti le cose andrebbero molto male», confessa Ulbricht. «Non è buona cosa che i tedeschi non abbiano verdura – incalza Kruscev –, e poi si dice che non abbiate abbastanza fieno, e che manchi il mais. Non capisco, non riesco a credere alle spiegazioni che vengono date». Ulbricht insiste: «Per due mesi da noi non c’erano patate da comperare. È molto grave, ma quest’anno il tempo è stato molto umido, sicché le patate sono marcite nei campi. Inoltre non c’è abbastanza burro, abbiamo dovuto introdurre le tessere per il razionamento e in metà dei distretti della Ddr non è stato possibile rispettare il piano di rifornimento di latte. Tutto ciò ha prodotto nella popolazione uno stato d’animo ostile». Kruscev è preoccupato: «Leggo i rapporti originali dei servizi segreti occidentali, dove si stima che nella Ddr siano mature le condizioni per una rivolta. Lei deve utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per evitare che le cose arrivino al punto di una insurrezione». E qui nasce il progetto del Muro: «Dobbiamo sfruttare le attuali tensioni con l’Occidente e creare un anello di ferro attorno a Berlino – propone Kruscev –. Vi aiuterà, perché ridurrà il flusso delle fughe. È facile spiegarlo: siamo minacciati da una guerra e non vogliamo che ci mandino delle spie. I tedeschi comprenderanno. Ho una domanda tecnica. Come verrà realizzato il controllo nelle strade dove un lato si trova nella Ddr e l’altro fa parte di Berlino Ovest?». Ulbricht lo tranquillizza: «Abbiamo un piano preciso, nelle case che hanno uscite verso Berlino Ovest, queste verranno murate. In altri punti verranno create barriere di filo spinato. Si può fare tutto molto rapidamente». Tutto è pronto, Kruscev invita al silenzio: «Se lo sapessero prima, i borghesucci cercherebbero di scappare». Le brigate del lavoro murano 1253 finestre che si affacciano sull’Ovest, 56 ingressi, portoni e cancelli, sbarrano 37 negozi e magazzini, svuotano 580 appartamenti, deportano duemila abitanti. Ottocento riescono a scappare nella confusione del primo giorno di Muro, 51 mila cittadini della Ddr che si trovano a Berlino Ovest in lavoro o in visita decidono di non tornare dietro il filo spinato, e chiedono asilo politico. Ma a Bernauer Strasse, man mano che salgono le murature delle finestre c’è chi cerca la libertà gettandosi su un materasso dal quarto piano, come Ida Siekmann, o dal tetto come Berne Lunser inseguito dalle guardie tra i comignoli, o provano a calarsi in strada appesi a una corda di biancheria troppo sottile, come Rolf Urban. Un anno dopo la sua costruzione, il Muro conterà già 26 morti, uccisi dai Vopos nei loro tentativo di superare la barriera. Ma l’Occidente, ipnotizzato dal timore di un nuovo conflitto, non capisce subito la disperazione dei cittadini reclusi a Berlino Est, perché non coglie il significato politico di quella trincea nel cuore dell’Europa. Il presidente americano John Kennedy verrà informato soltanto 17 ore dopo, perché lo staff giudica che non sia il caso di svegliarlo prima del previsto nella casa di vacanze a Hyannis Port: dopo una consultazione telefonica con il Segretario di Stato Dean Rusk, il Segretario alla Difesa McNamara e suo fratello Robert, deciderà che il Muro è un progetto difensivo e non espansivo e concluderà dicendo «meglio un maledetto Muro che una maledetta guerra». D’altra parte Charles de Gaulle restò in vacanza a Colombey-les-Deux-Églises ancora per quattro giorni, il Primo ministro di Gran Bretagna Macmillan non interruppe il golf nello Yorkshire, il cancelliere tedesco Adenauer non cambiò il tono della campagna elettorale, e Papa Roncalli non parlò del Muro dalla sua finestra, la domenica. E invece quella barriera di cemento doveva diventare il simbolo di un’epoca, il monumento alla Guerra fredda che qui calcificava la storia, come se avesse trovato a Berlino il suo punto zero nell’ipnosi del Muro. Così tremendamente locale da spaccare in due strade, cortili e palazzi, e insieme così universale da rappresentare il nuovo Greenwich: il vero meridiano del Novecento, che separava il comunismo dal capitalismo, e fondava nel filo spinato i concetti di Est e Ovest, che nella loro divisione avrebbero perseguitato la bussola europea per decenni, attraversando il secolo. Il comunismo monumentale con il Muro rassicurava se stesso come in un esorcismo, cercando di recintare l’eternità e pietrificando il comando non potendo avere il consenso. Dopo che la breccia dell’89 ha liberato la geografia del continente rimettendo in movimento la storia, gli spezzoni superstiti di Muro testimoniano oggi l’incredibile che abbiamo vissuto: la proiezione artificiale della politica cresciuta per 28 anni nel cuore stesso della civiltà europea.

Sessant’anni fa il Muro di Berlino, una ferita per il mondo. Lo storico Cardini: “Tutti per l’Occidente, ma con ingenuità”. Dagli Usa alla Cisgiordania, i mattoni che ancora ci dividono

Costruito improvvisamente nella notte fra il 12 e il 13 agosto 1961, per quasi 29 anni è stato il simbolo del mondo diviso dalla Guerra Fredda. La sua caduta segnò la fine dell'epoca del mondo separato fra i blocchi Usa e Urss. Lo storico Cardini: "Tutti con gli Usa, un po' acriticamente: Stalin e Washington puntavano a controllare noi europei". Nel 2021 ancora molti muri separano popoli diversi e talora lo stesso popolo. Piero Ceccatelli il 12 Agosto 2021 su Luce.lanazione.it. Il telefono squilla nell’ovest in piena notte: la polizia di Spandau avverte che un treno dell’S-Bahn, la metropolitana sopraelevata di Berlino, è tornato indietro. “I passeggeri sono dovuti scendere, ed è stato restituito loro il biglietto”.  È il primo segnale, alle 2 del mattino, che qualcosa di inedito sta avvenendo nella capitale tedesca. Da AlexanderPlatz, Erich Honecker, ancora sconosciuto, dirige le operazioni quale funzionario della Sed: nel giro di poche ore, le frontiere fra l’est e l’ovest della città, su ordine del presidente Walter Ulbricht, saranno sbarrate con del filo spinato. Ed è così che nasce il Muro di Berlino, poco prima delle luci dell’alba del 13 agosto 1961, esattamente sessant’anni fa. 

La costruzione del Muro. La decisione dei governi del patto di Varsavia di blindare l’area orientale della città, per evitare un dissanguamento – 1,6 milioni di berlinesi avevano già lasciato l’est per l’ovest – divenne la rappresentazione tangibile della cortina di ferro che divise il mondo nei due blocchi d’influenza sovietica e americana, durante la guerra fredda. Le conseguenze di quella scelta segnarono la storia della Sprea e non solo: la città dal “cielo diviso”, nella celebre definizione che titola il capolavoro di Christa Wolf, separò per decenni famiglie e amici, e costò la vita a tanti berlinesi, che tentarono la via della fuga, in un’impresa via via più pericolosa. Furono almeno 140 le vittime del Muro, sotto i «tiri di precisione» esplosi dagli agenti dell’est. 

Torri di guardia e cecchini armati. Dopo le prime barriere, già il 15 agosto iniziarono ad essere usati gli elementi prefabbricati di cemento e pietra destinati a formare la prima generazione del muro, che poi fu negli anni rinnovato ed ulteriormente fortificato per evitare fughe verso ovest. Quando circondò completamente Berlino Ovest, l’Antifaschistischer Schutzwall – lungo 156 km, alto 3,6 metri – trasformò i tre settori occidentali in un’isola rinchiusa entro i territori orientali. A partire dal 1975 il confine era anche protetto nella “striscia della morte” da recinzioni, 105,5 km di fossato anticarro, 302 torri di guardia con cecchini armati, 20 bunker e una strada illuminata per il pattugliamento lunga 177 km.

I martiri del salto. La storia delle origini di quella frontiera presto convertita in blocchi di cemento – e ben ricostruita da un agevole testo di Thomas Flemming – si può raccontare attraverso immagini divenute iconiche. Come quella di Conrad Schumann, il primo poliziotto che ebbe l’ardire di saltare il filo spinato il 15 agosto. Aveva 19 anni, e la sua foto fece il giro del mondo. O la vicenda amarissima di Peter Fechter, il fuggitivo ferito e lasciato morire a Check Point Charlie, provocando un nuovo schock nei berlinesi. Nelle prime settimane di quel terribile agosto, in molti saltarono all’ovest dai palazzi della Bernauer Strasse: lo racconta Peter Schneider, in un altro romanzo cult sulla materia, “Il saltatore del Muro”. Ma superare la barriera, poi cementificata e sollevata fino ai 3,60 metri, diventò sempre più difficile. Presto, come è noto, i berlinesi non ebbero più la possibilità neppure di salutarsi con le mani sollevate in alto, per raggiungere gli sguardi affranti dei parenti dall’altra parte della città. 

Kennedy, dalla barca a vela alla storia. E c’è un museo oggi a Berlino, al Check Point Charlie, che rievoca le avventure di tutti coloro che provarono a scappare: per vie sotterranee, nei bagagli, in volo. Meno nota, invece, è la reazione di chi, nella contrapposizione politica del tempo, di fatto subì questa decisione, senza muovere un dito: “L’ovest non fa nulla”, titolò la Bild Zeitung il 16 agosto. E l’allora sindaco Willy Brandt, nella disperazione del momento, osò inviare di persona una lettera a Kennedy. Nell’apprendere del muro, affidata una reazione indignata alla stampa, il presidente degli Stati Uniti non aveva rinunciato neppure alle ore di vela. Anzi. La reazione non nascose un certo sollievo, racconta Flemming: “Krusciov non avrebbe lasciato costruire un muro, se avesse davvero voluto prendersi Berlino ovest. Non è una soluzione particolarmente piacevole, ma un muro è dannatamente meglio di una guerra”, esclamò il leader, che nel ‘63 avrebbe dichiarato «ich bin ein Berliner!». 

Giù i mattoni, fra la gioia di tutti. Il Muro di Berlino cadde 28 anni dopo, il 9 novembre del 1989: ad aiutare l’abbattimento di quella maledetta frontiera, poi a lungo rimasta «nella testa», secondo l’efficace formulazione di Schneider, fu anche la domanda del corrispondente dell’Ansa dell’epoca, Riccardo Ehrmann. In una storica conferenza stampa, all’annuncio del portavoce della Repubblica democratica tedesca Guenter Schabowski di un cambio di regime dei viaggi, chiese: «ab wann?», «da quando?» Il politico rimase spiazzato e tentennando rispose: «da subito». Bastò a scatenare la gioia dei berlinesi, che si avventarono sul Muro in massa, per raderlo al suolo e liberare finalmente la loro città.

L’intervista: Franco Cardini: “Eravamo tutti americani. Ingenuamente”. Franco Cardini, scrittore e storico.

Professor Franco Cardini, docente emerito di storia, saggista e scrittore. Nell’agosto del 1961 lei aveva appena compiuto 21 anni. Come accolse la costruzione del Muro?

“Nella maniera sbagliata. Lo dico con l’esperienza dei miei 81 anni (li ha festeggiati il 5 agosto ndr). Eravamo la generazione della Guerra fredda, oggetti e non soggetti di scelte che passarono sopra le nostre teste. Senza nemmeno accorgersene, fummo indotti a pensare che appartenere al blocco occidentale, un sistema difettoso, ma che comunque garantiva giustizia e libertà fosse la scelta obbligata e migliore. Perché dall’altra parte c’era una tirannia. Ed era vero”. 

Però? 

“La costruzione del Muro da parte dei tedeschi dell’Est su decisione del Patto di Varsavia apparve l’ennesimo atto dispotico del blocco comunista. Ma non riflettevamo – non solo io che a quell’età leggevo Salgari e non trattati di politica, ma l’intera opinione pubblica occidentale – che il blocco dei ’cattivi’, dei paesi comunisti altro non era che la risposta alle scelte che l’America aveva fatto già in tempo di guerra. A cominciare dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki che colpirono e distrussero sì, il Giappone, ma è come se fossero state sganciate direttamente su Mosca. In maniera acritica, pensavamo che gli americani avessero sempre ragione e che gli altri fossero il Male”. 

E invece? 

“In realtà entrambi, Usa e Urss facevano il proprio interesse. Che era anche quello di controllare l’Europa. Coi paesi dell’Est obbligati a obbedire e noi e i tedeschi senza mani libere: Adenauer e De Gasperi, avendo perso la guerra, non avevano margini di movimento. Un po’ di più, ma non troppo Francia e Inghilterra”. 

L’America ci conservò liberi. Anche dalle minacce del Comunismo. 

“A salvare l’Italia dalla rivoluzione non fu Bartali. Fu Stalin, che volle rispettare gli accordi di Yalta. Stalin in Italia era rappresentato da un uomo del quale si potrà dire ciò che si vuole, ma che aveva un intuito politico finissimo”. 

Togliatti. 

“Appunto. Che frenò le smanie di Secchia e Longo, ottusi che vedevano poco oltre i propri occhi e si erano illusi che l’Italia sarebbe passata al Comunismo, seguita da Francia e Spagna. Ma i carri armati a Trieste avrebbero riacceso la guerra e il primo a non volerla fu Stalin”. 

Senza l’America, L’Italia dove sarebbe stata? 

“Lei mi chiede cosa pensavamo allora, io le rispondo cosa penso oggi, rileggendo quegli anni. Allora, Mosca invadeva l’Ungheria, Pio XII scomunicava il Pci, ma nessuno batteva ciglio se gli Usa s’imbarcavano nella guerra di Corea e quando gli americani si fecero consegnare dai francesi il testimone per combattere in Vietnam, anch’io definivo il loro esercito come i ’nostri soldati’. E lo facevano anche le parrocchie, i cattolici”.

Joan Baez, i cantanti marcavano la differenza. 

“Certo, dissenso ce ne fu. Ma oggi, da europei, dobbiamo riflettere che Usa e Stalin per quanto nemici nella Guerra Fredda, puntavano entrambi a non far unificare o almeno unire, l’Europa, mantenerla divisa e sotto il loro controllo. Oggi, ne scontiamo gli effetti. Ci ritenevamo figli dell’America ed era vero, ma avevamo una visione ingenua”. 

Lei, da giovanissimo simpatizzante di destra, da quale altra parte avrebbe dovuto stare? 

“Dai tredici ai sedici anni ebbi un momento, di originalità. Mi iscrissi al Msi. Inebriato dai discorsi sociali che ascoltavo in pubblico, ma presto restai deluso dal ruolo di stampella della Dc che quel partito recitava in Parlamento. Il Msi bocciò l’esercito europeo, che la Francia stava propugnando e lasciò che il nostro esercito fosse nella Nato. Anzi, fosse la Nato. Per me una delusione”. 

Oggi, la destra italiana è sovranista. 

“Sempre che abbia un senso parlare di destra e sinistra – penso al Pd – non ci sono spazi, ormai restano margini limitatissimi di sovranità”.

Valgono ancora gli schemi del 1945 e del 1961? 

“Abbiamo in testa una gran confusione. Simpatizziamo per gli ucraini, considerandoli patriottici rispetto alle mire di Mosca e riteniamo secessionisti gli abitanti della Crimea che sono russi figli di russi costretti a vivere sotto l’Ucraina. Parimenti, a parità di sistemi politici, definiamo presidente il leader africano che sta dalla parte che ci piace e dittatore quello che non ci piace. Chiamiamo Maduro dittatore e Bolsonaro presidente. Per Draghi, invece, dittatore è Orban. Le dico cosa penso: se proprio fossi costretto a scegliere fra Orban e Bolsonaro, se proprio non ci fossero alternative, preferisco finire sotto Orban”. 

E il Muro? 

“Preferisco constatare che sia caduto”. 

I tanti muri che restano nel mondo. A sessant’anni dalla costruzione del Muro di Berlino, simbolo della divisione del mondo in due blocchi, est e ovest, barriere di sicurezza e di separazione sono ancora in piedi in vari angoli del mondo, mentre la crisi dei migranti è stata segnata dal ritorno dei muri – oltre che negli Stati Uniti – anche in Europa, da Calais, all’Ungheria alla Slovenia fino alla Lituania. Che – nel quadro delle tensioni con la vicina Bielorussia, che la accusa di aver ospitato diversi esponenti della sua opposizione – ha annunciato che costruirà un muro alla frontiera tra i due paesi per arginare l’arrivo di migranti dall’Africa e dal Medio Oriente, rinfacciando al vicino di “strumentalizzare la migrazione irregolare”.

Di seguito tutti i muri nel mondo: 

Arabia Saudita

Riad ha costruito un muro di cemento al confine con lo Yemen, equipaggiato con le più sofisticate e moderne apparecchiature elettroniche di sorveglianza. Il muro dovrebbe ‘proteggere’ il paese dagli immigrati provenienti dallo Yemen. Le autorità saudite hanno anche annunciato la costruzione di quasi 900 chilometri di barriere e posti di controllo a difesa dalle infiltrazioni jihadiste dello Stato Islamico dall’Iraq. 

Cipro 

Nei primi anni Sessanta le violenze tra turco e grecociprioti portarono ad un intervento dell’Onu e alla messa a punto di una linea del cessate il fuoco. Le forze turche invasero ed occuparono la parte nord dell’isola nel 1974 dopo il golpe dei grecociprioti appoggiato dalla Grecia. Ciò che era conosciuta come la linea verde divenne una vera barriera con 180 chilometri di filo spinato, e una "no man’s land" di larghezza variabile, dai 3 metri nel centro della capitale ai 7,5 chilometri nel villaggio di Athienou. Il confine è stato riaperto nel 2003. 

Cisgiordania 

La barriera di separazione israeliana è un sistema di barriere fisiche costruito da Israele in Cisgiordania a partire dalla primavera del 2002 sotto il nome di security fence allo scopo d’impedire fisicamente l’intrusione dei terroristi palestinesi dopo la stagione degli attentati suicidi in Israele. Questa barriera, il cui tracciato di circa 700 km è stato ridisegnato più volte a causa delle pressioni internazionali, consiste in una successione di muri, trincee e porte elettroniche. Il progetto ha suscitato grande controversia. Nel 2004 la barriera è stata definita illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja.

Sahara occidentale

Il muro marocchino è una struttura difensiva della lunghezza superiore ai 2.720 km, costruita dal Marocco nel Sahara Occidentale, per proteggersi dalle azioni del Fronte Polisario. La struttura difensiva è a tutti gli effetti una zona militare dove sono stati costruiti bunker, fossati, reticolati di filo spinato e campi minati. Ad est del muro, i territori Saharawi che contano migliaia di famiglie che vivono in tendopoli. Famiglie che a metà anni Settanta, dopo il ritiro della Spagna dai territori dell’ex Sahara spagnolo invaso da nord dal Marocco e da sud dalla Mauritania, si trovarono divise dal muro: fra componenti rimasti a ovest e quelli a est la stessa corrispondenza è avvenuta per anni con mezzi di fortuna. Le popolazioni Saharawi hanno ricevuto aiuti da associazioni e onlus italiane che hanno favorito il gemellaggio fra le tendopoli e numerosi comuni italiani e i piccoli saharawi hanno trascorso per anni l’estate ospiti di famiglie italiane. 

Irlanda del nord 

Le Peace Lines sono una serie di muri di separazione situati principalmente nella città di Belfast e di Derry. Hanno una lunghezza variabile (fino ai 4 km) e separano le zone in cui risiedono i cattolici quelle in cui risiedono i protestanti. I primi tratti di muro furono costruiti nel 1969 in seguito allo scoppio dei cosiddetti Troubles. I residenti di Short Strand, una parte cattolica di East Belfast, per difendersi dagli attacchi dei lealisti crearono dei muri di protezione che furono in seguito rinforzati e ai quali si aggiunsero nuovi tratti di barriere fino a raggiungere gli attuali 15 km di lunghezza. Negli ultimi anni sono diventati una sorta di attrazione turistica.

Ceuta e Melilla 

Nelle due enclavi spagnole situate in territorio africano, oltre lo Stretto di Gibilterra sono state edificate due barriere di filo spinato – rispettivamente di 8,2 chilometri a Ceuta e di 12 chilometri a Melilla – al confine con il territorio appartenente alla Spagna, per bloccare l’accesso in massa degli immigrati che vogliono raggiungere l’Unione Europea, di cui quel lembo dell’Africa nordoccidentale. Costruite alla fine degli anni Novanta, le barriere di filo spinato da allora sono state innalzate fino a raggiungere l’altezza di 6 metri.

Anche di recente Ceuta e la “gemella” Melilla sono state teatro di pressioni da parte dei migranti giunti dall’Africa centrale. Con disordini e tensioni (foto a lato) con le forze dell’ordine spagnole che presidiano territori. 

Thailandia-Malaysia 

Negli anni Settanta i due paesi hanno costruito muri e barriere lungo il loro comune confine, ufficialmente per frenare il contrabbando, in realtà anche per motivi di sicurezza rispetto alle attività dei gruppi comunisti della Malaysia e dei gruppi dell’insurrezione in Thailandia. Si trattava di muri di cemento, acciaio e filo spinato o in altri punti barriere di ferro. Nel 2001 i due paesi hanno concordato la costruzione di un unico muro situato in territorio thailandese. 

India-Pakistan 

La linea di demarcazione militare che divide India e Pakistan è chiamata “Linea di Controllo”, si estende per 3300 chilometri e dal 1949 divide la regione del Kashmir in due zone: quella sotto il controllo indiano e quella sotto il controllo pakistano. A partire dal 1990 l’India ha iniziato a costruire dal suo lato una barriera di separazione, completata nel 2004. 

Usa-Messico 

Il confine tra i due paesi è lungo 3. 200 km. Il governo americano ha costruito una barriera lungo una parte del percorso per bloccare l’immigrazione dal Messico ed altri paesi dell’America centrale. Le prime barriere sono comparse nel 1991 ma nel 1994 gli Stati Uniti hanno ufficializzato il rafforzamento delle operazioni di sorveglianza ed hanno ampliato il muro nel quadro della Operation Guardian.

“Così li aiutavamo a scappare verso la libertà”: gli ex ragazzi dell’Ovest raccontano i 60 anni dalla costruzione del Muro di Berlino. Nella notte del 13 agosto 1961 il regime sovietico iniziò l’edificazione di quel confine impenetrabile che separerà la Germania per 28 anni. Le testimonianze di quattro reduci e attivisti che architettarono la fuga degli amici dalla Ddr. Letizia Tortorello il 12 agosto 2021 su La Stampa. “Rubano i nostri bambini per attirare all’Ovest i genitori. Basta con i rapimenti!”. Dopo il 13 agosto 1961, la Ddr iniziò una propaganda serrata, che aveva tra le protagoniste Marlies Ernst. La piccola aveva 13 anni sessant’anni fa, e in quella tranquilla domenica d’agosto col cielo cupo a Berlino aveva avuto una sola colpa: andare a trovare i nonni dall’altra parte, nella Repubblica federale tedesca, la Berlino Ovest.

60 anni fa il comunismo si murò vivo. Marcello Veneziano il 12 agosto 2021. La cortina di ferro tra Oriente e Occidente calò il 13 agosto del 1961, perché d’agosto riescono meglio le cose più infami. Giusto sessant’anni fa. I berlinesi si trovarono d’un tratto divisi da un Muro eretto dal governo comunista di Pankow che segnò il cementificarsi della guerra fredda, lo spartiacque irrimediabile tra due mondi e due visioni del mondo. Per sopravvivere al confronto ed evitare perdite, il comunismo decise di murarsi vivo nei suoi confini. Un tentativo feroce di arrestare il flusso della modernità che valica muri e frontiere nel segno degli scambi e delle comunicazioni globali. Ma la divisione sancita dal Muro non era astratta, formale o solo ideologica, perché feriva una città e la sua vita reale, divideva famiglie, parentele, amicizie, spezzava progetti di vita e di lavoro. La drastica misura fu decisa dal blocco comunista per arginare l’esodo da est a ovest che stava assumendo proporzioni allarmanti. L’alibi per il Muro fu il solito, ancora attuale: ripararsi da un fantomatico pericolo fascista. Nessun altro regime autoritario e totalitario del Novecento ebbe bisogno di erigere muri alla frontiera per impedire che scappassero i suoi cittadini, nemmeno il feroce ed efferato regime nazista. L’unico che lo fece è il comunismo. Presentandolo a contrario, come “barriera protettiva antifascista” (la mistificazione della propaganda). Al di là di ogni opinione e di ogni ideologia, bastava quella fuga unilaterale, dalla Germania comunista alla Germania occidentale, per certificare il fallimento del regime comunista e del modello sovietico. Quell’emorragia andava fermata, a costo di versare altro sangue dell’esausta Germania, dopo la devastante esperienza della guerra mondiale in cui aveva perso milioni di vite umane, intere città distrutte, più la dignità e la sovranità, per via dei campi di sterminio e del nazismo. Dopo aver subito perdite enormi in guerra, non solo soldati ma città bombardate e campi di concentramento dove erano morti centinaia di migliaia di tedeschi, gravava sulle sue spalle pure l’infamia del razzismo e l’orrore della shoah. Quel muro giunse come una crepa ulteriore, l’infarto su un corpo già martoriato e un’anima lacerata. A dir la verità il Muro non giunse improvviso, anche se rapida fu la sua edificazione. Già nel dopoguerra, nel 1948, Stalin promosse il blocco di Berlino: timoroso di una rinascita tedesca, Stalin non si accontentò di smembrarla in zone d’occupazione, auspicando che la Germania fosse ridotta a nazione inerme ed agricola, senza velleità industriali che potevano essere pericolosamente riconvertite in industria bellica. La richiesta di Stalin non era sgradita alle potenze occidentali; Churchill aveva già proposto la neutralizzazione tedesca; e gli americani sapevano che solo una Germania debole avrebbe consentito agli Usa di esercitare un ruolo egemonico sul continente europeo. Dieci anni dopo il blocco di Berlino, anche i leader sovietici Krusciov e Gomulka attaccarono violentemente la Germania federale e si opposero all’ipotesi di libere elezioni in tutta la Germania che sancissero la riunificazione tedesca. Le libere elezioni avrebbero infatti segnato con ogni probabilità la sconfitta del partito comunista tedesco e dunque la liquidazione del controllo sovietico nella Germania orientale. Anche se all’est, alle ultime elezioni, nel 1958, il 99.87 % dei tedeschi orientali aveva votato per il listone nazionale comunista; ma, piccolo particolare, non c’erano liste alternative… Prevalse così l’idea di tenere le due germanie divise fino a quando si giunse all’innalzamento del muro; odioso per tutti gli uomini liberi ma in fondo non dispiaceva alle potenze occidentali. Per lunghi anni ha fatto scuola nei paesi occidentali la convinzione ben riassunta da Andreotti che spiritosamente e cinicamente sosteneva: “Amo la Germania a tal punto che preferisco averne due anziché una sola”. Il timore di un gigante tedesco nel cuore dell’Europa non riguardava in effetti solo il mondo sovietico. Anche negli Stati Uniti e in Europa preoccupava il gigante tedesco. E tuttavia fu memorabile il discorso di Kennedy a Berlino e la sua dichiarazione di sentirsi berlinese. Colpirono gli eccidi, in particolare nell’agosto del 1962, che perpetrarono i vopos contro i tedeschi orientali che cercavano di superare il filo spinato. La collera popolare salì con la tensione internazionale, mentre l’Urss celebrava la sua potenza festeggiando a un anno esatto dall’innalzamento del Muro l’impresa degli astronauti Nicolajev e Popovic. Colpì in modo particolare il sacrificio di un ragazzo di 19 anni, Peter Fechter, che fu lasciato morire dissanguato ai piedi del Muro che aveva cercato di valicare. Dei paesi dell’Est la Germania orientale fu tuttavia il paese meno inefficiente, più competitivo, non solo nei giochi olimpionici. Neanche il comunismo e lo statalismo riuscirono del tutto a smantellare una struttura e una mentalità venute da lontano. Ci vollero altri 28 anni, e altre centinaia di vittime, per veder cadere quel Muro e così vedere ricomposta Berlino, la Germania e l’Europa. Quando cadde quel muro ci si accorse che non divideva solo due Stati, due regimi, due mondi politici, ma perfino due epoche: era come se il tempo nella Germania est fosse andato più lentamente, ridotto a una marcia forzata. Era rimasta più Prussia, più Terzo Reich nella Germania comunista. A novembre ricorderemo la caduta del Muro, a cui poi seguì il collasso del comunismo sovietico, la fine del mondo bipolare, l’avvento del Nuovo Ordine Mondiale, la globalizzazione e l’Unione europea. Ma prima di ricordare quel crollo, va ricordata la sua erezione, pensata come perpetua. Alla fine durò “solo” ventotto anni. Oggi si parla tanto dell’infamia dei muri, salvo dimenticare il Muro più infame di tutti, eretto quel 13 di agosto a Berlino. 

·        Schengen e Frontex. L’Abbattimento ed il Controllo dei Muri.

Che cos’è il Trattato di Schengen. Mauro Indelicato su Inside Over il 21 novembre 2021. Con l’espressione trattato di Schengen ci si riferisce in realtà a una serie di norme e disposizioni, racchiuse nel cosiddetto “acquis di Schengen”, volte a favorire la libera circolazione di merci e persone all’interno dell’Unione Europea. I Paesi aderenti non presentano, nei tratti di confini in comune, barriere doganali e posti di frontiera.

L'accordo del 1985

Il primo embrione del futuro trattato di Schengen risale al 1985. Il 14 giugno di quell’anno, nel comune lussemburghese di Schengen, viene firmato un accordo tra l’unione doganale del Benelux (comprendente Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), la Francia e la Germania.

L’accordo rappresenta un trattato internazionale valevole tra i cinque Paesi firmatari. Con questo documento i rispettivi governi si impegnano a rimuovere ogni ostacolo alla libera circolazione di mezzi e persone. Si assiste quindi all’eliminazione dei controlli alle frontiere e alla rimozione delle barriere doganali.

Per spostarsi da uno degli Stati firmatari a un altro non servono più passaporti o permessi. L’accordo va nella direzione di una maggiore integrazione europea. Sotto il profilo politico infatti in quel frangente si inizia a parlare di mercato unico europeo e la Comunità Economica Europea (Cee) pianifica interventi riguardanti l’intero spazio di sua competenza.

La convenzione del 1990

Sulla scia dell’accordo del 1985 si arriva alla firma del trattato, il cui nome ricalca quello della cittadina lussemburghese in cui è stato siglato il primo documento, del 1990. I cinque Paesi aderenti all’accordo del 1985 in tal modo siglano una convenzione in cui sono contenuti i principi chiave delle normative di Schengen. In tal modo vengono fissate anche le regole per un prossimo allargamento dello spazio di libero scambio.

Nel settembre 1990 è l’Italia ad aderire alla convenzione, seguita poi l’anno dopo da Spagna e Portogallo. Nel 1992 è la volta della Grecia, nel 1995 dell’Austria. Entro il 1996 tutti i Paesi dell’Unione Europea aderiscono a Schengen, eccezion fatta per Regno Unito e Irlanda. Il 19 dicembre 1996 ad aderire sono anche i primi Stati extra Ue, ossia Islanda e Norvegia.

Con la convenzione del 1990, cuore delle norme che compongono l’intero acquis, oltre ai principi di libera circolazione vengono sanciti anche altri punti fondamentali. Ossia la collaborazione comune nel controllo delle frontiere esterne, così come lo scambio di informazioni tra la varie polizie per il contrasto alla criminalità.

Nel 1990 dunque il sistema di Schengen assume grossomodo gli odierni connotati. I Paesi aderenti condividono uno spazio libero comune e gestiscono sia le frontiere esterne all’Ue che le informazioni anti terrorismo e anti criminalità. Un punto quest’ultimo divenuto, nei primi anni 2000 con l’avanzata del fenomeno del terrorismo islamico, molto delicato. Anche se non sempre lo scambio di informazioni tra polizie e servizi di intelligence dei Paesi aderenti a Schengen si è dimostrato continuo e costante.

In che modo Schengen è diventato operativo

Tuttavia l’accordo del 1985 e la convenzione del 1990 non rendono immediatamente operative tutte le disposizioni previste dai documenti. Per completare il percorso di quello che verrà poi comunemente indicato come “trattato di Schengen”, servono altri passaggi interni ai Paesi aderenti.

L’ingresso nel club di Schengen non è automatico con l’adesione di uno specifico governo. Devono, prima del definitivo via libera, essere previsti precisi requisiti politici ed economici.

Nei primi cinque Paesi firmatari dell’accordo del 1985, il trattato del 1990 entra in vigore il 26 marzo 1995. L’Italia diventa a tutti gli effetti un membro dell’area Schengen nel 1997. Negli anni successivi tutti i vari governi all’epoca nell’Ue vedono l’entrata in vigore delle norme.

Un importante passo normativo nell’attuazione degli accordi si ha con il trattato di Amsterdam del 1997. Nel documento l’accordo del 1985 e la convenzione del 1990 diventano parte integrante del diritto dell’Unione Europea. La decisione viene ratificata con l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam, avvenuto il primo maggio 1999, e con la decisione 1999/435/CE del Consiglio Europeo. Da questo momento in poi l’acquis di Schengen, noto come trattato o come “sistema Schengen”, diventa uno dei principali regolamenti europei.

Gli organismi

Nei primi anni di vita, l’applicazione delle norme fondamentali di Schengen vengono demandate a un apposito comitato esecutivo. A capo di tale comitato vi è un segretario, scelto dai vari Paesi membri dell’area di libero scambio. La situazione muta dopo l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam. Da quel momento in poi, al comitato esecutivo subentra direttamente il Consiglio Europeo.

Sono quindi le massime istituzioni comunitarie a monitorare l’applicazione dei principi di Schengen e l’attuazione del trattato. All’interno dei singoli Stati esistono poi delle istituzioni o degli enti preposti al controllo dell’attuazione delle norme del sistema Schengen. In Italia tale compito è demandato al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione. Si tratta di una commissione bilaterale in cui siedono membri sia della Camera che del Senato.

Chi ha aderito al Trattato di Schengen

Attualmente sono 26 i Paesi che applicano al loro interno le disposizioni del trattato di Schengen. Si tratta di 22 governi membri dell’Unione Europea e 4 Stati extra Ue. In quest’ultimo gruppo si trovano Islanda, Norvegia, Svizzera (dal 16 ottobre 2004) e Liechtenstein (dal 28 febbraio 2008). I Paesi Ue sono invece Belgio, Paesi Bassi, Francia, Germania, Lussemburgo, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia, Estonia, Lituania, Lettonia, Slovenia, Polonia, Repubblica Ceca, Malta, Ungheria e Slovacchia. L’Irlanda non ha mai aderito a pieno titolo, così come la Gran Bretagna. Quest’ultima poi con l’uscita dall’Ue nel 2019 ha definitivamente lasciato l’area di libero scambio. Ci sono poi quattro Paesi Ue che hanno aderito a Schengen dal momento del loro ingresso in Europa, ma in cui le norme attualmente non vengono applicate in quanto i parametri previsti dal trattato non sono soddisfatti. Si tratta di Bulgaria, Romania, Croazia e Cipro. Per loro non è al momento prevista una data di definitivo ingresso nell’area di libero scambio.

I casi di sospensione del Trattato

I documenti che compongono l’acquis di Schengen prevedono anche casi eccezionali di sospensione delle norme di adesione al trattato. In particolare, qualora uno Stato membro ravvisa pericoli per la propria sicurezza nazionale ha facoltà di reintrodurre i controlli doganali e alle frontiere. In Italia è accaduto in tre occasioni, ossia per il G8 di Genova del 2001, per il G8 de L’Aquila del 2009 e per il G7 di Taormina del 2017.

Austria, Danimarca, Germania e Ungheria a varie riprese, durante l’emergenza immigrazione del 2015 e del 2016, hanno interrotto l’applicazione del trattato di Schengen. La Francia, in occasione degli attacchi terroristici del novembre 2015, per alcune settimane ha previsto lo stato di emergenza e, nel pacchetto di norme varate dall’Eliseo, vi era anche la temporanea reintroduzione dei controlli alle frontiere. Nel corso degli ultimi anni, per motivi di sicurezza anche Svezia, Norvegia, Malta, Danimarca e Polonia hanno fatto ricorso alla sospensione delle norme di Schengen,

Durante l’emergenza sanitaria legata al coronavirus invece si è arrivati all’unico caso in cui il trattato è stato sospeso su tutto il territorio comunitario. Il 17 marzo 2020 infatti il Consiglio Europeo ha deciso di ripristinare temporaneamente i controlli nelle frontiere interne all’Ue. Una misura poi tolta nel maggio successivo con la fine del primo periodo di lockdown.

Che cos’è Frontex. Mauro Indelicato su Inside Over il 21 novembre 2021. Frontex è un’agenzia europea il cui compito è quello di controllare le frontiere esterne degli Stati dell’Unione Europea e di quelli aderenti al trattato di Schengen. Istituita nel 2016, il suo nome è legato all’emergenza immigrazione degli ultimi anni e all’aumento di ingressi illegali di migranti nell’Unione Europea. Frontex viene del resto fondata proprio per tentare di dare una risposta comune da parte dell’Ue all’annosa questione riguardante i profughi.

La prima agenzia Frontex del 2004

Il primo tentativo di costituire un’agenzia preposta al controllo delle frontiere risale al 2004. In quel periodo l’immigrazione inizia ad essere un fenomeno molto avvertito, specialmente lungo le coste meridionali dell’Europa. In Sicilia sono diversi gli sbarchi in estate, così come si contano già molti naufragi.

Con il regolamento Ce 2007/2004, il 26 ottobre il Consiglio europeo vara la nascita di Frontex. Il nome è lo stesso dall’agenzia che, diversi anni dopo, ne prende il posto. Il primo stanziamento a favore del nuovo ente è di 35 milioni di Euro, raddoppiato progressivamente negli anni successivi. Un fatto significativo è la scelta della sede. Gli uffici principali vengono infatti stanziati a Varsavia. Oltre a rappresentare il fronte principale da cui l’Ue vuole guardarsi a livello migratorio, ossia quello orientale, la capitale polacca è la prima città ad ospitare un’agenzia europea tra i Paesi di recente ingresso nella comunità.

Il compito di Frontex ufficialmente è quello di coordinare le varie polizie e e guardie di frontiera dei Paesi Schengen per ridimensionare il fenomeno migratorio e prevenire nuove stragi. Vengono varate alcune missioni di controllo e monitoraggio dei confini, sia marittimi che terrestri. Con i bilanci Ue di fine anni 2000 e inizio anni ’10, vengono stanziate nuove somme e l’agenzia viene dotata, secondo i dati ufficiali, di 22 aerei, 26 elicotteri e 113 navi, oltre ad attrezzature radar e di ricerca.

La nascita della nuova agenzia Frontex nel 2016

I risultati però tardano ad arrivare. In primo luogo la gestione dell’emergenza immigrazione rimane confinata in gran parte ai singoli Stati che subiscono il fenomeno. In secondo luogo i numeri dimostrano che dopo la nascita di Frontex non sono diminuite né le partenze verso l’Europa e né le tragedie. Complice la primavera araba del 2011, soprattutto dal Mediterraneo i dati sugli arrivi di migranti salgono vertiginosamente.

Il 3 ottobre 2013 avviene il naufragio mediaticamente più seguito della storia recente. A Lampedusa un barcone con più di 400 persone a bordo e muoiono più di 300 migranti. Da allora si intensificano le pressioni affinché l’Europa intervenga con più incisività. Quando poi tra il 2015 e il 2016 esplode anche la crisi della rotta balcanica, con migliaia di siriani che scappano dalle grinfie dell’Isis per rifugiarsi in nord Europa passando per Turchia, Grecia e i Balcani, si decide di archiviare la precedente agenzia e dare vita a una nuova Frontex.

Istituita il 14 settembre 2016 con regolamento 2016/1624, il nuovo ente mantiene la sede a Varsavia ed entra ufficialmente in operatività. Per la sua creazione, vengono presi come base gli articoli 77 e 79 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Il primo attribuisce in capo all’Ue il potere di “adottare una legislazione per l’istituzione progressiva di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne”, il secondo invece dà mandato alle istituzioni comunitarie la possibilità di “mettere in atto delle leggi concernenti il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi residenti illegalmente nel territorio dell’Unione”.

Vengono stanziati circa 250 milioni di Euro, che entro il 2020 diventano poi oltre 300. Frontex parte da una base di 400 tra impiegati e funzionari, con l’intento di arrivare poi a 1.000 entro il 2020.

Gli obiettivi di Frontex

Al momento della costituzione della nuova Frontex nel 2016, la Commissione ha enunciato alcuni dei principali obiettivi cui deve farsi carico l’agenzia. In primo luogo, quello di “provvedere a una valutazione delle vulnerabilità per quanto riguarda la capacità di controllo delle frontiere da parte degli Stati membri”. Occorre cioè monitorare, soprattutto nelle stagioni più calde sul fronte migratorio, in che modo uno specifico governo dell’Ue sia in grado di gestire un’eventuale emergenza.

Si parla di oltre dell’organizzazione di “operazioni congiunte e interventi rapidi alle frontiere per rafforzare la capacità degli Stati membri di controllare le frontiere esterne”. C’è poi il punto circa l’assistenza alla Commissione nel “coordinamento delle squadre di supporto quando uno Stato membro si trova ad affrontare pressioni migratorie sproporzionate”. Inoltre Frontex deve assicurare “assistenza tecnica e operativa a sostegno delle operazioni di ricerca e salvataggio delle persone bisognose di soccorso in mare durante le operazioni di sorveglianza di frontiera”.

Al fianco di queste mansioni, ci sono poi quelle relative all’addestramento e alla creazione di una riserva di rapido intervento europea, all’assistenza degli Stati membri negli interventi di rimpatrio dei migranti irregolari e alla promozione della collaborazione tra Stati Ue e Stati terzi in materia di gestione delle frontiere.

L'organizzazione di Frontex

L’agenzia ha un proprio organigramma e una propria dirigenza, capeggiata dal direttore esecutivo Fabrice Leggeri. Quest’ultimo, di nazionalità francese, era già a capo della precedente agenzia Frontex.

Al di sotto del direttore esecutivo vi è un consiglio di amministrazione composto da 28 membri, uno per ogni Paese Ue aderente al trattato di Schengen, più due rappresentanti dell’Ue. All’interno del consiglio siedono anche rappresentanti di Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera in quanto aderenti all’area Schengen. Non essendo però appartenenti all’Ue, tali membri hanno diritto di voto limitato. Regni Unito e Irlanda, per scelta dei governi antecedente alla formazione della prima agenzia Frontex, inviano al consiglio d’amministrazione dei propri osservatori senza diritto di voto.

A Varsavia l’agenzia ha i propri funzionari e impiegati. Sul campo Frontex si avvale dei corpi di polizia e delle guardie di frontiera dei vari Paesi membri, coordinando con loro le azioni di controllo, monitoraggio e soccorso. La nuova Frontex ha la possibilità di acquistare propri mezzi, dotandosi quindi di una propria flotta di navi o aerei. Gli Stati di bandiera presso cui sono registrati tali mezzi, hanno l’obbligo di renderli immediatamente disponibili all’agenzia in caso di necessità.

Nel 2019 inoltre la commissione europea vara la nascita di un Corpo Permanente Europeo. Si tratta di agenti armati a disposizione di Frontex. Le prime unità dovrebbero essere operative entro il 2021. In totale il Corpo Permanente Europeo dispone di duemila uomini, ma la cifra potrebbe essere incrementata nei prossimi anni.

Le missioni a cui partecipa l'agenzia

Nel Mediterraneo Frontex ha al momento operative almeno tre missioni. Si tratta della Themis, della Poseidon e della Indalo. La prima ha come base il Mediterraneo centrale ed è sorta nel 2018 in sostituzione della Triton, avviata nel 2014. La seconda e la terza invece riguardano il Mediterraneo orientale e occidentale. Mezzi e agenti di Frontex in questi tre casi coadiuvano le autorità costiere locali nel monitoraggio dei tratti di mare interessati dal fenomeno migratorio. A breve dovrebbe partire un’operazione, con l’impiego di propri agenti, anche lungo il confine tra Grecia e Turchia.

Le recenti critiche a Frontex

Nel corso degli anni l’agenzia è stata spesso al centro di critiche. All’interno del parlamento europeo c’è chi ha valutato inefficiente la sua azione e c’è chi, al contrario, l’ha considerata troppo dura. Nel primo gruppo di detrattori rientrano coloro che hanno posto l’attenzione sul continuo aumento di flussi migratori e sulle situazioni di persistente emergenza che si hanno nei vari fronti più caldi.

Nel secondo invece rientrano i gruppi parlamentari dei Verdi e dei Socialisti e Democratici che, appoggiati dalle Ong e da diverse associazioni, hanno accusato Frontex di aver aiutato le autorità greche a respingere illegalmente centinaia di migranti durante la crisi dei rifugiati esplosa nel gennaio 2020. Accuse mosse soprattutto a seguito di un’inchiesta di Der Spiegel e The Guardian. In quell’occasione alcuni deputati hanno avanzato anche la possibilità di una richiesta di dimissioni di Fabrice Leggeri.

Le prospettive future dell'agenzia

Nonostante le critiche, Frontex nei prossimi anni dovrebbe essere potenziata. Leggeri, in un’audizione dinnanzi la commissione Schengen del parlamento italiano, ha dichiarato della possibilità di nuovi arrivi tra gli agenti dell’agenzia e di un ulteriore incremento della dotazione di armi e mezzi. L’apertura di un nuovo fronte migratorio in Bielorussia nel 2021 e lo spettro di una ripresa dell’immigrazione dall’Afghanistan dopo l’arrivo dei talebani a Kabul, stanno spingendo l’Unione Europea ad applicare misure di controllo più severe lungo i confini. Da qui una maggior presa in considerazione di Frontex. 

 Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Gli stranieri ci rubano il lavoro? Non è proprio così. Ecco cosa ci dice Eurostat. Le iene News il 13 febbraio 2021. In Europa i lavoratori stranieri hanno maggiore probabilità di essere sovraqualificati rispetto ai lavoratori locali. Questo è quanto emerso dagli ultimi dati dello scorso 26 gennaio di Eurostat. Nella classifica dei paesi con il tasso più alto di stranieri sovraqualificati l'Italia si colloca al secondo posto, dopo la Grecia. Sempre in Italia i lavoratori stranieri hanno il doppio della probabilità di essere sovraqualificati rispetto a un cittadino italiano. Un grande mito: gli stranieri vengono in Italia a rubarci il lavoro. Un mito, appunto, perché le cose non stanno proprio così. Andiamo con ordine: un lavoratore è considerato sovraqualificato quando occupa una posizione che richiederebbe una qualifica o un titolo di studio inferiore a quello in suo possesso. Stando al report pubblicato lo scorso 26 gennaio da Eurostat, nei paesi membri dell'Unione europea gli stranieri hanno più probabilità dei cittadini nazionali di essere sovraqualificati rispetto alla mansione che svolgono. Nel 2019 il tasso di sovraqualificazione in Ue era pari al 44% per i cittadini stranieri, 33% per i cittadini provenienti da altri stati membri e 21% per i cittadini nazionali. È la Grecia il paese con la quota più alta di cittadini stranieri (extra Ue) sovraqualificati con il 78%, seguita da Italia (68%) e Spagna (62%). Per quanto riguarda i lavoratori sovraqualificati provenienti da altri stati membri, al primo posto c’è l’Italia a pari merito con Spagna e Cipro (ognuna al 50%). Mentre, per quanto riguarda i cittadini nazionali sovraqualificati al primo posto troviamo la Spagna (35%), seguita da Grecia (32%) e Cipro (31%). In Italia il 19% dei cittadini nazionali risulta essere sovraqualificato rispetto alla mansione che ricopre (dato al disotto della media europea). La maggiore discrepanza tra il tasso di sovraqualificazione dei cittadini extracomunitari e dei cittadini nazionali è stata registrata proprio in Italia (49,6%); ciò vuol dire che un cittadino straniero in Italia ha il doppio della probabilità di trovare un lavoro al di sotto della propria qualifica rispetto a un cittadino italiano. L'Italia è al primo posto anche per quanto riguarda il distacco tra lavoratori sovraqualificati provenienti da un altro stato membro dell'Ue e i cittadini nazionali (32,4%). Secondo l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) questa disparità è dovuta principalmente alla mancanza di adeguate competenze linguistiche. I maggiori ostacoli che gli extracomunitari trovano nella ricerca del lavoro, tra cui anche la necessità di ricevere un permesso di soggiorno, li rendono maggiormente propensi ad accettare lavori al di sotto delle loro capacità e che i cittadini autoctoni non sono interessati a fare. Infine, il report pubblicato da Eurostat mostra anche che le donne sono generalmente più sovraqualificate rispetto agli uomini, indipendentemente dalla loro cittadinanza. 

·        Quei razzisti come…

L'errore di chi confonde le differenze con la "diversità". Luca Doninelli il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Parlare di Alain Finkielkraut in Francia significa schierarsi. Se sei d'accordo con Finkielkraut, sia pure su un singolo argomento, ti trovi a far parte di un gruppo che pensa e dice tutta una serie di cose che un altro gruppo depreca e condanna, e questo ti segnerà, ti infetterà. Non succede solo in Francia. Esiste un tipo di infettività che oltrepassa le emergenze sanitarie quanto le esplosioni mediatiche: una specie di sordità selettiva e degenerativa che comincia con ciò che non ci interessa per estendersi - è cronaca - a tutto il resto. Insomma, leggi Finkielkraut? Allora sei di destra, sei con la Le Pen, sei con Zemmour.

Ciò nonostante, io sono convinto che leggere Finkielkraut, accettandone anche le intemperanze, sia una buona cosa (per tutti, anche per i suoi nemici) per la ragione opposta: la lucidità tutta illuminista con la quale questo grande allievo di Roland Barthes ci aiuta a riconoscere le trappole culturali: anche quelle di chi si vorrebbe suo compagno di strada.

Il suo ultimo libro, uscito in Francia e di prossima pubblicazione in Italia, ha per titolo L'après littérature, ossia «La post-letteratura» (Stock, pagg. 230, euro 19,50). Il libro è come sempre molto «francese», si riferisce a fatti di cronaca a noi spesso ignoti e va letto tra le righe.

Tema centrale è, secondo me, lo smarrimento del senso delle parole. La prima di queste parole è «differenza». Parola difficile, pericolosa, impossibile da maneggiare fuori da un serio esercizio del pensiero. La società è fatta di differenze: io non sono te, e il «noi» è un equilibrio difficile, del quale il nostro tempo sembra del tutto ignaro, nel nome di sentimenti indiscutibili. La differenza discrimina, eccome.

«Il nostro tempo, sganciato dalla saggezza degli Antichi, non conosce altra legge del proprio stesso slancio compassionevole». Alla difficile «differenza» subentra la facile «diversità», debole di pensiero e generatrice di diktat morali. La cultura che la nostra civiltà ha generato non viene più interrogata, celebriamo Dante e Shakespeare, Eschilo o Rembrandt senza chiedere loro nessun lume.

La ragione è semplice e terribile: «Essi non hanno bisogno di compiere un lungo percorso per accedere alla verità, perché sono convinti di possederla già». In America la chiamano cancel culture. Una sottile linea nazista, alimentata dall'ignoranza, attraversa gli opposti schieramenti. La Storia non ha nulla da insegnarci, siamo noi i suoi giudici. In nome del tutto è cultura si cancella la cultura, si aboliscono le gerarchie, si eliminano i maestri.

Diverse pagine del libro sono dedicate alla battaglia per l'emancipazione femminile. Dove sta il nemico? Non tanto nei contenuti di una battaglia sacrosanta, ma nel presunto unanimismo, che produce un discorso povero (anche sul piano linguistico) e urlante.

La ragione si presenta come economica: tutto deve essere ridotto a qualcosa che si possa comprare e vendere. Il me too (fatti salvi gli aspetti penali) appartiene, come molte altre cose - io ci metto anche il sovranismo - a questa legge mercantile. Il problema è però ideologico, non economico. La riduzione del mondo (e delle sue infinite differenze, che secondo Aristotele costituiscono la fonte stessa dell'umana conoscenza) a qualcosa che si possa acquistare o vendere (compreso l'utero di una donna) non riguarda in primis i soldi, ma il pensiero.

La ricchezza degli Antichi era melanconica: si poteva acquistare la bellezza di un fiore, il suo profumo, il sorriso di un bambino? Ma il principio ideologico ha azzerato la poesia e la bellezza, anche se celebriamo Dante dalla mattina alla sera. La poesia del mondo è cosa da boomer, le parole d'ordine sono: tutela del pianeta, biodiversità, green eccetera. Tutte parole negoziabili, inseribili in un'agenda internazionale: a differenza dei gelsomini.

Ciò che resta fuori da ogni agenda? Che so, la crescita della fame nel mondo, il destino di popoli interi rimasti senza patria, la situazione dei vaccini nei Paesi poveri, e così via.

La nostra civiltà - dice Finkielkraut - ha eretto, contro la barbarie, due grandi baluardi: il Diritto e la Letteratura. L'uno e l'altra celebrano la Differenza - che comprende l'assoluta unicità di ogni singolo essere umano, la sua difficile giudicabilità, e la complessità dei corpi sociali. E l'uno e l'altra sono oggi in pericolo di estinzione sotto i colpi di un egualitarismo cieco.

Torna in mente Le urla del silenzio (1984) il film di R. Joffé, dove la furia ideologica dei khmer rossi giunge ad affidare ai bambini il ruolo di sorveglianti per catturare negli occhi delle persone anche il più piccolo bagliore di ribellione. Perché ai bambini? Perché non hanno memoria, non hanno passato, e quindi non hanno pietà.

Eppure, anche il nuovo mondo che sta sorgendo conosce le sue débâcles. Nonostante tutto, esso non procede compatto verso un futuro ecologico, paritario, green. E non per colpa di tutti i no-qualcosa che popolano il mondo, non per il rancore di chi non ha ricevuto dalla società un senso per cui vivere, e nemmeno per l'egoismo dei ricchi, ma per una contraddizione insita nel modello stesso.

Ne parla Finkielkraut a proposito delle pale eoliche. Le pale eoliche, deturpando l'ambiente che dovrebbero proteggere, sono il simbolo di una specie di nemesi del mito del Progresso, il sogno nato con «Cartesio e Bacon di renderci padroni e dominatori della natura per sconfiggere la fatalità e le miserie del genere umano».

Il brusio profondo del lavoro umano è sublime «nel suo sforzo concertato affinché la Terra non sia più una valle di lacrime (...) Ma ai nostri giorni, osserva il filosofo francese, la terra implora pietà mentre il cielo fa quello che gli pare. Più la tecnologia è performante e più l'avvenire è buio. Ieri vittorioso, il Progresso si è fatto compulsivo e incontrollabile. Tutto funziona e, a un tempo, tutto deraglia. Tutto dipende dall'uomo, perfino il meteo, e niente va come lui vorrebbe. La natura entra nella Storia, e non è una buona notizia, perché la locomotiva della Storia non ha più qualcuno che la guidi».

Chi sia questo «qualcuno» non sappiamo. Certo non è un leader politico, o un guru informatico. Forse, più modestamente, è quel riferimento ad Altro (il totalmente-altro, come lo chiamava Horkheimer) che la creazione di una città totalmente terrena, senza riferimenti oltre sé stessa (a dispetto di tutte le chiese, le moschee e le pagode) ha sempre cercato di cancellare, e che la poesia e l'arte non fanno che ripetere ad orecchie sempre più sorde.

Nel suo ultimo romanzo, citato da Finkielkraut, Nemesis, Philip Roth racconta di un uomo colpito da un dolore inaccettabile. Ma la delusione verso un Dio che non risponde all'assurdità dell'esistenza si trasforma in una delusione ancora più profonda: verso se stesso.

Abbiamo abbattuto Dio per innalzare l'Uomo, con la sua pretesa di chiarire tutto, di prevedere tutto, di spiegare tutto. Ne siamo usciti presuntuosi, violenti e soprattutto vuoti. Ci resta quello che Musil chiamava «il principio di ragione insufficiente»: ossia «la restituzione agli eventi del loro carattere fragile, fortuito, intempestivo, aleatorio». Luca Doninelli

"Massacravano i nativi". E il Wwf finisce sotto accusa. Gerry Freda il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. I guardiaparco pagati dal Wwf avrebbero perpetrato stupri, deportazioni e omicidi ai danni di decine di indigeni in Asia e in Africa. L'organizzazione ambientalista Wwf è finita sotto accusa negli Usa per le violenze e gli abusi commessi dai guardiaparco pagati dalla stessa ong e in servizio presso delle riserve naturali asiatiche e africane. A puntare il dito contro l'associazione sono state di recente le autorità Usa, con la Commissione Risorse Naturali del Congresso che ha denunciato le gravi carenze del Wwf nel controllare il comportamento dei ranger. Secondo gli accusatori, decine di indigeni sono stati vittime di "torture, deportazioni, stupri e omicidi" ad opera di guardiaparco in servizio presso oasi ecologiche in Nepal, Camerun e Repubblica Democratica del Congo. Quei ranger, anche se erano formalmente funzionari dei governi nazionali, erano però stipendiati dal Wwf e, di conseguenza, la Commissione del Congresso ha accusato il personale dell'ong di scarso controllo sui custodi delle oasi e di non avere minimamente provato a fermare gli abusi. La Commissione parlamentare Usa, presieduta dal deputato democratico Jared Huffman, ha quindi condannato con forza la mancata assunzione di resonsabilità da parte del Wwf riguardo alle violenze in questione. Proprio Huffman si è detto "frustrato, esasperato e incredulo" per l'atteggiamento mostrato dall'ong verso le sofferenze dei nativi vittime dei guardiaparco. L'organizzazione ecologista è stata inoltre accusata dal Congresso di non avere collaborato in maniera costruttiva con i titolari dell'indagine parlamentare, con questi ultimi che stanno sollecitando l'associazione a scusarsi e ad assumersi le proprie responsabilità circa la mancata vigilanza sui ranger, perché “il desiderio di evitare conflitti con i governi locali non può dispensare il Wwf dal rispettare i diritti umani”. L'ong ha reagito alle accuse lanciate dalla Commissione spiegando di non essere a conoscenza di quanto avveniva giorno per giorno nelle varie riserve naturali, dichiarando poi, tramite una nota: "Gli abusi commessi da alcuni ranger ci fanno inorridire e vanno contro tutti i valori che sosteniamo. Proviamo un dolore profondo e senza riserve per coloro che hanno sofferto. Siamo determinati a fare di più per far sentire la voce delle comunità, per far rispettare i loro diritti e per sostenere in modo coerente i governi affinché sostengano i loro obblighi in materia di diritti umani. La nostra convinzione è che le misure che stiamo adottando aiuteranno a salvaguardare le comunità e la natura da cui dipendono".

Da tuttomercatoweb.com il 9 ottobre 2021. Marco Materazzi risponde a Lilian Thuram dal palco del Festival di Trento. Thuram nelle scorse ore ha lanciato un appello: "I giocatori bianchi non devono stare zitti nella lotta contro il razzismo". Un appello a cui Materazzi, nel corso del suo intervento, ha replicato così: “Sono contro il razzismo, però Thuram non è mai uscito dallo stadio quando cantavano Materazzi figlio di puttana. Questa è la discriminazione, per il bianco, per il nero e anche per il figlio di puttana”.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 16 ottobre 2021.  Lilian Thuram entra al Salone di Torino con un libro rosso che si intitola «Il pensiero bianco» e prova a ridare un senso ai colori.  

Dovremmo smettere di definirci bianchi o neri? 

«Non è necessario eliminare i termini, ma vanno spiegati. L'identità ha una storia, dentro il nostro modo di definirci c'è anche una gerarchia e dal momento in cui lo capiremo le useremo sempre meno. I bambini non le usano affatto».  

Nel libro però si chiede come mai alle elementari i compagni bianchi la trattassero già diversamente. 

«Sì ma avevo nove anni. Quando ero ancora a Torino e il mio figlio più piccolo Khéphren aveva 4 o 5 anni gli ho chiesto "Sei l'unico nero nella tua classe?". Ha risposto: "Non sono nero, sono marrone e gli altri sono rosa"». 

Oltre i 5 anni che si fa? 

«Bisogna conoscere il passato. Le ultime generazioni si definiscono sempre meno per il sesso, chiamarsi uomo o donna non è mai stato un fattore neutro. Ora, dopo 60 anni di lotte e proteste quell'etichetta ha sempre meno significato».  

Quanto ci vuole per strappare le etichette bianco e nero? 

«Ce ne vuole. Siamo all'inizio della demolizione». 

Le hanno dato del razzista perché ha definito un modo di pensare bianco? 

«È successo. Normale, anche quando molte donne hanno iniziato a dire che certi film o romanzi hanno una percezione maschile, la maggioranza si è stranita e infastidita. Era uno sguardo nuovo e quindi destabilizzante».  

Qualcuno si è offeso per il suo libro? 

«Certi politici, quelli che difendono la supremazia bianca e sono tanti, ma non mi interessano loro, mi importa chi non è cosciente della gerarchia del colore. Considerarsi neutro significa rifiutare ogni responsabilità e non mettersi in discussione».  

In Italia come in Francia ci sono ondate di populismo. 

«In tutte le società ci sono persone che amano la violenza e oggi fanno meno fatica a farsi sentire».  

L'aggressività aumenta. 

«Veniamo da anni di crisi economica e in politica trovare un nemico è una soluzione. Il razzismo si perpetua nel tempo perché l'ideologia fascista si basa sul fatto che esiste un vincitore: tu sei meglio di lui e hai diritto a stare meglio».  

Eric Zemmour, opinionista e giornalista di ultra destra, cresce nei sondaggi per la presidenza francese senza neanche essere ufficialmente candidato. 

«Candidato o no lui rivela il razzismo del mio Paese. Fa discorsi violenti e c'è chi lo accetta. Lui fomenta l'odio e glielo lasciano fare perché tanti non sono toccati dai suoi discorsi. Sono bianchi». 

È legittimo che Zemmour possa tenere certi discorsi pubblici? 

«per i non bianchi no. Noi ci sentiamo minacciati. Quell'uomo invita a umiliare i non bianchi, i miei figli, i miei amici e invece di inorridirsi troppa gente ci fa sopra dell'ironia. In più mi dicono, "ma rappresenta il 10 per cento dei francesi". Pensiero bianco, i suoi discorsi sono un appello all'odio. Per accettarli bisogna essere bianchi». 

In Italia certi appelli all'odio hanno portato i no-vax a sfasciare la sede della Cgil. 

«Non sono sorpreso. Il problema sono quelli che legittimano questi appelli dandogli spazio».  

La sorprende almeno che ci sia qualcuno più a destra di Le Pen? 

«No, ho 49 anni e nulla mi sorprende». 

Quanti pensieri bianchi ha incontrato quando viveva in Italia? 

«Quando giocavo capitavano cori razzisti e i compagni bianchi mi davano pacche sulle spalle per dirmi che non era grave. Volevano farmi stare meglio ed era uno sbaglio clamoroso. Un pensiero bianco. In Italia, a ogni singolo problema di razzismo sembra che sia la prima volta. Mi fa impazzire quando dite: quelli che fanno buu non sono veri tifosi».  

Lo sono? 

«Certo: seguono una squadra, vanno allo stadio, si mettono la sciarpa. Sono tifosi. Leviamo di mezzo l'ipocrisia». Ne parlava con i compagni del Parma e della Juve? «Di tanto in tanto, ma non c'era troppa voglia di capire». 

Che si fa allora negli stadi? Due settimane fa, a Firenze, un gruppetto ha dato delle scimmie ai giocatori neri del Napoli. 

«Se vogliamo cambiare le cose la rivolta deve partire dai giocatori bianchi. Le donne hanno protestato per avere il diritto di voto, ma poi la legge chi l'ha riscritta? Gli uomini. Ed è uguale. Non si può chiedere ai giocatori neri che cosa bisogna fare, chiediamolo ai bianchi». 

Quando suo figlio Marcus ha iniziato a giocare ad alto livello gli ha fatto il discorso che si vede nei film su come reagire agli insulti? 

«Non ho aspettato che i miei figli iniziassero a giocare a calcio. Ho spiegato che cosa era successo quando erano bambini. Mi dicevano: "ma dai papà". Mi hanno dato ragione». 

Consiglierebbe a Marcus di giocare in Italia o c'è troppo razzismo qui? 

«Lui vuole una grande squadra e se la trova in serie A non c'è problema».  

Il portiere del Milan Maignan ha scritto su Instagram "Perché ci trattate come bestie?". 

«Quando lo scrive un giocatore bianco ne riparliamo».  

L'Italia agli Europei ha scelto di inginocchiarsi solo davanti alle squadre che avevano adottato quel gesto. 

«Ho vissuto qui, non mi aspettavo nulla di diverso. Vuol dire che la maggioranza di quei giocatori non si preoccupano di chi soffre le conseguenze del razzismo. Però non dicano che scelgono questo comportamento per non fare politica. Il calcio è politica. Non inginocchiarsi è politica».  

La Francia non si inginocchia mai. 

«E mi dispiace perché conosco il potere del calcio, io cresco con l'esempio di Muhammad Ali. Loro hanno deciso come squadra, non tutti avevano lo stesso pensiero».  

Come se ne esce? 

«Il razzismo è una trappola bisogna svegliarci: finisce così il mio libro. Invece di confrontarci sul colore della pelle smettiamo di lasciarci condizionare dai pochi che pensano di andare a vivere su un altro pianeta. Pensano: "Esauriamo pure le materie prime poi lasciamo le masse qui e noi super ricchi andiamo su Marte". La politica li asseconda invece di rispettare persone e natura». 

Vedrà Juve-Roma? 

«No, non ho visto mai la Juve quest' anno. So che va un po' meglio adesso, è una grande squadra e si riprenderà. Se si mette in discussione Allegri è il calcio, non la Juve, ad avere dei problemi».  

Il Psg con Messi, Neymar, Mbappé è doping finanziario? 

«Non è la prima volta che una squadra riunisce il meglio che c'è». 

La sua Juve era così? 

«Era fortissima. E da giovane ho visto il Milan di Gullit, Van Basten, Rijkaard, Baresi, Maldini. Vincono quasi sempre i più ricchi, per questo il calcio può influenzare la società: è uno specchio». 

Storia di due paesi. Le ragioni dell’odio tra Francia e Inghilterra, nazioni uguali e contrarie. L’Inkiesta l’1 ottobre 2021. Il caso dei sottomarini australiani ha fatto esplodere una tensione covata da tempo. Parigi e Londra hanno più somiglianze di quanto vogliano ammettere, storiche e politiche. Soprattutto devono confrontarsi (malvolentieri) con un mondo che le ha relegate in secondo piano e scelgono di farlo con strategie diverse. A far scoppiare tutto è stata la crisi dei sottomarini, l’alleanza AUKUS e l’estromissione della Francia dal campo d’azione del Pacifico. I rapporti tra Francia e Gran Bretagna sono complicati da secoli, ma la tensione delle ultime settimane ha contribuito a risollevare una rivalità mai sopita, forte anche delle decisioni strategiche degli ultimi anni: la Brexit prima di tutto e l’atteggiamento nei confronti dell’Europa e dei grandi protagonisti della scena globale. Come sottolinea questa analisi dell’Atlantic, per lo smacco dei sottomarini Parigi ha preferito concentrare i suoi attacchi a Stati Uniti e Australia, ma non ha lesinato critiche a un Regno Unito considerato «vassallo» dell’America, che ha rinunciato al club europeo per andare a fare «la ruota di scorta della politica oltreoceanica. Gli inglesi hanno preferito mantenere un atteggiamento diplomatico (almeno in pubblico: in privato era forte il loro disdegno per la posizione di Parigi sulla Brexit e lo scarso interesse dei suoi ambasciatori a mantenere buoni rapporti) fino a quando lo stesso premier Boris Johnson non ha deciso di rompere gli indugi: «È tempo per alcuni dei nostri amici più cari di “prenez un grip” sulla questione, “donnez-moi a break”» ha dichiarato ai giornalisti a Washington, dove ha incontrato il presidente americano Joe Biden. Non è la prima volta che utilizza l’espressione (già nel 2016 i francesi parlavano di controlli doganali a Calais e nel 2019 sulla decisione di sospendere il Parlamento inglese). In questo caso si tratta di una risposta esasperata alla reazione di Parigi, che lo ha stupito per «per la sua intensità». Senza dubbio, si tratta anche di un modo per irritare lo stesso presidente Emmanuel Macron.

Il registro delle accuse reciproche è noto: la Francia considera gli inglesi «opportunisti», disposti a qualsiasi accordo meschino per interesse, mascherandolo da «Global Britain». Londra dal canto suo fa riferimento al noto sciovinismo francese, l’anti-americanismo, la passione per la grandeur, la strategia – anche questa furbesca – di usare l’Europa come mezzo per guadagnare di nuovo importanza a livello globale. Eppure è innegabile che i due Paesi, che ora si odiano, siano in realtà anche molto simili. Non solo per parametri ovvi come la popolazione, la ricchezza, il comune passato imperiale. Ma anche per la portata globale della propria azione, la tradizione democratica, l’eccezionalismo, la paura di fronte al declino assommato all’istinto per l’indipendenza nazionale e il desiderio di essere rispettati. A unirli è anche la diffidenza nei confronti delle grandi potenze globali. Hanno strategie diverse, ma come ricorda l’Atlantic, ognuno si guarda nell’altro come se fosse uno specchio deformato. Usandolo per proiettare i propri obiettivi, le idee di sé, le speranze e le frustrazioni. Senza lesinare critiche. In questo ultimo senso, soprattutto, hanno entrambi ragione. Sul piano diplomatico, la Francia ha mantenuto un contegno diplomatico tutt’altro che ineccepibile. L’ambasciatrice Sylvie Bermann sembra avere sposato i principi dell’anglofobia, mentre l’attuale Catherine Colonna non sembra nemmeno curarsi di mantenere rapporti con i membri del governo. Su queste scelte pesa, in modo decisivo, la Brexit. È anche vero dire che, in questa situazione, la Gran Bretagna si è accontentata di una posizione da socio di minoranza insieme agli americani, rinunciando a esercitare qualsiasi tipo di influenza in Europa. Però le loro somiglianze sono indicative: entrambe sono medie potenze, dotate di esercito e armi nucleari, hanno un corpo diplomatico efficiente, un buon servizio di intelligence e un seggio al consiglio permanente dell’Onu. E soprattutto entrambe soffrono per la loro nuova posizione nel mondo: il XXI secolo è dominato da altri Paesi, l’agenda si fa altrove. È difficile per entrambe fare i conti con questa nuova inevitabile posizione di inferiorità, in cui si fatica perfino a ricavare uno spazio di sovranità per rispondere alle richieste dei cittadini. Ne escono allora con due direzioni diverse, perlopiù determinate dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La Francia ha seguito un’impronta gollista: riabilitazione dal collaborazionismo attraverso la decantazione della Resistenza, politica di indipendenza militare con il ritiro dal comando integrato della Nato, tendenza a esprimere la propria influenza sul continente europeo. Gli inglesi, che ne sono usciti trionfatori, hanno mantenuto il legame privilegiato con gli Stati Uniti e con la sfera del Commonwealth. Anche oggi, riguardando le rispettive strategie, si coglie la stessa dinamica: le critiche di Macron alla Nato, l’ansia di poter contare di più in Europa – vista come mezzo per contare di più nel mondo. Ma anche la Gran Bretagna, con il sogno di una Global Britain, potrebbe mettere in campo (e questa è la cosa più sorprendente) uno spirito gollista. Lo stesso Johnson ha espresso in più occasioni la sua ammirazione per lo statista francese, elogiando in particolare la sua libertà d’azione e l’importanza di perseguire, sempre e a ogni costo, l’interesse nazionale. Come aveva detto il diplomatico francese Michel Duclos, il futuro potrebbe vedere «lo scontro tra due gollismi». Simili ma diverse, opposte ma parallele, Francia e Gran Bretagna si preparano ad affrontare i decenni che verranno. Chi ha fatto la sua scommessa fuori dall’Europa, chi invece continua a rimanervi, con la speranza di poterla direzionare.

NON E' UN PAESE PER BIANCHI. Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 settembre 2021. Dopo 17 anni, la rivista Rolling Stone ha aggiornato la lista delle migliori 500 canzoni al mondo. I cambiamenti più significativi sono stati nelle prime tre posizioni, oggi assegnate a tre celebri cantanti di colore: Aretha Franklin (1), Public Enemy's (2) e Sam Cooke (3). Fino al 2004, invece, in testa alla classifica svettavano Bob Dylan, i Rolling Stones e John Lennon. La rivista ha scritto che la sua lista originale era «dominata dal primo rock e soul», mentre quella nuova include una gamma di generi più ampia tra cui hip-hop, pop latino, rap, country, indie rock e reggae. «Molto è cambiato dal 2004; allora l'iPod era relativamente nuovo e Billie Eilish aveva tre anni. Quindi abbiamo deciso di dare alla lista un riavvio totale...» Il risultato è stata una visione più ampia e inclusiva del pop, una musica che continua a riscrivere la sua storia a ogni battito». La classifica è stata creata con il contributo di 250 musicisti, giornalisti e produttori, che hanno compilato la loro personale Top 50. In tutto, hanno ricevuto un voto oltre 4.000 brani, e nella nuova classifica le novità sono state ben 254. Tra gli artisti che hanno partecipato alla classifica ci sono Cyndi Lauper e Annie Lennox, produttori di successi moderni come Sam Smith e Megan Thee Stallion, leggende del rock come Don Henley degli Eagle e Tainy Corey Taylor degli Slipknot, così come i beniamini indie emergenti Lucy Dacus e Tash Sultana. "Respect" di Aretha Franklin è prima in classifica (nel 2004 era quarta), e ha spodestato "Like a Rolling Stone" di Bob Dylan (finita in quarta posizione). Al secondo posto ha debuttato l'inno dell'attivista per i diritti civili dei Public Enemy "Fight the Power", facendo precipitare il successo dei Rolling Stones "(I Can't Get No) Satisfaction" alla posizione n.31. Il musicista soul Sam Cooke è passato dal numero 12 al numero tre con "A Change is Gonna Come", spingendo "Imagine" di John Lennon alla 19esima posizione. E dopo "Like a Rolling Stone" c'è il successo grunge dei Nirvana "Smells Like Teen Spirit", che si è salito di quattro posti. 

Questi i primi posti nel 2004 

1. Bob Dylan – ‘Like a Rolling Stone’    

2. The Rolling Stones – '(I Can't Get No) Satisfaction'

3. John Lennon – ‘Imagine'

4. Marvin Gaye – ‘What’s Going on’

5. Aretha Franklin – ‘Respect’

6. The Beach Boys – ‘Good Vibrations’

7. Chuck Berry – 'Johnny B. Goode'

8. The Beatles – 'Hey Jude'

9. Nirvana – ‘Smells Like Teen Spirit’

10. Ray Charles – 'What'd I Say'

E nel 2021: 

1. Aretha Franklin – ‘Respect’ (+4)

2. Public Enemy – ‘Fight the Power’ (First time on list)

3. Sam Cooke – 'A Change Is Gonna Come' (+9)

4. Bob Dylan – ‘Like a Rolling Stone’ (-3)

5. Nirvana – ‘Smells Like Teen Spirit’ (+4)

6. Marvin Gaye – ‘What’s Going On’ (-2)

7. The Beatles – ‘Strawberry Fields Forever’ (First time on list)

8. Missy Elliott – 'Get Ur Freak On’ (First time on list)

9. Fleetwood Mac – ‘Dreams’ (First time on list)

10. Outkast – ‘Hey Ya’ (First time on list)

Mauro Zanon per "Libero quotidiano" il 22 settembre 2021. L'English Touring Opera (Eto), una delle più importanti compagnie liriche britanniche, ha deciso di non rinnovare il contratto a quattordici dei suoi musicisti in vista della prossima stagione, che inizierà nella primavera del 2022. A causa di comportamenti inappropriati? Per colpa della scarsa qualità di esecuzione? O per via di errori gravi e imperdonabili? Niente di tutto ciò. 

LA COLPA L'Eto ha annunciato l'imminente licenziamento dei musicisti perché "colpevoli" di essere bianchi, e dunque non adatti al nuovo dogma della diversità imposto dallo spirito dei tempi. «L'Eto si è impegnato ad aumentare la diversità della sua squadra. Nonostante gli apprezzabili progressi realizzati, diamo la priorità all'aumento di diversità nell'orchestra», ha spiegato la direzione in una lettera diffusa dal quotidiano Daily Mail.

E poco importa se aumentare la quota di diversità significa lasciare quattordici persone senza stipendio, gettandole nel buio della disoccupazione. I musicisti presi di mira dalla misura dissennata dai responsabili dell'Eto sono tutti bianchi, hanno tra i quarantaquattro e i sessant' anni, e alcuni lavorano da ormai due decenni con la compagnia (è stata fondata nel 1979 con l'obiettivo di portare la grandezza della musica lirica in zone geografiche situate lontane dalle metropoli inglesi, dove l'accesso all'arte è più complesso, attraverso rappresentazioni a prezzi popolari, ma anche azioni educative). The Musicians' Union, organizzazione sindacale che rappresenta oltre 30mila musicisti impiegati nei vari settori del business musicale britannico, ha denunciato una decisione «inattesa e brutale», sottolineando che la promozione delle minoranze deve essere fatta in maniera «giusta e legittima» e non «cacciando la metà dell'orchestra». James Conway, direttore dell'Eto, ha cercato di scaricare le colpe sull'Arts Council England, istituzione che dipende dal dipartimento della cultura britannica e che finanzia la compagnia con una generosa busta da 1,78 milioni di sterline all'anno.

LE DIRETTIVE «Questa decisione è conforme alle ferree direttive dell'Arts Council, principale finanziatore delle tournée dell'Eto e della maggior parte dei fondi che sostengono l'Eto», ha dichiarato alla stampa britannica Conway. Nel milieu della musica classica, la notizia proveniente da Londra sta creando molto scompiglio e facendo reagire personalità di primo piano. Zhang Zhang, violinista dell'orchestra filarmonica di Monte Carlo, ha manifestato la sua inquietudine per quello che sta accadendo in un'intervista sul Figaro.

IL CASO USA «Nessuna discriminazione è positiva. Questa decisione non ha nulla a che vedere con la musica, è puramente ideologica. Ed è ancor più crudele se si pensa che il mondo delle arti dello spettacolo è appena tornato alla vita dopo un anno di arresto dovuto alla pandemia mondiale. Ciò significa che alcune carriere diventeranno fragili e che alcune famiglie verranno probabilmente portatea una situazione di precarietà. Dov' è la giustizia e il progresso in tutto ciò?», ha attaccato la violinista cinese. La notizia dell'Eto giunge negli stessi giorni in cui l'orchestra filarmonica di Buffalo, negli Stati Uniti, ha annunciato che «nessun direttore d'orchestra bianco o asiatico sarà più accettato». 

Perché la razza non esiste. Marino Niola su La Repubblica il 03 agosto 2021. È il modo in cui viviamo che ci fa essere ciò che siamo. Non una presunta origine biologica. E comunque l’origine, come diceva il grande filosofo berlinese Walter Benjamin, sta nel fiume delle trasformazioni e rimescola continuamente i materiali della nostra nascita. Al mondo non ci sono che due razze, quella di chi ha e quella di chi non ha. Sono parole che Cervantes nel Don Chisciotte, mette in bocca alla nonna di Sancho Panza per riassumere i fondamentali della condizione umana. Siamo nel 1605, al tempo delle colonizzazioni e delle scoperte geografiche, e fra le persone veramente intelligenti il concetto di razza è già obsoleto, un vecchio arnese del pensiero.

Dagospia il 2 agosto 2021. Il tweet di Matt Lawton: Il nuovo campione olimpico dei 100m, Marcell Jacobs, è sceso sotto i 10 secondi per la prima volta a maggio. È venuto qui e ha corso in 9.84 la semifinale e 9.80 la finale. Ah, bene…”

Manteniamo la parola “razza”, fotografa la nostra storia. Corrado Augias su La Repubblica il 4 agosto 2021. Non sta nella Costituzione per incitare al razzismo: al contrario, per indicarne il pericolo, perché le razze non esistono ma il razzismo sì. Tenere o togliere l’impegnativa parola “razza” dai requisiti che non vanno considerati ai fini di un’effettiva parità? Come più volte ricordato nell’utile dibattito aperto da Repubblica, l’articolo 3 della Costituzione detta: «Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Dalla rubrica "Porta e Risposta" di Francesco Merlo per "la Repubblica" il 5 agosto 2021. 

Caro Merlo, concordo al 100% sulla cancellazione della parola razza. Ma ogni volta che sento uno straparlatore in tv mi scappa un "ma che razza di stronzo!". Che farne dello sfogo? Mario Simone 

Risposta di Francesco Merlo. Qui la parola razza è usata come rafforzativo spregiativo. All'opposto, Brera elogiava così gli atleti del Triveneto: "i rassa-Piave no tradisse mai.". Scalfari e Turani battezzarono i capitalisti papponi "razza padrona". La metafora sposta, chiarisce e drammatizza i significati. Per gli stronzi della tv andrà sempre bene.

Il racconto. Tutti i canti che fecero l’Italia. Corrado Augias su La Repubblica il 3 agosto 2021. I campioni che intonano l’inno di Mameli ci ricordano che la nostra storia è fatta anche di parole in musica. Da Garibaldi a “Bella ciao”. Abbiamo ascoltato i gagliardi calciatori della nazionale cantare a squarciagola l’inno nazionale, durante i recenti campionati europei. Intonazione e tempi approssimativi, evidente mancanza d’una educazione corale eppure, anche così maltrattato, bello e trascinante Fratelli d’Italia — dispiace che un partito politico se ne sia appropriato per fini di parte. Quando il genovese Goffredo Mameli scrisse quei versetti aveva appena compiuto vent’anni (1827-1849).

Da iltempo.it il 4 agosto 2021. Sorpresa alle Olimpiadi di Tokyo per il concorso dell'equitazione. L'attenzione degli italiani ai Giochi è riversata su altri sport, in quelli più a portata di medaglia o più popolari, ma non è sfuggita agli osservatori una curiosità che per molti potrebbe diventare qualcosa di più serio, forse anche un incidente diplomatico. Così come nel romanzo Il pianista sull'oceano si rideva dei nomi dati ai cavalli delle corse, così viene da sorridere scorrendo alcuni nomi degli equini impegnati con i loro cavalieri e amazzoni ai Giochi di Tokyo. I riferimenti all'Italia, nel bene o nel male, non mancano. A far sollevare svariati sopraccigli è il nome di un cavallo in gara con Israele. Come si chiama? "Cosa Nostra”, con un chiaro riferimento "mafioso" alla criminalità siciliana. Spicca anche "Benitus", nelle file di Taipei. Fanno sorridere altri nomi in gara, come il neozelandese “Grappa Nera” e l’argentino “Cannavaro” dedicato al difensore azzurro del Mondiale di calcio in Germania nel 2006 vinto dall’Italia. Oggi, intanto, con l’ingresso nel rettangolo dell’Equestrian Park di Arianna Schivo e Quefira de L’Ormeau, si è chiusa la prima fase della gara di Concorso completo ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020 per gli azzurri dell’Italia Team. È di 42.90 il punteggio negativo realizzato, per una prestazione purtroppo al di sotto delle aspettative. Quefira de l’Ormeau, la selle francais diciassettenne, montata da Arianna Schivo si è dimostrata molto "carica" in rettangolo, una situazione che non ha comunque giocato a favore dello svolgimento complessivo della gara. Alla prova di Arianna e Quefira (58^ provv.) si aggiungono i risultati messi a segno ieri da Susanna Bordone, migliore azzurra su Imperial Van De Holtakkers (33^ provv.) e Vittoria Panizzon su Super Cillious (38.60 pn; 51^ provv.), che portano l’Italia al quindicesimo posto della classifica provvisoria dopo la prova di dressage con un totale di 115.40 pn.

DAGONEWS il 6 agosto 2021. Come abbiamo menato noi gli inglesi quest’anno non è mai riuscito né agli Asburgo né ai francesi. E ai sudditi di sua maestà restano due strade: o disperarsi e rosicare o riconoscere la straordinaria annata italiana. È quanto ha fatto il “Daily Mail” che, dopo essersi disperata con un titolone “Non l’Italia di nuovo!”, ha snocciolato le meravigliose vittorie azzurre di quest’anno, dando spazio agli inglesi che, al posto di rosicare male, si sono perculati con un sorriso amaro: “Il team inglese ha perso dolorosamente una medaglia d'oro per 0,01 secondi alla staffetta 4x100 maschile del quando l'Italia è arrivata da dietro sulla linea, spezzando  ancora una volta i cuori britannici dopo la finale di Euro 2020”. E in effetti il quartetto britannico pensava di avere l’oro al collo, ma non aveva fatto ancora i conti con Tortu. «Lo straziante risultato della staffetta vede l'Italia superare ancora una volta una squadra sportiva britannica dopo aver battuto l'Inghilterra di Gareth Southgate ai rigori nella finale dei Campionati Europei del mese scorso a Wembley – scrive il Daily Mail - L'oro nella staffetta olimpica 4x100m maschile segna una meravigliosa estate di successi per l'Italia, che include la vittoria nella finale olimpica dei 100m maschili, la finale di Euro 2020 contro l'Inghilterra e l'Eurovision Song Contest. La squadra di calcio italiana ha superato i Tre Leoni l'11 luglio con una vittoria ai rigori, dopo che Marcus Rashford, Jadon Sancho e Bukayo Saka hanno sbagliato tutti dai 12 yard sotto l'arco di Wembley. l'Italia ha anche conquistato il titolo all'Eurovision a maggio con il successo rock "Zitti e buoni" dei Maneskin, mentre il Regno Unito è rimasto a zero punti con "Embers" di James Newman». E ancora: «Nel frattempo, è la quinta medaglia italiana di atletica leggera ai Giochi di Tokyo, un totale che include l'oro shock maschile dei 100 metri di Lamont Marcell Jacobs della scorsa settimana, in una finale che ha visto il velocista del Team GB Hughes squalificato a causa di una falsa partenza. Dopo aver aiutato la Gran Bretagna a conquistare l'argento nella staffetta Hughes è stato sorpreso a fare riferimento alla favolosa e fortunata estate sportiva italiana prima che iniziasse l'intervista post-gara del quartetto britannico con la BBC. Il 26enne ha dichiarato: “Hanno vinto l'Eurovision, hanno vinto gli Europei, hanno vinto i 100m…” Gli appassionati di sport hanno utilizzato i social media per prendere in giro il record negativo della squadra britannica contro l'Italia di quest'estate». Insomma, si può rosicare male. Oppure incassare con dignità e autoironia e riconoscere i meriti all’avversario. 

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” l'1 settembre 2021. «Le carte - scriveva Charles Lamb - sono una guerra, sotto le mentite spoglie di un gioco». E in una guerra si è trasformato l'European Qualifier 2021, campionato di qualificazione organizzato dalla Lega Europea di Bridge per i Mondiali del 2022: i team si sono rifiutati di affrontare la nazionale italiana. Sono stati i giocatori scozzesi i primi a incrociare le braccia. Poi, la scena si è ripetuta con quelli del Galles. E, a seguire, con le squadre di Slovenia, Lituania, Ucraina, Lettonia. A infiammare gli animi e, soprattutto, a tenere le carte ferme, un'accusa decisamente pesante secondo quanto riportato dal Telegraph: si è parlato, infatti, di «imbrogli». I team avrebbero puntato l'indice contro uno dei giocatori, Fulvio Fantoni, grossetano, classe 1963. Fantoni è un personaggio noto nell'ambiente. Ha iniziato a giocare a dieci anni e, da allora, non ha più smesso, vincendo sei titoli mondiali, tre campionati europei a squadre, sei Coppe dei campioni, ventisei campionati italiani. In breve, è uno dei giocatori più forti al mondo. Agli Europei di bridge del 2014, in Croazia, però, con il compagno di molte vittorie Claudio Nunes, è stato accusato di aver barato: stando alle dichiarazioni di un giocatore norvegese, gli italiani avrebbero disposto le carte in modo da comprendere l'uno la mano dell'altro. Il fisico Maaijke Mevius dell'Istituto olandese di radioastronomia, successivamente avrebbe riscontrato uno schema nel modo di mettere le carte dei due giocatori. E così la Lega Europea di Bridge ha aperto un'inchiesta, conclusasi con la condanna dei due all'interdizione dagli eventi europei per cinque anni e al divieto di fare coppia. Il Tribunale arbitrale internazionale dello sport, in appello, nel 2018, li ha assolti. «Quanto è accaduto in questi giorni è assurdo - dichiara Fantoni - Ogni volta che dovevano giocare contro l'Italia, le altre squadre non si sono presentate. Mai vista una cosa del genere. Siamo stati assolti dal Tribunale arbitrale dello Sport. Alcuni giocatori evidentemente hanno deciso di fare ostruzionismo e queste manovre ci hanno impedito, di fatto, di giocare. Inoltre, assurdo nell'assurdo, seppure le accuse fossero state fondate, ed erano totalmente false, gli anni previsti dalla condanna, in teoria, sarebbero trascorsi. Ma lo ripeto, siamo assolutamente innocenti ed è stato riconosciuto da un tribunale internazionale». Cadute in tribunale, dunque, le accuse sono state riportate inaspettatamente sotto i riflettori. Immediata la protesta per l'accaduto da parte della Federazione Italiana gioco bridge. «Ho fatto appello per far valere i miei diritti - ribadisce Fantoni - La Lega europea di Bridge è stata anche condannata a risarcire l'80% delle spese che avevo affrontato per difendere la mia immagine e ottenere giustizia. Direi che quello che stanno facendo questi giocatori è accanimento. Non so come spiegarlo. Per di più, nel caso di campionati europei e mondiali, la partecipazione dei giocatori deve essere approvata da un apposito Comitato. Così è stato nel mio caso. Allora, mi domando, perché la Lega europea di bridge ha accettato questa ribellione?». Il rifiuto delle squadre avversarie avrebbe potuto mettere a rischio la partecipazione dell'Italia ai Mondiali, di cui è Paese ospitante, impegnato come club ai fini della qualificazione alla Champions' cup. La questione però non è più solo di gioco. Rimangono da capire le ragioni di quanto accaduto. «Sono stato numero uno al mondo, dal 2005 al 2015, di certo non faccio comodo come avversario», commenta Fantoni. E, più ancora, quali saranno le conseguenze per i team che hanno accettato di confrontarsi con la nazionale italiana. «Attendo di sapere cosa deciderà la Federazione - conclude Fantoni - e poi mi confronterò con il mio avvocato. Di certo, non ho alcuna intenzione di arrendermi. Qui non si tratta più soltanto di un campionato ma dei miei diritti». 

Da sport.sky.it il 27 settembre 2021.Fantastica Italia agli europei di Polo. Alla terza finale in tre edizioni dell’appuntamento continentale, le azzurre hanno trionfato nell'U.S. Polo Assn. FIP Ladies European Polo Championship, al Polo Club La Mimosa di Pogliano Milanese. In finale la squadra italiana ha prevalso sull’Inghilterra per 6,5-6, grazie quindi al mezzo gol di handicap. Nella finale per il terzo e quarto posto l’Irlanda l’ha spuntata sulla Germania per 5-3 ai rigori, con la partita che non è stata disputata per le difficili condizioni del campo di gioco dopo l’abbondante pioggia che a inizio mattinata aveva costretto a posticipare la finale per il primo e il secondo posto dalle ore 9 alle 10. L’inglese Heloise Wilson Smith è stata premiata come miglior giocatrice del campionato.

Una finale avvincente

La finale è stata particolarmente avvincente, su un campo che ha retto benissimo nonostante la tanta pioggia caduta sul circolo La Mimosa di prima mattina. L’Inghilterra, che doveva recuperare mezzo gol di handicap, è partita subito forte con Heloise Wilson Smith, bravissima a sfruttare un’indecisione difensiva dell’Italia nelle battute iniziali. Le padrone di casa tuttavia hanno reagito prontamente, in particolare con Camila Rossi che ha trasformato una punizione dalle 40 yard e chiuso il primo chukker sull’1-1. Le inglesi sono salite in cattedra nel secondo parziale, nel quale sono andate in gol prima Emma Tomlinson Wood, su punizione dalle 40 yard, e poi con Millie Hughes, che a fil di porta ha messo dentro uno strepitoso colpo in back della Wilson Smith. Nell’altalena del risultato l’Italia è risalita sul 3-3 con altri due gol della Rossi, ma è stata l’Inghilterra a chiudere in vantaggio il quarto chukker per 4-3 con un rigore trasformato dalla Wood. Le italiane sono state però protagoniste di un quinto chukker da incorniciare, con tre gol realizzati ancora dalla Rossi e dall’altra oriunda Maitana Marré. Sul punteggio di 6-4 per le italiane c’è stata l’estrema reazione dell’Inghilterra, con altri due gol segnati da Wilson Smith e Hughes, ma sul 6-6 la squadra diretta da Franco Piazza ha contenuto gli ultimi tentativi delle avversarie e l’ha spuntata per 6,5-6 grazie all’handicap. “È stata una settimana difficile, per l’infortunio occorso a Costanza Marchiorello nella prima partita contro l’Inghilterra - le parole della veterana Ginevra Visconti, che aveva contribuito alla conquista dell’oro 2017 a Chantilly e dell’argento 2018 a Villa a Sesta - Le ragazze sono state però tutte bravissime, da Camila Rossi ad Alice Coria e Maitana Marré, e la vittoria finale ci ripaga di tutti i problemi che abbiamo dovuto affrontare. Ovviamente il nostro trionfo è dedicato a Costanza Marchiorello, che ci ha seguito in diretta dalla clinica in cui è ancora ricoverata dopo la frattura al malleolo sinistro”. 

Tokyo 2020, il dramma degli inglesi: "Non l'Italia di nuovo". L'incubo al traguardo, rosicata infinita. Libero Quotidiano il 06 agosto 2021. “Non l’Italia di nuovo!”. È ufficiale: siamo diventati l’incubo degli inglesi in tutti gli sport. Euro 2020 vinto a Wembley ai calci di rigore ha fatto da apripista: a Tokyo 2020 è arrivato un altro trionfo azzurro, stavolta nella staffetta 4x100, che è coinciso con una beffa colossale per la Gran Bretagna. Avanti per tutta la gara, l’ultimo velocista di Sua Maestà si è visto raggiungere e superare proprio sul traguardo. Un centesimo, tanto è bastato a Filippo Tortu per condurre i compagni sul gradino più alto del podio, firmando un’impresa storica. In un solo colpo l’Italia è salita a quota 10 medaglie d’oro, diventando momentaneamente il paese europeo più alto nel medagliere. Il Daily Mail ha titolato “non l’Italia di nuovo!” dopo l’amarissimo argento della 4x100 maschile. “Il team inglese - si legge sul tabloid - ha perso dolorosamente una medaglia d’oro per 0,01 secondi con l’Italia che è arrivata da dietro sulla linea, spezzando ancora una volta i cuori britannici dopo la finale di Euro 2020”. “Lo straziante risultato della staffetta - si legge ancora - vede l’Italia superare ancora una volta una squadra sportiva britannica dopo aver battuto l’Inghilterra di Gareth Southgate ai rigori nella finale dei Campionati Europei del mese scorso a Wembley”.

Francesco Persili per Dagospia il 6 agosto 2021. Un’estate italiana. Dopo la vittoria agli Europei, l’Italia festeggia il record di medaglie alle Olimpiadi di Tokyo e il decimo oro che arriva con la staffetta 4x100. Il trionfo del quartetto formato dal campione olimpico dei 100 metri Marcell Jacobs, Fausto Desalu, Lorenzo Patta e Filippo Tortu è stato celebrato sulle note di “Notti magiche”. “Praticamente ho lanciato una moda....Vincere le olimpiadi!”, scrive sui social “Gimbo” Tamberi: “Con quello della staffetta sono 5 ori per l'atletica italiana, mai nessun capitano aveva avuto questo onore. La squadra più forte di sempre! Ho i brividi!”. I quattro moschettieri della velocità azzurra hanno fatto registrare anche il nuovo record italiano in 37.50. Per gli inglesi è andato un’altra volta tutto S-Tortu: nell’ultima frazione Filippo Tortu è stato protagonista di una rimonta spaziale. Claudio Marchisio, ex centrocampista della Juve e della Nazionale, prende in prestito la proverbiale espressione di Max Allegri: “Com’era la storia del cortomuso? Complimenti ai ragazzi e a Filippo Tortu. Quando gli altri parlano, il campione risponde sempre sul campo o sulla pista”. Fiona May in diretta Rai polemizza con i commentatori inglesi che dopo la nostra vittoria per 1 centesimo sulla squadra inglese hanno detto: “Ma chi è Filippo Tortu?” Il cantante Enrico Ruggeri si lascia travolgere dalle emozioni. "Le vittorie in gruppo sono ancora più belle. Non svegliatemi. Oppure svegliamoci tutti. Quando vogliamo siamo i migliori: sappiamo soffrire, sappiamo sorridere, sappiamo vincere”. “Stanotte non riuscirò a chiudere occhio”, ha confessato Filippo Tortu. “La cosa più bella sarà cantare l'inno di Mameli domani sul podio". L’Italia s’è desta anche nell’atletica.

Da gazzetta.it il 6 agosto 2021. Incredibile! Nella finalissima della staffetta 4x100 uomini Patta-Jacobs-Desalu-Tortu vincono l'oro per un centesimo sulla Gran Bretagna (37''50 contro 37''51). Bronzo al Canada.. Grande frazione di Jacobs e straordinaria rimonta di Tortu. Un capolavoro!

(ANSA il 6 agosto 2021) - "Siamo sul tetto del mondo. E devo dire grazie agli italiani, abbiamo sentito la loro spinta da casa". Marcel Jacobs con le due dita a V per indicare i due ori, alla fine della 4x100 vinta dall'Italia a Tokyo 2020. "Prima di entrare in pista - ha aggiunto a RaiSport l'azzurro che stasera ha bissato l'oro dei 100 - ci siamo detti quale era il saluto da fare: abbiamo concluso tutti, è l'oro. E' successo qualcosa da non credere, ed è fantastico".

(ANSA il 6 agosto 2021) - "Quando ho tagliato il traguardo, mi sono messo le mani nei capelli perchè avevo capito di aver tagliato da primo, ma non volevo crederci". Filippo Tortu è stato protagonista di una ultima frazione strepitosa, in rimonta, nella 4x100 vinta dall'Italia a Tokyo 2020. Ha pianto a dirotto in pista, e poi ha raccontato di "aver chiesto a Lorenzo Patta "ma devvero siamo oro?". Poi - ha concluso a RaiSport il velocista azzurro - quando ho visto nel tabellone la scritta Italia non ci ho capito più nulla. Mi sono reso conto del tempo solo dieci minuti dopo..."

(ANSA il 6 agosto 2021) - "Siete stati bravissimi. Sono orgoglioso di voi, vi aspetto il Quirinale". Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiamato il presidente del Coni, Giovanni Malagò, subito dopo l'oro olimpico della 4x100 alle Olimpiadi di Tokyo 2020, per complimentarsi dei risultati dell'Italia ai Giochi. 

(ANSA il 6 agosto 2021) - "Un altro giorno da incorniciare a #Tokyo2020. Tre ori in poche ore, uno storico Medaglia d'oro nella 4x100 e record assoluto di medaglie olimpiche in una singola edizione. Grandi azzurri". Lo si legge sul profilo Twitter della presidenza del Consiglio. 

(ANSA il 6 agosto 2021) - "È una felicità incredibile. Marcell è stato bravo ma lo sono stati tutti e quattro". È la prima reazione della mamma di Marcell Jacobs dopo la conquista del secondo oro olimpico. La signora Viviana ha seguito dal suo albergo a Manerba del Garda con parenti, amici e clienti la staffetta 4x100. "Adesso ho voglia di riabbracciare mio figlio. Non so quando lo rivedrò ma penso presto. L'altro giorno dentro di me pensavo a cosa avrei voluto di più. Ecco, quel di più è arrivato" ha aggiunto la mamma di Jacobs. 

Marco Gentile per "ilgiornale.it" il 7 agosto 2021. Evidentemente in Inghilterra non hanno ancora digerito la sconfitta ad Euro 2020 e ora il bersaglio preferito è diventato l'italiano Marcell Jacobs, fresco vincitore dei 100 metri piani e della staffetta 4x100 dove ad essere stati beffati per un solo centesimo sono stati proprio gli inglesi, in vantaggio fino a pochissimi centimetri dal traguardo. L'autorevole The Times ha sbattuto in prima pagina il 26enne azzurro ma non per i suoi evidenti meriti sportivi ma per una vicenda che nulla ha a che vedere con l'atleta nato ad El Paso.

Accuse pesanti. Jacobs è stato prima definito anonimo dopo aver stravinto la finale dei 100 metri piani e l'atta conclusivo è stato definito "la finale di google" perché nessuno conosceva il vincitore della gara più importante nell'atletica dato che sancisce l'uomo più veloce del mondo. In secondo luogo è stato tirato fuori il doping, in terzo luogo le scarpe, ora è stato tirato in ballo il suo vecchio nutrizionista indagato per una vicenda di traffico di steroidi e anabolizzanti con cui Jacobs non ha nulla a che vedere. Il sospetto arriva proprio Oltremanica con il Times che ha scelto per il taglio basso della prima pagina sportiva questo titolo: "La polizia indaga sul nutrizionista della stella dei 100 metri": Marcell Jacobs è stato dunque tirato in ballo per il rapporto con Giacomo Spazzini, suo ex nutrizionista, indagato dalla polizia per traffico di steroidi anabolizzanti. 

Il post di Spazzini. "Da quando abbiamo iniziato insieme tutto è cambiato – si legge nel testo che accompagna un video con Spazzini e Jacobs –. Il suo corpo ha iniziato a reagire alla corretta alimentazione con Hybrid Method, il metodo che ho costruito anni fa e che costantemente innoviamo. Abbiamo lavorato con la ciclizzazione dei nutrienti, con il monitoraggio dei dati e delle analisi, test in pista, con feedback costanti e in tutto questo gli abbiamo insegnato il potere che la disciplina può dare in termini di risultati. Sono davvero fiero ed orgoglioso di avere fatto parte con la mia azienda a questa trasformazione", questo il pensiero riportato dal quotidiano inglese. Le vittorie meritate di Jacobs, però, nulla hanno a che vedere con il rapporto con il suo ex nutrizionista che non ha influito in alcun modo sui risultati sportivi conseguiti dall'atleta azzurro. 

Rapporti interrotti. I rapporti tra Spazzini e Jacobs si sono interrotti da tempo con lo stesso Times che ha ripreso anche le parole di Marcello Magnani, agente del velocista azzurro: "Da quando è emersa la vicenda, Marcell è seguito da un altro professionista dello studio. L’indagine non ha mai toccato Marcell e, quindi, non abbiamo informazioni a riguardo". La medaglia d'oro nei 100 metri piani dunque ha scaricato ormai da tempo il suo ex nutrizionista rendendo ancora più infondate le illazioni circa la sua meritata vittoria alle Olimpiadi di Tokyo 2020.

Marcell Jacobs, "la polizia italiana indaga sul suo caso". Doping, l'ultima vergognosa accusa degli inglesi. Libero Quotidiano il 07 agosto 2021. Non si dà pace la stampa inglese. Dopo aver perso agli Euro 2020, l'Inghilterra deve fare i conti anche con la disfatta a Tokyo 2020. Ma il boccone è amarissimo ed ecco che l'unica soluzione è gettare fango sull'Italia. Nel mirino, in particolare, ci è finito Marcell Jacobs (già nei giorni scorsi oggetto di accuse infondate). L'edizione del 7 agosto del quotidiano The Times ha sbattuto nella prima pagina sportiva il due volte medaglia d'oro sui 100 metri (individuale e staffetta) per i legami con il suo vecchio nutrizionista. Quest'ultimo indagato per una vicenda di "traffico di steroidi anabolizzanti". "La polizia - è il titolo - indaga sul nutrizionista della stella dei 100 metri". A occuparsi di Giacomo Spazzini anche il Daily Mail che ha intitolato la notizia così: "L'ex nutrizionista sportivo di Lamont Marcell Jacobs - che si è preso il merito della medaglia d'oro shock nei 100 metri a Tokyo - è indagato dalla polizia italiana nell'ambito di un'indagine sulla fornitura illegale di steroidi anabolizzanti". L'imprenditore bresciano, fondatore della Gs Loft, ha collaborato con l'azzurro da settembre 2020 e a Milano è al centro di un'indagine sul mercato nero di ricettari e farmaci anabolizzanti. Lo staff del re dei 100 ha però precisato che "da quando è emersa la vicenda Marcell è seguito da un altro professionista dello studio". Non solo perché Spazzini ha preso le distanze: "Io e il mio centro siamo parte lesa, abbiamo avuto la sfortuna di collaborare, tra trenta collaboratori, con un biologo che si è finto medico. Siamo indagati per truffa ai danni dello stato per 32 euro per aver prescritto un antistaminico e abuso di professione medica. Per la parte ormonale lui aveva commesso illeciti, ma io sono stato preso come capro espiatorio. Mi sono solo fidato". Proprio Spazzini si era preso una parte dei meriti per la vittoria di Jacobs: "Da quando abbiamo iniziato insieme tutto è cambiato – si legge nel testo che accompagna un video dei due su Instagram–. Il suo corpo ha iniziato a reagire alla corretta alimentazione con Hybrid Method, il metodo che ho costruito anni fa e che costantemente innoviamo […]. Abbiamo lavorato con la ciclizzazione dei nutrienti, con il monitoraggio dei dati e delle analisi, test in pista, con feedback costanti e in tutto questo gli abbiamo insegnato il potere che la disciplina può dare in termini di risultati. Sono davvero fiero ed orgoglioso di avere fatto parte con la mia azienda a questa trasformazione". 

DA calcioefinanza.it il 12 agosto 2021. Cj Ujah, il velocista britannico che ha vinto una medaglia d’argento come parte della staffetta 4x100m maschile alle Olimpiadi di Tokyo alle spalle dell’Italia, è stato sospeso per una presunta violazione delle regole antidoping. Secondo quanto riportato dai media inglesi, il 27enne Ujah che faceva parte della squadra britannica superata dall’Italia insieme a Zharnel Hughes, Richard Kilty e Nethaneel Mitchell-Blake, è risultato positivo durante i Giochi per due sostanze vietate note come SARM (Selective Androgen Receptor Modulator): S23, che aiuta la costruzione muscolare, e Ostarine, un agente anabolizzante. Il sito web dell’Agenzia antidoping del Regno Unito (Ukad) descrive l’Ostarine come avente “un effetto simile al testosterone”. Aggiunge: “Gli integratori alimentari contenenti Ostarine in genere affermano di promuovere la costruzione muscolare. I produttori senza scrupoli possono commercializzare prodotti come “steroidi legali” o “alternative agli steroidi”. Ujah ha ricevuto una sospensione provvisoria dall’atletica in attesa di un’indagine da parte dell’Unità di integrità dell’atletica. L’AIU ha annunciato che anche altri tre atleti hanno violato le regole antidoping: il mezzofondista del Bahrain Sadik Mikhou, il lanciatore del peso georgiano Benik Abramyan e il velocista keniano Mark Otieno Odhiambo.

Andrea Buongiovanni per gazzetta.it il 15 settembre 2021. Certi sospetti potranno venir rispediti al mittente: la Gran Bretagna perderà l’argento olimpico della 4x100 maschile conquistato il 6 agosto a Tokyo alle spalle dell’Italia (battuta di un centesimo di secondo). L’International Testing Agency (ITA), esito della seconda provetta alla mano, ha infatti confermato la positività al controllo effettuato dopo la finale del primo frazionista, il 27enne CJ Ujah, a Ostarine e S-23, sostanze vietate. L’atleta, già sospeso, verrà squalificato. E a quel punto spetterà al Tas riscrivere la classifica della gara, con l’argento che passerà al Canada di Andre De Grasse e il bronzo alla Cina di Su Bingtian. Con buona pace di certa media d’Oltremanica che, dopo i successi di Marcell Jacobs nei 100 e appunto del quartetto azzurro nella staffetta (completato da Filippo Patta in prima, Fausto Desalu in terza e Filippo Tortu in quarta), avanzò dubbi e perplessità.

Marco Bonarrigo per il "Corriere della Sera" il 22 novembre 2021. Una potente (troppo?) Mercedes parcheggiata addirittura dentro lo stadio «Paolo Rosi» di Roma. Lo stadio stesso, troppo «cadente» per ospitare gli allenamenti di un campione olimpico. E poi la rinuncia a gareggiare dopo il doppio oro olimpico di Tokyo (a fronte dei ricchi ingaggi dei meeting) e l'arcinota e da tempo chiusa relazione con il personal trainer bresciano Spazzini che a Milano è indagato per frode. In quattro giorni di lavoro, questi gli elementi che due inviati del quotidiano britannico The Times sono riusciti a raccogliere per dimostrare che no, Marcell Jacobs non è credibile. Il reportage è uscito ieri su due pagine (il doppio dello spazio che il Times aveva dedicato a Jacobs per l'oro nei 100 a Tokyo) col titolo: «Il mistero del campione olimpico cresciuto senza (lasciar) tracce e che a un certo punto ha smesso di correre». Jacobs non scappa dall'imboscata che i due cronisti gli tendono nello stadio, ma li invita a chiedere un'intervista ufficiale. Loro l'avevano fatto senza ottenere risposta: i rapporti tra il gruppo Jacobs e gli inglesi non sono buoni dopo i veleni sparsi dalla stampa british sul suo conto. I conti, spiega il Times, li faremo a febbraio ai Mondiali indoor di Berlino quando «capiremo se quest' uomo saprà ripetere quello che ha fatto a Tokyo». Ieri Jacobs si è consolato con i complimenti di Usain Bolt durante un'intervista alla CNN. «Per me - ha detto Bolt - la vittoria di Marcell è stata una sorpresa: pensavo che avrebbero vinto gli Usa, ma lui ha dimostrato di essere il migliore. Quindi tanto di cappello per lui». Jacobs ha risposto con un invito speciale postato su Instagram: «Caro Usain, sei il mio eroe e ti ringrazio per il "tanto di cappello" nei miei confronti. Hai anche detto che in un confronto tra me e te avresti vinto tu, quindi sono pronto per la sfida. Che ne dici di un rubabandiera di beneficenza? Io porto il mio team, tu il tuo».

Smacco per gli inglesi: il loro staffettista sospeso per doping. Francesca Galici il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. La Gran Bretagna rischia l'argento nella staffetta 4x100 delle olimpiadi di Tokyo: Ujah è risultato positivo ai controlli antidoping dopo la gara. I sognatori lo chiamerebbero karma, i più realisti semplicemente giustizia sportiva. Quel che è certo è che Chijindu Ujah, velocista inglese medaglia d'argento alle olimpiadi di Tokyo con la Gran Bretagna dietro l'Italia nella gara della staffetta 4x100, è stato sospeso per doping. Qualcuno già parla di contrappasso, viste le insinuazioni fatte a Marcell Jacobs da parte della stampa inglese dopo la sua vittoria nei 100 metri. "Gli inglesi hanno gettato fango accusando di doping il nostro Marcell Jacobs, ma quello col motore truccato pare fosse in casa loro! Beccato oggi positivo lo staffettista inglese Cj Ujah (a rischio l'argento)", ha scritto Matteo Salvini su Twitter. "Ujah è risultato positivo per S23, un SARM (Modulatori selettivi del recettore degli androgeni) che aiuta la costruzione muscolare, e Ostarine, un altro SARM che non è uno steroide ma un agente anabolizzante", si apprende dalla stampa d'oltremanica. Stando a quanto riferisce la stampa inglese, Chijindu Ujah è risultato positivo al controllo antidoping a Tokyo effettuato a sorpresa subito dopo la finale. Sono quattro in tutto gli atleti che sono risultati positivi. Oltre all'inglese figurano anche Sadik Mikhou del Bahrein, uscito in batteria nei 1500 con 3:42.87, il georgiano Benik Abramyan, iscritto al lancio del peso, e lo sprinter keniano Mark Othieno Odhiambo. Ora l'inglese è stato posto sotto inchiesta e prima di arrivare a una sentenza definitiva sarà necessario effettuare successivi controlli. Tuttavia, se la violazione segnalata dall'Integrity Unit di World Athletics, l'associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera, organo indipendente dalla federazione internazionale dovesse essere confermata, non sarebbe solo lui a rischiare la medaglia di Tokyo. Tutta la squadra della staffetta 4x100 maschile che ha corso a Tokyo, infatti, si vedrebbe revocare l'argento vinto con uno scarto di 1 centesimo contro l'Italia. Chijindu Ujah è stato il primo staffettista della finale della staffetta 4x100 a Tokyo e ha corso contemporaneamente a Lorenzo Patta. La medaglia d'argento nella staffetta di Tokyo è stata accolta dagli inglesi come una bruciante sconfitta, tanto più che è arrivata contro l'Italia che ha vinto l'oro. Se gli accertamenti verificassero la presenza di sostanze vietate nel corpo del velocista, per i sudditi di sua maestà Elisabetta II questo sarebbe un ulteriore smacco. "Not Italy again!", hanno titolato i giornali inglesi all'indomani dell'impresa dei nostri staffettisti a Tokyo, che hanno superato di un battito di ciglia la compagine inglese. In caso di conferma di utilizzo di sostanze dopanti da parte di Chijindu Ujah e, quindi, di esclusione in toto dal podio della squadra inglese, la medaglia d'argento passerebbe ai canadesi e i cinesi salirebbero sul terzo gradino del podio. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Tokyo 2020, velocista inglese della staffetta positivo al doping: dopo le accuse a Marcell Jacobs, Gran Bretagna umiliata. Libero Quotidiano il 12 agosto 2021. Non sputare in cielo che in faccia ti torna. Un detto popolare che appare quanto mai appropriato dopo che una parte della stampa britannica aveva avanzato sospetti di doping - ovviamente senza il benché minimo fondamento - dopo che Marcell Jacobs aveva vinto la medaglia d’oro a Tokyo 2020 nella gara regina dell’atletica, quella dei 100 metri. Come se non bastasse, la Gran Bretagna aveva dovuto subire la beffa anche nella staffetta 4x100, con gli italiani capaci di chiudere davanti agli inglesi di un solo centesimo. Adesso, però, si è scoperto che uno dei membri della staffetta era in realtà dopato: si tratta di Cj Ujah, 27enne che ha corso insieme a Zharnel Hughes, Richard Kilty e Nethaneel Mitchell-Blake, riuscendo a vincere la medaglia d’argento alle spalle dell’Italia. Il velocista britannico è risultato positivo in un controllo effettuato durante i Giochi Olimpici ed è stato sospeso in attesa di ulteriori verifiche: sarebbe stata riscontrata la presenza di Ostarina e S-23. A seguito della violazione del protocollo anti doping, adesso la Gran Bretagna potrebbe vedersi togliere la medaglia d’argento vinta nella staffetta 4x100, dato che Ujah era il primo frazionista. Tragico e allo stesso tempo ironico per la stampa inglese, che accusava a caso Jacobs di essere dopato, quando invece il vero dopato era in casa loro.

Marco Gentile per ilgiornale.it Il 13 agosto 2021. La Gran Bretagna rischia l'argento nella staffetta 4x100 delle olimpiadi di Tokyo perché il primo frazionista Chijindu Ujah è risultato positivo ai controlli antidoping dopo la gara. Nelle urine dell'atleta inglese sono state ritrovate tracce di ostarina un anabolizzante e di S-23 e ora Oltremanica si trema.  Il quotidiano The Telegraph non ha usato giri di parole per descrivere la situazione:"Agli italiani piace dire che quelli con piastrelle di vetro non dovrebbero lanciare pietre contro i loro vicini. È un messaggio che Giovanni Malagò, presidente del Comitato Olimpico del suo paese, deve essere tentato di gridare ora che Ujah è risultato positivo a due sostanze vietate", questo l'attacco dell'articolo del quotidiano inglese. "A Tokyo, sempre Malagò, aveva descritto i dubbi britannici su Marcell Jacobs, campione a sorpresa sui 100 metri, come imbarazzanti e spiacevoli. Una settimana dopo, scopre che il primo staffettista del quartetto britannico è al centro di un rovinoso caso di droga. Per i vincitori, l’ironia è deliziosa. Per i vinti, l’ignominia di Ujah non poteva essere più imbarazzante, o più seria", questa la conclusione del Telegraph che ha di fatto ammesso la grande maturità e compostezza degli italiani davanti ad una notizia di questo calibro.

Una medaglia in meno. Se la positività di Ujah fosse confermata, la Gran Bretagna sarebbe squalificata e perderebbe dunque la preziosa medaglia d’argento. Il quotidiano inglese ha spiegato come la sostanza ritrovate nelle sue urine sia utilizzata dai culturisti dato che l’ostarina che è un anabolizzante. I controlli sono stati effettuati dall’Athletics Integrity Unit l’organismo indipendente creato nel 2017. Da 65, dunque, le medaglie inglesi potrebbero diventare 64. Gli inglesi che avevano accusato e gettato ombre su Marcell Jacobs "reo" di aver vinto la finale dei 100 metri piani ora devono incassare un duro colpo dato che un loro atleta si trova ora sul banco degli imputati e a rischio squalifica. Se la positività di Ujah fosse confermata chissà cosa diranno Oltremanica visto che per giorni hanno ironizzato sulla vittoria del 26enne nato ad El Paso che ha poi bissato con Patta-Desalu e Tortu nella staffetta 4x100.

DA corriere.it Il 13 agosto 2021. «Mi fa sorridere pensare che coloro che hanno parlato senza pensare a quel che dicono ora devono piuttosto guardare a casa loro. Io ho lavorato tanto, mi sono sacrificato e non ho voluto dare peso a persone che non sanno quello che dicono». Così Marcell Jacobs, medaglia d’oro nei 100 metri e nella staffetta 4x100 all’Olimpiadi di Tokyo, ospite venerdì 13 agosto a «Unomattina Estate» su Rai1, ha commentato la vicenda della positività al doping del britannico Chijindu Ujah, staffettista nella finale vinta dall’Italia per un centesimo di secondo proprio sulla Gran Bretagna.

Le insinuazioni inglesi. La notizia dell’atleta positivo arriva dopo che il quotidiano inglese Times aveva fatto insinuazioni in merito ai rapporti, peraltro interrotti da tempo, tra Jacobs e Giacomo Spazzini, quest’ultimo oggetto di indagini da parte della polizia per presunto traffico di sostanze illecite. Anche per questo Jacobs non ha perso l’occasione di pungere gli inglesi: «Io so le batoste che ho preso per arrivare a questo momento — ha continuato l’italiano del Texas — e non voglio dare troppo peso a chi non sa quello che dice e non conosce il mio percorso...Una settimana fa dicevano cose non vere su di me e poi hanno in casa un positivo...»

I programmi. Jacobs è poi tornato sui suoi programmi futuri e sulla scelta di fermarsi per questa stagione: «L’anno prossimo sono in programma eventi molto importanti, come Mondiali ed Europei, e io voglio arrivarci al top della forma, per confermarmi». Per questo ha deciso di fermarsi e curare il suo problema al ginocchio: «Ho bisogno di lavorare, di migliorare alcuni aspetti, che ancora mi mancano, di resettare il sistema e di ripartire al meglio. Mia mamma dice che batterò il record di Bolt? Siamo su un altro pianeta ma se mia mamma dice così... Il 9”80 di Tokyo senza vento, forse in condizioni migliori poteva essere anche un 9”77 ma l’obiettivo è scendere ancora di più».

La disperazione dell'ultimo staffettista inglese: "L'Italia..." Antonio Prisco il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. Ancora un'altra delusione per gli inglesi dopo il trionfo azzurro nella staffetta 4x100. Un terribile déjà vu della finale di Wembley. "Non posso essere sorpreso. Hanno vinto l'Eurovision, hanno vinto gli Europei di calcio, hanno vinto i 100 metri e ora la 4×100". È il commento a caldo sull'Italia di Nathaneel Mitchell-Blake, l'ultimo staffettista inglese, superato al fotofinish dall'azzurro Filippo Tortu. "Not Italy again" campeggia impietoso il titolo impietoso del tabloid Daily Mail. Ebbene sì la staffetta 4×100 è stato un terribile déjà vu della finale di Euro 2020 per gli inglesi, che anche questa volta hanno cullato il successo prima di perdere dall'Italia. Una gioia enorme per Tortu, Jacobs, Desalu e Patta, un dolore sportivo grandissimo per i britannici che si sono visti soffiare sul filo la medaglia d'oro, addirittura per un solo centesimo di secondo. La beffa è stata davvero grandissima per la Gran Bretagna e in particolare per l'ultimo staffettista Mitchell-Blake che quando mancavano pochi metri al traguardo era al comando, ma è stato superato sul filo di lana da Filippo Tortu. Quando la gara è terminata l'atleta inglese è scoppiato in lacrime e ha mandato via i compagni di squadra che cercavano di consolarlo. Il Telegraph ha riportato le sue parole a caldo: "La medaglia d'oro era lì, vicinissima. I ragazzi hanno corso in modo fenomenale per portarmi in testa e non sono stato in grado di resistere. C’è quel momento di angoscia e frustrazione, sei a un centesimo dal dare a qualcuno un oro olimpico. Vi sfido tutti a tirare fuori i vostri telefoni e avviare e fermare l’orologio su un centesimo. Non riuscirete a farlo. Ecco quanto eravamo vicini". Quel maledetto centesimo che ha consentito agli azzurri di compiere un’impresa leggendaria e che ora rappresenta un incubo per gli inglesi. L'Italia che non era tra i quartetti temuti, proprio come Marcell Jacobs nei 100m. E Mitchell-Blake l'ha spiegata così: "Non puoi essere sorpreso. Hanno vinto l’Eurovision, hanno vinto gli Europei di calcio, hanno vinto i 100 metri e ora la staffetta". Così mentre luccicano gli Europei vinti dagli Azzurri di Roberto Mancini e le 10 medaglie d'oro conquiste alle Olimpiadi, la maledizione inglese quando incrocia il tricolore italiano continua imperterrita. Come scrive sempre il Telegraph: "Il cronometro, si dice, non mente mai. Fu con lo stesso centesimo di distacco che gli atleti britannici suggellarono forse il loro trionfo più famoso nella staffetta, a spese degli americani, alle Olimpiadi di Atene nel 2004. Qui a Tokyo, quel centesimo sfuggente è stato misurato solo nel dolore di Mitchell-Blake. In questo sport, è fragile il filo che separa i grandi da quelli che vanno vicino ad esserlo". Insomma ancora una volta "It's coming Rome" con tanti saluti a Londra. 

La dura risposta del dt italiano agli americani: "Mi farei domande..." Antonio Prisco il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. Il dt azzurro La Torre risponde per le rime agli Usa: "Qualche volta il complesso di superiorità può far male, al posto loro qualche domanda me la farei". "I sospetti degli Usa? Fossi al posto del direttore tecnico americano, qualche domanda me la farei. È sempre colpa degli altri?". A parlare in questo modo è il dt azzurro Antonio La Torre, che respinge al mittente le accuse arrivate dall'America dopo i trionfi italiani a Tokyo 2020. È un'Olimpiade indimenticabile per l'atletica italiana dopo le cinque medaglie d'oro conquistate dagli Azzurri. La programmazione della Federazione ha portato risultati inimmaginabili alla vigilia dei Giochi Olimpici. Grande merito va al direttore tecnico azzurro Antonio La Torre, la cui conferma appare scontata. "È bravo, non devo scoprirlo io. Ci siamo affidati a lui in questo periodo e il gruppo ha risposto bene. Conferma? Ne parleremo" ha assicurato Stefano Mei, presidente della Fidal. Proprio La Torre ha parlato un po' di tutto, in conferenza a Casa Italia a Tokyo, godendosi il momento magico della nostra atletica leggera. C'è spazio e non poteva essere altrimenti per rispondere in maniera dura alle accuse arrivate dagli Stati Uniti, dopo la vittoria di Marcell Jacobs nei 100m. "Fossi al posto del direttore tecnico americano, qualche domanda me la farei. A prescindere da questa polemica gratuita c’è parecchio lavoro da fare. I più forti velocisti del mondo che non si qualificano con la staffetta, non vincono i 100-200-400. È sempre colpa degli altri?". E ancora: "Chi ha scritto certe cose – ha detto riferendosi all’articolo del Washington Post - non era neanche informato sulle gare di Marcell sui 60. Qualche volta il complesso di superiorità può far male". E in riferimento al velocista di Desenzano del Garda, La Torre ha assicurato: "Se Jacobs rimane Jacobs, quello che avete visto qui, può arrivare a Parigi continuando a essere il velocista da battere". Sul futuro ha le idee chiare:"Dobbiamo lavorare ancora più di prima, rompere i cliché e dovremo cambiare molte cose. Squadra che vince si cambia… Perché si deve continuare a lavorare sulla mentalità sull’approfondimento e provare a fare cose nuove perché gli altri, come noi abbiamo rincorso loro, ci aspettano. Qui abbiamo fatto squadra. Non avete sentito atleti che hanno cercato scuse". Infine non è mancato un passaggio scherzoso sulla "mano santa" di Giorgio Chiellini, come illustrato da moltissimi meme sui social. "La mano di Chiellini ci ha aiutato anche ieri", ha detto La Torre sorridente, con chiaro riferimento al fallo del capitano azzurro nella finale contro l'Inghilterra, quando aveva letteralmente stoppato, in modo irregolare ma decisivo, un lanciatissimo Saka. Un'immagine che insieme a quella di Tortu al fotofinish, rende indimenticabile questa estate italiana.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

"Stiamo vincendo", "No Italia...": la reazione degli inglesi. Marco Gentile il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. Da Wembley a Tokyo, l'Italia è diventata ormai un incubo per l'Inghilterra. "Not Italy again", è il titolo più gettonato della stampa d'Oltremanica. Italia incubo per l'Inghilterra? Assolutamente sì, è un dato di fatto. Dalla finale degli Europei gli inglesi hanno preso solo schiaffoni in faccia, metaforicamente e sportivamente parlando, da parte degli azzurri. L'ultima beffa è arrivata ieri dalla staffetta 4x100 maschile dove il quartetto italiano è riuscito a battere al fotofinish e di un solo centesimo proprio gli inglesi. Nell'ultima batteria Filippo Tortu è stato devastante recuperando lo svantaggio nei confronti del suo avversario e beffandolo di un niente sul traguardo.

La grande beffa. L'Inghilterra era la grande favorita alla vittoria finale e tutti ne erano certi Oltremanica, un po' come per quanto riguarda la finale degli Europei. Sta diventando virale un video in cui il telecronista inglese era sicuro di farcela nell'ultima batteria: "Stiamo vincendo, sarà oro per la Gran Bretagna?", si chiede il giornalista che subito dopo viene beffato: "Oh nooo… per l'Italia" e sono partiti gli sfottò di rito.

Inglesi increduli. In Inghilterra non hanno preso bene l'ennesima sconfitta, pesante, subita per mano dell'Italia con un quotidiano inglese che ha titolo un eloquente e stringato: "Not Italy again". Da Wembley a Tokyo ormai gli azzurri sono diventati un vero e proprio incubo per quanto riguarda sportivi ma anche giornalisti e telecronisti inglesi costretti a commentare le vittorie azzurre e le debacle dei loro connazionali. Fortunatamente da qui a fine Olimpiadi non dovrebbero esserci più scontri diretti tra Italia e Inghilterra ma la sensazione è che in questo 2021 gli azzurri siano imbattibili.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

Tokyo 2020, l'oro nella 4x100? Jacobs-Desalu, il dettaglio che nessuno aveva notato: perché abbiamo vinto, il video. Libero Quotidiano il 07 agosto 2021. Italia oro anche nella staffetta 4x100 alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Merito di Lorenzo Patta (frazione con partenza da fermo cronometrata in 10"558 dopo una reazione allo sparo di 0"154), di Marcell Jacobs (lanciata da 8"925), di Fausto Desalu (da 9"172) e di Filippo Tortu (da 8"845). La chiave vincente? L'azzardo. Lo mette nero su bianco alla Gazzetta dello Sport Filippo Di Mulo, il 61enne catanese referente del progetto 4x100 e del settore della velocità azzurra: "Siamo arrivati all'ultimo atto dopo aver realizzato il quarto tempo nelle semifinali del giorno prima quindi, per provare ad arrivare sul podio, avremmo dovuto azzardare qualcosa. E quel qualcosa, in staffetta, non possono essere altro che i cambi. Tanto poi quarti o ottavi cambia poco o niente". Il secondo cambio, quello tra Jacobs e Desalu, è stato "allungato". Fausto, rispetto al turno precedente, al proprio punto di messa in moto ha poi aggiunto alcuni "piedi", l'unità di misura di queste operazioni, per farsi raggiungere un po' più avanti dal compagno, così da sfruttarne al massimo l'accelerazione. E il piano ha funzionato. Tanto che la Gazzetta parla di "passaggi di testimone perfetti, lunghi e rapidissimi". Tutti al limite però, intorno al 25° metro dell'area di 30, dentro il quale devono avvenire. "Abbiamo fatto i nostri calcoli - conferma Di Mulo - e li abbiamo fatti bene. Nelle ore prima della finale andavo ripetendo: 'Se usciamo dal secondo cambio indenni è fatta, realizzeremo grandi cose'. Con tutta onestà pensavo al podio, non a una medaglia d'oro. E invece i ragazzi sono andati oltre ogni previsione. Tutti sono cresciuti da un punto di vista prestativo. Sono stati grandissimi, Tortu probabilmente ancora di più". E ancora, per sua stessa ammissione: "Questo era il mio schieramento dei sogni, ma per tanti motivi non ero mai stato in grado di proporlo in gara". Tutta una questione di scelte come quella di schierare Jacobs, in seconda e non in ultima frazione. Il motivo? Così facendo, chi corre il rettilineo opposto a quello di arrivo, ha a disposizione più metri rispetto a chi "chiude". E il suo potenziale, così, può essere meglio valorizzato. Una "formula" usata persino da Usain Bolt con la sua Giamaica.  

Dagotraduzione dalla Bbc il 5 agosto 2021. Quando Lamont Marcell Jacobs ha vinto l'oro nei 100 metri maschili il 1° agosto, ha colto molti di sorpresa. L'italiano era un outsider, un perdente agli occhi di bookmaker, esperti e fan. Jacobs ha tenuto a bada i corridori di nazioni con una storia molto più grande nella produzione di velocisti. Il 26enne lo ha fatto anche nel suo sport di seconda scelta. Da adolescente gareggiava come velocista, poi nella tarda adolescenza ha scoperto il salto in lungo e solo nel 2018 è passato ai 100 metri. Inoltre, non è un velocista con un record particolare: ha registrato il suo primo tempo sotto ai 10 secondi solo all'inizio di quest'anno. La sua storia sembra notevole; un atleta che trova il suo posto così tardi, e viene da un paese non particolarmente di successo nell’atletica, ha spazzato via la concorrenza. Ma la vittoria di Jacobs ci fa vedere che spesso sbagliamo riguardo al talento sportivo. Ci sono ragioni per cui sopravvalutiamo i favoriti e sottovalutiamo gli sfavoriti. Se sapessimo come guardare, potremmo trovare altri simili a Jacobs là fuori? Potremmo dare troppo peso al successo atletico a livello giovanile, grazie ad alcune famose, ma forse fuorvianti, ricerche di 40 anni fa. A metà degli anni 80 Angus Thompson, dell’Università dell’Alberta, e Roger Barnsley, della Saint Mary’s University del Canada, hanno condotto uno studio che avrebbe ispirato anni di ricerche sui giocatori della National Hockey League e di due junior league. I due scienziati hanno scelto un campione di oltre 7.000 giocatori di una delle leghe canadesi junior di hockey su ghiaccio con un’età compresa tra gli 8 e i 20 anni. I nati all'inizio della stagione di hockey, tra gennaio e giugno, avevano maggiori probabilità di giocare per le squadre di alto livello rispetto a quelli nati tra luglio e dicembre. Infatti, quasi il 40% dei giocatori delle squadre di massima serie era nato nei primi tre mesi della stagione, e solo circa il 5% negli ultimi tre mesi. Sembrava quasi che per giocare per una delle migliori squadre facesse una grande differenza essere qualche mese più vecchio, più alto, più veloce e più forte dei coetanei. È quello che si chiama effetto dell'età relativa. Lo studio sull'hockey di Thompson e Barnsley ha anche evidenziato che i giocatori della lega erano per lo più nati nella prima metà dell'anno. Forse i giocatori più giovani, stanchi di essere meno muscolosi dei loro coetanei più grandi, nel tempo si erano ritirati. L'effetto relativo all'età era già ben noto da studi su scolari a metà degli anni '60. I bambini che erano più grandi nel loro anno accademico avevano superato i loro coetanei più giovani. Alcuni anni dopo, Thompson e Barnsley pubblicarono un altro studio in cui trovarono una relazione simile tra 837 giocatori della Major League di baseball. Studi successivi hanno suggerito che l'effetto relativo all'età si applica anche a giocatori di basket, ai giocatori di pallamano, ai calciatori e ad altri atleti (anche se sembra non avere effetto sui giocatori di ping pong e sui giovani studenti di danza). Potrebbe essere davvero così semplice? Pochi mesi di crescita in più possono aiutare un bambino a raggiungere la vetta? Ciò che Thompson e Barnsley non sono riusciti a fare è stato tenere traccia di quello che hanno fatto i loro giovani giocatori di hockey più in là nel tempo. Sia la lega professionistica che quella giovanile dovrebbero avere rapporti simili: le leghe giovanili alimentano la lega professionistica. Qualsiasi pregiudizio legato all'età nel primo gruppo dovrebbe avere un effetto sul secondo. Ma non è stato così. Uno studio pubblicato nel 2020 che esamina 12 stagioni di calciatori giovanili dell'Accademia Exeter City Football Club ha scoperto che se uno tra i giocatori più giovani del suo anno riusciva a superare il sistema giovanile, aveva quattro volte più probabilità di vedersi offrire un contratto professionale rispetto ai coetanei più anziani. Quei giocatori più giovani, sono rimasti in giro nonostante tutto, avevano maggiori possibilità di farcela. Gli atleti che maturano prima fisicamente si distinguono dagli allenatori per ovvie ragioni; sono più alti, più veloci e più forti dei loro coetanei. E gli allenatori sono davvero attratti dai giocatori che si distinguono fisicamente. Nel libro Soccernomics, gli autori affermano che è più probabile che gli scout raccomandino i giocatori biondi, poiché il colore dei capelli leggermente meno comune li aiuta a distinguersi in campo. Ma a lungo termine, questa attenzione ai giocatori più grandi potrebbe essere fuorviante. All'Università di Exeter, Craig Williams, professore di fisiologia pediatrica, ha notato che i giocatori più giovani potrebbero avere maggiori possibilità di farcela a lungo termine. «Poiché non hanno il vantaggio del potere, i giocatori più piccoli devono fare affidamento su altre abilità per competere, e quindi il loro controllo e il loro gioco di gambe potrebbero migliorare, potrebbero anche sviluppare strategie e tattiche che sfruttano le debolezze dei loro avversari», afferma Williams. Quindi, quando maturano e raggiungono fisicamente i loro coetanei più grandi, sono in una posizione migliore per diventare professionisti. I tardivi come Jacobs non sono rari negli sport. All'età di 21 anni, quando alcuni dei suoi coetanei potrebbero aver già giocato per la loro squadra nazionale, il calciatore N'Golo Kante ha fatto il suo debutto professionale nel terzo livello della piramide calcistica francese. Quando ha fatto il suo debutto internazionale completo a 25 anni (non è stato selezionato per nessuna delle giovanili francesi) il centrocampista non aveva mai vinto. All'età di 30 anni, aveva vinto la Coppa del Mondo, la Premier League, la Champions League, l'Europa League, la Coppa d'Inghilterra e numerosi riconoscimenti personali, ed è generalmente considerato uno dei migliori al mondo nel suo ruolo. L'allenatore di Kante nel calcio giovanile ha detto che è stato trascurato dalle squadre più grandi perché era un «piccolo ragazzo», «non spettacolare». Forse i nostri pregiudizi sui giovani atleti che si distinguono significano che trascuriamo altri talenti. Ci sono prove che essere una delle migliori prospettive giovanili non garantisce il successo una volta adulti. Tra i migliori ciclisti, solo il 29% degli atleti d'élite aveva partecipato ai Campionati del mondo junior. Degli atleti ai Giochi Olimpici di Atene del 2004, solo il 44% ha debuttato nelle competizioni internazionali a livello junior. La maggioranza ha fatto la sua prima apparizione in nazionale con una media di 22 anni e non c'era alcuna indicazione che iniziare prima avrebbe dato loro una possibilità migliore. Tuttavia, non tutti gli sport sembrano essere adatti ai tardivi. L'età media in cui un olimpionico inizia l'allenamento specifico per disciplina è di 11,5 anni. Per il nuoto e l'hockey, rispettivamente 8,1 e 8,9 anni. Ma i ritardatari potrebbero andare meglio nel canottaggio (15.4), nel tiro (15.3) e nell'atletica (14). È probabile che atleti come Jacobs, che hanno raggiunto il successo in una disciplina tardi, si siano allenati in diversi sport. Concentrarsi su un solo sport, e persino avere successo, non ha alcuna relazione con la probabilità di successo in seguito, ma avere abilità incrociate in più sport potrebbe consentire agli atleti di trasferirsi a un’altra disciplina una volta maturati. Anche nello sport d'élite per adulti, essere il favorito può produrre alcuni comportamenti strani. I favoriti del tennis hanno maggiori probabilità di smettere presto se iniziano male una partita, rileva Hengchen Dai, ricercatore presso la Anderson School of Management dell'Università della California a Los Angeles, specializzato in decisioni comportamentali. La sua teoria è che i top performer che stabiliscono aspettative di alte prestazioni su se stessi beneficiano di nuovi inizi. «Un reset psicologico può aiutarli a rispondere positivamente», dice. «Se le persone hanno una mentalità di apprendimento, gli errori possono essere trasformati in una crescita. Gli individui con grandi aspettative possono passare più facilmente a questa mentalità positiva». Anche se Jacobs era ben impostato per il successo con le sue abilità e la mentalità da outsider, c'è ancora qualcosa di insolito in un italiano che vince i 100 metri. Perché associamo, ad esempio, la Giamaica ai velocisti più veloci del mondo e l'Etiopia e il Kenya ai corridori di lunga distanza? Cosa rende quelle nazioni le favorite in quegli sport? Il dominio di alcune nazioni in discipline specifiche potrebbe dipendere dal modo in cui è classificato il medagliere olimpico, afferma Johan Rewilak, economista sportivo presso l'Aston University. Essere specialisti può aiutarti a salire in classifica. Ci sono 12 medaglie d'oro in palio negli eventi di ciclismo indoor maschile e femminile, ad esempio. Raddoppiare il ciclismo è stata la strategia che il Team GB ha perseguito dopo la costruzione del velodromo di Manchester per i Giochi del Commonwealth del 2002, afferma Rewilak. Il ciclismo, con investimenti del valore di 25 milioni di sterline, è il secondo sport britannico meglio finanziato ai Giochi di Tokyo dopo il canottaggio (ci sono 14 medaglie d'oro in palio nel canottaggio). Un terzo delle medaglie d'oro del Team GB ai Giochi del 2016 è arrivato nel ciclismo o nel canottaggio, e il 41% è arrivato in questi due sport nel 2012. Rewilak afferma in alcune ricerche non ancora pubblicate che cambiare il modo in cui pensiamo al medagliere genera risultati sorprendenti. Se dovessi considerare il ciclismo, il canottaggio, l'atletica e così via come uno sport, la tabella potrebbe riflettere quei paesi che sono i migliori performer a tutto tondo. «La Spagna ottiene il maggior numero di medaglie in una varietà di discipline e sport, quindi si potrebbe dire che sono i veri olimpionici», afferma Rewilak. La Gran Bretagna cadrebbe subito. Mentre alcune ricerche hanno scoperto che più soldi una nazione investe in uno sport, più medaglie totali vince, il rapporto tra denaro e successo sembra essere un po' più complicato. Una possibilità è spendere i soldi per essere il paese ospitante. Le nazioni che hanno ospitato i Giochi Olimpici tra il 1988 e il 2016 hanno goduto di un aumento del 2% della loro quota di medaglie e finalisti rispetto alle volte in cui hanno gareggiato all'estero (sebbene l'effetto sia diminuito nel tempo). In effetti, i vantaggi di essere una nazione ospitante erano 10 volte maggiori prima della seconda guerra mondiale rispetto a quelli tra il 1988 e il 2016. Ci sono diversi vantaggi nell'essere l'ospite; conoscenza locale di piste e percorsi di gara (o l'opportunità di allenarsi su di essi in anticipo), essere abituati al clima, al brusio del pubblico di casa; il fatto che in quanto nazione ospitante si possono fare pressioni per includere alcuni sport. Naturalmente, quest'anno il vantaggio casalingo portato dal pubblico in festa potrebbe essere stato ridotto a causa degli stadi vuoti in Giappone. Sebbene gli atleti si siano abituati a esibirsi senza folla, potrebbe fare la differenza per i risultati. In uno studio sulle partite di calcio professionistico giocate a porte chiuse nel Regno Unito, la mancanza di un pubblico di casa non sembrava avere un grande effetto su chi ha segnato o quanti gol hanno segnato, ma ha ridotto il numero di cartellini gialli che gli arbitri hanno mostrato alla squadra in trasferta. Forse la presenza di un pubblico di casa mette più pressione sull'arbitro, e senza quella pressione l'arbitro è meno facilmente influenzabile.

"Arriva qui e fa 9''80...". L'insulto inglese all'oro italiano. Marco Gentile il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Il giornalista inglese Matt Lawton ha fatto un tweet al veleno nei confronti di Marcell Jacobs, l'atleta più veloce del mondo: "È venuto qui e ha corso in 9.84 la semifinale e 9.80 la finale. Ah, bene". Agli inglesi, evidentemente, ancora brucia per la finale di Euro 2020 persa contro l'Italia di Roberto Mancini a Wembley. Oltremanica, infatti, stanno incassando a ripetizione una serie di colpi a ripetizione da parte degli atleti azzurri impegnati alle Olimpiadi e ora nemmeno la vittoria nei 100 metri piani di Marcell Jacobs sembra andare bene, ma solo a loro. Il 26enne nato ad El Paso da madre italiana e padre texano ha sbaragliato la concorrenza vincendo la medaglia d'oro con il tempo di 9''80 eguagliando nel tempo un certo Usain Bolt che nel 2016 si prese il gradino più alto del podio. Il giornalista Matt Lawton, ex Dailymail e ora all'autorevole Times, ha infatti posto alcuni dubbi, infondati ovviamente, sulla vittoria del velocista azzurro: "Il nuovo campione olimpico dei 100m, Marcell Jacobs, è sceso sotto i 10 secondi per la prima volta a maggio. È venuto qui e ha corso in 9.84 la semifinale e 9.80 la finale. Ah, bene…". Lawton ha lavorato anche agli scandali doping su Salazar e Mo Farah ma noestamente questo suo tweet al veleno lascia il tempo che trova dato che Jacobs ha vinto onestamente e meritatamente al termine di una gara condotta sempre in testa. Nel frattempo, però, l'unico britannico della finale dei 100 metri piani Zharnel Hughes è stato squalificato e preso in giro sui social network. La cosa che fa specie, onestamente, è come si faccia ad insinuare la teoria del sospetto nei confronti di un ragazzo che evidentemente si è preparato meglio rispetto ai suoi colleghi che hanno dovuto subire la sua meritata vittoria.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

"Campioni imbroglioni...". Il vergognoso processo a Jacobs. Antonio Prisco il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Il Washington Post e il Times mettono sotto accusa l'atleta azzurro con assurde allusioni sul doping. Mentre Tokyo 2020 trova la stella di Marcell Jacobs, il nuovo re dei 100 metri, dagli Stati Uniti arriva una polemica a dir poco vergognosa. Il Washington Post lo definisce "Obscure Italian from Texas" e accusa: "La storia recente dell'atletica mondiale è disseminata di campioni pop up rivelatisi poi imbroglioni col doping". Nemmeno il tempo di ricevere le meritate celebrazioni e la leggendaria impresa di Jacobs già solleva immediate polemiche. La più fastidiosa è quella avanzata dal Washington Post, che in un articolo, lancia l'attacco: "Sarebbe ingiusto accusare Jacobs: a lui va dato il beneficio del dubbio, ma all'atletica no". L'allusione, nemmeno tanto velata, è che il risultato del velocista italiano - che ha vinto i 100 metri in 9"80 guarda caso proprio davanti all'americano Fred Kerley, che ha corso in 9"84 - non sia pulito. Un'ombra che evoca volutamente il peggiore dei sospetti per un'atleta: il doping. Questa becera congettura del Post trova il suo fondamento nella storia recente dell'atletica mondiale, "disseminata di campioni pop up rivelatisi poi imbroglioni col doping". Sulle pagine del giornale statunitense, Jacobs diventa "Obscure Italian from Texas". Che significa "Sconosciuto", ma con quell'accezione di oscuro che avanza sospetti anche senza esplicitarli. Il commento successivo è decisamente più chiaro: "Non è colpa di Jacobs se la storia dell'atletica leggera fa sospettare per i miglioramenti così improvvisi e così enormi". Il punto di vista ha trovato immediata sponda anche Oltremanica e non poteva essere altrimenti dopo il trionfo dell'Italia a Wembley. Il Times sentenzia: "Da Ben Johnson a Gatlin a Coleman, l'arrivo di una nuova stella mette in allerta". Al commento poi aggiunge una statistica: delle 50 migliori prestazioni mondiali sui 100 metri, tolte le 14 di Usain Bolt, ne restano 36. E di queste, addirittura 32 sono state prodotte da velocisti poi risultati positivi ai controlli antidoping. Ma non finisce qui il capo dei corrispondenti sportivi del Times, Matt Lawton con un tweet molto dibattuto in rete, solleva ulteriori dubbi, sebbene non esplicitandoli: "Il nuovo campione olimpico dei 100 metri, Marcell Jacobs, ha rotto i 10 secondi per la prima volta a maggio. È venuto qui e ha corso 9,84 in semi e 9,80 per vincere. Ah bene". Insomma congetture senza senso, che celano un'unica certezza, la doppietta azzurra Euro 2020 e oro olimpico nei 100m ha fatto "rosicare" e non poco inglesi e americani.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Marcell Jacobs, ira di Giorgia Meloni contro il Washington Post: "Insinuazioni per screditarlo? Non ti curar di loro". Libero Quotidiano il 02 agosto 2021. A ridosso della vittoria ecco che arrivano i primi deliri. Marcell Jacobs, vincitore della medaglia d’oro nei 100 metri a Tokyo 2020, ha scatenato l'invidia del Washington Post. A dare una lezione al quotidiano statunitense ci ha pensato però Giorgia Meloni. "Dopo la schiacciante vittoria del nostro Jacobs alle Olimpiadi, qualcuno oltreoceano, a cui forse non è andato giù il record, lancia pesantissime insinuazioni per screditare l’atleta italiano più veloce del mondo. Non ti curar di loro, Marcell. L’Italia intera è fiera di te", è il messaggio arrivato sulla pagina Facebook del presidente di Fratelli d’Italia. La stampa straniera infatti ha accusato l'atleta: "Un 26enne che fino a questa primavera si esibiva alla periferia dello sprint d’élite, ha vinto i 100 metri in 9’’80 e si è guadagnato il titolo non ufficiale di uomo più veloce del pianeta. Solo i più caldi appassionati dell’atletica avevano sentito parlare di Jacobs. L’americano Fred Kerley, che ha vinto l’argento con il suo record personale di 9’’84, ha detto ‘non sapevo niente di lui'", ha scritto il quotidiano per poi peggiorare: "Gli annali dello sport sono pieni di campioni che esplodono e poi si rivelano dopati". Accuse infamanti che non sono andate giù neppure ad Alex Schwazer: "Quando uno va forte escono sempre queste storie messe in giro da parte di alcuni invidiosi. Sembra che quasi ci si debba scusare di essere andato così veloce. Queste accuse velate che ho letto sono molto tristi ma per fortuna lasciano il tempo che trovano", è stato il commento del campione olimpico della 50 km di marcia di Pechino 2008, che le accuse le ha provate sulla sua stessa pelle.

Le assurde elucubrazioni dei giornali. “Campioni imbroglioni col doping”, le folli insinuazioni di americani e inglesi sull’oro di Marcell Jacobs. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Agosto 2021. Alla faccia del fair play e dello spirito olimpico. Marcell Jacobs ha vinto la medaglia d’oro nella finale dei 100 metri alle Olimpiadi di Tokyo. È l’erede di Usain Bolt. Ha corso la sua finale in 9”80. Un vincitore inaspettato, ha sconvolto il mondo dopo essere diventato il primo italiano in una finale olimpica della specialità. Il coronamento di un percorso duro e di una storia complicata. Ebbene, tutto troppo losco, troppo oscuro, per alcuni giornali e giornalisti stranieri; in particolare per statunitensi e britannici che pronunciano o lasciano intendere: è doping. “Sarebbe ingiusto accusare Jacobs: a lui va dato il beneficio del dubbio, ma all’atletica no”, ha scritto l’americano Washington Post, tra i giornali più autorevoli del mondo, che accusa l’atletica mondiale, “disseminata di campioni pop up rivelatisi poi imbroglioni col doping”. E ancora: “Non è colpa sua se la storia dell’atletica leggera fa sospettare per i miglioramenti così improvvisi e così enormi”. Che classe, far finta di niente dopo averla messa lì senza alcun indizio o prova o scoop. Da Tokyo non è stato sollevato alcun dubbio sulla legittimità della prova di Jacobs – che naturalmente si è sottoposto al test anti-doping. Il ragionamento del Wp – che definisce Jacobs “Obscure Italian from Texas” – procede al contrario: è dubbio questo successo in virtù dello stesso successo. Per capirci: il vincitore è un dopato che non è stato ancora scoperto. A metterla giù ancora più pesante è Tariq Panja del New York Times. “Jacobs è un esempio per gli altri atleti che trascorrono anni a sgobbare ai margini dei campionati più importanti. Vorranno sapere qual è il suo segreto. Che notevole cambiamento di fortuna – ha scritto in una serie di Tweet – Jacobs non aveva mai corso sotto i 10 secondi fino a questa stagione. Ha 26 anni. Il lockdown sembra essere stato estremamente gentile con lui. Difficile capire l’improvviso progresso. Farei un’intervista interessante”. L’insinuazione più affilata: “È davvero una svolta notevole. Se queste Olimpiadi si fossero svolte l’anno scorso come previsto, il miglior tempo di Jacobs sarebbe stato 10.11, 33. Il più veloce al mondo? Nemmeno il più veloce in Italia. Semplicemente sbalorditivo”. Tokyo 2020 è stata rinviata di un anno per i motivi che tutti sanno – una pandemia internazionale. Jacobs è sempre stato considerato uno sprinter inespresso. A settembre 2020 ha cominciato a lavorare con Nicoletta Romanazzi, mental coach, che lo ha aiutato a riallacciare la relazione con il padre – militare americano che ha abbandonato lui e la madre quando Jacobs aveva meno di un anno – e a concentrarsi sulle sue possibilità. “È entrata nel mio team insieme al mio storico allenatore Paolo Camossi. Con lei ho accettato di lavorare in profondità sulle mie paure e sui miei fantasmi. Non è stato facile: c’è una parte intima che non vogliamo mostrare nemmeno a noi stessi. Però imparo in fretta. Il lavoro psicologico è iniziato a settembre dell’anno scorso e in sei mesi ho ottenuto un oro europeo indoor, il 9”95 di Savona, i tre record italiani ai Giochi e l’oro olimpico in 9”80”, ha detto la medaglia d’oro. Altre insinuazioni da parte del britannico Times: “Da Ben Johnson a Gatlin a Coleman, l’arrivo di una nuova stella mette in allerta”, ha scritto il giornale inglese, aggiungendo che delle 50 migliori prestazioni mondiali dei 100, a parte le 14 realizzate da Bolt, 32 su 36 sono di velocisti poi risultati positivi. Sullo stesso tono le considerazioni dell’inviato del quotidiano in Giappone. Quindi a prescindere vale il sospetto, l’accusa o il dubbio. “C’è qualcosa dietro”, a prescindere. Forse nutrito dalla squalifica per falsa partenza del velocista britannico, tra i favoriti della vigilia. Se Jacobs ha detto che ci metterà dei giorni a realizzare quello che è successo ieri a Tokyo, comunque, lo stesso non varrà per qualche giornalista. La medaglia d’oro it’s coming Rome.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da liberoquotidiano.it il 3 agosto 2021. C’è chi grida al doping “convenzionale” e chi a quello “tecnologico”, segno che il trionfo di Marcell Jacobs nei 100 metri di Tokyo 2020 è stato indigesto anche per alcune nazioni avversarie, come Gran Bretagna e Stati Uniti. Ormai il velocista azzurro viene passato ai raggi X sotto tutti i punti di vista: per questo non sono passate inosservate le sue “ali” ai piedi, ovvero le Nike MaxFly che sono state approvate dalla federazione internazionale lo scorso 7 maggio e che potrebbero averlo avvantaggiato facendogli guadagnare qualche centesimo di secondo. Premettendo che, scarpe o meno, il successo di Jacobs è innanzitutto farina del suo sacco, è curioso però capire come funzionano queste “ali” che nei 100 metri sembrano offrire un vantaggio piccolo ma importante. “Marcell trova le sue chiodate molto comode - ha spiegato il suo allenatore, l’ex triplista Paolo Camossi, al Corriere della Sera - sono leggermente penalizzanti nel primo tratto e vantaggiose nel finale”. Tutto sembra tornare, dato che Jacobs era solo sesto dopo essere scattato dai blocchi di partenza, salvo poi mettere il turbo tra i 30 e i 60 metri e dominare tra i 60 e 90, con una velocità massima di oltre 43 km/h. In pratica per come sono state pensate, queste scarpe offrono una maggior stabilità nei primi appoggi e un guadagno importanze in accelerazione grazie a un maggior reclutamento di forza. Nella finalissima di Tokyo 2020 non era solo Jacobs a indossarle: anche l’americano Kerley (arrivato secondo) e il cinese Su Bingtian.

Da blitzquotidiano.it il 3 agosto 2021. Marcell Jacobs doping: sospetti americani e inglesi. L’ombra del doping sul fantastico oro di Marcell Jacobs? Entusiasmo e orgoglio nazionali costringono, anche giustamente, a derubricare a semplici e grette “rosicate” le riserve affacciate da giornali anche prestigiosi come l’americano Washington Post e l’inglese Times.

Marcell Jacobs doping: sospetti americani e inglesi. Insinuazioni, congetture, ma la questione, sebbene sgradevole, va affrontata. Il problema infatti non è la credibilità di Marcell ma quella dell’intero movimento dell’atletica leggera. Che ha molto, forse troppo, da farsi perdonare. E, d’altra parte, alzi la mano chi si aspettava l’exploit olimpico di Jacobs che, fino a maggio, a 26 anni, non era mai sceso sotto i 10 secondi.

“Obscure Italian from Texas”. Per il Post l'”obscure Italian from Texas” è un enigma. Certo, spiace per quell’aggettivo, oscuro, più impegnativo e carico di sospetti che non, per esempio, sconosciuto. Il commento, tuttavia, se non ci si arresta allo scetticismo preconcetto, è più sfumato. “Sarebbe ingiusto accusare Jacobs: a lui va dato il beneficio del dubbio, ma all’atletica no”, scrive il Post. Ed è difficile dargli torto. Come smentire l’assunto per cui l’atletica è “disseminata di campioni pop up rivelatisi poi imbroglioni col doping”? Giù le mani da Jacobs, non è colpa sua, insistiamo noi e lo riconosce anche il Post. Ma resta il fatto inconfutabile che “la storia dell’atletica leggera fa sospettare per i miglioramenti così improvvisi e così enormi”. Anche il Times batte sullo stesso tasto: “Da Ben Johnson a Gatlin a Coleman, l’arrivo di una nuova stella mette in allerta”. Un dato statistico non può che allarmare tutti, italiani compresi: delle 50 migliori prestazioni mondiali sui 100 metri, più di trenta sono da attribuire a velocisti che alla fine sono risultati positivi ai controlli antidoping. Secondo Antonio La Torre, direttore tecnico dell’atletica italiana, Jacobs è un fenomeno che non ha espresso ancora in pieno il suo potenziale. Già a Tokyo avrebbe potuto guadagnare ulteriori centesimi non si fosse voltato nella finale a guardare la posizione degli avversari.

“E’ andato sotto i 10 secondi la prima volta a maggio”. Sembra di vederlo il capo dello sport al Times mentre scuote la testa: “Il nuovo campione olimpico dei 100 metri, Marcell Jacobs, è andato sotto i 10 secondi per la prima volta a maggio. È venuto qui e ha corso 9,84 in semi e 9,80 per vincere. Ah bene”. Per Torre il commento è un concentrato di invidia e pregiudizio. “Credo ci sia un pochino di fastidio, non so se il termine giusto sia "rosicare". Non esiste nessuna legge che dice che chi vince lo sprint deve essere per forza americano o inglese”. Reazione comprensibile, ma che a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina lo ha detto un italiano, non un inglese o un americano. Ci fidiamo ciecamente di Marcell, ma chi metterebbe una mano sul fuoco sull’atletica leggera contemporanea?

"Attenzione alle sue scarpe". Continua il linciaggio contro Jacobs. Antonio Prisco il 4 Agosto 2021 su Il Giornale. Non è passato inosservato il modello della Nike indossato a Tokyo dal velocista azzurro, che consente di guadagnare fino ad otto centesimi di secondo. Non bastavano le accuse di doping, avanzate dalla stampa americana e britannica, adesso sotto i riflettori sono finite le scarpe di Marcell Jacobs, un modello della Nike che grazie ad una tecnologia rivoluzionaria diventano delle vere e proprie scarpe magiche. Ebbene sì il trionfo di Marcell Jacobs deve essere rimasto indigesto alle nazioni avversarie tanto che ormai il velocista azzurro viene passato ai raggi X sotto tutti i punti di vista. A questo proposito non sono passate inosservate le Nike MaxFly, che Jacobs indossava a Tokyo. Scarpe che grazie a una tecnologia rivoluzionaria possono far guadagnare fino a 8 centesimi di secondo. Questo piccolo vantaggio non deve destare però alcuna preoccupazione, visto che il modello in questione sono state approvate dalle World Athletics (la federazione internazionale) lo scorso 7 maggio. Premettendo che il successo di Jacobs è tutto frutto del suo lavoro, diventa interesse capire come funzionano queste scarpe magiche, tali da diventare delle vere e proprie ali. "Marcell trova le sue chiodate molto comode - ha spiegato il suo allenatore, l’ex triplista Paolo Camossi, alCorriere della Sera - sono leggermente penalizzanti nel primo tratto e vantaggiose nel finale". Analizzando la gara di Jacobs tutto sembra tornare, dato che era solo sesto dopo essere scattato dai blocchi di partenza, salvo poi mettere il turbo tra i 30 e i 60 metri e dominare tra i 60 e 90, con una velocità massima di oltre 43 km/h, praticamente simile a quella di uno scooter. Adesso proviamo a capirne la dinamica. Le Nike MaxFly pesano 173 grammi, il tacco è sotto i 20 mm e la piastra di carbonio nella suola, un pezzo unico, è più larga della pianta del piede. L’impressione è che la piastra funzioni come una specie di super-molla che aumenta la elasticità e che dovrebbe migliorare la prestazione anche nella fase lanciata e in curva, fino a guadagnare qualche centesimo di secondo, di sicuro un bel tesoretto per una gara come i 100 metri. Qualcosa di simile per efficienza (ovviamente con i chiodi) al modello indossato da Eliud Kipchoge nel giorno storico dell’1h59’40’’ di Vienna nella maratona. Insomma, se c’è chi grida al doping tecnologico, come era già successo in passato per le bici utilizzate per il record dell’ora oppure i costumi in poliuretano vietati dalla Fina, non bisogna neanche stupirsi pià di tanto. In fondo diventa legittimo chiedersi un'impresa leggendaria come quella di Jacobs può essere tutto merito delle scarpe? Sicuramente no, ricordiamo che nella finalissima di Tokyo 2020 non era solo Jacobs a indossarle: anche l’americano Kerley (arrivato secondo) e il cinese Su Bingtian. E poi dopo tutto nessuno ha mai sentito il grande Pietro Mennea lamentarsi delle scarpe di Bolt.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto 

Da gazzetta.it il 3 agosto 2021. Dispiacere e imbarazzo. Il numero uno del Coni Giovanni Malagò ha parlato delle insinuazioni che arrivano dagli Usa e dalla Gran Bretagna per l’oro di Jacobs nei 100 metri. “Jacobs accusato di doping? Le considerazioni di alcuni vostri colleghi sono veramente fonte di grande dispiacere e anche imbarazzo sotto tutti i punti di vista. Dispiace che qualcuno dimostri di non saper accettare la sconfitta - dice Malagò -. Oggi ha risposto bene Paolo Camossi, allenatore di Marcell. Parliamo di atleti che vengono sottoposti quotidianamente ai controlli antidoping e quando fanno un record tutto si raddoppia. Il numero dei test è impressionante. Per questo la mia è una difesa a spada tratta di Marcell”.

R.S. per "la Stampa" il 3 agosto 2021. Il Times e la Washington Post ci impiegano il tempo di una notte per gettare se non fango almeno veleno sulla strepitosa vittoria di Marcell Jacobs nei 100 metri: insinuano, ammiccano, dicono e non dicono. La vittoria dell'italiano è andata minimo di traverso ai signori dello sprint, che peraltro da tre Olimpiadi prendevano batoste da un signore giamaicano, e allora via con i sospetti sull'impresa di Jacobs. E si sa, quando si sospetta, nell'atletica il pensiero corre sempre al proibito. Devono proprio dar fastidio le vittorie italiane: ai Måneskin, dominatori all'Eurovision, mancava solo dessero la colpa del riscaldamento globale, prima di veder smontati tutti i sospetti. Come si dice rosicare in inglese?

M.Bon. per il "Corriere della Sera" il 3 agosto 2021. Non l'hanno presa sportivamente: ai cronisti americani e inglesi non va giù che un italiano abbia vinto la finale dei 100 metri, la corsa regina dello sport principe dell'Olimpiade. Possibile che si tratti di attacchi acuti di invidia da parte di chi - delle 29 assegnate nella storia dei Giochi - di medaglie d'oro se n'è portate a casa 19 e per questo forse crede di avere un diritto reale sul titolo. «Risultato scioccante» ottenuto da «atleta sconosciuto» sono le frasi prevalenti negli articoli e nei commenti dei reporter di lingua inglese che sui social, sentendosi forse più liberi, aggiungono ironia e seminano dubbi. «Vittoria shock di Jacobs» è il titolo identico di Guardian, Times e Washington Post, «Dal nulla al trono di Bolt» titola invece il Boston Globe. Il fatto che «nessuno dei suoi rivali conoscesse il nuovo campione olimpico» - come scrive il Globe - parte confortato dal secondo, delusissimo arrivato della finale, l'americano Fred Kerley, che dice di «non sapere assolutamente nulla di questo Jacobs». Normale, avrebbero potuto concludere i cronisti, se si considera che Kerley corre i 100 metri da appena un anno (era un quattrocentista) e che con Marcell - per colpa del Covid - non ha mai potuto incrociarsi. Che «soltanto i tifosi più fanatici di atletica avessero sentito parlare di Jacobs prima di ieri» - come fa notare il Washington Post - è possibile com' è pure probabile che anche il pubblico americano sappia poco o nulla dei due sprinter yankee in gara ieri, Kerley (2°) e Baker, 5°: la celebrità nazionale - Christian Coleman - è fermo ai blocchi fino al maggio 2022 per aver mancato tre controlli antidoping in 12 mesi. Già, perché se il dubbio è quello di miglioramenti così «improvvisi e immensi» da essere sospetti, come sostiene il Post, agli americani basterebbe ricordare solo gli ultimi tra i tanti casi di loro eroi olimpici beccati in castagna, Tyson Gay e Justin Gatlin. D'altronde - come spiega proprio il Times - «32 delle migliori 50 prestazioni sui 100 metri sono state realizzate da atleti poi trovati positivi o comunque squalificati» e quindi «il peso della storia è un fardello per ogni nuovo campione». Al momento sembra che Jacobs abbia le spalle abbastanza larghe per sopportarlo per i prossimi quattro anni. 

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 26 luglio 2021. Dror Eydar, 54 anni, ambasciatore israeliano a Roma dal settembre 2019, è innanzitutto un umanista. Cita Dante a memoria e nella sua residenza capitolina abbondano i libri sulla storia romana, scritti in ebraico, in inglese e in italiano. «Storicamente», dice mostrando alcuni di quei volumi antichi, «i rapporti tra Italia e Israele sono molto forti. Gli intellettuali ebrei si ispirarono al meraviglioso Risorgimento italiano. Nel 1861 Moses Hess, un ebreo tedesco, pubblicò Roma e Gerusalemme: 9 anni prima della presa di Roma, scrisse che con la liberazione della Città eterna sul fiume Tevere sarebbe iniziata la liberazione della Città eterna sul monte Moriah. Una profezia che si è realizzata».

E oggi, ambasciatore? Come sono i rapporti tra i nostri popoli?

«Italia e Israele collaborano in molti settori. Le aziende hanno interessi economici comuni, ma la componente fondamentale resta l'amicizia. Un mese fa, al termine dell'esercitazione congiunta, i piloti militari israeliani mi hanno detto cose meravigliose sui loro colleghi italiani. È così anche nell'agricoltura, nella sanità, nella cybersecurity, nella ricerca. La prima visita ufficiale del nostro ministro degli Esteri, Yair Lapid, è stata qui. Abbiamo tante cose in comune».

C'è dell'altro, mi pare di capire.

 «C'è una domanda che mi faccio. Perché noto una discrepanza tra questi rapporti così stretti e l'attitudine dell'Italia verso Israele nell'arena internazionale, a cominciare dall'Onu. Io non capisco, noi non capiamo. Ogni anno sono adottate oltre venti risoluzioni contro Israele, non c'è altra nazione che riceva un simile trattamento. Tutti sanno che le decisioni dell'Onu contro Israele sono un teatro dell'assurdo, eppure tutti, Italia inclusa, partecipano alla scena».

È accaduto anche di recente, dopo l'operazione a Gaza.

«È stata l'operazione di uno Stato democratico contro Hamas, organizzazione terroristica di stampo nazista. Eppure il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha varato una risoluzione per investigare su Israele, accusandolo di avere commesso "crimini di guerra". Senza dedicare una parola ai quattromila razzi lanciati contro Israele. E l'Italia si è astenuta, mettendo così Israele e Hamas sullo stesso piano».

Ne ha parlato con i nostri politici, presumo.

«Il capo della commissione Esteri al Senato, Vito Petrocelli (esponente del M5S, ndr), mi ha detto: "Non ho sostenuto né Israele né Hamas, io sono contro la violenza"».

E lei?

«Gli ho risposto che il popolo ebraico, quando finisce Shabbat, prega Dio di dargli l'abilità di distinguere tra la luce e il buio. Perché se una persona non sa distinguere tra uno Stato democratico che non vuole combattere ed è costretto a farlo, e un'organizzazione la cui ragion d'essere consiste nel distruggere Israele e gli ebrei, il problema non è nostro: è questa persona ad avere un grosso problema morale. Appartiene a quelli di cui scrive Dante nel Terzo Canto».

Gli ignavi.

«"Coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". Quelli che non meritano nemmeno di entrare all'Inferno, perché non hanno mai preso posizione». 

Per l'Italia è una tradizione. Nel 2016 si astenne sulla risoluzione Unesco che negava il legame tra gli ebrei e i luoghi sacri di Gerusalemme.

 «Tutto il mondo occidentale vuole intervenire nel rapporto storico, religioso e sentimentale che lega gli ebrei a Gerusalemme. Ma Gerusalemme non è una capitale come le altre: è la ragion d'essere degli ebrei. Durante l'esilio la ricordavamo ogni volta che mangiavamo e ancora oggi, dopo aver ringraziato Dio per il cibo, aggiungiamo: "E non dimenticare di costruire Gerusalemme"».

Gerusalemme è sacra anche per musulmani e cristiani, ambasciatore.

«Ma questo riguarda la religione, non la politica. Gerusalemme è stata una capitale politica solo per il nostro popolo. E solo la sovranità di Israele ha garantito che vi fosse libertà di religione e movimento per tutti».

Donald Trump ha spostato l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. È stato il primo, ma anche l'unico.

 «Trump ha fatto un grande gesto. È entrato nella Storia come il nuovo Assuero, il re persiano che dopo l'esilio babilonese permise agli ebrei di tornare a Gerusalemme. Riconoscerla come capitale politica eterna del popolo ebraico è la ricompensa per tutti i disastriche abbiamo sofferto». 

Matteo Salvini ha promesso di fare lo stesso. È questo che vi attendete dall'Italia?

«So che l'Italia non è l'impero romano, ma da Roma fu mandato Tito a distruggere Gerusalemme. Dopo quasi duemila anni il popolo ebraico è tornato a casa e ha ricostruito Gerusalemme. Cosa manca? Che anche Roma e l'Italia partecipino a questo miracolo. È il mio sogno».

In Italia, comunque, chi prende posizione c'è. Una scrittrice di sinistra, Michela Murgia, nei giorni scorsi ha scritto: «La penso come Hamas».

«È sorprendente, da parte di una scrittrice di origine cristiana. Se fosse stata nella striscia di Gaza sarebbe stata discriminata sia in quanto donna, che per Hamas non deve avere diritti, sia in quanto cristiana, perché Hamas ha perseguitato tutti i cristiani di Gaza».

La Murgia non è certo l'unica a pensarla così. Come se lo spiega?

«Ci sono intellettuali, o persone che vorrebbero esserlo, che fanno della loro ignoranza un'ideologia. Basterebbe che leggessero lo statuto di Hamas, scritto nel 1988. In quella carta ci sono due principi. Il primo è un impegno totale per la completa distruzione dello Stato ebraico, il secondo la promessa di uccidere ogni ebreo, ovunque si trovi. Negli ultimi cento anni conosco un solo documento in cui appaiano simili idee».

Il Mein Kampf.

«Appunto. A chi crede che sia possibile trattare con Hamas, consiglio di leggere questi articoli: "Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di resistenza islamico", cioè Hamas. "Non c'è soluzione per il problema palestinese se non il jihad"».

Magari certi personaggi trasferiscono su Hamas la loro simpatia per la causa palestinese e i poveri di Gaza.

«Ma Hamas non è "i palestinesi". È un'entità distinta che nemmeno riconosce l'Autorità palestinese. Certo, a Gaza ci sono poveri, ma quegli intellettuali ingenui non sanno che, anche mentre Hamas lanciava migliaia di razzi contro di noi, contro i nostri bambini, Israele non ha mai smesso di fornire a Gaza elettricità, acqua, benzina e cibo».

La Banca mondiale e altre organizzazioni stanno raccogliendo soldi da donare a Gaza, come riparazione per i danni subiti.

«È un'altra cosa che gli occidentali non capiscono: la maggior parte di quei soldi è usata per scopi terroristici, per mantenere la striscia di Gaza perennemente militarizzata. Il resto va direttamente ai capi di Hamas: la ricchezza di Ismail Haniyeh è valutata in 4 miliardi di dollari, quella di Musa Abu Marzook in 3 miliardi».

Un'altra accusa frequente a Israele è quella di condurre una politica di «apartheid» nei confronti dei palestinesi. La ripete anche Alessandro Di Battista, altro personaggio con un certo seguito.

 «Lo so, ci sono persone che ripetono in continuazione simili bugie. In Israele un giudice arabo ha mandato in prigione il presidente dello Stato di Israele. Questa sarebbe apartheid? Da noi i cittadini arabi hanno gli stessi diritti di tutti gli altri. Anzi, ne hanno più degli ebrei, visto che non debbono fare il servizio militare».

E lei come spiega che così tanti, in Occidente, spargano bugie su Israele?

«È il nuovo antisemitismo. Dicono di essere non contro gli ebrei, ma contro lo Stato ebraico, eppure lo scopo è sempre quello. Contestano il diritto di Israele a difendersi dai suoi nemici, quindi il diritto degli ebrei ad esistere e ad avere una nazione come gli altri popoli.E difendendoci non difendiamo solo noi stessi: Israele è l'avamposto contro il terrorismo e l'estremismo che minacciano il mondo libero».

A proposito: come sono i vostri rapporti con la Ue? A Bruxelles intendono rilanciare l'accordo sul nucleare siglato con l'Iran nel 2015.

«Conosco gli iraniani. Sono i numeri uno nel commercio, abilissimi nelle trattative e capaci di far cambiare opinione agli europei ingenui. Anche nel 2015 il mondo disse che Israele sbagliava ad opporsi. Due anni dopo, il Mossad si procurò l'archivio del progetto nucleare iraniano. E lì c'erano le prove che durante i negoziati l'Iran aveva mentito, le sue intenzioni erano militari. Adesso arriva Mohammad Zarif, il loro ministro degli Esteri, con completo inglese e cravatta, e tanto basta a convincere gli europei». 

La guerra tra Israele ed Iran è una delle grandi paure dell'Occidente. Fino a che punto siete disposti ad arrivare per difendervi?

«L'Iran dichiara ogni giorno che intende sterminare il popolo ebraico, e la Storia ci ha insegnato che dobbiamo credere ai dittatori quando dicono una cosa. Noi implorammo gli Alleati affinché bombardassero la linea ferroviaria di Auschwitz. Avrebbero potuto salvare mezzo milione di ebrei ungheresi, però non lo fecero. Ma abbiamo finito di implorare gli altri. Grazie a Dio, ora abbiamo la tecnologia per difenderci da soli e la saggezza per usarla. A nessuno sarà più permesso di sterminare gli ebrei. Se ci sarà la necessità, sapremo cosa fare».

Botswana, trovato diamante da 1.098 carati: è il terzo più grande al mondo. Ilaria Minucci il 18/06/2021 su Notizie.it.  In Botswana, l’azienda specializzata Debswana ha trovato un diamante da 1.098 carati che sembrerebbe essere il terzo più grande del mondo. In Botswana, è stato recuperato un diamante di 1.098 carati: la pietra preziosa, con una grandezza corrispondente a quella di un’arancia, rappresenta il terzo diamante più grande del mondo. L’azienda specializzata Debswana, con sede in Botswana, Stato dell’Africa australe, ha recentemente annunciato di aver trovato il terzo diamante più grande del mondo: la pietra da 1.098 carati ha dimensioni pari a 73x52x27 mm, analoghe a quelle di un’arancia. Il diamante rinvenuto in Botswana è stato estratto nella giornata di martedì 1° giugno ed è stato presentato a livello internazionale dal presidente della Nazione, Mokgweetsi Masisi, e dall’amministratore delegato ad interim dell’azienda Debswana, Lynette Armstrong. In questa circostanza, l’amministratore delegato Lynette Armstrong ha dichiarato: “Questo è il più grande diamante recuperato da Debswana nella sua storia di oltre 50 anni di attività – e ha aggiunto –. Da un’analisi preliminare, potrebbe essere la terza pietra più grande del mondo. Dobbiamo ancora decidere se venderla attraverso il canale De Beers o attraverso la Okavango Diamond Company, di proprietà statale”. In merito al ritrovamento della pietra preziosa, il ministro dei Minerali Lefoko Moagi ha ammesso che un simile avvenimento non si sarebbe potuto verificare in un momento più opportuno per il Paese. La pandemia da coronavirus che si è abbattuta in Botswana e nel mondo intero, infatti, ha fortemente compromesso il mercato dei diamanti, non solo nello Stato dell’Africa australe ma anche in contesto internazionale. Nel corso del 2020, in concomitanza con la pandemia, la produzione dell’azienda relativa ai diamanti è calata di oltre il 29%. Al contempo, un drastico calo è stato registrato anche nel settore delle vendite che sono, per l’appunto, diminuite del 30%. Per tutti i motivi appena citati, quindi, il presidente del Botswana, Mokgweetsi Masisi, ha ribadito che il recupero del diamante da 1.098 carati è un “segno di speranza per un Paese che sta lottando”. Il diamante del Botswana, dunque, sembra classificarsi al terzo posto tra le pietre preziose più grandi esistenti al mondo. Al primo posto della classifica, si trova il Cullinan da 3.106 carati, trovato in Sudafrica nel 1905. Il secondo posto della classifica, invece, è attualmente occupato dal Lesedi La Rona da 1.109 carati rinvenuto nel 2015 in una miniera del Nord Est del Botswana. La Nazione, del resto, è nota per essere il primo produttore di diamanti a livello mondiale.

Chi si è mangiato l'Africa: in 20 anni ceduti a società straniere 30 milioni di ettari di terra. La denuncia nell'ultimo rapporto dell'ong Land Matrix. Su questa superficie più grande dell'Italia gruppi asiatici, europei, emiratini, libanesi e americani sfruttano principalmente le foreste. Creando grandi rischi per l'ambiente. Pietro Del Re su La Repubblica il 22 aprile 2021. A chi appartiene l’Africa? E’ una domanda lecita guardando i dati dell’ultimo rapporto dall’organizzazione non governativa Land Matrix secondo cui negli ultimi vent’anni 35 milioni di ettari del continente (l’Italia ne conta un po’ più di 30 milioni) sono stati ceduti a società straniere. E’ altrettanto lecito chiedersi chi sono questi investitori, dove investono e che cosa producono.

"Cari bambini, lodate le truci divinità azteche". L'incredibile caso dei curricula scolastici americani che rivalutano gli dei sanguinari. Fiamma Nirenstein - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Fra le tante vicende del razzismo antibianco, quella più sorprendente riguarda gli aztechi. Non è una vicenda marginale: possiamo benissimo immaginarla in qualsiasi parte del mondo, in Israele con i caananiti o i samaritani, in Italia con gli Aquitani o i Reti. Succederà: «La bianchezza - traduco così il concetto di whiteness - inquina l'aria, devasta le foreste, scioglie i ghiacci, diffonde e finanzia le guerre, appiattisce i dialetti, infesta la coscienza, uccide la gente». Lo ha scritto Damon Young, collaboratore del New York Times, e lo cita Victor Davis Hanson, lo storico conservatore, in una bellissimo saggio sul razzismo antibianco. Torniamo agli aztechi: una nuova proposta di curriculum scolastico per 10 mila scuole californiane, e che riguarda sei milioni di studenti, in nome della decolonizzazione reintroduce il simbolismo religioso azteco nel nuovo programma (messo al voto proprio in questi giorni) chiamato Ethnic Studies Model Curriculum e lo allarga dai campus americani alla scuola primaria e secondaria. Il curriculum si basa sulla «pedagogia degli oppressi» sviluppato dal teorico marxista Paolo Freire. In primis gli studenti devono sviluppare una «comprensione critica», e di conseguenza essere in grado di rovesciare la cultura degli oppressori, cioè i bianchi. Christopher Rufo scrive sul City Journal che, secondo il programma californiano, gli insegnanti devono, come compito primario, aiutare gli studenti a «sfidare credenze razziste, bigotte, discriminatorie, imperialiste, coloniali». E chi le manifesterebbe? I bianchi, tutti quanti. La società americana è accusata in blocco di essere razzista, partecipe di ogni forma di oppressione, consapevole e inconsapevole, oggi, ieri o in qualsiasi altro tempo: essa dunque richiede, subito, una revisione della storia. I monumenti a George Washington e ad altri padri della patria devono essere rovesciati; si deve cancellare il linguaggio, e con esso il pensiero, dei maggiori scrittori bianchi, compreso Shakespeare, Dante Alighieri ed Hemingway. Questo vale naturalmente anche per gli artisti: Michelangelo (come si permette di rappresentare David come un giovane atleta bianco?) o Edward Hopper. Secondo Tolteka Cuahtin, il co-chair dell'Ethnic Studies Model Curriculum californiano, ma anche secondo molti altri autori, queste opere sono basati su «paradigmi europei etnocentrici, suprematisti bianchi(razzisti, anti-neri, anti-indigeni), capitalisti (classisti), patriarcali (sessisti o misogini), omofobici e antropocentrici». Il testo di Cuahtin parla di «furto della terra, istituzione di gerarchie bianche ed europee che hanno creato ricchezza eccessiva divenuta la base dell'economia capitalista». Da qui nasce una «egemonia», che non si è mai interrotta, in cui le minoranze vengono assoggettate con «la socializzazione, l'addomesticamento» e addirittura la «zombificazione». È un disegno malefico e aggressivo: la cultura monoteista giudaico cristiana (anche con la sua ramificazione «pacifica» musulmana), la democrazia e il liberalismo sono i suoi rami spinosi e carichi di frutti velenosi. L'idea totalmente priva di fondamento logico è che i contemporanei oggi avrebbero agito infinitamente meglio, e che comunque la nostra cultura è peggiore delle altre, anche quelle, come la cinese o la islamica, che palesemente non consentirebbero di governare a una persona di etnia e religione diversa. Sulla questione non minore della schiavitù, che è una delle principali rivendicazioni del movimento Woke si seguita a ignorare il fatto che non c'è cultura, inclusa quella nera e quella islamica, che non abbia avuto, o addirittura tuttora abbia, un retaggio schiavista. Tutti hanno avuto schiavi e, in realtà, i primi a liberarsene sono stati i bianchi. Cuahtin spiega dunque, riguardo agli Aztechi, che i cristiani hanno compiuto un teocidio, rimpiazzando gli dei indigeni col loro credo. La conseguenza, per lui, è che occorre oggi una «controegemonia» che spazzi via il cristianesimo (e immagino anche l'ebraismo) e rimetta in sella qualche dio spaventoso che appare con fauci aperte e denti acuminati sulle piramide di Teotihuacan. Il nuovo curriculum suggerisce che non si recuperi solo la memoria storica di questa divinità, ma che sia lodata e pregata dai bambini. Un programma di canzoni indigene include In Lak Ech in cui si chiede al dio Tetzkatlipoka, che veniva onorato con sacrifici umani, di trasformare il fedele in un coraggioso guerriero. Agli altri dei si chiede uno spirito rivoluzionario e alla fine si impetra «liberazione, trasformazione, decolonizzazione». A New York una scuola privata di Manhattan, la Grace Church School, dà agli studenti 12 pagine di guida sul linguaggio: vi si sostituiscono le parole madre, padre, genitori con «i grandi», «i compagni», «la famiglia», «i guardiani». Anche i riferimenti a una residenza fissa sono cancellati. Invece di chiedere a una persona «di dove sei» o «che cosa fai» si deve chiedere «qual è la tua origine culturale o etnica» e «di dove sono i tuoi progenitori». La conseguenza è la paura: nei campus chi non concorda con la revisione culturale razziale è sospettato di «suprematismo bianco» solo per il colore della sua pelle, con marginalizzazione e shaming nelle scuole e nella cultura, con sospetti e espulsioni dal lavoro. Anche Netflix, come tutta Hollywood, non produce più un film in cui non si snocciolino tutti i credo anti-capitalista, anti-coloniali, pro donna. Con la conseguenza di una noia infinita. Molti scrittori e intellettuali quasi senza accorgersene percorrono la stessa strada. Un articolo di Bari Weiss (espulsa dal New York Times) racconta un dialogo segreto di un gruppo di genitori allarmati: «Se si sapesse che ci siamo riuniti a parlare - dicono dalla loro riunione clandestina a Los Angeles - potremmo subire serie ripercussioni». Si tratta di gente ricca che manda i figli in scuole milionarie. Ma qui ormai oltre alla ripetizione quotidiana di teorie anti-capitaliste, risuona il discorso incessante sull'America come Paese cattivo, da cancellare, da ricostruire da zero. I genitori alla riunione si ripetevano che la scuola ti può espellere per qualsiasi ragione e se vieni definito «razzista» sei peggio di un assassino, e non verrai mai più accettato: «Vedo cosa sta accadendo ai miei bambini» dice un genitore «sono educati nel risentimento e nella paura». La cultura del risentimento sta diventando distruttiva e dilagante. I teorici della svolta americana, come Ibram Kendi, autore di Come essere antirazzista sostengono che il centro del razzismo è la negazione. Più sei razzista, più neghi di esserlo. Così, si forgiano nuove norme per cui nelle scuole americane se sei bianco e maschio non puoi rispondere per primo anche se sai la risposta; e il ragazzo, raccontano i genitori, torna spesso a casa facendo mea culpa per il razzismo di cui né lui né la sua famiglia si sono mai macchiate. Si formano gruppi di «solidarietà razziale» da cui vengono esclusi i bianchi, i maschi o chi non mostra «solidarietà e compassione razziale». Gente che non potrebbe capire «sconforto, confusione, difficoltà che spesso accompagnano il risveglio razziale». Il problema oscura l'uso della violenza da parte di Black lives matter o di Antifa, impedisce di giudicare le persone come individui e non come una razza o un genere. La scala di valori di una società liberale è stata rovesciata. Regna la confusione. Il giudizio contro chi viene a priori considerato parte della agenda «suprematista» è sempre più aggressivo. È interessante che questa ondata sia guidata e faccia presa su élite bianche, ricche, spesso intellettuali... è sempre stato così, anche quando ero una ragazza degli anni '70. Si spezza qui il sogno di Martin Luther King che sperava che un giorno ogni uomo venisse giudicato per quel che vale, e non per il colore della sua pelle. Dopo tanto lavoro della società americana e del mondo democratico c'è ancora il razzismo ed è, oggi, alla rovescia.

Mirella Serri per "la Stampa" il 15 giugno 2021. Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo la protesta degli studenti e dei professori delle università americane aveva incendiato gli animi e le piazze per poi approdare in Europa: Malcolm X era il piccolo grande eroe schierato contro la discriminazione razziale, le pioniere del femminismo, Shulamith Firestone, Kate Millett e Robin Morgan, spalancavano le porte al dibattito sull' eguaglianza tra i sessi, e gli studiosi e politici anticolonialisti, da Frantz Fanon a Léopold Sédar Senghor, Patrice Lumumba e Aimé Césaire, volevano sottrarre i popoli a ogni tipo di dominazione. Dove sono finite queste rivendicazioni? Pascal Bruckner, uno dei più noti pensatori francesi del gruppo dei Nouveaux Philosophes, ha appena pubblicato Un colpevole quasi perfetto. La costruzione del capro espiatorio bianco (Guanda, pp. 311, 20), polemico saggio in cui ripercorre la nascita dei movimenti antisistema della seconda metà del Novecento ma mette soprattutto in discussione le attuali correnti di pensiero neofemminista, antirazzista e anticolonialista che spesso finiscono per contraddire le istanze progressive del passato. Le sue idee hanno suscitato un gran vespaio in Francia.

Professor Bruckner, come mai ritiene che si siano fatti passi indietro nella riflessione sulle discriminazioni? Cos'è successo?

«C'è stata un'inversione di tendenza dopo la caduta del Muro di Berlino. Si è dissolto ogni tipo di conflitto ideologico, è venuta meno quella che allora si chiamava "lotta di classe" e la sinistra, comunista e socialdemocratica, non ha saputo elaborare una cultura anticapitalistica ed egualitaria. Le aggregazioni di avanguardia sono diventate di retroguardia, dominate da forme di neopuritanesimo. La cultura degli anni 60 era illuminista». 

Quella che oggi va per la maggiore è invece oscurantista?

«Prendiamo, per esempio, le teorizzazioni sui rapporti tra i due sessi che sono state elaborate negli atenei della California e che hanno avuto una grande eco in Francia. Un tempo si ambiva alla parità tra uomo e donna. Adesso si punta il dito contro le colpe del maschio. Dal sociologo Eric Fassin alla filosofa Geneviève Fraisse, è tutto un fiorire di elaborati sulla "cultura dello stupro", secondo cui la violenza sessuale non viene considerata un'opzione individuale, un'eccezione, bensì una pratica iscritta nella norma. Un uomo su due o tre sarebbe quindi un aggressore. Lo stupro, inteso come un dato diffuso e comune, perde il suo tratto di esperienza tremenda ed estrema, viene di fatto minimizzato e le nuove esagerazioni privano di valore ogni protesta». 

Da dove nasce questo fiorire di teorie estremiste?

«Nei campus americani il pensiero di intellettuali libertari francesi, come Foucault e Derrida, si è trasformato in qualcosa di pericoloso e di diverso. È stata la studiosa di diritto Kimberlé Crenshaw la prima, nel 1991, a coniare il concetto di "intersezionalità". Cosa vuol dire? È la condizione attuale di chi vede accumularsi su di sé varie forme di discriminazione, come il sessismo, il razzismo, l'omofobia o la transfobia. L' insieme di queste ferite rende assai fragile, ad esempio, una donna di colore e lesbica. Un maschio eterosessuale bianco, anche se afflitto da handicap, malattie o povertà, è sempre vincente e avvantaggiato. Non sono solo dibattiti astratti. Nel 2017 una ragazza che voleva partecipare alla marcia delle donne contro Donald Trump, in quanto bianca è stata respinta dalla folla inferocita. Doveva prima fare ammenda poiché "parte di uno sfruttamento razzista". Si ragiona in termini di categorie identitarie o razziali, ovvero con i medesimi parametri che abbiamo sempre respinto. Così, per porre un limite alla cultura dello stupro che sarebbe intrinseca alla mentalità maschile, ora in alcune università si chiede alle coppie di studenti di firmare un "consenso" preventivo all' eventuale atto sessuale. Queste condotte radicali hanno investito anche il mondo artistico». 

Si riferisce alle degenerazioni del politicamente corretto?

«Tutto ha inizio nel campus della Stanford University nel gennaio del 1988, quando alcuni giovani, alla presenza del politico e attivista Jesse Jackson, gridarono "la cultura occidentale deve essere spazzata via". Tra i primi a finire sulla graticola fu Herman Melville con Moby Dick poiché "non c' è neanche una donna nel suo libro, c' è cattiveria verso gli animali e quando si arriva al capitolo 28 la maggior parte dei neri è morta annegata": così scrisse uno studente al New York Times. Le femministe americane hanno fustigato Picasso, Balthus, Renoir e Degas poiché le loro opere trasudano odio nei confronti delle donne. In occasione della mostra che la National Gallery ha dedicato a Gauguin, una critica d' arte ha invitato gli organizzatori a interessarsi alle "migliaia di artisti formidabili" e spesso sconosciuti, anziché a questo "pedofilo perverso: nel 2020 non dobbiamo più promuovere i maniaci sessuali"». 

Esistono questi fanatismi, ma sessismo e razzismo debbono essere comunque combattuti. Cosa si può fare?

«Nelson Mandela e Martin Luther King lottavano per la riconciliazione del genere umano, non per lo scontro tra tribù. Ambivano ad allargare il loro mondo per farvi entrare gli schiavi, i dannati della Terra. Gli eredi ne distorcono il messaggio. In America ci si accanisce contro Cervantes e Faulkner, considerati razzisti, maschilisti e colonialisti. Ma la forza della cultura occidentale moderna è tutta nell' elaborazione di un pensiero critico che ha saputo prendere le distanze dal terreno stesso che lo ha generato. Una cultura che proprio il neopuritanesimo rinnega».

La battaglia tra Gop e dem sulla teoria critica della razza. Roberto Vivaldelli su Inside Ove ril 18 giugno 2021. La guerra culturale fra progressisti e conservatori che infiamma l’America ha introdotto nel dibattito pubblico delle nuove definizioni e termini a loro volta derivati perlopiù dal mondo accademico e giornalistico: cancel culture, woke supremacy, e non ultimo la Critical race theory (Crt), la “Teoria critica della razza” nata in seno al mondo degli studiosi della New left americana degli anni ’70 e ’80 e agli studiosi di diritto e giurisprudenza afroamericani – come il defunto docente di Harvard Derrick Bell o Kimberlé Williams Crenshaw – e diventata oggi uno dei pilastri del politically correct e del pensiero postmodernista che circola nei campus americani e circoli più progressisti d’America. La teoria critica della razza, così come descritta dalla UCLA School of Public Affairs, “riconosce che il razzismo è radicato nel tessuto e nel sistema della società americana. Il razzismo istituzionale è pervasivo nella cultura dominante”. Ufficialmente, il movimento intellettuale che porta avanti tale teoria è nato in un seminario del 1989 guidato da Crenshaw, Neil Gotanda e Stephanie Phillips al St. Benedict Center di Madison, Wisconsin, anche se molte delle idee alla base della teoria critica della razza erano nate, come già accennato, nel decennio precedente.

Se secondo Carl Schmitt, “la storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare” e per Karl Marx la storia è fatta di una dialettica fra sfruttatori e oppressi, per i sostenitori della Critical race theory le questioni sociali, culturali e legali vanno affrontate in relazione alla razza e al razzismo. Inoltre, la “supremazia bianca”, attraverso il “razzismo sistemico”, esiste e mantiene il potere attraverso la legge e una visione della storia vista sotto la prospettiva dei bianchi. Per tale motivo non dovrebbero sorprendere le battaglie ideologiche dei crociati del politicamente corretto contro i simboli del passato: la storia è stata scritta dai bianchi e, dunque, è nei fatti un riflesso del “razzismo sistemico”. Ne consegue, secondo questa “teoria”, profondamente segnata da una sorta di costruzionismo sociale, che i bianchi sono intrinsecamente razzisti e dovrebbero sentirsi in colpa per i privilegi di cui hanno goduto nel corso della storia.

La diatriba della teoria critica della razza. Molti studiosi e accademici hanno criticato la teoria critica della razza e i suoi sostenitori spiegando che essa fomenta il razzismo dei neri contro i bianchi e dunque una guerra cultura insuperabile. Tra questi c’è il giudice Richard Posner della Corte d’Appello del Settimo Circuito degli Stati Uniti, il quale ha sostenuto, nel 1997 che la teoria critica della razza “volta le spalle alla tradizione occidentale dell’indagine razionale, rinunciando all’analisi per la narrativa”. Inoltre, rifiutando l’argomentazione ragionata, i teorici della razza critica, “rafforzano stereotipi sulle capacità intellettuali dei non bianchi”. L’ex giudice Alex Kozinski, che ha prestato servizio presso la Corte d’Appello del Nono Circuito, ha criticato i teorici critici della razza nel 1997 per aver sollevato “barriere insuperabili alla comprensione reciproca” e quindi eliminando opportunità di “dialogo significativo”. La tesi di fondo dei progressisti che sostengono questo movimento culturale-intellettuale è che chi si oppone alla teoria critica della razza è fondamentalmente razzista. Come spiega al Time Priscilla Ocen, professoressa alla Loyola Law School, “la teoria critica della razza invoca una società egualitaria, una società giusta e una società inclusiva, e per arrivarci dobbiamo individuare gli ostacoli al raggiungimento di una società di questo tipo”, dice. Sempre secondo il Time, infatti, la teoria critica della razza “offre un modo di vedere il mondo che aiuta le persone a riconoscere gli effetti del razzismo storico nella vita americana moderna”. Secondo la testata liberal The Atlantic, i conservatori e i politici del Gop sono semplicemente “ossessionati” dal dibattito sulla Critical race theory.

I repubblicani vietano l’insegnamento della teoria nelle scuole. Secondo l’ultimo sondaggio condotto da Rasmussen Reports, il 43% degli elettori repubblicani statunitensi crede che insegnare la teoria critica della razza nelle scuole pubbliche peggiorerà le relazioni razziali in America. Solo il 24% pensa che insegnare la Crt migliorerà le relazioni razziali, mentre il 17% pensa che non farà molta differenza e il 16% non è sicuro. Come spiega l’Osservatore repubblicano, sempre più stati – non solo a guida Gop – stanno attuando misure contro l’insegnamento della teoria critica della razza nelle scuole: Arizona, Arkansas, Florida, Idaho, Iowa, Louisiana, Mississippi, Missouri, New Hampshire, Nord Dakota, Oklahoma, Rhode Island, Carolina del Sud, Sud Dakota, Tennessee, Texas, Utah, Virginia dell’ovest e Wisconsin. Come riporta il Washington Times, il governatore repubblicano del Texas Greg Abbott ha firmato una legge, nelle scorse ore, per vietare l’insegnamento della teoria critica della razza nelle scuole e del progetto 1619 del New York Times, celebre inchiesta del quotidiano che guarda alla storia del Paese mettendo al centro il fenomeno dello schiavismo, arrivando a mettere in discussione la bontà della Costituzione emanata nel 1787.

Il Gop, dunque, ha dichiarato guerra a una teoria che vuole riscrivere la storia. Poco prima di lasciare la Casa Bianca, l’ex Presidente Usa Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo – poi revocato da Joe Biden – vietando “la formazione sulla diversità e la sensibilità razziale” nelle agenzie governative, compresa tutta la “spesa governativa relativa a qualsiasi formazione sulla teoria critica della razza”. Fu convinto da un’intervista rilasciata dall’attivista conservatore Christopher Rufo su Fox News che descriveva “i programmi di teoria critica della razza nel governo” come “il culto dell’indottrinamento”. A marzo il senatore Tom Cotton, repubblicano dell’Arkansas, ha presentato un disegno di legge che cercava di vietare l’insegnamento della Crt perché – osserva – è una teoria profondamente “razzista”. Secondo the Federalist, la teoria critica della razza “è qui in America e coloro che lo supportano non si fermeranno davanti a nulla per agire come se non fosse un grosso problema”, mentre il commentatore conservatore Mark Levin spiega che si tratta di un’altra teoria “razzista”. In qualunque modo la si veda, la teoria critica della razza pare dividere un’America sempre più pericolosamente polarizzata sui principi fondamentali e sulla sua stessa storia. Una china molto pericolosa per la più grande democrazia liberale del mondo.

Bruckner smaschera il nuovo razzismo antibianco. Continua a fare discutere il libro del filosofo francese contro le follie e l'intolleranza del finto antirazzismo. Mauro Zanon, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Parigi. Quando pubblicò Il singhiozzo dell'uomo bianco, nel lontano 1983, alcuni dei suoi ex compagni della gauche militante dissero che quel libro era «in odore di razzismo», perché Pascal Bruckner, figura di spicco dei «Nouveaux philosophes», denunciava il sentimentalismo terzomondista che dominava in una certa sinistra e l'autolesionismo di un'élite bianca consumata da un delirante odio di sé, dall'idea che tutti i mali della terra trovassero origine in Occidente. Oggi, nonostante le previsioni di Bruckner trovino sempre più riscontro nella realtà, a colpi di strade sbattezzate, università «decolonizzate», statue abbattute e libri censurati perché infarciti di «stereotipi razzisti», il filosofo francese viene trattato come un «reazionario» irredimibile, un «vecchio maschio bianco eterosessuale», nostalgico di un mondo che non esisterà più. Bruckner di questi «marchi d'infamia» che gli vengono appiccicati addosso ne ha fatto un motivo di fierezza, e combatte contro i suoi avversari con l'arma che sa utilizzare meglio: la penna. Il suo recente Un coupable presque parfait. La construction du bouc émissaire blanc (Grasset) - che non smette di far discutere - è il grido di allarme di uno dei più lucidi intellettuali francesi viventi, che osserva preoccupato la progressiva decadenza dell'Occidente e del progetto universalista dei Lumi, a beneficio di una società tribalizzata in preda alla lotta di generi, razze e comunità, dove l'uomo bianco è «il nuovo Satana». «Non invoco la rivincita dell'uomo bianco, denuncio l'idea che sia considerato come il capro espiatorio: il discorso femminista, antirazzista e decoloniale che designa l'uomo bianco e la donna bianca come la fonte di tutte le disgrazie dell'universo è un discorso semplicistico», ha dichiarato Bruckner a France Culture. Il femminismo tradizionale era universalista, «il neofemminismo», invece, «è apertamente separatista, se non addirittura suprematista, e mette i sessi l'uno contro l'altro», attacca il filosofo parigino, secondo cui «il femminismo del progresso si è trasformato in un femminismo del processo». Un esempio di questa tendenza è la recente esternazione della femminista radicale Alice Coffin, autrice del libro Le Génie lesbien, che ha invitato le donne a «eliminare gli uomini dalle nostre menti: non dobbiamo più leggere i loro libri, né guardare i loro film, né tantomeno ascoltare la loro musica». Molte neofemministe americane, a cui le colleghe francesi si ispirano, presentano l'uomo bianco come uno «stupratore in potenza», ontologicamente predatore, dice Bruckner, ma tacciono quando a macchiarsi di episodi di aggressione sessuale sono le minoranze arabe e africane che vivono in Occidente, come è accaduto con le violenze di massa del Capodanno di Colonia del 2016. Il neofemminismo va a braccetto con il nuovo antirazzismo, che non ha nulla a che vedere con l'antirazzismo originario, difensore di un'idea di umanità comune al di là della diversità delle origini e delle culture. Il nuovo antirazzismo esaspera le identità, si concentra sul colore della pelle e resuscita un concetto di razza che si credeva abolito, creando le condizioni di un nuovo apartheid. «Oggi vengono denigrati i volti di gesso, per celebrare gli altri colori della pelle attribuendo loro tutte le virtù», spiega Bruckner. La nuova ideologia antirazzista, dietro cui si nasconde un razzismo anti-bianco alimentato dalle minoranze e un autorazzismo folle delle élite occidentali, si sta diffondendo in tutti i settori della società francese. Delphine Ernotte, direttrice di France Télévisions, ha dichiarato che nella tv pubblica del futuro «gli uomini bianchi di più di cinquant'anni» avranno sempre meno spazio, a favore delle persone figlie della «diversità». Sulla sua scia, anche il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ha dato prova di apprezzare certe idee di provenienza americana. In un'intervista al settimanale L'Express di poche settimane fa, Macron ha infatti evocato l'esistenza in Francia di un «privilegio bianco», uno dei capisaldi del movimento Black Lives Matter. La frase ha fatto trasalire Bruckner, perché «parlare di privilegio bianco significa risvegliare l'idea di un peccato originale». In nome del multiculturalismo, l'Occidente sta cancellando se stesso, la sua storia millenaria, i suoi capolavori, e l'uomo bianco eterosessuale occidentale, ormai, «è in fondo alla gerarchia», afferma Bruckner, prima di aggiungere: «Meglio essere scuri che pallidi, omosessuali o transgender che eterosessuali, donne piuttosto che uomini, musulmani anziché ebrei o cristiani, africani, asiatici e indigeni piuttosto che occidentali». Secondo Bruckner, «l'unica identità che ai bianchi viene ancora concessa è quella della contrizione. I professatori di vergogna, le neofemministe, i decolonialisti e gli indigenisti dilagano, e ci invitano a pentirci». E ancora: «È in corso una vasta impresa di rieducazione, all'università, sui media, che chiede ai bianchi di rinnegare se stessi. L'ultima volta che abbiamo subìto la propaganda razziale è stata con il fascismo negli anni Trenta: la scomunica a priori di una parte della popolazione. Eravamo vaccinati, grazie. Ma ci torna indietro da oltreoceano mascherata da antirazzismo, con nuovi protagonisti». I nuovi fanatici della «cancel culture» che vogliono affossare l'Occidente. E l'uomo bianco.

Francesco Borgonovo Matteo Ghisalberti per "la Verità" il 3 giugno 2021. Pascal Bruckner è uno dei più influenti intellettuali europei. Uomo di sinistra, da anni lotta contro il pensiero unico. Lo fa anche nel suo nuovo e meraviglioso libro (Un colpevole quasi perfetto, appena uscito per Guanda), in cui si occupa del più scorretto degli argomenti: «La costruzione del capro espiatorio bianco».

Come è stato possibile che il maschio-bianco-etero diventasse il nemico pubblico numero uno?

«È da molto che un certo discorso femminista considera l' uomo come un nemico. Nel femminismo originario c' era questa idea che l' uomo fosse il colpevole ideale. Ma è con la fine del colonialismo che nasce in Occidente l' idea secondo cui l' uomo bianco ha oppresso i popoli di tutto il mondo e deve pagare per i suoi crimini. Nel discorso anticoloniale degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta era questa l' idea di fondo. Oggi ha perso struttura politica, e si è semplicemente legata al colore della pelle. Questa è la novità del razzialismo nordamericano rispetto all' antirazzismo di origine europea».

L' Europa subisce l' influenza ideologica statunitense?

«Queste idee sono tutte di origine francese. Provengono dai professori dell' università Paris VIII-Vincennes della fine degli anni Settanta: Foucault, Deleuze, Derrida, Bourdieu Sono loro che hanno letteralmente creato tutte queste idee e le hanno esportate negli Stati Uniti. Il movimento Woke o la Cancel culture sono una sorta di trasformazione delle idee francesi che vengono poi riesportate in Francia, Italia, Spagna... Ma l' origine di tutto è made in France. Queste idee tornano etichettate made in America, ma in realtà sono i pensatori francesi che inizialmente hanno prodotto tutte queste teorie. Negli Usa le idee francesi sono state trasformate e tradite, perché il pensiero francese degli anni Settanta era contro l' identità, contro la razza, mentre ora ci troviamo di fronte a una esaltazione dell' identità e della razza».

Si può dire che oggi esista un razzismo anti-bianco?

«Sì, c' è un razzismo anti-bianco. Lo avevo già segnalato nel 1983 in Il singhiozzo dell' uomo bianco. Ma all' epoca era ancora embrionale. Ora nei Paesi occidentali il semplice colore della pelle segna la tua appartenenza per l' eternità al campo dei razzisti. Ciò significa che se un uomo o una donna bianca vogliono definirsi antirazzisti devono prima riconoscere di essere razzisti dalla nascita a causa della loro epidermide. Questo è molto grave. È ovviamente una trasformazione inaspettata e folle dell' antirazzismo».

Sembra una specie di «autorazzismo».

«C' è una sorta di "peccato originale". L' uomo bianco, qualunque cosa faccia, è colpevole di esistere. È colpevole di essere. Questa è la definizione stessa di razzismo, era l' accusa rivolta dai nazisti agli ebrei. In questo caso diamo la colpa ai bianchi. È abbastanza sorprendente vedere che gli "antirazzisti" sono in realtà neorazzisti. Perché va detto chiaramente: sono razzisti di nouvelle manière. Hanno riscritto le leggi di Norimberga, ma contro i bianchi».

Come è potuto accadere?

«Secondo me dipende dal vuoto del discorso di sinistra. La sinistra comunista - messa in difficoltà dalla caduta del muro di Berlino - e la sinistra socialdemocratica non sono riuscite a creare un progetto alternativo al capitalismo. Così nel vuoto della teoria si è infilato questo discorso razzista che viene dai campus e che esiste dagli anni Novanta. Ma con la scoperta dell'intersezionalità è stato affinato, rielaborato e riesportato in Francia. Grazie a Internet, ma anche grazie a un gran numero di professori francesi che vivono negli Stati Uniti e che sono stati follemente sedotti da queste teorie e le vogliono adattare alla situazione francese, italiana, spagnola, inglese o tedesca».

Lei dice di aver apprezzato il femminismo delle origini. Ma non c' erano già lì tutti i germi di quanto è venuto dopo?

«Avete assolutamente ragione. La grande teorica del differenzialismo è una francese: Monique Wittig. Le piaceva affermare che la donna non esiste, che è un' invenzione dell' uomo e che la differenza tra i sessi è una fantasia. Il suo lavoro è degli anni Settanta, rileggendolo oggi siamo colpiti da questo ritorno in stile boomerang delle teorie Lgbt. È necessario sapere che a furia di negare la biologia e di non riconoscere che ci sono uomini e donne (affermando ad esempio che ci sono semplicemente persone con o senza utero) abbiamo raggiunto l' apice del grottesco. Ancora una volta, penso che i francesi abbiano una parte della responsabilità di questo delirio. È poi interessante notare che, tra gli Lgbt, gli "Lgb" hanno un pessimo rapporto con i "T". C' è una spaccatura molto violenta tra lesbiche e transessuali. Negli Usa e in Inghilterra ci sono stati scontri fisici in quanto le lesbiche accusano i transessuali di essere uomini travestiti. Significa che in qualche modo la natura sta tornando».

Nel libro si sofferma molto sul consenso nei rapporti sessuali. La confusione sul tema non nasce in fondo dalla liberazione sessuale? Se tutto è concesso non resta che il contratto per regolare i rapporti fra persone...

«Certo. Penso che ci siano due scuole in questo senso. C' è la scuola "latina" - in Francia, Spagna, Italia - che presuppone il tacito consenso. C' era una cultura della seduzione - seduzione reciproca tra uomo e donna - che sfociava in rapporti carnali che potevano essere positivi o negativi. Nel mondo anglosassone abbiamo assistito all' introduzione di una sorta di contratto. Nel 1993, credo, l' Università di Antioch negli Usa suggerì agli studenti di andare davanti a un giudice o a un avvocato quando volevano avere relazioni sessuali. Dovevano dare una descrizione dettagliata degli episodi sessuali: palpeggiamento dei seni, dei glutei, fino a che punto arriviamo, quante volte lo facciamo...All' inizio questo metodo è stato rifiutato dagli americani ma, poi si è diffuso: oggi ci sono applicazioni che consentono di esprimere un "consenso affermativo". Ma, in realtà, anche quando il consenso è declinato positivamente, può ancora essere messo in discussione. La donna può sempre dire, nel bel mezzo dell' atto sessuale, che non vuole e poi dire che, in fin dei conti, è stata costretta».

Spesso si parla dei maschi come fossero tutti stupratori. Tutti tranne i migranti.

«Secondo il femminismo francese, i migranti sono esenti dal peccato di stupro. Perché sono gli oppressi. Ad esempio, in piazza Stalingrad (a Parigi), due ragazze sono state violentate in pubblico da fumatori di crack, ma le femministe non hanno detto nulla perché gli aggressori erano neri o arabi. Di conseguenza, se li accusassimo, saremmo razzisti. Qui vediamo che l' antirazzismo ha la precedenza sul neofemminismo. L' idea è: tutti gli uomini sono colpevoli, ma soprattutto l' uomo bianco. Gli altri uomini hanno circostanze attenuanti. Le neofemministe sono totalmente screditate. Ad esempio, la fondatrice di Osez le féminisme, Caroline de Haas, quando era segretaria generale dell' Unef (unione studentesca di sinistra) ha taciuto su decine di stupri e aggressioni sessuali. Non capisco perché, oggi, non la si metta sotto processo per complicità in stupro».

Veniamo ai temi Lgbt. Lei crede che gli attivisti arcobaleno vogliano la distruzione del maschile e del femminile?

«I più radicali sì, perché hanno questa idea grottesca secondo cui l' uomo e la donna non esistono, sono stati forgiati dal patriarcato. È un tipo di ideologia che ricorda i Khmer rossi, ma riscritti da Lehman Brothers. Se le università dovessero abbracciare questa ideologia ci sarà davvero da preoccuparsi per il futuro dell' America».

Pare che i casi di giovani che vogliono cambiare sesso siano in aumento. Perché secondo lei?

«È molto inquietante. Oggi c' è una specie di epidemia. I giovani sono incoraggiati a dire che possono essere donne o uomini a loro piacimento. Penso che per i genitori questa sia una grande preoccupazione: c' è la tendenza a spingere i giovani a uscire dal loro sesso e a operarsi. Una volta eseguite queste procedure o fatte le iniezioni, è molto difficile tornare indietro. Il transgendrismo fa parte di questo delirio tipicamente occidentale di negare le differenze tra i sessi e negare la natura. Tutto questo è molto curioso perché va in parallelo alla sensibilità ecologica, la quale ci dice invece che dovremmo riconciliarci con la natura».

Lei è di sinistra, ci pare. Di certi temi «scorretti» che lei tratta si è molto occupata anche la destra. Solo che alla destra viene sempre dato meno credito, salvo poi scoprire che qualche ragione l' aveva Esiste un complesso di superiorità della sinistra?

«In Francia il complesso di superiorità esiste dal 1945. Semplicemente perché la sinistra aveva conquistato il potere culturale, mentre la destra quello politico ed economico. Ma la situazione sta per cambiare. Oggi in Francia l' opinione pubblica è prevalentemente di destra. Non perché la gente stia diventando conservatrice, ma per un motivo molto semplice e terribile: la sinistra ha perso il senso della realtà. La sinistra nega completamente ciò che sta accadendo. Che si tratti di attacchi terroristici, violenze tra bande e minoranze, laicità. È la destra che ha recuperato queste nozioni. Oggi, quindi, sono le persone di destra che difendono i valori della sinistra e viceversa. La sinistra reazionaria e bigotta difende l' islam anche nelle sue manifestazioni più oscurantiste ed è la destra che richiama i principi repubblicani. È una situazione politica e intellettuale abbastanza strana e inaspettata».

Gli intellettuali progressisti si accorgono dei disastri del politicamente corretto solo quando vengono personalmente toccati (pensiamo a J.K. Rowling e alle sue polemiche con gli attivisti trans)?

«Sì, naturalmente. J.K. Rowling è una scrittrice che è rimasta inorridita da alcuni effetti della teoria Lgbt. Ha detto: per me un uomo è un uomo e una donna è una donna. Poi ha ricevuto delle calunnie e persino delle minacce di morte. Quindi è stata costretta a proteggersi ma non si è arresa affatto. Non è l' unica. Margaret Atwood e molte femministe della vecchia scuola rifiutano questo delirio - perché è un delirio, nel senso psichiatrico del termine. Si sono rese conto che in nome della liberazione delle donne si difendono tesi indifendibili. Ovviamente siamo molto più sensibili a un problema quando ne subiamo noi stessi gli effetti negativi. Ho avuto tre o quattro cause per diffamazione da parte di estremisti islamici, quindi so di cosa sto parlando. Ma, per quanto mi riguarda, ho sempre difeso posizioni abbastanza moderate».

Stefano Graziosi per "la Verità" il 13 aprile 2021. Le alte idealità dell'attivismo politico finiscono talvolta preda delle incongruenze. È, per esempio, il caso della cofondatrice del movimento Black lives matter, Patrisse Khan-Cullors, che ha di recente acquistato una casa dal valore di 1,4 milioni di dollari a Los Angeles. Detta così, non sembra esserci nulla di male. E, per carità, non ci sono prove di comportamenti illeciti. Tuttavia qualche problema di coerenza politica, quello sì, si scorge. E per almeno un paio di ragioni. Innanzitutto, secondo quanto riportato da Fox Business, la costosa casa risulterebbe ubicata in un quartiere esclusivo, abitato in gran parte da bianchi abbienti. Un bel paradosso, per la cofondatrice di un movimento che si batte da sempre contro le disuguaglianze (civili e sociali) che colpiscono gli afroamericani. In secondo luogo, non va neppure trascurato che, in un video risalente al 2015, la signora si fosse definita una «marxista addestrata». E pensare che, sempre secondo Fox Business, la dimora da lei appena acquistata risulterebbe comprensiva di tre camere da letto, tre bagni e di una dependance per gli ospiti. Una dimora che, tra le altre cose, si troverebbe appena a quindici minuti di auto dalle spiagge di Malibu. Inoltre, almeno stando a quanto riferito da alcuni tabloid, la Cullors disporrebbe di un patrimonio immobiliare complessivo di circa 3 milioni di dollari (e, fino a ieri, non risultavano smentite dalla diretta interessata). Insomma, non c' è male per una «marxista». In tutto questo, non va dimenticato che, a ottobre, la Cullors ha firmato un contratto con una delle principali case cinematografiche americane. «La Warner bros ha detto che collaborerà con la Cullors a sostegno del movimento Black lives matter e per fornire maggiori opportunità ai produttori, scrittori e altri talenti neri», riportò all' epoca il Los Angeles Times. «La Warner bros», precisò inoltre il quotidiano californiano, «ha rifiutato di rivelare i termini finanziari del suo accordo con la Cullors». Alla luce di tutto questo, è difficile non notare un problema di coerenza. Un problema che rischia, tra l' altro, di suonare come uno schiaffo a tutti quei militanti che credono con convinzione nella causa di Black lives matter (indipendentemente da alcuni tratti significativamente controversi che - va ricordato - contrassegnano questo movimento). Inoltre, al di là della questione della coerenza, c' è chi si interroga sulle origini di questo considerevole investimento immobiliare. Secondo il New York Post, il leader della sezione newyorchese di Black lives matter, Hawk Newsome, avrebbe addirittura invocato una «indagine indipendente per scoprire come la Global network spende i suoi soldi». Il riferimento, in particolare, sarebbe alla «Black lives matter global network foundation», organizzazione di cui la Cullors è direttore esecutivo e che, stando a quanto riportato dall' Associated Press a febbraio, avrebbe raccolto lo scorso anno circa 90 milioni di dollari. Le polemiche rischiano di espandersi proprio nel momento in cui la situazione sta tornando a surriscaldarsi. Non soltanto è difatti in corso il processo contro Derek Chauvin, l' agente responsabile della morte di George Floyd. Ma dure proteste sono anche esplose l' altroieri in Minnesota, dopo che il ventenne afroamericano Daunte Wright è rimasto ucciso nel corso di un controllo di polizia in un comune nei pressi di Minneapolis. Secondo quanto riportato ieri da The Hill, sul giovane - disarmato - pendeva un mandato di cattura. In particolare, sarebbe stato colpito a morte da un agente durante un tentativo di arresto.

DAGONEWS il 21 marzo 2021. Grandi feste segrete, balli e anche sbornie di gruppo. Tutto questo avveniva nel Sudafrica degli anni '60, in piena politica di segregazione razziale: ad oggi sono passati 30 anni dal voto che ha posto fine all'apartheid, abolito formalmente il 17 marzo del 1991; proprio in questi giorni le foto ormai vintage e piuttosto rare scattate da Billy Monk stanno facendo il giro del web. In occasione del trentennio dall'abolizione dell'apartheid diventa quasi un simbolo l'album di ricordi del fotografo, che testimonia come, nonostante gli anni bui, già in epoca di segregazione razziale ci fosse speranza e voglia di divertirsi, seppure in modo clandestino e illegale. Momenti di gioia vissuti dai sudafricani, in bar aperti in gran segreto per via della politica dettata dal governo sudafricano bianco, totalmente discriminatoria nei confronti della maggioranza nera, relegata a popolazione di seconda classe. Sono gli anni '60: negli scatti è possibile sbirciare all'interno di bar e discoteche pullulanti d'invitati di ogni etnia che ballano e fanno baldoria insieme. Il 17 marzo 1991, poi, i sudafricani votarono in maggioranza per abolire un sistema politico così disumano, spianando la strada a un cambiamento rivoluzionario nel Paese, che a sua volta avrebbe poi scelto Nelson Mandela come primo capo di Stato nero tramite elezioni pienamente rappresentative. Le foto sono state per anni censurate; le immagini di neri e bianchi insieme avrebbero sconvolto il partito nazionale, in un momento in cui il governo sudafricano stava costringendo 3,5 milioni di neri a vivere segregati in appositi quartieri. 

Maurizio Stefanini per "Libero quotidiano" il 18 febbraio 2021. È più razzista dare del negro, o dare tre giornate di squalifica e 100.000 sterline di multa a qualcuno che chiama «negro» un amico soprannominato «negro»? La storia risale a novembre, ma in America Latina va ancora avanti. Protagonista Edinson Cavani: attaccante uruguayano del Manchester United che giocò anche nel Palermo e nel Napoli, che ha pure la cittadinanza italiana per un nonno di Maranello, e che giusto domenica nel fare 34 anni ha ricambiato via Instagram gli auguri di compleanno del suo ex-compagno di squadra Javier Pastore. «Gracias flaquito», gli ha scritto. «Grazie magrolino», è la traduzione letterale. Ma forse il senso lo darebbe più una forma vernacolare, tipo il romanesco «grazie secco». Così Cavani ha l' abitudine di salutare, e pure a novembre dopo aver segnato due goal nel 3-2 al Southampton al suo amico Pablo Fernández che gli aveva mandato i complimenti aveva scritto: «gracias negrito». Anche qua, nello spagnolo soprattutto latinoamericano corrisponderebbe a un vernacolare «moro», o «moretto». Come si dice sempre in romanesco: «a moro, me sei piaciuto!». Ma ci sarebbe ad esempio pure la canzone delle mondine: «Addio morettin ti lascio». Infatti il termine è usatissimo nelle canzoni. «Drume, negrita / Que yo voy a comprar nueva cunita / Y la negra Mercé / Ya no sabe que hace», dice ad esempio una famosa ninna nanna che è stata eseguita anche da Mercedes Sosa, Celia Cruz e i Quilapayún: che sarebbero poi i veri autori di quel Pueblo unido jamás será vencido portato in Italia dagli Inti Illimani. Ma come comincia la prima canzone del loro primo album italiano degli stessi Inti Illimani? «Negra zamb / coge tu mante / siempre adelante». «Ay mi negrita» è un' altra famosa hit di Orlando Rodríguez. Eccetera. la sanzione «Io offeso!? Ma mi hanno sempre chiamato negrito!», ha provato a intervenire Pablo Fernández in difesa dell' amico. Niente da fare. Sulla stampa inglese era trapelato che il goleador dava del «negro» al prossimo, la Cancel Culture si è scatenata, e su Cavani si è abbattuta la sanzione. Capendo l' aria che tirava, il giocatore ha cancellato il post, ha chiesto scusa, e se l' è cavata con un minimo. D' altra parte, poco dopo è saltata la partita proprio tra il Paris Saint-Germain e il Basekshir, per la storia del quarto uomo Coltescu che aveva indicato come «negru» un collaboratore del tecnico della squadra turca. Giusto la settimana scorsa l' ispettore dell' Uefa ha però riconosciuto che «negru» in romeno è neutro. Cioè, nella scala, in inglese «nigger» è considerato spregiativo. Per questo hanno scatenato questa censura, e per questo lo sostituiscono con black. Ma in italiano sarebbe neutro, anche se abbiamo comunque la possibilità di sostituirlo con «nero». In romeno «negru» è termine unico: significa anche «black». E in spagnolo può essere addirittura un vezzeggiativo. Appunto, tipo la «morettina / tu sei la mia morosa» dei bersaglieri sul Grappa. Cavani dunque ha abbozzato, ma l' Uruguay no. Non solo è scesa in campo l' associazione calciatori locale, denunciando la «visione dogmatica» della omologa inglese. Non solo ha protestato anche la confederazione di calcio sudamericana Conmebol. «Mancate di visione multiculturale», ha detto agli inglesi a brutto muso anche l' Accademia Nazionale delle Lettere uruguayana, spalleggiata dalla Accademia delle Lettere argentina. Cioè, se punite chi usa un termine spagnolo positivo perché assomiglia a un termine inglese negativo, i razzisti siete voi! Vari media latino-americani stanno ancora dibattendo la cosa, con alcuni commentatori appunto afro-americani in prima linea nel denunciare lo sproposito. «Fuerza Negrito» è diventato un hashtag popolare, ed è stato anche lanciato un vino «Gracias Negrito». Attenzione che il vino rosso in spagnolo viene chiamato normalmente "tinto". Ma anche noi abbiamo ad esempio il Nero d' Avola: nella speranza che non venga censurato anch' esso. Come ha spiegato il docente universitario danese Andreas Beck Holm, «Cavani è un lavoratore immigrato non del tutto a proprio agio con la lingua e le convenzioni inglesi. La sua punizione è un chiaro esempio di discriminazione basata sulla cultura di una persona. Cioè razzismo culturale». Associato di Filosofia Politica e Filosofia della Scienza all' Università di Aarhus, Andreas Beck Holm lavora appunto a una Scuola di Cultura e Società che ha fatto della sanzione a Cavani un caso studio. «È come se gli inglesi abbiano voluto rimarcare con forza che i codici linguistici e culturali della società uruguyana e della lingua spagnola sono inferiori a quelli del Regno Unito».

DAGOREPORT il 23 febbraio 2021. Che WASP (White Anglo-Saxon Protestant) sia fuori moda questo l’avevamo capito. Che il politically correct abbia ideologicamente spostato la barra del gusto (e del comando) verso ogni qualsiasi ex minoranza o ex non-bianco europeo è altrettanto noto. Che tutti i mali, da “Orientalismo” di Edward Said in poi risiedano nel fallocentrismo usurpatore del maschio bianco lo sappiamo e che, di conseguenza, il resto del mondo sia più “figo” pure. Il “Time” di questa settimana lo certifica. Il settimanale di informazione Usa, di proprietà di Marc Benioff, cresciuto in una famiglia ebrea stabilita nella San Francisco Bay Area, ha dedicato il numero in edicola alle 100 persone più influenti dei prossimi anni (secondo lui). Le ha divise anche in settori: Fenomeni, Innovatori, Leaders, Artisti, Avvocati d’opinione. Allora, in che gender ecc ecc “Time” identifica i leader prossimi venturi? Nel famigerato uomo bianco dominatore o in una donna bianca (categoria nella quale nell’ultimo censimento si sono classificati il 77,1% della popolazione Usa)? No di certo, l’uomo bianco non è più “figo”. I prossimi leader più influenti, secondo “Time” sono, naturalmente, le donne e, naturalmente, non Wasp, comunque non bianche di “origine” europea. Sono 34 su 100 dei nomi indicati (tra i quali l’ormai onnipresente pseudo poetessa Gorman) e stravincono nella prima categoria, “Leader”, dove sono otto contro quattro maschi Wasp, tre donne Wasp e due maschi di colore. Così via per il resto delle classificazioni. I non-bianchi vincono sia tra le donne che tra i maschi; gli europei in elenco sono pochissimi, gli europei “latini” nessuno, italiani men che meno. Se le previsioni del “Time” sono vere – e non la caratteristica proiezione ideologica -, dal 2025 urge una diffusione di quote azzurre perché l’uomo bianco di tradizione “latina” è destinato a diventare come il panda.

Il primo pilota militare nero del mondo era italiano e... fascista. Basta mistificazioni ideologiche. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. Storici orientati e giornali mainstream tentano di farlo passare per “vittima di discriminazione razziale”.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Leggendo tra le pieghe della vulgata storiografica, ogni tanto spuntano fuori personaggi che creano dei veri cortocircuiti  mandando in tilt l’intero sistema. Uno di questi è Domenico Mondelli, nato Wolde Selassie, primo pilota militare di colore del mondo. Come mai questo afro-italiano, con due Medaglie d’Argento e due di Bronzo al Valor Militare, è così poco noto? Eppure, dovrebbe essere un orgoglio nazionale dato che, all’epoca, negli altri paesi, ai neri era preclusa l’aeronautica in quanto ritenuti “incapaci di gestire l’emotività”.  L’unica monografia dedicatagli è del sociologo de “La Sapienza” Mauro Valeri, già direttore dell’Osservatorio nazionale sulla xenofobia, che nel 2016 pubblica per Odradek edizioni “Il Generale nero”, un libro pesantemente ideologico, ricco di afflati deamicisiani, dove gli stessi dati riportati contraddicono, tuttavia, ciò che l’autore vuole dimostrare a tutti i costi, ovvero che Domenico avesse subìto discriminazioni razziali. Era il 5 aprile 1891 quando il parmense capitano di fanteria Attilio Mondelli, sulla strada per Adua, raccoglie un bimbo etiope orfano di 4 anni, Wolde, salvandolo da morte certa. Diventa suo tutore, gli dà il nome di Domenico (forse dal giorno in cui lo ha trovato) e, una volta adolescente, lo iscrive al Collegio militare di Roma. Il ragazzo è “nero come il carbone” e non somiglia affatto ad Attilio, confermando perché entrambi abbiano sempre parlato di adozione nonostante uno dei tanti certificati anagrafici scriva di paternità. Domenico primeggia fra i cadetti e, nel 1904, viene assegnato ai Bersaglieri. Nel 1912, entra nella Massoneria, loggia di Palermo del Grande Oriente d’Italia. L’anno dopo è nel Corpo Aeronautico, tra i pochi piloti militari italiani: è il primo di colore al mondo “ben prima dell’afroturco Celikten, dell’afroamericano Ballard e dell’afroinglese Clarke”. L’ambiente militare lo valorizza – ammette, a malincuore, Valeri - e, nella buona società, è ricercato e passa come un vero tombeur de femmes. Allo scoppio della Grande Guerra, alla cloche di un caccia Nieuport Ni. 80 compie azioni di ricognizione e bombardamento; si guadagna la prima medaglia di bronzo, così come altri ufficiali neri del Regio Esercito. Nel ’17, forse per aver involontariamente  bombardato truppe italiane, o per aver amoreggiato con qualche moglie o figlia di superiori, viene spedito in trincea. Lui si distingue prima fra i Bersaglieri e poi come ardito, alla testa del IX Reparto d’Assalto. Scriveva Paolo Caccia Dominioni: “Sulla nostra destra, il negro meraviglioso (sic) ha sfondato le linee nemiche…”. “E ‘ uno dei nostri ufficiali più amati – annotava Luigi Gasparotto – l’abissino negro, magro, ricciuto, dai denti candidi e dalla perfetta parlata italiana; odia la burocrazia e adora i Bersaglieri”. (Come si nota, la parola "negro" in italiano non ha mai avuto significato dispregiativo). Arrivano due medaglie d’argento (anche per una ferita all’occhio) e un’altra di bronzo, oltre alla croce di Cavaliere della Corona d’Italia. Fin qui, ZERO discriminazioni, dunque. Ma è col Fascismo che, secondo l’autore, “arrivano i guai”. Dal 1925, il suo avanzamento al grado di colonnello subisce, infatti, uno stop: la legge Sanna imponeva una riduzione degli ufficiali superiori e le nuove norme per l’avanzamento richiedevano pubblicazioni scientifiche di cui Mondelli era privo. Del ’25, è anche la legge che rendeva incompatibile l’appartenenza alla Massoneria con l’impiego pubblico. Il provvedimento tendeva a evitare che, nelle Forze armate, un generale, ad esempio, prendesse ordini da un colonnello solo perché questi era più in alto nella gerarchia muratoria. Secondo Valeri, l’ufficiale “sfidò Mussolini” con tre ricorsi al Ministero della Guerra, tutti vinti, peraltro, nel corso di vari anni. Mussolini, evidentemente, non se la prese poi troppo dato che il Ministero  conferì a Mondelli nomine, decorazioni e una ricca pensione, fino al ‘43. Insomma, “discriminato come nero e come massone”, stando all’autore della biografia, Mondelli si dimette dall’Esercito e passa nella Riserva. Mauro Valeri però tralascia un dettaglio: il “moro” entra nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fascista. Ma come, tutte quelle discriminazioni subìte dal Fascio e poi si arruola nelle CAMICIE NERE? La MVSN era, infatti, la quarta forza armata, (come oggi, ad esempio, i Carabinieri) e i suoi militari giuravano fedeltà al Duce, non solo al Re. Mondelli entrò come console (colonnello) dato che nella Milizia si avanzava automaticamente di grado; poi divenne addirittura console generale (generale di brigata). Lo dimostrano due foto in divisa MVSN che Valeri spaccia per una riunione di ex-Arditi della Grande Guerra. Conferma lo storico Pierluigi Romeo di Colloredo, studioso della Milizia: “L’ufficiale abissino porta la frangia del fez in avanti sul fregio da console generale, mentre i consoli che lo attorniano, la portano di lato. Del resto, prima della legge del ’25, almeno 23.000 fascisti erano massoni, in quanto eredi della tradizione risorgimentale, interventista e fiumana”. In seguito il fenomeno rientrò, ma nella MVSN rimase, evidentemente, una certa tolleranza verso squadre e compassi. Se Mondelli fosse stato bloccato nella carriera per via di una legge fascista antimassoneria (e non per la riduzione dei quadri), stupisce che si sia arruolato tra i suoi oppressori e, quand’anche si fosse trattato di una finzione opportunistica, (come ventila Valeri) non si spiega perché nel 1946, Domenico si candida con il partito di estrema destra GPISAM - Gruppo Politico Italiani di Sicilia, d‘Africa e del Mediterraneo” dell’intellettuale fascista Vittorio Ambrosini. La MANIPOLAZIONE IDEOLOGICA del militare di colore è stata ripresa anche da Avvenire che, astutamente, rimuove in blocco la sua biografia dal ‘25 al ’59, così come altri quotidiani generalisti che, nel 2016, straparlavano di discriminazioni razziste sempre negate dallo stesso ufficiale. Mondelli terminerà i suoi giorni nel 1974 col grado (massimo) di Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito: un altro primato per un militare afroitaliano. Peccato che un eroe della Grande Guerra, un pilota simbolo di integrazione e orgoglio italiano a livello mondiale sia stato così sequestrato da una “memoria” adulterata che la dice lunga sulla storiografia tradizionale e sull’informazione asservita al pensiero unico.

Così il Time mette all'angolo "l'uomo bianco". Fra le 100 persone più influenti dei prossimi anni secondo il Time ci sono perlopiù donne, soprattutto di colore, minoranze, e pochissimi uomini bianchi. Roberto Vivaldelli - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Sono artisti, avvocati, leader, innovatori: sono le 100 persone più influenti dei prossimi anni secondo il Time. 100 leader emergenti che stanno plasmando, a detta della testata, il futuro dell'intrattenimento, della salute, della politica, degli affari e altro ancora. Il numero del Time è in commercio con sei copertine diverse, ciascuna delle quali mette in prima pagina un membro della lista stilata dalla rivista: la cantante inglese di origini kosovare Dua Lipa, l'attrice canadese di origine tamil Maitreyi Ramakrishnan, il centrocampista del Manchester United Marcus Rashford, il primo ministro finlandese Sanna Marin, lo stilista liberiano-americano Telfar Clemens e la scrittrice afro-americana Brit Bennett. Nessun "uomo bianco" in bella mostra, sarà davvero un caso? Il redattore capo e Ceo di Time Edward Felsentha sottolinea nella presentazione della classifica come "in mezzo a una pandemia globale, disuguaglianze sempre più profonde, ingiustizie sistemiche e questioni esistenziali sulla verità, la democrazia e il pianeta stesso", i personaggi illustri inseriti nella lista rappresentino una forma di speranza per il futuro. "Sono medici e scienziati che combattono contro il Covid-19, attivisti che si battono per l'uguaglianza e la giustizia, giornalisti che difendono la verità, e artisti che condividono le loro visioni del presente e del futuro". Il Time non ha voluto fissare alcun limite di età nella classificazione. "Intenzionalmente non abbiamo posto limiti di età. La persona più giovane in questa lista, per esempio, è la performer sedicenne Charli D'Amelio, che conta più di 100 milioni di follower su TikTok. Tra i più anziani c'è Raphael Warnock, 51 anni, senatore democratico della Georgia, la cui recente elezione rappresenta l'alba di un nuovo Sud". Nella lista ci sono 54 donne, tra cui: Phoebe Bridgers, Maria Raga, Ana de Armas, Janja Garnbret, Florence Pugh, Clementine Jacoby, Anya Taylor-Joy, Guo Ningning, Sohla El-Waylly, Sarah Al Amiri, Shira Haas e altre. Come si può evincere anche dai nomi citati poco sopra, il Time ha dato ampissimo spazio alle minoranze (etniche, di genere), in maniera tale da apparire più "politicamente corretto" e "inclusivo" possibile. L'uomo bianco, magari eterosessuale e di orientamento conservatore, non sembra andare granché di moda fra le riviste patinate più "in". I leader del futuro sono donne, afroamericani, Lgbt o persone appartanenti a qualsivoglia minoranza etnica o sessuale presente sulla faccia della Terra. Va bene tutto, insomma, purché non siano Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), diventato sinonimo di suprematismo bianco e di "bianco privilegiato". Roba vecchia, passata. Il futuro è il progressismo in salsa politically correct. Come nota Dagospia, i non-bianchi vincono sia tra le donne che tra i maschi; gli europei in elenco sono pochissimi, gli europei “latini” nessuno, italiani men che meno. Se le previsioni del Time sono vere – e non la caratteristica proiezione ideologica -, dal 2025 urge una diffusione di quote azzurre perché l’uomo bianco di tradizione “latina” è destinato a diventare come il panda. Così vuole la nuova religione del politicamente corretto e la politica dell'identità che proviene dai salotti buoni dell'America più "liberal".

Mauro Zanon per “il Giornale” il 31 gennaio 2021. Quando pubblicò Il singhiozzo dell' uomo bianco, nel lontano 1983, alcuni dei suoi ex compagni della gauche militante dissero che quel libro era «in odore di razzismo», perché Pascal Bruckner, figura di spicco dei «Nouveaux philosophes», denunciava il sentimentalismo terzomondista che dominava in una certa sinistra e l' autolesionismo di un' élite bianca consumata da un delirante odio di sé, dall' idea che tutti i mali della terra trovassero origine in Occidente. Oggi, nonostante le previsioni di Bruckner trovino sempre più riscontro nella realtà, a colpi di strade sbattezzate, università «decolonizzate», statue abbattute e libri censurati perché infarciti di «stereotipi razzisti», il filosofo francese viene trattato come un «reazionario» irredimibile, un «vecchio maschio bianco eterosessuale», nostalgico di un mondo che non esisterà più. Bruckner di questi «marchi d' infamia» che gli vengono appiccicati addosso ne ha fatto un motivo di fierezza, e combatte contro i suoi avversari con l' arma che sa utilizzare meglio: la penna. Il suo recente Un coupable presque parfait. La construction du bouc émissaire blanc (Grasset) - che non smette di far discutere - è il grido di allarme di uno dei più lucidi intellettuali francesi viventi, che osserva preoccupato la progressiva decadenza dell' Occidente e del progetto universalista dei Lumi, a beneficio di una società tribalizzata in preda alla lotta di generi, razze e comunità, dove l' uomo bianco è «il nuovo Satana». «Non invoco la rivincita dell' uomo bianco, denuncio l' idea che sia considerato come il capro espiatorio: il discorso femminista, antirazzista e decoloniale che designa l' uomo bianco e la donna bianca come la fonte di tutte le disgrazie dell' universo è un discorso semplicistico», ha dichiarato Bruckner a France Culture. Il femminismo tradizionale era universalista, «il neofemminismo», invece, «è apertamente separatista, se non addirittura suprematista, e mette i sessi l' uno contro l' altro», attacca il filosofo parigino, secondo cui «il femminismo del progresso si è trasformato in un femminismo del processo». Un esempio di questa tendenza è la recente esternazione della femminista radicale Alice Coffin, autrice del libro Le Génie lesbien, che ha invitato le donne a «eliminare gli uomini dalle nostre menti: non dobbiamo più leggere i loro libri, né guardare i loro film, né tantomeno ascoltare la loro musica». Molte neofemministe americane, a cui le colleghe francesi si ispirano, presentano l' uomo bianco come uno «stupratore in potenza», ontologicamente predatore, dice Bruckner, ma tacciono quando a macchiarsi di episodi di aggressione sessuale sono le minoranze arabe e africane che vivono in Occidente, come è accaduto con le violenze di massa del Capodanno di Colonia del 2016. Il neofemminismo va a braccetto con il nuovo antirazzismo, che non ha nulla a che vedere con l' antirazzismo originario, difensore di un' idea di umanità comune al di là della diversità delle origini e delle culture. Il nuovo antirazzismo esaspera le identità, si concentra sul colore della pelle e resuscita un concetto di razza che si credeva abolito, creando le condizioni di un nuovo apartheid. «Oggi vengono denigrati i volti di gesso, per celebrare gli altri colori della pelle attribuendo loro tutte le virtù», spiega Bruckner. La nuova ideologia antirazzista, dietro cui si nasconde un razzismo anti-bianco alimentato dalle minoranze e un autorazzismo folle delle élite occidentali, si sta diffondendo in tutti i settori della società francese. Delphine Ernotte, direttrice di France Télévisions, ha dichiarato che nella tv pubblica del futuro «gli uomini bianchi di più di cinquant' anni» avranno sempre meno spazio, a favore delle persone figlie della «diversità». Sulla sua scia, anche il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ha dato prova di apprezzare certe idee di provenienza americana. In un' intervista al settimanale L' Express di poche settimane fa, Macron ha infatti evocato l' esistenza in Francia di un «privilegio bianco», uno dei capisaldi del movimento Black Lives Matter. La frase ha fatto trasalire Bruckner, perché «parlare di privilegio bianco significa risvegliare l' idea di un peccato originale». In nome del multiculturalismo, l' Occidente sta cancellando se stesso, la sua storia millenaria, i suoi capolavori, e l' uomo bianco eterosessuale occidentale, ormai, «è in fondo alla gerarchia», afferma Bruckner, prima di aggiungere: «Meglio essere scuri che pallidi, omosessuali o transgender che eterosessuali, donne piuttosto che uomini, musulmani anziché ebrei o cristiani, africani, asiatici e indigeni piuttosto che occidentali». Secondo Bruckner, «l' unica identità che ai bianchi viene ancora concessa è quella della contrizione. I professatori di vergogna, le neofemministe, i decolonialisti e gli indigenisti dilagano, e ci invitano a pentirci». E ancora: «È in corso una vasta impresa di rieducazione, all' università, sui media, che chiede ai bianchi di rinnegare se stessi. L' ultima volta che abbiamo subìto la propaganda razziale è stata con il fascismo negli anni Trenta: la scomunica a priori di una parte della popolazione. Eravamo vaccinati, grazie. Ma ci torna indietro da oltreoceano mascherata da antirazzismo, con nuovi protagonisti». I nuovi fanatici della «cancel culture» che vogliono affossare l' Occidente. E l' uomo bianco.

·        Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

Le elemosine hanno sfasciato il Mezzogiorno. Carlo Lottieri il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. È un dato preoccupante quello segnalato dall'Inps là dove evidenzia che nel corso del 2021 nel Mezzogiorno si è avuto un raddoppio dei certificati di malattia. È un dato preoccupante quello segnalato dall'Inps là dove evidenzia che nel corso del 2021 nel Mezzogiorno si è avuto un raddoppio dei certificati di malattia. Ovviamente, la questione non è sanitaria, ma culturale e obbliga a interrogarsi su cosa s'è fatto in tutti questi decenni per danneggiare in tal modo il tessuto della società meridionale. È chiaro che questo numero abnorme di assenze dal lavoro per ragioni di salute è da ricondurre a un malcostume, le cui cause sono ben note. L'Italia, in generale, e ancor più il suo Mezzogiorno da troppo tempo disprezzano quella cultura del lavoro che comporta dedizione ai propri compiti e alla parola data. Dove le entrate non sono una conseguenza dell'attività, ma provengono da logiche redistributive, quella che s'impone è la logica dei più furbi. Le virtù borghesi s'affermano, come non si stancava di evidenziare Sergio Ricossa, nelle economie basate sul contratto, sull'impresa privata e sulla concorrenza. Se invece regna l'assistenzialismo, anche gli schemi morali che dovrebbero regolare i comportamenti dei singoli finiscono per essere trasformati e, naturalmente, in peggio. In una società nella quale un reddito può giungere tutti i mesi sul nostro conto corrente anche senza far nulla, si finisce per perdere ogni nesso tra la fatica e il premio, tra il lavoro e il salario. Quasi senza accorgersene, si entra in universo in cui ognuno cerca di vivere parassitariamente rispetto al prossimo, adottando ogni genere di imbroglio e malizia. Come spesso si evidenzia (ma mai a sufficienza!), il costo più oneroso del reddito di cittadinanza non è di carattere economico, ma invece sociale e culturale. E in fondo questa è solo l'ultima di una lunga serie di misure politiche che hanno guardato al Sud come a un semplice serbatoio elettorale: un vasto spazio nel quale distribuire favori (spesso di modesta entità) scollegati da quella capacità di fare e intraprendere che, invece, è condizione fondamentale per un vero sviluppo. Anni e anni di elemosine statali non hanno aiutato il Mezzogiorno, ma invece l'hanno corrotto in profondità. Ne discende che oggi il Sud ha bisogno di accantonare tutto questo, perché una nuova cultura della responsabilità può affermarsi soltanto se le nuove generazioni saranno chiamate ad affrontare nel bene e nel male tutti i rischi e tutte le opportunità del mercato. Carlo Lottieri

SPESA STORICA GHIGLIOTTINA SUL FUTURO DELLA SCUOLA E DEI RAGAZZI DEL SUD. Al Sud l’82% dei Comuni ha una spesa storica per l’istruzione inferiore del 30,89% rispetto a quella standard: ricevono cioè dallo Stato meno del necessario per garantire un servizio decente. Il Nord può invece permettersi di spendere più di quello di cui avrebbe bisogno perché ha avuto più risorse per almeno 15 anni. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 16 novembre 2021. Al Sud l’82% dei Comuni ha una spesa storica per l’istruzione che è nettamente inferiore rispetto a quella standard: vuol dire che i sindaci ricevono dallo Stato meno soldi di quelli che sarebbero realmente necessari per garantire un servizio degno di questo nome. La situazione è diversa al Centro, dove oltre la metà degli enti, il 52%, registra una spesa storica superiore a quella standard e lo stesso vale per i Comuni del Nord-Est (51%) e, in misura minore, per quelli del Nord-Ovest (45%).

IL RAPPORTO

È quanto emerge da un nuovo report della fondazione Openpolis e Sose: il sistema italiano di federalismo fiscale, attraverso Sose, si occupa di stimare il fabbisogno finanziario di cui necessitano tutti i Comuni delle Regioni a statuto ordinario per offrire i servizi legati all’istruzione. Un calcolo che concorre a determinare la distribuzione delle risorse perequative del fondo di solidarietà comunale. «La maggior parte (3.929, cioè il 61%) dei Comuni italiani delle Regioni a statuto ordinario registra – si legge nel report – per la funzione istruzione una spesa storica inferiore a quella standard. In questo caso parliamo di enti che, o sono particolarmente efficienti nell’offrire ai cittadini i servizi legati all’istruzione, oppure scelgono di destinare più fondi a un’altra funzione rispetto a questa, o ancora hanno scarse risorse e quindi non riescono a spendere a sufficienza per garantire un livello di servizi adeguato». A soffrire maggiormente, poi, sono i Comuni più piccoli, infatti nei centri inclusi nelle fasce 60mila-99mila e oltre 100mila abitanti la spesa storica supera quella standard.

IL GAP SPESA STORICA

«Una condizione, quest’ultima, che può dipendere da una scelta delle amministrazioni di investire più risorse di quelle stimate, per ampliare l’offerta di servizi ai cittadini. Un’ipotesi che trova riscontro, per esempio, nei dati relativi alla superficie degli edifici scolastici comunali e statali. Se per i Comuni con oltre 60mila abitanti parliamo di oltre 13 metri quadri per abitante, per i territori con meno di 500 residenti il dato cala a 4 mq pro capite», scrive Openpolis. Così, mentre Napoli ha una spesa storica per l’istruzione di 78,24 euro e una spesa standard di 86,61 euro, Bologna ha una spesa storica di 189.36 euro e una spesa standard di appena 118.52 euro. E ancora: Bari presenta una spesa storica di 64.13 euro e una spesa standard di 74.8 euro; Firenze ha una spesa storica di 133.96 euro e una standard di 104.54 euro. Al Nord possono permettersi di spendere più di quello di cui realmente avrebbero bisogno, perché hanno potuto usufruire di maggiori risorse per almeno 15 anni. Al Sud, invece, i sindaci devono fare i salti mortali e ricevono meno soldi di quanti ne sarebbero necessari. Sino a quando non verrà superato definitivamente il criterio della spesa storica per la ripartizione dei fondi nazionali, la sperequazione non avrà fine e il Mezzogiorno continuerà ad ottenere meno risorse rispetto al Nord ma anche rispetto alle reali esigenze.

CONTI IN ROSSO

D’altronde, basti pensare che la Regione Puglia, nel 2016, per garantire ai 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto spendere 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno finanziario – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più. Le Regioni del Mezzogiorno, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%. Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi: hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma. Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno.

Il Pnrr si è fermato a Eboli: progetti sbagliati e incertezze allargano il divario tra Nord e Sud. Reti idriche, asili, porti, assunzioni: i primi bandi non consentono al Meridione di recuperare il gap con il resto del Paese. E la soglia del 40 per cento, anche se sarà rispettata, non tiene conto di popolazione, Pil e disoccupati. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 25 ottobre 2021. Il divario nord-sud è cresciuto negli anni difficili della pandemia e continua a crescere ogni giorno che passa. Ma questa frattura tra le due aree del Paese rischia di diventare ancora più profonda, per paradosso, dopo la piena attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Un piano che stanzia oltre 220 miliardi di euro, soldi concessi dall’Europa proprio per ridurre le distanze tra questi due pezzi d’Italia, considerando che nessun altro Stato dell’Ue ha al suo interno livelli così diversi di crescita come il nostro Paese. I primi bandi del Pnrr, e le prime graduatorie con distribuzione delle risorse, premiano però ancora chi alcuni livelli di assistenza e di servizi li ha già. Il dibattito politico nelle ultime settimane si è concentrato solo su due aspetti: la carenza di tecnici ed esperti negli enti pubblici delle regioni meridionali per presentare progetti adeguati ad attrarre le risorse del Piano, e la soglia minima del 40 per cento delle risorse cosiddette «territorializzate» che devono essere destinate alle aree che vanno dalla Campania alla Sicilia. Su entrambi gli aspetti il governo Draghi ha offerto le più ampie rassicurazioni. Il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha avviato la selezione degli esperti da affiancare alle amministrazioni meridionali e la ministra del Mezzogiorno, Mara Carfagna, ha chiesto e ottenuto che in Parlamento passasse un suo emendamento per fissare al 40 per cento la soglia minima delle risorse che devono andare alle regioni più svantaggiate, in totale 82 miliardi di euro. Ma tra le promesse e l’avvio dei primi bandi qualcosa non torna e cresce la protesta degli amministratori meridionali. 

I PRIMI BANDI DEL PIANO

Agli onori della cronaca è arrivato recentemente il caso Sicilia: nessuno dei progetti per migliorare le condotte irrigue per agricoltura e imprese è stato finanziato per errori nella documentazione consegnata a Roma. Ma il vero problema è che degli 1,6 miliardi di euro messi a gara, solo 475 milioni (il 29 per cento del totale) è stato destinato a regioni del Sud. Al centro e al nord sono andati 1,1 miliardi di euro.

In Sicilia quasi il 50 per cento dell’acqua si perde perché le condotte sono vecchie e bucate in più parti, percentuali simili si registrano in Calabria (41 per cento) e Campania (46 per cento), mentre il record negativo di acqua che si disperde va alla Basilicata con il 56 per cento e alla Sardegna con il 55. Al Nord, la dispersione delle reti idriche è inferiore della metà: in Lombardia è del 28 per cento, in Emilia Romagna del 30 per cento, come in Liguria. Conti alla mano, per recuperare il gap e raggiungere livelli simili al Mezzogiorno occorrerebbe ben più del 40 per cento delle risorse: sul bando da 1,6 miliardi, però, Basilicata, Calabria, Sardegna, Campania e Puglia hanno avuto ammessi progetti per 475 milioni, il 29 per cento del totale. La Lombardia ha avuto finanziati progetti per 197 milioni, il Piemonte per 159 milioni, la Campania si è fermata a 168 milioni, Puglia e Sardegna sono arrivate a meno di 3 milioni. Non è andata meglio sugli asili nido e il bando da 700 milioni di euro ha visto decine di Comuni meridionali restare fuori dai finanziamenti. Qui il 58 per cento delle risorse è andato agli enti locali meridionali, con i Comuni della Campania che hanno attratto risorse per 138 milioni, seguiti da quelli della Lombardia che hanno ottenuto 58 milioni e della Sicilia arrivati a quota 56 milioni. Il divario nord-sud però così non si ridurrà, considerando che su 100 bambini in Sicilia solo 12 trovano posto in asili nido pubblici e privati, in Campania e Calabria 10 bambini, in Puglia 18, mentre in Valle d’Aosta i bambini che trovano risposta per servizi di nido sono 44, in Lombardia 31, in Piemonte 30, in Toscana ed Emilia Romagna 40 (dati Openpolis). Discorso analogo accadrà anche per un altro bando finanziato con il Pnrr, quello destinato all’assunzione di assistenti sociali: alcuni criteri premieranno i Comuni che già hanno un buon numero di assistenti sociali e chi non ha questa rete non avrà alcun fondo in più per ridurre i divari. Un’altra ripartizione delle risorse già conclusa è quella sui grandi porti commerciali. Il Pnrr varato dal governo Draghi ha fatto solo una fotografia dello status quo. Secondo i dati del ministero delle Infrastrutture, tra fondi già stanziati e Pnrr per la portualità, nei prossimi cinque anni saranno investiti 3,3 miliardi di euro e, assicurano, il 43 per cento andrà ai porti del Mezzogiorno. Ma già solo questa cifra non rispecchia nemmeno il traffico merci attuale, visto che il 47 per cento transita negli scali portuali da Napoli in giù. Tra fondi per progetti e infrastrutture di certo c’è che solo i porti di Genova e Trieste riceveranno un miliardo di euro, molto di più degli scali di Napoli, Gioia Tauro, Augusta o Palermo. Qualcosa non torna perfino nella distribuzione territoriale degli esperti assunti a tempo determinato per aiutare le amministrazioni pubbliche in difficoltà nel presentare i progetti finanziati con il Piano Ue. Dei mille giovani tecnici chiamati in servizio, per una spesa di 320 milioni di euro, secondo la bozza del Dpcm, chi ne riceverà di più è la Lombardia con 131 assunti, seguono Campania e Lazio con 101 e 87, mentre l’Emilia Romagna ne avrà 64, qualche unità in meno della Puglia. La Calabria ne avrà 40, la Toscana 52 e il Piemonte 62. Ma non si dovevano aiutare gli enti pubblici senza personale? 

L’ALLARME DI SINDACI ED ESPERTI

Il professore dell’Università di Bari Gianfranco Viesti, esperto di società ed economia meridionale, non è molto sorpreso da questo avvio di attuazione del Pnrr e non ha molta speranza in una vera riduzione dei divari grazie a questo fiume di denaro in arrivo da Bruxelles: «Anche prendendo per buona la cifra di 82 miliardi di risorse che andranno davvero al Mezzogiorno, la vera domanda è: quanti di questi soldi rappresentano concretamente nuovi investimenti? Sulle infrastrutture abbiamo assistito a una partita di giro, con opere finanziate da tempo con fondi statali ai quali adesso sono subentrati i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Conti alla mano, studiando le poche cifre certe del documento sul Pnrr consegnato in Parlamento e a Bruxelles, solo 35 miliardi di risorse aggiuntive andranno al Mezzogiorno. Il resto è un grande punto interrogativo. Ma anche dando per certa la soglia del 40 per cento, questa non basta certo ad avvicinare i livelli dei sevizi nelle regioni del sud alla media nazionale. Per gli asili nido, al Mezzogiorno dovrebbero andare il 70 per cento delle risorse, solo così Reggio Calabria potrebbe avvicinarsi a Reggio Emilia: oggi la prima città ha 3 asili nido, la seconda 60. C’è poi il grande tema della burocrazia: è evidente che considerando il poco tempo per realizzare i progetti il sistema burocratico del Sud non può competere. Occorrono misure speciali e immediate per aiutare la macchina degli enti locali». Proprio quello della burocrazia è il tema che preoccupa di più i sindaci. Cinquecento amministratori meridionali si sono riuniti in una grande rete, tra questi il primo cittadino di Acquaviva in Puglia, Davide Carlucci: «Abbiamo creato un'alleanza tra sindaci di tutto il Sud. L'occasione è stata proprio il Pnrr: non vorremmo che fosse l'ennesimo treno perso per eliminare il divario con il resto d'Italia, che invece negli ultimi anni è cresciuto. La soglia del 40 per cento sembra un'enormità, è in realtà un tradimento delle indicazioni che ha dato l'Unione Europea stanziando i fondi in base alla popolazione, al Pil pro capite e al tasso di disoccupazione degli ultimi cinque anni. Se si fossero utilizzati questi parametri anche nella distribuzione delle risorse all'interno della nostra nazione, al Mezzogiorno sarebbe dovuto andare il 68 per cento. La Lombardia, così, otterrà 35 miliardi di euro, quasi la stessa somma della Francia che ha gli stessi indicatori economici ma una popolazione sei volte superiore, mentre la Calabria, terza regione più povera d'Europa, ne avrà solo 9,5. Inoltre sebbene il presidente del Consiglio Draghi abbia a più riprese sottolineato la necessità di rafforzare la pubblica amministrazione, nulla di concreto è stato fatto. Oggi Bassano del Grappa, di 43mila abitanti, può contare su 256 dipendenti a tempo indeterminato, mentre Corato, 48mila abitanti, ha 128 unità, la metà». Carlo Marino, presidente dell’Anci Campania, aggiunge: «Dal governo ci attendiamo tre cose: mettere i Comuni al centro della spesa e dare loro delle procedure semplificate; un piano straordinario di assunzioni che destini ai Comuni meridionali 5 mila giovani progettisti; garantire senza trucchi che il 40 per cento delle risorse resti al Sud. Punti sui quali, a partire dall’ultimo, siamo pronti a dare battaglia». Dall’Unione europea intanto si dicono preoccupati per la distribuzione reale delle risorse del Piano in Italia. Dolors Montserrat, presidente della Commissione per le petizioni, ha dichiarato «ricevibile» una istanza di verifica sulla spesa dei fondi Ue fatta dai sindaci del Sud. Una istanza che chiede un costante monitoraggio all’Ue sull’impiego delle risorse del Piano.  Montserrat nella lettera di risposta ha aggiunto: «Ho chiesto alla Commissione europea di condurre un'indagine preliminare sulla questione». I primi bandi del Pnrr sono già più di un campanello d’allarme.

L’allarme dell’Istituto Tagliacarne e di Unioncamere. Metà della ricchezza italiana in venti province, nessuna è al Sud. Andrea Esposito su Il Riformista il 9 Ottobre 2021. Nelle prime venti province italiane si concentra più della metà della ricchezza prodotta in Italia. E tra quelle non ce n’è una del Sud. Bisogna scorrere fino alla quarantesima posizione della graduatoria – guidata, manco a dirlo, da Milano – per trovarne una leggermente più giù di Roma. Ed è quella di Cagliari, certo non quella di Napoli che è soltanto 83esima, preceduta da Palermo e seguita da Salerno. Segno che il gap tra il Nord e il Sud del Paese aumenta, nonostante il Mezzogiorno abbia per certi versi retto meglio all’urto della pandemia. Ecco la drammatica fotografia scattata dal Centro Studi Tagliacarne e da Unioncamere attraverso un report dedicato agli effetti del Covid sul valore aggiunto prodotto nelle aree metropolitane italiane. Il primo dato che balza all’occhio è la differente velocità alla quale viaggiano i vari territori italiani. A Roma e a Milano e dintorni, per esempio, si produce il 19,7% della ricchezza dell’intero Paese: un dato addirittura in aumento di due punti percentuali rispetto al 2000. Ma il capoluogo lombardo si conferma leader anche nella classifica provinciale per valore aggiunto pro capite con 47.495 euro e stacca la capitale addirittura di sette posizioni. La provincia più “vicina” a Milano è quella di Bolzano, lontana addirittura di 21 punti percentuali: uno scarto mai così alto dal 2012. Insomma, Milano vola rispetto al resto d’Italia nonostante l’impatto della pandemia sia stato più sensibile nelle province del Nord, dove si concentrano le aree a maggiore vocazione industriale e le imprese con meno di 50 addetti che, soprattutto nei settori della moda e della cultura, sono risultate le più penalizzate dalla crisi. Qui il valore aggiunto è calato del 7,4%, mentre al Sud la flessione è stata del 6,4: danni limitati grazie alla più consistente presenza pubblica nell’economia e alla massiccia presenza di imprese attive nei settori della green e blue economy, per certi versi meno colpiti dal Covid. «La crisi non ha risparmiato nessuna provincia – spiega Andrea Prete, presidente di Unioncamere – ma al Sud gli effetti sono stati più limitati grazie ai provvedimenti messi in campo dal Governo nazionale e dalla tenacia delle imprese». Ma come si sono comportate le province della Campania? Quella di Napoli ha perso il 6,9% di valore aggiunto, cioè meno di quelle di Caserta (-9,2%) e di Avellino (-8,2%), ma nettamente di più rispetto a quella di Benevento (-3,3% grazie alla consistente presenza del settore pubblico nell’economia locale) e di quelle di Milano e di Roma (rispettivamente -5,6 e -6,6%). In Campania come nelle altre province meridionali, dunque, «la crisi ha agito su un’area già provata economicamente e socialmente in termini di reddito pro capite e di incidenza delle situazioni di povertà». Ora, ovviamente, si tratta di rimettere in moto il sistema economico. E, soprattutto, di ridurre quelle diseguaglianze che il Covid ha reso ancora più evidenti. Lo strumento c’è ed è il Piano nazionale di ripresa e resilienza nell’ambito del quale la Campania vede ora finanziati i primi nove progetti. Poca roba, se si considera la consistenza del gap in termini di servizi e infrastrutture che allontana sempre di più i territori dell’Italia meridionale da quelli dell’Italia settentrionale e dal resto d’Europa. Una situazione che associazioni come la Svimez hanno denunciato a più riprese sottolineando la necessità di abbandonare una volta per tutte l’idea del Nord come unica “locomotiva” dell’economia nazionale e di considerare il Sud come “secondo motore” dello sviluppo del Paese. La politica sembra avere recepito il messaggio: ieri il ministro Enrico Giovannini ha precisato che il 56% dei 62 miliardi da investire in infrastrutture e mobilità sostenibile andrà al Mezzogiorno. Stesso discorso per il decreto per la rigenerazione urbana che vale quasi tre miliardi per 159 progetti destinati a migliorare la qualità della vita nelle città meridionali senza consumare suolo. «Ora l’importante è avviare le iniziative del Pnrr – conclude Prete – Non c’è un minuto da perdere». Andrea Esposito

Autonomia differenziata, il cadavere riesumato da un blitz della Lega. Un disegno di legge per attuare il regionalismo differenziato collegato alla legge di bilancio. Il piano B del Carroccio in caso di flop elettorale: tornare al Federalismo padano. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud l'1 ottobre 2021. Accompagnata all’uscita dalla porta principale, l’autonomia differenziata è pronta a rientrare dalla finestra. Con il solito blitz leghista è riapparsa sotto forma di disegno di legge, un collegato alla nota di aggiornamento al Def. Un fantasma pronto a riprendere forma tutte le volte che il fanatismo elettorale lo richiede. Ma questa volta sotto le sembianza del “federalismo spinto” ci potrebbe essere dell’altro. La scappatoia esistenziale di una parte del Carroccio. Le bandiera del popolo padano sono rimaste negli armadi, basterebbe spolverarle e riportarle in piazza per tornare alle origini. Il blitz è stato ispirato dai soliti governatori oltranzisti, il lombardo Attilio Fontana e il veneto Luca Zaia e con la benedizione di Giancarlo Giorgetti. Una rete di protezione in vista del possibile flop alle amministrative. Il dopo Salvini insomma è già cominciato. Se il sogno di una Lega sparsa su tutto il territorio nazionale sfuma, come dicono i sondaggi, si torna all’antico. Salvini, dicono le malelingue, si è esposto nella difesa del suo ex digital-guru Luca Morisi per non lavare i “panni sporchi”. La caduta dal podio è vicina. Ed ecco allora rispuntare il vecchio disegno, i confini segnati dal sacro fiume Po, l’occhio strizzato agli elettori delle regioni del Nord, la resurrezione del bossismo, come raccontato da questo giornale qualche giorno fa.

FEDERALISMO AD OROLOGERIA

La riesumazione dell’autonomia differenziata, dunque, come effetto collaterale. La Lega che si slega. Ed ecco che, depotenziato dalla crisi sanitaria, logorato dal protagonismo dei governatori, il federalismo ad orologeria si materializza nella sua forma più estremista. La versione già bocciata del primo governo Conte. L’interpretazione più talebana dei criteri di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Un nuovo assetto federale per regolare il rapporto economico-finanziario tra lo Stato e le autonomie territoriali. Che vuol dire superamento del sistema di finanza derivata, maggiore autonomia di entrata e di spesa agli enti decentrati. E al diavolo i princìpi di solidarietà, riequilibrio territoriale e coesione sociale che dovrebbero guidare tutte le scelte del PNNR secondo i dettami Ue. Non c’è da stupirsi se ancora una volta l’attenzione dei governatori e della Lega – ma non solo – riguarda la parte economico-finanziaria dell’autonomia differenziata. La legge n. 42/2009 ha introdotto il principio di territorialità per regolare l modalità di attribuzione alle Regioni del gettito dei tributi regionali e delle compartecipazioni al gettito. Ed è questo che fa gola, la possibilità di tener conto del luogo di consumo, localizzazione dei cespiti, prestazione del lavoro, residenza del percettore. In una parola la fiscalità regionale, ovvero la fiscalizzazione dei trasferimenti statali alle Regioni e alle Province. Attuare il federalismo per i leghisti di ieri e di oggi – detto in soldoni – ha sempre voluto dire questo: incassare i dané e tenerseli in cassaforte considerando propri anche quelli destinati alla perequazione. Da qui la richiesta di rideterminare l’aliquota dell’addizionale regionale Irpef per garantire alle Regioni a statuto ordinario entrate corrispondenti ai trasferimenti statali soppressi. Ciò che prima ti veniva passato per trasferimento dallo Stato si può trattenere a monte. A pensarci bene non è molto diverso dal principio declinato in ambito sanitario con il decreto legislativo n. 68 del 2011. E i risultati sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti; disparità di trattamento, disuguaglianza, assenza di medicina territoriale, ospedali tagliati, trattamenti economici differenziati, migrazione sanitaria, viaggi della speranza etc, etc. Da giorno in cui la Lega ha iniziato a cavalcare quella che doveva essere la tigre dell’autonomia poco o niente s’è fatto. Arranca la determinazione dei fabbisogni standard, indicatori tratti da una banca dati, informazioni che provengono dal territorio per costruire un meccanismo perequativo. Non si riesce a dare forma e contenuto ai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni previsti dal Pnrr: per farlo bisognerà aspettare almeno fino al 2026. In compenso, come se nulla fosse, si torna a parlare del luminoso destino che attenderebbe le regioni del Nord pronte ad affrancarsi dal centralismo cristallizzante. Il solito tormentone, la solitaria accelerazione di un partito in crisi di identità. Il ritorno a scoppio ritardato di un modello che lo stesso Salvini aveva riposto nel guardaroba tra gli abiti dismessi. Indumenti logori, lisi, già usati. Le iniziative assunte ormai vari anni fa, in un altro clima politico e sociale, in un’altra Italia, da alcune Regioni, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna spacciate per atti di fondazione. Referendum-farsa ai sensi dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione.

COME FINIRÀ?

In passato blitz di questo tipo si sono conclusi con un nulla di fatto. E così dovrebbe essere anche questa volta. Tanto più che una bocciatura netta al disegno leghista è arrivata anche dagli esperti nominati dalla ministra agli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Una commissione di docenti, giuristi e tecnici che ha giudicato il passaggio di alcune competenze, come ad esempio l’istruzione, impraticabile. Anche perché l’impianto generale scelto per il riconoscimento dell’autonomia differenziata dovrà essere uguale per tutti. E invece i percorsi per arrivare all’autonomia sono molto diversi fra loro.

RISPOLVERATE LE PRE-INTESE

Nella scorsa legislatura furono firmati tre accordi separati. In realtà pre-intese senza alcun valore giuridico dall’allora segretario Gianclaudio Bressa, esponente del partito democratico. Una strada diversa è stata invece quella scelta dall’ex ministro agli Affari regionali, anche lui dem, Francesco Boccia, un sistema di legge quadro, la definizione di un perimetro entro il quale declinare le varie forme di autonomia. Poi la Pandemia ha smontato tutto, messo a nudo le crepe, smascherato gli egocentrismi, i personalismi gli sprechi e le inefficienze proprio delle regioni e dei governatori che più di altri agitavano il vessillo dell’autonomia.

LO SCONTRO CON FICO

Fin qui il passato e anche il presente, con l’ultima recente riesumazione ad uso interno leghista. Con il sospetto che questa volta intorno al tema del federalismo si possa costruire una sorta di alleanza. L’asse Giorgetti-Gelmini è cosa fatta (e non promette nulla di buono). Vorrebbe saldarsi con un fronte moderato al quale si sta avvicinando sempre di più Luigi Di Maio, il ministro sempre più stressato dai conflitti del M5S, sempre più insofferente all’alleanza con il Pd. Lo scontro con Roberto Fico a Napoli, il sostegno ai “propri” candidati lo tiene molto più occupato delle questioni internazionali, uno scontro che va oltre l’orizzonte stretto delle prossime elezioni amministrative. Il regionalismo differenziato potrebbe essere contropartita per un accordo più ampio che taglierebbe fuori Giuseppe Conte. Il regionalismo differenziato come contropartita. Un negoziato scellerato sulla pelle del Mezzogiorno.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 22 settembre 2021. Di Italie, si sa, ce ne sono almeno due. E una, quella più a Sud, è costretta ogni giorno a fare i conti con un gap infrastrutturale che riguarda in primis la scuola e i suoi servizi. Un divario che ha raggiunto ormai proporzioni inaccettabili. Un dato su tutti (dal report di Legambiente Ecosistema Scuola): nella Penisola vengono stanziati in media 4,60 euro a studente per finanziare progetti o iniziative extrascolastiche dedicate agli under 14. La statistica però trae in inganno e se al Nord per ogni alunno gli euro sono 9,3, al Centro sono 1,4, a Sud 1 e nelle Isole addirittura 0. Una fotografia che non migliora allargando il campo alla gestione delle strutture scolastiche. Negli ultimi 5 anni infatti sono stati spesi - sempre in media - 5.679 euro per la manutenzione ordinaria di ogni singolo edificio della Penisola. Riprendendo la suddivisione precedente, a fronte di uno stanziamento da parte dello Stato e della Ue di 7.258 euro per ogni istituto, gli edifici scolastici del Nord hanno ricevuto 7.248 euro, mentre le scuole del Centro si sono accontentate di 5.864 euro, quelle del Sud di 4.495 euro e, sulle Isole, di appena 1.879 euro. Eppure a guardare quali di questi edifici necessitino di manutenzione urgente la situazione è opposta: nelle Isole sono oltre il 63 per cento, al Sud oltre il 31 per cento, al Centro il 27,4 per cento e al Nord il 22,9 per cento.

IL PIANO Non è dunque un caso se il Piano nazionale di ripresa e resilienza varato dal governo, destina al Meridione 82 miliardi di euro proprio con l'intenzione di colmare questo gap. Fondi da spendere però con attenzione per evitare che neanche un euro di queste risorse finisca con l'essere impegnato senza questa finalità. Tant'è che alte fonti di governo, senza confermare l'esistenza di tali distorsioni, commentano: «Stiamo lavorando una valutazione dell'avvio del Pnrr e comunque la cabina di regia prevista servirà anche a monitorare e coordinare l'attuazione equilibrata del piano». Qualche criticità ad esempio, si è già presentata con il primo finanziamento da 700 milioni di euro destinato ad asili nido e scuole dell'infanzia. Come denunciato ieri dal Messaggero infatti, tra i criteri del bando (varato dal precedente governo) che premiavano le domande, c'era anche quello del cofinanziamento. Un criterio che assegnava ben 10 punti, contro gli appena 3 destinati a quelle richieste in arrivo da comuni in cui il numero degli asili nido è inferiore alla media nazionale. Inevitabile quindi, che a fronte di un'assegnazione di fondi destinata alle aree più disagiate del Paese, tra i 453 progetti approvati compaiano diversi casi in cui lo svantaggio non è poi così evidente. Dall'asilo nido di Torino a 2 chilometri da piazza Castello fino a quello milanese vicino ai Navigli e alla scuola per l'infanzia in pieno centro a Udine.

GLI ASILI Una stortura che, contestualizzata con i dati dell'associazione Con i bambini e di OpenPolis, appare ancora più evidente. Nella Penisola infatti, a fronte di un Centro-Nord che ha quasi raggiunto l'obiettivo europeo di 33 posti disponibili ogni 100 bambini (sono a 32) e dove comunque in media due comuni su 3 offrono il servizio, c'è un Mezzogiorno in cui i posti disponibili sono invece solo 13,5 ogni 100 bambini, e il servizio è garantito in meno della metà dei comuni (il 47,6 per cento). In particolare la differenza è di 18,5 punti e si sostanzia in un singolo esempio: A Bolzano ci sono quasi 7 posti ogni 10 bambini, a Catania e Crotone quasi 5 su 100. Il dramma è che si potrebbe continuare all'infinito. Le mense scolastiche? Secondo Legambiente che ha analizzato un campione di oltre 6mila edifici scolastici nelle regioni del Nord ce n'è una nel 74 per cento degli istituti. Il servizio invece al Centro e al Sud è disponibile in meno di una scuola su due (rispettivamente nel 46 e nel 41 per cento delle strutture), e nelle Isole in uno su tre (33,5 per cento). Le palestre? Nel settentrione le hanno il 55 per cento delle scuole, al Centro il 38,9 per cento, al Sud il 44,8 per cento e sulle Isole il 35,1 per cento. Infine il risultato peggiore, quello sull'apprendimento. Dati Invalsi alla mano (Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna hanno oltre il 50% degli alunni che raccoglie risultati scarsi in Italiano, il 60% in Matematica) c'è una sola interpretazione possibile: l'intero sistema scolastico funziona meglio al Nord. Ma non ci sono più scuse, è ora di rimediare.

Autonomia differenziata: come scappare con il bottino. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2021. LA BOCCIATURA è solenne e senza appello. Ed è il motivo per cui Luca Zaia e Attilio Fontana dopo aver letto la relazione redatta dal comitato dei saggi nominati dal ministero hanno chiesto subito di poterne parlare con la ministra agli Affari regionali Mariastella Gelmini. Non era il testo che il presidente del Veneto e della Lombardia si aspettavano. Al contrario era un’analisi lucida e particolareggiata, dal punto di vista giuridico ed economico, delle ragioni per cui parlare di regionalismo differenziato nell’anno di grazia 2021 non ha più molto senso. La Commissione tecnica, presieduta dal professor Beniamino Caravita, formata da 5 costituzionalisti di chiara fama, ha sollevato molti dubbi. A partire dall’interpretazione nel merito dell’articolo 116 della Carta costituzionale e a seguire dell’articolo 117, quello che indica le materie che lo Stato può devolvere “in particolari condizioni” alle Regioni. Stessi rilievi del gruppo di lavoro sulla parte finanziaria, oggetto nel giugno scorso di una serie di audizioni formali alle quali hanno preso parte tra l’altro membri del Consiglio direttivo dell’Ufficio parlamentare di Bilancio. Stiamo parlando di esperti in materia di federalismo fiscale come l’economista Alberto Zanardi e Chiara Gobetti, chiamata qualche giorno fa da Mario Draghi a far parte della cabina di regia che gestirà il Pnrr. Si è partiti da una prima bozza di documento raccogliendo i pareri di esperti di settore. E alla fine si sono tirate le somme. Ma il documento finito sui tavoli regionali non è quello che i due governatori leghisti avrebbero voluto.

ISTRUZIONE PUNTO CRITICO. Il punto più critico è il trasferimento delle funzioni relative all’Istruzione. Il cuore dell’autonomia differenziata, la materia che insieme alla sanità fa più gola agli autonomisti 4.0 e senza la quale qualsiasi forma di regionalismo spinto si svuota. Le valutazioni raccolte su questo punto non riguardano il carattere politico della richiesta. I saggi e gli esperti erano esentati da esprimere valutazione sul carattere identitario cose simile, aspetto centrale almeno quanto le risorse. Era importante però indicare in che modo quantificare l’entità dei trasferimenti e sciogliere le questioni finanziarie collegate al disegno di finanziamento del decentramento che la Commissione. Ed è proprio su questo punto che nel corso delle audizioni gli esperti hanno smontato pezzo a pezzo le pretese dei governatori del Nord. Nella bozza d’intesa scritta nel febbraio del 2019 i nodi nevralgici erano tutti ancora aggrovigliati. Solo disposizioni generali, identiche per tutte le regioni richiedenti. Nella successiva bozza, datata novembre 2020, si faceva un generico riferimento ad una compartecipazione al gettito erariale e alla possibilità di misure transitorie in attesa del solito ormai leggendario aggiornamento dei Lep. Per avere una dimensione finanziaria di tutto quello che si porta dietro la scuola ad esempio il solo trasferimento del personale scolastico in Lombardia, basti dire che la sola Regione Lombardia riceverebbe dallo Stato 4,6 miliardi, 2,3 il Veneto e oltre 2 miliardi l’Emilia Romagna: 26,5 miliardi se tutte le regioni a statuto ordinario dovessero fare la stessa richiesta. Tutte le fonti di finanziamento dovrebbero essere ricollocate a favore delle regioni. Senza entrare nel merito delle funzioni richieste, cambiando il soggetto che fornisce questo servizio pubblico, si modificherebbe l’aspetto organizzativo-regolamentare e tutto questo avrebbe un costo aggiuntivo. Uno spostamento di risorse che avrebbe comportato una profonda revisione dell’assetto normativo. Il finanziamento delle funzioni aggiuntive, separato dalla struttura generale di finanziamento delle regioni a statuto ordinario, non sarebbe stato oltretutto coerente con l’articolo 116 “che fa espresso riferimento all’articolo 119 e dovrebbe realizzarsi con modalità «il più possibile coerenti e integrate con il meccanismo di finanziamento di tutte le altre regioni». Questi punti critici nella relazione dei saggi – relazione che la Gelmini avrebbe voluto restasse “segreta” – vengono puntualmente elencati. Così come le questioni più giuridiche sollevate dalla professoressa Anna Poggi, docente di Diritto pubblico all’Università di Torino e dal professor Giulio Maria Salerno, titolare nella stessa materia all’Ateneo di Macerata.

SENZA LA SCUOLA IL REGIONALISMO SI SVUOTA. Tutto il dibattito sul regionalismo differenziato per quanto riguarda gli aspetti delle risorse finanziaria gira intorno alla scuola. Da qui la delusione di Fontana e Zaia, Anche se in questi anni si è registrato da parte loro un atteggiamento ondivago. Da una parte la rivendicazione, il vessillo da esporre, dall’altra il rischio che comporta la gestione concreta dell’Istruzione. Un complicato periodo di transizione, l’eventuale scelta proposta ai docenti e non docenti di optare per ruoli statali o regionali. Un nuovo sistema di offerta formativa, la ridefinizione delle retribuzioni con eventuali differenziazioni di trattamento.

LA SCUOLA COME LA SANITÀ? NO GRAZIE. Per la geografia della finanza pubblica spostare una piccola funzione organizzativa non è come spostare la fornitura complessiva dell’Istruzione. I costi si moltiplicano. Tanta prudenza da parte dei saggi, con relativa inversione di tendenza, si spiega con gli effetti collaterali della Pandemia. Se si andasse avanti in questa direzione, con la regionalizzazione della scuola bisognerebbe costruire un sistema simile alla sanità sviluppando in modo simmetrico a tutte le regioni e non solo in quelle che ne hanno hanno richiesta. Per la sanità c’è un ammontare di risorse destinate a quella specifica funzione, quota che viene rivista di anno. Per la scuola dovrebbe esserci un meccanismo analogo, un fondo scolastico che alimenterebbe le regioni. Le risorse – fanno osservare gli esperti, tenuti alla massima discrezione – dovrebbero essere attribuite in modo perequativo in tutti i territori a prescindere dal soggetto pubblico che li eroga. E questo contrasta con le richieste vagamente declinate da Veneto e Lombardia. L’ex ministra agli Affari regionali Erika Stefani, la pasionaria leghista dell’autonomia, aveva stilato una bozza d’accordo in cui si fissava un’aliquota sui grandi tributi nazionali fotografando la situazione in base alla spesa storica. Una scommessa al buio fuori da ogni dinamica economica, contro ogni principio perequativo e contro ogni regola di riparto.

IL PARLAMENTO ESAUTORATO. L’altro punto sul quale la Commissione tecnica ha eccepito è l’iter di una eventuale legge-quadro modificata e corretta. I governatori, specie quelli del Nord, chiedono che le bozze di intesa una volta concordate non passino più attraverso una discussione parlamentare che le possa emendare. Governo centrale e governo regionale fissano un testo e quel testo rimane. Più che una richiesta, una pretesa. Vincenzo Presutto, senatore campano del M5S, è vice presidente della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale. Spiega: «Non mi sorprende che la relazione della Commissione tecnica abbia evidenziato serie criticità in merito al trasferimento dell’Istruzione alle Regioni.  Il tema del Regionalismo differenziato – rileva Presutto – ha sollevato da sempre diverse perplessità, basta tenere presente gli accadimenti legati alla pandemia da Covid-19 durante la quale la Sanità gestita dalle Regioni, alcune delle quali si sono in più di un caso poste in conflitto con le indicazioni dello Stato centrale, al punto tale che diverse voci si sono sollevate per mettere in discussione addirittura la stessa riforma del Titolo V della Costituzione con la quale fu avviato il trasferimento di alcune materie concorrenti, quelle cosiddette “simmetriche”, alle Regioni. Tale percorso, avviato nel 2001, ancora oggi è rimasto incompleto». L’Italia è a un bivio: o si applichiamo le logiche del Regionalismo e delle Autonomie nel rispetto della Costituzione, salvaguardando i principi di coesione e solidarietà, o, secondo Presutto, «dovrà essere rivista l’impostazione dell’intero Titolo V». «Il Pnrr ha in sé il presupposto per l’applicazione del Federalismo e delle Autonomie Regionali – osserva il senatore – consente allo Stato di adottare una politica nazionale strategica sui grandi temi, superando quel concetto di “spezzatino” regionale voluto con un Regionalismo differenziato che finora ha solo alimentato la competizione tra le Regioni. Con il PNRR, potendo operare sui grandi obiettivi e le relative missioni, si creano le condizioni per rilanciare l’Italia rendendola un Paese più moderno e competitivo, in grado di adeguarsi alle regole mondiali che stanno cambiando radicalmente e che, nel nostro caso, necessitano di un Paese sempre più unito, coeso e solidale colmando il divario economico, sociale e culturale tra Nord e Sud, come peraltro ci è stato esplicitamente richiesto dall’Unione Europea». «Per questo – conclude il senatore Presutto – appaiono più chiari i motivi per i quali la Commissione tecnica, voluta dal ministero abbia escluso che il diritto allo studio possa essere sottratto al controllo dello Stato, e che sia attribuito invece alle singole Regioni richiedenti, visto l’alto rischio di creare sul tema dell’Istruzione, che è un valore portante della nostra democrazia, disparità tra i cittadini a livello territoriale».

QUANDO I NUMERI PARLANO. VACCINO, SCUOLA, ECONOMIA, INFRASTRUTTURE E AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2021. C’è da pedalare, ma la bicicletta è già stata comprata. Anche l’incubo di una notte di mezza estate, che riveliamo in esclusiva, di un’autonomia differenziata che sarebbe costata dieci miliardi in più solo per consentire ai governatori di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto di assumere e pagare loro i docenti e di fare la loro scuola, è caduto sotto i colpi della Costituzione ritrovata e della verità dei fatti e dei numeri. Stiamo uscendo tutti insieme dal mondo dell’irrealtà e questo vale anche per i partiti del rumore che alla fine non dicono mai no. Anche le Regioni sono state messe in riga. Hanno scadenze da rispettare e cose da fare. Chi sa di avere il Paese dietro manda il suo messaggio ai partiti. Fate pure le vostre sceneggiate, ma sappiate che state parlando al vento. Io vi porto cifre e fatti, voi portate aria e polemiche inutili. Certo, dobbiamo vedere che cosa succede nei prossimi due trimestri perché quella sarà la prova vera, ma fino a oggi in economia abbiamo fatto il nostro. Anche le Regioni sono state messe in riga, dicono sì prima e devono fare il loro nei trasporti locali. Hanno scadenze da rispettare e cose da fare. Ancora. Il 91% di vaccinati del personale docente e la grande corsa a vaccinarsi dei ragazzi sono il segno concreto di un Paese che vuole rimettersi in cammino. I 59 mila insegnanti messi in ruolo contro i 19 mila dell’anno precedente sono il frutto dell’azione paziente del ministro Bianchi e di un metodo di lavoro che guarda lontano e si prepara per tempo. Lo stesso metodo che ha consentito di recuperare in estate un milione e seicentomila ore di scuola per la linguistica e la matematica, ma ancora prima per tornare a fare scuola insieme e a parlare insieme. Si è arrivati all’inizio dell’anno scolastico con una grande voglia di tutti di ritornare tra i banchi perché il governo non è andato in vacanza “a passeggiare”. Obbligo dei vaccini? Sì. Terza dose? Sì. Afghanistan e Europa inconcludente? Sì, perché c’è stato qualcuno che è stato concludente? La verità è che l’Europa è assente perché non è organizzata, ma ci stiamo lavorando e tutte le relazioni diplomatiche stanno cambiando. Noi governo Draghi, questo è il senso, stiamo facendo e sappiamo di avere il Paese dietro. Voi alle spalle non avete niente, i centri decisionali lavorano con noi. Potete fare solo un po’ di confusione sui social, ma tutti hanno capito che il governo fa le cose e vogliono confrontarsi e trovare un accordo perché è troppo importante. Stiamo uscendo tutti insieme dal mondo dell’irrealtà e questo vale anche per i partiti del rumore che alla fine non dicono mai no. L’incubo di una notte di mezza estate che riveliamo in esclusiva di un’autonomia differenziata che sarebbe costata dieci miliardi in più solo per consentire ai governatori di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto di assumere e pagare loro i docenti e di fare la loro scuola, è caduto sotto i colpi della Costituzione ritrovata e della verità dei fatti e dei numeri. Sempre quelli. È grave che si pensino architetture simili, ma oggi a differenza del passato c’è un muro di buon senso che le rende irrealizzabili. Perché il Paese è uno e può ripartire solo insieme non con gli egoismi miopi che hanno segnato i venti anni della crescita zero. L’abilità di Draghi è evidente. Lui loda il Parlamento e lavora con il governo. Arriva in conferenza stampa mai da solo e circondato da sempre più ministri. Si vede la squadra e si percepisce la guida. Il messaggio di prima battuta è: noi stiamo lavorando, basta che aprite gli occhi e ve ne accorgerete. Il messaggio di seconda battuta è ai partiti: guardate che la gente se ne è accorta.  Come dire: fate, ma sappiate che ci saranno delle conseguenze. C’è da pedalare, ma la bicicletta e già stata comprata. Hanno capito tutti, insomma, meno che il solito supertalk italiano che continua a parlare di partiti, maggioranze, Quirinale, e delle loro consunte varianti che sono il problema della Lega, il problema del Pd, i Cinque stelle arrabbiati. Francamente sono quasi tutti un po’ patetici perché giorno dopo giorno succederà a loro sempre di più quello che già succede ai partiti. Guadagneranno in modo più fastidioso dei partiti l’irrilevanza. Perché la gente ha capito e la Nuova Ricostruzione è cominciata.  

Posti letto negli ospedali e rifiuti, è sprofondo Sud. I dati relativi ai trasporti (strade, ferrovie, aeroporti e porti) segnalano nel Mezzogiorno una dotazione inferiore alla media italiana. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2021. La minorità infrastrutturale del Mezzogiorno è un leitmotiv della passione civile che anima questo quotidiano. Un recente studio della Banca d’Italia («I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso», di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller, nella collana «Questioni di Economia e Finanza») è venuto a confermare, con dovizia di analisi innovative, questa minorità, e più volte è stato presentato su questo giornale (vedi il “Quotidiano del Sud” dell’8, 11, 13, 18 agosto, con le analisi sulle dimensioni dei trasporti, della rete idrica, della rete elettrica, delle reti di telecomunicazioni…). In quest’ultimo articolo guardiamo, traendo ancora una volta da quello studio meritorio, alla ‘foresta’ delle infrastrutture, e non più ai singoli ‘alberi’. La tabella mostra, per una selva di indicatori e per ogni regione della penisola, oltre alle grandi ripartizioni territoriali (Nord, Centro, Sud e Isole), i valori di ogni indicatore rispetto al valore medio dell’Italia intera. Per meglio interpretare la tabella, è bene ricordare che non sempre un valore più basso per il Mezzogiorno indica una minorità. Tipico è il caso dell’indicatore relativo alle reti elettriche: per la rete a bassa tensione un valore più alto indica che sono più numerose le interruzioni nella fornitura di corrente, mentre il contrario vale per la rete a media tensione (che interessa le imprese): in quel caso un valore più basso indica che è minore il numero di utenze conforme agli standard di qualità fissati dall’ARERA (Agenzia di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente). Prima di commentare la tabella è utile ricordare le premesse di questa analisi dei divari infrastrutturali nelle Regioni italiane. Questi sono stati esaminati a partire dai singoli SLL: Sistemi locali del lavoro, una partizione territoriale – in Italia sono più di 600 – basata sul pendolarismo, che a sua volta segnala aree economicamente omogenee al loro interno. E L’esame si è valso dei criteri analitici della ‘Nuova geografia economica’ (NGE): una branca dell’economia, in pratica fondata dal Premio Nobel Paul Krugman, che “si caratterizza per il ricorso a sofisticati modelli analitici basati sulle distanze per spiegare la distribuzione delle attività economiche sul territorio e i processi agglomerativi all’origine dei divari di sviluppo locali”, e quindi considera quale elemento determinante nei processi di espansione economica la centralità di un’area rispetto alle destinazioni economicamente più rilevanti (mercato potenziale). Per fare un esempio non strettamente economico, fra gli indicatori di qualità delle cure ospedaliere (vedi la terzultima colonna della tabella), l’indice di accessibilità (dopo aver normalizzato i posti letto per la popolazione) consente di cogliere in che tempi il singolo individuo di un dato SLL può raggiungere le strutture di cure ospedaliere. E veniamo alla tabella. I dati relativi ai trasporti – strade, ferrovie, aeroporti e porti – segnalano nel Mezzogiorno una dotazione inferiore alla media italiana (e ricordiamo che ogni indicatore ha più di una dimensione – per esempio, come già detto nell’articolo dell’11 agosto, non si considerano solo i chilometri di strade, ma anche i tempi di percorrenza). Il solo indicatore per il quale il Mezzogiorno ha un dato superiore alla media italiana è quello relativo ai passeggeri che transitano per i porti, il che è facilmente spiegabile a causa dei collegamenti con le isole. Seguono le telecomunicazioni, e sono questi i soli indicatori per i quali il Mezzogiorno fa bella figura. Ma anche qui l’apparenza inganna. È vero, l’offerta – cioè la disponibilità della rete – è generosa con il Sud, ma la fruizione dei servizi digitali è molto più elevata al Nord. Come recita la Relazione annuale 2020 dell’Agenzia per le Comunicazioni, “in definitiva, tali evidenze mostrano ancora una volta la necessità di affiancare alle politiche di offerta (grazie alle quali si sono raggiunte importanti coperture della banda larga e ultra-larga nella gran parte delle zone del Paese) interventi dal lato della domanda, ossia che stimolino la diffusione dei servizi presso la popolazione italiana”. Per quanto riguarda le altre grandi reti, di quella elettrica si è appena parlato, mentre per quella idrica non c’è che da reiterare le disfunzioni, a sfavore del Mezzogiorno, già descritte su queste colonne il 18 agosto. La dotazione ospedaliera ha tutto il diritto di essere considerata fra le infrastrutture di base. Come recita il contributo di Banca d’Italia, “La letteratura economica ha ampiamente dimostrato che la tutela della salute contribuisce allo sviluppo economico attraverso il suo effetto positivo sull’accumulazione di capitale umano e sulla produttività del lavoro; la crisi innescata dalla pandemia ha ulteriormente messo in luce quanto siano profonde le interconnessioni fra sanità pubblica ed economia. Nel contesto istituzionale italiano la salute è un bene pubblico universale, essendo le prestazioni sanitarie costituzionalmente garantite a tutti i cittadini”. Ebbene, gli indicatori di posti-letto sono tutti più bassi al Sud, specie per la pneumologia e le malattie infettive, per non particolare dell’indicatore di qualità (di cui sui è dato un esempio più sopra), dove il livello per il Mezzogiorno è poco più della metà di quelli del Centro-Nord. Un residente nel Sud o nelle Isole ha possibilità di accedere a posti letto in strutture ospedaliere inferiori del 40 per cento rispetto a un residente in una regione centrosettentrionale. Infine, un altro aspetto della salute attiene alla gestione dei rifiuti, dove ancora una volta gli indicatori descrivono un livello tragicamente basso per il Meridione: “Anche l’erogazione dei servizi ambientali soffre di una carenza di infrastrutture particolarmente accentuata nel Sud del paese, che presenta condizioni sfavorevoli di accesso agli impianti di trattamento dei rifiuti in modo particolare per quanto riguarda la gestione della componente differenziata organica. La minore disponibilità di impianti incide sui costi pagati dall’utenza e ostacola una riorganizzazione del servizio basata sull’adozione di tariffe puntuali (che inducono le famiglie a produrre meno rifiuti e a differenziare di più, ma richiedono una dotazione di impianti adeguata)”. Lo studio di banca d’Italia ha alzato il velo su un campo di indagine che promette altri approfondimenti. Gli stessi autori prevedono ulteriori linee di sviluppo che si allarghino ad altre infrastrutture sociali (asili nido, residenze per anziani, scuole…), che arricchiscano gli indici di accessibilità con altre informazioni qualitative, e che arrivino – qui si potrebbe ricorrere alla metodologia usata nei rapporti Svimez sull’argomento – a individuare metodi per collassare i diversi indicatori in una misura sintetica di tutte le infrastrutture considerate.

Il teschio della discordia. L'ultima polemica su Lombroso minacce alla studiosa che lo difende. Massimo Novelli, la Repubblica, 28/03/2014. Il brigante Villella torna a far parlare di sé. Nel mirino adesso finisce l'antropologa che smonta il mito che ne aveva fatto un eroe. E, per motivi di ordine pubblico, il paese dove è nato cancella la presentazione del saggio. Questo libro non si deve presentare: almeno non ora, e forse mai. Succede a Motta Santa Lucia, paese calabrese di ottocento anime in provincia di Catanzaro, arroccato sulle montagne che sovrastano la valle del Savuto. Il volume in questione, appena pubblicato dalla casa editrice Salerno, in una collana diretta dallo storico Alessandro Barbero, è Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso. Loha scritto l'antropologa Maria Teresa Milicia. Avrebbe dovuto essere presentato domani proprio a Motta Santa Lucia. L'avvenimento, però, è stato annullato all'ultimo momento. Le ragioni? Si temevano contestazioni da parte di esponenti di quei movimenti neoborbonici e antiunitari che da tempo, mediante un sostanziale stravolgimento e una manipolazione della storia d'Italia e del Risorgimento, impazzano sul web, attaccando e insultando chiunque non la pensi come loro. A fare infuriare ancora di più i neo-legittimisti del Mezzogiorno ci sono, poi, le origini calabresi di Maria Teresa Milicia, stimata docente di antropologia culturale all'Università di Padova. Quale è la sua "colpa"? Quella di avere smontato un mito, del tutto fasullo e strumentale, caro ai neo-borbonici. Nel suo saggio ripercorre con rigore scientifico, e attraverso una ricerca meticolosa, le vicende che hanno portato alcune associazioni nostalgiche del Regno delle Due Sicilie a trasformare Giuseppe Villella, un verosimile ladruncolo di polli e di caciotte, vissuto nell'Ottocento, in una sorta di eroe nazionale, alfiere della lotta del Sud contro il colonialismo del Nord. Da qui le violente contestazioni contro il Museo Cesare Lombroso di Torino; lì, tra gli altri reperti appartenenti al criminologo nato a Verona e morto a Torino (1835-1909), è conservato il cranio di Villella. Proprio esaminando i suoi resti, sul finire dell'Ottocento, il fondatore dell'antropologia criminale partì per elaborare la sua teoria, rivelatasi sbagliata, sul presunto atavismo del delinquente. É nato poi persino un Comitato "No Lombroso", con cui è stata chiesta, anche per vie giudiziarie (la causa sarà discussa in appello a dicembre), la restituzione al comune di Motta Santa Lucia del cranio di Villella, pretesa vittima del razzismo sabaudo e di Lombroso. Nel frattempo è stato incoronato dai borbonici del 2000 a leggendario patriota del Sud. In realtà, come dimostra Maria Teresa Milicia, costui non fu né un brigante e tantomeno un patriota, bensì soltanto un poveraccio. Autore di piccoli furti, morì di malattia nel carcere di Pavia. La studiosa, inoltre, smentisce nel suo lavoro le accuse di razzismo e di antimeridionalismo mosse a Lombroso, riscoprendo certi suoi scritti sulla Calabria in cui denunciava alcuni guasti dell'unificazione nazionale, «troppo più formale che sostanziale», e il peso della criminalità locale. Sicuramente chi contesta il libro non può averlo già letto, dato che non è ancora stato distribuito in tutte le librerie italiane. Saperlo in uscita, in ogni caso, è bastato per far saltare l'appuntamento di Motta Santa Lucia, annunciato da giorni dai manifesti affissi nelle vie del paese. È stato il sindaco, l'avvocato Amedeo Colacino, lo stesso che aveva invitato la Milicia, a parlarle mercoledì sera di una informativa dei carabinieri della zona, che, preoccupati per le proteste ventilate, avevano consigliato di cancellare la presentazione. Ora Colacino precisa: «Diciamo che si è preferito rinviare l'incontro per motivi di opportunità, anche per quanto è stato pubblicato su alcuni siti». Su quello del comitato "No Lombroso" si sprecano insulti, e contumelie assortite, alla Milicia. Aggiunge il sindaco: «Magari presenteremo il libro della dottoressa Milicia in contraddittorio con quello, più neo-meridionalista, che ha scritto Francesco Antonio Cefalì». Quest'ultimo, comunque, risulta essere soprattutto il coordinatore della sezione Michelina De Cesare, che era davvero una brigantessa, del cosiddetto Partito del Sud di Lamezia Terme. Commenta l'autrice di Lombroso e il brigante: «Senoncifosse stato di mezzo Lombroso, il cranio del povero Villella sarebbe stato sepolto in una fossa comune. E nessuno ne avrebbe mai parlato. Invece, intorno alla sua figura, è stata costruita una leggenda identitaria e storica del Mezzogiorno, che purtroppo si è diffusa molto». Basti dire che la segreteria telefonica del centralino del comune di Motta Santa Lucia recita che «è la città del pane, dei portali e del brigante Villella». Nella prefazione al saggio, Maria Teresa Milicia ricorda: «Ho scritto questo libro anche perché sono convinta che il Museo Lombroso non è un museo razzista», e che «i modi, il linguaggio della protesta e il palese tentativo di mistificare la verità storica istigano all'odio gli italiani e danneggiano i calabresi ». Non tutti, in Calabria, la pensano come gli animatori dei gruppi borboneggianti. Il 9 aprile, infatti, il libro verrà discusso all'Università di Cosenza da storici e antropologi come Brunello Mantelli, Silvano Montaldo e Marta Petrusewicz, Vito Teti e Mary Gibson, studiosa del "maledetto" Lombroso. E il 16 sarà il Museo Lombroso di Torino a presentarlo.

Una nuova puntata di “quando si difende l’indifendibile”: Lombroso, il razzista antimeridionale. Da neoborbonici.it.

UN LIBRO DA NON COMPRARE E UNA QUERELA PER "LA REPUBBLICA" (TESTO ALLEGATO). INTERVENTO PUBBLICATO.  Da qualche giorno è uscito un nuovo libro per dimostrare che Lombroso non era antimeridionale, che Giuseppe Villella non era un “patriota” e che non ha senso richiedere la restituzione dei suoi resti. Ovviamente vi consigliamo di non comprare questo libro (“Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso”) e ci aspettiamo a breve una nuova pubblicazione della stessa casa editrice che possa cercare di dimostrare che anche i nazisti, in fondo in fondo, non ce l’avevano così tanto con gli ebrei… Intanto, però, assistiamo al consueto rituale con uno schema abusato e ripetitivo quando ci sono di mezzo  

A. Barbero e la cultura “ufficiale”: si pubblica un libro contro revisionisti&neoborbonici accusandoli pure di “fini immondi” o (in questo caso, come da dichiarazioni dell’autrice in questione), “di mistificare la storia e danneggiare i calabresi”, ci si  lamenta di “attacchi e insulti” o addirittura di ipotetiche e anonime “minacce” sul web (Repubblica 28/3/14) cercando polemiche che dovrebbero servire (ricordate la famosa “mamma, Ciccio mi tocca”?) a pubblicizzare e vendere gli stessi libri dai titoli sempre “ambivalenti” che, analizzati nei dettagli, rivelano l’inconsistenza delle loro tesi. In questo caso già nella scheda introduttiva della casa editrice le parole sono più che chiare: si tratta della calabrese  M. T. Milicia, una antropologa definita “nativa” con terminologia discutibile, utilizzata in maniera quasi (per restare in tema) freudiana in genere riferita ai popoli colonizzati o conquistati… Nelle (consuete) paginate di quotidiani con commenti carichi di entusiasmo il (consueto) repertorio: tutti noi (neoborbonici in testa che avviarono con il sindaco di Motta Santa Lucia, Amedo Colacino, la richiesta di restituzione di quei resti) “piegheremmo la storia a fini politici”: eppure non risulta un solo neoborbonico mai candidato neanche in una municipalità da quando nel 1993 è nato il Movimento; eppure del Comitato No Lombroso che quella battaglia l’ha portata avanti con grande determinazione fanno parte centinaia di studiosi e interi consigli comunali forti anche di una sentenza addirittura di un Tribunale italiano (e non delle Due Sicilie)… Involontariamente comiche (se non si trattasse di fatti tragici) le dichiarazioni della ricercatrice “nativa” (Repubblica 25/3/14) secondo le quali nessuno ricorderebbe Villella se Lombroso non l’avesse studiato: un po’ come attribuire meriti magari ai nazisti per aver costruito i campi di concentramento “altrimenti nessuno conoscerebbe lo sterminio degli ebrei”… E così Lombroso “non si era accanito contro i meridionali”, “non avallava teorie antimeridionali e neanche il museo”… Eppure lo scienziato veneto-piemontese passò diversi mesi in Calabria per studiare le razze locali al seguito dell’esercito schierato contro il “brigantaggio”. Eppure fu lui ad elaborare la ridicola teoria del dualismo razziale con “l’Italia dolicocefala mediterranea e quella brachicefala del settentrione” (la prima portata naturalmente a delinquere). Eppure fu proprio lui a scrivere “È  agli  elementi  africani  ed  orientali  (meno  i  Greci),  che  l'Italia  deve, fondamentalmente,  la  maggior  frequenza  di  omicidii  in  Calabria,  Sicilia  e  Sardegna, mentre  la  minima  è  dove  predominarono  stirpi  nordiche  (Lombardia)”. Eppure per Lombroso il calabrese presentava il carattere della tribù e costituiva un attentato continuo alla sicurezza degli altri. Eppure sempre lui, perito di parte del soldato (calabrese) Salvatore Misdea che aveva ucciso diversi commilitoni nel 1884, ancora sosteneva l’importanza della “barbarie del paese d’origine e della famiglia”. Eppure è storicamente innegabile che fu Lombroso il primo ad associare le idee di meridionali/briganti/criminali e che mai prima di allora qualcuno aveva diffuso quel tipo di associazione (tuttora attuale e diffusa). Eppure fu un suo seguace, il siciliano Niceforo, a teorizzare l’esistenza della razza maledetta… In questo senso, allora, la studiosa “nativa” autrice di quest’ultimo libro, tra gli estimatori (anche meridionali) del Lombroso, è in buona compagnia e non ci sorprende più di tanto la scelta di pubblicare questo libro con quel curatore e con quelle dichiarazioni rese a mezzo stampa… Eppure quelle “suggestioni lombrosiane” arrivano direttamente fino alle teorie antisemite del nazismo… Eppure la testa di quel povero calabrese se oggi “è diventato il totem del razzismo antimeridionale”, per un secolo e mezzo e fino ad oggi (con tanto di sala ad esso dedicata nel museo torinese) diventò il simbolo, il totem dell’inferiorità dei meridionali in un contesto politico che subito dopo l’unificazione e durante la guerra del “brigantaggio” (e per certi aspetti fino ad oggi) trovava nell’inferiorità dei meridionali le motivazioni per le feroci repressioni e per la mancata risoluzione delle questioni aperte dopo il 1860 e tuttora irrisolte (v. i tanti e recenti libri che vorrebbero dimostrare che “è tutta colpa del Sud”). Del resto furono i Colajanni, i Salvemini o i Gramsci stessi a denunciare quest’uso che di quelle teorie veniva fatto (v. nota). “Brigante” o meno che fosse, i resti del povero Villella, allora, e ancora di più se si trattava di un semplice ladro (ma resta il mistero sulle motivazioni per le quali, se fosse stato un semplice ladro, fu deportato a 1151 km dal suo paese…), simbolo troppo carico di significati, ormai, dovrebbero essere restituiti al Comune che li richiede per assicurargli semplicemente una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia.

Il fenomeno del revisionismo del revisionismo, in realtà, per quanto irritante, è ben poca cosa in termini sia di contenuti che di diffusione (o vendita di copie) ed è circoscritto al solito giro di intellettuali: in questo caso si tratta del terzo libro pubblicato da A. Barbero (il “negazionista di Fenestrelle”, docente di storia medioevale ma di recente molto attivo sulla storia risorgimentale) in una sua collana per la Salerno Edizioni: un primo libro di due ricercatori locali che avrebbero dovuto chiarire (senza riuscirci) la questione-Fenestrelle, quello di R. De Lorenzo che avrebbe dovuto smantellare (senza riuscirci) i “miti neoborbonici della Borbonia felix” e ora questo dell’antropologa “nativa” per salvare (senza riuscirci) il soldato Lombroso…

Un caso? Tutt'altro e, consapevoli o meno e, soprattutto, meridionali o meno, i "collaboratori" dell'operazione diventano artefici di un attacco significativo a tutto il nuovo e sempre più vasto fronte neo-meridionalista che, in un processo inarrestabile e nonostante i mezzi e le inquietudini evidenti dei suoi “avversari”, sta ricostruendo la memoria storica e restituendo al Sud una dignità per troppo tempo calpestata.

Gennaro De Crescenzo 

NOTA Dicono di Lombroso… 

Napoleone Colajanni (1898) si indignò contro "le stolte teorie dei superuomini e delle super-razze, che segnalano la razza maledetta non alla progressiva trasformazione, ma alla distruzione…  nessuno ha fatto tanto uso e abuso di questa forza misteriosa e l'ha fatta intervenire nella spiegazione dei fenomeni sociali con tanta leggerezza quanto la famosa scuola di Antropologia criminale… La teoria della ‘razza maledetta’ fu un romanzo antropologico che pure influenzò l'opinione pubblica del Nord”. 

“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale” (Antonio Gramsci, 1926). 

“Nel Lombroso si riscontra la sostanziale equiparazione tra brigantaggio meridionale ed una primordiale ferocia animale” (D. Palano, Il potere della moltitudine) 

“Sergi, Rossi e Niceforo, riprendendo e sviluppando le argomentazioni di Cesare Lombroso e della scuola di antropologia criminale fondata da quest'ultimo, ripropongono l'alternativa dei meridionali criminali, barboni, oziosi di questa razza inferiore” (V. Teti, La razza maledetta); 

Per Ettore Ciccotti quel pregiudizio antimeridionale era una sorta di “antisemitismo italiano” (1898). 

Bibliografia minima (a cura di Alessandro Romano) 

Pierluigi Baima Bollone, 1992, Cesare Lombroso, ovvero il principio dell’irresponsabilità, S.E.I., Torino

Rivista di discipline carcerarie, anno XV, 1885

Congresso ed esposizione d’Antropologia criminale, dalla Rivista di discipline carcerarie, anno XV, 1885

Catalogo Lombroso strumenti di tortura, 1874, a cura di G.B. Piani

Rivista di discipline carcerarie del 1897, sezione Varietà, p. 559

Circolare n. 272 del 25 gennaio 1932, diretta ai Direttori degli Stabilimenti di Prevenzione e di Pena del Regno

Roberto Vozzi, Tipografia delle Mantellate, 1943

Roberto Vozzi, Autorità di polizia, autorità giudiziarie, militari, coloniali, musei storici nazionali o regionali, archivi d Stato, 1943

Catalogo di G. Colombo (2000), La scienza infelice, con prefazione di Ferruccio Giacanelli, Bollati Boringhieri

Lombroso, 1894, Bulferetti, 1975

Bulferetti L. 1975. Cesare Lombroso. Unione Tipografico-Editrice Torinese. UTET, Torino.

Ciani I., Campioni G. (1986) La scienza infelice di Cesare Lombroso. In: I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria (Giorgio Antonucci Ed.) Coordinamento Editoriale di Alessio

Colajanni N., Per la razza maledetta, Roma, 1898

Colajanni C., Settentrionali e Meridionali, Roma, 1908

Coppola Cooperativa Apache srl - Roma  

Colombo, Giorgio - La scienza infelice : il Museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso / Giorgio Colombo ; introduzione di Ferruccio Giacanelli - Torino – 2000

Gramsci A., La questione meridionale, Roma, 1926

Lombroso C. L'uomo delinquente. Torino: Bocca; 1878.

Lombroso C. L'uomo di genio. Torino: Bocca; 1894.

Lombroso C. 1873. Studi clinici ed antropometrici sulla microcefalia ed il cretinismo con applicazione alla medicina legale e all'antropologia. Tipi Fava e Gragnani. Bologna.

Lombroso C. 1872. Sulla statura degli italiani in rapporto all'antropologia ed all'igiene.

Lombroso C. 1880. La pellagra in Italia in rapporto alla pretesa insufficienza alimentare. Torino.

Lombroso C., Ferrero G. 1893. La donna delinquente. La prostituta e la donna normale. Torino. L. Roux.

Mazzarello P. 1998. Il genio e l'alienista: la visita di Lombroso a Tolstoj. Ed. Bibliopolis. Napoli.

Miraglia B.G., 1847, Cenno di una nuova classificazione e di una nuova statistica delle alienazioni mentali, Aversa.

Palano D., Il potere della moltitudine, milano, 2002

Rondini A. 2001. Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura. Ist. Edit. E Poligr. Internazionali. Pisa.

Vito Teti, “La razza maledetta. Alle origini del pregiudizio antimeridionale”,  Manifestolibri, Roma, 1993 

Alla c. a. del direttore di La Repubblica 

Ai sensi della normativa vigente si richiede di pubblicare la seguente nota in merito a quanto pubblicato su La Repubblica del 28/3/14 p. 31 in un articolo a firma di Massimo Novelli riservandoci la possibilità di agire anche in sede legale per tutelare l’immagine del Movimento Neoborbonico essendo stati fatti nell’articolo indicato espliciti riferimenti ai “movimenti neoborbonici” riconducibili all’unico “movimento neoborbonico” rappresentato dagli scriventi, esistente fin dal 1993, con uso del nome dimostrato da ampia rassegna stampa (oltre 6000 pagine) e con marchio regolarmente registrato (UIBM n. 1486299).

Novelli riferisce ai “movimenti neoborbonici” “minacce” e “proteste” che sarebbero state prospettate in occasione della presentazione di un libro di un’antropologa che “smonterebbe un mito caro ai neoborbonici”: quello del brigante calabrese Villella il cui cranio servì a Cesare Lombroso per dimostrare la sua folle teoria del “delinquente nato” e che da alcuni anni i neoborbonici, il sindaco di Motta di Santa Lucia e il Comitato No Lombroso (che conta l’adesione di migliaia di persone e di un centinaio di amministrazioni comunali italiane, Torino compresa, forte anche di una sentenza di un Tribunale italiano) hanno richiesto per seppellirlo cristianamente nel suo Comune di origine. Nello stesso articolo si afferma che i neoborbonici sarebbero artefici di “un sostanziale stravolgimento e una manipolazione della storia d'Italia e del Risorgimento” e  artefici di un “palese tentativo di mistificare la verità storica, istigando all'odio gli italiani e danneggiando i calabresi”. Le affermazioni risultano false e calunniose nei confronti di un movimento culturale che conta diverse migliaia di adesioni ed ha realizzato, fin dal 1993, ricerche e pubblicazioni che hanno cambiato e condizionato la storiografia anche ufficiale in particolare sulla storia del Regno delle Due Sicilie, dell’unificazione italiana e delle conseguenze che ebbe per il meridione d’Italia. False, calunniose e non riferibili in alcun modo a iscritti o responsabili del Movimento Neoborbonico le affermazioni nelle quali si dichiara che i neoborbonici “impazzano sul web, attaccando e insultando chiunque non la pensi come loro”. Alla luce di quanto pubblicato dal sindaco di Motta Santa Lucia, avv. Amedeo Colacino sul suo profilo facebook in data 28/3/14 risulta falsa anche l’affermazione nella quale si sostiene che la presentazione sarebbe stata annullata “per motivi di ordine pubblico” (evidentemente riferibili alle minacce di cui sopra). Entrando sinteticamente  nel merito della questione storico-culturale, il libro di M. T. Milicia tenta (inutilmente) di dimostrare che le tesi di Lombroso non erano antimeridionali mentre esistono un’ampia documentazione e un’ampia bibliografia (tra gli altri Gramsci, Colajanni, Ciccotti, Salvemini) che dimostrano l’esatto contrario evidenziandone anche l’uso che la politica fece di quelle teorie.  Fu Lombroso ad elaborare la teoria del dualismo razziale con “l’Italia dolicocefala mediterranea e quella brachicefala del settentrione”; a scrivere che era “agli  elementi  africani  ed  orientali  che  l'Italia  deve, fondamentalmente,  la  maggior  frequenza  di  omicidii  in  Calabria,  Sicilia  e  Sardegna, mentre  la  minima  è  dove  predominarono  stirpi  nordiche  (Lombardia)”; è storicamente innegabile che fu Lombroso il primo ad associare le idee di meridionali/briganti/criminali e che mai prima di allora qualcuno aveva diffuso quel tipo di associazione (tuttora attuale e diffusa); fu un suo seguace, il siciliano Niceforo, a teorizzare l’esistenza della “razza maledetta” e in tanti riconducono a lui le stesse teorie del razzismo nazista. Eppure la testa di quel povero calabrese se oggi “è diventato il totem del razzismo antimeridionale”, per un secolo e mezzo e fino ad oggi (con tanto di sala ad esso dedicata nel museo torinese) diventò il simbolo, il totem dell’inferiorità dei meridionali in un contesto politico che subito dopo l’unificazione e durante la guerra del “brigantaggio” (e per certi aspetti fino ad oggi) trovava nell’inferiorità dei meridionali le motivazioni per le feroci repressioni e per la mancata risoluzione delle questioni aperte dopo il 1860 e tuttora irrisolte. “Brigante” o meno che fosse, i resti del povero Villella, allora, e ancora di più se si trattava di un semplice ladro (ma resta il mistero sulle motivazioni per le quali, se fosse stato un semplice ladro, fu deportato a 1151 km dal suo paese…), simbolo troppo carico di significati, ormai, dovrebbero essere restituiti al Comune che li richiede per assicurargli semplicemente una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia. 

Napoli, 28/3/14 Prof.

Gennaro De Crescenzo Presidente Movimento Neoborbonico

Avv. Antonio Boccia Ufficio Legale Movimento Neoborbonico 

INTERVENTO PUBBLICATO SU REPUBBLICA DEL 3/4/14 

Nel suo articolo del 28/3/14 M. Novelli pubblica alcune notizie non vere e calunniose nei confronti dei “movimenti neoborbonici” in riferimento alle presunte “manipolazioni della storia” da essi operate ed alle presunte minacce che avrebbero impedito ad una antropologa di presentare un suo libro in cui si dimostrerebbe che lo scienziato razzista Cesare Lombroso non sarebbe stato anti-meridionale. Il Movimento Neoborbonico da me rappresentato fin dal 1993 ha realizzato ricerche in gran parte archivistiche e pubblicazioni sempre più diffuse e che in questi anni hanno cambiato e condizionato anche la storiografia ufficiale e nessuno dei suoi iscritti/militanti ha mai minacciato alcuno. Tanto più se si considera che parliamo di un libro dedicato a teorie totalmente smentite dalla scienza e che tanti danni, però, procurarono (e procurano) associando, come mai era avvenuto in precedenza, l’idea della “razza meridionale/calabrese” a quella della delinquenza e dell’inferiorità così come confermato da intellettuali come Salvemini, Colajanni o Gramsci e da una politica che utilizzò quelle teorie giustificando i massacri indiscriminati dei cosiddetti “briganti” e la mancata risoluzione di questioni meridionali mai conosciute prima del 1860 e tuttora irrisolte. “Brigante” o meno che fosse (misteriosamente deportato a 1500 km da casa sua), i resti del povero Villella, il simbolo delle folli teorie lombrosiane, dovrebbero essere semplicemente restituiti al Comune che li richiede per assicurargli una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia.

Prof. Gennaro De Crescenzo Presidente Movimento Neoborbonico, Napoli

Dagli intellettuali del Sud. Un saggio sull’antimeridionalismo: nasce in Nord Europa nel ’700. Mirella Serri il 23 Ottobre 2012 modificato il 19 Novembre 2019 su lastampa.it. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, sono loro queste opinioni sul Mezzogiorno, vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale (Feltrinelli ed., 253 pag, 20 euro). La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente. Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente.

A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio. Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi.

Autore: Antonino De Francesco Titolo: La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale Edizioni: Feltrinelli Pagine: 253 Prezzo: 20 euro

AGIOGRAFIA E RETORICA RISORGIMENTALE, MENTRE NEL MEZZOGIORNO NASCE LA “SECESSIONE” LETTERARIA.  Michele Eugenio Di Carlo su ilgiornaledimonte.it il 17 settembre 2021.  Edmondo De Amicis con il romanzo Cuore[1], pubblicato nel 1886 e anticipato da una battente campagna promozionale dell’editore milanese Treves, mette in luce un presente positivo e in evoluzione, farcito di buoni sentimenti quali la patria, la famiglia, i doveri, lo spirito di sacrificio. Un’opera che ottiene un successo straordinario, che non solo comporta la pubblicazione in pochi mesi di circa quaranta edizioni, ma viene divulgata attraverso i nuovi e moderni programmi che riguardano la scuola e la pubblica istruzione[2] e che i governi liberali apprezzano anche sotto l’aspetto pedagogico ed educativo. Quella che abilmente De Amicis diffonde nel sentire comune è una percezione alterata di un Risorgimento edulcorato e romantico, risultato di un ampio movimento popolare e non di una minoranza elitaria intellettualmente altolocata. Mentre nel campo della poesia saranno i componimenti lirici del marchigiano Luigi Mercantini[3] ad essere apprezzati e diffusi negli ambienti liberali e governativi della seconda parte dell’Ottocento. Infatti, con La spigolatrice di Sapri [4] e L’ Inno di Garibaldi [5], Mercantini diventerà uno dei più apprezzati poeti proprio grazie alla sua ispirazione di natura patriottica e nazionalista, pur essendo tuttora ritenuto un poeta di secondo piano nell’ambito della letteratura italiana dell’Ottocento. I suoi versi, peraltro, assumeranno una alta valenza educativa e pedagogica, in quanto saranno presenti in tutte le edizioni delle antologie scolastiche fino ai nostri giorni. Non minor successo ebbe l’opera memorialistica dell’epopea garibaldina scritta da Giuseppe Cesare Abba[6]: Da Quarto al Volturno: noterelle d’uno dei Mille [7], pubblicato in edizione definitiva nel 1891, quando al trasformismo politico in atto serviva propagandare un’impresa dei Mille epica e leggendaria, priva di quegli elementi distintivi che avevano caratterizzato la feroce contrapposizione tra i «padri della Patria», perché – scrive Roberto Bigazzi, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Siena, – occorreva costruire il mito fondativo della nazione, annullando le differenze e le asperità tra i protagonisti. In questo senso l’autore ligure ha influenzato sicuramente l’educazione delle nuove generazioni, e «avendo addolcito gli eventi, eliminato i contrasti, ristabilito le distanze sociali e filtrato i sentimenti giovanili, Abba ha raggiunto facilmente la qualifica di best seller tra i memorialisti dell’Unità d’Italia»[8]. Una letteratura minore, quindi, propagandata a servizio della classe dominante liberale e sabauda, mentre come spiega Giovanni Capecchi, docente di Letteratura italiana all’Università per stranieri di Perugia, ci sono quindi circostanze storiche sostanziali motivanti le delusioni di cui ci parla Capecchi, che non solo comportano gli aspetti più significativi della «secessione» letteraria, ma anche l’atteggiamento più contenuto che percorre la letteratura prodotta al Nord, che si manifesta chiaramente «attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (dal 1821 al 1860). Nel Mezzogiorno intanto, che subisce il peso di politiche fiscali, finanziarie e doganali che, colpendo e affondando l’economia, generando drammatiche condizioni sociali, la «secessione»[9] letteraria sarà poderosa ed irreversibile. 

[1] E. DE AMICIS, Cuore, Milano, Treves, 1886. L’autore, attraverso i racconti di Enrico, un bambino di 10 anni che frequenta la 3ª elementare in una scuola di Torino, descrive l’Italia e il mondo della scuola dei primi anni successivi all’Unità d’Italia. Un’Italia divisa da profonde differenze sociali, linguistiche e culturali, dove la scuola rappresenta lo strumento essenziale per raggiungere una reale unione di intenti e di interessi. Il libro è pubblicato nel 1886, proprio quando lo Stato sta per introdurre politiche fiscali che negheranno i buoni intenti illustrati dagli episodi dell’autore ligure, approfondendo quel solco e quel divario che avrà ripercussioni drammatiche per le popolazioni del Sud. Da questo punto di vista, Cuore risulta un’opera retorica e agiografica.

[2] G. CAPECCHI, Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani, «Altritaliani.net», articolo del 14 giugno 2014.

[3] Luigi Mercantini (Ripatransone, 1821 – Palermo, 1872), poeta ed esule marchigiano, direttore del settimanale La donna, divenne definitivamente noto scrivendo i versi de La spigolatrice di Sapri, dedicati alla spedizione fallita di Carlo Pisacane. Con l’annessione delle Marche al Regno d’Italia torna in patria, assumendo la direzione del Corriere delle Marche appena fondato. Nel 1861 pubblica l’Inno di Garibaldi, che l’eroe stesso gli aveva commissionato. Eletto deputato nella prima legislatura del Parlamento italiano preferisce rinunciare per dedicarsi all’insegnamento. Si trasferisce a Palermo nel 1865 per insegnare Letteratura italiana all’Università. Muore nel 1872.

[4] La spigolatrice di Sapri che inizia con i versi, diventati famosi, «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti», pubblicata nel 1858, resta sicuramente uno dei maggiori esempi di poesia patriottica risorgimentale. I suoi versi sono stati riportati in canzoni quali Ciao amore ciao di Luigi Tenco e Frammenti di Franco Battiato; hanno inoltre ispirato il regista Gian Paolo Callegari nel film Eran trecento del 1952. I versi narrano la storia della spedizione di Carlo Pisacane attraverso una spigolatrice di Sapri che, presente allo sbarco, segue gli avvenimenti della sfortunata avventura.

[5] L’ Inno di Garibaldi fu richiesto dallo stesso eroe in un incontro tenutosi a Genova nel 1858. Contiene i famosi versi: «Si scopron le tombe, si levano i morti, i Martiri nostri son tutti risorti» ed è stato l’inno patriottico passato indenne attraverso la storia italiana dall’Unità alla resistenza partigiana.

[6] Giuseppe Cesare Abba (Cairo Montenotte, 1838 – Brescia, 1910), scrittore e patriota, ha partecipato alla spedizione dei Mille e ha combattuto a Bezzecca meritandosi una medaglia. Attraverso diverse rielaborazioni ha pubblicato in via definitiva, nel 1891, Da Quarto al Volturno: noterelle d’uno dei Mille, secondo il Carducci un piccolo capolavoro, che ebbe una larga diffusione e un notevole successo. Fu sindaco di Cairo Montenotte dal 1867, docente di Italiano al Liceo ginnasio di Faenza, docente e preside presso l’Istituto tecnico “Tartaglia” di Brescia. Fu nominato senatore nel 1910, anno della sua scomparsa.

[7] G. C. ABBA, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, Bologna, Zanichelli, 1891. È considerato il miglior testo di memorialistica garibaldina. Prima di essere definitivamente pubblicato dalla Zanichelli nel 1891 è stato più volte rielaborato e ampliato. In questo testo l’avventura dei Mille appare immersa in un alone leggendario dalle tinte celebrative e idealizzate.

[8] R. BIGAZZI, Risorgimento e letteratura, in Leggere le camicie rosse di B. Peroni (a cura di), Milano, Edizioni Unicopli, 2011, p. 14.

[9] G. CAPECCHI, Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani, «Altritaliani.net», 14 giugno 2014. Michele Eugenio Di Carlo 17 Settembre 2021

L'ALLEANZA TRA INTELLETTUALI, LATIFONDISTI E ARISTOCRAZIA SABAUDA – IL RUOLO DI DE SANCTIS. Michele Eugenio Di Carlo su ilgiornaledimonte.it il 10 settembre 2021. Sin dai primi anni successivi all’unità i grandi proprietari terrieri del Sud e i grandi intellettuali, anche meridionali, si erano messi al servizio dell’aristocrazia civile e militare che costituiva il nucleo portante della decrepita monarchia sabauda. Un’alleanza tra ceto intellettuale, proprietari terrieri e aristocrazia sabauda che realizza quel “blocco agrario” funzionale al capitalismo e al sistema bancario del Nord che estrae dal Sud risorse e capitali messi a disposizione di una nascente industria nordica finanziata con interventi pubblici e favorita da protezioni doganali, mentre i grandi proprietari latifondistici meridionali possono tranquillamente continuare a godere di privilegi feudali, abusando pesantemente della massa povera di contadini e braccianti meridionali, mai supportati nei processi organizzativi di tutela della propria dignità da un adeguato ceto di medi e piccoli intellettuali e, pertanto, portati alla rivolta violenta e non organizzata e votati all’emigrazione di massa negli ultimi decenni dell’Ottocento, a causa di un sistema fiscale e doganale che non permettendo la messa a frutto dei risparmi mette in crisi persino i piccoli e medi ceti agrari borghesi. Per Francesco De Sanctis la costruzione dell’identità nazionale doveva necessariamente passare attraverso l’istituzione scolastica con metodi e strumenti educativi, tanto che la sua "Storia della letteratura italiana" fu scritta e modellata, secondo il giudizio degli esperti, ad uso dei licei, non certamente per diventare un’opera di riferimento degli studiosi. Tanto che anche Marco Grimaldi, ricercatore di Filologia della letteratura italiana alla “Sapienza”, Università di Roma, autore del saggio "Francesco De Sanctis e la scuola del Risorgimento" , avverte in proposito che «solo in questo modo si spiegano le contraddizioni e si sintetizzano le diverse anime del De Sanctis: il ministro della pubblica istruzione che spende le sue energie per la scuola popolare e l’autore della “Storia”. Una “Storia”, si noti, che ebbe poi nelle scuole scarso successo… » . Nella “Storia” è d’obbligo non sottovalutare mai le pulsioni patriottiche e le inclinazioni educativo-politiche dell’autore, rivolte verso la nuova classe dirigente del giovane stato unitario che si stava consolidando con l’ulteriore occupazione militare di Roma del 1870. Un anno in cui viene pubblicato il primo volume della “Storia”. Peraltro, come afferma fondatamente Grimaldi, non è affatto trascurabile la circostanza che con il R. D. del 10 ottobre 1867 n. 1942, e i relativi programmi Coppino, l’insegnamento della storia letteraria diventava disciplina autonoma, impegnando la nascente editoria scolastica a corrispondere alle indicazioni ministeriali. Per un intellettuale del calibro di De Sanctis non era agevole sottrarsi alle ragioni economiche che la questione comportava. Pertanto, ai moventi ideali che esigevano la stesura di una storia letteraria solo a monografie ultimate venne sostituendosi l’esigenza utilitaristica di scrivere un testo per i licei, sacrificando la scienza all’utile. È lo stesso De Sanctis ad illustrare nei "Ricordi" come era insegnata la storia della letteratura prima della sua opera, quando, tra il 1831 e il 1832, il giovane studente frequentava a Napoli le lezioni della scuola del matematico e fisico viestano Lorenzo Fazzini: "La scuola dell’abate Lorenzo Fazzini era quello che oggi direbbesi un liceo. Vi si insegnava filosofia, fisica e matematica. Il corso durava tre anni, e si poteva fare in due. Quell’era l’età dell’oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina cominciava la sua carriera aprendo una scuola. I seminari erano scuole di latino e di filosofia. Le scuole del governo erano affidate a frati. La forma dell’insegnamento era ancora scolastica […] Le scienze vi erano trascurate, e anche la lingua nazionale… ". Mentre l’istruzione inferiore era gestita dal mondo clericale, l’istruzione superiore veniva quasi sempre svolta in scuole private gestite da laici, in quanto le risorse economiche non permettevano scuole pubbliche in tutti i comuni. Del Settecento borbonico, Grimaldi accoglie la tesi che il Regno di Napoli «era stato all’avanguardia nelle politiche scolastiche» e che l’espulsione dei Gesuiti aveva non poco determinato e favorito un sistema scolastico laico. Nel 1833 De Sanctis passa a frequentare la scuola di Basilio Puoti, dove affronta lo studio della letteratura del Trecento e del Cinquecento in quegli spazi angusti riservati alla letteratura italiana, mentre ancora prevaleva il latino. Diventato docente al Collegio Militare della Nunziatella, De Sanctis insegna la storia dei maggiori trecentisti ottenendo un buon successo. Ci sono quindi circostanze storiche sostanziali motivanti le delusioni di cui ci parla Capecchi, che non solo comportano gli aspetti più significativi della «secessione» letteraria, ma anche l’atteggiamento più contenuto che percorre la letteratura prodotta al Nord, che si manifesta chiaramente «attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (dal 1821 al 1860). Michele Eugenio Di Carlo 10 Settembre 2021

Fake Sud, la verità sui pregiudizi verso il Mezzogiorno. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina. Pietro De Sarlo il 19 Ottobre 2020 su basilicata24.it. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina.

Modus operandi. Il modus operandi del killer è spietato. Si insinua nelle menti delle persone e le annichilisce portandole a dire stupidaggini prive di senso e sganciate dalla realtà. Non parliamo di persone qualunque ma del gotha del pensatoio nostrano. Ad aiutare l’autore nelle indagini ci sono i numeri, che impietosamente smontano uno dopo l’altro ogni pregiudizio e che con la loro disarmante forza e attitudine alla verità inchiodano ogni menzogna e sono in aggiunta disponibili in copiosa quantità: archivio ISTAT e i CPT (Conti Pubblici Territoriali). Archivi che, insieme ad EUROSTAT, ho saccheggiato anche io infinite volte. Le evidenze sono talmente forti che ci si chiede se il nostro killer, il pregiudizio, non abbia trovato terreno già fertile in persone già predisposte alla disonestà intellettuale e privi di anticorpi.

Un lungo elenco di maître a penser. Cominciamo da Luca Ricolfi, della cui disonestà intellettuale insieme a quella della Fondazione Hume avevo già sospettato. Di lui ricorderete il ponderoso saggio Il sacco del Nord. Sacco ad opera del Sud parassita, ovviamente. La cronaca di una telefonata tra l’autore del libro e il prode Ricolfi è esilarante. Basta una domanda, una sola, dell’autore, basata su fatti e numeri incontestabili per smontare prologo, tesi, postulati e tutti gli ammennicoli del saggio dell’illustre sedicente neo illuminista. La tesi del Nord saccheggiato dal Sud frana in un amen e Ricolfi balbetta tra un “non ricordo cosa ho scritto” e un penoso distinguo tra “finali” e “conclusive”. Poco ci manca che Ricolfi dica che il libro sia stato scritto a sua insaputa. Non tocca sorte migliore a Tito Boeri, che ci ha spesso deliziato con fantasiose analisi economiche e previdenziali. Boeri propone le gabbie salariali al Sud. E che fa il nostro autore? Gli sfila una carta dal traballante castello spiegando all’iconico Tito del “sinistro” pensiero come si leggono i dati ISTAT. L’arrampicata sugli specchi del gagliardo Boeri ricorda le scenette di Willy il Coyote, che inseguendo Beep Beep sbatte su una parete rocciosa e senza appigli per scivolare a terra con le stellette che gli roteano intorno alla testa. E che dire di Salvatore Rossi, uomo con un curriculum stratosferico, che per qualche suo singolare tormento interiore non ritiene di prendere in considerazione né dati certificati né l’impatto di infrastrutture essenziali, come le ferrovie, per elaborare le sue “innovative” tesi sul Sud assistito? L’elenco è ancora lungo. Leggete, stupite e chiedetevi come sia possibile per un Paese sollevarsi quando questa è la qualità della classe intellettuale e dirigente.

E i politici? Le cose non vanno meglio. C’è però una differenza tra i politici settentrionali e quelli meridionali. I primi fanno squadra per aumentare le risorse al Nord. Nelle commissioni e in parlamento quando si decide sull’autonomia differenziata si passano la palla. Giorgetti, Lega (Nord), la passa a Buffagni, MoVimento 5S, questi a Zanoni, PD, e via così. Occupano le posizioni in cui si decide dell’autonomia all’ANCE e in parlamento. I politici meridionali non sanno, non capiscono e non si interessano della trama a danno del Sud che si va tessendo con l’autonomia differenziata e sono assenti ovunque si parli del tema. Zaia imperversa, i governatori del Sud balbettano infastiditi. Marco Esposito scrive un libro verità e mai smentito, Zero al Sud, che scopre gli altarini e i misfatti criminali che si consumano dietro all’autonomia differenziata. Non sono un giornalista né un parlamentare e quindi, a parte quelli di cittadino, non ho altri obblighi sociali eppure la mistificazione sulla autonomia differenziata è talmente evidente, brutale e volgare che mi sento in obbligo, utilizzando anche i dati dei CPT, di urlare al mondo la mia indignazione su tante misere falsità in tre interventi ( uno , due e tre ). Intanto le discussioni in stanze segrete, grazie a Marco Esposito, diventano pubbliche. Lo scippo ai danni del Sud è talmente evidente che Giorgetti in commissione chiede di secretare i numeri e si arriva al punto di violare la costituzione e introdurre coefficienti riduttivi della perequazione completamente inventati. Coefficienti correttivi non calcolati ma gettati lì ad mentula canis con l’unica finalità di spostare risorse dal Sud a Nord. I politici del Sud, di tutti i partititi, hanno altro di più importante da fare: non si capisce cosa.

La democraticità del Covid – 19. Questo orribile virus, che sta bruciando le nostre esistenze, ha però un pregio. Colpisce in egual misura gli imbecilli, Trump, Johnson, Zingaretti, le persone per bene e gli umarell. Non fa sconti a nessuno e si diffonde subito prevalentemente e in modo violento al Nord. Questo perché contagia chi incontra e per primi incontra chi ha più scambi con il resto del pianeta, non certo per una fatwa lanciata da noi terroncelli invidiosi verso il Nord. Inoltre sembra volersi accanire in modo particolare con chi lo sottovaluta: #Milanononsiferma, #Bergamoisrunning e Zingaretti, che lo sfida a suon di mojito.

La sanità lombarda collassa e a Bergamo i camion dell’esercito portano via i cadaveri. Il Paese è sconvolto e al Sud ci si chiede: se la migliore sanità che abbiamo in Italia, a Milano, non tiene botta cosa succederebbe se il virus colpisse con uguale forza il Sud? I genitori e i nonni pregano figli e nipoti di rimanere a Milano e non tornare a casa. Il ragionamento è semplice: “Se ti ammali hai più probabilità di essere curato a Milano che non a casa tua al Sud. In più se ci contagi moriamo anche noi e poi chi tira la cinghia per mantenerti agli studi alla Bocconi o alla Cattolica?” Logico, no? Si chiude quindi quel che si può. Questo è il ragionamento che fanno tutte le persone per bene: al Nord come al Sud e lo fanno nell’interesse generale. A proposito, se volete sapere perché la sanità al Sud non funzioni leggete il libro. Un atteggiamento responsabile e normale dovrebbe spingere a chiedersi cosa non abbia funzionato nel modello della sanità lombarda e emendarlo. Invece al Nord gli opinion leader prendono cappello. Il killer, il pregiudizio, ha azzerato le sinapsi dei giornalisti del Corrierone e del ceto intellettuale e politico milanese. Questa palpabile angoscia che si è vissuta al Sud viene tradotta in un florilegio di scempiaggini, puntualmente ricordato da Marco Esposito, su cui fanno a gara a chi spara la minchiata più grossa Galli Della Loggia, Polito, Bassetti, Imariso, Sala e persino il normalmente pacato De Bortoli, sollevando una polemica inesistente e completamente inventata sul Sud che gode delle disgrazie del Nord.

Il razzismo fa parte del panorama. Il killer maledetto, il pregiudizio, è stato nutrito amorevolmente negli ultimi 160 anni. Nel 1870, numeri alla mano e carta canta, la Campania era la regione più ricca d’Italia. Dal 1860 ad oggi le fake nei confronti del Sud hanno prodotto uno strisciante razzismo a cui ci si è abituati. Fa ormai parte del panorama, né più né meno come un edificio crollato le cui macerie nessuno rimuove e che nessuno ricostruisce. La conseguenza è che sulle principali testate televisive, a volte anche sulla TV pubblica, si agitano dei personaggi di infimo livello che si permettono di arrivare a dire: io non credo ai complessi di inferiorità. Credo che in molti casi i meridionali siano inferiori. Si tratta di Feltri intervistato da un gongolante Giordano. Reazioni? Misere. “De stercore Feltrii” nessuno ne parla e indossa non dico una maglietta rossa ma almeno rosa venata di bianco. Nella trappola del killer cadono, con sfumature diverse, anche Mentana, Merlino e Letta, che neanche si rendono conto del perché le loro uscite siano sbagliate e offensive. In sintesi: “Io razzista? È lui che è nero!” Nel mentre, come ci ricorda il libro, l’insulto più diffuso su twitter è terrone, seguito a ruota da zingaro, e a distanza da negro e muso giallo. Ma, inopinatamente, tra i razzismi da battere individuati dalla commissione parlamentare Jo Cox, e presieduta da Laura Boldrin, quello nei confronti dei meridionali non merita neanche due righe.

Conclusioni. Alessandro Barbero, che firma la prefazione del libro, che conclusioni ne trae? Con una disarmante parsimonia intellettuale si limita a promettere un libro che smonti i primati delle Due Sicilie. È questa la principale e meschina preoccupazione del neo sabaudo Barbero? Ma Barbero lo conosciamo già ! E che dire di Augias, stigmatizzato anche da me , che propone di mettere tutto nel dimenticatoio?

Le mie conclusioni invece sono diverse. Dovrei gioire e essere grato per le verità che smontano tanti pregiudizi. Invece sono angosciato. Perché la montagna da scalare dei pregiudizi è talmente grande che è difficile ipotizzare un percorso di salvezza del Paese. Se il ceto dirigente e intellettuale è così ottuso come si può sperare in una sana progettualità di rinascita? Anche perché alle fake news sul Sud se ne aggiungono altre sull’Europa  e altre ancora sempre sul Sud e su tutto quello che è fuori dal pensiero unico del liberismo imperante. E anche perché l’atteggiamento del ceto intellettuale italiano sull’Unione Europea è troppo simile all’atteggiamento del ceto intellettuale duosiciliano che portò alla Unità d’Italia e alla conseguente questione meridionale. Loro uccisero il Sud, questi stanno uccidendo l’Italia intera. Se non si sgombra il campo dal pregiudizio le ricette saranno sempre le stesse: quelle che non hanno mai funzionato ma che si continuano a proporre. Come la fiscalità di vantaggio o le gabbie salariali, come gli incentivi o l’autonomia differenziata.

Eppure il potenziale di sviluppo del Sud è enorme. Forse è arrivato il momento che Marco Esposito e altri si uniscano per una proposta di sviluppo organica e di visione del Sud e quindi del Paese. Questo perché anche se avremo smascherato tutte le fake sul Sud, sull’Europa e sui benefici effetti del liberismo, e anche se avremo ristabilito tutte le verità sul Risorgimento e sui primati delle Due Sicilie non avremo risolto comunque nulla se questo liberarsi dai pregiudizi e dalle fake non avrà generato un piano di visione e al contempo operativo per una diversa prospettiva del futuro del Paese. Piano magari da proporre in un prossimo libro. Pietro De Sarlo

La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale. Libro di Antonino De Francesco. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia.

Foibe, Aldo Grasso incenerisce Barbero sul “Corriere”: “Mi è caduto un mito”. Gabriele Alberti sabato 11 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Mi è caduto un mito”. Il “mito” infranto è il professor  Alessandro Barbero. A leggere le prime parole dell’articolo di Aldo  Grasso, Tommaso Montanari ha avuto uno sturbo. Il critico del Corriere della sera  non perdona allo studioso e volto di Rai Storia la posizione  in materia di foibe e  Giorno del Ricordo con la quale si è adagiato sulle posizioni negazioniste dell’incasato rettore di Siena. “Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente- scrive l’editorialista- . Mi è caduto un mito, quando, intervistato dal Fatto quotidiano , il prof. Barbero ha avallato le teorie di Tomaso Montanari sulla «falsificazione storica» delle foibe” . Grasso aveva già demolito le tesi negazioniste di Montanari in un articolo feroce. Alla firma del Corriere non è affatto piaciuto che il professor Barbero si sia attestato sulla posizione di Montanari su un capitolo di storia italiana così drammatico. Con toni molto pacati ma irrevocabili concede allo storico (“un divo di Rai Storia”) il dono della simpatia e della capacità del divulgatore. Ma sulla storia non si può scherzare: è il pensiero di Grasso. Subito risponde insultando Montanari, con toni da odiatore seriale. L’invasato rettore – che ha promesso che il suo impegno antifascista aumenterà – ‘scrive e offende. ‘Oggi Aldo #Grasso si scatena contro Alessandro #Barbero , naturalmente sempre per le #Foibe (e per l’odio viscerale e invidioso contro i professori universitari). Penso che il giornale della classe digerente italica non sia mai sceso così in basso come con questo figuro”. Così in un tweet lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena  inveisce in maniera scomposta.  A sinistra è vietato dissentire e chi lo fa è un “figuro invidioso”. Che non a caso aveva definito Montanari un “agit prop”. Alla  triste vicenda Aldo Grasso dedica solo altre due righe: Barbero “ha scritto un pezzo in cui ha preso le distanze dalla scivolata, con onestà; lo seguirò sempre ma l’amaro in bocca è rimasto”. Il professore sul Fatto aveva avallato la definizione di Montanari sul giorno del Ricordo  come «tentativo neofascista di falsificare la storia». Intervistato su La Stampa è scomparso il neofascismo ed è apparso lo “Stato”. Giochetti che non sono piaciuti ad Aldo Grasso e non solo a lui.

Intervista ad Alessandro Barbero. “Le foibe furono un orrore, ma ricordare quei morti e non altri è una scelta solo politica. Il Giorno del Ricordo? E’ una tappa di una falsificazione storica”. Foibe, verità e menzogne dietro la canea delle destre. Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano l'1 settembre 2021. Tomaso Montanari, storico dell’Arte e Rettore eletto dell’Università per Stranieri di Siena, ha scritto su questo giornale che la legge del 2004 che istituisce la Giornata del ricordo delle foibe “a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo” di una falsificazione storica di parte neofascista. Ne sono seguite accuse di negazionismo (anche da giornali “liberali”) e richieste di dimissioni da parte di esponenti politici di destra (FdI, Lega, Iv). Interpelliamo sul tema Alessandro Barbero, storico e docente.

Professore, è d’accordo con Montanari?

Sono d’accordo, ma bisogna capirsi. Montanari non ha affatto detto che le foibe sono un’invenzione e che non è vero che migliaia di italiani sono stati uccisi lì. Nessuno si sogna di dirlo: la fuga e le stragi degli italiani hanno accompagnato l’avanzata dei partigiani jugoslavi sul confine orientale, e questo è un fatto. La falsificazione della storia da parte neofascista, di cui l’istituzione della Giornata del ricordo costituisce senza dubbio una tappa, consiste nell’alimentare l’idea che nella Seconda guerra mondiale non si combattesse uno scontro fra la civiltà e la barbarie, in cui le Nazioni Unite e tutti quelli che stavano con loro (ad esempio i partigiani titini, per quanto poco ci possano piacere!) stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata; ma che siccome tutti, da una parte e dall’altra, hanno commesso violenze ingiustificate, eccidi e orrori, allora i due schieramenti si equivalevano e oggi è legittimo dichiararsi sentimentalmente legati all’una o all’altra parte senza che questo debba destare scandalo.

Perché l’istituzione della Giornata del ricordo rappresenterebbe una parte di questa falsificazione, se i fatti in sé sono veri?

Ma proprio perché quando di fatti del genere se ne sono verificati, purtroppo, continuamente, da entrambe le parti (ma le atrocità più vaste e più sistematiche, anzi programmatiche, le hanno compiute i nazisti, questo non dimentichiamolo), scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto. Intendiamoci, se io dico che la Seconda guerra mondiale è costata la vita a quasi mezzo milione di italiani, fra militari e civili, e che la responsabilità di quelle morti è del regime fascista che ha trascinato il Paese in una guerra criminale, qualcuno potrebbe rispondermi che però le foibe rappresentano l’unico caso in cui un esercito straniero ha invaso quello che allora era il territorio nazionale, determinando un esodo biblico di civili e compiendo stragi indiscriminate; e questo è vero. Ma rimane il fatto che se io decido che quei morti debbono essere ricordati in modo speciale, diversamente, ad esempio, dagli alpini mandati a morire in Russia, dai civili delle città bombardate, dalle vittime degli eccidi nazifascisti – che non hanno un giorno specifico dedicato al loro ricordo: il 25 Aprile è un’altra cosa – il messaggio, inevitabilmente, è che di quella guerra ciò che merita di essere ricordato non è che l’Italia fascista era dalla parte del torto, era alleata col regime che ha creato le camere a gas, e aveva invaso e occupato la Jugoslavia e compiuto atrocità sul suo territorio: tutto questo non vale la pena di ricordarlo, invece le atrocità di cui gli italiani sono stati le vittime, quelle sì, e solo quelle, vanno ricordate. E questa è appunto la falsificazione della storia.

Ritiene ci siano fascisti, nostalgici, persone che mal sopportano il 25 Aprile nelle Istituzioni?

Parliamo di sensazioni. Io ho la sensazione che come gran parte d’Italia era stata più o meno convintamente fascista, così in tante famiglie si sia conservato un ricordo non negativo del fascismo, e un pregiudizio istintivo verso quei ribelli rompiscatole e magari perfino comunisti che erano i partigiani. E le famiglie che la pensavano così hanno insegnato queste cose ai loro figli. Per tanto tempo erano idee che rimanevano, appunto, in famiglia, e non trovavano una legittimazione esplicita dall’alto, nella politica o nel giornalismo: oggi invece la trovano, e quindi emergono alla luce del sole.

Appartiene alla normale dialettica politica l’auspicio dell’on. Meloni, lanciato dalle pagine del Giornale, di “fermare” il professor Montanari? Si vuole costituire un precedente in democrazia di intimidazione del mondo accademico?

Non solo non appartiene alla normale dialettica politica, ma è inconcepibile in una Repubblica antifascista. E tuttavia va pur detto che non sono solo le destre ad aver creato un mondo in cui si reclamano le scuse, le dimissioni e i licenziamenti non per qualcosa che si è fatto, ma per qualcosa che si è detto. Il nostro Paese vieta l’apologia di fascismo, sia pure con tante limitazioni e distinguo da rendere il divieto inoperante, e questo divieto ha buonissime ragioni storiche, ma io forse preferirei vivere in un Paese dove chiunque, anche un fascista, può esprimere qualunque opinione senza rischiare per questo di essere cacciato dal posto di lavoro.

La sinistra, proclamando la fine delle ideologie, ha aperto la strada alla minimizzazione, alla riabilitazione e infine alla riaffermazione dell’ideologia fascista?

Il problema è che non sono finite le ideologie, è finita la sinistra. Il sogno che gli operai potessero diventare la parte più avanzata, più consapevole della società, e prendere il potere nelle loro mani, è fallito; il risultato è che nei Paesi occidentali non c’è più nessun partito che si presenti alle elezioni dicendo “noi rappresentiamo gli operai e vogliamo portarli al potere”. Ma la sinistra era quello, nient’altro. Invece la destra, cioè la rappresentanza politica di chi vuole legge e ordine, rispetto dell’autorità e libertà d’azione per i ricchi, e non si sente offeso dalle disuguaglianze sociali ed economiche, è ben viva. E in un mondo dove la destra è molto più vitale della sinistra è inevitabile che la lettura del passato vada di conseguenza, e che si possano diffondere enormità come quella per cui il comunismo sarebbe stato ben peggio del fascismo.

Alessandro Barbero, da «Superquark» a star del web: il Premio Strega, i meme e altri 6 segreti su di lui.  Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 agosto 2021. Una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sul professore e storico, tra i protagonisti del programma condotto da Piero Angela (in onda mercoledì 11 agosto su Rai1 alle 21.25)

Gli studi. I suoi video su YouTube ottengono migliaia di visualizzazioni, i suoi podcast finiscono spesso nella classifica dei più ascoltati e ogni volta che appare in tv stuoli di fan adoranti non aspettano altro che i suoi racconti: non parliamo dell’ennesimo rapper ma di Alessandro Barbero, lo storico di «Superquark» - programma in onda questa sera su Rai1 alle 21.25 -, che nel giro di qualche anno è diventato una vera e propria star del web (anche se, come vedremo, non è sui social). Nato a Torino il 30 aprile 1959 ha studiato al Liceo classico Cavour e si è poi laureato in Lettere nel 1981 con una tesi in storia medievale presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito ha conseguito il dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha vinto il concorso per un posto di ricercatore in storia medievale all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Dal 1998 è prima professore associato e dal 2002 ordinario di storia medievale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Ma queste non sono le uniche curiosità (poco note) su di lui...

Quando è approdato a «Superquark». Dicevamo di «Superquark»: ha iniziato a collaborare con il programma condotto da Piero Angela nel 2007. Con il divulgatore scientifico ha pubblicato nel 2012 il libro «Dietro le quinte della Storia».

Non ha i social. Il professor Barbero è completamente assente dai social. Esistono pagine Facebook che portano il suo nome (come «Alessandro Barbero guidaci verso il Socialismo» o «Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli») e gruppi («Alessandro Barbero: la Storia», «Le invasioni Barberiche: fan di Alessandro Barbero»), ma tutto è gestito da altre persone.

Ha vinto il Premio Strega. Nel 1996, a 37 anni, ha vinto il Premio Strega con il suo primo romanzo «Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo», pubblicato grazie all’interesse di Aldo Busi. Il volume, ambientato all’epoca delle guerre napoleoniche, è stato tradotto in sette lingue.

Vita privata. Pochissimo si sa della vita privata se non che il professor Barbero è sposato.

La tessera del PCI firmata da Berlinguer. Intervistato da Daria Bignardi a L’Assedio lo storico ha raccontato di essere stato iscritto al Partito Comunista Italiano: «Da qualche parte devo avere la tessera firmata da Enrico Berlinguer. Ne sono felice perché in quel partito c’era la gente migliore che facesse politica in quel momento in Italia. Ora quel partito non c’è più, come non ci sono più partiti come li intendevamo noi da giovani».

Il Festival della Mente di Sarzana. Dal 2007 Barbero partecipa al Festival della Mente di Sarzana con cicli di tre lezioni (da qualche anno sempre sold out, come i migliori concerti rock).

I Longobardi fenomeno virale. La puntata di «Superquark» in cui il professor Barbero ha parlato dei Longobardi è diventata virale grazie ai numerosi video-parodia incentrati sulle parole della lingua italiana che (come spiegato) derivano dalla lingua longobarda come «zuffa», «spranga» e «pizza». 

I neoborbonici querelano Barbero. Ma a processo dovrebbero andarci loro. Giuseppe Ripano il 24/10/2020 su ilcaffetorinese.it. “Il Movimento Neoborbonico ha querelato Alessandro Barbero dopo alcuni recenti articoli sul Mattino e alcune recenti prefazioni (ultima quella del nuovo libro del giornalista Marco Esposito)”. Il post facebook di una nota pagina di revisionismo storico che tra i propri curatori non annovera neanche uno storico di formazione e professione è ben più lungo del breve estratto riportato. Ma il senso è chiaro: il celebre storico Alessandro Barbero viene querelato – di nuovo – dall’autoproclamato movimento neoborbonico. Per capire le ragioni di una ostilità vecchia di un decennio, è utile fare un passo indietro. È il 22 ottobre 2012, i festeggiamenti per il centocinquantenario dell’Unita si sono da poco conclusi, e su La Stampa appare un articolo firmato da un volto ben noto della cultura torinese e nazionale, lo storico Alessandro Barbero. Il pezzo trae le mosse da un documento esposto in una delle tante mostre allestite per la ricorrenza: un processo celebrato nel 1862 dal Tribunale militare di Torino contro alcuni soldati, di origine meridionale, che si trovavano in punizione al forte di Fenestrelle. Lì avevano estorto il pizzo ai loro commilitoni che giocavano d’azzardo, esigendolo «per diritto di camorra». Come riportato dallo stesso Barbero, “In una brevissima chiacchierata televisiva sulla storia della camorra, dopo aver accennato a Masaniello - descritto nei documenti dell’epoca in termini che fanno irresistibilmente pensare a un camorrista - avevo raccontato la vicenda dei soldati di Fenestrelle. La trasmissione andò in onda l’11 agosto; nel giro di pochi giorni ricevetti una valanga di e-mail di protesta, o meglio di insulti: ero «l’ennesimo falso profeta della storia», un «giovane erede di Lombroso», un «professore improvvisato», «prezzolato» e al servizio dei potenti; esprimevo «volgari tesi» e «teorie razziste», avevo detto «inaccettabili bugie», facevo «propaganda» e «grossa disinformazione», non ero serio e non mi ero documentato, citavo semmai «documenti fittizi»; il mio intervento aveva provocato «disgusto» e «delusione»; probabilmente ero massone, e la trasmissione in cui avevo parlato non bisognava più guardarla, anzi bisognava restituire l’abbonamento Rai”. Per quanto all’epoca il vocabolario riportato non fosse d’uso corrente, oltre che essere spaventosamente simile ai ben noti rigurgiti di bile dei soliti frustrati urlatori social, era comune all’interno dei cosiddetti ambienti “neoborbonici”. Ci perdoni, il lettore, la colpa di pedanteria che commettiamo fornendo una definizione scolastica di neoborbonismo. La comprensione dei successivi paragrafi potrebbe altrimenti risultare ostica ai meno navigati della materia. Il termine neoborbonismo, apparso per la prima volta nel 1960, definisce una visione nostalgica enfatizzante il regno borbonico delle Due Sicilie, sopita per decenni dopo l'Unità d'Italia, ridestatasi con la nascita dei movimenti autonomisti in Italia verso gli anni '90 del secolo XX. Prosegue Barbero: “Superato lo shock pensai che l’unica cosa da fare era rispondere individualmente a tutti, ma proprio a tutti, e vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Molti, com’era da aspettarsi, non si sono più fatti vivi; ma qualcuno ha risposto, magari anche scusandosi per i toni iniziali, e tuttavia insistendo nella certezza che quello sterminio fosse davvero accaduto, e costituisse una macchia incancellabile sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia. Del resto, i corrispondenti erano convinti, e me lo dicevano in tono sincero e accorato, che il Sud fino all’Unità d’Italia fosse stato un paese felice, molto più progredito del Nord, addirittura in pieno sviluppo industriale, e che l’unificazione - ma per loro la conquista piemontese - fosse stata una violenza senza nome, imposta dall’esterno a un paese ignaro e ostile. È un fatto che mistificazioni di questo genere hanno presa su moltissime persone in buona fede, esasperate dalle denigrazioni sprezzanti di cui il Sud è stato oggetto; e che la leggenda di una Borbonia felix, ricca, prospera e industrializzata, messa a sacco dalla conquista piemontese, serve anche a ridare orgoglio e identità a tanta gente del Sud. Peccato che attraverso queste leggende consolatorie passi un messaggio di odio e di razzismo, come ho toccato con mano sulla mia pelle quando i messaggi che ricevevo mi davano del piemontese come se fosse un insulto. Ma quella corrispondenza prolungata mi ha anche fatto venire dei dubbi. Che il governo e l’esercito italiano, fra 1860 e 1861, avessero deliberatamente sterminato migliaia di italiani in Lager allestiti in Piemonte, nel totale silenzio dell’opinione pubblica, della stampa di opposizione e della Chiesa, mi pareva inconcepibile. Ma come facevo a esserne sicuro fino in fondo? Avevo davvero la certezza che Fenestrelle non fosse stato un campo di sterminio, e Cavour un precursore di Himmler e Pol Pot? Ero in grado di dimostrarlo, quando mi fossi trovato a discutere con quegli interlocutori in buona fede? Perché proprio con loro è indispensabile confrontarsi: con chi crede ai Lager dei Savoia e allo sterminio dei soldati borbonici perché è giustamente orgoglioso d’essere del Sud, e non si è reso conto che chi gli racconta queste favole sinistre lo sta prendendo in giro”. Cosa fa uno storico, a questo punto? Va a visionare i documenti, setacciare le fonti, vagliare le pezze d’appoggio citate nei libri e nei siti che parlano dei morti di Fenestrelle, e una volta constatato che di pezze d’appoggio non ce n’è nemmeno una, cerca di capire cosa sia davvero accaduto ai soldati delle Due Sicilie fatti prigionieri fra la battaglia del Volturno e la resa di Messina. Fa, in buona sostanza, quello che i giornalisti responsabili di questo tentativo di revisionismo storico non hanno fatto: cerca di trarre conclusioni adattando le teorie ai fatti, piuttosto che distorcere (o addirittura inventare) i fatti pur di adattarli alle proprie teorie. Nasce così, grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio di Stato di Torino e in quello dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma, il libro I prigionieri dei Savoia: che contiene più nomi e racconta più storie individuali e collettive di soldati napoletani, di quante siano mai state portate alla luce fino a quel momento. A quel punto si scatena sul sito dell’editore Laterza una valanga di violentissime proteste, per lo più postate da persone che non hanno letto il libro (da parte nostra, dubitiamo siano in possesso dei requisiti minimi per poterlo fare) e invitano a non comprarlo; proteste in cui, in aggiunta ai soliti insulti razzisti contro i piemontesi, il dottor Barbero viene “graziosamente paragonato al dottor Goebbels”. E arriva la querela, indirizzata in questo caso all’autore della recensione per il Corriere della Sera del testo di Barbero e alla stessa testata. La polemica monta, da parte neoborb capeggiata da giornalisti e blogger i cui titoli accademici restano – in larghissima parte dei casi – un mistero: Pino Aprile, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore tra i più noti, sostenuti e amplificati da portali social come I Nuovi Vespri e Terroni. Già, Terroni. Titolo del libro best-seller firmato proprio da Pino Aprile un decennio fa, Antico Testamento del neoborbonismo, dal quale è nata l’omonima pagina Facebook e al quale ha fatto seguito Carnefici (2016). Proprio con quest’ultimo il buon Aprile tenta di ampliare il discorso revisionista nato con Terroni, tentando di elevarne la dignità da giornalistica a storiografica. Ma in base a quali meriti Aprile tenta di inserirsi nel dibattito storiografico? Il curriculum parla da sé: perito industriale, dopo il diploma fa gavetta ne La Gazzetta del Mezzogiorno. Entra poi nel circuito accademico rivestendo incarichi in prestigiose facoltà e firmando pubblicazioni destinate a cambiare i canoni di studio della Storia? No, diventa vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, firmando rotocalchi in cui appaiono soubrette, conduttrici tv e donne di successo, sempre il meno vestite possibili. Ci sono poi giornalisti come Angelo Del Boca, ex partigiano novarese (autore di una torrenziale produzione dedicata principalmente ai presunti crimini di guerra del Regio Esercito, punteggiata da un notevole numero di errori storici e una selezione faziosa delle fonti, ma anche di testi nei quali viene data per certa l’idea – lo ribadiamo: smentita in toto dalla storiografia – di Fenestrelle antesignano di Auschwitz), e il giornalista Gigi Di Fiore, che ne I vinti del Risorgimento per primo ha inaugurato il falso mito di Fenestrelle lager. Proprio Barbero ha smontato, nel testo sopracitato, tutte le teorie complottiste (e quando scriviamo tutte, intendiamo esattamente ciascuna di esse) partorite da Di Fiore e rapidamente divenute mistificazione. Come? Fondando lo scritto sui documenti d’archivio, sull’esame incrociato di una valanga di fonti (non soltanto custodite presso l’Archivio di Stato di Torino) e sulla ponderazione storiografica delle stesse (non tutte le fonti hanno pari dignità: nessuno studierebbe, ad esempio, la storia romana post augustea basandosi sugli scritti di Svetonio, notoriamente poco attendibili). Altra eminenza del movimento neoborb è Gennaro De Crescenzo, anch’egli giornalista. I testi di De Crescenzo tentano, ben più dei trattati di propaganda di Aprile, di fornire documentazione su cui fondare e reggere le teorie del movimento, pur di presentarle come verità storiografiche all’uditorio più analfabeta dell’abc storiografico. Ma che, in realtà, quando non riportano vere e proprie fake news distorcono i fatti pur di adattarli a un fine propagandistico tutto politico (l’articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno in data 6 giugno 2019 reca un titolo in questo senso emblematico: “La carica dei neoborbonici. «Nostre liste alle Regionali. Ci vorrebbe uno come Zaia»”). Persino ottimi trattati circa la condizione del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dell’unità (ne citiamo uno: Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo di Renata De Lorenzo, direttrice dell’Archivio storico per le province napoletane, membro del corpo docente del Dottorato in Storia della Società europea dell’Università Federico II, del Centro interdipartimentale di Studi di Storia comparata delle società rurali in età contemporanea del medesimo ateneo, del comitato scientifico della Rivista italiana di studi napoleonici e del comitato di redazione di Napoli nobilissima, del consiglio di presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano e dal 2007 della giunta del Dipartimento di Discipline storiche, socia dell’Accademia pontaniana di Napoli e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli) sono stati oggetti del tentato revisionismo di De Crescenzo (ammesso sia in grado di revisionare alcunché). Come osservato da Marco Vigna, “il grosso delle obiezioni di questo signore è viziato alla base da un errore radicale: De Crescenzo replica a ciò che De Lorenzo non ha scritto”. Il testo di De Crescenzo, edito – ironia della sorte – a Milano, non lo menzioneremo nemmeno: non siamo inclini alla pubblicità gratuita. Ciò che accomuna i due autori, nonché gli adepti di quella che nel tempo si è strutturata come una vera e propria religione antistorica (e passeremo a spiegare il motivo), è una forma di retorica del primato. A sentir loro la felix Borbonia era, prima dell’Unità Nazionale, paradiso perduto in Terra: “terza” potenza mondiale (come da più parti invocato, e non sappiamo in base a quali parametri) e all’avanguardia nei progressi tecnologici, legislativi e culturali (come mai un reame tanto avanguardistico si è fatto sconfiggere da un manipolo di garibaldini, accolti a braccia aperte da una popolazione evidentemente ignara della bontà dei suoi sovrani?). E proprio con il fine di dimostrare la fondatezza di queste tesi vengono invocate vere e proprie bufale storiche. Non le enunceremo: non è questa la sede. Ma la redazione de L’Indygesto ha fornito un compendiato ed efficace contributo al web, del tutto adatto anche a coloro che di storia s’intendono poco o nulla, che invitiamo a consultare. Ma, per coloro che volessero approfondire la materia senza addentrarsi nella più complessa letteratura accademica, il libro di Tanio Romano (messinese: dovrebbe essere superfluo, ma onde evitare accuse di negazionismo poiché del Nord lo specifichiamo) La grande bugia borbonica, edito a Lecce nel 2019, può essere d’aiuto. Come sapientemente ha scritto lo storico Lorenzo Terzi, gli scritti neoborb impiegano, più che il vocabolario della storiografia, toni e figure retoriche caratteristiche del linguaggio propagandistico e pubblicitario: “Tanto Aprile quanto De Crescenzo, infatti, conferiscono alle loro dissertazioni un carattere aggressivo e polemico del tutto immotivato – per giunta, condito da un’ironia alquanto greve – sicuramente incompatibile con un discorso storiografico di natura scientifica. Gli stessi avversari cui di volta in volta indirizzano i loro strali hanno contorni indefiniti: non si capisce se gli autori se la prendano con un generico Nord, con non meglio identificati politici meridionali oppure con altrettanto indistinti accademici. Ciò che importa a entrambi, infatti, non è tanto argomentare, ma suscitare un’intensa eco emotiva in un lettore già predisposto ad ascoltare i contenuti da loro veicolati. Il neoborbonismo quindi – pur richiamandosi ideologicamente, per definizione, all’antico – dimostra tuttavia di saper fare leva con indubbia abilità su dinamiche cognitivo-relazionali in tutto e per tutto contemporanee, caratteristiche dello spazio del web, come quelle che i sociologi della comunicazione hanno definito echo chambers. Nella rete, per come oggi è strutturata, si creano delle sfere ideologiche abbastanza impermeabili, dove rimbalzano idee tra loro simili che si fanno eco reciprocamente: «Il risultato è un progressivo rafforzamento di tali sfere, sempre più estranee al dissenso e sempre più consolidate nelle proprie convinzioni». Non c’è spazio, in questa strana forma di balcanizzazione del pensiero, per le logiche rassicuranti del dibattito pubblico, basate sul confronto, sul dissenso, sul dialogo e, in definitiva, sulla partecipazione. D’altra parte, l’uso di artifici retorici volti a sollecitare l’emozione, e non il ragionamento, di un ipotetico lettore, è presente sin dal titolo della pubblicazione seriale comprendente il saggio di De Crescenzo. «Altre fonti», «altre storie», «altro che “meridionali analfabeti”»: l’iterazione dà più forza all’aggettivo magico «altro». I sottintesi emergono con chiarezza: vi sarebbero, dunque, risorse inedite di conoscenza che, una volta riportate alla luce, permetterebbero di ricostruire una storia, per l’appunto, altra (e, va da sé, vera) veicolo di riscatto e di orgoglio nel presente. Da questa impostazione paralogica emerge un corollario alquanto preoccupante: chi non accetta il discorso neoborbonico e rivendicazionista è, perciò stesso, degno di riprovazione civile e morale. È un ascaro, un venduto e peggio”. Altro tratto che accomuna i due autori citati è l’impiego bizzarro e disinvolto delle fonti indirette, la cui attendibilità storiografica è sempre (non solo nel caso dei neoborb) da verificare. Perché? Perché le fonti indirette altro non sono che citazioni di passi reperibili su altri testi o addirittura nel mare magnum del web. E, nella bibliografia dei saggi di Aprile e De Crescenzo, compaiono quasi esclusivamente fonti indirette, che spesso e volentieri rimandano a loro stessi libri editi precedentemente. Un terzo ma non ultimo trait d’union dei due è il rigetto in chiave propagandistica di quanto sfornato dal mondo accademico. Il motivo va ricercato nel pubblico a cui il movimento neoborb si rivolge: un pubblico di cultura media, non specialistica, in grado di capire le coordinate storico-cronologiche del discorso, ma non di verificarne e, magari, contestarne assunti e conclusioni. Sempre Lorenzo Terzi osserva: “il fatto che l’ambiente definito con grossolana approssimazione accademico non sia disposto a riconoscere la fondatezza della narrazione dei neoborbonici non rappresenta per questi ultimi un problema. Anzi: ciò, semmai, costituisce per i simpatizzanti una riprova del loro essere controcorrente, anticonformisti, fuori dai giri di potere. Tutto questo poi si traduce, presso lo stesso pubblico, in una crescita esponenziale di credibilità: i neoborbonici sono coloro i quali raccontano, attraverso altre fonti, un’altra storia, mistificata, travisata o addirittura celata dalla cultura ufficiale. Qui la strategia neosudista gioca la carta della untold history, tipica di certo revisionismo: «non ci hanno mai detto che», «ci hanno nascosto che», «non sapevamo che»”. Ma torniamo a Barbero. La ragione della querela sta nella prefazione che lo storico torinese ha scritto per Fake Sud, libro di Marco Esposito recentemente edito. Barbero avrebbe la colpa di considerare “scellerate fantasie” le dichiarazioni dei neoborbonici, che avrebbero “reinventato, con informazioni false, la storia del Sud e dell’Italia influenzando la mentalità italiana e accendendo con mezzi immondi passioni violente”. A sentire l’ufficio legale da cui è partita la citazione in giudizio, e al quale De Crescenzo si appoggia, le affermazioni sarebbero calunniose non soltanto verso iscritti e simpatizzanti neoborbonici, ma anche verso i drammi vissuti da migliaia di soldati meridionali nella “fortezza-lager sabauda”. Negli ambienti “barberiani” del web si è paventata la possibilità di una controquerela per lite temeraria da parte del professore. Noi, nell’ambito giuridico, non ci addentriamo: Barbero farà ciò che reputerà più utile. Ma un’ultima considerazione ci permettiamo di fornirla. Altro che Barbero, a processo dovrebbero andarci i neoborbonici: per malafede, circonvenzione d’ignoranti e vilipendio alla Storia. Nonché alle vittime dell'Olocausto, puntualmente asservite alle voluttà di vanagloria di qualche scarto della cultura che conta in cerca di fama. 

Il razzismo, Gramellini, Barbero e altre questioni (meridionali).  Da parlamentoduesicilie.it. Su “La Stampa”, in pochi giorni, una serie di interventi significativi. Gramellini ha definito “borbonico” quel prefetto che rimproverava un sacerdote per un “vizio di forma”. Dopo l’episodio increscioso del giornalista piemontese della Rai che “assecondava” il razzismo contro i napoletani “che puzzano” e in risposta a Saviano che aveva ricordato l’antichità del bidet “borbonico” (sconosciuto in Piemonte), lo stesso Gramellini sottolineava la mancanza di fogne a Napoli con il popolo costretto a vivere “nella melma” a quei tempi. Qualche giorno prima, invece, Alessandro Barbero, autore di un libro in cui si sarebbe ricostruita la verità sul carcere di Fenestrelle e sui soldati napoletani deportati durante l’unificazione, continuava a definire “mistificatori”, “inventori ai limiti dell’impudicizia” e “strumentalizzatori con fini immondi ” coloro che ricordavano quei caduti meridionali o quella che lui definisce la “leggenda della Borbonia felix”.  Come premessa e ricordando anche la storia, bisognerebbe sempre verificare e distinguere chi attacca da chi si difende (i Piemontesi che ieri invasero il Sud e oggi gridano sugli stadi e i meridionali che reagirono e reagiscono per difendersi).  Secondo Barbero non si può “impunemente stravolgere il passato, reinventarlo a proprio piacimento per seminare odio e sfasciare il Paese”. Premesso che grazie a studi sempre più documentati e diffusi quelle relative ai primati borbonici sono tutt’altro che leggende (cfr. i dati archivistici a nostra disposizione o gli ultimi studi del CNR, della Banca d’Italia, dell’Istat o della belga S. Collet in merito ai livelli di industrializzazione, del Pil o delle finanze del Sud pre-unitario, pari o superiori a quelli del resto d’Italia); premesso che i Borbone furono tra i primi in Europa a costruire un sistema fognario o un sistema idrico urbano e agricolo e che Napoli fin dal  Quattrocento era “pavimentata” (altro che “melma”) a differenza delle altre città italiane, qualche domanda potrebbe essere utile. Si è proprio sicuri che commemorare i soldati napoletani deportati e caduti (1, 100 o 1000 che siano e Barbero, dati archivistici alla mano, nel suo libro non risolve affatto la questione) sia più pericoloso di quei cori razzisti e impuniti degli juventini o degli stessi cori che spesso ascoltiamo da decenni ai raduni della Lega (vera fucina di “invenzioni” come la “padania”) o di certe scelte che da 150 anni penalizzano il Sud con questioni sempre più drammatiche e irrisolte? Si è proprio sicuri che 150 anni di retorica risorgimentalista che ha cancellato i saccheggi e i massacri subiti dalle popolazioni meridionali (senza l’intervento “chiarificatore” di alcun prof. Barbero di turno) abbiano reso un buon contributo alla costruzione dell’identità italiana? Sconcertanti, del resto,  i passi del suo libro in cui si riportano (senza alcuna “pietas” e con uno stile presumibilmente somigliante a quello di un funzionario sabaudo) numerosi episodi di razzismo contro i nostri soldati reduci da migliaia di chilometri di viaggio tra offese e insulti terribilmente somiglianti a quelli degli stadi di oggi (“sporchi”, “luridi”, “puzzolenti”)… E se il Sud si fosse finalmente e veramente stancato di quei cori, di offese e di umiliazioni che durano da un secolo e mezzo, partono da quei soldati, passano per le curve, arrivano nelle redazioni di tv e giornali e, troppo spesso, fino alle stanze di parlamenti e ministeri? E se fosse naturale e ovvia una reazione di fronte a chi ci definisce “borbonici” con disprezzo o che scrive che eravamo “nella melma”, “puzziamo” e abbiamo dei “fini immondi”? E se i “terroni”, i “neoborbonici” o i “meridionali” stessero davvero ritrovando il loro orgoglio perduto per troppo tempo?

Prof. Gennaro De Crescenzo - Commissione Cultura - "Parlamento delle Due Sicilie"

Aprile: Hanno paura della memoria. L’autore di “Terroni” contro gli storici. Un gruppo di docenti aveva promosso una petizione per fermare l’iniziativa della Regione che vuole istituire la giornata in ricordo delle vittime meridionali dell’Unità. Pino Aprile 26 luglio 2017 su Il Corriere del Mezzogiorno. Altro che Lea Durante, roba da dilettanti, siamo all’uso «proprietario» e politico della storia, teorizzato da Alessandro Barbero, sull’onda degli storici «sabaudisti»: scegliere cosa narrare e farne miti fondanti, per formare patrioti. Quindi è pedagogia, politica; nessuna meraviglia, che la storia «non scelta», la raccontino altri. Il popolo vota (bene, male, come gli pare: è il difetto della democrazia, pur così malmessa); i rappresentanti eletti votano (bene, male, eccetera); sul Giorno della Memoria delle vittime dimenticate (e diffamate: guai ai vinti!) dell’unificazione d’Italia con saccheggi, stupri e genocidio, gli eletti dicono sì, all’unanimità o quasi, in Basilicata, Puglia, una mezza dozzina di Comuni, e la Campania stanzia 1,5 milioni di euro in manifestazioni, studi, approfondimenti. Al che, altri eletti (nessuno li ha votati, forse si ritengono tali) ordinano al presidente della Puglia di ignorare il voto a loro sgradito; non «finanziare alcun momento pubblico» (clandestino, invece sì?) dell’iniziativa voluta dal parlamento regionale; non consentire che di storia si parli nelle scuole (da «non coinvolgere in alcun modo»), se non come deliberato da lorsignori. Scusate, le orecchiette con le cime di rape: l’alice sì o no? Metti che uno si sbagli e parta una petizione... «Diremo agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione italiana?», scrivono i firmatari della petizione. No, perché, scusate, voi ancora raccontate che il Regno delle Due Sicilie era arretrato e sono arrivati i civilizzatori a dirozzarli, distruggendo le fabbriche o mandandole in rovina dirottando gli appalti al Nord, rubando l’oro delle banche e sterminando centinaia di migliaia di «arretrati», quindi poco male...? Leggete cosa scrive il ministro Giovanni Manna al re, rapporto sul censimento 1861, sul fatto che mancano 458mila persone, per la «guerra», rispetto al totale atteso; leggete, archivio Istat, con tabelle, i padri della demografia unitaria, Pietro Maestri e Cesare Correnti, sul fatto che, appena arrivati i piemontesi, al Sud, la popolazione, che cresceva più che nel resto d’Italia, smette di farlo e diminuisce di 120mila unità in un anno; o Luigi Bodio, capo della statistica, archivio Istat, sui 110mila giovani, quasi tutti terroni, renitenti alla leva, tutti morti, o «clandestinamente» emigrati (peccato che non si trovino...); o dei 105mila terroni, tutti maschi, scomparsi («emigrati» pure loro?). Leggete dei 600mila incarcerati nel ‘61, dei 400mila ancora nel ‘71, riferisce il di Rudinì, in Parlamento, della mortalità nelle carceri che arrivò al 20 per cento; dei deportati, almeno 100mila, di cui 20mila, denunciò il Maddaloni, nel solo 1861. E dopo aver tacciato quali «fantasiose ricostruzioni», «leggende», «fole» le ricostruzioni degli eccidi sabaudi al Sud, ora che non si riesce più a negarli, ci è offerta come «onestà intellettuale» l’ammissione che «gli storici devono fare di più per portare alla luce e spiegare e stigmatizzare i numerosi episodi di violenza a carico delle popolazioni meridionali». E già, in 156 anni è mancato il tempo... Han dovuto dircelo gli storici stranieri, come Denis Mac Smith, che ci furono più mort’ammazzati (per il loro bene, si capisce) per annettere l’ex Regno borbonico che in 11 anni di guerre di indipendenza contro l’Austria. Ed è ancora uno straniero (temibile neoborbonico?), il professor John Anthony Davis («Napoli e Napoleone»), università del Connecticut, fra i maggiori studiosi della nostra storia di quegli anni, a dirci che la favola dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie fu «inventata» da Bendetto Croce, per giustificare le condizioni sempre peggiori in cui precipitò l’ex Regno divenuto «Sud», dopo le amorevoli cure unitarie. Lo dimostrano gli studi dei prof Paolo Malanima e Vittorio Daniele, del Consiglio nazionale delle ricerche, di Stephanie Collet dell’università di Bruxelles, dell’Ufficio studi della Banca d’Italia (Carlo Ciccarell e Stefano Fenoaltea), di Vito Tanzi (Fondo monetario internazionale). Ma bastavano Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, unitarista deluso, quando scoprì che «questi sono più porci dei peggiori porci nostri», Gramsci che parla del Sud «colonia». Inutile l’ottimo ciclo di studi ricordati, su queste pagine, dal professor Saverio Russo (che ne fu un protagonista), sull’inconsistenza della vulgata «miseri e arretrati», o del professor Luigi De Matteo («Noi della meridionale Italia»), dell’Orientale di Napoli; eccetera. Il Regno delle Due Sicilie non era più povero del Nord (più o meno stesso reddito) né arretrato (il doppio degli studenti universitari del resto d’Italia messo insieme; le fabbriche più grandi della Penisola; addetti all’industria più numerosi di oggi). Ma fosse stato economicamente indietro del 15-20 per cento, come arditamente sostenuto di recente (con riaggiustamenti successivi, però...) da un poi fortunato titolare di cattedra in «Tutta colpa del Sud»: quale affare avremmo fatto, se in 156 anni siamo precipitati al 56 per cento del reddito medio del Nord, 3-4 volte peggio? Ci vuole coraggio a spacciare questo per unità (ma non prendono treni lorsignori, non hanno figli in partenza per altrove, mentre Milano forse si fotte l’ennesima mammella, un’Authority europea, dopo l’Expo-mafia, Human Technopole eccetera sempre con soldi pubblici?); a pensare di liquidare tutto come «propaggini estreme di un meridionalismo “piagnone” e rivendicazionista» (e ci trovate pure qualcosa da ridere?) o nominando tutti «neoborbonici» sul campo, «sanfedisti», faccia buia della luminosa medaglia di quei giacobini che presero a cannonate i loro concittadini, per consegnare il Paese a un esercito straniero, che lo spogliò di tutto, massacrando (il solo generale Thiebault) 60mila persone. Discutiamo delle idee, ma pure del prezzo di vite altrui che si è disposti a pagare per imporle a chi non si riesce a convincere. Ma che paura fa il Giorno della Memoria? Saranno convegni, dibattiti, manifestazioni... E cosa impedisce a chiunque, in civile confronto (sempre che non sia proprio questo che inquieta), di esporre dati e opinioni cui si attribuisce maggior fondatezza? Dovreste esser lieti di una possibilità così succulenta di sbugiardare il branco di...? di...? «Neoborbonici»! Evvai (ma che palle!). Invece di virare sulla paura che si alimenti «l’inconsapevole sentimento antiunitario contro il leghismo del Nord». Mentre non fa paura il consapevole (dimostrato e gridato) sentimento antiunitario della Lega Nord contro il Sud. Se no una petizione l’avreste fatta. Mi sbaglio? Lea Durante ha mai promosso petizioni per adeguare la rete ferroviaria (tutto a Nord, nulla a Sud) con o senza alta velocità (o è revanscismo neoborbonico?). O contro l’esclusione, da parte del ministero dell’Istruzione, di poeti e scrittori meridionali, pur se premi Nobel, dai programmi di Letteratura del Novecento per i nostri licei? No? Eppure son 7 anni che si fanno raccolte firme, proteste di istituti scolastici, interrogazioni parlamentari. O contro la normativa che «premia il merito» degli atenei che sorgono nelle regioni più ricche e condanna a morte prossima quelli meridionali?

O contro i criteri in base ai quali la salute di un terrone vale meno di quella di un settentrionale? (A meno che i firmatari, non abbiano taciuto per non parer «piagnoni» e «revanscisti»). La cultura faccia ponti non fossati, professoressa. Il Giorno della Memoria serve a discutere. Chi ne ha paura, teme di non aver da dire o quel che può esser da altri detto. Ma quanne ‘na cose niscune te la vo’ di’, allore la terre se crepe, se apre, e parla.

Il revisionismo e il falso mito di Pino Aprile.  Saverio Paletta il 22 maggio 2019 su indygesto.com. Il business del giornalista pugliese, dalla navigazione a vela alla controstoria. Vi ricordate Oggi e Gente? I due settimanali ora fanno a gara a sparare in prima pagina le immagini di soubrette, conduttrici tv e donne di successo, il meno vestite possibili. Tra gli anni ’70 e ’80 gareggiavano in cose più serie, almeno dal punto di vista storiografico: ritratti e titoli sui membri della famiglia Savoia, allora in esilio, sui superstiti della famiglia Mussolini e sullo scià di Persia. In quei giornali fece la sua brava carriera il giornalista pugliese Pino Aprile, che fu direttore del primo e vicedirettore del secondo. Aprile, di cui – come per tanti giornalisti, che non ne hanno – sono sconosciuti i titoli accademici, proveniva dalla classica gavetta nei giornali locali, come La Gazzetta del Mezzogiorno. Parliamo, ovviamente, dello stesso Pino Aprile che, dal 2010 in avanti, dopo una fortunata parentesi come esperto di navigazione sportiva a vela, si è riscoperto ultrameridionalista (almeno in pubblico, visto che altre tracce precedenti di questa sua passione non ce ne sono), ha buttato alle ortiche la precedente attività di divulgatore storico e si dedica al revisionismo antirisorgimentale. I Savoia restano in cima alle sue preoccupazioni, ma non come personaggi da prima pagina bensì come bestie nere. L’Unità d’Italia, a sentire l’Aprile di oggi, è stata la iattura del Sud. Il Risorgimento fu una guerra di conquista, con tanto di genocidio annesso, almeno tentato e, a sentir lui, in parte riuscito. Con questa ricettina, il Nostro ha scritto uno dei più grandi best seller del decennio: quel Terroni (Piemme, 2010) che, forte di oltre 250mila copie vendute, ha suscitato un dibattito fortissimo, che dal mondo della cultura (e nonostante esso) è tracimato nella politica. Se sette anni fa non ci fosse stato Terroni oggi il Movimento 5Stelle non avrebbe lanciato l’idea di una giornata della memoria dedicata alle vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Senza il successo di Terroni, che ha trasformato il suo autore in una specie di Messia dei movimenti sudisti, le tesi dei neoborbonici giacerebbero in una nicchia più piccola di quella che occupano adesso. E non ci sarebbe, soprattutto, il battage editoriale che, a sette anni dal centocinquantenario dell’Unità, continua a martellare l’opinione pubblica, a dispetto della crisi dell’editoria. Inutile dire che tanta fortuna si basa sul nulla o quasi: le tesi storiografiche di Aprile suggestionano al primo impatto ma si smorzano non appena si inizi una seconda lettura. Non solo per una questione di stile, che non è proprio gradevole (irrita ad esempio la scrittura in prima persona e l’abbondanza di dialettismi, roba che ad altri verrebbe censurata in qualsiasi giornale di provincia), ma soprattutto di contenuti e di onestà intellettuale. Evitiamo di scendere nei dettagli del corposo revisionismo apriliano e soffermiamoci, piuttosto, su un’espressione che ricorre come un mantra in tutti i libri dell’autoproclamato storico di Gioia del Colle: «Certe cose non le sapevamo perché nessuno ce le ha mai raccontate». Non sapevamo, ad esempio, che l’Unità d’Italia fu la guerra di conquista vinta da uno Stato, il Regno di Sardegna, nei confronti di tutti gli altri della Penisola. Non sapevamo che all’Unità seguì un periodo di disordini profondissimi con episodi tragici, stermini e abusi da guerra civile. Non sapevamo che, in effetti, il Sud iniziò ad arretrare con l’Unità (o meglio, restò al palo mentre le altre zone, altrettanto non sviluppate, crebbero). Ma non è vero che non sapessimo tutto questo perché «nessuno ce l’ha mai raccontato». Non lo sapevamo perché semplicemente non abbiamo studiato oppure non ci siamo documentati a dovere. Dopodiché, persino il cinema si è occupato di certe cose. Si pensi all’eccidio di Bronte, rievocato da Aprile col tono di chi rivela novità assolute: a quest’episodio, tragico ma non sconosciuto, il regista Florestano Vancini dedicò nel 1971 Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, una coproduzione italo-jugoslava trasmessa varie volte dalla Rai e perciò vista da milioni di telespettatori. Nel 1999, invece, Pasquale Squitieri (la cui recente scomparsa è passata inosservata ai neoborbonici e agli aficionados di Aprile) girò Li chiamarono briganti, dedicato, appunto, alle gesta del brigante lucano Carmine Crocco. Anche la musica ha fatto la sua parte: nel 1974, ben prima che il milanese Povia si convertisse alle tesi neoborboniche per rilanciare la sua carriera con la stucchevole Al Sud, gli Stormy Six, band di punta dell’underground milanese, dedicarono una canzone al massacro di Pontelandolfo. Se ci concentriamo invece sui libri, che poi sono le uniche fonti utilizzate da Aprile, che tuttavia ben si guarda dal fornire una bibliografia, ci accorgiamo che tutto era stato già scritto, anche con un certo rigore e che nessuno, a partire dal compianto Carlo Alianello e da Franco Molfese, autore di una pregevolissima Storia del brigantaggio dopo l’Unità, è mai stato censurato. Tutt’altro. Tutto ciò che è riportato nei libri del pugliese a partire da Terroni era già stato pubblicato prima. È stato solo grazie al clima d’odio creato dalla crisi economica e politica del Paese e dalla rinascita dei pregiudizi localistici, in particolare quello antimeridionale sfruttato alla grande dalla Lega Nord dell’era Bossi, che certe tesi sono state distorte e trasformate nella clava politica che in tanti, adesso soprattutto i grillini, cercano di brandire per cattivarsi un po’ di consensi. Ma secondo Aprile, che ha rincarato la dose nel suo ultimo Carnefici (Piemme, 2016), non sapevamo altro, e cioè che il Risorgimento è stato quasi un genocidio concertato ad arte. Peccato che il nostro non sia riuscito a provare le cifre da Prima Guerra Mondiale snocciolate per avallare la tesi che il Sud è quel che è perché i settentrionali, a furia di massacri e rapine, l’hanno depauperato. Peccato, inoltre che certe narrazioni siano state smontate nel frattempo. Ad esempio, quella secondo cui Fenestrelle, il forte alpino in cui erano alloggiati i Cacciatori Franchi, cioè il corpo punitivo del Regio Esercito (italiano e non piemontese), fosse nientemeno una sorta di Auschwitz sabauda in cui sarebbero stati macellati a migliaia i soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie. Al riguardo, val la pena di menzionare la polemica a distanza tra Aprile e lo storico torinese Alessandro Barbero, autore di I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle (Laterza, Roma-Bari 2012). Per parare il colpo dello storico piemontese, Aprile scende piuttosto in basso: definisce in Carnefici il suo contraddittore «un medievista e romanziere prestato alla storia contemporanea» e si arrampica sugli specchi, non riuscendo a controbattere coi documenti. Su questo punto si potrebbe rispondere non senza ironia che un medievista è uno storico e, in quanto tale, applica un metodo affinato sullo studio di documenti difficili come quelli medievali, redatti in latinorum o, peggio, in volgare. Di Aprile si sa, per sua stessa pubblica ammissione, che è un perito industriale. Nulla di male in ciò. Ma si ammetterà che il passaggio da perito industriale a storico attraverso il giornalismo è più tortuoso e dà meno garanzie sulla qualità della ricerca, o no? Al netto delle polemiche, si potrebbe concludere che il potere di firma permette ad alcuni ciò che i titoli non consentono ad altri. Nel caso di Aprile si va oltre e il potere di firma diventa transitivo e generazionale. Infatti, Marianna Aprile, figlia di Pino e piezz’e core come tutti i figli d’arte, è una firma di Oggi e, di tanto in tanto, fa comparsate in Rai. Questo lo sappiamo. E sappiamo altro. Sappiamo che i guai del Sud di oggi non sono il prodotto dei Savoia di ieri, ma di quella classe dirigente corrotta, incapace, impreparata e collusa che, spesso, ricicla il sudismo alla Aprile per dotarsi di una linea culturale. Sappiamo queste cose perché ce le raccontano tanti giornalisti che sfidano il precariato e le querele in redazioni spesso improbabili e fanno i conti in tasca a chi amministra quel po’ di potere rimasto e i suoi dividendi. E sappiamo che il compito di questi giornalisti è difficile perché la censura, anche fisica, è un rischio quotidiano. Diffamare i morti (se il generale Cialdini risuscitasse, quante querele beccherebbe Aprile?) invece è facile. Sappiamo anche questo, per averlo sperimentato di persona. Ma prima o poi le mode passano. Sono passate quelle estetiche, che hanno condannato alla bulimia e all’anoressia qualche migliaio di ragazze, passeranno quelle culturali, che condannano all’odio migliaia di persone. Forse questo non lo sappiamo di sicuro. Ma ci speriamo.  Saverio Paletta

Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. 

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020 su Il Nuovo Sud.it.  

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). UNA SCELTA DOLOROSA MA NECESSARIA (E MOTIVATA). “Non ci interessano strategie, giochini o compromessi: la nostra storia va rispettata. Punto”. I motivi per cui non consiglierò ai miei amici di comprare FAKE SUD di Marco Esposito si legano alla prefazione di Alessandro di Barbero e anche a tanti contenuti del libro stesso. In premessa dobbiamo ringraziare gli autori di libro e prefazione perché concedono molto spazio ai neoborbonici, evidentemente preoccupati o stimolati dal successo delle loro tesi (se qualcosa non ci preoccupa, non ci interessa o la si ritiene inutile, non se ne parla o almeno non se ne parla con questa frequenza o con certi toni). Ognuno è libero di scegliersi i firmatari della sua prefazione (e anche di pubblicizzarli con le fascette sui libri) ma forse è meno libero di consentire offese e insulti anche personali nelle stesse prefazioni. Si tratta, in realtà, delle solite offese rivolte da Barbero ai neoborbonici (non solo nostri simpatizzanti o collaboratori ma migliaia di persone e tutto il mondo che ruota intorno al seguitissimo “neo-meridionalismo”) fin dalla uscita del suo libro che cercava di negare o ridimensionare i drammi vissuti dai soldati delle Due Sicilie a Fenestrelle (e confermati da diverse domande “archivistiche” che posi a Barbero anni fa e alle quali non ha mai risposto e che saranno confermati in pieno da un libro di un coraggioso accademico e in uscita nel prossimo inverno). Non ho mai offeso personalmente Barbero e nell’unico confronto che ho avuto con lui, di fronte alle sue risatine mentre io parlavo di quei poveri soldati morti di freddo e stenti, oltre a tante osservazioni sul piano storico-archivistico, mi limitai ad osservare che forse le distanze tra noi non erano solo storiografiche. Dalla quantità degli insulti che ci ha rivolto in questi anni (mai ricambiato) e anche in questa prefazione, devo pensare che forse quella mia osservazione dovette colpirlo, anche se ricordo la cortesia dei saluti e addirittura l’idea che qualcuno gli aveva proposto (quella di scrivere un libro insieme). Evidentemente, visto che è stata quella l’unica occasione di incontro, avrà ripensato a quella serata, ne avrà rivisto il video e il ricordo non deve essere positivo (al contrario di quanto posso dire io). Detto questo, da anni abbiamo rinunciato a incarichi, a guadagni facili e a seggi elettorali e stiamo perdendo (altro che “mezzi” o fini “immondi”) tempo e denaro nelle nostre vite sottraendolo a noi e alle nostre famiglie e non possiamo consentire a nessuno insulti gratuiti personali o alle migliaia di persone che da anni ci seguono con rispetto e affetto. Non ci interessano le reazioni “infuriate” (esistono degli ottimi rimedi anche naturali) e non ci interessano neanche le strategie politiche o pubblicitarie e, anche se si tratta di famosi docenti onnipresenti in tv, ci tuteleremo e tuteleremo i nostri tanti iscritti e simpatizzanti in ogni modo e con ogni mezzo (legale, democratico e civile). Detto questo, è opportuna un’analisi per illustrare i (tanti) motivi per cui questo libro non ci convince. In premessa devo ammettere una mia mancanza: non ho mai letto una premessa così carica di astio e rancore in un libro che per giunta parla di “pendoli” e di necessità di moderare i termini dei confronti. E se la scelta di Barbero (dopo le tante e innumerevoli offese rivolte ai suoi “oppositori”) poteva essere un’idea pubblicitaria (al netto delle ovvie critiche nel nostro “mondo”, lo stesso contro il quale si rivolge spesso Barbero e che magari poteva acquistare il libro di Esposito), quando l’autore e l’editore hanno letto il testo forse avrebbero potuto avere qualche dubbio… Ve lo riportiamo. “Prefazione di Alessandro Barbero. Si tratta dell’insieme di scellerate fantasie che il movimento neoborbonico ha messo in circolo dalla fine del secolo scorso reinventando da cima a fondo la storia del Mezzogiorno d’Italia e dell’Unità d’Italia […], qui si tratta di influenzare la mentalità collettiva del nostro paese e si accendere passioni violente sulla base di informazioni false […]. Altrove ho scritto di un fine immondo e mi correggo: sono i mezzi che sono immondi” […]. Marco Esposito è stato troppo rispettoso di persone come Pino Aprile o Gennaro De Crescenzo (anche se io per primo, avendoli incontrati entrambi, riconosco che fra i due c’è una bella differenza di statura umana […]; c’è da provare ripugnanza […]; si tratta di primati tragicomici e di buffonate dei neoborbonici”. E se Esposito scrive a Pino Aprile che le sue (presunte) fake danneggiano la parte buona del resto dei suoi libri, potremmo dire lo stesso di Esposito di fronte a queste parole. Ma andiamo avanti con il resto dei contenuti. Solo una nota a cui tengo: Barbero, forse sbagliando parola, parla di “statura umana” e io, con tutto il rispetto e pur nei miei limiti, con il mio 1.78 credo di essere più alto sia di Barbero che di Pino Aprile…

La base del libro è “l’errore del pendolo” e cioè gli eccessi antimeridionali e gli eccessi meridionali anche se per contestare i secondi Esposito contesta le tesi dei neoborbonici. La motivazione in sostanza è “dobbiamo essere infallibili se vogliamo essere credibili”. Bene chiarire, forse, che non esistono ricerche e tesi infallibili. Facciamo qualche esempio. Tra i primi che mi vengono in mente c’è la proposta secessionista di Marco Esposito che (Barbero lo sa?) qualche anno fa il giornalista del Mattino sintetizzò nel libro “Separiamoci”, un progetto forse anche estremistico sul piano del diritto italiano e nel quale mai nessun neoborbonico si era mai avventurato. Qualche anno prima, sempre per fare un esempio, il successo relativo del suo progetto di moneta alternativa come assessore a Napoli (nome non molto felice: il “Napo”) o il suo progetto elettorale con percentuali non superiori allo “zerovirgola”. Nessuno, però, a differenza di quanto Esposito fa nel libro lamentandosi per la mancata autocritica di Pino Aprile o per la mancanza della dichiarazione di qualche correzione (e neanche delle correzioni) magari nell’elenco dei primati, ha mai pensato di chiedere a Esposito autocritiche o “dichiarazioni di omessa dichiarazione di integrazione di un primato”… Nel libro una serie di dati puntuali che conosciamo bene anche per i numerosi articoli e per gli altri libri che Esposito ha scritto sulle sottrazioni di fondi a danno del Sud e anche su diverse bugie che circolano in merito a sprechi e inefficienze da queste parti.

Quello che però più sorprende è il fatto che Esposito metta sullo stesso piano l’eventuale errore del “terzo posto industriale” (neanche del sottoscritto ma di diversi altri autori o semplicemente di tante persone su facebook) e oltre un secolo e mezzo di fake, di cancellazioni, di mistificazioni e umiliazioni contro il Sud. Da un lato, allora, una storia ufficiale che in maniera monopolistica, con tv, giornali, università e case editrici e anche libri di scuola di ogni ordine e grado ci racconta le (vere) fake di Garibaldi&Garibaldini o di un Sud arretrato e inferiore con le conseguenze culturali e anche politiche ed economiche che il libro stesso evidenzia, dall’altro un gruppo di storici volontari e autofinanziati che ha tirato fuori storie cancellate con le conseguenze (positive) che hanno e potranno avere. Ma per Esposito siamo tutti uguali e il pendolo vale per loro e per noi. È grave per lui, allora, che qualcuno abbia tirato fuori la storia del “terzo posto” (secondo i suoi dati forse era sesto o settimo) ma non che qualcun altro non abbia mai parlato delle industrie del Sud pre-unitario. Ci convince poco anche la motivazione di tutto questo (la potremmo pure condividere ma il rischio della retorica e della pre-sunzione è troppo alto): “potremmo tornare ad essere un modello armonico di esistenza”. E allora la sensazione è che “l’errore del pendolo” non sia dei neoborbonici o dei neomeridionalisti ma di… Esposito che non si è accorto che quel pendolo era spostato tutto da una parte da oltre 150 anni.

“Se quei primati vengono esaltati oltremodo l’operazione di riscatto della memoria dei neoborbonici da necessaria diventa perniciosa”: peccato che quei primati siano oltre 150, che quelli “integrati” e aggiornati” nel libro siano solo sette e che per 150 anni di quei primati non si conosceva l’esistenza e non ricordiamo libri di Esposito che ne abbiano mai parlato e neanche libri nei quali abbia difeso il Sud dalle umiliazioni di tutta la storiografia italiana. Notiamo oggi (anzi) un Esposito tutto intento a calcolare i metri cubi della Reggia di Caserta per dimostrare che non è la reggia più grande (ed è costretto a riconoscere che il primato è riportato anche dal sito della Reggia) o con il vocabolario di tedesco per dimostrare che la prima cattedra di economia era in Germania e non a Napoli (eppure bastava dare un occhio alla Treccani) o a confrontare gli elenchi di primati sul sito dei neoborbonici (2005) con il mio libro del 2019. Tante le pagine dedicate ai moti del 1820 e al “primo parlamento a suffragio universale” (omettendo le critiche che i Nitti o i Croce rivolsero contro quei moti carbonari-massonici ed etero-diretti), uno dei pochi primati borbonici anti-borbonici (il Borbone, per accordi internazionali e, resosi conto delle reali intenzioni dei rivoluzionari, bloccò tutto). Esposito insiste anche con una vecchia tesi della storiografia ufficiale a proposito della implosione del Regno ma Esposito non cita altre fonti: fu sempre Croce, come riportato da un recente libro di Gigi Di Fiore, ad evidenziare che si trattò di una caduta “per urto esterno” e libri recenti e documentatissimi dimostrano che si trattò anche in quel caso di una operazione etero-diretta.

Per Esposito, poi, è “vomitevole” (aggettivo non proprio moderato e tendente a quella armonia vagheggiata in altre pagine) la storia divulgata (sul web e sui social!) dei “10 o 15 anni di chiusura delle scuole del Sud dopo il 1860”. A questo proposito cita anche il sottoscritto quando riporto i dati del più alto numero di iscritti all’università. Qui cita il mio (“bel”) libro sui primati ma forse non lo avrà letto tutto perché in quel libro e in altre mie pubblicazioni il dato degli iscritti è solo uno dei tanti elementi portati come “prove” (archivistiche) relative alla falsità dei dati del censimento del 1861 (in testa quelli del Fondo Ministero Istruzione a Napoli e quelle successive degli Annuari). Sono quelle le fonti che dimostrano la chiusura di un numero enorme da un notevole numero (oltre 6000) di scuole presenti nelle Due Sicilie fino alla nefasta applicazione della legge Casati (che Esposito cita senza analizzarne le conseguenze). In questo caso Esposito dimentica anche di completare la lettura del libro di Daniele che pure cita in più passaggi: in particolare non riporta i dati relativi al numero di scuole presenti nelle Due Sicilie (in media con quelle del resto dell’Italia).

Surreale il capitolo relativo alla deportazione dei meridionali in Patagonia progettata dallo stato italiano: nel corso dell’intervista inserita nel libro Barbero in un primo momento nega questa possibilità ritenendola una “leggenda neoborbonica” e di fronte a diversi documenti accetta in parte la tesi ma con un suo strano distinguo che applicò anche ai prigionieri di Fenestrelle: quei progetti “per atterrire le nostre impressionabili popolazioni” non erano pensati per i meridionali ma per tutti gli “italiani” perché dal 17 marzo 1861 eravamo tutti italiani… Per Barbero, allora, le decine di migliaia di meridionali deportati con la legge Pica e ritrovati (nomi e cognomi) negli archivi dell’Italia centrale e settentrionale sono una fake news (peccato che Esposito non l’abbia inserita nel libro)…

Schema simile sempre a quello seguito da Barbero anche quando “Fake Sud” affronta il tema di Fenestrelle usando “la parte per il tutto”: per Esposito Di Fiore “ha scritto prima ‘in tanti morirono in quelle prigioni’ per poi correggersi (già negli Ultimi giorni di Gaeta) dicendo che ‘per loro il ritorno a casa non fu semplice’ e poi riconoscendo che non fu persecuzione scientifica”. In realtà, leggendo bene e conoscendo bene i libri di Di Fiore, non risulta affatto questo “climax” suggerito in maniera quasi subliminale da Esposito: in Nazione Napoletana (successivo agli “Ultimi giorni”), a proposito dei campi di prigionia sabaudi, Di Fiore scrive di “migliaia di militari rinchiusi” e anche “a centinaia non fecero più ritorno”. Stesso schema quando cita il prof. Gangemi e i suoi documentatissimi studi di prossima pubblicazione: si parla solo dell’errore di Barbero sui 1200 soldati (forse erano 1300) e non delle pluriennali ricerche archivistiche con le quali Gangemi dimostra la morte a Fenestrelle e altrove di diverse migliaia di soldati. Proprio su Fenestrelle i passaggi forse più (in negativo) significativi: abbracciando in pieno le tesi barberiane, Esposito sostiene che non era un lager, che non c’era la volontà di sterminare i soldati napoletani ma (giuriamo che la frase è proprio questa) “semmai l’ingenua pretesa di inquadrarli rapidamente nel nuovo esercito nazionale”. Non possiamo non evidenziare l’aggettivo “ingenua” riferito a quella scelta che, pure ammesso che la volontà iniziale non fosse lo sterminio, stride con le condizioni di quei viaggi e di quelle prigioni ritenute infernali per decenni. A parte il fatto, poi, che l’idea della “rieducazione” rievoca spettri impronunciabili, a parte il fatto che avrebbero potuto anche evitare de-portazioni a oltre 1000 km e a oltre 1200 metri di altezza (magari “rieducandoli” nelle loro zone di origine), a parte il fatto che dal numero di ospedalizzati, di morti, di fughe e di rivolte avrebbero potuto dedurre che forse non era il caso di insistere per tanti anni (e ben oltre quel 1862-data semi/fake usata da Barbero per chiudere le sue ricerche con lacune che saranno presto evidenti nel libro di cui sopra), a parte il fatto che Esposito avrebbe potuto chiedere lumi a Barbero in merito ai misteri di quei 40.000 soldati attestati a Fenestrelle non dai neoborbonici ma dai Carabinieri nel loro museo in epoca fascista, Esposito si risponde da solo quando, nella stessa pagina, scrive che “la maggior parte di quei soldati rifiutò [di essere inquadrata nel nuovo esercito] avendo giurato fedeltà a Francesco II”. Qui Esposito, però, non si chiede e non chiede neanche a Barbero quale fosse la sorte di quei soldati visto che non volevano essere rieducati e inquadrati e i sabaudi volevano “solo” rieducarli e inquadrarli. Forse, allora, a Fenestrelle non c’era un cartello con la scritta “campo di sterminio” ma quel forte lo diventò e non fu neanche l’unico caso.

Da notare anche qualche “distrazione” come quando riferisce ai neoborbonici la tesi “con 7 secoli di storia potevamo dirci neogreci, neoangioini o neoaragonesi” ma (senza leggere il testo riportato da circa 20 anni sul sito dei neoborbonici e limitandosi a cercare la notizia dal web) ci ricorda che i secoli, “partendo dai Greci sarebbero 28” (io ho scritto 3 libri sulla storia di Napoli e non ho mai parlato di “7 secoli”).

Nel libro contro le fake anche un’altra mezza fake: quella secondo la quale in Italia nessuno emigrava fino al 1860. Esposito forse non ha letto i testi che attestano emigrazioni consistenti (tra gli altri) di Comaschi, Genovesi e Parmigiani con cronisti che arrivarono a parlare di “fanatismo migratorio” (G. Goyau, M. Porcella, F. Bellazzi, G, Calzolari, tra gli altri).

Non è affatto vero, poi, che Aprile “peraltro non ha fatto alcuna ricerca diretta ma ha riassunto con toni vivaci quanto è stato scritto sul tema dal 1993 in poi” (Aprile non inserisce note ma riporta nei testi le sue tante fonti frutto anche di ricerche complesse) e non è vero che Terroni “riassume gli errori e le inesattezze della storiografia fai-da-te” e che “Pino Aprile cade in fallo” perché sottovaluterebbe il fatto che “anche un solo scivolone rischia di inquinare il resto” (e fa l’esempio –sbagliato- di Fenestrelle che non era un luogo di sterminio) e non è accettabile neanche l’altra tesi su Aprile: da un lato, infatti, Esposito scrive che con il suo Terroni “sempre più meridionali si sono liberati del senso di minorità”, dall’altro, però, in virtù della sua mancata “autocritica”, “chi legge quel libro prende per buone tutte le affermazioni e qualcuno anzi, come in un gioco al rialzo, si attiva in rete e magari aggiunge altro di suo e il rischio è che l’informazione inesatta o esagerata abbia l’effetto della mela marcia e spinga a buttare l’intera cesta”. Ovvio che Aprile non possa rispondere di quello che fanno i suoi lettori (se scrivo che Mertens non ha giocato bene non sarà colpa mia se qualcuno gli buca le ruote del motorino) così come… scagli la prima pietra uno scrittore infallibile.

Surreale la denuncia della fake news relativa alla frase di Bombrini (“I meridionali non dovranno più essere in grado di intraprendere”) perché, premesso che io nei miei libri non l’ho mai usata (amo le fonti da quando mi specializzai in archivistica), se è vero che (finora) non c’è una fonte che la documenti, è altrettanto vero (e lo specifica poche righe dopo) che Bombrini fece una lunga e articolata serie di scelte che potrebbero essere sintetizzate in maniera esemplare in quella frase, come attestano le eccezionali ricerche del grande Nicola Zitara. Dopo oltre un secolo e mezzo di silenzi omertosi e colpevoli (e dannosi) sulle politiche antimeridionali uno slogan e una locandina su facebook possono essere più efficaci di 100 libri soprattutto se sintetizzano una loro intrinseca e profonda verità.

Surreale anche un’altra delle tesi del libro: “non siamo ancora in un tempo pacificato”. Esatto. Ma per il motivo contrario: qui al Sud, nell’opera di ricostruzione di identità e di liberazione dal senso di minorità, siamo ancora all’anno zero e semplificazioni o anche e addirittura esagerazioni (legittime dopo 150 anni di umiliazioni) sono più che mai preziose. E forse abbiamo ancora più bisogno di orgoglio che di “maestrine con le penne rosse” pronte a bacchettare questo o quel passaggio (è un lusso che, forse, ci potremo permettere tra qualche anno). A meno che qualcuno non pensi che questo processo sia già concluso (e non è concluso affatto, come dimostrano le politiche antimeridionali di questi anni e che nel libro sono anche sintetizzate). A meno che qualcuno non pensi che questo processo non serva (e allora, forse, non ama davvero il Sud e non vuole davvero risolvere le questioni meridionali) e non ci meraviglieremmo molto se questo libro (soprattutto per le parti nelle quali in fondo sostiene che “è tutta colpa del Sud”) avrà molti spazi televisivi e giornalistici e venderà le sue brave copie… E magari in questo tipo di discorso rientrano anche certi titoli (quello più adatto, in questo caso, forse, era un più equilibrato e coerente con i contenuti “Fake Sud e Nord”, così come all’epoca “I prigionieri dei Savoia” di Barbero poteva far pensare ad una denuncia delle malefatte sabaude).

In conclusione (evitiamo di ripetere la formula usata da Barbero per iniziare la sua prefazione perché non riusciamo a capirla bene: “Nella conclusione a questo libro Esposito racconta…”), non possiamo non rilevare che Esposito forse per la prima volta parla del passato in un suo libro e ha scelto una strada (secondo il nostro parere personale) non del tutto felice, sia per la scelta della prefazione (e dei toni) che per diverse notizie riportate nel testo. Di fronte a oltre 150 anni di bugie (quelle sì tutte contro il Sud), di fronte a quei “400 gruppi facebook antimeridionali” (quelli sì carichi di un razzismo pericoloso), di fronte all’avanzare di una Lega (sempre) Nord (quella che condiziona non la “mentalità” ma la politica da decenni, quella che porta in giro odio vero e simboli di personaggi storici medioevali inventati sui quali, però, non ci risultano, ad esempio libri, articoli e premesse “infuriate” di Barbero che tra l’altro è anche medioevalista), di fronte all’avanzare di quel “partito unico del Nord” (che non si è mai messo e non si metterà mai a cavillare sui suoi aderenti e a cercare vie politicamente corrette), pur lusingati dallo spazio e dall’importanza attribuitaci in questo libro, ci auguriamo che il prossimo libro di Esposito e Barbero possa evitare di offendere o andare a cavillare tra libri e siti neoborbonici rivolgendo le loro attenzioni altrove (un altrove molto vasto a partire magari da tante storie-fake risorgimentali).

Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020

Sepolti dai pregiudizi contro il Sud. «Bufale blasonate». Sepolti dai pregiudizi contro il Sud. Di e da pietrodesarlo.it il 6 luglio 2021. Nel libro “Perché il Sud è rimasto indietro” l’autore, Emanuele Felice,  fornisce la serie storica del divario Nord – Sud dal 1871 ad oggi. Avvisa subito che i dati del 1861, anno in cui fu annesso il Regno Duosiciliano, non ci sono, e che ricostruirli “… sarebbe un esercizio poco serio e quindi risparmiamocelo”. Però, dopo poche pagine, si lancia proprio nell’”esercizio poco serio” e afferma che nel 1861 fatto 100 il PIL pro capite nazionale quello del Sud era tra il 75% e l’80%. Ci spiega poi che, grazie all’Unità d’Italia, il PIL del Sud crebbe miracolosamente per 10 anni fino al 90% del 1871, anno in cui le serie storiche diventano universalmente accettate.  Però appena queste diventano ufficiali puff … il miracolo finisce e dal 1871 il divario peggiora costantemente. Nel 2001 il Sud è al  69% del PIL medio italiano, e oggi siamo intorno al 65%. In sintesi per Felice quando non c’erano i dati, proprio grazie all’Unità d’Italia, il divario Nord – Sud è diminuito, ma da che ci sono i dati è invece aumentato ma non a causa dell’Unità d’Italia. Perché allora? E qui il nostro si lancia nella solita poltiglia anti meridionalista giustificandola prendendo i numeri e i fatti che gli fanno comodo e ignorando gli altri.

Luca Ricolfi. Qualche anno prima di Felice, Ricolfi aveva pubblicato un libro “Il sacco del Nord”. In questo libro sostenne che il Sud viveva alle spalle del Nord e che in realtà fosse più ricco del Nord stesso. Come? Dando un valore economico al tempo libero. Vengono così stravolti i divari Nord Sud. Ovviamente dimentica, il Ricolfi, che l’abbondanza di un bene lo deprezza e che il tempo libero di un disoccupato ha un valore diverso da quello di un neurochirurgo, ma tant’è. Nella pubblicistica antimeridionale tutto fa brodo.

Barbero e Augias. Passiamo a Barbero, che per contestare i Neo Borbonici su Fenestrelle scrive un corposo libro . I Neo Borbonici pongono la quota a cui si trova il Forte di Fenestrelle a 1800 metri sul livello del mare, Barbero a 1200. Differenza non da poco per stabilire quanti fossero nel 1861 i morti tra i prigionieri mal nutriti e mal vestiti dell’esercito napoletano chiusi nel Forte posto nella gelida Val Clusone. Chi ha ragione? Nessuno dei due. In realtà il Forte è un insieme di strutture poste tra quota 1200 e quota 1800. Però Barbero è rock e non fa propaganda ma storia, i neo borbonici sono lenti e guai a chiamare  Barbero neo sabaudo. Andiamo ad Augias che sulle vicende risorgimentali, quando non gli conviene, propone l’oblio … a senso unico però, visto che a Torino, presso l’università statale, c’è un Museo dedicato al Lombroso. Di la dalle intenzione del Lombroso stesso le sue teorie furono utilizzate per giustificare la feroce repressione ai briganti, relegandoli a sub specie umana. Come Felice, memoria selettiva: ricordiamo quello che conviene.

Perché faccio questa tiritera? Perché la pubblicistica anti meridionale crea un costante pregiudizio nei confronti del Mezzogiorno e quindi tutte le volte che c’è un pregiudizio non si riescono a capire cause e soluzioni dei problemi.

Quando questi pregiudizi sono poi diffusi da Felice, che è il responsabile economico del PD che ha proprio nel Sud il proprio bacino elettorale, da Ricolfi, che si definisce illuminista e fa parte della fondazione che pomposamente si richiama a Hume, oppure da mostri della cultura in pillole come Augias e Barbero diventa quasi impossibile ragionare e capire. Se uno ci prova viene insultato sui social.

Facciamo una prova. Se vi chiedessi perché la sanità campana funziona peggio di quella lombarda cosa rispondereste? Non fate i timidi, suvvia! Bravi, ci siete: i campani sono brutti, sporchi e cattivi. Insomma la risposta antropologica è l’unica che vi viene in testa. A nessuno mai verrebbe in mente di rispondere perché lo Stato spende in Campania per la sanità 1.593,11 euro anno per abitante mentre in Lombardia ne spende 2.532,79.

Sorpresi? Ora vi tolgo il fiato perché lo so già che state pensando che tanto è inutile dare soldi ai campani perché li butterebbero dalla finestra. Ma il monitoraggio della spesa sanitaria italiana mostra che in un solo anno, e tutti gli anni da 10 anni, la sanità campana produce un avanzo di gestione di più di 43 milioni di euro. Quello che la ricca Lombardia ci mette 10 anni a produrre. Ma le sorprese non finiscono qui. Per le politiche sociali, che insieme a quelle per la sanità rappresentano il 50% delle spese regionali, nel 2018 in Lombardia sono stati spesi 6.711,16 euro per abitante. E in Campania? Solo 4.672,77!

Differenze imbarazzanti. Le differenze sono imbarazzanti e moltiplicandole per il numero di abitanti della Campania si vede che questa riceve 17 miliardi di euro l’anno in meno, che per 10 anni fanno 170 miliardi. Se applichiamo questa differenza a tutto il Sud parliamo di 45 miliardi l’anno che in 10 anni fanno 450 miliardi: più del doppio del recovery plan. E fino ad ora non abbiamo parlato del divario infrastrutturale del Sud con il Nord. Se proprio sentite la necessità di arrampicarvi sugli specchi ora direte che la spesa pubblica non produce PIL. Eccome se lo produce! Si possono assumere medici e infermieri scegliendo i migliori, attrarre malati da altre regioni che portano i loro famigliari a occupare alberghi e pensioni per l’assistenza ai parenti. Con i quattrini per la coesione sociale si sviluppa il terzo settore. Andate a vedere in Lombardia quanti ci campano! Siete tramortiti, ammettetelo. Vi vedo affannati a cercare conferme ai vostri pregiudizi nell’evasione fiscale, ma, fidatevi, l’evasione, se in tale ambito mettiamo anche quella legale dei grandi gruppi, FIAT, Ferrero, Mediaset, eccetera, è di gran lunga maggiore al Nord e la povera Basilicata, per esempio, ha un incidenza di imposte pagate sul PIL simile a quella della Lombardia, a dispetto della progressività impositiva.

E la Cassa per il Mezzogiorno? Finalmente vi vedo sorridere, pensate di avermi fregato: e la Cassa per il Mezzogiorno dove la mettiamo?  La Cassa nacque nel 1950 per la viabilità rurale al Sud. Volete dirmi che nello stesso periodo non è stato fatta neanche una strada interpoderale al Nord? A parte le autostrade e il resto, intendo. Oppure che qualche aziendina del Nord, come la Fiat per esempio, non ha munto alle casse pubbliche per decenni tra incentivi e cassa integrazione? Il punto è che ogni spesa al Sud si strombazza come “intervento straordinario”, per fare un centesimo di quello che in silenzio si fa come “intervento ordinario” al Nord. Si guarda solo la parte straordinaria della spesa pubblica e mai si somma regione per regione la spesa corrente e quella per investimenti e si confrontano i totali. Se si facesse questo esercizio si scoprirebbe la vera ragione del divario Nord Sud: la differenza di spesa pubblica sia per le spese correnti sia per gli investimenti!!!

Fake News? Lo so che pensate che io spacci fake news? Ebbene no: qui trovate i dati della spesa pubblica ordinaria per regione e qui  il monitoraggio della spesa sanitaria. Su qualsiasi cartina d’Italia trovate invece la differenza di infrastrutture tra Nord e Sud, dall’Alta Velocità alle autostrade e persino sulla piantina dell’ultimo giro d’Italia che non è arrivato neanche ad Eboli. Ma anche il Giro d’Italia muove PIL e fa pubblicità ai luoghi dove passa.

Ma non ditelo a Felice o a Ricolfi che i dati preferiscono inventarli, invece di prenderli dai conti pubblici territoriali prodotti dalla relativa agenzia. Occorrerebbe prima esaminare i numeri e verificarne la consistenza, poi elaborare una teoria. Molti, come Ricolfi e Felice, preferiscono il contrario: elaborare una teoria e cercare una conferma nei … segni o nelle rune. È così che nascono i terrapiattisti.

Ma veniamo al PNRR. Se questo fosse ripartito in Italia con gli stessi criteri utilizzati dall’Europa per distribuirlo nei vari stati europei al Sud ne competerebbe il 70% almeno. Non ci credete? Qui c’è tutto .

Il fatto è che in Europa la divergenza tra le economie dei vari paesi è considerato un problema che potenzialmente può disgregare l’Europa stessa. Lo stesso presidente del consiglio, Mario Draghi,  nel suo ultimo discorso alla camera ha detto : “Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7” .

I due Draghi. Ovviamente si tratta del Mario Draghi che prima di diventare presidente del consiglio faceva il commesso alla Standa e non di quel Mario Draghi corresponsabile di questi disastri e di cui, per fortuna, non si sente più parlare e che da DG del Ministero del Tesoro scrisse i contratti per la svendita del patrimonio pubblico ai privati e comperò titoli tossici da Goldman Sachs. Che da Governatore della Banca D’Italia autorizzò l’acquisto di Antonveneta da parte di MPS. Che da neo Governatore della BCE scrisse una lettera, insieme a Trichet, con i compiti assegnati al governo Berlusconi, e che fece il Governo Monti e che da governatore della BCE mise, inutilmente visti i risultati, in ginocchio la Grecia. Ma quale è il punto di questa chiacchierata? Il punto è che il PNRR è un elenco di progetti privo di visione e che, purtroppo, darà esiti molto modesti rispetto agli sforzi richiesti.

Sepolti dal pregiudizio. Ma come si fa a maturare la visione di un futuro che recuperi centralità politica, logistica ed economica al Mezzogiorno d’Italia che è il centro del Mediterraneo che è a sua volta il luogo di incontro di tre continenti e dove invece di sviluppo e progresso c’è il desereto? Come si fa in una Italia divisa dai pregiudizi e dalla propaganda della pubblicistica antimeridionale a far comprendere l’importanza del Sud nelle strategie di sviluppo dell’intero Paese? Come si fa a far capire che il potenziale dei porti del Sud, in specie quello di Taranto e di Gioia Tauro, è un multiplo rispetto a quello di Genova e di Trieste? Come si fa a far comprendere tutto questo in una Italia in cui appena si parla del Ponte sullo Stretto ci sono i soliti soloni che affermano che fare il Ponte, e le infrastrutture, al Sud equivale a fare un regalo alla mafia? Come si fa a far capire che poi all’estero non fanno distinzione e che il pregiudizio dal Sud si trasferisce all’intero Paese? Non era un giornale tedesco a dire che dare i soldi all’Italia equivaleva a darli alla mafia? Ecco perché questa pubblicistica stucchevole contro il Mezzogiorno arricchita di analisi fantasiose e false uccide la capacità di rinascita non del Sud, ma dell’intero Paese perché impedisce di capire i problemi e individuare  le soluzioni. Inoltre questi continui pregiudizi sul Sud rendono diviso il Paese diffondendo tossine sempre più difficilmente smaltibili ma quando i seminatori di tossine sono parte fondante di quel ceto che dovrebbe invece combattere i pregiudizi al Paese non resta che soccombere.

IL SUD CHE LOTTA ANCHE SENZA GLI IMPIANTI HA CONQUISTATO 6 ORI SU 10 ALLE OLIMPIADI DI TOKYO. Il Corriere del Giorno il 10 Agosto 2021. La mappa pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera sui luoghi in cui in Italia si pratica l’atletica leggera, conferma che la Puglia e le altre regioni meridionali sono assenti. Meno “trombonate” sotto mentite spoglie di elogi e dichiarazioni politiche. Più palestre, piste, piscine e impianti anche per gli sport cosiddetti “minori”. Dieci medaglie d’oro alle Olimpiadi, tre conquistate da atleti pugliesi; una da un calabrese d’adozione, nato in Texas, due medaglie con la vittoria nella 400×100, insieme a un sardo e a due lombardi, uno di origine sarda, l’altro nigeriana; un’altra medaglia d’oro vinta da un siciliano. I nomi dei nostri azzurri saliti sul podio olimpionico sono ormai ben noti a tutti.  La vera sorpresa di questi Giochi è stata la Puglia che ha regalato ben tre ori e un argento con la vera sorpresa di questi Giochi è la Puglia che ha regalato ben tre ori e un argento con Vito Dell’Aquila, Massimo Stano, Antonella Palmisano e Luigi Samele, rispettivamente delle province di Brindisi, Bari, Taranto e Foggia. La distribuzione delle medaglie italiane – 10 ori, di cui la metà nell’atletica, 10 argenti e ben 20 bronzi, record nel record – è spesso frutto di lavoro di squadra e quindi superiore alle 40 assegnate per disciplina. La mappa che emerge è dominata dagli atleti delle Regioni settentrionali: ben 36, infatti, provengono dal Nord, 18 dal Centro, 17 dal Sud e dalle isole. Ma il nostro Sud ha conquistato 6 medaglie su 10 calcolando solo quelle di oro, oltre a quella, storica, vinta nella boxe dalla campana Irma Testa, medaglia di bronzo che vale nel suo caso più dell’oro con una delle storie più belle, probabilmente non la più bella, di questa Olimpiade. Emblematiche le parole della la pugilatrice azzurra : ” Sono felicissima, tenere in mano questa medaglia è uno dei momenti più belli della mia vita. Penso alla mia scalata, ai sacrifici che ho dovuto fare, da dove sono partita e dove sono oggi. Il mio è stato un percorso di riscatto: ce l’ho fatta, la medaglia olimpica è il sogno di ogni atleta. Tutto quello che ho fatto è servito a qualcosa. A chi la dedico? Alla mia famiglia che ha fatto tanti sacrifici per me, il maestro con cui ho iniziato, Biagio Zurlo, e il maestro di oggi Emanuele Renzini che ha fatto di tutto per farmi arrivare fin qui”.  Atleti ed allenatori che non guadagnano come i calciatori e gli allenatori diventati delle vere star milionarie. Più della metà dell’oro italiano è figlio del Sud; i meridionali su 384 atleti tricolore a Tokyo, sono soltanto 66 mentre dalla Lombardia ne sono partiti 59. Tutto ciò significa che il Sud, pur vantando un terzo della popolazione nazionale, è stato presente con un sesto della delegazione sportiva italiana alle Olimpiadi di Tokyo, ma smentendo i numeri e le politiche ottuse che non garantisce adeguati impianti sportivi nel mezzogiorno d’ Italia conquistato il 60 per cento delle medaglie d’oro . Basti pensare che l’Italia nella marcia, aveva 5 concorrenti, 3 dei quali pugliesi, e 2 dei tre pugliesi hanno conquistato la medaglia d’oro: maschile e femminile per l’Italia. Riassumendo i dati del medagliere azzurro alle Olimpiadi di Tokyo un sesto degli atleti è figlio del sud, conquistando il 60 per cento dell’oro tricolore. Fa riflettere l’attenta osservazione di Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione ConIlSud:  nella “equa” distribuzione degli impianti sportivi, delle possibilità offerta ai giovani di fare sport, lo sbilanciamento territoriale delle infrastrutture dell’Italia non si smentisce: a fronte di 41 metri quadrati pro-capite di aree sportive a disposizione dei ragazzi residenti nel Nord-Est, sono soltanto 4 i metri quadrati al Sud . Fra le 10 province italiane con minor numero di palestre, 9 sono meridionali e tutte e 5 le province calabresi sono presenti in quelle 9. Il medagliere degli atleti figli del Sud hanno reso quattro volte più (in oro) alle Olimpiadi, ma lo hanno fatto avendo a disposizione in proporzione aree sportive, palestre e attrezzature, dieci volte in meno rispetto agli atleti del Nord. Lo sport mette in competizione, ma rende gli atleti “fratelli” e le differenze territoriali-strutturali scompaiono sui campi di gara, sulle pista, perché lo sport è uno degli strumenti più efficienti di unione nazionale e condivisione sociale. Il nostro amato Sud ha dato prove incredibili di orgoglio, nonostante lo svantaggio impostogli anche nello sport. L’esempio è rappresentato dalla storia del barlettano Pietro Mennea: l’italiano più veloce di sempre che stupì il mondo, il cui record sui 200 metri, dopo 40 anni ancor’oggi imbattuto in Europa,  era costretto ad allenarsi su tratturi campestri e strade asfaltate, non avendo piste a campi di atletica adatte. Pietro Mennea dal fisico sgraziato ed ossuto rappresentava visivamente l’antitesi strutturale del velocista . Per chi ha buona memoria i suoi avversari erano tutti muscoli e potenza, mentre lui pareva il più debole fisicamente, ma quando partivano la “Freccia del Sud” correva contro tutto e tutti, talvolta persino contro se stesso entrando in crisi a Mosca. Il suo storico avversario russo Valeriy Borzov, lo aiutò e spinse a ritrovare se stesso, dicendogli quello che rendeva grande l’atleta: “Non ho mai visto tanta volontà in un uomo solo“. Assurdo scoprire che quando hanno finalmente pensato di realizzare un campo d’atletica a Barletta, degno di essere chiamato tale, l’ex delegato regionale pugliese del Coni Elio Sannicandro (con un passato di assessore della giunta Emiliano al Comune di Bari) venne beccato con le mani nella marmellata affidando l’appalto di progettazione per circa 800mila euro ad un suo nipote ! Ed ancora più assurdo e vergognoso è ritrovarlo a capo dell’ ASSET, l’agenzia regionale pugliese che vuole organizzare e realizzare le strutture dei Giochi del Mediterraneo che vorrebbero organizzare in Puglia nel 2026. La mappa pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera sui luoghi in cui in Italia si pratica l’atletica leggera, conferma che la Puglia e le altre regioni meridionali sono assenti. Meno “trombonate” sotto mentite spoglie di elogi trionfalistici e e le solite dichiarazioni politiche. Più palestre, piste, piscine e impianti anche per gli sport cosiddetti “minori”. Così come non esiste famiglia, non c’è palestra, più di quella di judo dei Maddaloni che abbia conquistato più medaglie all’Italia.  Questa volta siamo in Campania, che grazie a papà Gianni Maddaloni che la volle a Scampia, nel quartiere simbolo del degrado sociale. Ma il vero combattimento quotidiano di Gianni sono le bollette, i conti da pagare, rifiutando tutte le offerte di trasferire altrove a Napoli la sua palestra, che gli avrebbe consentito di non aver più avuto problemi di soldi. Maddaloni però preferisce restare a Scampia, esentare i frequentatori che non possono pagare le rette mensili, aiutare i disabili. Gianni Maddaloni spiega e racconta sempre a tutti che la forza dei ragazzi delle Vele di Scampia è la rabbia che spesa male, si ribella ad una società che discrimina, esclude, mentre quando viene controllata ed educata da un allenatore capace di avere una visione, si trasforma in medaglie, risultati, crescita personale e sociale do ogni atleta. Lo sport è un campanello d’allarme per il nostro Paese. Tenendo ben presente che pur avendo strutture sportive dieci volte in meno del resto d’ Italia, gli atleti del Sud hanno vinto in proporzione quattro volte di più, è sempre possibile trovare l’imbecille di turno pronto a dire senza vergogna alcuna : “Vuol dire che non ne hanno bisogno”!

Ecco perchè i poveri del Mezzogiorno restano poveri e il Nord si arricchisce. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. LA “NUOVA frontiera” della questione meridionale sono i Lep – e i Fab, e la Sose. A questo punto, per non scoraggiare il lettore, andiamo a districare la matassa di questa “nuova frontiera” partendo dalla zuppa di acronimi.

I Lep sono i “Livelli essenziali di prestazioni”, cioè quegli ammontari di servizi che devono essere disponibili per ogni cittadino: asili nido, spazi verdi, scuole, ospedali, connessioni, strade, raccolta rifiuti… il tutto in relazione all’area e alla popolazione.

I Fab sono i “Fabbisogni standard” che, come spiegheremo meglio in seguito, si potrebbero definire come i "parenti poveri" dei Lep.

La Sose (Soluzioni per il Sistema Economico Spa) è una società per azioni creata dal Ministero dell’economia e delle finanze e dalla Banca d’Italia per l’elaborazione degli ISA -Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (strumento che ha sostituito gli studi di settore) nonché per determinare i fabbisogni standard di cui sopra.

E torniamo ai Lep. Il lignaggio è illustre. Come si legge nel box, la Costituzione prescrive, all’Articolo 117 che lo Stato determini i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». “L’uomo propone, Dio dispone”, dice un vecchio proverbio. Audacemente sostituendo a Dio il Governo della Repubblica italiana, si potrebbe speranzosamente parafrasare il detto in: “La Costituzione propone, il Governo dispone”. Il problema è che il Governo non dispone: a tre quarti di secolo di distanza dalla prescrizione costituzionale, questi Lep non sono mai stati determinati. Lo scopo dei Lep, ovviamente, era quello di rispondere a un altro pressante invito della Costituzione, che all’Articolo 2 statuisce che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ci fu qualche tentativo di rimediare alla colpevole omissione della messa in campo dei Lep. Più di dieci anni fa (Legge 42/2009) il Governo legiferò che i detti Lep dovevano essere introdotti – un altro “propone” – cui però non seguì mai un “dispone”. Ma non c’è il “Fondo perequativo” disposto (vedi Box) all’Articolo 119 della Costituzione? Sì, c’è, ma non perequa veramente. “Il diavolo è nei dettagli”, afferma un altro vecchio detto. E una più che meritoria ricerca della Fondazione Openpolis è andata ad annusare nei dettagli. Rispondendo a una richiesta del Comune di Catanzaro, la ricerca si è chinata sul perché e sul percome dei fondi ricevuti da quel Comune a valere sul Fondo perequativo.

Per spiegare i meccanismi del Fondo perequativo partiamo da due concetti: fabbisogni standard (Fab) e capacità fiscale. I primi sono determinati dalla Sose valendosi di una serie di indicatori che si basano in massima parte sulla spesa sostenuta per una serie di servizi (che dovrebbero mimare i famosi ‘livelli essenziali di prestazioni’). La seconda si riferisce alle entrate proprie dei Comuni. Orbene, i Comuni italiani contribuiscono al Fondo quando la loro capacità fiscale (entrate proprie) è superiore alla spesa per i Fab; e ricevono dal Fondo quando i Fab sono superiori alla spesa. In teoria questo meccanismo dovrebbe portare alla riduzione delle diseguaglianze territoriali: dato che i Comuni con ridotta capacità fiscale sono i più poveri, questi finirebbero per ricevere, riducendo quindi le distanze dai Comuni più ricchi. Ma questo non avviene per una semplice ragione, legata al modo con cui vengono calcolati i Fab: essendo questi calcolati sulla spesa per i servizi, i Comuni del Nord, che offrono più servizi, avranno Fab più alti. Mentre i Comuni che offrono meno servizi spendono meno e di conseguenza si vedono riconosciuti fabbisogni più bassi. Il lettore avvertito riconoscerà in questo modo di procedere la stessa stortura sulla quale questo giornale si è scagliato dal giorno della fondazione: il criterio della spesa storica. I soldi che lo Stato spende nelle diverse Regioni italiane sono erogati sulla base della spesa dell’anno prima, talché chi riceveva di più continua a ricevere di più. Il meccanismo del Fondo perequativo è simile, conclude giustamente la ricerca di Openpolis: “genera un circolo vizioso: anziché abbattere le disparità, penalizza nella ripartizione proprio i territori con meno servizi, allargando in prospettiva il divario tra le aree del Paese”. La soluzione a questo stato di cose non è difficile: si tratta di definire i Fab, innalzandoli, dal rango di parenti poveri dei Lep, a dei veri Lep, con indicatori fisici, quantitativi, anziché di spesa: per esempio, per gli asili-nido, stabilire che devono essere tot per ogni 1000 abitanti in quella fascia di età.

Il Governo Draghi sta facendo dei passi in questa direzione. Sia la ministra Mara Carfagna che la vice-ministra al Mef Laura Castelli spingono per una definizione di Lep efficaci ed efficienti. La conferenza Stato-città, riunitasi il 22 giugno 2021, ha adottato lo schema di decreto per le spese sociali del Presidente del consiglio dei ministri, con una particolare attenzione agli asili-nido. Ma per passare dal “propone” al “dispone” i compiti non sono solo del governo centrale. Le amministrazioni locali, che devono fornire alla Sose le materie prime per il calcolo dei Fab, sono spesso latenti. La ricerca di Openpolis ne ha dato una grafica distribuzione nel caso di Catanzaro. Come si vede dalla tabella, che si riferisce ad alcuni dati Sose 2017 per Catanzaro, succede che le informazioni siano assenti o carenti. Risulta poco verosimile, si chiede giustamente Openpolis, “che in un comune di questo tipo, in un anno non siano state effettuate potature di piante, né riconosciuti permessi per sosta disabili e accesso ZTL, né stipulati contratti da parte del comune”. Nell’ottica einaudiana di "conoscere per deliberare", le amministrazioni comunali devono essere in grado di fornire a Sose dati e informazioni corrette. È “fondamentale che i comuni, specialmente i più grandi, siano dotati di un ufficio statistico che si occupi della raccolta sistematica dei dati relativi ai servizi, alle strutture, alle attività del territorio”, e li collochi in piattaforme accessibili “opendata che permettano a tutti (cittadini, giornalisti, società civile) di accedere ai dati, di scaricarli ed elaborarli in articoli, report, campagne, con finalità informative o di attivismo civico”. La definizione dei Lep, il superamento dell’iniquo criterio della spesa storica, sono la chiave per chiudere finalmente i divari fra Centro-Nord e Mezzogiorno nella cruciale fornitura di servizi pubblici, e per avviare a compimento quell’Unità d’Italia che esiste sulla carta e che vogliamo esista nei fatti. Ma per questo, tutti devono fare la loro parte, in tutti i punti cardinali della Penisola.

L'ingiusta ripartizione delle risorse statali che affossa il futuro dei cittadini meridionali. Massimo Clausi su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. QUALCOSA si muove nei Comuni calabresi. E verrebbe da scrivere: finalmente. I sindaci, a partire da quello di Catanzaro, Sergio Abramo, si sono accorti della grande balla, narrata da anni, del Sud sprecone che rappresenta la palla al piede per il Paese e hanno capito che in realtà, dietro le difficoltà economiche dei municipi, grandi e piccoli, meridionali c’è l’ingiusta ripartizione delle risorse da parte dello Stato. Il Comune di Catanzaro che nel solo 2021, a fronte di un fabbisogno di 11,4 milioni, ne riceve meno di 4 è un dato che grida vendetta.

PRIVAZIONE SCIENTIFICA. Una privazione quasi scientifica, come in splendida solitudine ha dimostrato questo giornale con numeri e dati, che ha prodotto un risultato esplosivo. Se guardiamo alla Calabria troviamo 46 Comuni in dissesto, fra cui capoluoghi di provincia come Cosenza, Reggio Calabria, Vibo, e 35 in pre-dissesto fra cui città importanti come Rende e Lamezia Terme. A questo dobbiamo aggiungere un’evasione fiscale importante dovuta da un lato alla debolezza del tessuto sociale calabrese, dall’altro dalla difficoltà dei Comuni a effettuare la riscossione. Il risultato finale è un mix micidiale, visto che i sindaci devono comunque garantire i servizi minimi essenziali come acqua, rifiuti, trasporti che troppo spesso i cittadini calabresi si vedono negati. Prendiamo ad esempio il bubbone della sanità. La Ragioneria generale dello Stato lo scorso anno ha indicato chiaramente i soldi distribuiti per la sanità per ogni cittadino italiano. La media è 1.920 euro, mentre i calabresi ne percepiscono 1.760: la differenza è quasi 200 euro pro-capite, il che significa, per una regione come la Calabria, 400 milioni di euro. «Ricordo – ha detto il sindaco Abramo ieri in conferenza – che la Calabria è commissariata per uno sforamento del bilancio di 300 milioni, e di questi 200 milioni 140 li pagano i calabresi con l’addizionale Irpef, 60 lo Stato. Se la Calabria riuscisse ad avere quello che ha la Lombardia, la nostra sanità avrebbe 400 milioni in più: con 200, quindi, pareggeremmo il bilancio, gli altri 200 li potremmo investire. Questa differenza non è giusta».

I FONDI EUROPEI. Su questo sfondo si inserisce poi il tema dei fondi europei che troppo spesso, anziché essere aggiuntivi rispetto alle risorse statali, di fatto sono stati troppo a lungo sostitutivi. Anche su questo punto, però, è nato il luogo comune di un Sud incapace di spendere le risorse generosamente concesse dall’Europa. Certo, i numeri assoluti sembrano parlar chiaro, con un monte di risorse che tornano indietro e, a furia di rimodularle, diventano quasi virtuali. Il punto, però, è che molti Comuni sono nell’incapacità di spendere questi stanziamenti per il famoso blocco del turn over che ha reso la burocrazia del Meridione scarsa nell’organico, avanti negli anni, decisamente poco tecnologica. Un esempio paradigmatico, visto che siamo in estate, in Calabria è la depurazione. Nei cassetti della Regione da anni ci sono i quattrini (parliamo di milioni di euro) per l’ammodernamento o il riefficentamento dei depuratori. Il problema è che i sindaci non hanno il personale adatto per la progettazione o per bandire le gare europee e quei soldi rimangono sempre lì, mentre l’Unione europea continua a comminarci sanzioni su sanzioni a causa delle infrazioni legate alla depurazione. Un tema, questo, che torna di grande attualità con il Pnrr, come pure è emerso nel corso dell’incontro di Catanzaro. Anche qui siamo di fronte a una sfida che il Meridione rischia di perdere se non si metteranno in sicurezza i Comuni sotto il profilo finanziario e della dotazione organica. Allora fanno bene i sindaci a tenere alta la guardia e pretendere un’inversione di rotta netta rispetto al passato.

Lo scandalo di una tv pubblica pagata da tutti ma che promuove solamente il Centronord. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. AMADEUS sarà il conduttore del prossimo festival di Sanremo. Mancano “appena” sei mesi all’evento e già la tv pubblica strombazza la notizia, che evidentemente interessa molti italiani. Il festival è un evento ormai conosciuto in tutto il mondo, con ascolti da capogiro e tradizione importante. Bene ha fatto la Rai a farne uno dei programmi di punta della propria programmazione.

LO SQUILIBRIO STORICO. Il servizio pubblico spesso sponsorizza eventi importanti del Paese che vengono così conosciuti e apprezzati, oltre che in Italia, in tutto il mondo. La Scala è al centro della programmazione dell’Opera lirica. Rai 5 vive trasmettendo le opere, sempre con un cast di primissimo piano, che La Scala propone. Così come tutto quello che accade all’Arena di Verona costituisce evento nazionale. E il festival del cinema di Venezia ha sempre grande spazio, come è giusto, nella programmazione televisiva pubblica. La domanda che ci si pone, però, è se un servizio pubblico possa concentrarsi solo sugli eventi di una parte del Paese, anche se questi dovessero essere migliori rispetto a quelli che si svolgono in altre parti. Se una televisione pubblica, pagata con i canoni di tutti gli italiani, peraltro non in proporzione al loro reddito tranne che per poche fasce esentate, si possa consentire di concentrarsi solo su una parte. Se, per esempio, non si possa e non si debba puntare anche sugli eventi, per esempio, del teatro greco di Siracusa, rappresentazioni uniche al mondo, o sulla Sagra del mandorlo in fiore di Agrigento, che si svolge in una Valle fiorita di mandorli che è un must da vedere, o se non si possa spingere eventi che si svolgono a Ravello o a Taormina, piuttosto che a Segesta o a Ercolano, a Pompei, a Napoli. In realtà l’esigenza che il Sud abbia media nazionali che facciano da megafono rispetto non solo agli spettacoli, ma alle istanze, alle problematiche di questi territori diventa sempre più importante.  

DISINFORMAZIONE SISTEMATICA. E invece si assiste alla progressiva chiusura di testate (l’ultima è quella della Gazzetta del Mezzogiorno) che in ogni caso non sono state mai nazionali, ma che hanno rappresentato voci di queste terre. E anche nell’informazione il Sud diventa area colonizzata, nella quale arriva quello che la classe dirigente nazionale, prevalentemente centrosettentrionale, vuole che arrivi. Per cui è necessario che arrivi un nuovo quotidiano, il nostro, per quella Operazione verità che una stampa attenta e non di parte, né parziale, avrebbe potuto svolgere. Nella quale passa soltanto l’informazione canonica che difficilmente dà spazio a visioni eretiche o a punti di vista meno maggioritari. L’informazione, per esempio, sul ponte di Messina è esemplare rispetto al modo in cui le problematiche economiche e sociali del Sud vengono trattate. Disinformazione, ampliamento delle posizioni critiche, fino a stravolgimento della realtà. Mentre al momento opportuno si ha l’invio di giornalisti, che raccolgono informazioni spesso dai tassisti per poi dare un’immagine del Sud molto pittoresca, ma spesso non veritiera. È chiaro che tutto questo non giova al Paese, perché la mancata conoscenza della realtà porta a decisioni del governo nazionale totalmente distanti dalle esigenze reali. Mentre interessi di parte, spesso proprietari di media nazionali, fanno il loro mestiere per difendere interessi consolidati o per accreditare verità parziali. L’informazione recente diffusa nel Paese a proposito della pandemia dà una visione della realtà che conduce al discorso fatto fino adesso.

AL DI SOTTO DI ROMA È TUTTA SERIE B. Quando vi è da intervistare un virologo, un medico, non si capisce perché debba essere sempre di Bologna o Padova, come se i ricercatori e i medici del Mezzogiorno fossero assolutamente di livello inferiore. Questo avviene anche quando si parla di economia, per cui le università meridionali sono sempre sottorappresentate. Si capisce che questo poteva avvenire quando le trasmissioni venivano realizzate con la presenza fisica, e allora era più facile utilizzare professionalità più vicine. Ma adesso che tutto avviene via web non si capisce questa discriminazione. Se non con un preconcetto di fondo, sempre presente, che le professionalità sotto Roma siano di serie B. Peraltro anche i direttori di giornali che vengono chiamati sono sempre di una parte, anche se magari dirigono testate assolutamente con diffusione limitata, come la Nazione, ma che hanno grande spazio, e tutto ciò avviene anche nella televisione pubblica. Sindrome da vittimismo, la mia, o reale fenomeno da denunciare? Certamente è un argomento sul quale riflettere.

BARAGHINI VUOL DIRE CENSURA. Marco Castoro su Il Quotidiano del Sud il 6 agosto 2021. Cari Lettori del Quotidiano del Sud, parenti e amici nonché telespettatori di SkyTg24, vi vorremmo rassicurare: il nostro e vostro quotidiano è vivo, è in edicola, è su internet e sui social. Non fatevi condizionare dalla rassegna stampa notturna di Skytg24 che quando è condotta da Francesca Baraghini ignora il nostro e vostro quotidiano. In rassegna ci sono più di 20 prime pagine diverse ma del Quotidiano del Sud neanche l’ombra. Per fortuna questo tipo di censura avviene soltanto quando c’è la Baraghini. Aspettiamo tutti con ansia il cambio turno.

I Comuni più indebitati sono al Sud ma gli aiuti di Stato volano al Nord. Vincenzo Damiani u Il Quotidiano del Sud il 23 giugno 2021. I Comuni del Sud sono in difficoltà nel far quadrare i conti e sono i più indebitati. Ma gli aiuti per superare la crisi generata dal Covid si sono concentrati soprattutto al Nord. È quanto emerge dall’indagine della sezione delle Autonomie della Corte dei conti che ha approvato la “Relazione sulla gestione finanziaria di Comuni, Province, Città metropolitane per gli esercizi 2019-2020”. Complessivamente, attraverso l’analisi della gestione di cassa dei Comuni «si è rilevato – si legge nel report – che nell’esercizio 2020 non si sono manifestate le tensioni temute per effetto della crisi sanitaria in quanto è stato offerto, in via preventiva, un adeguato sostegno alle immediate esigenze di risorse stimate alla luce degli andamenti storici dei flussi delle riscossioni e dei pagamenti».

Ma questo non vale per tutti gli enti locali: i magistrati, infatti, rilevano che «l’indagine condotta sulle procedure di riequilibrio finanziario pluriennale conferma come le criticità finanziarie sono prevalentemente concentrate negli enti del Centro-Sud».

L’INDEBITAMENTO. Come sempre, i numeri descrivono la situazione: nel 2019, il debito pro-capite dei Comuni è molto più elevato al Sud rispetto al resto d’Italia. La Campania è quella messa peggio, con un debito per abitante pari a 2.206 euro, il più alto del Paese e sul quale incide la “vicenda Napoli”. Ma la Calabria non può certo sorridere: il debito pro-capite accumulato dai Comuni è di 2.159 euro. Si tratta delle due regioni più in difficoltà a cui fa da contraltare la Puglia, dove il debito pro-capite nel 2019 era di 951 euro, sotto la media italiana, pari a 1.228 euro. Sopra la media, invece, la Basilicata (1.325 euro). Al Nord, le due regioni più in “sofferenza” sono la Liguria (1.649 euro pro capite) e il Piemonte (1.547 euro), mentre le altre sono tutte sotto la media nazionale: Lombardia (1.060 euro), Veneto (733), Emilia Romagna (758), Toscana (907), Friuli (1.025). «I Comuni (5.558) osservati – si legge nella relazione – presentano complessivamente debiti pari, nel 2018, a 63.790,9 milioni di euro e nel 2019, pari a 62.443,6 milioni di euro, con una riduzione pari a -2,1%. I Comuni più grandi (oltre i 250.000 abitanti) hanno manifestato tra il 2018 e il 2019 una inversione di tendenza rispetto a quanto rilevato nel precedente rapporto, registrando una riduzione dell’indebitamento pari a 320,96 milioni di euro». «Si osservano – precisano i magistrati contabili – significative variazioni sull’indebitamento complessivo tra il 2018 e 2019 in termini percentuali sia per i Comuni della Regione Calabria (133 milioni, + 5,5%), sia per quelli della Regione Lazio (247 milioni + 3,4%) e per importi decisamente inferiori, anche per alcuni Comuni della Sicilia, rispetto alla tendenza delle altre autonomie locali a ridurre l’indebitamento complessivo anche con percentuali importanti, come nel caso dei Comuni della Campania che hanno ridotto del 16,5% il proprio indebitamento per un ammontare complessivo di 217,2 milioni di euro ed i Comuni della Regione Lombardia del 15,5% pari a un ammontare complessivo di 371,3 milioni».

AIUTI PER IL COVID: LA DISTRIBUZIONE. Questa la situazione pre Covid: ora vediamo cosa è successo nel 2020. Il decreto Rilancio ha previsto l’istituzione di un fondo con una dotazione di 3,5 miliardi di euro per l’anno 2020 per assicurare agli enti locali le risorse necessarie per l’espletamento delle funzioni fondamentali. La dotazione è stata successivamente integrata con ulteriori 1,67 miliardi per il 2020, di cui 1,22 miliardi in favore dei Comuni e 450 milioni in favore di Province e Città metropolitane. «Il riparto del fondo – spiega la Corte dei conti – è demandato a un decreto del ministro dell’Interno (di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze e previa intesa in Conferenza Stato Città e Autonomie locali), sulla base degli effetti determinati dall’emergenza Covid-19 sui fabbisogni di spesa e sulle minori entrate». Risultato: «Analizzando i dati pubblicati dal ministero dell’Interno a fine 2020 – evidenziano i magistrati – si evidenzia una netta prevalenza di ristori per presumibile perdita di gettito stimata nei Comuni del Nord Italia (53%) a fronte di una particolare contrazione delle entrate nella zona nord-occidentale, che ha maggiormente risentito degli effetti della crisi sanitaria. In particolare, solo in Lombardia vengono assegnate risorse (con clausola soglia minima e salvaguardia acconti) per un importo totale di circa 880 milioni. Seguono, poi, i Comuni del Lazio con 413 milioni di risorse assegnate e del Veneto con 377 milioni». «Provando ad aggregare i dati secondo l’area di appartenenza dei Comuni – si legge ancora – emerge che la maggior parte delle risorse destinate al ristoro delle entrate è stata destinata agli enti appartenenti alle Regioni del Centro-Nord, come conseguenza delle stime effettuate dalla Ragioneria sulla perdita di gettito riscontrata, attraverso un confronto con l’esercizio precedente. La distribuzione dei ristori per le maggiori spese sostenute a seguito dell’emergenza presenta lievi differenze». I Comuni della Lombardia hanno ricevuto il 20,4% del totale dei ristori per le mancate entrate, segue il Lazio con il 17,3%, Toscana con il 12,1% e il Veneto con l’11,1%. La Campania ha ricevuto il 6,6%, la Puglia il 3%, la Basilicata lo 0,5% del totale, la Calabria l’1,5%. Per quanto riguarda, invece, i ristori per le maggiori spese sostenute, i Comuni lombardi hanno ricevuto il 26,6% del totale del fondo.

COMUNI IN DISSESTO. È sempre al Sud che si concentra il maggior numero di Comuni che hanno dichiarato “fallimento”. I dissesti attivi, deliberati tra il 2016 e il 2020 sono 154, «con una significativa concentrazione territoriale – scrivono i magistrati – in Calabria (42 casi), Campania (35) e Sicilia (40). I rimanenti 37 casi si rilevano nel Lazio (11), in Puglia (6), in Basilicata (4), in Abruzzo (3), in Lombardia (3), nel Molise (3), nelle Marche (2), in Piemonte (2) e, infine, un caso in Liguria (Lavagna), uno in Toscana (Massarosa) e uno in Umbria (Terni).

LO STATO DI SALUTE DEI COMUNI. Dall’analisi dei rendiconti finanziari, il risultato di amministrazione dei Comuni risulta complessivamente positivo (38,7 miliardi), ma al netto degli accantonamenti, dei vincoli e della parte destinata agli investimenti si determina un disavanzo di circa 6 miliardi (5,98 miliardi). I Comuni che hanno registrato un disavanzo sono complessivamente in aumento del 28% rispetto allo scorso esercizio: dall’indagine, si nota che prosegue nel 2019 la ripresa nella dinamica della spesa per gli investimenti che trova riscontro sia negli impegni (+17,7%) sia nell’incremento delle somme iscritte al fondo pluriennale vincolato (+15,2%), indice dell’avvio di iniziative da realizzare nel medio-lungo periodo.

Sanità Lombardia, ecco come il privato sceglie gli interventi più redditizi Le liste d’attesa. DATAROOM di Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 27 giugno 2021. La Lombardia è l’unica Regione italiana che ha stabilito per legge parità di diritti e doveri fra soggetti pubblici e privati convenzionati che operano all’interno del servizio sanitario. Le intenzioni della norma n. 31 voluta nel 1997 da Roberto Formigoni sono quelle di promuovere la competitività tra strutture per soddisfare meglio i bisogni dei pazienti, che possono scegliere dove farsi curare, e accorciare le liste d’attesa. E la Regione rimborsa indifferentemente gli uni e gli altri (all’interno di tetti di spesa contrattati). Ma la sanità lombarda presa spesso anche come esempio da esportare in altre regioni, ha davvero un sistema pubblico-privato in grado di garantire cure più tempestive? I dati, forniti dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) e che per la prima volta è possibile rendere pubblici, permettono di capire come funziona nella realtà il modello. L’analisi riguarda le tipologie dei ricoveri e degli interventi chirurgici eseguiti nel pubblico e nel privato e la corrispettiva entità dei rimborsi ottenuti dal sistema sanitario. Quel che emerge non è una conseguenza dell’intasamento degli ospedali causato dal Covid, perché è stata fotografata la situazione considerando i numeri del 2019. Dopo è andata solo peggio.

Posti letto a confronto. I posti letto totali sono 29.308, 70% pubblici e 30% privati. Vuol dire che di tutti i tipi di ricoveri, oltre 1,2 milioni, il 70% è pubblico e il 30% privato. Intanto su 100 posti letto in un ospedale pubblico, 45 sono occupati da chi entra per un’emergenza passando dal Pronto soccorso. Su 100 posti nel privato, solo 20 pazienti arrivano dal Ps. Per gli altri 80, le strutture accreditate possono programmare per tipologia i ricoveri. Per accedere in ospedale chi ha bisogno di un intervento chirurgico deve prenotarsi la visita specialistica: per le strutture pubbliche c’è un sistema di prenotazione trasparente dove il contact center regionale dice dov’è possibile andare e in che tempi. Per quelle private, invece, bisogna rivolgersi alle singole strutture accreditate che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno mai voluto mettere a disposizione pubblicamente le loro agende, nonostante siano state sollecitate a farlo già a partire dal 2016.

Quali prestazioni offre il privato? Per una lunga lista di ricoveri e interventi chirurgici il rapporto pubblico-privato 70 a 30 s’inverte, con alti volumi in una serie di prestazioni. Vediamo quali. Primo: gli interventi ben pagati, spesso a rischio inappropriatezza perché il medico ha ampia discrezionalità nel decidere se è utile o meno eseguirli. Sono quelli per obesità, che le strutture accreditate eseguono per il 74,5%, con un rimborso di 5.681 euro; sulle valvole cardiache, che valgono 21.882 euro e sono svolti dal privato per il 51% (a Milano per il 66,2%); le artrodesi vertebrali, dove vengono inchiodate le vertebre della schiena, fatte per oltre l’80% dal privato. Nell’agosto 2019 il rimborso da 19.723 euro è stato tagliato di quasi il 40% dall’allora direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo, proprio per renderli meno redditizi e tentare di limitare gli interventi inutili.

Interventi più remunerativi. Secondo: le prestazioni più remunerative delle specialità di cardiologia/cardiochirurgia e ortopedia. Si tratta di interventi che prevedono l’impianto di protesi, dove le strutture private già hanno margini di guadagno elevati perché negli acquisti hanno meno vincoli e standard del pubblico. A Milano, dove sono concentrati i colossi della Sanità accreditata, i privati impiantano il 60% dei defibrillatori (rimborso 19.057 euro), il 68% delle valvole cardiache (17.843 euro), l’88% dei bypass coronarici (19.018 euro). Inoltre: il 90% degli interventi sulle articolazioni inferiori (12.101 euro), e il 68% delle sostituzioni di anca e ginocchio (8.534 euro). Nell’intera regione comunque, per gli stessi tipi di intervento, la percentuale di prestazioni svolte dal privato supera il 40%, con punte che arrivano al 77%. Terzo: su oltre 500 tipi d’intervento, il privato fa la metà del suo fatturato con 25 prestazioni, il pubblico 43. Segnale evidente che l’attività si concentra in ambiti di specialità più convenienti. Le più diffuse riguardano le malattie degenerative del sistema nervoso, che valgono l’8,8% del fatturato, la sostituzione di articolazioni maggiori o il reimpianto degli arti inferiori (8,5%), le diagnosi del sistema muscolo-scheletrico (3,7%), e gli interventi sul sistema cardiovascolare (4,4%).

Milano: dominio del privato. Su Milano, se si prendono in considerazione anche i pazienti da fuori Regione, la sanità privata, rispetto ai grandi ospedali pubblici, raggiunge percentuali tra l’85 e il 97% degli interventi e ricoveri di cardiologia, cardiochirurgia, ortopedia, e quelli ad alto fatturato, ma a rischio di inappropriatezza. È la stessa Regione Lombardia ad ammettere: «La Sanità privata si è concentrata su alcune specifiche linee di attività che, tuttavia, impongono controlli incisivi in termini di appropriatezza» evitando che «gli erogatori si concentrino su attività caratterizzate da buona redditività e da non verificata necessità epidemiologica» (qui il documento).

Cosa fa il pubblico?. Gli interventi molto costosi e rischiosi, a partire dai trapianti, che può farli solo l’ospedale pubblico. E poi l’80% delle emorragie cerebrali, l’87% delle leucemie, l’82% delle neoplasie dell’apparato respiratorio, il 75% dell’ossigenazione extracorporea. I neonati gravemente immaturi sono curati per l’87,2% nelle strutture pubbliche. Oltre a tutti quegli interventi poco remunerativi, ma molto comuni: parti (81,8%), aborti (90%), calcoli (80%), polmoniti (78%), appendiciti (83,9%), tonsille (79,3%). Le operazioni per tumore al seno sono, invece, equamente ripartite. A conti fatti gli ospedali pubblici sono in perdita, con la Regione che ogni anno deve ripianare i bilanci: 44 milioni il Policlinico di Milano, 58 il San Paolo e il San Carlo, 87 i Civili di Brescia, 75 il Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Mentre i gruppi privati fanno utili importanti: 27 milioni il gruppo San Donato della famiglia Rotelli, 66,9 l’Humanitas di Gianfelice Rocca, 6,7 la Multimedica di Daniele Schwarz. Certo, il pubblico sconta inefficienze, mentre il privato è più manageriale, ma non basta a spiegare un divario di questa portata.

Le liste d’attesa restano. Le linee guida nazionali danno i tempi: nel caso di rischio di aggravamento rapido della malattia l’intervento chirurgico deve essere eseguito entro 30 giorni. In Lombardia per un intervento chirurgico oncologico bisogna aspettare 66 giorni nel 36% dei casi; per uno non oncologico 83 giorni nel 23% dei casi. In Regioni comparabili per offerta sanitaria, vediamo altri numeri: in Veneto solo il 6% delle operazioni urgenti sui tumori non viene eseguito entro i 30 giorni, per gli altri interventi gli sforamenti sono del 9%. In Emilia Romagna sono rispettivamente del 22% e del 15%. E questo era l’andamento fino ad attimo prima dell’arrivo della pandemia. Va detto che in quei mesi durissimi, con le strutture pubbliche al collasso, il privato ha messo a disposizione il 40% dei posti letto per pazienti Covid.

Modello da riformare. Tirando le fila, il modello non garantisce nei fatti quella «parità» di diritti e doveri prevista dalla legge regionale, non risolve le liste d’attesa, ma porta pian piano al deperimento del pubblico e all’accaparramento dei medici migliori. A quel punto sarà difficile tornare indietro. Infatti è in discussione un piano di riforma che in autunno dovrà sfociare in una legge, considerata dall’assessore al Welfare Letizia Moratti una delle priorità del proprio mandato. Nelle linee di indirizzo allo studio, l’assessore scrive che è necessario «un miglior governo dell’offerta». Dovrebbe voler dire: ti accredito per fare di più quello che serve e non solo quello che ti conviene. Vedremo se dalle parole si passerà ai fatti. (ha collaborato Alessandro Riggio)

Da "Ansa" l'1 luglio 2021. Un bambino residente nel Mezzogiorno ha un rischio del 50% in più di morire nel primo anno di vita rispetto ad uno che nasce nelle regioni del Nord. Tanto che, solo nel 2018, se il Mezzogiorno avesse avuto lo stesso tasso di mortalità infantile delle regioni del nord, sarebbero sopravvissuti 200 bambini. A mettere in luce le profonde disparità è uno studio in pubblicazione sulla rivista Pediatria, presentato in conferenza stampa della Società Italiana di Pediatria (Sip). In base agli ultimi dati Istat disponibili, nel periodo 2006-2018 si è verificata una progressiva diminuzione della mortalità neonatale (nei primi 28 giorni di vita) e infantile (nel primo anno di vita), che hanno portato l'Italia a raggiungere tra i più bassi del mondo. In particolare, nel 2018 si sono avuti 1266 decessi nel primo anno di vita e la mortalità neonatale è stata del 2,01 per 1000 nati vivi. Si continua però ad osservare un'ampia variazione territoriale. Nel Mezzogiorno dove si sono avuti il 35,7% di tutti i nati, i decessi neonatali e infantili sono stati rispettivamente il 48% e il 45% rispetto a quelli avvenuti in Italia. La Sicilia, la Calabria e la Campania sono state quelle con i tassi più elevati. Inoltre, le differenze diventano ancora più evidenti per i figli di genitori stranieri che risiedono al Sud (+100%). "L'idea che nascere in un particolare territorio possa offrire una minore probabilità di cura e di sopravvivenza non è accettabile", ha commentato la presidente Sip Annamaria Staiano. "Serve sinergia per invertire questi trend allarmanti e la Sip sta già mettendo in campo iniziative per intervenire in modo proattivo su un modello assistenziale così a rischio di disuguaglianze," ha concluso Giovanni Corsello, ordinario di Pediatria all'Università di Palermo ed Editor in Chief di Italian Journal of Pediatrics.

SANITÀ SCIPPATA PER DARLA AI PRIVATI E COME SEMPRE IL SUD PAGA PIÙ DI TUTTI. Il trend 2010-2019: dal calo delle strutture pubbliche agli organici tagliati. Allarme della Corte dei conti sulle disparità territoriali. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 18 giugno 2021. L’assistenza ospedaliera in Italia corre verso il privato. Nel 2010 gli ospedali erano 1.165, il 54,4% gestiti direttamente dai sistemi regionali sanitari pubblici. Nel 2019, invece, le strutture di ricovero sono diventate 992, di cui il 51,9% pubbliche, cioè 515, mentre quelle private sono 477. Se però, al conteggio aggiungiamo le case di cura non accreditate, 64 in tutta Italia, ecco che c’è addirittura il sorpasso del privato con 541 centri. A scattare la fotografia è il nuovo annuario statistico del Sistema sanitario nazionale pubblicato dal ministero della Salute, che descrive come si sta evolvendo la sanità in Italia. La maggior parte degli ospedali privati sono concentrati al Nord, ma iniziano a diffondersi anche al Sud: il record spetta alla Lombardia, con 64 strutture accreditate, seguono Lazio e Campania con 61, poi c’è la Sicilia con 59, Emilia Romagna (44), Piemonte (38). Le altre son distanti, ma le cliniche private proliferano ovunque: ad esempio in Calabria ce ne sono 29, in Puglia 26, Toscana 21, Veneto 17.

LE STRUTTURE. «Il sistema sanitario nazionale – si legge – dispone di circa 190mila posti letto per degenza ordinaria, di cui il 21,4% nelle strutture private accreditate, 13.202 posti per day hospital, quasi totalmente pubblici (83,8%) e di 8.043 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici ( 76,2%). A livello nazionale sono disponibili 3,5 posti letto ogni 1.000 abitanti, in particolare i posti letto dedicati all’attività per acuti sono 2,9 ogni 1.000 abitanti». Il Sud, però, sui posti letto è largamente penalizzato: «La distribuzione risulta piuttosto disomogenea a livello territoriale», è scritto nel report ministeriale. E in effetti, stando ai dati, le differenze sono palesi: in Puglia ci sono 10.153 posti letto nel settore pubblico, contro i 12.571 dell’Emilia Romagna, i 13.449 del Piemonte, i 15.798 del Veneto, regioni simili per numero di residenti. La Campania, molto più popolosa, ha solo 11.916 posti letto, 11.771 la Sicilia. Anche sui «posti letto destinati alla riabilitazione e lungodegenza, 0,6 ogni 1.000 abitanti, c’è una notevole variabilità regionale» a discapito del Mezzogiorno.

GLI ORGANICI. Meno strutture, meno posti letto e anche meno personale ospedaliero per il Sud. Nel 2019 i dipendenti in Italia ammontano a 603.856 unità e risultano così ripartiti: il 72,2% ruolo sanitario, il 17,5% ruolo tecnico, il 10,1% ruolo amministrativo e lo 0,2% ruolo professionale. Il Piemonte conta 54.117 lavoratori complessivi, il Veneto 56.778, l’Emilia Romagna 58.628, 48.219 la Toscana e la Lombardia 88.142; contro i 35.453 dipendenti della Puglia, i 39.879 della Campania, i 39.272 del Lazio, o i 18.048 della Calabria. Nel dettaglio, mentre la Puglia ha 6.431 medici, l’Emilia Romagna, a quasi parità di popolazione, ne ha 8.742; il Piemonte 8.412, il Veneto 7.672, la Toscana 8.109. Al Nord, per ogni mille abitanti ci sono 12,1 dipendenti nel comparto sanità: medici e infermieri, ma anche tecnici di laboratorio, amministrativi, operatori socio sanitari. Al Sud la media si abbassa drasticamente, sino a 9,2 dipendenti ogni mille residenti. Se la Puglia avesse avuto le stesse risorse dell’Emilia Romagna e avesse, quindi, potuto mantenere lo stesso rapporto dipendenti/residenti, oggi avrebbe 16.662 medici, infermieri, amministrativi in più. Come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 23mila lavoratori in più?

LA CORTE DEI CONTI. Anche la Corte dei Conti ha evidenziato la disparità «Negli ultimi due anni – scrivono i giudici contabili – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito». Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni, 10 la Puglia ad esempio, essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere. Non solo: dal 2012 al 2018 l’Italia ha “perso” oltre 42mila operatori sanitari e il record spetta al Sud: è infatti la Campania ad aver dovuto fare a meno di 10.490 dipendenti sanitari.

Emiliano: «Affrontato il Covid con un quarto delle risorse del Nord». L'incontro dell'associazione Welfare a Levante. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2021. «Abbiamo affrontato l’emergenza Covid in Puglia dimostrando una capacità di gestione tra le migliori di Italia. E lo abbiamo fatto pur vivendo uno storico gap, con un quarto delle risorse e del personale rispetto ad alcune regioni del Nord Italia a parità di abitanti». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano intervenendo oggi ai lavori congressuali dell’associazione di categoria Welfare a Levante, su invito del presidente Antonio Perruggini, che si sono svolti all’Anche Cinema di Bari. «Voi - ha detto Emiliano rivolgendosi ai rappresentanti delle strutture socio sanitarie - siete stati nella prima fase della pandemia il bersaglio numero uno del Covid. Il sistema sino a prima dell’emergenza era fondato sul rispetto del Dm70, in sintesi il Governo diceva alle regioni: o li fai tu i tagli, oppure ti commissariamo e li facciamo noi. Questa azione noi in Puglia l’abbiamo realizzata e i risultati attesi sono arrivati, lo dicono i conti in ordine e i dati sui Lea, visto che siamo la regione che più è cresciuta in Italia nei livelli essenziali di assistenza. Ma adesso che affrontiamo una nuova fase della pandemia non meno complessa, bisogna attuare le perequazioni. E per farlo servono risorse e personale».

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa  fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia». 

Storia di Francesco Saverio Nitti, lo studioso che nel 1900 dimostrò scientificamente che il Nord derubava il Sud. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 14 maggio 2021. L’economista lucano, docente universitario poco più che trentenne, pubblicò “Principi di scienza delle finanze”, opera che è diventata nota in tutto il mondo. Fino a prima di Nitti il Sud e la Sicilia erano economicamente arretrati perché antropologicamente inferiori. La forza dei numeri e della cultura assestò un colpo a certi razzisti e disonesti del Nord. Che purtroppo ci sono ancora. Nitti dimostrò che un’iniqua distribuzione della spesa pubblica, nel periodo 1862- 1897, aveva favorito il Nord e penalizzato il Sud. La cosa incredibile è che ancora oggi è così! I Borbone erano molto più corretti degli italiani. Non a caso, nel Nord, la parola “Borbone” ha un’accezione negativa. Così come, per noi del Sud e della Sicilia, le parole “Nord Italia” sono in alcuni casi sinonimi di banditi e predoni Da Nitti ad oggi la situazione è mutata? Come già accennato, assolutamente no! L’economista lucano, docente universitario poco più che trentenne, pubblicò “Principi di scienza delle finanze”, opera che è diventata nota in tutto il mondo. Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 – Roma 1953), l’economista lucano che sarebbe diventato Presidente del Consiglio nel 1919, pubblicava nel 1900 a Torino un volumetto, destinato a renderlo famoso, sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato dal titolo “Nord e Sud”, edito dall’amico deputato torinese Luigi Roux. L’autore, all’epoca trentaduenne e già docente ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario presso l’Università di Napoli, con questo testo verrà annoverato tra i maggiori studiosi meridionalisti, avendo affrontato per la prima volta in maniera compiuta e originale il tema del bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97 e avendo portato alla luce, contrariamente a quando era allora comunemente ritenuto da politici, studiosi, accademici, l’iniqua ripartizione della spesa pubblica in Italia: dall’unità in poi il Mezzogiorno aveva subito un continuo e costante drenaggio di risorse atto a favorire lo sviluppo infrastrutturale e industriale dell’Italia settentrionale. Nitti, il cui nonno paterno dal passato carbonaro era stato ucciso a Venosa dai briganti di Carmine Crocco in una reazione filoborbonica, sarà aspramente contestato e, addirittura, accusato di aver fomentato e alimentato divergenze e contrasti in un’Italia, allora come oggi, già profondamente divisa. Ciononostante, le lucide analisi di Nitti, che indicavano chiaramente la responsabilità delle politiche attuate dai governi, succedutisi nel primo quarantennio unitario, per aver sostenuto e accresciuto il divario tra le “Due Italie”, lo porteranno nel 1903 a pubblicare il testo “Principi di scienza delle finanze” , un’opera di fama mondiale adottata da diverse università in Italia e all’estero, e nel 1904 ad essere eletto nel Parlamento. Da deputato, Nitti metterà le sue competenze a disposizione di Giovanni Giolitti, parteciperà all’inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Basilicata e della Calabria, sarà impegnato nella costituzione dell’Ente Volturno, volto alla produzione di energia elettrica, e nelle trattative affinché nascesse a Bagnoli l’Ilva, al fine di restituire all’ex capitale Napoli uno spiraglio di produzione industriale. Fino a prima di Nitti il Sud e la Sicilia erano economicamente arretrati perché antropologicamente inferiori. La forza dei numeri e della cultura assestò un colpo a certi razzisti e disonesti del Nord. Che purtroppo ci sono ancora. In “Nord e Sud”, l’economista lucano sgombra il campo da analisi superficiali o di comodo che tentavano di ridurre a mera speculazione antropologica la natura del divario che si era venuto creando negli ultimi decenni. A chi legava il mancato sviluppo del Mezzogiorno con razzistiche teorie che suggerivano l’inferiorità della “razza” meridionale, Nitti opponeva analisi, studi, statistiche che dimostravano scientificamente che il divario tra le due aree del Paese era diventato così consistente in relazione a precise scelte di politiche finanziarie, economiche e doganali. Nitti si contrapponeva nettamente alla tesi «molto comune […] non solamente radicata nel Nord d’Italia, che il Sud sfrutti il bilancio nazionale»; i meridionali non pagavano affatto meno tasse e meno imposte come era solito dirsi e non conservavano i propri risparmi in maniera improduttiva come si credeva comunemente. Anzi, il Mezzogiorno fino al 1860 aveva conservato «più grandi risparmi che in quasi tutte le regioni del Nord», vi si «viveva una vita molto gretta, ma dove il consumo era notevolmente alto». E fino a prima delle politiche doganali del 1887, tra il 1880 e il 1888, «la ricchezza agraria del Veneto non era superiore a quella della Puglia, e tra Genova e Bari, tra Milano e Napoli era assai minore differenza di sviluppo economico e industriale che ora non sia. Ma adesso (1900, n.d.a.), insieme a una diminuzione nella capacità di consumo, si notano i sintomi allarmanti dell’arresto del risparmio, dello sviluppo della emigrazione povera, della pigra formazione dell’industria di fronte al bisogno crescente. Tra il 1870 e il 1888 la importanza del Mezzogiorno nella vita sociale ed economica dell’Italia era molto maggiore che oggi non sia». Nitti dimostrò che un’iniqua distribuzione della spesa pubblica, nel periodo 1862- 1897, aveva favorito il Nord e penalizzato il Sud. La cosa incredibile è che ancora oggi è così! Emergeva chiaramente dall’analisi dei bilanci dello Stato dal 1862 – anno di unificazione del sistema tributario con l’estensione agli altri Stati preunitari del sistema fiscale piemontese ad opera del ministro livornese Pietro Bastogi, tramite ben cinque disegni di legge – al 1896-97, che il divario nord-sud era notevolmente cresciuto, non solo a causa di una iniqua ripartizione territoriale della spesa pubblica, ma anche per la deleteria sostituzione del «semplice e quasi elegante organismo della finanza napoletana» con gli ordinamenti finanziari del Regno di Sardegna, gestiti da una macchina burocratica dal «numero strabocchevole di agenti di ogni grado…» . Grazie agli studi di Nitti iniziava a delinearsi un quadro delle finanze degli Stati preunitari che si era cercato accuratamente di occultare: «senza l’unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento» ; le finanze piemontesi si erano salvate dal fallimento grazie all’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie. I Borbone erano molto più corretti degli italiani. Non a caso, nel Nord, la parola “Borbone” ha un’accezione negativa. Così come, per noi del Sud e della Sicilia, le parole “Nord Italia” sono in alcuni casi sinonimi di banditi e predoni. Ai Borbone si potevano fare le critiche più disparate, «ma qualunque il giudizio che si dia di essi non bisogna negare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi; che la loro finanza era buona e, in generale, onesta» . E queste considerazioni, coraggiose ed esplosive per quei tempi, Nitti le ricavava da documenti inoppugnabili: la pubblicazione del Ministero delle Finanze del luglio 1860 sui bilanci napoletani dal 1848 al 1859 e la relazione di Vittorio Sacchi, inviato fiduciario a Napoli del Conte di Cavour, in qualità di segretario generale delle finanze dal 1° aprile al 31 ottobre 1861. Eppure ancora oggi, persino nei vocabolari, il termine borbonico viene impropriamente utilizzato nell’accezione negativa quale sinonimo di cattiva amministrazione o di ridondante e poco trasparente burocrazia. Da Nitti ad oggi la situazione è mutata? Come già accennato, assolutamente no! Dalle analisi di Nitti del 1900 ad oggi, le politiche economiche e finanziarie italiane in riferimento alla ripartizione territoriale della spesa pubblica sono diventate più eque? La risposta la troviamo nel Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali degli italiani, il quale attesta incontrovertibilmente che, in relazione alla percentuale di popolazione residente, nel Mezzogiorno dal 2000 al 2017 è stata sottratta una somma pari a 840 miliardi. Tanto che il presidente Gian Maria Fara, commentando il rapporto ha indirettamente reso merito a proprio a Nitti, dichiarando ad una stampa distratta le seguenti significative espressioni: «Sulla questione meridionale, dall’Unità d’Italia ad oggi, si sono consumate le più spudorate menzogne. Il Sud, di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia, come luogo di concentrazione del malaffare, come ricovero di nullafacenti, come gancio che frena la crescita economica e civile del Paese, come elemento di dissipazione della ricchezza nazionale, attende ancora giustizia e una autocritica collettiva da parte di chi – pezzi interi di classe dirigente anche meridionale e sistema dell’informazione – ha alimentato questa deriva».

Il Regno delle Due Sicilie? Era molto più ricco del Regno di Sardegna. Parola di Nitti. I Nuovi Vespri il 23 settembre 2017. Un post su facebook di Ignazio Coppola, con una pregevole citazione tratta dalle opere di Francesco Saverio Nitti, fa giustizia di tutti i disinformati (o “scrittori salariati”, come li definiva Gramsci) che scrivono e blaterano sullo stato delle finanze del Regno delle Due Sicilie prima della disgraziata unificazione del 1860. Quando Nitti parla di finanze è difficile che sbagli, visto che nei primi del ‘900 il suo testo di Scienza delle Finanze veniva adottato dalle università di mezzo mondo. Il tema non è nuovo: il Regno delle Due Sicilie era più ricco del Regno di Sardegna? Insomma, nel Sud Italia, prima dell’unificazione – o presunta tale – del 1860 si stava meglio o peggio? Ci sembra molto interessante un post pubblicato su facebook da Ignazio Coppola, che come i nostri lettori sanno è un collaboratore apprezzato di questo blog. Coppola riposta un passo di un grande meridionalista, Francesco Saverio Nitti, che ha giustizia delle bugie interessate che quelli che Antonio Gramsci, sempre a proposito della questione meridionale, definiva “scrittori salariati”, ovvero gli storici, o presunti tali, che ancora, su tale tema, negano la verità dei fatti. Leggiamo insieme la citazione di un passo degli scritti di Nitti: “Ciò che è certo è che il Regno di Napoli era nel 1857 non solo il più reputato d’Italia per la sua solidità finanziaria – e ne fan prova i corsi della rendita – ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito, le imposte non gravose e bene ammortizzate, semplicità grande in tutti i servizi fiscali e della tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del Regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi, dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte senza criterio; con un debito pubblico enorme, su cui pendeva lo spettro del fallimento. Bisogna, a questo punto, riconoscere che, senza l’unificazione dei vari Stati, il Regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento. La depressione finanziaria, anteriore al 1848, aggravata fra il ’49 e il ’59 da una enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, avea determinato una situazione da cui non si poteva uscire se non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro Stato più grande”. “Ed infatti – commenta Ignazio Coppola – è quello che avvenne dopo il 1860 con l’unificazione e la confusione delle disastrose finanze piemontesi con quelle floride e rigogliose condizioni economiche del regno delle Due Sicilie. Per cui il Sud fu costretto ad accollarsi l’enorme debito accumulato negli anni precedenti l’Unità d’Italia dal regno di Sardegna. Questo per la verità dei fatti”. Questo scritto è importante perché Nitti, nato a Melfi, in Basilicata, nel 1868 e morto a Roma nel 1956, oltre che essere stato un grande uomo politico è stato anche – e forse soprattutto – un grande meridionalista e un grande economista. Quando Nitti parla di condizioni economiche del Mezzogiorno d’Italia bisogna seguirlo attentamente, non tanto e non soltanto perché, come già ricordato, è stato un meridionalista, ma soprattutto perché nel suo lavoro di economista è stato un’autorità, in Italia e in altri Paesi del mondo. Nitti, di mestiere, era professore di Scienza delle finanze e diritto finanziario presso l’Università di Napoli e conosceva a fondi i problemi dell’agricoltura italiana e meridionale. “La scienza delle finanze”, pubblicata ne 1903, è considerata universalmente la sua opera più importante. Un volume che, all’epoca, ebbe una distribuzione a livello mondiale, se è vero che fu tradotta russo, in francese, in giapponese, in spagnolo e in portoghese. Un testo adottato in Italia, nell’Europa centrale, in Russia e in Sudamerica. Quando Nitti scrive delle condizioni economiche del Sud Italia prima dell’unificazione lo fa con cognizione di causa: con la conoscenza che gli derivava dai suoi studi, dalla sua profonda conoscenza dell’economia del Sud e della Scienza delle finanze e, anche, dal fatto di essere stato molto vicino a un altro grande meridionalista, Giustino Fortunato.  Questo ci dice che chi scrive cose diverse, su questo tema, da quello ha scritto Nitti, o è in malafede (e qui torniamo agli “scrittori salariati”…), o non conosce le cose. Il resto sono chiacchiere. 

SPESA STORICA, SCATTA LA RIVOLUZIONE CONTRO IL DIVARIO TRA NORD E SUD. Si cambia passo nella ripartizione dei fondi. La Commissione tecnica per i fabbisogni standard del ministero dell’Economia ha definito gli obiettivi per i servizi sociali dei Comuni e le relative regole di monitoraggio Lia Romagnolo su Il Quotidiano del Sud il 17 giugno 2021. Se fino a ieri il comune di Reggio Calabria aveva a disposizione circa 78 euro per abitante per garantire l’assistenza agli anziani e ai disabili, servizi domiciliari, centri educativi, centri sociali per gli anziani, case famiglia, da ieri può contare su 102,83. Mentre per il Comune di Giugliano, in Campania, la disponibilità passa da 59 euro a 95,84 per ogni cittadino, da 68,46 a 89,38 per Matera. Sono i numeri di una «rivoluzione» nel segno di un importante passo avanti verso il superamento del criterio della spesa storica, la madre del divario nei diritti di cittadinanza tra il Nord e il Sud del Paese. Una battaglia questa “contro” la spesa storica, che il nostro giornale ha combattuto fin dal suo primo giorno in edicola. Oggi si “celebra” un primo taglio al divario tra città come, per esempio, Reggio Calabria e Reggio Emilia. La Commissione tecnica per i fabbisogni standard del ministero dell’Economia e delle finanze ha definito ieri gli obiettivi di servizio per lo sviluppo dei servizi sociali dei Comuni, e le relative regole di monitoraggio. «Per gli asili e per la spesa delle funzioni sociali, si supera finalmente la spesa storica e, da oggi, rendiamo tutti i Comuni più uguali, assicurando le stesse risorse e gli stessi servizi ai cittadini, indipendentemente dall’area geografica in cui vivono», ha affermato il viceministro dell’Economia, Laura Castelli, sostenendo che si tratta di «un’operazione di vero riequilibrio che non penalizza gli altri Comuni, grazie alle risorse in più che abbiamo messo nell’ultima Legge di Bilancio, e che cresceranno dal 2021 al 2030». Un «cambio di paradigma», ha sottolineato Castelli, che porta «una rivoluzione vera». Punto di approdo di un processo che ha portato alla ridefinizione dei fabbisogni standard non più individuati sulla base del livello medio storicamente offerto, ma del livello di servizi e della spesa standard delle realtà più virtuose. Sono stati quindi quantificati i fabbisogni aggiuntivi, con l’obiettivo di colmare il gap sui servizi sociali dei territori, quelli del Sud in prima fila: all’appello risultavano mancanti risorse per oltre 650 milioni (650,9). Pertanto con la legge di Bilancio nel Fondo di solidarietà comunale (Fsc) sono state conferite risorse aggiuntive pari a 215,9 milioni per il 2021, per arrivare nel 2030 a 650,9 milioni nel 2030. La scorsa settimana il Comitato tecnico per i fabbisogni standard ha stabilito i criteri di riparto delle nuove risorse che, insieme alla variazione della metodologia di calcolo della Funzione sociale nell’ambito del Fondo di solidarietà comunale, si sottolinea, ha consentito di riportare equità nei comuni italiani. Ieri l’ok definitivo al nuovo metodo. «È il primo, vero passo per i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, che ci porterà gradualmente alla convergenza, accompagnando l’attuazione dei livelli essenziali – ha affermato la viceministra – I servizi sociali e gli asili nido hanno sempre rappresentato la vera grande differenza tra Nord e Sud. Queste distanze noi le abbiamo azzerate». L’“operazione”, in pratica, rende omogenei i fabbisogni standard, con l’obiettivo di garantire a tutti i cittadini, dalla Calabria alla Lombardia, gli stessi servizi. Un passaggio “intermedio”, sottolineano dal Mef, sulla strada delle definizione dei Lep. «Potevamo decidere di attendere l’individuazione dei livelli delle prestazioni – ci ha detto Castelli – lasciando i Comuni ancora in questa situazione di disequilibrio per anni, oppure percorrere una strada diversa. Noi abbiamo lavorato su questa seconda ipotesi e ci siamo inventati un modo che, da subito, azzerasse il divario. Con un doppio beneficio, in primis mettiamo i comuni nelle condizioni di erogare da subito i servizi ai cittadini e poi creiamo le condizioni per una transizione più morbida». I Comuni che riceveranno le “nuove” risorse dovranno rendicontarle, con un passaggio formale in Consiglio comunale: un’operazione di responsabilità, oltre che di trasparenza, quindi. Ai fini della rendicontazione delle risorse aggiuntive da parte degli enti “sotto” obiettivo, spiegano dal Mef, l’impegno delle risorse aggiuntive effettive oggetto di rendicontazione potrà avvenire con riferimento all’assunzione di assistenti sociali a tempo indeterminato qualora l’incidenza del numero di assistenti per il Comune o l’Ambito territoriale sociale di appartenenza sia inferiore a un operatore ogni 6.500 abitanti; l’assunzione di altre figure professionali specialistiche necessarie per lo svolgimento del servizio; l’incremento del numero di utenti serviti; il significativo miglioramento dei servizi sociali comunali in relazione ad un paniere di possibili interventi definito al paragrafo “Interventi per un significativo miglioramento dei servizi sociali”; le risorse aggiuntive trasferite all’Ambito territoriale sociale di riferimento.

NORD-SUD, LE PROFONDE DISEGUAGLIANZE RESISTONO IN SPREGIO ALLA COSTITUZIONE. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. Il bellissimo discorso del Presidente Sergio Mattarella, in occasione del 75° anniversario del referendum che creò la Repubblica nel 1946, ha messo l’accento sul gap sociale ed economico fra le due Italie. Lo sviluppo ottenuto nel secondo dopoguerra, come la marea, alzò tutte le barche. Ma, dopo la stagione migliore della Cassa del Mezzogiorno, il divario fra Nord e Sud ricominciò ad allargarsi. «Fra uomini e donne ci sono delle differenze…”. La frase del pomposo discorso di un relatore all’Assemblea francese di molto tempo fa fu interrotta da un anonimo membro del Parlamento, che gridò: «Vive la différence!», innescando un’omerica risata nell’aula affollata. Il problema è che non tutte le differenze, come quella appena citata e quelle della biodiversità, meritano un applauso. E questo è tanto più vero in quanto negli ultimi lustri sono aumentate le "différences", cioè le diseguaglianze, in giro per il mondo: diseguaglianze di reddito, di censo, di territori, di genere, di opportunità…E questo aumento non ha nulla di buono quando si manifesta nel corso di una crisi, come nella Grande recessione del 2008-2009 e nel “Grande lockdown” (copyright del Fondo monetario) del 2020-2021. Se le cose vanno bene per tutti, non ci lamentiamo troppo se vanno bene più per alcuni che per altri. Ma se le cose vanno male, le diseguaglianze si sentono di più. Se mettiamo assieme la compressione dei redditi della classe media e l’esplosivo aumento dei redditi dei più ricchi creiamo una ricetta per l’invidia sociale. Viene acuito il senso di ingiustizia, questa avversione stinge sulla fiducia e dà la stura a un malessere diffuso che va a sfociare nell’appoggio a movimenti politici populisti che raccolgono queste tensioni, anche se poi non hanno rimedi efficaci da proporre. Il bellissimo discorso del Presidente Sergio Mattarella, in occasione del 75° anniversario del referendum che creò la Repubblica nel 1946, ha messo l’accento sulle diseguaglianze italiane: «C’è un articolo, in particolare, della nostra Costituzione, quello sull’uguaglianza, che suggerisce una riflessione su quanto sia lungo, faticoso e contrastato il cammino per tradurre nella realtà un diritto pur solennemente sancito. Questo principio, vero pilastro della nostra Carta, ha rappresentato e continua a rappresentare una meta da conquistare. Con difficoltà, talvolta al prezzo di dure battaglie. Per molti aspetti un cammino ancora incompiuto». Ecco l’articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»). Ed è significativo che, al primo posto nell’elenco dei divari, il Presidente abbia messo «le differenze economiche, sociali, fra territori». Mattarella racconta: «Non fu un inizio facile, settantacinque anni fa. L’Italia era divisa: la Repubblica aveva prevalso per due milioni di voti, ma il risultato non era stato omogeneo e, in un Paese in ginocchio, c’era il rischio di una spaccatura tra il Mezzogiorno e il Settentrione. É la storia del lavoro, motore della trasformazione del nostro Paese. É la storia della Ricostruzione, delle fatiche, dei sacrifici, spesso delle sofferenze, di tanti che si trasferirono da Sud a Nord, dalle campagne alle città, animando uno straordinario periodo di sviluppo». Quello sviluppo, come la marea, alzò tutte le barche, nei quattro punti cardinali del Paese. Ma, dopo la stagione migliore della Cassa del Mezzogiorno, il divario fra Nord e Sud ricominciò ad allargarsi. I lettori di questo giornale sanno quanto accanita, perseverante, minuziosa e documentata sia stata la denuncia di quei divari, fra il Mezzogiorno e il resto d’Italia, che da decenni negano il dettato costituzionale e di cui accludiamo un ennesimo florilegio. Dietro questi divari – è stato detto e lo ripetiamo – c’è un’altra abdicazione a un altro dettato costituzionale. L’articolo 117 della Costituzione elenca le materie in cui lo Stato ha legislazione esclusiva, e al punto ‘m’ specifica: «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». A onor del vero, nell’anno di grazia 2009, il Parlamento varò una legge per stabilire i Lep – ‘Livelli essenziali di prestazioni’ – livelli che avrebbero dovuto fissare un congruo numero di parametri minimi a valere su tutto il territorio nazionale: per esempio, in termini di letti di ospedale, addetti ai servizi sanitari, metri quadrati di spazio scolastico, posti in asili nido… il tutto espresso per 100mila abitanti. Ma è passata una dozzina di anni da allora, e nulla è stato fatto in proposito. E le cifre nude e crude continuano a riflettere una secolare iniquità. Oggi c’è una singolare comunanza di intenti nel tentativo di correggere quegli sfibranti divari. L’Unione Europea, nello stilare i principi ispirativi del piano di ripresa (NextGen EU) ha messo ai primi posti, per l’Italia, la rimozione di quelle diseguaglianze fra Nord e Sud che hanno fatto del Mezzogiorno una ‘palla al piede’ della crescita dell’Italia, e, per transitiva proprietà, dell’Italia una ‘palla al piede’ della crescita europea. Sì che l’Europa è venuta a meritare la ‘laudatio’ di Mattarella: «L’Unione Europea è essa stessa – per noi – figlia della scelta repubblicana. L’Europa è il compimento del destino nazionale. É luogo e presidio di sovranità democratica. É un’oasi di pace in un mondo di guerre e tensioni. Il filo tessuto con il Risorgimento e la Resistenza ricompone qui la tela di una civiltà democratica che sa parlare al mondo, senza essere in balia di forze e potenze che la sovrastano». Ora non ci sono più scuse: il Governo Draghi, con l’invito e l’appoggio dell’Ue, ha in cima alla lista delle cose da fare la correzione delle diseguaglianze territoriali. E la ministra Mara Carfagna è determinata a fare quello che dodici anni di Parlamenti imbelli non hanno saputo fare, cioè procedere all’elencazione di quei famosi ‘livelli essenziali di prestazioni’ che sono – appunto – essenziali per ridirigere le risorse pubbliche verso le aree disagiate del Paese.

DOSSIER - LA SPEREQUAZIONE TRA NORD E SUD NUMERO PER NUMERO VOCE PER VOCE. Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. Questo dossier è il frutto di un lavoro collettivo del Quotidiano del Sud L’Altravoce dell’Italia, diretto da Roberto Napoletano, a cui hanno partecipato: Patrizio Bianchi, Pietro Massimo Busetta, Antonio D’Amato, Fabrizio Galimberti, Adriano Giannola, Ercole Incalza, Cesare Mirabelli, Paolo Pombeni, Massimo Villone Questo è un dossier aggiornato al 31/12/2020, ogni 6/12 mesi faremo un aggiornamento congiunturale e strutturale:

quotidianodelsud.it/wp-content/uploads/2021/02/OPERAZIONE-VERITA-IL-DOSSIER-DELLA-SPEREQUAZIONE-NUMERO-PER-NUMERO-VOCE-PER-VOCE.pdf

I pregiudizi territoriali ed economici.

Mio nonno contadino ed analfabeta diceva: “Son ricchi. Hanno rubato. Io lavoro tutto il giorno e non divento ricco”. Ergo i ricchi sono ladri. La verità è che non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali.

Mia zia emigrata al nord diceva: qua non è come "da voi", è meglio qua, tutta un'altra cosa. La verità è questa: è emigrata perchè non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali. Per rivalsa è diventata rinnegata. La verità dei rinnegati è che, appunto per invidia, rinnegano le loro origini. Non sanno che sono condannati al limbo: saranno sempre terroni per i corona polentoni e corona polentoni per i terroni.

I Settentrionali puri conosciuti al Nord hanno sempre dei pregiudizi sui Meridionali: siamo tutti pregiudicati (da pregiudizio). Ergo: pregiudicati uguale a delinquente ed essendo del Sud siamo tutti delinquenti mafiosi. La verità è che sono ignoranti, resi tali dai media prezzolati dalla Finanza del Nord, e sono in malafede perchè vogliono le risorse finanziare pubbliche tutte per loro e lo sfruttamento delle risorse umane meridionali per i loro fini. E' l'invidia di non avere il mare, il sole e di non essere gente del sud solidale e con la luce nel cuore.

Quindi se per i comunisti e per i settentrionali siamo mafiosi, noi meridionali non abbiamo diritto a gestire le nostre risorse se non dimostriamo di non essere mafiosi.

In Italia l’onere della prova è ribaltata: i ricchi ed i meridionali devono dimostrare di essere onesti, mentre gli accusatori non devono dimostrare di essere bugiardi e razzisti.

 NON SE NE PUO' PIU' DELL'INFORMAZIONE CHE SFUGGE ALLA SUA FUNZIONE PUBBLICA! Michele Eugenio Di Carlo il 17.03.2020 su Movimento24agosto.it. Siamo profondamente convinti che di fronte alle regole coronavirus siamo tutti uguali al sud, al centro, al nord. Ma l' informazione a livello nazionale tende ancora una volta a farci passare per esseri inferiori, indisciplinati, refrattari a qualsiasi regola. Ieri sera Del Debbio indicava chiaramente Napoli come esempio di non rispetto delle regole e dal servizio nemmeno si evidenziava più di tanto se non per le forzature dell'inviata. Questa mattina dal Corriere della Sera si evince che specie al Sud non si rispettano le regole, infatti vengono citate Bari, Lecce, Secondigliano,Caltanissetta. Poi dalla piccola stampa locale del nord emerge che siamo tutti uguali davanti alle regole. La nostra reazione contro un'informazione a senso unico, e che ripropone il solito cliché di un'Italia divisa, viene fatta passare come immotivata quando non addirittura razzista. E la cosa più grave è che spesso sono i cittadini meridionali, totalmente manipolati da quell'informazione, a dichiarare che quei media che ci disprezzano hanno ragione. L'invito è ad opporsi a quell'informazione con dati statistici e documenti, rivendicando il nostro diritto ad essere considerati cittadini alla pari. Alimentare pregiudizi e luoghi comuni contro il Mezzogiorno d'Italia, in un momento critico come l'attuale, non è degno di un'informazione che dovrebbero sempre rinsaldare quanto ci unisce e non evidenziare falsi e mistificatori miti.

ATTACCO CONCENTRICO AL SUD E AL REDDITO DI CITTADINANZA: INSULTI VELATI E FALSE NOTIZIE DA TG E GIORNALI. Raffaele Vescera il 20.05.2021 su Il Movimento24agosto.it. Il tormentone è partito l’altra sera sui Tg nazionali: “In Campania più assegni di Reddito di cittadinanza che in tutto il Nord. Quattro volte più della Lombardia!" Scioccamente ripreso dal Fatto Quotidiano.it di ieri che rincara la dose: “Reddito di cittadinanza, in aprile 2,8 milioni di percettori. A Napoli più che in Lombardia e Piemonte”. Il tutto senza il minimo accenno alle cause di tale differenza, da parte di un giornale che, pur nelle sue giuste battaglia contro le mille ingiustizie italiane, non perde occasione per diffondere gratuiti pregiudizi contro i meridionali, lombrosianamente considerati men che delinquenti e fannulloni, sulla scia del mantra leghista che, in vero, unisce il cosiddetto Partito unico del Nord nel razzismo antimeridionale. Dipende forse dall’essere piemontese del suo direttore, Gomez? È forse il solo modo che hanno per mondarsi la coscienza? Veniamo a noi. La disoccupazione al Sud è oltre il 18%, tripla rispetto al Nord dove è intorno all’6%, e quella dei giovani meridionali è al 65% anche qui tripla rispetto al Nord, mentre la punta delle disuguaglianze italiane spetta alle donne meridionali con un tasso di disoccupazione che va oltre l’80%. In quanto al reddito pro-capite, quello del Sud a 16,500 Euro è meno della metà del nordico 34.000. Ebbene, con questi dati, noti a tutti, qualunque serio commentatore dedurrebbe che dove vi è maggiore disoccupazione e povertà, per esempio al Sud, vi è maggior ricorso al reddito di cittadinanza. L’articolo del Fatto Quotidiano si spinge oltre, arrivando a sostenere che il Rdc sarebbe punitivo nei confronti del Nord, dove la vita costerebbe di più. Altro falso, considerato che tutti i servizi pubblici, tassi bancari, assicurazioni e altro sono molto più cari al Sud, così come lo è la produzione industriale del Nord, di cui i Sud è fortissimo consumatore, per precisa volontà coloniale italiana, che riserva al Nord il ruolo di produttore con conseguente ricchezza, e al Sud quello di mero consumatore con conseguente povertà ed emigrazione: 100.000 giovani meridionali l’anno lasciano la propria terra per fare vita grama di lavoro al Nord. In verità, oltre il solito mantra antimeridionale, questo attacco è diretto contro lo stesso reddito di cittadinanza che Confindustria e Partito unico del Nord non vedono di buon occhio, in quanto sottrarrebbe i cittadini alla vergogna di un lavoro schiavizzato e sottopagato, i meridionali per la finanza del Nord sono solo cervelli e braccia da lavoro da sfruttare. Non che il reddito di cittadinanza sia la soluzione ai problemi di disoccupazione e povertà del Mezzogiorno, ci vogliono infrastrutture, investimenti e lavoro che lo Stato nega da sempre al Sud, ma vivaddio almeno solleva i meridionali, e anche gli indigenti del Nord, dal vivere nella disperazione e di rovistare nella spazzatura per cibarsi. Come si dice da noi al Sud, il sazio non crede al digiuno. Per una volta andrebbero invertiti i ruoli, come in un certo film americano con Willy Smith, chissà cosa proverebbero i loro ricchissimi figli di papà a vivere disoccupati con 557 Euro al mese con fitto, bollette e spesa per mangiare.

SputtaNapoli sport nazionale, Milano invasa da tifosi ma giornale scrive “Coprifuoco violato a Napoli”. Da Andrea Favicchio il 3 maggio 2021 su vesuviolive.it. Non chiamatelo vittimismo, questa è una vera e propria avversione nei confronti di Napoli, il solito SputtaNapoli. Sì perché ieri e sui giornali di questa mattina per l’ennesima volta si è vista la disparità di giudizio dei media italiani. Come se la festa per la Coppa Italia vinta dal Napoli fosse più contagiosa di quella scudetto (i numeri smentiscono chiaramente). Ieri l’Inter ha vinto lo scudetto e migliaia e migliaia di persone si sono riversate in città in festa. Direte voi, lo avrebbero fatto tutti è inutile giudicare. Infatti qui non si giudica il comportamento dei tifosi neroazzurri, perché qualunque tifoseria avrebbe fatto lo stesso, quanto più quello dei media nazionali.

Milano, festa scudetto dell’Inter: ma solo a Napoli siamo sciagurati. Spicca su tutti infatti il titolo de “Il Fatto Quotidiano” sull’argomento: “Folla di tifosi invade Milano. A Napoli coprifuoco violato”. Vi chiederete voi, cosa c’entrano le due cose insieme? La risposta è assolutamente nulla. L’Italia è il Paese dove si nasconde la polvere sotto al tappeto credendo di aver risolto tutti i problemi. L’Italia è il Paese dove per discolparsi di qualcosa si butta il fumo negli occhi della gente o la si fa guardare da un’altra parte. Un tentativo davvero goffo e ridicolo quello del quotidiano diretto da Marco Travaglio di distogliere l’attenzione su qualcosa che l’attenzione l’ha capitalizzata al 100%. Solo tra la gente comune però. Loro infatti sono gli unici ad essere sdegnati non solo dal comportamento dei tifosi ma anche dalla classe politica che avrebbe dovuto prevedere la situazione. Una festa che rischia di essere amara per tutti i milanesi e per la Lombardia intera. Staremo a vedere tra un paio di settimane come sarà la curva dei contagi – sperando ovviamente di essere smentiti in pieno.

L’ATAVICA AVVERSIONE A NAPOLI E L'OCCHIO BENEVOLO PER MILANO. DUE PAESI E DUE MISURE? E' RAZZISMO. Facebook. Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale il 3 maggio 2021. Pietro Fucile. Quando nel giugno scorso 5.000 tifosi festeggiarono per le strade di una città a zero contagi la vittoria della Coppa Italia, vennero definiti su tutti i giornali “Sciagurati!” con tanto di punto esclamativo per colmo d’indignazione. La situazione era per tutti “disgustosa”, gli amministratori, tanto De Luca quanto De Magistris “colpevoli” e per i napoletani si rispolverarono le analisi sociologiche (sempre le stesse da 160 anni in qua) che ancora parlano di “atavica avversione alle regole”. Oggi l’Inter vince lo scudetto, i tifosi festeggiano (sei volte più che a Napoli) assembrandosi in 30.000 nelle piazze di una città ancora in piena pandemia. Ma a fare il titolo è ancora Napoli per le violazioni delle norme anti-contagio, le stesse violazioni che si sono registrate nel weekend in tutte le città italiane. Occorrerebbe forse un’analisi sociologica relativa “all’atavica avversione a Napoli” del giornalismo italiano.

L’APARTHEID DELL’INFORMAZIONE GHETTIZZA IL SUD: SERVE UN’INDAGINE. Dai media una visione distorta del Mezzogiorno: almeno il servizio pubblico costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 5 maggio 2021. Al di là dei giudizi ovvi e contrapposti sull’intervento di Fedez al concertone del primo maggio esce fuori in modo dirompente come l’informazione della Rai sia sottoposta a un indirizzamento utilizzato, e che rispetta in ogni caso la lottizzazione esistente tra i partiti, che non si è mai riusciti a eliminare. Per cui diventa inopportuno e politically uncorrect un attacco a esponenti della Lega che si sono lasciati andare a frasi irripetibili, che magari risalgono ai tempi in cui il motto della Lega era anche “forza Vesuvio” o “forza Etna”.   Ma la domanda che ci si deve porre e che viene spontanea a chi si occupa, come il nostro Quotidiano del Sud, di un’informazione vista dal Mediterraneo e non dalle Alpi, è se l’informazione in generale, in particolare quella Rai, sia corretta. La Rai, infatti, è un servizio pubblico, pagato da tutti gli italiani, indipendentemente dal loro reddito, per cui viene anche finanziata dal 34% della popolazione meridionale, e quindi è opportuno sapere se l’informazione è neutrale ed equa rispetto ai territori.  Perché la sensazione netta è che ci sia una forma di apartheid. E che da Napoli in giù (ma un trattamento simile lo hanno il milione e cinquecentomila marchigiani e i 900mila umbri), vi sia una discriminazione inaccettabile.

I MANTRA DEI LUOGHI COMUNI. E tale atteggiamento non riguarda solo l’informazione pubblica. Infatti anche quella privata, in particolare La 7 e Mediaset, come l’informazione cartacea dei grandi giornali, cosiddetti nazionali, danno la sensazione che tutto quello che riguarda il Sud sia trattato con sufficienza, arroganza e grande protervia. Il tema è che qualunque giornalista che ne parla si sente autorizzato a trattare tale area per luoghi comuni, per mantra accreditati quanto falsi, per accuse non suffragate dai fatti. Intanto il Sud viene rappresentato prevalentemente come mafia, camorra e ’ndrangheta, sia dall’informazione che nelle fiction. E spesso ci si dimentica che la maggior parte delle vittime, che si sono immolate per combattere tali fenomeni, sono meridionali. Da Piersanti Mattarella a Falcone, da Chinnici a Levatino, il giudice ragazzino, a Don Pino Puglisi, ma l’elenco potrebbe continuare con i tanti campani o calabresi o pugliesi che hanno sacrificato la vita per la lotta alla criminalità. Anche quando lo Stato centrale, in un rapporto colluso con la periferia politica, spesso contigua alla criminalità, evitava interventi troppo radicali, lasciando i civil servant pubblici, ma anche i tanti eroi per caso, soli a combattere il mostro. E intanto ci si stupisce di trovare al Sud delle eccellenze universitarie e viene proposto da ricercatori titolati, come Tito Boeri per esempio, di concentrare tutte le risorse, come in parte già avvenuto, sui centri di ricerca migliori, per definizione settentrionali, spessissimo lombardi. Se poi si tratta di chiedere in televisione una opinione non si va mai al di sotto di Roma. Virologi, economisti, politologi devono avere un pedigree di nascita nordica, al massimo devono ormai essersi trasferiti da anni nel cuore pulsante del Paese, nella sedicente locomotiva, che alla fine ha trascinato il Paese in un binario morto. Si poteva capire che ciò avvenisse nei periodi in cui i talk show si facevano in presenza, ma oggi che è tutto via web non si giustifica assolutamente tale discriminazione, considerato peraltro che, per esempio, le università meridionali hanno delle tradizioni e dei ricercatori, in alcuni campi, che sono eccellenze riconosciute universalmente.

COMMISSIONE DI CONTROLLO. Anche quando si parla di economia l’approccio viene impostato sul ridicolo, per cui Stefano   Feltri o Giuseppe Sala si consentono di parlare del ponte sullo stretto definendolo un’infrastruttura ridicola. E se si parla di sviluppo del Mezzogiorno e di soldi a esso destinati si dice che è stato un pozzo senza fondo pur, invece, se la realtà è che il pro capite destinato al Sud è stato, nei settori della scuola, della mobilità e della sanità di gran lunga inferiore che nel Nord del Paese. Ragion per cui per un bambino nascere a Reggio Calabria piuttosto che a Reggio Emilia diventa una disgrazia che si porterà dietro per tutta la vita, come nascere in madre patria o in colonia. L’informazione è fondamentale, come è noto, non solo nell’agone politico ma anche in quello economico, rispetto ai territori. Quindi se il mantra è che il Sud spreca risorse, argomento che a forza di essere sostenuto convince anche i rappresentanti meridionali, in genere poco informati o solo dai cosiddetti giornali nazionali, è più facile che, quando si legifererà per distribuirne, il Sud farà la parte del parente povero, cornuto e mazziato. Per questo motivo è assolutamente necessario che la problematica dell’informazione venga affrontata adeguatamente e, perlomeno per quanto riguarda quella del servizio pubblico, si costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese, come avviene per la Commissione di vigilanza in relazione alla presenza delle forze di maggioranza e di opposizione. La Rai è un patrimonio nazionale e tutti sappiamo benissimo quale ruolo svolga, tanto per fare un esempio, per il festival di Sanremo o per la Scala di Milano o per il festival del Cinema di Venezia e come influenzi anche i comportamenti di consumo e i movimenti turistici. Riuscire a capire che tutti i territori hanno diritti analoghi nel nostro Paese è sicuramente  rivoluzionario e il fatto che eventi come  le rappresentazioni classiche di Siracusa o il Festival della Taranta,  che  si svolge  nel mese di agosto in forma itinerante in varie piazze del Salento, iniziando da Corigliano d’Otranto e culminando nel concertone di Melpignano, che vede la partecipazione di musicisti di fama nazionale e internazionale, devono essere ugualmente promossi, non deve costituire una battaglia. Così si scoprirà che i concerti di Ravello non hanno nulla da invidiare agli spettacoli dell’arena di Verona.

GLI INTERESSI PREVALENTI. Ovviamente tutto ciò non avviene per caso, perché l’informazione in Italia non è pura attività editoriale, ma espressione di forze imprenditoriali che hanno centri d’interesse prevalentemente in una parte del Paese.  E su quella essa si concentra, pesando le parole quando si tratta di tutelare gli interessi di una parte e invece si va a ruota libera quando si parla della parte meno forte e spesso meno attenta a non far passare una informazione negativa e dannosa anche per i flussi turistici. Questo obiettivo, di una informazione corretta che in un Paese normale non sarebbe nemmeno tale, ma che dovrebbe essere il normale approccio dell’informazione a tutti i territori, da noi diventa una conquista, perché purtroppo in tutti i campi il Mezzogiorno, per partire dalla quota zero, deve fare un grande sforzo. D’altra parte i numeri dell’organizzazione con sede a Parigi sulla libertà di stampa non ci danno scampo. Secondo la tabella di Rsf, nel Vecchio continente siamo quelli messi peggio. Ci scalza anche Cipro e peggio di noi c’è solo la Grecia. È tutto dire.

INFORMAZIONE, UN ARTICOLO SU CINQUE PARLA MALE DEL SUD. SUGC E FNSI: NECESSARIA UNA RIFLESSIONE. Redazione de Il Sud On Line il 23 maggio 2021. La stampa contribuisce ad alimentare una sorta di “archivio del pregiudizio” nei confronti di alcune zone dell’Italia? È l’oggetto di una ricerca che nasce all’interno di un progetto nato da un’idea del SUGC (Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania), in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II, l’Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) dell’Università della Svizzera italiana (USI) di Lugano e l’Osservatorio europeo di giornalismo (EJO) dello stesso ateneo. ll progetto di ricerca “L’informazione (s)corretta: giornalismo e narrazione del Sud tra stereotipi e pregiudizi” intende analizzare lo sviluppo e la persistenza di stereotipi nella stampa italiana sulla rappresentazione del divario territoriale tra il Nord e Sud del paese. L’obiettivo è comprendere, se e in che modo, la stampa contribuisca ad alimentare un repertorio di immagini e metafore che rappresentano una sorta di ‘archivio del pregiudizio’ nei confronti di alcune zone di un Paese. Il SUGC e il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II hanno stipulato un accordo per la realizzazione delle attività di ricerca che si propongono di analizzare la copertura giornalistica del Mezzogiorno nel contesto della pandemia da COVID-19, al fine di identificare i temi più dibattuti e la possibile presenza di pregiudizi e atteggiamenti discriminatori presenti all’interno della copertura di un campione di testate giornalistiche nazionali e regionali. Negli ultimi mesi, l’attenzione mediatica in Italia, come in tutto il mondo, si è concentrata in modo pressoché esclusivo sulla pandemia da Covid-19 e le sue conseguenze. Il nuovo Coronavirus e il periodo di lockdown sono stati occasione di forte rilevanza comparativa sui territori italiani rispetto a diverse dimensioni come la paura e le proiezioni sulle condotte dei territori del Mezzogiorno di fronte alla prova pandemica. Comprese le scelte politiche, il modo di alimentare il dibattito locale e nazionale degli amministratori locali (con le Regioni in particolare. Su questi ed altri aspetti, la stampa locale e nazionale ha prodotto un altissimo numero di articoli e contenuti, la cui analisi può fungere da strumento di interpretazione delle possibili discriminazioni – nuove o preesistenti – tra territori. La ricerca cerca di comprendere le rappresentazioni e le narrazioni giornalistiche dominanti del Paese, e il loro legame con la produzione di eventuali stereotipi e discriminazioni Nord-Sud. Si è scelto di indagare la questione focalizzandosi sul periodo relativo al lockdown e sul dibattito innescato dall’impatto del Covid-19 sul paese. La ricerca si basa su un’analisi di contenuto di un campione di articoli giornalistici provenienti dalle principali testate nazionali italiane generaliste, economiche e sportive oltre che da due quotidiani a circolazione locale. Gli articoli sono stati raccolti tramite il database Factiva utilizzando come parola chiave di ricerca: “Covid-19 AND Meridione OR Mezzogiorno”. Il campione selezionato è stato uniformato tramite apposite scelte. L’analisi testuale degli articoli è riferita al periodo di analisi che va dal 1 febbraio 2020 al 31/08/2020 (non comprende la seconda ondata della pandemia)  E’ di 278 unità  il totale di articoli nel campione (dopo selezione e verifica). L’attività di ricerca è ancora in corso e adesso entra in una nuova fase che prevede l’analisi qualitativa da realizzarsi sulle interviste somministrate a testimoni privilegiati, prevalentemente giornalisti. Il progetto di ricerca viene realizzato con la partecipazione della Camera di Commercio di Napoli attraverso Si Impresa Azienda Speciale Unica, Innovaway, Protom, DAC (Distretto Aerospaziale della Campania), Materias, P4M, STRESS (Distretto Tecnologico per le Costruzioni Sostenibili), TECNO, TDS e in collaborazione con la Federazione Nazionale della Stampa 

“Durante la pandemia c’è stata una maggiore polarizzazione del contrasto tra territori, che ha evidenziato come la coesione e la solidarietà tra Nord e Sud non siano valori scontati nel nostro Paese- ha detto Claudio Silvestri. Segretario del Sindacato dei Giornalisti della Campania, SUGC –  Abbiamo pensato a una ricerca per evitare che prevalessero le suggestioni nel nostro ragionamento. Da qui dobbiamo partire per pensare a una corretta informazione sul Meridione, fuori da stereotipi e cliché negativi che caratterizzano anche la narrazione in testate non marcatamente orientate politicamente. A quesoi appuntamento ne seguiranno altri, a Roma e a Milano. È necessario che si apra una riflessione seria sul tema, così come abbiamo fatto con il manifesto di Venezia per il mondo femminile, e con la carta di Assisi per il linguaggio dell’odio e la comunicazione sui social network”. Per Stefano Bory, direttore di Funes, atelier dipartimentale di ricerca sulla narrazione e l’immaginarioDipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II -” La ricerca sta offrendo, già a partire da questi primi risultati intermedi, delle considerazioni di rilievo sul modo di fare informazione durante la pandemia. Dal nostro studio, oltre ad una lampante ri-esplosione della questione meridionale e del conflitto Nord-Sud, stanno emergendo retoriche discorsive e scelte lessicali che spesso celano nuove forme di vittimizzazione dell’attore sociale del Nord e diversi atteggiamenti rivendicativi sulle competenze e sul potenziale ruolo di sviluppo da parte del Mezzogiorno. Si tratta di rappresentazioni che devono far riflette sia sulla professione giornalistica in un contesto emergenziale, sia sulle latenti impronte culturali che nutrono a volte inconsapevolmente l’agency discorsiva e narrativa sul rapporto tra i due territori del nostro paese.” “Quanto incide sullo sviluppo delle imprese, del tessuto economico di alcune aree, una narrazione non oggettiva da parte dei media?  – Si è chiesto il presidente della Camera di Commercio, Ciro Fiola, aprendo i lavori della conferenza stampa dedicata alla presentazione della ricerca – “Ce lo siamo chiesti spesso, specialmente al Sud, ha aggiunto Fiola, nella nostra Napoli, sempre più scenario per il racconto di delitti e guerre di camorra, palcoscenico di fiction che ne tratteggiano il lato peggiore. Ben vengano azioni di ricerca rigorosa come questa messa in campo dal SUGC in collaborazione con l’Università Federico II”. “Durante il primo lockdown i consiglieri il SUGC hanno raccolto numerose segnalazioni su articoli, servizi e programmi TV che hanno raccontato il Mezzogiorno proponendo i pregiudizi e gli stereotipi di sempre, ha detto Maria Cava, consigliera del SUGC. “Anziché affidarci ad un comunicato stampa abbiamo voluto analizzare il fenomeno in modo più strutturato, misurandolo. Di qui l’idea della ricerca sociale frutto di una decisione di lavoro di squadra di tutto il Sindacato dei giornalisti della Campania. Ci aspettiamo di poter contribuire ad una maggiore responsabilità, consapevolezza, cura e attenzione nella nostra professione”. Il gruppo di lavoro del Dipartimento di Sociologia della Federico II è composto da Stefano Bory, Luca Bifulco e Rosaria Lumino. C’è anche Philip Di Salvo, dell’Istituto di media e giornalismo (IMeG), Università della Svizzera italiana (USI).

Il Sud «condannato» a non cambiare dai suoi stessi scrittori. Esce un importante saggio dello studioso lucano Giuseppe Lupo: da Verga a Saviano una linea immobilista Vittorini e Nigro fra le eccezioni. Oscar Iarussi il  21 Aprile 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Che cosa c’entra Boccaccio con la questione meridionale? C’entra, eccome, sostiene il nuovo libro dell’italianista Giuseppe Lupo, lucano di nascita, romanziere di successo e docente alla Università Cattolica di Milano e Brescia. La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli esce domani per i tipi di Rubbettino (pp. 279, euro 18,00). La letteratura meridionale e la nostra stessa visione del Sud, esordisce Lupo, sarebbero diversi se avesse prevalso «l’aria napoletana più che toscana, con giardini di arance e odore di mare» delle novelle del Decameron (Pasolini ambientò il suo film da Boccaccio sotto il Vesuvio), un’aria lieve che ritorna nel tono fiabesco del secentesco Lo cunto de li cunti del campano Giambattista Basile. Quel «narrare angioino» della Napoli di mercanti e artigiani, cioè estroso miracoloso fantastico, nel corso dei secoli è stato invece surclassato dalla «mentalità conservativa dei dominatori spagnoli (meglio sarebbe dire la presunzione aragonese di gestire un potere politico in termini suppletivi)». Tale primato avrebbe sottratto il Sud alle traiettorie della Ragione, tanto più dopo la traumatica sconfitta della Repubblica Napoletana del 1799, bloccandolo nella dimensione della «anti-storia» o della «non storia» di cui è ancora prigioniero. Del resto, la rivolta contro il tempo storico e «il mito dell’eterno ritorno», secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, sono le caratteristiche delle società arcaiche. Il Mezzogiorno entra nel canone della modernità a fine ‘800 - scrive Lupo - sotto il segno di Giovanni Verga con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo: «Se da Manzoni la Storia veniva osservata come luogo del riscatto per gli individui, per Verga non c’è speranza di redenzione, non esiste prova che essa, la Storia, produca migliorie e modifichi le sorti degli uomini». Ecco la matrice o la quintessenza siciliana che presto si impone sul Meridione peninsulare e da cui deriva una tradizione pessimista fino alla paralisi, se non apocalittica. È la cornice nella quale Lupo iscrive - certo, con le varianti stilistiche e politiche dei singoli autori - Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), Federico De Roberto (I Vicerè), Luigi Pirandello (I vecchi e i giovani), ma anche il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli, Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro, Corrado Alvaro, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, e via via fino a noi, L’inferno di Giorgio Bocca, I traditori di Giancarlo De Cataldo e Gomorra di Roberto Saviano. «Se fosse prevalsa la linea tracciata da Boccaccio e Basile, avremmo avuto una letteratura meridionale modulata sulla leggerezza dei sogni e sulle oscillazioni dell’immaginazione. Ma ha prevalso l’atteggiamento aragonese che negli esiti letterari ha provocato uno sguardo da archivista, ha ratificato l’assenza della borghesia e dunque il fallimento di qualsiasi spinta al progresso». Eccezioni o alternative? Lupo ne individua ben poche: l’anelito alla modernità politecnica di Elio Vittorini, siciliano a Milano, e del suo allievo Raffaele Crovi; l’approccio interdisciplinare di Leonardo Sinisgalli, lucano al Nord che si sottrae alle «viscere di una fascinazione leviana»; la vocazione riformista e federativa di Adriano Olivetti, piemontese impegnato nel dopoguerra tra Pozzuoli e Matera, che echeggia in un pamphlet di Riccardo Musatti (La via del Sud, 1955, riedito nel 2020 da Donzelli con un’introduzione di Carlo Borgomeo). Fra tutte, nell’analisi dell’autore, spicca l’anomalia virtuosa di Raffaele Nigro, fin da I fuochi del Basento (1987): «A più di quarant’anni di distanza dal Cristo leviano, Nigro capovolge i termini del narrare meridionale con un romanzo di pronunciate ascendenze manzoniane, dove coniuga documentazione d’archivio e creatività... Per aver riscritto il patto tra epica e questione meridionale, I fuochi del Basento restituisce dignità letteraria a un argomento piuttosto marginale come il brigantaggio, contribuendo alla sua rivitalizzazione». E proprio con Nigro e con altri studiosi come l’antropologo Vito Teti, da tempo Lupo è impegnato in una prospettiva «appenninica» della questione meridionale (le aree interne, la dorsale dall’Emilia alla Calabria), che rivendica più attenzione all’«osso» montuoso rispetto alla «polpa» delle pianure e delle coste, di fatto ribaltando il celebre paradigma postbellico dell’economista Manlio Rossi-Doria. Un’Italia solo apparentemente «minore», quella degli Appennini, tornata «di moda» in era Covid, che, scrive Lupo, andrebbe valorizzata dotandola di servizi (logistica, istruzione, sanità, banda larga) e non retrocessa a «nuova arcadia» per le fughe dalle città dei ricchi settentrionali in cerca di borghi abbandonati. L’Appennino assunto quale cardine ideale, equidistante tra Est e Ovest, tra Europa e Mediterraneo - leggiamo - anche rispetto al «pianeta meridiano» di Franco Cassano, il sociologo che ha rilanciato la necessità di un pensiero radicale del Sud. L’esegesi dei testi letterari da parte di Lupo è rigorosa e la sua ipotesi è suggestiva, feconda: questo libro farà discutere. A noi pare - come dire? - forse troppo «severo» verso Levi, che, verissimo, ricalca le allegorie dantesche nella esplorazione dell’inferno contadino dove fu esiliato dal fascismo, ma la cui modernità letteraria (e politica) è testimoniata per esempio da L’orologio e dalla stessa mistura fra reportage, saggio e romanzo del Cristo. Simile osservazione avanzeremmo rispetto a Scotellaro e ad altri autori meridionali che l’editore Vito Laterza negli anni ’50 fece confluire nei «Libri del Tempo»: Danilo Dolci, Tommaso Fiore, Leonardo Sciascia, Giovannino Russo. Le loro sono indagini vivide lungo il confine di stagioni e sfide nuove. Nondimeno, La Storia senza redenzione di Giuseppe Lupo è un saggio originale e importante sulla «vera grande frontiera che deve valicare la letteratura d’impianto meridionalista: quella dei rapporti tra realtà e rappresentazione, cioè tra documento e mimesi». Oltre la descrizione o la denuncia del «mondo così com’è», narrare sognare concepire un altro Sud è possibile.

·        Quei razzisti come gli italiani.

Inglesi e padani. Quello che sono e quello che appaiono.

Oggi 12 luglio 2021. All’indomani dello spettacolo indegno del razzismo inglese contro gli italiani, ma ancor più grave, contro i loro neri che hanno sbagliato i rigori.

I tifosi inglesi hanno dileggiato l’inno e la bandiera italiana e picchiato gli italiani allo stadio.

I giocatori hanno rifiutato la medaglia ed i reali hanno rifiutato di premiare gli avversari.

Gli arroganti se ne fottono se gli altri del Regno Unito tifavano contro di loro.

Così era in tutta Europa.

Essere Razzisti significa essere coglioni (cafoni ignoranti).

La mia constatazione: gli italiani ed in special modo i meridionali nel ‘900 erano poveri, ignoranti e cafoni. E ci stava sopportare le angherie.

La mia domanda è: nel 2021 cosa costringe la gente italiana e meridionale scolarizzata ed emancipata ad essere sfruttata e votata ad arricchire dei coglioni?

Per poi diventare come loro?

Return Home- tornate a casa. Create ricchezza nel vostro paese. Lì, al nord o all'estero, sarete sempre dei profughi.

Hanno solo i media che li esaltano e per questo si decantano. Ma la loro natura la si conosce quando perdono: non sanno perdere, perché si sentono superiori. Peccato che non lo sono. Forse nel ‘900. Non nel 2021.

Ricordate: da loro si va solo per lavorare e non per visitare. Per questo sono cattivi.

Da noi si viene (forse in troppi) per vivere bene e conoscere la bellezza che loro non hanno. Per questo siamo buoni.

Il cafone è chiassoso, esibizionista, ignorante e prepotente. I suoi sinonimi: Se vuoi chiamali terroni o polentoni, bauscia o burini, ecc..

Da dove vieni. La cittadinanza e il dilemma di chi non riesce a sentirsi italiano. Cinzia Conti, Salvatore Strozza, Enrico Tucci su L'Inkiesta il 23 novembre 2021. Molti dei giovani nati qui da genitori stranieri spesso si trovano divisi tra identità e nazioni diverse. Come ricorda il libro “Nuovi cittadini” (Il Mulino), la legge rappresenta un ostacolo anche psicologico alla percezione della propria appartenenza. Sentirsi italiani senza esserlo. Dall’indagine dell’Istat emerge che la sospensione dell’identità, in linea con quanto sostenuto in letteratura, interessa una quota rilevante di ragazzi stranieri che vivono nel nostro paese e frequentano la scuola secondaria di primo o di secondo grado. Gli intervistati stranieri che si sentono italiani sono circa il 38%, mentre il 33% si sente straniero e poco più del 29% non sa rispondere. Nella percezione dell’appartenenza gioca un ruolo non secondario la generazione migratoria. Per i nati in Italia, la quota di chi si sente straniero si riduce al 23,7%, mentre sale al 47,5% quella di coloro che si percepiscono italiani. Valori simili a quelli riscontrati per i nati in Italia si osservano anche per i nati all’estero purché arrivati prima dei 6 anni. Tra i ragazzi arrivati dopo i 10 anni, si sente straniero più di uno su due (quasi il 53%), mentre solo il 17% si sente italiano. Per tutte le generazioni migratorie, la «sospensione» dell’identità riguarda oltre un quarto dei ragazzi. La quota di indecisi è più elevata tra i nati all’estero entrati tra i 6 e i 10 anni (31,2%), ma anche per i nati in Italia la proporzione sfiora il 29%. Dal punto di vista della riflessione relativa alle norme sulla cittadinanza, questi dati aiutano a capire come sia evidente che l’atteggiamento di chi nasce in Italia o vi risiede dai primissimi anni di vita sia molto differente rispetto a quello di chi arriva già adolescente. Si tratta quindi di elementi sicuramente a favore di proposte che tengano conto dello ius soli seppure in maniera «temperata».

Così come è evidente che per le seconde generazioni intese in senso ampio è importante la possibilità di mantenere la doppia cittadinanza, che potrebbe consentire quantomeno ad alcuni di quelli che rispondono «non so» di trovare una collocazione che li faccia sentire a loro agio.

Non è possibile essere più netti nelle affermazioni alla luce delle informazioni disponibili. Infatti, l’indagine dell’Istat non consente purtroppo di tenere in considerazione chi si sente sia italiano, sia di un’altra cittadinanza, visto che chiedeva di prendere una decisione netta scegliendo la condizione/percezione prevalente. Allo stesso modo la rilevazione non consente di misurare il senso di appartenenza rispetto alla collettività di origine perché le modalità di risposta al quesito «Ti senti di più?» prevedono solo «italiano», «straniero» e «non so». Nessuna modalità tra quelle proposte consente quindi di cogliere se ci sia nel rispondente un forte senso di appartenenza a una particolare collettività: forse un ragazzo filippino avrebbe scelto volentieri la modalità «filippino» se ci fosse stata. Ricordiamo infatti che alcune collettività hanno in Italia una forte rete di legami molto radicata e sviluppata sul territorio, anche per quanto riguarda i giovani di seconda generazione.

Allo stesso tempo, nell’interpretazione dei dati si deve anche tenere conto che la normativa vigente non è priva di influenze sul senso di appartenenza. Se la legge non mi dà la possibilità di essere italiano è più facile che comunque finisca per sentirmi straniero. Un mutamento della normativa che ampliasse e accelerasse i tempi dell’acquisizione della cittadinanza potrebbe sicuramente incidere anche sull’autopercezione.

Al di là della condizione effettiva, sapere di poter diventare più facilmente italiani potrebbe rafforzare il «sentirsi italiani». È tra alcuni gruppi asiatici e latinoamericani che si registrano le quote più alte di ragazzi che si sentono stranieri: 42,1% tra i cinesi, 39,5% tra gli ecuadoriani, 38,9% tra i peruviani e 38,4% tra i filippini.

Nel caso dei cittadini cinesi, filippini ed ecuadoriani, anche tra i nati in Italia sono pochi coloro che si sentono italiani. Al contrario, tra i romeni la quota di chi si sente italiano è particolarmente elevata (45,8%), anche a fronte di un numero contenuto di acquisizioni di cittadinanza registrato dai dati amministrativi.

Per un ragazzo comunitario sentirsi nei fatti italiano, cioè al di là dell’acquisizione formale della cittadinanza che interessa meno a chi viene da un paese dell’Unione, può essere comunque più facile per una serie di elementi culturali condivisi. Si potrebbe ipotizzare anche un ruolo giocato dalla diversità fisica (colore della pelle, tratti somatici ecc.), ma non sembra vero per tutte le origini.

Infatti, il gruppo non europeo con la quota più elevata di giovani che si sentono italiani è quello marocchino (36%). Si deve però sottolineare che la stessa indagine mette in evidenza che si tratta di una collettività tra quelle con le più frequenti interazioni con gli italiani: tra i nati in Italia la quota di coloro che frequentano italiani arriva quasi all’82% e quella di chi afferma di parlare molto bene l’italiano sfiora il 73%.

Inoltre il fatto che molti ragazzi di origine marocchina abbiano ottenuto la cittadinanza italiana può portare più facilmente gli altri ragazzi di questo gruppo a sentire «vicina» la cittadinanza del nostro paese.

da “Nuovi cittadini. Diventare italiani nell’era della globalizzazione”, di Salvatore Strozza, Cinzia Conti, Enrico Tucci, Il Mulino, 2021, pagine 192, euro 18

Antonio Socci per “Libero quotidiano” il 2 novembre 2021. Ma noi toscani siamo proprio come ci dipingono? A Fabio Martini, della Stampa, l'ex ministro socialista Rino Formica ha detto che Matteo Renzi è "furbo", "può far male", ma "è un capo senza truppe" e non sarà decisivo nella corsa al Quirinale. Poi Formica ha tirato fuori questo ricordo: «Nel 1944 conobbi Benedetto Croce... ad un certo punto, parlando di violenza politica, Croce disse: «Vi siete mai chiesti come mai in Italia non c'è stato un corpo spietato come le SS? E rispose: da noi poliziotti e carabinieri sono tutti ragazzi del Sud, ragazzi di buon cuore. Pensate invece se fossero stati tutti toscani...». Se è una battuta non fa ridere. Di sicuro mostra che il filosofo poco sapeva sulla vera natura delle orribili SS. Ma cosa c'entra con i toscani? E con la corsa al Quirinale? Perché Formica ha riportato questa battuta? Come sarebbe stata accolta se a coniarla e a rilanciarla, invece di un intellettuale meridionale e di un politico barese, fosse stato un intellettuale/politico del Nord, e anziché i toscani avesse preso di mira i meridionali? Io l'avrei trovata assurda e ingiusta. È sciocco e offensivo - per esempio - identificare il bellissimo Sud e la sua splendida gente con fenomeni pessimi e sanguinari come mafia, camorra, 'ndrangheta e Sacra corona. Tanto più lo sarebbe accostare il meridione alle SS con cui non c'entra nulla. Ma allora perché con i toscani si può fare? Cosa abbiamo perpetrato di così terribile? Di quali spietati crimini ci siamo macchiati? La nostra storia è davvero così orrenda? Ecco cosa c'è nella nostra storia: abbiamo la colpa di aver illuminato tutti di bellezza. Forse è questo che non ci perdonano. Abbiamo dato una lingua e un'identità all'Italia e una poesia sublime che non ha eguali nel mondo. Abbiamo inventato l'arte moderna e pure la scienza (e costruito banche, ospedali e opere di carità). I "maledetti toscani" hanno fatto il Rinascimento, e non solo quello dei manuali (fra Quattro e Cinquecento), ma l'epoca che va da Dante e Giotto fino a Galileo: sono quei tre secoli in cui i toscani hanno riempito la terra di geni, di bellezza e di intelligenza così fondando la nostra civiltà. È per aver costruito la civiltà, che le SS volevano distruggere, che i toscani meritano la battutaccia di Croce? Peraltro - a dirla tutta- i progenitori di questi "cattivissimi" toscani ebbero un ruolo decisivo pure nella "creazione" di Roma (gran parte dei suoi re erano appunto etruschi), al punto che Jacques Heurgon ha scritto: «È in verità impressionante il constatare che, per due volte nel VII secolo a.C. e nel XV d.C., pressoché la stessa regione dell'Italia centrale, l'Etruria antica e la Toscana moderna, sia stata il focolaio determinante della civiltà Italiana». Credo che Benedetto Croce e Rino Formica avrebbero meritato una pungente risposta da Oriana Fallaci, una che aveva combattuto contro le SS da ragazzina, partigiana a 14 anni, rischiando la pelle. La battuta sui toscani non l'avrebbe digerita colei che faceva queste dichiarazioni d'amore alla sua terra: «Amo appassionatamente la Toscana. Mi inorgoglisce troppo quello che ha dato al mondo nel campo dell'arte, della scienza, della letteratura, della politica insomma della cultura. E a ogni pretesto parlo e scrivo della Toscana». Certo, anche la Fallaci - essendo una donna di carattere - era ritenuta un pessimo carattere. Come i toscani in genere. Ma non si può confondere la tagliente passionalità e l'ardore di una toscana come lei, con la fredda ferocia delle SS. Siamo agli antipodi. Michelangelo e Leonardo, Piero della Francesca, Petrarca, Brunelleschi e Botticelli sono l'opposto della barbarie. Fra l'eroica carità di santa Caterina, che curava amorevolmente malati coperti di piaghe, e il capo delle SS Heinrich Himmler, con le sue crudeli divinità pagane, c'è la distanza che oppone Dio e Satana. Naturalmente Caterina è una santa, ma il suo temperamento focoso, innamorato e la sua parola libera sono molto toscani. Certo, quando non è modellato dalla carità quello toscano è un carattere spigoloso, urticante, ma abbiamo provveduto da soli a bacchettarci, sia irridendoci reciprocamente - fin dai tempi di Dante e Cecco Angiolieri - sia nei tempi moderni con lo stereotipo del "maledetto toscano" creato da Curzio Malaparte. Dante ha immortalato il carattere toscano (quindi anche il suo) in Farinata degli Uberti. Abbiamo la lotta di fazione nel sangue, ma non senza grandezza e nobiltà. Abbiamo nel Dna Lorenzo il Magnifico e pure il genio beffardo (ma intimamente idealista) di Machiavelli. Anche per questo attiriamo ostilità. Accade al toscano Matteo Renzi e anche alla toscana Rosy Bindi che - scrive Stefano Folli - «ambienti dei 5S e della sinistra» oggi vorrebbero candidare al Quirinale. Peraltro Renzi e la Bindi si sono sempre guardati di traverso. Ovviamente. Auguro ogni bene a Rosy, ma noi toscani - con la nostra tagliente e divisiva faziosità - non siamo adatti a una carica ecumenica e conciliante come deve essere quella presidenziale.

Francesco Cofano per lastampa.it il 6 ottobre 2021. Durante Fiorentina-Napoli di Serie A, Koulibaly, Osimhen e Anguissa sono stati vittime di insulti razzisti. La società viola si è scusata con i giocatori, condannando il brutto episodio, e ha garantito che proibirà l’accesso allo stadio al responsabile. Nello stesso comunicato la Fiorentina ha anche citato un episodio altrettanto grave che ha coinvolto Dusan Vlahovic, nella partita giocata a Bergamo contro l’Atalanta l’11 settembre scorso. In quell’occasione l’attaccante viola era stato bersagliato durante e dopo il match dagli ultrà atalantini, che gli urlavano "zingaro". Secondo la Fiorentina, le autorità in quel caso non sono state altrettanto attente. Anche Lapo Elkann, su Twitter, si è schierato col calciatore serbo.

Da torino.corriere.it il 22 ottobre 2021. Picchiata e insultata davanti a scuola, a soli 14 anni, per il colore della sua pelle. «Mi ha chiamata scimmia, mi ha detto che quelli come me devono morire», il racconto al quotidiano La Stampa della giovane, che ha denunciato l’aggressione alla polizia. È accaduto a Torino, all’esterno di un istituto alberghiero. «Ero appena arrivata ed ero con le mie amiche, quando si è avvicinata una ragazza di un’altra classe — dice —. Mi ha afferrata per i capelli, mi ha strappato alcune treccine. Si è seduta sopra di me, schiacciandomi con un ginocchio e dandomi colpi sul costato». Chi l’ha aggredita si è poi presentata al pronto soccorso del Cto con alcune contusioni alle mani; dice di avere difeso un compagno disabile «dall’atteggiamento ingiusto della ragazza», ma l’aggressione è stata filmata. Qualche genitore ha recuperato il video e l’ha girato alla madre. «Non riesco nemmeno a guardarlo — dice la donna —. Vedere quello che fanno alla mia bambina. Sentire quegli insulti. In tanti anni in Italia, nessuno mi ha mai offesa per le mie origini. Mentre mia figlia si trova a combattere con il razzismo. Le consiglio di passare oltre, di non prendersela perché non ne vale la pena. Parole che dico anche a me stessa, ma non è semplice». 

“Hai la discarica nel cervello”: Sgarbi umilia Toscani che aveva offeso la Sicilia e i siciliani. Gabriele Alberti martedì 19 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. A sentire Oliviero Toscani insultare la Sicilia, Vittorio Sgarbi non si trattiene. E sfoga tutto il suo furore contro le parole dure contro la Sicilia e i suoi abitanti pronunciate dal fotografo radical chic in una recente intervista a Repubblica. Parlando del patrimonio artistico e culturale dell’isola Toscani ha sentenziato: “Tutta roba creata da madre natura o che hanno realizzato gli avi dei siciliani di oggi. I residenti attuali non hanno alcun merito per la bellezza che abbonda in Sicilia. Si ritrovano in mezzo a un tesoro inestimabile che davvero non meritano. Anzi”. E argomentava definendo l’Isola una “discarica di intelligenze”. Sempre divisivo e offensivo nei suoi interventi. Una bassezza a cui sempre dalle colonne di Repubblica ha risposto Sgarbi, postando sulla sua pagina Fb la replica fatta a  Repubblica Palermo. E al solito, il critico d’arte picchia durissimo: “Dissento da Toscani la Sicilia è avanguardia“. Professore Sgarbi – la domanda – ma la Sicilia è davvero una discarica di intelligenze come sostiene il fotografo Oliviero Toscani? Si infuria il critico d’arte: “Non è vero: Franco Battiato è adorato come una divinità, Leonardo Sciascia è l’intellettuale più influente assieme a Pasolini. La pittura ha avuto, a parte Renato Guttuso, i meravigliosi Fausto Pirandello e Piero Guccione. La discarica è nel cervello di Toscani. L’avanguardia della cultura italiana parte dalla Sicilia e la politica l’affossa. Può darsi”, scrive Sgarbi. Ma l’offesa ai siciliani è irricevibile e ignobile in quelle forme espresse da Toscani. “La Sicilia ha un grande problema- ragiona il critico d’arte- : è marginale. Se fai una cosa a Milano o a Roma, quella cosa effettivamente accade. Se la organizzi in Sicilia, rimani fuori dal mondo. Per invertire questa rotta inventai la ricostruzione del tempio G di Selinunte. Se con un cantiere di venti milioni di euro metti in piedi un tempio, quello diventa l’emblema della rinascita, ma la politica non l’ha capito”. E pensare che Toscani ha scelto un momento sbagliato per denigrare la politica siciliana riguardo al suo patrimonio artistico, che secondo lui “non meriterebbe”. Lo merita talmente che è di un giorno fa  la notizia di un accordo con la restituzione di 38 importanti reperti archeologici da parte dell’Allard Pierson Museum di Amsterdam: reperti trafugati da un relitto al largo delle isole Eolie. Amsterdam dovrà restituirli  alla Soprintendenza del Mare della Regione siciliana dopo un lungo contenzioso.

Gigio e l'inno della Spagna. Quei fischi di vergogna. Tony Damascelli il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Fischi a ricoprire gli spagnoli, fischi per Donnarumma. La ciurma di San Siro si fa riconoscere dall'Europa. Il nostro meraviglioso pubblico. Una vergogna. Fischi a ricoprire gli spagnoli, fischi per Donnarumma. La ciurma di San Siro si fa riconoscere dall'Europa, dobbiamo richiudere gli stadi, perché il calcio non può dare accesso a queste canaglie che nulla hanno a che fare con lo sport e pure con la vita. Stadio non pieno, secondo regole, la tribuna autorità esibisce le solite facce di bronzo e affini, visti sorrisi e abbracci cortigiani attorno a Ceferin, tutta roba nostrana da Gravina alla Christillin pronti alle riverenze con chi ha insultato un presidente italiano. Lo stadio è caldo ma di un calore tossico, ogni pallone dalle parti di Donnarumma diventa velenoso e avvelenato, Gigio ascolta, soffre, trema, balla, sbanda, i rancori di mercato si trascinano in nazionale, legittimati striscioni volgari, il distanziamento è mentale, di qua un popolo che ama il football, di là gentaglia facilmente riconoscibile ma mai riconosciuta. Gli strilli razzisti di Firenze fanno parte di questo repertorio, i berci di Bergamo contro lo zingaro Vlahovic non hanno avuto uguale tam tam, il lockdown non è servito a pulire teste malate, l'ìnno spagnolo non ha testo ma i cori e i fischi insultanti di San Siro hanno provveduto a riempire di rifiuti la marcia reale. Che senso ha onorare il titolo europeo con uno spettacolo così indecoroso? Mi attendo un intervento del Gravina di cui sopra, imbarazzato da tale scempio, San Siro ospiterà domenica la finale di questa Nations League, ripetere l'oscenità sarebbe imperdonabile. L'Uefa dovrebbe avere il coraggio di dirottare l'evento altrove ma qui siamo nell'utopia. La Spagna ha saputo reagire con il football sul campo. Il resto sono fischi al vento. Tony Damascelli

La migrazione dei Lombardi in Sicilia. Nel medioevo siciliano, una vasta comunità di Lombardi si stabilì in alcune zone strategiche dell’isola, su invito dell’imperatore Federico II. Samuele Schirò su palermoviva.it. Secondo le logiche moderne, la presenza di una comunità lombarda in Sicilia suonerebbe perlomeno come una controtendenza. Eppure è quello che accadde nel 1237, durante il regno dello Stupor Mundi, l’Imperatore Federico II di Svevia. Vediamo cosa accadde. 

Alla morte dell’Imperatore Enrico IV il piccolo Federico, erede al trono ancora minorenne, fu affidato alla custodia del Papa Innocenzo III. In questo frangente il papato cercava di riaffermare alcuni dei suoi antichi diritti sul Regno di Sicilia, scontrandosi con le truppe tedesche, appoggiate dalle comunità musulmane ancora presenti nell’isola. Le battaglie continuarono finché Federico non divenne maggiorenne e fu quindi incoronato Re di Sicilia. Nonostante il clima di maggiore stabilità, le frange saracene in Sicilia continuarono a ribellarsi ed erano spesso causa di rivolte che rappresentavano un pericolo per l’integrità dello stato. Per questo motivo nel 1220 Federico raccolse le forze per muovere guerra contro le comunità musulmane e, una dopo l’altra, tutte le roccaforti arabe caddero sotto i colpi dell’esercito svevo. I superstiti arabi non furono sterminati, come era uso a quel tempo, Federico infatti decise di risparmiare loro la vita, deportandoli nella città pugliese di Lucera, in cui piano piano si riorganizzarono in una fiorente comunità, stavolta fedele all’Imperatore. Il risultato di queste deportazioni, fu lo svuotamento di alcune grandi città site in posizioni strategiche, prima tra tutte Corleone, il punto di passaggio tra Palermo e le zone rurali della Sicilia. Qualche anno dopo, nel 1237, Federico II a capo delle fazioni ghibelline, mosse guerra ai guelfi della Lega Lombarda, composta da un gruppo di comuni dell’Italia settentrionale. Durante queste battaglie, alcune comunità provenienti dai territori lombardi (soprattutto dall’Oltrepò Pavese e da alcune province dell’attuale Piemonte) si opposero alla Lega e decisero di unirsi a Federico. Questo gruppo di Lombardi fedeli all’Imperatore, capitanati da Oddone da Camerana, vollero allontanarsi dalle loro terre d’origine (circondate da comuni ostili) e chiesero dunque asilo a Federico II, che concesse loro dei possedimenti in Sicilia. Dapprima si stabilirono a Scopello (dove però si trovarono in difficoltà a causa dell’incapacità di difendere quel decisivo tratto di mare) ed in seguito nella spopolata Corleone e in altre città dell’entroterra, dove invece prosperarono fino a formare delle forti e nutrite comunità. Negli anni successivi, la Curia di Corleone contribuì alla crescita della città, concedendo alle nuove famiglie arrivate dalla Lombardia, proprietà e terreni edificabili. In seguito, nel 1282, la comunità Lombarda di Corleone si rivelò una preziosissima alleata di Palermo nella Guerra del Vespro, che si concluse con la cacciata degli Angioini dalla Sicilia.

 Samuele Schirò. Direttore responsabile, redattore e fotografo di Palermoviva. Amo Palermo per la sua storia e cultura millenaria.

La polemica. La cultura antimafia è razzista. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Settembre 2021. Se fossimo capaci di vedere bene la sostanza delle cose, senza che la vista rimanga solo impressionata dal tegumento retorico che la ammanta, allora riconosceremmo il segno profondo della cosiddetta cultura antimafia: il razzismo. Non mi riferisco – inutile precisarlo – alle persone, perlopiù in buona fede, che ispirano la propria militanza alla missione antimafiosa. I politici, i magistrati, i giornalisti che pure lo fanno sono seriamente convinti di parteggiare in tal modo sul fronte delle cose giuste. Mi riferisco piuttosto, e appunto, alla cultura che quella convinzione determina, una cultura in profundo razzista e tanto più pericolosa perché intride atteggiamenti che nemmeno vagamente si sospettano discriminatori. E il razzismo della cosiddetta antimafia sta in ciò, che essa criminalizza non già un comportamento ma una condizione. E così la sanzione per una testata sul naso di un giornalista si misura sul grado di mafiosità del picchiatore. Così, ancora, l’identica corruzione, l’identica estorsione, l’identico omicidio eccitano più o meno i meccanismi reattivi dello Stato secondo che a commetterli sia il criminale comune o invece il mafioso. Così, infine, è quel criterio discriminatorio, esattamente riferito a quella “condizione”, a fare che le cure di giustizia vadano dal degrado della normalità detentiva ai tormenti del carcere duro. Ed è tanto più evidente il presupposto razzista di questo meccanismo, quando si vede come esso funziona nel coinvolgimento indiscriminato delle “famiglie”, dei “clan”, i cui membri scontano una colpa non diversa rispetto a quella attribuita a un colorato in regime di apartheid. Iuri Maria Prado

Una mafia più percepita che reale. Per la Dia la mafia è cambiata, ora cambiate il 416 bis. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Settembre 2021. L’ennesima notizia su un pubblico amministratore arriva da Palermo, dove il gip ha prosciolto con la formula più ampia il sindaco di Castellamare del Golfo, Nicolò Rizzo, indagato da un anno e mezzo nell’ambito di un’operazione definita “Cutrara” per “favoreggiamento aggravato dal fatto di aver agevolato Cosa Nostra”. Un classico, che pare ricalcare quel che accade ogni giorno in Calabria, con l’uso a piene mani, anche per la contestazione di un abuso d’ufficio, dell’aggravante mafiosa. Il che serve alla polizia giudiziaria e al pm per poter arrestare e intercettare, ma anche a sancire sempre di più, giorno dopo giorno, che nelle regioni del sud tutto è mafia. E soprattutto per dimostrare che ormai la mafia è quella dei “colletti bianchi”. Nella stessa giornata in cui abbiamo appreso la notizia di Palermo, è stata resa nota la relazione della Direzione Investigativa Antimafia (Dia) al Parlamento relativa al secondo semestre del 2020. Lo schema riflette una certa miopia, troppo spesso voluta, nell’esaminare le evoluzioni e i cambiamenti delle mafie, a partire da quel 1982 in cui, dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fu introdotta nella legge Rognoni-La Torre la fattispecie dell’articolo 416 bis del codice penale, l’associazione mafiosa. Ci si deve domandare, prima di tutto, se quella formulazione oggi sia ancora attuale. Probabilmente in gran parte non lo è, a partire dalla Sicilia, la regione che più di ogni altra ha sofferto fino agli anni novanta la guerra tra cosche e l’assalto allo Stato con le armi e il tritolo. «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti…». Nelle parti successive al comma 3 dell’articolo 416 bis il legislatore si sofferma a lungo sul concetto di associazione mafiosa armata. Non per caso. Il possesso e l’uso delle armi sono sempre stati fondamentali ai boss per assoggettare e per controllare il territorio. Oggi la relazione della Dia, e non è una novità, ci dice che «la violenza delle mafie è ormai residuale, la strategia è infiltrare l’economia. Riciclano al nord, puntano i fondi pubblici nel meridione». I dati sono molto chiari, gli omicidi, i ferimenti, le faide di sangue sono quasi del tutto terminati. E questa è una buona notizia. Più preoccupante è il fatto che gli investigatori dell’antimafia non riescano a staccarsi dalla nostalgia di un proprio ruolo necessariamente diverso quando fischiavano le pallottole. Che senso ha infatti, invece di gioire, di farsi vanto anche, per questo radicale cambiamento della società meridionale, voler leggere la nuova situazione come «processo di trasformazione e sommersione, senza rinunciare alla pressione intimidatoria che garantisce il potere criminale»? Il fatto che nel mondo del narcotraffico o del mercato “sporco” dei traffici sui rifiuti o sul movimento terra ricorrano anche nomi di famiglie conosciute come appartenenti ad antiche storie di mafia, non qualifica necessariamente questi reati come “mafiosi”. E non tutti coloro che commettono questo tipo di reati devono per forza appartenere alle cosche. Questo non significa che non esiste più la mafia, ma semplicemente che non tutto è mafia. Che storicamente gli uomini della ‘ndrangheta siano impegnati nel traffico internazionale degli stupefacenti, e in particolare in collaborazione con i sudamericani, è cosa piuttosto nota. Ma la loro attività illegale è costruita ancora, come fu un tempo, sulla forza intimidatrice e la capacità di ottenere omertà tramite la forza di assoggettare, o non è semplicemente fabbrica di soldi? Non è una domanda da poco. Perché, se è vero, come dice la relazione della Dia, che questa attività si concretizza al Nord mediante il riciclaggio, al sud l’infiltrazione avviene nel settore pubblico e dei pubblici finanziamenti. E qui entrano in gioco le maxi-inchieste e i maxi-processi che paiono troppo spesso finalizzati a incastrare questo o quel politico, questo o quell’amministratore locale. Sempre tenendo in tasca la carta dell’aggravante mafiosa o del concorso esterno. Colpisce nella relazione della Dia che, nei dati, non si parli solo della diminuzione degli omicidi, ma anche dell’aumento delle «induzioni indebite a dare o promettere utilità», piuttosto che dei «traffici d’influenze» e delle turbative d’asta. I tipici reati dei “colletti bianchi”. Equiparati, persino nelle tabelle di dati statistici, ai reati di mafia. Se l’articolo 416 bis del codice penale racconta ormai più di una sorta di “mafia percepita” che reale, forse è ora di procedere a una revisione del tipo di reato. Anche se non piacerà a Nicola Gratteri, cui comunque va la nostra solidarietà per le minacce ricevute.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

I neri italiani dimenticati dalla Storia. Simonetta Fiori su La Repubblica il 12 settembre 2021. Le disavventure dei tremila “brown babies” nati dall’unione con soldati afroamericani rivelano una democrazia intrisa di razzismo. Per la prima volta Silvana Patriarca ne ricostruisce le vicende. Li chiamavano “mulattini”, ma anche “negretti ”, “cioccolatini”, “moretti” o “creature del sole e della luna”, per alludere all’incrocio tra colori diversi. I brown babies erano figli della guerra, ma diversi da tutti gli altri perché di pelle scura, nati dall’incontro tra giovani donne italiane e soldati neri dell’esercito di liberazione americano. Tremila bambini forse – la cifra resta incerta – in larga parte abbandonati dal padre e nascosti vergognosamente dalla madre, ma espulsi anche dal corpo bianco della nazione, dalla storiografia che li ha fin qui ignorati, dal ceto intellettuale che ne ha tratto ispirazione per tammurriate e racconti esotici senza mai interrogarsi sul significato profondo della loro emarginazione.

Bruno Bossio: «Le carceri sono lo specchio dei pregiudizi sui meridionali». Roberto incontra la parlamentare dem Enza Bruno Bossio, che lo accompagnerà anche nella tappa finale a Motta Santa Lucia. A proposito delle teorie lombrosiane sulla predisposizione a delinquere, Bruno Bossio spiega come abbiano dato origine ai pregiudizi sui meridionali, maggiormente presenti nelle nostre carceri e spesso detenuti ingiustamente. Il Dubbio il 4 settembre 2021. Il tour “Sui pedali della libertà”, appena iniziato, unisce infatti due luoghi significativi: il museo di Cesare Lombroso a Torino e il paese di provenienza in Calabria di Giuseppe Villella. Il cui teschio, per il fondatore dell’antropologia criminale, dimostrava la correlazione tra le fattezze fisiche e la predisposizione a delinquere. «Devo dire – spiega Bruno Bossio – che purtroppo le teorie lombrosiane segnano l’inizio di un pregiudizio che è rimasto, se è vero come ci dicono le percentuali che la maggioranza della popolazione italiana in carcere – spesso detenuta ingiustamente – è meridionale. Soprattutto quando ci sono esigenze cautelari e non condanne».

«Vi racconto quel pregiudizio sulle mie origini calabresi che mi ha distrutto la vita». Il Dubbio il 5 settembre 2021. Roberto incontra l'ex consigliere regionale della Valle d'Aosta, Marco Sorbara, assolto a fine luglio dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dopo 909 giorni in custodia cautelare. L’incubo giudiziario di Sorbara comincia il 23 gennaio 2019, quando i carabinieri bussano alla sua porta in piena notte per portarlo via assieme ad una decina di persone, tutte coinvolte nell’operazione “Geenna”. A fine luglio è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E, soprattutto, dopo mesi di calvario, aggravati dal voltafaccia dei suoi colleghi, che subito dopo l’arresto lo hanno massacrato. Momenti terribili, tra carcere e domiciliari, compresi 45 giorni in isolamento, racconta oggi Sorbara: «Nella mia cella erano cinque passi per quattro, li contavo. E mi chiedevo tutti i giorni perché. Ma non ho mai trovato risposta».

«Il pregiudizio verso il Sud c’è ancora: siamo tutti mafiosi…» Il Dubbio l'11 settembre 2021. Dopo 1400 chilometri, il tour di Roberto "Oltre i pregiudizi" si chiude nella città del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale "Cesare Lombroso" a Torino. L'ultimo pregiudizio che resta da abbattere è quello nei confronti del Sud. Se, come spiega il giornalista Mimmo Gangemi, la «questione meridionale è ridotta a questione criminale». L’ultima tappa del viaggio di Roberto Sensi “Oltre i pregiudizi” è a Motta Santa Lucia, la terra del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso” a Torino. L’ultimo pregiudizio che resta insepolto è quello sul meridione, una malattia autoimmune non ancora debellata. «La questione meridionale la si è ridotta a una mera questione criminale», spiega lo scrittore e giornalista Mimmo Gangemi. Parla del presente. Un presente che non sembra essersi allontanato di un passo da Lombroso.

Il pregiudizio contro i meridionali, davvero esiste ancora?

Esiste ma ha assunto forme più nascoste, camuffate da una finzione di civiltà che lo rigetta. Sono episodi sporadici le discriminazioni di un tempo, quando non s’affittavano case ai nostri emigranti e l’essere del Sud diventava una tara, un marchio d’infamia. Il pregiudizio però continua a camminare sottotraccia. Il Sud è additato e percepito come la palla al piede dell’Italia. Gli abitanti saremmo parassiti che si perpetuano lagnosi e vittime, sfaticati, mafiosi o con mentalità mafiosa.

Com’è nato questo odio?

Non siamo mai diventati nazione. A noi è stata tramandata la memoria della forzatura sanguinaria, mai appianata e taciuta dalla storia, in un regno che ci ha conquistato e trattato da sottomessi, da Ascari, con tasse e imposizioni, la leva obbligatoria, le morti innocenti e paesi distrutti pur di eliminare il dissenso, e i briganti, peraltro spesso resistenti all’invasore. E siamo rimasti indietro, o siamo stati lasciati indietro, anche per l’insipienza della classe politica e dirigente che esprimiamo. Nel cammino assieme, c’è stata una disparità di attenzione e di risorse e si è impattato in diversità sociali, culturali, economiche, storiche, caratteriali che hanno pesato e inciso fino a realizzare un’Italia a due diverse velocità, fino a dilatare il distacco e ad alimentare l’odio. Certo è, tuttavia, che le nostre valigie di cartone degli anni ’ 50, legate con lo spago, non differivano da quelle che tutti assieme, gente del Nord e gente del Sud, allestimmo per un’emigrazione alle Americhe che soccorresse il futuro.

Al di là degli stereotipi, esiste un’identità comune che unisce i popoli del Sud?

Il regno dei Borboni è morto e sepolto. Mai è stato un elemento di coesione. Siamo Italia e ci piace essere Italia. L’identità comune c’è perché ci accumuna la storia di oltre un millennio, e ancor prima, la Magna Grecia. Dall’unità d’Italia in poi si è aggiunto l’uguale disagio di essere considerati colonia e un ostacolo alla crescita della nazione. E talvolta i disagi, le democrazie a scartamento ridotto e lo stesso pregiudizio distribuito largo sanno diventare punti di saldatura.

A volte però a trovarsi ad avere pregiudizi verso di sé è lo stesso Sud, che subisce la narrazione dominante.

Il Sud non ha molte voci autorevoli da opporre all’Italia che lo pesa e lo giudica con un metro falsato. La Calabria è quella combinata peggio. Oltrepassa il Pollino una narrazione menzognera ed esagerata nella condanna. I personaggi che hanno ascolto e microfono, e spesso una credibilità mal riposta, sono pochi. Tra loro, c’è pure chi la racconta molto peggio di quanto sia, fa trasparire l’idea che tutto sia mafia, ha creato l’equazione “calabrese uguale ’ ndranghetista”. E l’Italia ha abboccato, senza ragionare che a taluni, anche giornalisti, torna comodo irrobustire il mostro ‘ ndrangheta, che mostro è, perché così irrobustisce le carriere e i meriti, con buona pace dell’innocenza maltrattata e dello Stato di diritto scappato altrove.

Come è accaduto che un partito come la Lega, che ha fondato la propria storia sull’antimeridionalismo, finisse per essere così largamente votato anche qui?

Ingenui creduloni stendono un velo sul razzismo di decenni ed è come infilarsi da sé l’amo in bocca. Una fetta della classe politica, pur di sedere a cassetta, non bada alla parte con la quale si schiera, insegue solo il successo elettorale, bianco o nero non importa. E troppi cittadini dalla memoria corta votano, per utilità e clientelismo, il compare, l’amico, l’amico degli amici.

Cosa si potrebbe fare, nell’immediato, per il Sud?

Un’equità sociale, livellando le disparità che si sono create. Ci sono priorità che mancano e sulle quali ormai non si protesta, perché si è talmente assuefatti al degrado che ciò che altrove appare ordinario al Sud lo si vede straordinario, un di più, una concessione. La sanità è impoverita ad arte, per l’obiettivo di avvantaggiare quella del Nord, magari sovradimensionata, che accoglie anche per prestazioni sanitarie di basso peso. L’agricoltura è stata penalizzata da dover scegliere o di lasciare marcire il frutto o di ricorrere al lavoro nero, altrimenti si va in perdita. L’autostrada A2 è un inganno: mai è stata davvero ultimata, se tra Reggio a Cosenza 52 chilometri, i più pericolosi, sono rimasti quelli di prima, senza corsia di emergenza e con tracciati da brividi. L’alta velocità ferroviaria da Salerno in giù è altina, non alta. La statale 106 è la strada della morte, a doppio senso di circolazione. I treni sono lo scarto del Nord. E i finanziamenti pubblici dipendono dallo storico, da quelli ottenuti nel corso degli anni, e diventa una storpiatura della democrazia che, per esempio, Reggio Calabria non possa avere nulla o quasi per gli asili nido solo perché nulla ha mai avuto, mentre l’altra Reggio, pur con meno abitanti, ha 16 milioni annui. Perciò, lo si metta alla pari, il Sud. Solo dopo potrà essere additato colpevole.

“Si è sempre a Sud di qualcuno”, a volte però stupisce vedere comportamenti razzisti da parte di chi a sua volta ne ha subiti. Perché accade?

È un’anomalia che chi, come i veneti e i friulani, agli inizi del Novecento, popoli più nella fame e più numerosi dei meridionali nell’emigrazione e che hanno subito il razzismo, si siano trovati loro razzisti, disprezzando così il sacrificio lontano degli antenati che hanno consentito di giungere meglio ai giorni nostri. Ma tant’è. Ed è vero che c’è sempre qualcuno più a Sud oggetto di discriminazione. È di fresca memoria quella svizzera sui frontalieri lombardi. Però non ha insegnato nulla.

Quando i microfoni aperti di Radio Radicale rivelarono l’Italia che odia. Nell’estate 1986 l’emittente offre agli ascoltatori la possibilità di registrare messaggi senza filtro. Risultato: bestemmie, razzismo nord sud, slogan fascisti. Trent’anni prima dell’arrivo dei social. Giandomenico Crapis  su L'Espresso il 24 agosto 2021. Negli Ottanta, quando tutto cambiò, c’è un anno che potrebbe simbolicamente rappresentare il passaggio da un’Italia ad un’altra: il 1986. Ed anche se, come ci spiegherebbero gli storici, il mutamento andrebbe diacronicamente cercato sul tempo lungo, è proprio nel 1986 che alcuni indizi annunciano il tramonto di un’epoca. Siamo ormai lontani dal miracolo economico, da tempo è in crisi la repubblica dei partiti, sfumata è l’onda delle passioni politiche e trionfa l’individualismo narcisista e consumista alimentato dalla pubblicità che dalle tv commerciali si riversa sul Paese. Pure le ultime icone nazionalpopolari sono svanite: a Pertini, il loquace e seduttivo presidente partigiano, è succeduto il silente Cossiga, i campioni dell’82 sono stati eliminati dalla Francia ai mondiali messicani. Ma all’inizio dell’anno Alessandro Natta, segretario del partito meno incline alla spettacolarizzazione politica, era comparso tra lo stupore dei militanti sul divano di “Buonasera Raffaella”, mentre Pippo Baudo, proclamato dal settimanale Sorrisi e Canzoni il personaggio più amato dagli italiani, proprio alla fine del 1986 veniva travolto da una polemica con il presidente della Rai Enrico Manca. Ormai l’Italia è già diventata la televisione, nel senso che vi si specchia e ne è specchiata, un cortocircuito sempre più intenso che taglia fuori le vecchie parrocchie come le vecchie sezioni. Ma se la politica si fa spettacolo tv, la società non sembra assecondare queste trasformazioni: lustrini e paillettes poco si conciliano nella pancia dello stivale con un sentire che si carica di malumori, rabbia, malanimo. Un sommovimento che durerà molti anni prima di provocare il terremoto del biennio ‘92-’94, ma che nell’estate del 1986, appunto, si appalesa con una prima scossa tellurica che solo il sismografo dei media rileva. Perché tra Natta sul divano della Carrà e il baudismo che tramonta è la radio che s’incarica di fornirci un ulteriore indizio della trasformazione in atto. Lo fa con un’emittente, Radio Radicale, che in crisi per l’aumento dei costi denuncia il rischio di chiusura e per spingere il governo ad intervenire vara una singolare forma di protesta: sospende i programmi e al loro posto una trentina di segreterie telefoniche dal 10 luglio accolgono i messaggi di solidarietà degli ascoltatori. Aperti i microfoni, i messaggi, al massimo di un minuto, cominciano ad arrivare. Sono messaggi che esprimono perlopiù vicinanza alla causa, anche se non manca il dileggio. Questo per alcuni giorni, fino a quando i redattori non decidono di rendere pubbliche le telefonate mandandole in onda h24. L’effetto della scelta è dirompente: la questione della sopravvivenza della radio passa in secondo piano, derubricata da una valanga di registrazioni che cresce in maniera esponenziale e in cui gli italiani danno voce agli istinti più indicibili. Sono messaggi che di radicale possiedono solo le incredibili modalità espressive, messaggi d’amore, di tifo sportivo, invettive e insulti di vario genere, inni al fascismo o perfino al nazismo, ingiurie contro negri, ebrei, froci, meridionali terroni, nordisti polentoni. Poi c’è chi canta, chi registra una filastrocca, chi bestemmia, chi finge un orgasmo, chi manda affanculo, chi parla a capocchia, chi invoca i forni crematori, chi protesta per quelle stesse telefonate, chi si fa pubblicità, chi soffre per un amore perduto e chi s’offre per un amore mercenario. Anche se i temi più frequentati alla fine sono quasi sempre quelli: Nord contro Sud, metallari contro paninari, comunisti contro fascisti, tifosi contro tifosi. La bestemmia, in particolare, sembra esercitare sugli anonimi italiani un’irresistibile fascino: urlata al telefono, accompagnata con proclami a Benito o ad Adolfo, scagliata contro i milanesi o i meridionali. In questa sarabanda pecoreccia dove la pernacchia è il gesto più civile ci sono punte di sublime creatività, come quando una signora napoletana, alludendo agli scioperi della fame di Pannella, conia un distico memorabile: "nuie a fame a facimme senza o sciopero, la nostra è na fame radicale". Dunque nelle ultime settimane di luglio e nella prima metà di agosto su Radio Radicale andava in onda una, fino ad allora inedita, apoteosi della parolaccia e delle offese: ma più che di una rivoluzione (la presa di parola degli esclusi: c’era chi la teorizzava) si trattava piuttosto della rivelazione che accanto all’Italia oleografica dei santi, poeti, navigatori c’era un Paese anonimo di razzisti e bestemmiatori del tutto ignoto ai retori della nazione. Pure il mito del latin lover veniva travolto dal fiume delle sodomizzazioni promesse via telefono: «Quelli del Nord vogliono metterlo in culo ai meridionali, i quali minacciano la stessa sorte ai nordisti. Ma non eravamo un popolo di amanti latini?» c’era chi coerentemente si chiedeva in una delle chiamate. Ad un certo punto, dunque, l’esperimento politico sfuggiva completamente di mano ai suoi promotori per diventare microfono aperto sulle viscere di un Paese che si dimostrava più brutto e cattivo di come lo si pensasse. Certo, a giocare a favore c’era un clamoroso effetto diretta, la goliardia risorta dopo il tramonto delle ideologie, l’esibizionismo del selfie ante litteram con i media allora disponibili, c’era il piacere della trasgressione oscena, tanto più libera quanto anonima, il gioco demenziale del ragazzino che registra per la prima volta la sua voce. Il tutto legato dal narcisismo di masse di individui in fuga dalla società, come andava raccontando Cristopher Lasch, e dal filo rosso di un’intolleranza indistinta che andava da chi faceva il verso al Duce: «La parola d’ordine è una, e una soltanto, annate affanculo!», a chi enfaticamente invocava «tutti in galera!». Visto ex post negli anni successivi si parlò di magma ribollente e nascosto emerso all’improvviso tra la sorpresa dei più, espressione della peristalsi di un Paese dove già s’annunciavano le leghe padane e la mutazione individualista assecondata dalle tv berlusconiane, si disse di uno straordinario esperimento socioantropologico e via analizzando; visto con gli occhi dell’oggi, più di trent’anni dopo, fa molta impressione piuttosto l’assonanza con i linguaggi social, l’hate speech, l’odio in rete, la gratuita violenza verbale del web. Colpisce come affiorino proprio in quel frangente i nuclei di quegli universi frammentati che nei decenni successivi avrebbero dato vita alle tribù del calcio, al sessismo machista, alle leghe padane, all’antipolitica dei vaffa, ai fascismi ritornanti, ai gruppi emarginati delle periferie. Ma lo si sarebbe capito dopo. Paolo Vigevano, direttore dell’emittente, affermava che quanto accaduto era un evento unico e senza precedenti, annunciando di avere inviato al sociologo Ferrarotti uno scatolone pieno di materiale registrato per farci sopra una ricerca sociologica. Che in realtà non arrivò mai. In ogni caso tra luglio e agosto del 1986 era andato in onda via radio il più grande esperimento di accesso libero ai media mai verificatosi prima, privo di qualsiasi filtro o censura, capace di calamitare un esercito di cittadini di fronte allo spettacolo del microfono dato alla gente, format degenerato di quello nato nella stagione delle radio libere. La gente, ecco il punto: a fare il suo ingresso sulla scena pubblica, in quella circostanza forse per la prima volta, era proprio un soggetto privo di identità economica, sociale o di classe che presto sarebbe assurto a protagonista della grande trasformazione politico mediatica italiana. Prima che sul video con Santoro, “la gente” si materializzava in modulazione di frequenza, dando vita al primo embrione di quel soggetto trasversale che prendeva il posto di concetti come popolo o classe operaia. La kermesse proseguiva fino a quando, alla metà di agosto, l’intervento dei magistrati, che sequestravano le segreterie telefoniche per vilipendio alle istituzioni, apologia del fascismo e istigazione al genocidio, non vi metteva fine. Un provvedimento che, come scrisse Miriam Mafai, rassicurava solo la nostra coscienza: «Quando scoppia un tombino anche il passante più distratto scopre che sotto la strada scorre una fogna. E puzza. Ma una volta rimesso a posto il tombino perché pensare a cosa c’è sotto?». Così rimesso a posto il tombino avrebbe coperto ancora per moltissimo tempo i cattivi odori che provenivano dal sottosuolo della Penisola. «Ma che Paese è mai questo?» si chiedeva qualche giorno prima della chiusura, avvenuta il 14 agosto, uno dei pionieri italiani della sociologia dei mass media Giovanni Bechelloni: «Questa Italia al microfono esiste davvero? Quanto è consistente? Da che cosa è prodotta? Chi la rappresenta?». Si augurava che qualcuno la esplorasse, questa Italia, «prima che sia troppo tardi: prima che questa faccia nascosta della luna si trasformi in un mostro». Non accadde. Ma dopo un paio di mesi il Parlamento votava una legge che concedeva all’emittente la possibilità di accedere alle stesse provvidenze pubbliche previste per i giornali di partito. Radio Radicale era salva.

Assistenzialismo, corruzione, costo della vita: anche l’Istat smaschera i luoghi comuni sul Sud. Una ricerca dell’Istituto ci consegna un’Italia più unita di quanto pensassimo: purtroppo più sui vizi che sulle virtù. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 24 agosto 2021. Finalmente i mantra sul Sud cominciano a cadere uno dopo l’altro. L’occhiello del mio ultimo saggio, “Il lupo e l’agnello”, era: “Dal mantra del Sud assistito all’operazione verità”. Pare che anche l’Istat certifichi quelli che sembravano solo pii desideri di meridionalisti generosi con il Sud.

Prima il tema era che il Sud era stato inondato di soldi. Oggi si scopre che la spesa pro capite è più bassa al Sud che al Nord. E l’obiettivo che si vuole raggiungere è quello dei Lep, cioè di avere perlomeno dei livelli essenziali di prestazione. Nessuno parla di avere una spesa pro capite uguale, perché significherebbe togliere tanti soldi alle realtà territoriali del Nord.

L’altro era che il costo della vita fosse più basso; poi si scopre che in realtà una serie di utilities, che al Nord sono gratuiti o a prezzi politici, vengono pagati a prezzi di mercato. E si pensi all’acqua che molte attività turistiche, oltre che private, devono comprare; oppure all’esigenza di avere dei centri elettrogeni per sopperire alle continue cadute di energia elettrica, o ancora all’esigenza di svuotare le fosse di raccolta delle acque nere, di nuovo pagando le autobotti a prezzi impossibili, perché moltissime abitazioni non sono servite da fognatura pubblica. E si pensi, infine, all’esigenza assoluta di avere un’automobile privata, poiché i servizi pubblici di mobilità sono talmente dispersi e inefficienti da richiedere il possesso di un mezzo privato. E non parliamo del cosiddetto digital divide che non permette in alcune realtà di avere un contatto in fonia, altro che la possibilità di lavorare con la fibra ottica sui dati.

Altro mantra che è stato sconfessato è quello di una maggiore corruzione. Il Mose di Venezia ci ha fatto capire che la corruzione e la criminalità si annidano in tutti gli appalti pubblici. In realtà già il cinema aveva messo alla berlina tale modo di vedere le cose in molti film. In “Benvenuti al Sud” Alessandro Siani e Claudio Bisio ci facevano ridere su un Paese che ancora non ha completato l’unità socio-economica.

Come sempre l’arte anticipa la ricerca, il film prendeva in giro il nordico, intriso di pregiudizi e di idee da bar dello sport. Per cui il napoletano diventava pizza e mandolino oltre che poltroniere, e il siciliano era rappresentato con coppola e lupara. Sembra che quell’Italia – così caratterizzata da essere in realtà due Paesi diversi per reddito, produzione industriale, occasioni di lavoro, opportunità di riuscita sociale, per esportazioni pro capite, per dotazione infrastrutturale, per presenze turistiche, per tasso di occupazione e di disoccupazione, per presenza di asili nido, per servizi sanitari, e potremmo continuare all’infinito – sia più unita sul piano dei comportamenti civici.

I VALORI CONDIVISI

Se a livello di reddito pro-capite la differenza tra Nord e Sud, per esempio, è di più di 40 punti percentuali, senza contare che al Nord in una famiglia vi sono due redditi e al Sud solo uno, sul piano invece dei «valori condivisi di cittadinanza a livello territoriale non si osservano grandi divari nella valutazione dei comportamenti virtuosi» dice il rapporto Istat. Sarei sempre molto cauto nel valutare le evidenze di simili rapporti. Infatti, spesso le risposte possono essere in qualche modo influenzate da quello che sembra, nella mente dell’intervistato, il modo di pensare corretto. Per esempio, se chiedi se sei d’accordo sul voto di scambio magari la risposta è no. Ma poi i risultati della classe politica che viene eletta sono in totale contraddizione con tale risposta, poiché il ricorso al voto di scambio è uno dei mali atavici di un Mezzogiorno che non sceglie una buona classe dirigente, ma che si lascia gestire da una classe dominante estrattiva, che evidentemente nel voto di scambio pone la sua possibilità di successo. Il fatto che, dal punto di vista territoriale, la pratica clientelare nella ricerca del lavoro sia leggermente più accettata al Nord che al Sud e nelle Isole mi pare un dato da approfondire. Mentre mi convince di più il dato sulla poca condanna dell’evasione che il Nord, malgrado si parli sempre di Sud, in genere tollera e alimenta. Così come quelli sugli scontrini e sulla ricevuta fiscale, che nessuno richiede, tollerando comportamenti evasivi tipici del genere italico. Che sia stigmatizzato quasi nella stessa percentuale in tutt’Italia il viaggiare senza biglietto sui mezzi pubblici mi pare una boutade, considerato il numero di viaggiatori che nei mezzi pubblici meridionali viaggia da portoghese.

ITALIA UNITA NEI VIZI

La ricerca dell’Istat relativa al 2018 bisognerebbe ripeterla periodicamente con metodi scientifici, dati dalla teoria dei campioni e campioni adeguati. Quella che è stata riesumata, considerati i dati vecchi, relativi al 2018, rivela molte cose interessanti, perfino che l’84% degli italiani condanna chi butta le cartacce per strada. E ce li distribuisce per maschi e femmine, per Sud e Nord, per giovani e vecchi. Insomma, l’Istat ci consegna un’Italia più unita di quanto pensassimo, purtroppo più sui vizi che sulle virtù, ma forse qualche approfondimento in più non sarebbe male, con commenti magari non in periodo ferragostano.

Se lo Stato condanna il Sud: la questione meridionale ridotta a questione criminale. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno imprescrivibili. I pm non perderanno l’occasione di contestare l’aggravante mafiosa. Ecco perché. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 3 agosto 2021. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno praticamente imprescrivibili. Ed è proprio su questo punto che i pm di assalto avevano cercato e trovato un varco. La Riforma resta comunque un fatto di civiltà. “Comprendo” perfettamente che nella situazione attuale nessun “politico” se la sia sentita di “resistere” nella difesa del testo originario, approvato a unanimità nel Consiglio dei ministri.

I mafiosi e i delinquenti comuni. Se qualcuno avesse aperto bocca per dire che i tempi di prescrizione nei processi per mafia sono irrazionali e, probabilmente, indegni di un Paese civile si sarebbe trovato indifeso dinanzi ad un plotone di esecuzione che lo avrebbe fucilato facendolo passare per mafioso o amico dei mafiosi. Provo a formulare una domanda: cosa hanno di diverso i mafiosi rispetto ai delinquenti comuni? “Normalmente” sia gli uni che gli altri uccidono, minacciano, rubano, trafficano droga. Dal momento che i cittadini dovrebbero essere uguali dinanzi alla legge non si comprenderebbe perché ’ndranghetisti e mafiosi dovrebbero riceve un trattamento diverso. Ciò detto, riteniamo che il legislatore giustifichi il diverso trattamento per il fatto che, essendo la mafia una organizzazione ( a delinquere) presente da tempo e radicata in un determinato posto, i crimini commessi degli affiliati, oltre che essere odiosi come tutti gli altri, hanno come fine il controllo del territorio sottraendolo di fatto allo Stato. Quindi lo Stato è “naturalmente” in guerra con la mafia. A questo punto una domanda è d’obbligo: il processo può essere un momento di tale guerra? No! Per il semplice fatto che prima della sentenza tutti gli imputati dovrebbero essere considerati innocenti, e come la storia recente dimostra, in buona parte lo sono. Lo Stato ha tutto il diritto di giudicare ma non di muovere guerra a un solo innocente.

Il processo “Gotha”. Faccio un esempio. Ieri l’altro a Reggio Calabria s’è concluso il processo “Gotha” che contrariamente alla maggioranza dei processi allestiti in Calabria con operazioni spettacolari – ma miseramente falliti – ha retto al 50% (ripeto 50%) al primo grado di giudizio. Cioè su trenta imputati quindici sono stati assolti e quindici condannati. Molti degli assolti, prima della vicenda che li ha visti coinvolti, non erano mai stati in un’aula di giustizia. Per esempio, tra di loro è “capitato” uno stimato primario di cardiochirurgia, un ex presidente della Provincia; un senatore della Repubblica. Qualcuno tra questi ha trascorso qualche anno in carcere (complici) dei parlamentari pavidi. Tutti sono stati sotto processo da anni in quanto sospettati di essere mafiosi.

Sotto processo per 18 anni? A questo punto poniamoci una domanda: qualora la procura dovesse fare appello (cosa che probabilmente farà) verranno tenuti sotto processo per 18 anni e poi per altri 18 ancora? Non ci sono persone al disopra di ogni sospetto, né con diritto di essere tutelati più di altri ma in base a quale principio lo Stato potrebbe trattare queste persone molto peggio degli assassini seriali, degli stupratori, dai pedofili, tenendoli prima in carcere e poi sotto processo a vita? Non si tratta d’un “danno collaterale” accettabile pur di combattere la mafia ma di un abuso che ha come logica conseguenza la legittimazione e il rafforzamento delle mafie su un determinato territorio. Agli occhi di queste “vittime “lo Stato sarà una presenza tirannica di gran lunga peggiore della mafia. La verità è che le mafie devono e possono essere combattute prima e dopo del “processo” e con gli strumenti messi a disposizione dalla Costituzione. Viceversa, il processo dovrebbe assicurare un giudizio sereno ed in tempi umani attraverso regole e leggi uguali per tutti.

Se lo Stato condanna il Sud. Infine, la riforma Cartabia assicurerà nelle regioni del Centro- Nord una giustizia più efficiente ed umana mentre al Sud avremo in assoluta prevalenza il “processo infinito”. Infatti, nessun pm delle regioni meridionali perderà l’occasione, dinanzi ad una estorsione o ad un omicidio, di contestare l’aggravante mafiosa perché ciò gli consentirà tempi infiniti. E non sarà difficile in zone come la Calabria o in paesi come Africo o San Luca trovare rapporti di parentela, di frequentazione, di vicinato con qualche famiglia in odore di mafia. Il cerchio è chiuso. La questione meridionale diventa così, ed ancora di più, questione criminale da affrontare praticando la “giustizia dei sette capestri” aldilà del Pecos. Le mafie diventeranno l’alibi per spiegare il mancato sviluppo del Sud o per non ascoltare il grido del professor Gianfranco Viesti che ha dimostrato che dei fondi del Recovery solo 13 miliardi arriveranno nelle Regioni meridionali.

Ed in tutto ciò, la cosa che più fa salire il sangue alla testa è che non ci sia stata una sola voce in Parlamento, e neanche fuori, a difendere il Sud da questa follia giustizialista che avrà come unico risultato la mortificazione della Legge e della Costituzione da un lato e la legittimazione e l’invincibilità delle mafie dall’altro.

Vi raccontiamo come dopo l’unificazione le banche del Nord si presero l’oro del Banco di Napoli.  Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 27 febbraio 2020. Ancora oggi si continua a nascondere una verità storica accertata persino da una commissione parlamentare d’inchiesta. Quando l’allora Ministro Antonio Scialoja ammise che l’aver sacrificato il Banco di Napoli, per motivi che egli stesso riteneva necessari, era «una volgare verità». Dopo l’attentato alla vita di Ferdinando II l’attività poliziesca si era fatta pressante; il pericolo in realtà era più immaginario che sostanziale, tanto che lo scrittore Raffaele De Cesare si spinse a scrivere che se Napoli presentava «l’aspetto di una città dominata dalla paura […] l’aver paura della polizia era l’occupazione di tanti, e per molti, pretesto a non far nulla». A produrre invece una robusta detonazione nel clima politico e sociale napoletano era Antonio Scialoja con un opuscolo nel quale metteva a confronto i bilanci napoletani con quelli torinesi, sostenendo la superiorità delle politiche economiche piemontesi rispetto a quelle napoletane (1). Scialoja, ritenuto uno dei migliori economisti italiani, era stato ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel Governo costituzionale di Carlo Troja; esule a Torino, dopo aver scontato 3 anni di carcere per i fatti del 1848, era diventato uno strenuo sostenitore delle idee liberiste conservatrici di Camillo Cavour. Nell’opuscolo Scialoja criticava il regime doganale teso a proteggere i prodotti industriali del Sud e, in merito al bilancio delle Due Sicilie, polemizzava contro la tendenza delle politiche governative a non indebitarsi, mentre invece il bilancio di Torino era in deficit a causa di investimenti che stavano producendo – a suo dire – sviluppo e ricchezza. L’opuscolo era accolto dal sovrano e dai suoi ministri come «un colpo di fulmine», considerato che Scialoja chiudeva con un confronto impietoso tra «l’alta posizione morale e politica del Piemonte, e il grado d’inferiorità, in cui era il Regno di Napoli». Tra le pieghe, peraltro, era del tutto evidente l’affondo ad un sistema ritenuto corrotto e costituito da «taglie arbitrarie» che il governo napoletano consentiva. Sull’opuscolo di Scialoja, De Cesare non andava oltre una semplice difesa d’ufficio di Ferdinando II, riconoscendo che «era onesto, personalmente, e parsimoniosa la famiglia reale, forse più che non conveniva al suo grado». Come era del tutto prevedibile, il napoletano Scialoja fu accusato di denigrare la propria patria, di essere in malafede e ben nove studiosi, con poca fortuna, pensarono di confutare le sue tesi (2). Ma non sarebbe stato questo l’unico danno prodotto da Scialoja al Sud. Dopo aver diretto le Finanze nel periodo della dittatura di Giuseppe Garibaldi e in quello della Luogotenenza affidata a Luigi Carlo Farini, sarebbe diventato nientemeno che il Ministro delle Finanze e, come tale, avrebbe introdotto il “Corso forzoso” della lira nel 1866, permettendo al neo Stato italiano di onorare i debiti legati al processo unitario e alle guerre, ma determinando un vero e proprio attacco al sistema bancario e all’economia del Sud, portando a completamento la subdola «politica di drenaggio delle riserve auree del Banco, col risultato di privare il Sud del suo oro e delle sue capacità di credito». Infatti, già dalla metà del 1863 le riserve auree del Banco di Napoli erano calate da 78 a 41 milioni ed avevano preso la direzione di finanziare attraverso la Banca Nazionale il nascente sistema industriale settentrionale in crisi, mentre quello meridionale veniva lasciato al proprio destino. Gli studi e le ricerche degli ultimi 20 anni hanno in parte rivalutato le politiche economiche restrittive e parsimoniose del Regno delle Due Sicilie e hanno messo in rilievo che lo sviluppo economico del Regno di Sardegna era avvenuto fittiziamente e con un forte indebitamento, saldato in parte proprio con le riserve auree del Banco di Napoli (4). Edmondo Maria Capecelatro, assistente di Storia economica nell’Università di Napoli, e Antonio Carlo, professore incaricato di Diritto del lavoro nell’Università di Cagliari, hanno sostenuto che solo l’assidua assistenza della Banca Nazionale avrebbe permesso alla struttura industriale del Nord in crisi di sopravvivere a spese di quella del Sud. Una situazione derivante da una scelta politica voluta dallo Stato e favorita dal ministro delle Finanze Antonio Scialoja nel secondo governo La Marmora e nel secondo governo Ricasoli, cioè prima e dopo il “Corso forzoso”. Una scelta politica che avrebbe causato, con il drenaggio di riserve auree verso il Nord, la strozzatura del credito industriale al Sud, mediante metodi del tutto estranei alla libera concorrenza e impedendo al Banco di Napoli di diventare «il più grosso istituto finanziario italiano». Ma quando, nonostante l’aiuto statale, la situazione delle banche di sconto e di credito mobiliare, sostenute dalla Nazionale, si fece critica, si decise con la legge sul “Corso forzoso” del 1° maggio 1866 di drenare oro dal Sud senza limiti, concedendo alla Banca Nazionale un privilegio che le permise «di controllare e compromettere, eventualmente, l’attività delle altre banche» e di avere una posizione nettamente dominante. Per di più, alla Banca Nazionale fu concesso «di stampare carta moneta, comperando con essa oro, il che, poi, permetteva alla banca di triplicare la sua circolazione» nel 1867 (L. 82 milioni oro – circolazione L. 246 milioni) con la garanzia di essere affrancata dal rischio di cambio con un altro

privilegio: l’inconvertibilità. Il tutto fu giustificato con il necessario e patriottico finanziamento della guerra contro l’Austria del 1866. Ma finita la guerra, e prolungato il “Corso forzoso” fino al 1883, si prese a pretesto la difficile situazione dell’industria in sofferenza a causa della forte inflazione nei rapporti con la concorrenza estera. Sulla vicenda fu aperta un’inchiesta parlamentare conclusa nel 1868 con la relazione di una Commissione parlamentare (5), la quale certificava che il “Corso forzoso” «era stato fatto essenzialmente per cavare di impaccio la Nazionale e le banche ad essa collegate che, grazie alla loro allegra finanza, erano sull’orlo del fallimento» e che l’inconvertibilità della sola moneta della Nazionale aveva permesso alla stessa «di continuare placidamente il drenaggio di capitali al Sud, essendo rimasta convertibile la moneta del Banco di Napoli» che non poteva «operare alcun ritorno offensivo».

In Parlamento, rispondendo all’interrogazione dell’on. Michele Avitabile (6), il ministro delle Finanze Scialoja ammise che l’aver sacrificato il Banco di Napoli, per motivi che egli stesso riteneva necessari, era «una volgare verità»7. Foto tratta da IlSudOnLine.

1 R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, cit., 2003, pp. 77-78.

2 Ivi, pp. 78-81.

4 Sulle condizioni di vita, sui livelli di reddito, sulle attività produttive del Regno si leggano i seguenti autori: Vittorio Daniele, Paolo Malanima, Stéplanie Collet, Stefano Fenoaltea, Carlo Ciccarelli, Vito Tanzi, Luigi De Matteo, John Davis, Antonio Carlo, Edmondo Maria Capecelatro.

5 Commissione parlamentare d’inchiesta per l’abolizione del corso forzoso. Relazione, Firenze, 1869.

6 Risposta di Scialoja ad Avitabile, in Atti del Parlamento, sessione 1865-1866, Firenze, 1867, p. 1991.

7 Cfr. E.M. CAPECELATRO – A. CARLO, Contro la «questione meridionale». Studio sulle origini dello sviluppo

capitalistico in Italia, Roma, Giulio Savelli editore, 1973 (Ia ed. 1972), pp. 141-148.

La vera storia della fine del Banco di Sicilia tra Banca d’Italia e Capitalia

Tommaso Rodano per “Il Fatto Quotidiano” il 19 luglio 2021. Un'affascinante combinazione di analfabetismo funzionale e razzismo imbecille, fenomeni che non mancano di manifestarsi a braccetto. Alcuni lettori del sito "Vivere Pesaro" hanno commentato una notizia di cronaca su un cittadino di Senigallia denunciato per aggressione e si sono indignati considerandolo un atto criminale compiuto da qualche maledetto immigrato clandestino. I geni - ipotizziamo elettori di Salvini - non conoscono la differenza tra le parole "senigalliese" (di Senigallia, città delle Marche) e "senegalese" (del Senegal, stato dell'Africa). Così sotto alla notizia pubblicata su Facebook sull'aggressore senigalliese non sono mancati gli insulti a sfondo razziale e xenofobo: "Ma guarda un po', fanno del male a un bambino ed e' uno di colore immigrato... ma che coincidenza...". E poi le signore Graziella e Annamaria, con i loro commenti a specchio: "A casa". E "A CASA SUA SUBITO". Prima gli anconetani.

Elmar Burchia per "corriere.it" il 17 gennaio 2021. I passaporti più potenti del 2021: ecco chi vince. Come saranno i viaggi in un mondo trasformato dalla pandemia da Covid 19? A cercare di dare una risposta ci prova l’annuale Henley passport index, la classifica sui passaporti più forti del mondo pubblicata dalla società Henley & Partners. Con 191 paesi in cui viene accettato, nel 2021, il passaporto giapponese (escluse le restrizioni temporanee) continua ad essere quello in grado di aprire più porte nel mondo. Per il Giappone si tratta di una conferma: è infatti il terzo anno di seguito che questo passaporto si trova in cima alla classifica di Henley.  

1 / 11 - Giappone - 191 paesi. I Paesi dell’Asia-Pacifico, "i primi a uscire dalla pandemia". In realtà, salta all'occhio che ai primi posti dell’indice si trovino soprattutto Paesi dell'Asia-Pacifico (negli ultimi anni erano occupati da paesi della UE, dal Regno Unito o dagli Stati Uniti). Il motivo? Come spiega Henley & Partners, proprio l’area asiatico e pacifica potrebbe essere la prima ad uscire dalla pandemia provocata dal virus della Covid-19.   

"Oggi, con il passaporto Usa, si può fare molto poco". "L'equilibrio del potere sta cambiando, dato che Stati Uniti e Regno Unito devono ancora affrontare grandi sfide legate al virus" ha spiegato in un comunicato Christian H. Kaelin, a capo di Henley & Partners. "Negli ultimi sette anni, il passaporto americano è passato dal primo al settimo posto, che attualmente condivide con il Regno Unito. A causa delle restrizioni dovute alla pandemia, i titolari di un passaporto americano possono attualmente entrare in meno di 75 paesi, mentre quelli inglesi in meno di 70 paesi".  

La nazionalità da sola non basterà più. Gli esperti suggeriscono che in futuro non potremmo aspettarci un ritorno ai modelli pre-pandemici in termini di mobilità globale. Parag Khanna, fondatore di FutureMap, una società di consulenza strategica basata su dati e scenari, sottolinea che la nazionalità da sola non sarà più sufficiente a garantire un passaggio sicuro.

2 / 11 - Singapore - 190 paesi. Singapore, al secondo posto, garantisce piena libertà di movimento verso 190 destinazioni.   

3 / 11 - Corea del Sud, Germania - 189 paesi. Corea del Sud e Germania, al terzo posto, non richiedono visti particolari per 189 paesi.

4 / 11 - Italia, Finlandia, Spagna, Lussemburgo - 188 paesi. L’Italia, al quarto posto, si ferma a 188 destinazioni.

5 / 11 - Danimarca, Austria - 187 paesi. Un po' più in basso, ma sempre nella top 10, Danimarca e Austria, con accesso senza visto a 187 destinazioni.

6 / 11 - Svezia, Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Irlanda - 186 paesi. L’indice è una classifica annuale della “potenza” dei passaporti determinata dal numero di destinazioni a cui un titolare di passaporto può accedere senza visto.

7 / 11 - Svizzera, Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia, Belgio, Nuova Zelanda - 185 paesi. Qualche anno fa, il Regno Unito deteneva addirittura il primo posto in Europa nell’Henley passport index. Poi è successo qualcosa: la Brexit. E la pandemia da coronavirus. Anche gli Stati Uniti sono scivolati in classifica: ora sono in settima posizione.

8 / 11 - Grecia, Malta, Repubblica Ceca, Australia - 184 paesi. In ottava posizione c’è il blocco formato da Grecia, Malta, Repubblica Ceca e Australia. La classifica di Henley viene elaborata sui dati dell'International Air Transport Authority (Iata).

9 / 11 - Canada - 183 paesi. Dal 2006 Henley & Partners pubblica ogni anno l’Henley passport index, ovvero la graduatoria dei passaporti che hanno bisogno di meno visti.

10 / 11 - Ungheria - 181 paesi. Nella top 10 anche l’Ungheria, il cui passaporto promette l’accesso a 181 posti.

Sono anch'io Pakistano!

Il Caso di Saman Abbas e la criminalizzazione di un popolo.

Saman Abbas come Sarah Scazzi. I media ignoranti ed in malafede influenzano il popolino.

Nel caso di Saman o di Sarah non si sta dalla parte della vittima, ma da odiatori e razzisti seriali si sta contro un popolo. Milioni di pakistani equiparati a singoli personaggi ignoranti e retrogradi, che nulla hanno a che fare con la religione o la civiltà del loro paese. Un nucleo familiare non è un popolo. Ogni individuo è diverso da un altro, così ogni famiglia è diversa dall’altra. La differenza la fa l’ignoranza.

I Pakistani come gli avetranesi. Per i media si è tutti assassini e ignoranti…a prescindere.

Antonio Giangrande, avetranese doc

Luca Fiorucci per “La Stampa” il 13 giugno 2021. A scuola non ci è più tornato, ha seguito poco le lezioni in dad. Quando è stato possibile riprendere in presenza, in classe non ci è voluto tornare, inutile aver provato a cambiare istituto. «Bisogna isolare lo scimpanzè» avrebbe detto riferito a lui, padre nordafricano e madre italiana, una sua insegnante, un giorno di ottobre in cui era assente. I suoi compagni di classe lo avevano informato con un messaggio vocale, la famiglia aveva chiesto spiegazioni alla scuola. «Speravo si potesse trovare una soluzione veloce, l'accertamento di quello che era successo, le scuse. La questione si sarebbe conclusa lì. E, invece, niente» racconta il padre del ragazzino, studente di una scuola secondaria di primo grado di Spoleto. L'uomo, di origine marocchina, vive in Italia dal 1986, in Umbria ha formato la sua famiglia, «il mio impegno è verso la conciliazione, la risoluzione delle controversie, non sarei voluto arrivare a questo, non sono per le gogne, ma dopo due, tre tentativi andati a vuoto, cosa dovevo fare? Non posso far finta di niente di fronte a un comportamento così offensivo verso un ragazzo che ha subito un colpo durissimo». L'incontro con il dirigente della scuola non ha avuto l'esito che sperava, racconta ancora. «Mi aspettava un'iniziativa di qualsiasi genere, una richiesta di chiarimenti alla professoressa. Non è successo niente. Alla fine il preside mi ha detto "Vada dai carabinieri" e così ho fatto». Lo scorso ottobre è stata presentata la denuncia poi, in questi giorni, ad anno scolastico concluso, quanto accaduto è stato reso pubblico dal genitore stesso. Di episodi simili ce ne sarebbero almeno due, uno con un compagno di classe, e un terzo con un altro docente che «chiamava mio figlio italianizzando il suo nome. Lui ha chiesto all'insegnante di usare il nome corretto e per tutta risposta si è sentito dire "Io ti chiamo come mi pare, se non ti sta bene torna al tuo Paese". Ma il suo Paese, il nostro Paese, è l'Italia. Sono arrivato qui più di trent' anni fa, ho trovato tante famiglie che mi hanno accolto come un figlio, che mi hanno aiutato quando ho avuto bisogno, mi hanno assistito quando sono stato male. Non mi era mai successa una cosa del genere». Il ragazzino è stato seguito anche da un esperto per aiutare a farlo uscire da questo tunnel di angoscia che lo ha portato a rifiutare la scuola, a evitare contatti che lo potessero in qualche modo riportare a quella situazione di disagio vissuta. «Per fortuna lo sport, continua a praticarlo con la stessa passione che ha sempre avuto. È bravo, è un atleta promettente. Quello che non riesco a capire è come sia stato possibile che nessuno sia intervenuto a fronte di una lunga e continuata assenza. Nessuno ci è venuto a chiedere come mai nostro figlio non andava più a lezione, eppure frequenta la scuola dell'obbligo». Dalla scuola massimo riserbo, il dirigente Mario Lucidi spiega: «Stiamo facendo accertamenti interni, per il resto c'è un'indagine in corso, altro non posso aggiungere. Da parte nostra faremo tutto quello che è necessario per ricostruire quello che è emerso e le eventuali responsabilità nel caso in cui le circostanze denunciate siano reali come nell'ipotesi in cui si rivelassero non corrispondenti al vero». Nei prossimi giorni, la direttrice dell'Ufficio scolastico regionale, Antonella Iunti, dovrebbe incontrarsi con il dirigente per un primo confronto. Intanto, il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, annuncia un'interrogazione parlamentare: «È evidente che un docente che usa questo linguaggio deve essere immediatamente messo alla porta di qualunque scuola».

DA corrieredellosport.it il 31 agosto 2021. Fatti incresciosi sono accaduti venerdì sera al Bentegodi alla fine del match tra Verona e Inter. Fabrizio Nonis, noto volto della tv, è stato aggredito insieme al figlio all'uscita dello stadio e ha riportato la perforazione del timpano. Attimi di terrore che il giornalista ha raccontato al Corriere Veneto: "Siamo usciti dallo stadio contenti e felici per aver visto una bella partita. Era da due anni che non andavamo allo stadio. Io tifo Inter e seguo con molta simpatia l'Udinese, grazie alla mia attività professionale ho avuto modo di conoscere e frequentare molti giocatori come Andrea Ranocchia e Kevin Lasagna. Li avevo sentiti in settimana ed eravamo riusciti a recuperare due biglietti sotto la tribuna stampa per la prima partita da vedere assieme.” “Stavamo ricordando l'ultima trasferta al Bentegodi, 11 anni fa, quando la squadra della nostra città, Portogruaro, era in Serie B. E di quella trasferta non avevamo un bel ricordo della tifoseria gialloblù. Abbiamo visto che c'era all'angolo un bar dove ci saranno state centinaia di persone, tutte ammassate e senza mascherina che discutevano della partita e bevevano. Ho immaginato che fosse un luogo di ritrovo degli ultrà dell'Hellas e ho preferito dire a mio figlio Simone di fare un giro più largo. Premetto che quando andiamo allo stadio non portiamo mai bandiere, sciarpe ed evitiamo abiti che possano richiamare i colori sociali delle squadre in campo". "Eravamo a meno di 300 metri dall'auto, quando ho visto che un gruppetto di sei, sette persone, si è staccato dal pubblico del bar e ha cominciato a seguirci. Ma non volevo mettermi a correre, anche se avevo una bruttissima sensazione. A un certo punto hanno cominciato a urlare ‘Ehi, tu, ehi voi. Che ore sono?’. Ci siamo fermati e mio figlio ha risposto: ‘Le undici meno dieci’. Erano a un metro da noi. “Un uomo fra i 45 e i 50 anni, con il cappellino dell'Hellas in testa mi ha chiesto ‘Che c.. ci fate qua’. A quel punto ho pensato che forse sarebbe stato meglio rispondere in dialetto, così da far capire che eravamo veneti anche noi e ho risposto che eravamo venuti a vedere la partita. ‘Che squadra tifate?’ mi ha detto l’energumeno. Ho detto che non tifavo per nessuna squadra, ma lui mi ha incalzato e allora ho detto che avevo simpatie per l’Udinese. Non ho fatto in tempo a pronunciare il nome della squadra friulana che mi sono trovato a terra.” “Quell’uomo mi aveva colpito con un pugno in pieno volto che mi ha fatto perdere l’equilibrio. ’Che cosa fate?’, ha urlato mio figlio. E via una sberla anche a lui, finito a terra come me. Gli altri, tutti con t-shirt o polo o cappellini dell'Hellas si erano messi a cerchio per bloccare le vie di fuga. Noi, cadendo, eravamo in mezzo a due auto parcheggiate. E lì hanno cominciato uno dopo l'altro a darci calci. Ai fianchi, alle gambe, al volto. Le auto un po’ ci proteggevano. Io con le ultime energie che avevo ho urlato: ’Ma che state facendo, siamo veneti anche noi’ per fugare ogni dubbio che appartenessimo alla tifoseria della squadra avversaria. E giù altri calci". "Non so come, ma siamo riusciti ad alzarci e infilandoci tra le auto, abbiamo attraversato la strada. E quasi sono stato investito da un'auto di passaggio. Abbiamo raggiunto la nostra automobile e lì è arrivata la seconda dose. Pugni e calci, sberle a mio figlio, a cui hanno schiacciato il volto contro il cofano. Sono stati dieci, quindici minuti di terrore.” “Poi non ho capito che cosa è successo, un anziano è sceso dal suo appartamento o forse era di passaggio e ha chiesto che cosa stesse accadendo, loro si sono fermati e si sono allontanati un po’. Così abbiamo avuto qualche secondo di libertà, il tempo di entrare in auto, bloccare le porte e partire. Abbiamo fatto qualche centinaio di metri, poi ci siamo fermati e ho chiamato il 118.” “In ospedale sono arrivati anche gli agenti della questura e della Digos, che mi hanno riconosciuto, cosa che, invece, escludo abbiano fatto i tifosi, anche se sarebbe più corretto chiamarli delinquenti. Volevano picchiare per fare male, hanno lasciato stare chi si allontanava dallo stadio in gruppo e hanno beccato due persone non con corporatura robusta che passavano per strada.” “La nostra fortuna è stata quella di non reagire. E va anche aggiunto che nessuno è intervenuto in nostro soccorso anche solo per chiamare la polizia. Questa partita era importante, con mio figlio avevamo detto che sarebbe stato bello adesso che si può andare a seguire anche il Venezia, oltre all'Udinese. Invece di una cosa sono sicuro. Allo stadio di Verona non ci torno più, amo questa città, avevamo anche cenato in una pizzeria vicino a San Zeno per andare a salutare l'amico chef Giancarlo Perbellini. Ma non è possibile vivere un'esperienza simile". Il sindaco di Verona, Federico Sboarina, commenta: "Condanno ogni tipo di violenza, che per nessun motivo è accettabile. Ancora più intollerabile se fatta nei confronti di un padre con un figlio, fuori dallo stadio dopo aver assistito a una partita in serenità. Nessuno può permettersi di minare la sicurezza di chi vuole godersi uno spettacolo sportivo, a maggior ragione con atti di violenza gratuita verso due persone tranquille che non avevano fatto alcuna provocazione e tornavano alla loro macchina.” “Ho già chiamato Fabrizio Nonis per rappresentargli il dispiacere per l’accaduto e la solidarietà mia e della città, invitandolo a tornare. Mi ha ribadito di essere un amante di Verona perché la reputa una delle più belle città d’Italia e dove ha tanti amici". Intanto è anche arrivato il messaggio del club e del presidente Maurizio Setti: "Hellas Verona FC censura con sdegno e fermezza qualsiasi atto di violenza o intimidazione, ovunque e da chiunque esso venga perpetrato, esprimendo massima solidarietà al signor Nonis e al figlio". 

“Un popolo che difende la propria identità non è razzista” sulle bustine di zucchero: è polemica. Valentina Mericio il 09/06/2021 su Notizie.it. Una frase dallo sfondo sovranista scritto su alcune bustine di zucchero ha creato particolarmente scalpore. Si tratta di bustine fuori produzione. “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”, questa la frase riportata su alcune bustine di zucchero che sono state riprese in un noto bar di Manduria in provincia di Taranto. Stando a quanto appreso dal quotidiano “La Repubblica” la scritta incriminata fa parte di una serie di bustine con aforismi presi da internet che non sarebbe più in produzione. Nel frattempo la bustina con la stessa frase è stata avvistata anche in altre città come Palermo, Roma e Cagliari. “Ma è normale; serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”. La scritta dallo sfondo sovranista ha fatto scatenare non poche polemiche, grazie anche agli avvistamenti degli utenti di bustine simili in molte altre parti d’Italia. L’azienda produttrice in questione è la Royal Sugar, un’azienda con sede posta a Manduria in provincia di Taranto. Interpellata dal quotidiano “La Repubblica” la titolare di Royal Sugar Valentina Troiano ha reso noto che si tratta di aforismi presi da internet. e pertanto senza colore politico. Ad ogni modo la titolare di Royal Sugar ha messo in evidenza come la frase in questione a suo dire non sarebbe razzista, mettendo in evidenza quanto il problema piuttosto possa essere un altro. “Non vedo nulla di razzista nella frase incriminata il problema, semmai, è che quelle stampe risalgono a qualche tempo fa, lo zucchero potrebbe essere scaduto” ha spiegato al proposito la titolare di Royal Sugar. “Si tratta di una vecchia serie di stampe ora fuori produzione” […] ha spiegato la titolare aggiungendo come tutte le frasi non sarebbero altro che presi da internet aggiungendo quindi come “serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”. Nel frattempo sono moltissimi i commenti dalla parte delle persone che hanno voluto dire la propria. “Se loro possono fare questi accostamenti, allora si può fare pure l’accostamento tra “informazione” e “propaganda”, ha scritto un utente su Twitter, mentre c’è chi ha scritto: “Identità non corrisponde a razzismo ma corrisponde a comunità territorio tradizione cultura, il razzismo è un’altra cosa, il razzismo lo subisce chi viene etichettato”

“Popolo che difende la propria identità non è razzista”/ Bustine zucchero sovraniste? Alessandro Nidi su Il Sussidiario l'08.06.2021. Il caso delle bustine di zucchero “sovraniste” scuote il web: si tratta di una frase a sfondo politico o di una sfortunata casualità? Polemica a Manduria, in provincia di Taranto, per una frase impressa su alcune bustine di zucchero: “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”. A dare la notizia dell’accaduto è il quotidiano “La Repubblica”, che ha deciso di indagare sulla questione, contattando direttamente l’azienda produttrice, la “Royal Sugar”, specializzata proprio nel packaging delle bustine di zucchero distribuite poi in tutto lo Stivale. Essa ha sede in provincia di Potenza, più precisamente a Muro Lucano, e per bocca della sua titolare, Valentina Troiano, ha reso noto che quello slogan è già stato rimosso dalla nuova “collezione”. Come ha precisato l’intervistata, si tratta in particolare di una serie di stampe effettuate in passato e andate già fuori produzione, riportanti aforismi estrapolati dal web e non riconducibili a una particolare ideologia o a uno specifico pensiero di matrice politica. Peraltro, bustine analoghe sono state ritrovate anche in altre zone del nostro Paese, come Palermo, Cagliari e Roma, ma la cosa non deve sorprendere: “Royal Sugar” rifornisce un numero importante di bar in tutta Italia ed esporta i suoi prodotti anche all’estero, con particolare riferimento agli Stati Uniti d’America. Il caso della frase “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”, riportata su alcune bustine di zucchero rintracciate nei bar di diverse città d’Italia, inclusa Manduria, in Puglia, ha scatenato un ampio dibattito in rete, ma Valentina Troiano, titolare della “Royal Sugar”, ha affermato ai microfoni de “La Repubblica” di non rilevare nulla di razzista nella frase incriminata, aggiungendo che, semmai, il vero problema risiede nel fatto che quelle stampe risalgono a qualche tempo fa e, di conseguenza, lo zucchero potrebbe essere scaduto. Intanto, non si riesce a risalire con esattezza all’autore di questa citazione, di questo aforisma: “La Repubblica” scrive che, effettuando una rapida ricerca in rete, i risultati restituiti da Google “conducono a pagine Facebook di estrema Destra”.

“Un popolo che difende la propria identità non è razzista”: è polemica sulle bustine di zucchero. Clarissa Valia l'8 Giu. 2021su tpi.it. “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”. È la scritta stampata su alcune bustine di zucchero “sovraniste” fotografate a Manduria, in provincia di Taranto, finite nella polemica. A riportare la notizia è Repubblica. Il quotidiano ha chiesto spiegazioni all’azienda produttrice, la Royal Sugar, azienda di Muro Lucano (in provincia Potenza). La titolare Valentina Troiano ha risposto che lo slogan che inneggia alla difesa della razza è stato rimosso dalla nuova linea di bustine di zucchero, aggiungendo: “Si tratta di una vecchia serie di stampe ora fuori produzione” […] che spiega come tutte le frasi siano “aforismi presi da internet”, più che manifestazioni di un pensiero politico. Altre bustine con la stessa frase sono state fotografate anche a Cagliari, Palermo e Roma, “ma è normale”, spiega ancora la titolare, “serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”.

CLARISSA VALIA. Nata il 26 aprile 1991 da Milano si trasferisce a Roma. Ha studiato presso l'Università statale di Milano. Dal 2018 lavora a TPI dove si occupa di produzione contenuti pop e news.

Taranto, al bar le bustine di zucchero inneggiano alla difesa della razza. Simone Fontana su La Repubblica l'8 giugno 2021. Lo slogan dall'inconfondibile sapore sovranista è opera della Royal Sugar, azienda di Muro Lucano che si difende: "Aforismi presi da Internet". "Un popolo che difende la propria identità non è razzista": le bustine da zucchero 'sovraniste' arrivano dalla Lucania. Il caffè espresso è una delle eccellenze italiane più conosciute al mondo ma qualcuno deve aver preso questo tratto distintivo decisamente troppo sul serio, come testimoniano alcune bustine di zucchero rinvenute a Manduria, in provincia di Taranto. Lo slogan dall'inconfondibile sapore sovranista è opera della Royal Sugar, azienda di Muro Lucano (in provincia Potenza) specializzata nella produzione e nel confezionamento delle bustine di zucchero destinate ad addolcire i caffè di tutta Italia.

Il caso a Chioggia: il medico ha chiesto il trasferimento. Medico aggredito e insultato durante visita fiscale: “Negro di m…, da qui non esci vivo”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Una storia che sa di “ordinario razzismo” quella denunciata da Albert, il nome di fantasia dietro il quale si cela il 30enne, nato in Camerun, che mercoledì è stato aggredito a Chioggia, in Veneto, dove lavora come medico fiscale per l’Inps. Trasferitosi in Italia nel 2010, nel nostro Paese si è laureato in Medicina, si è integrato perfettamente nella "sua" Padova ed  ha messo su famiglia con una ragazza italiana e oggi hanno una bimba di due anni. Ma è il Paese che lo ha ‘adottato’ che lo ha anche respinto, dopo una aggressione che Albert definisce “orribile”. Il medico, da sei mesi impiegato con l’Inps, ha raccontato al Corriere della Sera che mercoledì doveva controllare un lavoratore che abita in un condominio della periferia della cittadina veneziana. L’uomo non era in casa e si è presentato più tardi in bicicletta, con costume e ciabatte, avvertito presumibilmente da una familiare. Qui inizia il calvario di Albert, che racconta i momenti assurdi vissuti: “Ha chiuso il portone in modo da impedirmi di uscire dal cortile – spiega il medico – e ci ha piazzato davanti una sedia. Mi ha intimato di mettere nero su bianco che l’avevo trovato regolarmente a casa. Altrimenti, diceva, mi avrebbe tagliato la testa”. Albert spiega poi l’aggressione: “Quell’uomo mi spingeva, premendomi le dita sul torace. E intanto urlava: ‘Negro di m…, da qui non esci vivo. Non puoi venire in Italia a fare il c… che ti pare. Tu firmi che ero in casa o ti spacco la testa'”. Il racconto quindi prosegue: “Mi ha strappato dalle mani il tablet che uso per lavorare e l’ha scagliato contro la parete, mandandolo in pezzi. E intanto continuava a pronunciare frasi razziste. La cosa assurda è che tutto il vicinato era presente, affacciato alle finestre, e nessuno ha mosso un dito per aiutarmi. “Adesso te la vedi con lui”, mi schernivano”. Non contento il suo aggressore l’ha raggiunto mentre tornava in auto e ha divelto la maniglia della vettura e poi è balzato in sella a un motorino guidato da un amico, seguendolo per alcune centinaia di metri. Fatti gravissimi, per i quali il medico ha sporto denuncia ai carabinieri di Padova. Con Albert si è "schierata" la moglie, che ha postato un duro messaggio sui social: “Non importa se sei la persona più buona e corretta del mondo, se ti sei laureato in medicina a Padova, se parli italiano meglio di una madrelingua, se ti presenti sul lavoro sempre ben vestito e con un cartellino identificativo, se sei sempre cordiale ed educato. A Chioggia sei un nero di m…”. Per l’aggressione subita Albert ha chiesto all’Inps di essere trasferito a un’altra zona. “Ho paura per la mia famiglia, non posso lavorare in queste condizioni”, ha ammesso il medico. Una vicenda condannata dal sindaco Alessandro Ferro: “Questa non è Chioggia e non è la società che vogliamo per i nostri figli. L’amministrazione comunale – sottolinea Ferro – esprime massima solidarietà al medico fiscale che nei giorni scorsi è stato aggredito in un quartiere della nostra città durante il suo lavoro”. Una violenza che Ferro definisce “assurda, aggravata da frasi razziste. Ha fatto bene il medico a denunciare pubblicamente ciò che gli è accaduto. E noi come lui, non dobbiamo tollerare episodi incresciosi come questi, dove individui usano il colore della pelle per insultare”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Andrea Priante per corriere.it il 5 giugno 2021. «Quell’uomo mi spingeva, premendomi le dita sul torace. E intanto urlava: “Negro di merda, da qui non esci vivo”, “Non puoi venire in Italia a fare il c. che ti pare”, “Tu mi firmi che ero in casa o ti spacco la testa”. È stato orribile».

L’aggressione: «Adesso ho paura». Mentre racconta ciò che gli è capitato, gli occhi gli si riempiono di lacrime. Lo chiameremo Albert ma è un nome di fantasia perché, spiega, «da quando è accaduto, vivo nel timore che quell’uomo, o qualche suo amico, possa far del male alla mia famiglia». Ha 30 anni, è nato in Camerun ed è il medico fiscale che mercoledì è stato aggredito a Chioggia durante il suo lavoro. Una violenza assurda, aggravata da quelle frasi razziste.

La storia. Albert si è trasferito in Italia nel 2010. «Volevo studiare, diventare un dottore. E qui avevo dei parenti che potevano ospitarmi». Arrivato a Padova, si è integrato perfettamente e, con molti sacrifici, ha probabilmente realizzato tutti i sogni di quando ancora abitava in Africa: non solo si è laureato in Medicina ma ha messo su famiglia con una ragazza italiana e oggi hanno una bimba di due anni. «È anche per lei che ho deciso di denunciare pubblicamente ciò che è accaduto: non sopporto l’idea che cresca in una società dove ci sono ancora individui che usano il colore della pelle per insultare».

Il malato assente a casa. Sei mesi fa ha iniziato a fare il medico fiscale per conto dell’Inps. «Tra i miei compiti c’è quello di eseguire le visite di controllo domiciliare ai dipendenti delle aziende assenti per malattia. Mi è stata affidata l’area di Chioggia». Mercoledì doveva controllare un lavoratore che abita in un condominio nella periferia della cittadina veneziana. «Sono arrivato poco prima delle 17 e il malato avrebbe dovuto trovarsi in casa fino alle 19. Mi hanno aperto i vicini, qualcuno ha detto che stava dormendo, altri che era uscito. È spuntata una donna, forse una familiare, che si è offerta di chiamarlo al telefonino per avvisarlo, ma lui non rispondeva».

L’operaio era a mare: poi la furia contro il medico. Albert racconta che l’operaio è arrivato alle 17.05 «in bicicletta, con indosso costume e ciabatte», e si è subito dimostrato aggressivo. «Ha chiuso il portone, in modo da impedirmi di uscire dal cortile del condominio e ci ha piazzato davanti una sedia, sulla quale si è seduta una ragazza. Urlava, mi intimava di mettere nero su bianco che l’avevo trovato regolarmente in casa. Altrimenti, diceva, mi avrebbe tagliato la testa». Sono stati attimi di forte tensione. «Mi ha strappato dalle mani il tablet che uso per lavorare e l’ha scagliato contro la parete, mandandolo in pezzi. E intanto continuava a pronunciare frasi razziste. La cosa assurda è che tutto il vicinato era presente, affacciato alle finestre, e nessuno ha mosso un dito per aiutarmi. “Adesso te la vedi con lui”, mi schernivano».

L’inseguimento. Il medico fiscale ha finto di sottostare agli ordini e gli ha chiesto un documento d’identità per compilare il referto. «Quando si è allontanato ho telefonato ai carabinieri ma dopo pochi minuti è tornato e, come una furia, mi ha preso il telefonino e se l’è infilato in tasca pretendendo che gli dettassi l’indirizzo della mia abitazione. “Così se mi denunci so dove sta la tua famiglia”, diceva». Alla fine Albert si è fatto riconsegnare il cellulare ed è uscito da quella casa, terrorizzato. È salito in auto mentre il lavoratore l’ha raggiunto, ha divelto la maniglia della vettura e poi è balzato in sella a un motorino guidato da un amico, seguendolo per alcune centinaia di metri.

La denuncia e la richiesta di trasferimento. Venerdì il medico ha presentato denuncia ai carabinieri di Padova. E al suo fianco c’era la compagna. «Stavo aspettando che tornasse dal lavoro - spiega la donna - e invece mi ha telefonato con voce strozzata, dicendomi che lo volevano picchiare. È una violenza assurda, alla quale non ci si può abituare. Quando suona i campanelli non sa mai cosa gli capiterà. C’è chi lo scambia per un ambulante, chi per un ladro...». Ora Albert ha chiesto all’Inps di essere trasferito a un’altra zona. «Ho paura per la mia famiglia, non posso lavorare in queste condizioni», assicura asciugandosi le lacrime. Amaro il commento del presidente dell’Ordine dei medici di Venezia, Giovanni Leoni: «Durante la pandemia ci hanno chiamati eroi, ma è durata poco. Ora i medici sono tornati bersaglio della frustrazione dei pazienti. La violenza è sempre inaccettabile».

Laura Berlinghieri per “la Stampa” il 6 giugno 2021. «La cosa che mi ha fatto più male? Il menefreghismo delle persone attorno. Tutti osservavano, ma nessuno ha fatto niente per difendermi». È il pomeriggio del 2 giugno quando Nelson Yontu Maffo - medico fiscale dell'Inps, originario del Camerun - suona alla porta di un appartamento della periferia di Chioggia, nel Veneziano. Il lavoratore, in malattia, non c' è. Arriverà dopo, in ciabatte, in sella alla bicicletta, probabilmente avvertito dalla moglie. «Quando gli ho chiesto perché fosse fuori casa, durante l'orario di visita, ha provato a prendermi in giro, dicendomi che il suo orologio segnava le 19. Quando gli ho fatto notare che non erano nemmeno le 18, chiedendogli di giustificare la sua assenza, ha preso il mio tablet e lo ha sbattuto violentemente contro il muro, fracassandolo. Poi ha iniziato a inveirmi contro: "Negro di m, da qui non esci vivo. Voi venite qua e pensate di fare quel co che volete, ma io ti ammazzo". Pretendeva che scrivessi che lo avevo trovato in casa, alle 19. Altrimenti mi avrebbe spaccato la testa». Episodi di razzismo, è assurdo dirlo, ma per il medico sono all'ordine del giorno: «Normalmente, ci penso un po' su, ma poi mi passa piuttosto in fretta». Questa volta è diverso e inizia ad avere paura. «L' uomo ha chiuso il cancello, per impedirmi di uscire. Ha messo una sedia davanti, dove si è seduta una vicina di casa. Intanto continuava a urlare, schiacciandomi il petto con la mano. Intorno erano arrivati i vicini di casa, in silenzio. Nessuno diceva niente, nessuno ha mosso un dito per aiutarmi. Ho provato a chiedere loro di chiamare i Carabinieri e mi hanno risposto che me la sarei dovuta vedere da solo con il loro vicino. Ho provato a estrarre il cellulare per telefonare alle forze dell'ordine, ma loro mi hanno visto e lo hanno riferito all' uomo, che, come una furia, mi ha strappato il telefono di mano, mettendoselo in tasca. Continuava a spingermi, a dirmi che mi avrebbe ucciso, che dovevo fare quello che mi chiedeva. Nessuno ha fatto nulla ed è questa la cosa che mi fa più male e più mi ha deluso, perché non è il singolo, è la gente. Ne sono uscito vivo perché ho firmato la carta scrivendo quello che voleva quell' uomo. In quel momento pensavo solo alla mia compagna e alla nostra bimba». Trent' anni, gli ultimi undici vissuti in Italia, e una laurea in Medicina conseguita all' Università di Padova nel 2017, il dottor Yontu Maffo lavora a Chioggia da sei mesi. «Sei mesi di continue, piccole aggressioni verbali. È umiliante, ma mai mi era capitato di temere di non poter tornare a casa dalla mia bambina e dalla mia compagna». E a parlare dell'episodio è anche la fidanzata del medico, Francesca Moro, con un lungo post su Facebook: «Cosa significa essere un medico nero a Chioggia nel 2021. È il 2 giugno, stai aspettando con la tua bimba che il suo papà torni dal lavoro per mangiare una pizza. Invece ti arriva una telefonata in cui lui ti dice, con voce strozzata, che ha chiamato la polizia perché lo stanno inseguendo in moto e lo vogliono picchiare». In un'Italia costretta a guardarsi allo specchio, oggi più che mai, gli episodi di razzismo questo medico veneto li vive tutti i giorni, sulla sua pelle. «C' è chi, vedendomi per strada, mi dice che non vuole comprare niente da me. A volte, quando aspetto l'orario di visita in auto, mi chiedono di spostarmi, perché temono abbia intenzione di rubare negli appartamenti. Senza considerare le volte in cui le persone mi si rivolgono dandomi del tu. Eppure, quando mi presento nelle case, esibisco il mio badge, che mi identifica come medico. Sono sei mesi che lavoro a Chioggia, e ho conosciuto anche tante belle persone, ma ora non ce la faccio più. Ho sporto denuncia ai Carabinieri e, appena potrò, chiederò di essere trasferito altrove. Non voglio lavorare mai più in questa città». Un episodio tanto grave, Yontu Maffo, non lo aveva mai vissuto, anche se già il mese scorso era stato protagonista di una spiacevolissima vicenda, sempre a Chioggia. «Ero a casa di una donna. Dopo averle chiesto il permesso, ho spruzzato del disinfettante sul tavolo, per appoggiare il mio tablet. Lei è scappata di casa, urlando, sostenendo che volessi stordirla, per poi aggredirla. Immediatamente sono accorsi i vicini di casa, uno aveva perfino un cacciavite in mano. Ho avuto paura. Finora, ho sempre cercato di giustificare questi atteggiamenti con l'ignoranza delle persone. Ma adesso siamo andati oltre». Alla richiesta di come si senta, il dottor Yontu Maffo non ha dubbi: «Spaventato, tanto spaventato. E anche deluso. Oggi è arrivata la notizia terribile del ragazzo di vent' anni che si è tolto la vita; in Italia c' è un problema di razzismo».

"Fate i razzisti in casa nostra": Gasparri sbotta contro il mediatore. Francesca Galici il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Acceso scontro verbale in studio a Dritto e rovescio tra il senatore Gasparri e il mediatore culturale Modou Gueye sulla questione migranti. Mentre Enrico Letta nella registrazione di Porta a porta dichiarava che "dobbiamo capire che in molti campi probabilmente c'è bisogno di manodopera che viene dall'immigrazione", su Rete 4 si accendeva la discussione tra Maurizio Gasparri e Modou Gueye, mediatore culturale. A Dritto e rovescio, infatti, tra i temi della puntata c'era l'emergenza immigrazione. Nel programma di Paolo Del Debbio ci si è interrogati sull'effettiva capacità di accogliere del nostro Paese, tra pandemia e gravissima crisi economica. Al centro della discussione il nuovo bando di Luciana Lamorgese destinato alla gestione dei centri di accoglienza nel nostro Paese. Si tratta di una nuova iniezione di fondi che non fa altro che tamponare l'emergenza senza trovare una soluzione. "Il punto è questo: tirino fuori i soldi per aiutare lo sviluppo in Libia. Ricordiamo il patto italo-libico, lo ha scoperto recentemente anche Di Maio, lo aveva fatto uno che si chiama Silvio Berlusconi per dire creiamo lavoro e non li facciamo partire", ha sbottato Maurizio Gasparri di Forza Italia. Immediata la replica del mediatore culturale, in disaccordo con il senatore: "Il problema non è la Libia, sono i Paesi di partenza". Maurizio Gasparri, però, non ha fatto in tempo a rispondere e a spiegare il suo pensiero, perché Gueye ha iniziato a parlargli sopra, sovrapponendosi al senatore senza rispettare le regole del dibattito. "Mi dai il permesso di parlare? Vorrei finire di parlare. Ma guarda che intolleranza… Ma posso parlare?", ha detto a un certo punto Gasparri visibilmente innervosito. È dovuto intervenire il conduttore per ristabilire l'ordine nella discussione, dando nuovamente la parola al senatore. "Noi abbiamo degli Imam provocatori in Italia che vengono tollerati. Abbiamo un’invadenza eccessiva, basti pensare al caso drammatico della ragazza pakistana probabilmente uccisa, non c’è diritto all’invasione", ha spiegato Gasparri. Un concetto non condiviso a Modou Gueye, che ha continuato a mostrare il suo dissenso durante l'esposizione di Gasparri, finché il senatore non si è reso conto dei gesti del suo interlocutore e ha nuovamente sbottato: "Ma tu non sei il padrone in casa nostra, mi devi fare parlare tu sei un razzista, violento e provocatore. Tu mi impedisci di parlare, dovete andare a casa vostra. Guarda che tolleranza, ma io posso parlare?". Nello studio di Dritto e rovescio, con gli animi surriscaldati, il mediatore ha alzato la voce per sovrastare quella di Maurizio Gasparri, che nel frattempo continuava a chiedere l'intervento del conduttore. Davanti alle continue rimostranze di Gueye, Gasparri ha quindi concluso: "Noi abbiamo accolto milioni di persone abbiamo speso soldi non possiamo più accogliere questa gente che ammazza le proprie figlie. Sono dei razzisti in casa nostra che fanno i prepotenti con i soldi dello Stato italiano anche dentro le televisioni italiane. Come questo qui, come si chiama Gueye che viene qui a farci lezioni a spese nostre a casa nostra. Amico delle Ong che riempiono di immigrati che rubano in Italia e che fanno una politica assurda, vada ad aiutare il suo Paese a crescere e non faccia il moralista in Italia".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Alessandra Benignetti per ilgiornale.it il 28 maggio 2021. Basta con le istituzioni e i partiti di "razza bianca" e via libera ai "nuovi italiani" in politica. È la proposta di Livia Turco, ex parlamentare ed ex ministro, oggi presidente della fondazione Nilde Iotti. Una sorta di Black Lives Matter "all’amatriciana", quello invocato dall’esponente del centrosinistra. E poco importa se in America il fenomeno sta prendendo contorni inquietanti. A dimostrarlo è l’ultima uscita della sindaca afroamericana di Chicago, Lori Lightfoot, la quale ha annunciato che per il secondo anniversario della sua inaugurazione concederà interviste a tu per tu soltanto a giornalisti di colore, perché quelli "bianchi" sono troppi. Anche in Italia ora la sinistra sembra voler puntare sulle "quote nere". "È necessario che le persone immigrate partecipino attivamente alla polis, alla dimensione pubblica, alla politica", ha detto Livia Turco intervenendo al dibattito le "Parole che non ti aspetti", organizzato qualche giorno fa nella Capitale da Prossima, la nuova corrente zingarettiana, che include anche le Sardine ed esponenti del mondo delle associazioni, come Arci e Libera." Cominciamo – incalzava ancora l’ex ministro - a fare in modo che le agorà abbiano una forte partecipazione mescolata di italiani e di nuovi italiani. Facciamo in modo che alle prossime elezioni ci siano candidati italiani e nuovi italiani. Costruiamo degli strumenti di partecipazione attiva dei nuovi italiani perché solo attraverso questa fatica del conoscersi e riconoscersi e promuovendo la partecipazione attiva di tutti i cittadini potremmo davvero costruire la società della convivenza". "Vogliamo essere un Paese in cui la politica continua ad essere di razza bianca, in cui il nostro partito è di razza bianca, in cui le istituzioni sono di razza bianca?", è la domanda retorica formulata dell’esponente Dem. Anche se a sentire la parola "razza" in un discorso pubblico, nel 2021, viene la pelle d’oca e rischiano di innescarsi pericolosi corto circuiti. Cos’è, ad esempio, quello della sindaca Lightfoot se non "razzismo al contrario", osserva qualcuno dall’altra parte dell’Oceano. In Italia, ricorda ancora la Turco, ci sono "cinque milioni di persone che sono immigrate, che ci aiutano a vivere meglio, cui sono stati riconosciuti diritti come previsto dalla Costituzione: studio, minori, maternità". "Però – va avanti - continuiamo a considerare questi concittadini solo forza-lavoro e abbiamo una modalità di stare gli uni accanto agli altri, senza fare la fatica di conoscersi e riconoscersi". "Questo - prosegue - alla lunga porta a conflitti e non valorizza il capitale umano che abbiamo tra di noi". "Se ci pensiamo bene sono rarissimi i casi di consiglieri comunali nuovi cittadini", osserva. "Letta – conclude - è stato l'unico a proporre un ministero per l'integrazione con una donna Cecilie Kyenge ministra del nostro Paese". Oggi, però, ironia della sorte, l’unico parlamentare di colore della Repubblica siede tra i banchi della Lega.

Il caso di Moussa Balde. Profugo picchiato e imprigionato si impicca: non chiamatelo razzismo, se volete. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Un ragazzo di 23 anni, arrivato in Italia quando ne aveva 18, dalla Guinea, giorni fa è stato aggredito e bastonato selvaggiamente da tre energumeni, a Ventimiglia. Si chiamava Moussa Balde. Un passante ha ripreso col telefonino la scena terribile. Lui ha provato a difendersi, ma era a mani nude, quelli erano in tre armati di mazze e di un tubo di ferro. Per fortuna è uscito vivo. Il filmato ha permesso di individuare gli aggressori. Sono stati denunciati e rimandati a casa. Avevano pestato il ragazzo nero perché si erano convinti che avesse rubato un telefonino. Non era vero. Il ragazzo della Guinea è stato medicato e poi aiutato? No: è stato spedito in un centro di detenzione per migranti. Non aveva il permesso di soggiorno. In cella di isolamento. Lui non capiva, protestava, diceva di voler tornare libero. Non gli hanno dato retta. Ha preso un lenzuolo e si è impiccato. Ora non c’è più. È normale che le autorità di fronte a un pestaggio folle e feroce mandino a casa gli aggressori e imprigionino la vittima? È normale che non abbiano nessun obbligo di protezione verso un ragazzo pestato a sangue da tre italiani? È giusto che in un centro di detenzione ci si occupi così poco dei detenuti e che a uno di loro sia possibile impiccarsi senza che nessuno intervenga? Il ministro – dico così per dire – ci darà delle spiegazioni? Voi credete che se tre ragazzi neri avessero picchiato a sangue un ragazzo bianco lo Stato si sarebbe comportato nello stesso modo? E i giornali avrebbero trattato la notizia con la stessa noncuranza con la quale si sono occupati di Moussa Balde? Io penso di no. Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma secondo te c’è razzismo in Italia? Io rispondo sempre di sì e lascio che mi si guardi con la commiserazione che si deve a uno che non capisce niente. E questa storia di Moussa? Se volete potete anche dire che non è razzismo…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Massimo Massenzio per il "Corriere della Sera" il 24 maggio 2021. Un pestaggio brutale, con bastoni e spranghe. Musa Balde, 23 anni, originario della Guinea, non ha mai superato il trauma dell'aggressione subita lo scorso 9 maggio a Ventimiglia, per mano di tre uomini che lo accusavano di aver rubato un telefonino. Era finito in ospedale con una prognosi di 10 giorni, ma appena uscito dal Pronto soccorso era stato portato al commissariato di Ventimiglia e poi nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino. Entrato nel centro di corso Brunelleschi le sue condizioni fisiche e psicologiche sono peggiorate. Posto in isolamento per motivi sanitari e nella notte tra sabato e domenica si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo, nel bagno della sua stanza. «Era provato, stanco, probabilmente depresso - dice il suo avvocato Gianluca Vitale -. Lo avevo visto pochi giorni fa e stavo cercando di oppormi alla sua espulsione per motivi giudiziari. Non riusciva a capire il motivo per cui, dopo aver subito un'aggressione così violenta, fosse stato privato della libertà». A trovarlo senza vita ieri mattina sono stati gli operatori del Cpr, ma nessuno nella notte si era accorto di nulla. «Adesso neppure la sua domanda di giustizia avrà una risposta - aggiunge Vitale -. Spero di sbagliarmi, ma nel nostro colloquio mi ha detto che, dopo il pestaggio, nessuno degli inquirenti lo aveva ascoltato. Era finito in camera di sicurezza e poi nel centro di Torino. Continuava a ripetermi che voleva uscire e che lì dentro non sarebbe rimasto a lungo». La polizia di Imperia ci aveva messo meno di 24 ore a individuare le tre persone che avevano aggredito e picchiato a bastonate Musa. Lo avevano accusato di aver rubato un telefonino, ma lui si è sempre detto innocente: «Stavo solo chiedendo l'elemosina». In un video su Facebook si vedono i tre aggressori che lo prendono a pugni e calci anche quando è a terra e le persone sui balconi urlano terrorizzate. I responsabili erano stati poi identificati: sono due siciliani di Agrigento, di 28 e 39 anni, e un 44enne di Palmi (Reggio Calabria) tutti domiciliati a Ventimiglia. Vennero denunciati a piede libero per lesioni aggravate, ma gli investigatori hanno escluso che abbiano agito «per odio razziale». Dopo le dimissioni dall'ospedale di Bordighera, Musa era stato trasferito a Torino, senza capire il perché. «Avvocato, io di qui devo uscire, non ce la faccio», sono state le ultime parole dette al suo legale. Era in Italia da cinque anni, prima era stato in Francia, ma sperava di riuscire a superare di nuovo il confine. Si arrangiava con piccoli lavoretti saltuari e sognava un futuro migliore. Sulla fronte aveva una profonda ferita che gli ricordava quell'aggressione ingiusta e sulla pelle i segni della tensione e dello stress che non riusciva a superare. Nella notte tra sabato e domenica ha pensato che il suo sogno non si sarebbe mai avverato e ha deciso di togliersi la vita.

Irene Famà e Giuseppe Legato per "la Stampa" il 25 maggio 2021. «Io da qui devo uscire. Devo trovare il modo di andarmene». Due giorni prima di togliersi la vita, impiccandosi nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino, Musa Balde, 23 anni, lo ha ripetuto più volte al suo avvocato. Nessuno l'ha visto nelle sue ultime ore: in isolamento per questioni sanitarie nell'Ospedaletto della struttura alla periferia sud della città, Musa era solo. Con il suo legale, 36 ore prima del suicidio, ha ripercorso le tappe che l'hanno portato in Piemonte. Vittima di un'aggressione brutale il 9 maggio a Ventimiglia, preso a sprangate, a pugni sul volto e sul costato da tre italiani, il 10 maggio si è ritrovato al Cpr di corso Brunelleschi. E i suoi aguzzini denunciati a piede libero per lesioni. Perché? Vittima di una violenza selvaggia, Musa aveva una "colpa", quella di non essere in regola con i documenti. Originario della Guinea, era in Italia da circa cinque anni, ma tecnicamente era un «irregolare». Così, dopo essere stato aggredito fuori da un supermercato in Liguria, si è ritrovato prima in ospedale poi in Questura ad Imperia e infine al Cpr di Torino in attesa di essere rimpatriato. Le sue condizioni di salute gli impedivano di condividere gli spazi con altre persone. Ha trascorso gli ultimi giorni da solo a chiedersi cosa fosse successo, come fosse finito lì, rinchiuso in un centro per i rimpatri. Vittima, certo. Ma non abbastanza per essere "salvato" dalle rigide norme sull'immigrazione. «Continuava a chiedere come potesse essere finito al Cpr dopo essere stato aggredito» racconta il legale Gianluca Vitale, specializzato sui profili di assistenza giuridica ai deboli. Lo ha incontrato il 21 maggio: «Ripeteva la sequenza degli eventi: botte, ospedale, questura, Centro di permanenza per il rimpatrio». Le prime notizie sull'aggressione, filmata da una donna che aveva assistito alla scena dal balcone di casa, parlavano di un tentato furto di un cellulare. «Non ho cercato di rubare nulla. Stavo chiedendo l'elemosina e quei tre mi hanno riempito di botte. Una signora mi aveva risposto che non poteva darmi nulla e come una furia sono arrivati in gruppo a picchiarmi» ha raccontato Musa nel corso del colloquio. «Da quello che potuto ricostruire - aggiunge Vitale - non ha avuto modo di parlare con alcun magistrato». Quel che è certo è che 24 ore prima di togliersi la vita, impiccandosi con un lenzuolo, «era molto provato». La procura non attenderà l'arrivo a Palagiustizia di eventuali esposti, ma aprirà un fascicolo, al momento contro ignoti, con l'ipotesi di «morte in conseguenza di altro reato». Che nel caso in questione potrebbe essere un'omissione nell'assistenza psicologica ricevuta. Ciò consentirà al pool guidato dal procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo di effettuare tutta una serie di accertamenti. Primo fra tutti, se la vittima, una volta trasferita a Torino, sia stata «seguita» nel modo corretto. «Con un'aggressione di quel genere - spiega l'avvocato Vitale - avrebbe dovuto essere fatto un consulto psichiatrico». A quanto si apprende da fonti della Questura, questo sarebbe avvenuto due giorni dopo il suo ingresso nella struttura. Da quando Musa ha incontrato il suo avvocato al momento in cui si è suicidato sono passate 36 ore. Gli unici a vederlo sono stati gli operatori del Centro sentiti dalla Squadra Mobile. Dovevano somministrargli una terapia. «Era taciturno, ma non ha detto nulla che potesse fare pensare a un epilogo del genere» hanno raccontato agli investigatori. Eppure, l'aggressione disumana che aveva subito era nota. Filmata dai passanti, finita sulle cronache.

Quell'antimeridionale di Artusi. Ottavio Cavalcanti su Il Quotidiano del Sud il 20 maggio 2021. Il celebre ricettario si ferma a Roma. Viene, prima o poi il momento di fare i conti con qualcuno, non per minacciare, come di solito accade, ma per amore di verità, atteggiamento tenuto nella massima considerazione dall’antica sentenza: “Amicus Plato, sed magis amica veritas”. In libreria un tondo dorato, apposto sulla copertina a fini pubblicitari, informa che il volume, di cui vogliamo occuparci, ha venduto più di tre milioni di copie. Si tratta della ristampa dell’edizione originale de: “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie” compilato da Pellegrino Artusi. Sempre in copertina si legge: “790 ricette e in appendice La cucina per gli stomachi deboli con ritratto dell’autore”. Propone il tutto Giunti, editore in Firenze, nel 2020, bicentenario della nascita dell’autore, data variamente celebrata un po’ dappertutto, a partire da Forlimpopoli, sua città natale; così come non casuale è il luogo della ennesima edizione del testo, dal momento che nella città del giglio a lungo visse e si spense nel 1911. Lo ricorda una lapide apposta, nel 1994, a cura dei cittadini di entrambi i luoghi citati, sulla destra del portone di piazza D’Azeglio 35 a Firenze. Nel testo Artusi viene definito “letterato gastronomo benefattore” con attribuzione, nel contempo, del merito di aver dato “unità italiana alla varietà linguistica regionale” nel celebre libro in questione. Firenze città di adozione era diventata dopo una notte di violenze, in quella natale, nel gennaio del 1851, di cui fu vittima la sua famiglia ad opera del noto bandito Stefano Pelloni, meglio noto come il Passatore. Nel coro, generalmente ed esclusivamente laudativo dell’opera, non sarà male, differenziandosene, esercitare un opportuno esame critico, non temendo l’accusa di lesa maestà da parte degli indefessi estimatori. Il punto di partenza è costituito, nel testo lapideo citato, dell’attribuzione a lui della qualifica di unificatore, in ottica nazionalistica, della “varietà linguistica regionale”. Artusi non era, però, studioso di linguistica e la celebrazione – lo si dichiara di seguito – gli derivava dall’essere autore di un libro di cucina. È, allora da ritenere, come in realtà è accaduto, che il riconoscimento, in spirito quasi risorgimentale, si debba ad un’altra unificazione, quella gastronomica del Paese. Così vuole la Vulgata e qui casca l’asino, perché i libri di cucina abitualmente non si leggono, si consultano, consentendo a chiunque di dire quel che si vuole senza tema di smentite. Il fatto è che il testo artusiano è un ricettario prevalentemente toscano-romagnolo, dal momento che la stragrande quantità di ricette proposte è relativa all’ambito regionale in questione, meticolosamente conosciuto dall’autore per esperienza diretta di vita. Lo dimostra, quanto al primo, non solo l’indicazione generica, regionale, ma la specificazione localistica: Firenze, il più delle volte, Cafaggiolo, Arezzo, Livorno, Maremma, Viareggio, ecc. Quanto al secondo, del tutto dominante è, invece, la citazione di Bologna. Nel testo modestissimi riferimenti figurano al Piemonte e al Veneto; modesti alla Liguria; più consistenti alla Lombardia: 10 ricette. L’Italia, malgrado la generica citazione dei “Tortellini all’italiana”, “Lesso rifatto all’italiana”; del “Latteruolo”, dolce tradizionale di Romagna, presente “forse anche altrove in Italia”; dei “Quattro quarti all’italiana”, si può dire finisca a Roma, di cui si propongono 9 ricette, con una citazione regionale delle anguille del lago di Bolsena. Quanto al resto del Paese, un generico riferimento, per altro infondato, alle “città meridionali”, dove i carciofi si trovano quasi in tutti i mesi dell’anno, per cui “è inutile prendersi il disturbo di seccarli” per l’inverno, oltre i buchi neri del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Calabria, totalmente assenti. La Campania è identificata con Napoli, alla quale si attribuiscono 5 ricette, di cui una relativa alla pizza (la n.609), non salata ma incredibilmente dolce. La Sicilia è presente con due pietanze: maccheroni con le sarde; nasello alla palermitana, oltre che con la citazione del siciliano che nel 1660 aprì a Parigi lo storico caffè Procope. Tutto ciò mentre, con plateale dilatazione dello sguardo, si mappano gastronomicamente la Francia (17 ricette), incredibilmente Germania e Inghilterra, rispettivamente con 14 e 11, Spagna, Olanda, Ungheria, Svizzera e Portogallo. Non mancano, ad abundantium, le ricette del “Bue alla California”, della “Zuppa tartara”, del “Cuscussù” (sic) dei Paesi arabi. Eppure a Napoli, la città più popolosa d’Italia, l’unica ad avere l’aspetto di capitale europea in gara con Parigi e Vienna, vantava una tradizione culinaria di tutto rispetto, la cui ricostruzione storica può sgomberare il campo da ogni possibile concorrente. Basti citare due casi cronologicamente prossimi al tempo dell’Artusi. Il primo, di Vincenzo Corrado, per lo strepitoso successo del suo: “Il cuoco galante”, di fine ‘700, seguito da: “I pranzi giornalieri variati, ed imbanditi in 672 vivande secondo i prodotti delle stagioni”, edito a Napoli nella Stamperia di Michele Migliaccio nel 1809, che reca sul frontespizio la dizione: “Lavoro dell’autore del Cuoco galate”. Corrado poteva, infatti, fare a meno di usare il suo nome, dal momento che la garanzia della validità del testo era data dalla notorietà del precedente. Il secondo caso, quello di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, gentiluomo di origini calabresi, autore de: “La cucina teorico pratica col corrispondente riposto ed apparecchio di pranzi e cene”, che, edito inizialmente nel 1837, ebbe ben 9 edizioni nel sec. XIX ed è stato ripubblicato a ripetizione, di seguito fino al 2018, anno al quale risale l’ultima uscita per i tipi dell’editore Grimaldi di Napoli. Si tratta, senza dubbio alcuno, ancora oggi, del più autorevole trattato di gastronomia napoletana anche per l’innovativa, straordinaria appendice in dialetto, sua caratteristica peculiare. Così di lui scrisse Pietro Martorana nelle sue: “Notizie biografiche”: «Siccome tutti gli uomini devono avere una passione, così il nostro duca, non trascurando i doveri della nobiltà, le sue ore di ozio invece di dissipare in giuochi, in feste e in balli, le occupava nell’arte culinaria, e tanta fu la maestria che in essa acquistò, che ne distese un voluminoso trattato…».Riferisce Salvatore Caetani in: “Apud Neapolim”, che il duca di Maddaloni usava dire: «Tre sono i libri da salvare: la Bibbia, Dante e il trattato di cucina del mio amico Cavalcanti».

Giustizia al Sud, Gratteri: “Altro che Commissione, le buone prassi potremmo insegnarle noi”. Al procuratore capo di Catanzaro non piace affatto la commissione interministeriale per la giustizia nel Mezzogiorno istituita dalle ministre Cartabia e Carfagna. Il Dubbio il 27 maggio 2021. Non piace al procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, come agli altri magistrati del Sud, l’istituzione di una commissione per l’insegnamento delle «buone prassi» giudiziarie ai magistrati impegnati nelle regioni del Mezzogiorno. «A noi è dispiaciuta già l’idea di quella commissione, di chi ha ideato una commissione di due ministeri, Giustizia e Sud, di spiegare agli uffici del Sud le buone prassi. Ma vi sembra normale?», ha detto Gratteri a margine dell’inaugurazione dell’aula bunker di Lamezia Terme (Cz), commentando con i giornalisti l’istituzione, da parte del ministro della Giustizia, Marta Cartabia e del ministro del Sud, Mara Carfagna, della commissione interministeriale per la giustizia nel Sud. «Se lo stesso ministero della Giustizia – ha aggiunto Gratteri – dice che il distretto di Catanzaro è l’unico distretto in Italia che durante il periodo Covid ha smaltito il 110% dei fascicoli! Siamo l’unico distretto con segno positivo e ora si sente l’esigenza di creare una struttura per spiegare le buone prassi? Ma quali sarebbero le buone prassi? Voi pensate di poter sovrapporre un qualsiasi tribunale del nord con i carichi e col tipo di mafie che ci sono in Sicilia, in Calabria, in Basilicata o in Puglia? E chi dovrebbe insegnare a noi come si organizza un ufficio, nel momento in cui – ha ricordato il procuratore di Catanzaro – in quattro mesi e mezzo siamo riusciti a fare quest’opera, nel momento in cui siamo partiti da un convento del’400, abbandonato e chiuso da 10 anni, i cui lavori sono stati eseguiti dalla Sovrintendenza alle Belle Arti per riportarlo alla bellezza del ’400 e in quattro anni, tra pochi mesi, a fine anno, avremo una nuova Procura di 6000 metri quadri». Secondo Gratteri tutto questo «è una dimostrazione di capacità organizzativa da parte dei vertici degli uffici giudiziari del distretto di Catanzaro. Non dico io, io sono l’ultimo bullone del carro, però se nel distretto di Catanzaro si è in grado di fare queste cose, forse le buone prassi le dovremmo insegnare noi, con un po’ di modestia, e non altri che non so cosa hanno fatto nella vita possono venire a spiegarci come si organizza un ufficio. Il giorno in cui mi sono insediato c’erano 16 anni di fascicoli arretrati di fascicoli e adesso marciamo con ciò che arriva, con l’attualità. Forse – ha concluso il procuratore della Repubblica di Catanzaro – siamo in grado di organizzare un ufficio, siamo in grado di spiegare come si organizza un ufficio».

"Lombroso razzista coi meridionali? No, vi spiego perché". Angela Leucci il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Un senatore lucano chiede la chiusura del Museo Lombroso, con l'accusa di "razzismo scientifico". "Non ci sono espressioni di razzismo, il museo non deve chiudere", dice il professore di Storia Moderna Luca Addante. Il Museo Lombroso al centro dell’ennesima, circolare e ciclica polemica. Nelle scorse settimane il senatore 5 Stelle Saverio De Bonis ha accusato la struttura di “razzismo scientifico”, chiedendone la chiusura al ministro per i Beni Culturali attraverso una domanda retorica. “Il medico Lombroso - scrive De Bonis sul sito del Senato - non esitò a scorticare cadaveri, mozzare e sezionare teste, effettuare i più incredibili e crudeli interventi su uomini ritenuti criminali per le misure di parti del cranio e del corpo e tutto il materiale su cui lavorare gli veniva fornito da carabinieri, bersaglieri, guardia nazionale, eccetera, durante le mattanze al Sud. Ma Lombroso non disdegnava neanche procurarsi da sé l'occorrente per dare credito alle sue incredibili teorie fondate su certe forme di razzismo scientifico e per questo si recava personalmente nelle carceri dove erano detenuti ex soldati borbonici, briganti e veri delinquenti; la sua teoria infatti aveva individuato il delinquente ‘perfetto’ nel meridionale”. Ma le cose stanno veramente così? Lo abbiamo chiesto a Luca Addante, calabrese professore di Storia Moderna all’Università degli Studi di Torino. "Sono meridionale e vivo da 12 anni a Torino - racconta Addante a IlGiornale.it - ho vissuto in diversi luoghi del Nord Italia (ho anche insegnato a Venezia), per cui sono estremamente sensibile alla questione del razzismo meridionale”. Il professore ha fatto parte di una delegazione che è andata in visita al Museo Lombroso, scandagliando una quantità enorme di reperti. “Ci sono andato anche con un pregiudizio, dovuto a quello che avevo letto in precedenza - aggiunge il docente - quindi non ero disposto a fare nessuno sconto laddove avessi ravvisato degli elementi che fossero espressione di razzismo”. Ma non c’è nulla di razzista nel Museo Lombroso, tanto più che non contiene solo resti di criminali meridionali, ma soprattutto di criminali piemontesi. Per fare un esempio, ci dice Addante, “ci sono dei manifesti con su scritto brigante italiano, non brigante meridionale”. Cesare Lombroso (nato Marco Ezechia) è stato un medico e uno scienziato vissuto tra il 1835 e il 1909. Concepì delle teorie da tempo confutate, pur influenzate dal darwinismo, che in realtà vengono riportate sui libri universitari per una ragione importante: spiegare come “funziona” il metodo scientifico che, nel tempo, si serve di tentativi, di errori e di correzioni - spesso non effettuati sempre dalla stessa persona, a volte ci vogliono anche più generazioni - che aiutano a giungere a ipotesi e teorie provate o quanto più vicino possibile alla realtà. Le teorie di Lombroso sono ben lontane dalla verità, ma questo è ampiamente risaputo. E non vuol dire che Lombroso non abbia anche dei meriti che potremmo definire involontari: consistono nel modo in cui il medico è giunto alle teorie, nel modo in cui sono state confutate, oltre a una quantità ragguardevole di materiale ordinato, schedato e pronto per essere fruito che hanno portato alla costituzione del Museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso” appunto. La raccolta del materiale avvenne quando ancora Lombroso era in vita e in attività, ossia dal 1876: dopo varie “migrazioni” di sede, dal 2001 è nel Palazzo degli Istituti Anatomici dell’ateneo torinese. Ma a parte queste nozioni, c’è una risposta a una domanda, che è più importante di tutto nel contesto: il Museo Lombroso deve restare aperto? La risposta è sì, ovviamente. “Il diritto all’istruzione e la tutela dei beni culturali sono nella Costituzione - chiarisce Addante - I musei si aprono, non si chiudono. Quel museo ha delle caratteristiche molto particolari, per via della presenza di documenti sulle classi subalterne, che sono rarissimi. Noi storici abbiamo documenti per lo più prodotti dalle élite, e quando abbiamo la possibilità di attingere ai pensieri delle classi subalterne ci lecchiamo le dita”. E inoltre sul fatto che nella struttura non ci siano intenti razzisti si è pronunciato l’International Council of Museums, che ha stabilito che la dispersione dei pezzi del Museo Lombroso “sarebbe la negazione di ogni etica museale”. C’è poi la questione della filosofia e della pratica scientifica: il Museo Lombroso è un esempio di come la scienza opera. “La scienza opera in questo modo: errori, correzioni di errori, altri errori, altre correzioni e così via - illustra Addante - Noi esseri umani non sappiamo tutto e andiamo cercando la verità attraverso il pensiero scientifico, per tentativi. Nella disposizione museale della struttura tutto ciò è spiegato in modo esemplare, cristallino. Se non avessimo avuto il tanto esecrato Lombroso, che tra l’altro nessuno si è mai sognato di avallare, non avremmo l’antropologia criminale. Ma la sua teoria è stata fondamentale per lo sviluppo di altre discipline. Senza Copernico non avremmo avuto Galilei, anche se Copernico commise degli errori”.

Il caso del “non brigante” Villella. Addante ha ripercorso un bizzarro caso di falsificazione storica in un suo intervento sul Corriere della Calabria. Alla fine del 2016, la Corte d’Appello di Catanzaro si è ritrovata a decidere di un cranio ospite proprio del museo Lombroso: in pratica c’era chi sosteneva che il cranio, appartenuto a Giuseppe Villella, fosse quello di un brigante che si era battuto per la libertà del Mezzogiorno e quindi dovesse tornare al suo paese d’origine. Nel 2009 il cranio aveva trovato una risistemazione nella struttura museale e la notizia era giunta dalla stampa ad alcuni movimenti neoborbonici, che hanno dato vita a questa grande menzogna, ossia che Villella fosse un brigante e che si fosse battuto per la libertà del Sud. Al di là delle precisazioni che andrebbero fatte sull’Unità d’Italia e che richiederebbero ben più di un articolo - infatti esistono i manuali di storia e le monografie per questo - va ricordato che Villella non era un brigante, ma un piccolo criminale sfortunato. Che all’ennesimo arresto, in epoca post-unitaria, fu tradotto nel carcere di Pavia, dove morì a causa di una malattia. Lombroso ebbe per le mani i suoi resti, per ragioni di studio, solo anni dopo: quindi è davvero impensabile la ricostruzione macabra e fantasiosa secondo cui Lombroso avrebbe decapitato personalmente il detenuto. E si deve riconoscere come il museo abbia sottratto Villella da oblio e anonimato, in cui invece la Storia, da criminale comune, l’avrebbe relegato. “I medici, almeno dal ‘500 - spiega Addante - hanno sempre avuto qualcuno a loro vicino a livello locale, che forniva resti umani da studiare. Siamo alle origini della scienza anatomica. Lo stesso Lombroso, vivendo a Torino, ricevette il grosso dei reperti appunto da Torino. Il fatto che abbia ricevuto il cranio di Villella ce lo dimostra ulteriormente, perché il suo corpo era a Pavia non in Calabria”.

I movimenti neoborbonici. Le levate di scudi cicliche contro il Museo Lombroso sono inevitabilmente legate ai movimenti neo-borbonici, che sono mossi da diverse istanze: da un lato per alcuni c’è la cosiddetta sindrome da età dell’oro mai esistita (almeno non come viene descritta), dall’altro c’è una possibile strumentalizzazione politica. Il fenomeno, dice Addante, è partito da lontano ma non troppo. Negli anni ’80, alcuni hanno iniziato a sfoggiare adesivi del Regno delle Due Sicilie, ma i movimenti neoborbonici sono proliferati soprattutto a partire dagli anni ‘90, in corrispondenza dei centenari delle repubbliche giacobine, tra il ’96 e il ’99, quando la stampa iniziò a dare un certo risalto anche ad alcune proteste portate avanti da persone che non erano studiosi. “Ci fu un assalto in grande stile e una certa stampa diede credito a questa contronarrazione - spiega il professore Addante - Con i social, poi, hanno iniziato a circolare una serie di affermazioni che sono paragonabili al terrapiattismo. Inoltre in quel periodo nasce la Lega: di fronte allo spegnersi della vecchia questione meridionale, che aveva esaurito la sua parabola, la reazione alla Lega Lombarda non fu condotta dagli intellettuali, dagli studiosi, ma da gente comune che non aveva gli strumenti scientifici. Il discorso fu ribaltato in maniera naïf, ci fu una reazione bambinesca, anche se sono anche persuaso della buona fede della maggior parte di queste persone. Parallelamente però c’è stata la fioritura di leghe meridionali”. E in alcune di queste leghe meridionali, delle sentenze passate in giudicato hanno riscontrato connessioni con la criminalità organizzata. Ma c’è un fatto imprescindibile: viviamo in una nazione unita e repubblicana, per cui inneggiare alla restaurazione monarchica o alla disunità sarebbe come auspicare un colpo di Stato. Poi ci sono delle storie che vengono raccontate e che non hanno il rigore che invece ha la Storia, che gli studiosi vagliano con le sue complessità in maniera scientifica.

Se per buonismo (e paura di Lombroso) si finisce per voler chiudere i musei. Nelle piccole storie neoborboniche, come spesso accade nei meccanismi di propaganda, vengono annoverati dei fatti verosimili o addirittura veri (la ferrovia Napoli-Portici, per esempio), ma vengono trasfigurati, esagerati e, per usare un calembour linguistico-matematico, da parabola diventano iperbole. “Ci sono elementi di verità - chiosa Addante - ma il problema è come interpretarli. La ferrovia Napoli-Portici fu il primo tratto ferrato. Qual è il problema? Che Cavour, in Piemonte, quando ha avviato le ferrovie, poi ha creato una rete ferroviaria a livello regionale e non solo, e ha posto le basi, come è avvenuto in Inghilterra, per la Rivoluzione Industriale. La Napoli-Portici era una sorta di metropolitana del re per andare da una reggia all’altra: il grosso dello sviluppo ferroviario al Sud è avvenuto durante l’età unitaria, prima non c’è stata una politica industriale, niente di significativo. Nelle narrazioni neoborboniche ci sono degli elementi di verità ma vengono stravolti, con esiti paradossali. Certo, le forze risorgimentali erano consapevoli dei loro limiti: c’era una constatazione evidente che qualcosa che non andava, che si cominciava a creare squilibrio tra Nord e Sud. Ma i movimenti neoborbonici ingigantiscono fatti veri o inventano. Eppure siamo in uno stato unitario e ce lo teniamo stretto”. Tra l’altro il professor Addante è al lavoro su una pubblicazione interessante: uscirà il prossimo autunno per Laterza e si chiamerà “I cannibali dei Borbone - Antropofagia e politica nell’Europa moderna”. “Nel libro - racconta - cerco di dimostrare che è davvero malriposta questa passione patriottica, nei confronti dei briganti, che erano nella stragrande maggioranza, se non nella totalità, dei criminali. È come se tra 100 anni noi leggessimo del patriota Totò Riina, del patriota Provenzano, eccetera”.

Le strade verso la conoscenza e la comprensione. Ovviamente per comprendere meglio il Museo Lombroso, andrebbe visitato il Museo Lombroso. Tanto più che fino al 30 giugno è ospitata la mostra “Face to face - L’arte contro il pregiudizio” di Davide Dutto, che si propone di far comprendere ai fruitori i meccanismi del pregiudizio e quindi anche del razzismo, del classismo, della misoginia e simili. Ma intanto che si programma una visita alla struttura torinese, si può pensare di approfondire l’argomento. Una lettura interessante è sicuramente “Lombroso e il brigante - Storia di un cranio conteso” di Maria Teresa Milicia, che smonta con rigore accademico tutte le bugie e le inesattezze relative al “non brigante” Villella. Ma non mancano le pubblicazioni che restituiscono la verità storiografica alle vicende collegate a Lombroso, pur essendo estremamente pop. Una di queste pubblicazioni è “Lombroso” di Stefano Bessoni, illustratore e regista. Lombroso è un’illustratissima biografia, in cui vengono ripercorse passo dopo passo la storia personale e la ricerca dello scienziato ottocentesco, che vengono narrate sotto forma di brevi episodi accompagnati da immagini suggestive. Si tratta di un libro che in realtà si acquista proprio per le meravigliose illustrazioni, ma alla fine si resta per scoprire le considerazioni di Bessoni su Lombroso: anche se l’autore non è un accademico, scrive delle considerazioni comprensibili e apprezzabili. “Cesare Lombroso - scrive Bessoni a conclusione del suo volume - è parte integrante della storia della cultura italiane e le sue teorie ci permettono di capire come la scienza si evolve continuamente e progredisca anche grazie agli errori. Cancellando la memoria non si pone rimedio a un’ingiustizia avvenuta in un'epoca in cui si credeva ciecamente alla scienza e nel progresso e la diversità suscitava sgomento e ostilità. L'oblio rischia piuttosto di permettere all'ingiustizia di affermarsi ciclicamente, beffandosi di quanto avvenuto in passato”. Illustrazione, fumetti, cultura e divulgazione pop quindi potrebbero fare bene alla causa della Storia. “Possono aiutare questo tipo di pubblicazioni - conclude Addante - L’importante è che ci siano dati reali per contrastare le panzane che appaiono su Facebook”.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Da "lastampa.it" il 16 maggio 2021. Una richiesta di chiudere il museo Lombroso a Torino per il suo «razzismo scientifico «è stata presentata al ministro della Cultura dal senatore Saverio De Bonis. «Si chiede di sapere - è una parte del contenuto dell'atto pubblicato sul sito internet del Senato - quali iniziative il ministro intende intraprendere perché quanto rappresentato nel museo dedicato a Lombroso per avvalorare le sue insensate e balorde teorie basate sul razzismo scientifico vadano smentite». «Immaginate - scrive De Bonis sulla sua pagina Facebook - se a Torino ci fosse un museo (ma esiste) dedicato alla superiorità del Popolo settentrionale rispetto ai meridionali, e se in questo museo fossero esposti (e lo sono) i resti dei Patrioti meridionali che resistettero all'invasione piemontese. Questo è il quadro di un'Italia inconsapevole». Fondato nel 1876 da Cesare Lombroso, esponente di spicco della fisiognomica, la disciplina oggi relegata all'ambito delle pseudoscienze che pretendeva di dedurre i caratteri psicologici di una persona attraverso l'aspetto fisico, il museo ha visto nascere numerosi comitati nel corso degli anni che ne chiedono la chiusura considerandolo una sorta di celebrazione razzista contro i briganti meridionali del XIX secolo. E che invocano anche la restituzione dei reperti. All’università di Torino infatti sono abituati a un certo tipo di uscite. Le critiche verso il polo museale tornano agli onori delle cronache con cadenza regolare. Ne è consapevole anche Silvano Montaldo, docente dell’ateneo e direttore scientifico del museo. «Tutte le volte che si parla in termini positivi del nostro museo, l’ultima volta è successo durante i giorni del Giro d’Italia, scatta immediatamente un certo tipo di reazioni e spesso arrivano proprio dalla politica. Il senatore non è bene informato, nel nostro museo non c’è assolutamente del “razzismo scientifico” ma solo delle testimonianze importanti per la storia della scienza, anche nelle sue pagine più buie. Per questo il museo Lombroso è considerato un deposito della memoria a livello internazionale». 

Lo sfogo di Rocco Commisso: «La Fiorentina è andata male anche per colpa dei giornalisti». Il Quotidiano del Sud il 14 maggio 2021. Il presidente viola in conferenza stampa: «Ho letto e sentito un sacco di porcherie». Poi si è detto pronto ad impedire l’accesso al centro sportivo ai giornalisti “scorretti”. «Sento, leggo un sacco di porcherie». Rocco Commisso contro la stampa. Il presidente della Fiorentina si è scagliato contro i media in una conferenza “movimentata”. «Ne sono state dette troppe. Sento, leggo, un sacco di porcherie», ha detto nella sua conferenza stampa di fine anno prima del ritorno in America, vista la salvezza matematica dei viola. «Sono state scritte cose indegne, sulla mia squadra, sul mio allenatore. Voi siete gente di calcio? Io faccio questo lavoro da 71 anni. La Fiorentina è andata male anche per colpa dei giornalisti, avete scritto cose ingiuriose. Non avete il coraggio di dire che quello che viene scritto non è vero. Sono stato chiamato “Rocco il Terrone”, “Lo Zio d’America”. Ho investito molto più dei Della Valle in due anni, loro sono stati 17 anni. Sono qui da 2 anni, datemi altri 15 anni per fare paragoni. I risultati non sono arrivati, anche loro non li hanno fatti subito», ha proseguito il numero uno viola che ha poi rincarato la dose. «Sono state scritte bugie», ha detto riferendosi ad un presunto incontro con Maurizio Sarri. «I giornalisti fiorentini ne hanno dette tante. E quando ciò accade, gli altri devono intervenire. Può darsi sia arrivata una falsa informazione, ma il giorno dopo dovevano essere fatte delle scuse. Invece non è accaduto. Per come la vedo io, penso che l’ordine sia arrivato da altri. Per voler fare del male alla Fiorentina. Gli errori si possono commettere, ma si può chiedere scusa, con noi e per i tifosi», ha aggiunto Commisso, pronto a mostrare anche il “cartellino rosso” agli operatori dell’informazione considerati “scorretti”: «Ci saranno persone che non potranno accedere alla Fiorentina, e al centro sportivo, che sarà una proprietà privata».

Da corrieredellosport.it il 14 maggio 2021. Federazione nazionale della Stampa italiana, Associazione Stampa Toscana, Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Toscana, Unione Stampa Sportiva Italiana e Ussi Toscana denunciano con forza le intollerabili offese pronunciate dal presidente della Fiorentina, Rocco Commisso, in una videoconferenza stampa, che avrebbe dovuto fare il punto della situazione dopo la salvezza raggiunta in campionato, e che invece si è trasformata in un allucinante processo a tutti i colleghi che hanno seguito la squadra. Parole inaccettabili, quelle pronunciate da Commisso, mai ascoltate in un incontro stampa e non giustificabili nemmeno con l'amarezza di una stagione difficilissima. Commisso ha parlato di giornalisti ruffiani e addirittura manipolati da presidenti di altri club, di giornalisti che fanno i soldi con la Fiorentina, di giornalisti che non raccontano mai il vero. Inutile anche il tentativo di intervenire per chiedere a Commisso un approccio diverso, più sereno e confacente alla situazione nella quale si stava trovando, fatto dal presidente dell'Ast, Sandro Bennucci, al quale è stata tolta la parola dopo pochi secondi con una frase secca. Un atteggiamento inqualificabile: solo nei regimi autoritari si verificano comportamenti del genere. In una prossima occasione, di fronte a simili epiteti, i colleghi sono invitati a uscire dalla video conferenza. Fnsi, Associazione Stampa Toscana, Ordine dei giornalisti della Toscana, Ussi nazionale e Ussi Toscana si rivolgono a Federcalcio e Lega di serie A perché approfondiscano, anche attraverso la Procura federale, quello che è accaduto stamani, 14 maggio 2021, durante la videoconferenza del presidente della Fiorentina. Un appello è rivolto anche al prefetto di Firenze, Alessandra Guidi, perché intervenga nel caso in cui le parole di Commisso possano provocare atti irresponsabili nei confronti dei giornalisti. Gli organismi della categoria sono pronti a schierarsi al fianco di tutti quei colleghi che, chiamati in causa direttamente, abbiano intenzione di rivolgersi ai propri legali.

Da forzaroma.info il 14 maggio 2021. A Firenze oggi il presidente viola Rocco Commisso ha rubato la scena. Nella sua conferenza stampa ha attaccato giornalisti, ha messo in vendita provocatoriamente la Fiorentina, ha parlato di mercato e ha commentato gli operati dei suoi "colleghi". Nel suo monologo ci sono finiti anche i Friedkin, citati dall'italo-americano per difendere in qualche modo il suo operato: "Ho preso una squadra che da sedicesima è arrivata decima. La Roma con i nuovi proprietari ha fatto peggio dell'anno prima" ha detto Commisso. Lo show del newyorkese ha divertito anche l'ex presidente della Roma James Pallotta, che ha commentato così su Twitter: "Non riesco a smettere di ridere. È una delle migliori tre conferenze di sempre". In passato l'ex patron della Roma aveva punzecchiato Commisso: "Voleva la Roma, ma non l'ho mai voluto come socio".

Marcello Mancini per "la Verità” il 19 maggio 2021. A sentir Dante, Firenze è una città ingrata, attenta ai «subiti guadagni», che hanno generato «orgoglio e dismisura» (Inferno, canto XVI). Certo Dante, costretto all' esilio dai fiorentini, aveva il dente avvelenato. Ma ci aveva visto lungo, già qualche secolo fa. Molto prima che imprenditori del secondo millennio, denunciassero una città con il braccino corto, buona solo a criticare, a far cassa («subiti guadagni») e mai a frugarsi in tasca. Se non, ovvio, per legittimi investimenti privati sul mattone e sugli alberghi. Una città che evidentemente preferisce respingere le offerte di imprenditori venuti da fuori, proprio perché vengono da fuori, salvo poi ripiegare sui soldi pubblici. Il patron della Fiorentina, Rocco Commisso, a salvezza acquisita sul campo, e dopo aver speso quasi 300 milioni, qualche giorno fa ha convocato una conferenza stampa che è stata piuttosto un regolamento di conti. Ha usato toni ruvidi, eccessivi, e qualche insulto di troppo dedicato ai giornalisti. Ma, stanco delle critiche pesanti, è arrivato a sfidare i «fiorentini ricchi»: «Siete buoni solo a offendere, compratela voi, la Fiorentina». Commisso è un imprenditore di successo, nato in Calabria, che è riuscito a realizzare un impero, la Mediacom, azienda che fornisce la tv via cavo negli Stati Uniti. C' è tuttavia un precedente che getta un interrogativo sulla città: prima di lui, era arrivato alla stessa conclusione Diego Della Valle, per 17 anni proprietario della società viola, che qualificò come «rosiconi», quei personaggi che avevano l' abitudine di frequentare la tribuna autorità dello stadio Franchi, sparlando a destra e a manca, invocando la Champions, senza mai sforzarsi di mettere un po' di soldi nella squadra del cuore. Che per Firenze è un monumento, amato quanto il David. Di cui si può parlar male solo fra fiorentini: ad altri non è ammesso anche di fronte all' evidenza. Pena l' odio perpetuo. La Fiorentina quest' anno ha deluso. Soprattutto in relazione ai soldi spesi per i giocatori, a quanto il nuovo patron aveva promesso e dunque a quanto i tifosi si aspettavano. Sono stati commessi errori che il tycoon italoamericano ha avuto difficoltà ad ammettere, dunque il dissenso popolare aveva delle giustificazioni. Ma la crisi ha confini più dilatati dell'ambito sportivo. Per esempio, Commisso da quando è a Firenze ha cercato anche di costruire un nuovo stadio a proprie spese: bastava trovare il terreno adatto. Lo sbarramento burocratico ed estetico ha impedito l'ampliamento del vecchio impianto e finora la costruzione di uno nuovo. Il Comune, complice i vincoli della soprintendenza, ha detto no ai milioni privati per il Franchi e utilizzerà quelli pubblici (95) del Recovery fund. Commisso, cioè la Fiorentina, realizzerà per lo meno un immenso centro sportivo nella vicina Bagno a Ripoli, zona di verde meraviglioso e di prestigiose residenze. E questo è già un risultato, benché sia ancora in sospeso un ricorso di Italia Nostra al Tar. In tutta questa giostra di propositi, di soldi offerti, di progetti a metà, e soprattutto di critiche feroci, Firenze e i fiorentini si trovano di nuovo sul banco degli accusati. Tirati per i capelli con toni e modi bruschi dall' italoamericano. Gli stessi personaggi, anche dai nomi importanti, se ne sono rimasti come sempre in disparte a criticare, magari con la scusa della proverbiale ironia attraverso la quale è permesso dire di tutto. A volte troppo. Un po' è vero che i fiorentini hanno un caratteraccio ed è complicato, se non impossibile, gestirlo senza offendersi. Andrebbero presi con le molle e invece in tanti la prendono così male da restarne sopraffatti e mandare tutti a quel paese. Su questo fronte è difficile mediare, come ben spiegava il Sommo Poeta, che i fiorentini li conosceva bene. E nel IX canto del Paradiso descriveva Firenze come una città maligna, prodotto di Lucifero, che «fu cagione di tanto pianto». Lui dava la colpa al «maledetto fiore», il fiorino che la rese ricca, «che ha sviato tutto il popolo cristiano e ha trasformato il pastore in un lupo». C' è però un altro aspetto meno psicologico e più grave. È come se Commisso, e fino a due anni fa Diego Della Valle, fossero considerati corpi estranei a Firenze e quasi nuocessero al sistema che tiene in perenne stand by la città. Da loro si pretende che spendano per la Fiorentina senza fiatare. In cambio avranno il trionfale consenso, la mobilitazione, gli applausi, come è stato anche per Commisso, in modo fin troppo esagerato, quando è arrivato nel 2019. Per un imprenditore, oltretutto straniero, può non bastare. Solo i Cecchi Gori, che in fondo sono stati l' ultima famiglia fiorentina padrona dei viola, hanno acceso davvero la piazza e, sebbene Vittorio abbia rovinato sé stesso e la società (portata al fallimento nel 2002), è ancora rimpianto perché ha saputo tenere accesa la passione portando a Firenze campioni come Rui Costa e Batistuta. A lui fu concesso di colonizzare con il suo marchio la catena dei cinema cittadini e di acquisire una tv. Questa perenne guerra con il mondo ha condannato Firenze all' autoreferenzialità e spesso all' immobilismo: incapace in 60 anni di potenziare l' aeroporto, di prendere decisioni sull' Alta velocità, e anche di costruire uno stadio. I guadagni, fino a ieri, sono stati assicurati dal turismo di massa, al quale la città si è piegata perché garantiva a tutti una certa rendita. Oggi le fonti di ricchezza sono piuttosto scarse. Il turismo non c' è e chissà quando tornerà. I soldi di Commisso per un nuovo stadio potevano almeno servire a dare occupazione, ma la città li ha scansati. La Fiorentina è un mezzo per trasmettere entusiasmo e per dare ai fiorentini l' illusione di un riscatto che non trova in altri settori. Quando si risveglierà dal black out pandemico Firenze dovrà cambiare direzione e smettere di evocare la retorica del solito «nuovo Rinascimento», che non ci sarà mai. Anche basta con l' ancien régime. Ricominciare da dove eravamo rimasti sarebbe un suicidio. Dunque, l' attacco brutale del padrone della Fiorentina ai fiorentini è stato molto fastidioso, però ha posto una questione allarmante, più politica che sportiva. Se oltre alla reazione indignata che ha provocato, ce ne sarà una di testa, vorrà dire che lo choc non si è fermato al pallone. È questo sarà un bene.

Roberto Avantaggiato per "il Messaggero" il 10 maggio 2021. Nella settimana in cui l'Aia abbatte un altro muro, designando Maria Marotta per una prima volta storica (una donna chiamata dirigere una gara serie B), esplode con fragore, anche se è il caso di dire riesplode, la polemica sull' utilizzo del Var. E il presidente del Benevento, Oreste Vigorito, al netto delle insinuazioni che nessuno si sente di sponsorizzare, ha le sue ragioni perché l'intervento del Var (Mazzoleni, finito negli strali di Vigorito) ha solo una ragione di essere: la voglia di arbitrare che ancora anima l'ex direttore di gara di Bergamo, che davanti al video non è nuovo a questi interventi fuori protocollo. Dispiace che un arbitro esperto e internazionale come Doveri si finito nella pressione dell'on field review, lasciando giudicare al collega l'entità del contatto (come ama ripetere spesso Luca Marelli: non tutti i contatti sono falli) tra Asamoah (che colpisce il ginocchio dell'avversario) e Viola. Doveri ha giudicato fallosa l'entità del contatto e non è certo un chiaro ed evidente errore, come richiama il protocollo per l'intervento del Var. Sarà interessante, se ce ne sarà la possibilità, ricevere spiegazioni da Rizzoli, il cui compito, ora, è quello di far terminare qui la stagione del varista che piace a pochi, forse a nessuno in realtà. Peccato che il debutto di Maria Marotta, stasera a Reggio Calabria, venga offuscato da queste polemiche, che non aiutano gli arbitri giovani a crescere. Le ingerenze dei più anziani sono una caratteristica che va cancellata, se davvero, come disse Ancelotti qualche anno fa, non è il Var a dover arbitrare. Il protagonismo di chi sta al Var non è necessario. Soprattutto se, oltre a danneggiare una squadra di serie A, di qualunque regione sia, mette in cattiva luce un arbitro, com' è Doveri, che ha vissuto una stagione da top, al pari (se non superiore) di quella di Orsato, che tra i difetti che ha, non si può annoverare la mancanza di personalità. E pensare che Rizzoli aveva scelto i migliori per le sfide-salvezza. Così come ha affidato al rilanciato Valeri il big-match dello Stadium: quei sì che l'intervento del Var (su un mani di Bonucci sfuggito al romano) è stato lecito e doveroso, configurandosi un chiaro ed evidente errore.

Estratto dell'articolo di Ivan Zazzaroni per il "Corriere dello Sport" il 10 maggio 2021. […]  A cinque minuti dalla fine ti ritrovi sotto di un gol, in casa, contro una diretta concorrente nella corsa-salvezza. L’arbitro, perfettamente piazzato (non è un dettaglio), concede un rigore a tuo favore: rivedi la luce. Non si manifesta il “chiaro ed evidente errore”, ciononostante il Var richiama il direttore di gara che, viste le immagini al video, torna sulla propria decisione. Rigore (che c’era) negato: risprofondi all’inferno. Non essendo un monaco tibetano, né un esponente del Satyagraha, ma il presidente di una società nella quale butti milioni, energie e tempo, ti incazzi come una biscia. A caldo, sottolineate le colpe della tua squadra per il pessimo girone di ritorno, denunci (non vuoi che si parli di sfogo): «Non ho mai parlato di arbitri, ma mi sono arrivati messaggi da Napoli, e tutti hanno scritto che Mazzoleni è messo lì per ammazzare le squadre del Sud» l’invettiva di Oreste Vigorito. «Noi stiamo perdendo un anno di sacrifici, mentre lui sta col culo sulla panchina a guardare la tv e cambiare le decisioni. È una vergogna». Sospetto che da qui a fine stagione Paolo Silvio Mazzoleni le partite le seguirà in tv, da casa. Sono tuttavia convinto che l’accusa di Vigorito sia territorialmente infondata: Mazzoleni, che smise di arbitrare due anni fa, era scarso (opinione personale) ma sostenere che ce l’abbia con le squadre del Sud e venga impiegato per ammazzarle, una sorta di “meridional killer”, è ingiusto e pericoloso. Mazzoleni non avrebbe dovuto richiamare Doveri, mancavano i presupposti regolamentari - protocollo 20-21 - e la scusa del contatto minimo è ridicola. Così come Vigorito avrebbe dovuto accontentarsi (si fa per dire) dell’ingiustizia patita per sé e la squadra, non per il Sud Italia. Isole comprese. I messaggi che arrivano da Napoli sono frutto di un rancore consolidato negli anni (Pechino, 11 agosto 2012). Vigorito non ha bisogno di ispiratori o suggeritori, ha l’elevatezza del protagonista degno del massimo rispetto e con la facoltà di protestare. La linea “sudista” può solo danneggiarlo. Poteva dire - senza essere querelato - che forse Mazzoleni è scarso perfino al Var. E andrebbe messo a riposo. Per questo, se fossi in Gravina, approfondirei il “caso Vigorito”. Se non altro per confermare o rivedere le rassicurazioni fornite a suo tempo da Tavecchio, Nicchi e Rizzoli: «Col Var, niente più risse». […]

La denuncia della coppia Mastella-Lonardo e del presidente Vigorito. Benevento-Cagliari, il rigore non assegnato finisce in Parlamento: “Mazzoleni ammazza il Sud”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 9 Maggio 2021. In Parlamento si discuterà del rigore non assegnato al Benevento durante la sfida salvezza persa oggi, domenica 9 maggio, in casa contro il Cagliari (1-3). Ad annunciarlo è la senatrice del gruppo misto Sandra Lonardo, moglie del sindaco della città sannita Clemente Mastella, che chiederà al premier Mario Draghi di riferire al Parlamento sulla strana vicenda della presenza dell’arbitro di calcio Mazzoleni sia a Napoli che a Benevento”. In Italia non c’è un ministro dello sporto quindi Lonardo presenterà “domani (lunedì 10 maggio, ndr) una interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio, Mario Draghi, come titolare dello sport, anche se la delega è affidata ad un Sottosegretario (Valentina Vezzali, ndr), per chiedere di riferire al Parlamento sulla strana vicenda della presenza dell’arbitro di calcio Mazzoleni, sia a Napoli che a Benevento”. L’arbitro Pier Silvio Mazzoleni, a distanza di una settimana, si è occupato dal Var sia in Napoli-Cagliari (1-1) che, oggi, in Benevento-Cagliari (1-3). Le critiche in questione sono per il rigore nel finale assegnato dall’arbitro Doveri ai padroni di casa (sul risultato di 1-2 per il Cagliari), poi revocato, dopo l’intervento del Var. Lonardo ricorda che “in entrambi i casi era il Cagliari a giocare, e nei due casi Mazzoleni ha annullato un gol regolare al Napoli, quindi agevolando il Cagliari, e questa volta, a Benevento, negando alla squadra di casa un rigore, favoreggiando così la squadra avversaria. Chiederò al presidente del Consiglio di conoscere le ragioni di questa doppia presenza di Mazzoleni e se non ritenga che episodi come questi contrastino con la correttezza sportiva, demolendo l’idea, anche pedagogica, che lo sport rappresenta”, conclude Lonardo. Sulla vicenda è intervenuto il sindaco Mastella, marito della Lonardo: “A pensar male si fa peccato ma assai spesso si indovina. Lo diceva Andreotti e lo ripeto io. Come mai l’arbitro Mazzoleni era nella cabina Var a Napoli ed oggi a Benevento? A Napoli contro il Cagliari annullò il gol di Osimhen, oggi ha annullato il rigore del Benevento”. Durissime le parole del presidente del Benevento, Oreste Vigorito: “Credo che con i mezzi che ha a disposizione, il calcio può fare a meno di discutere di massimi sistemi e fermarsi a guardare le immagini, che hanno visto in tutta Italia. Tutti tranne Mazzoleni. Non ho mai parlato di arbitri in 15 anni, ma stavolta lo faccio. Mi sono arrivati messaggi, non da Benevento, ma da Napoli e da altre parti: tutti scrivono che Mazzoleni è messo lì sempre per ammazzare le squadre del Sud“. “Possiamo togliere il Var, è diventata una scusante per le loro c… Noi stiamo perdendo un anno di sacrifici, mentre Mazzoleni sta seduto su una sedia a guardare la tv e a cambiare le decisioni. È una vergogna! Il mio non è uno sfogo, ma una denuncia: questi signori devono uscire dal calcio, bisognerebbe analizzare le immagini. Anche nel primo tempo ci è stato fischiato un fuorigioco inesistente e c’era un rigore su Caprari”. Poi aggiunge: “Mi assumo la responsabilità di quello che dico e lo dico davanti a tutta Italia. E ora mi mandino pure dove vogliono”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Donatella Tiraboschi per corriere.it il 16 maggio 2021. Nessuna designazione nemmeno per la prossima giornata di campionato. Paolo Mazzoleni, l’ex arbitro e ora «varista» bergamasco, finito nella bufera dopo Benevento-Cagliari, resterà ancora fermo, ma intanto si muove il fratello, Mario. A suon di querele. Oltre un centinaio, redatte da un pool di legali dello studio Fratelli Bonomo di Bergamo stanno per essere depositate in varie Procure d’Italia. Destinatari vari; dal primo cittadino di Benevento, Clemente Mastella, a testate giornalistiche per finire ai cosiddetti «leoni da tastiera», ovvero profili social (identificati) che dopo il contestato episodio — il rigore prima concesso da Doveri ai sanniti e poi negato dopo la chiamata del Var, appunto, diretto da Mazzoleni — hanno inondato i profili social dei due fratelli Mazzoleni e pure della sezione bergamasca dell’Associazione Italiana Arbitri.

Mastella furioso. Non solo i commenti in Rete, ma anche le dichiarazioni di un Mastella furioso sono state considerate da Mario Mazzoleni, (pure lui ex arbitro, ma da oltre 16 anni avviato gallerista d’arte) lesive dell’immagine e della reputazione sue e della sua famiglia, inducendolo ad adire a vie legali. Se da un lato Mastella aveva additato il fratello Paolo come «recidivo, a Napoli, in maniera diversa, ha favorito lo stesso Cagliari a discapito nostro», dall’altro aveva preannunciato una interrogazione parlamentare da parte della moglie, Sandra Lonardo, sui fatti «accaduti nel match disputato e sugli interessi della famiglia Mazzoleni a Cagliari».

La scultura venduta a Cellino. Nell’interrogazione a risposta orale depositata il 12 maggio scorso, la senatrice Lonardo chiede, tra gli altri aspetti sportivi e arbitrali, se il Presidente del Consiglio Draghi sia «a conoscenza di quanto riportato dal sito locale “bergamosportnews” sui rapporti tra il fratello di Mazzoleni e Cellino, proprietario del Cagliari fino a qualche tempo fa, che acquistò, tramite Mario Mazzoleni, fratello del «varista», una scultura oggi posizionata nel giardino antistante la sede del Cagliari».

«Tutto documentato». Il «tempo fa» citato nell’atto rimanda ad oltre sette anni fa e alla galleria d’arte che Mario Mazzoleni gestisce da 16 anni al Forte Village. Qui fu effettuata una compravendita personale, l’unica, da parte dell’ex presidente del Cagliari (cessato dalla carica nel 2014) di due statue, un chitarrista e un giocatore di colore blu detenute nell’abitazione privata di Cellino. Un acquisto che viene definito dall’avvocato Benedetto Maria Bonomo «assolutamente regolare e certificato in modo documentale nelle modalità in cui si è perfezionato».

Da liberoquotidiano.it il 7 maggio 2021. "Italia razzista". L'immigrato Sikh, in collegamento da Roma con Dritto e rovescio su Rete 4, contesta il governo e le autorità di casa nostra, "colpevoli" di aver imposto la quarantena a moglie  e padre atterrati all'aeroporto romano di Fiumicino e sottoposti alla quarantena di rito, misura obbligatoria visto il rischio di importare la variante indiana che ha già portato, tra l'altro, alla recente imposizione di una "zona rossa" in un piccolo centro vicino a Sabaudia, nel Lazio, proprio per la presenza del virus nella locale comunità Sikh. Paolo Del Debbio, padrone di casa, ascolta visibilmente dubbioso il momento "quasi comico". Mamma e padre dell'immigrato, infatti, sono alloggiati al Covid Hotel per chi torna dall'India. Quale? L'Hotel Sheraton. "Io voglio sapere perché li hanno messi lì, possono stare a casa mia, c'ho anche casa mia, possono fare quarantena a casa", protesta l'indiano. "Ha il dente un po' avvelenato", mette in chiaro l'inviato di Del Debbio. E in studio scoppia la rivolta: "Ma allo Sheraton stanno!", si scatena Giuseppe Cruciani, la cui protesta è supportata anche da una divertita Beatrice Lorenzin, ex ministra della Salute, sottolineando il soggiorno nella struttura di lusso. "Non mi sembra un sottoscala, non mi sembra possa essere tacciato di razzismo", aggiunte Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d'Italia. E Del Debbio chiosa con una punta di sconcerto di fronte alle proteste dell'immigrato indiano: "Mamma mia...". Unico fuori dal coro, Klaus Davi: "Vabbè ma ha ragione, se ha una casa grande la quarantena si può fare anche  a casa".

In Trentino tra gli ultimi dei mòcheni, la minoranza stritolata da nazifascismo. Sono un migliaio i discendenti dei coloni bavaresi. Studiano la nostra lingua ma parlano ancora la loro che Mussolini vietò. «Nel 1939 si impose una scelta: restare e italianizzarsi o lasciare la propria terra per trasferirsi nel Reich. La valle si svuotò» (Foto di Alessandro Penso per L’Espresso). Tommaso Giagni su L'Espresso il 5 maggio 2021. Tra le coste di larici e abeti si snodano le strade strette che hanno cambiato questo territorio. Lunghi tronchi sono stesi ai bordi, ogni tanto un capriolo scappa nel folto del bosco. Sui cartelli le scritte sono in due lingue. Un pulmino gira per la manciata di paesi della valle, raggiunge i masi sparsi per prendere i bambini e li accompagna alla scuola primaria di Fierozzo/Vlarotz dove in trenta compongono le cinque classi. Dalla prima studiano l’italiano, il tedesco e il mòcheno, in aule circondate da vette che superano i duemila metri. La lingua neutra in cui si insegnano le altre materie, e quella in cui le maestre richiamano i bambini a ricreazione, è l’italiano. Dice una di loro, Cristiana Ploner: «Puntiamo molto sulla consapevolezza dell’identità. Non insegniamo che noi mòcheni abbiamo qualcosa in più o in meno, ma diciamo: siamo questo». Quando chiedi ai bambini se gli piace anche il mare, rispondono che dopo una settimana di vacanza gli mancano le montagne. Un tempo in Trentino si diceva «sei mòcheno» per dire: sei fuori dal mondo. Le cose sono piuttosto cambiate. La comunità mòchena della valle del Fèrsina, una ventina di chilometri a est di Trento, è un’isola linguistica che non arriva a mille residenti e che in pochi fuori dal Trentino conoscono. «I primi coloni s’insediarono tra il XIII e il XIV secolo», spiega Leo Toller, operatore culturale dell’Istituto mòcheno a Palù del Fèrsina/Palai en Bersntol. «Venivano dalla Baviera in cerca di nuove terre e di un buon clima. Siamo sempre stati un ponte tra due culture». Presto si avviò un’attività mineraria importante, intorno alla locale miniera dell’Erdemolo, che si affiancò ad agricoltura e allevamento e proseguì fino agli anni Settanta del Novecento. «Il periodo peggiore della nostra storia è stato il fascismo», prosegue Toller. I tentativi di italianizzazione forzata furono brutali. Si parlava mòcheno clandestinamente, si verificarono episodi di repressione poliziesca. L’esistenza di questa zona, appena ottenuta dall’Italia ma germanofona, creava un imbarazzo nell’alleanza tra fascismo e nazismo. Si strinse così l’Accordo delle opzioni, nel 1939, che in valle del Fèrsina come in Alto Adige impose una scelta: restare e italianizzarsi o lasciare la propria terra per trasferirsi nel Reich. La valle si svuotò, centinaia di mòcheni partirono per il Protettorato di Boemia e Moravia. Secondo Toller, «le Opzioni sono state un imbroglio tale che la gente, da allora, ha smesso di parlare volentieri di politica». Pure, nella mòchena Frassilongo/Garait è nato uno dei leader storici dell’autonomismo trentino come Enrico Pruner. E l’estensione di tutela e valorizzazione culturale, formalizzata da una riforma statutaria nel 2001 verso le minoranze mòchene, cimbre e ladine, viene salutata oggi come un riconoscimento politico decisivo. L’identità ruota intorno alla lingua e alle tradizioni. Si parla una derivazione del dialetto bavarese, che negli anni Settanta iniziò a essere studiata dal linguista Anthony Rowley. «A lui si devono la prima grammatica e il primo vocabolario della lingua mòchena», dice Toller. «Ha codificato in forma scritta una lingua che era sempre stata trasmessa solo oralmente». La primissima trascrizione però sarebbe opera di un sacerdote locale negli anni Sessanta, secondo don Daniele Laghi, il parroco della valle. Durante la sua predica, sotto l’abside col buon Pastore tra le pecore, la chiesa di Fierozzo è piena di giovani e molti fedeli devono restare in piedi sul sagrato o seduti sul muretto del cimitero. «Abbiamo la più alta partecipazione del Trentino», s’inorgoglisce lui. Dice messa in italiano, anche perché non conosce il mòcheno («Quando mi assegnarono qui, neanche sapevo dove fosse la valle»), ma è la sua sagrestia a custodire la Stella – una sorta di girandola decorata che simbolicamente porta luce e circolarità a ogni nuovo anno. È il rituale più sentito dalla comunità: tra la notte di San Silvestro e l’Epifania, la Stella viene portata di casa in casa e fatta ruotare, mentre un gruppo di ragazzi e ragazze intona canti. Sono i giovani detti «coscritti», che compiono i diciott’anni nel corso dell’anno, e ricevono grandi onori dalla comunità. La coscrizione è un altro elemento identitario forte: chiunque si incontri, testimonia l’emozione di indossare i suoi simboli e condurre la Stella. Si intreccia al servizio militare, per il quale si partiva poco dopo: anche per questo è storicamente maschile, benché sia stata ormai estesa alle donne. E si intreccia alla componente religiosa: i coscritti hanno un banco riservato in chiesa. Quest’anno è il turno di Nicola Marchel, classe 2003. L’orgoglio per la sua condizione che lo mette al centro della scena comunitaria è più forte della timidezza. Certo, gli dispiace che il grande passo sia così limitato dalla pandemia: non ha potuto compiere il rito della Stella, né partecipare alla festa di Capodanno – quando i coscritti dell’anno che finisce si tolgono il cappello alla mezzanotte, mentre lo indossano i coscritti dell’anno nuovo. Sono tutti amici, gli stessi con cui Nicola giocava, nell’infanzia ormai alle spalle, «a fare i boscaioli o la guerra coi fucili di legno». Il cappello detto kronz è il segno visibile dello status acquisito, si indossa in pubblico dal primo gennaio alla Quaresima e per l’ultima volta il giorno di Pasqua. Si va fino in Alto Adige per comprarlo, lo si decora con perline, vetri e fiori secchi («Per me l’ha fatto una signora del paese») e con una piuma di gallo forcello. Questa viene chiesta in dono ai cacciatori ed è l’elemento cruciale, Nicola ne ha ricevuta una considerata particolarmente bella da chi se ne intende. Ora frequenta le superiori a Trento, i suoi compagni sono cittadini e hanno abitudini diverse: «Non conoscono i boschi, non sanno come si comportano gli animali. Vorrebbero proteggere l’ambiente ma non lo conoscono». Un rapporto speciale tra mòcheni e natura lo rivendica anche Italo Paoli. «A volte, quelli che esaltano la sostenibilità, si presentano qua con tre automobili per cinque persone...». Lui con la famiglia gestisce un agriturismo e un’azienda agricola nella frazione di Roveda, dove alleva razze locali come le mucche “grigio alpine” e le capre pezzate mòchene. «Di solito qui vengono clienti in cerca di silenzio e pace, le nostre caratteristiche, a cui siamo legati. Sarebbe sbagliato trasformarsi in quello che non siamo per inseguire il turismo». Italo in vacanza lontano da qui non ci è mai andato ma i rapporti fuori dalla comunità li ha stretti comunque. Tanto che la relazione con la sua compagna è quella che da queste parti si definisce un “matrimonio misto”, perché lei non è mòchena. E non parla la lingua, che a scuola del figlio non si studia. «Oggi tra paesani si è troppo imparentati, bisogna uscire», si giustifica Italo. Un tempo gli scambi con l’esterno li avevano soltanto i krumer, gli ambulanti mòcheni che percorrevano l’impero d’Austria-Ungheria per vendere stoffe, ninnoli e immagini sacre dipinte su vetro. Dopo la prima guerra mondiale – quando il territorio passò all’Italia – i krumer si limitarono a partire per girare l’Alto Adige. Sono state le strade, completate negli anni Settanta, a far cambiare tutto. Lo conferma Helma Niederstätter – fonte preziosa di storia locale – che da ragazzina, non potendo coprire agevolmente i 17 chilometri per Pergine (il grande centro più vicino, in Valsugana), frequentò tre volte la quinta elementare a Palù. Solo quando le corse della corriera entrarono in funzione poté iniziare le medie, con 2 anni di ritardo. Oggi la valle è ancora un luogo in disparte ma il vero isolamento appartiene al passato. E si aprono sfide nuove: «Ho sentito dire più d’una volta da queste parti che sarebbe meglio studiare l’inglese, piuttosto che il mòcheno», spiega don Daniele. Gli abitanti perlopiù vivono lavorando altrove, da pendolari. In un territorio orientato per secoli all’agricoltura e dove la vocazione mineraria è diventata un ricordo, l’economia locale risulta debole e l’azienda più strutturata della valle (una cooperativa che produce piccoli frutti) in realtà non è di qui. Chi ha un’attività a Fierozzo è l’artigiano Andrea Oberosler, per ventun anni operaio nelle cave di porfido di una valle vicina. Nel suo laboratorio lavora il legno, con cui costruisce soprattutto piccoli oggetti a forma di animali. E li vende su Amazon. Il contatto tra i mòcheni e le espressioni del capitalismo globale fa sorridere la direttrice del coro, Nadia Moltrer, mentre spiega che in famiglia vorrebbero ordinare la cena con le piattaforme di consegna a domicilio ma il cibo arriverebbe freddo. Spesso si parla in mòcheno solo quando non si vuole essere compresi da gente di fuori, come un codice. «Per conservare la lingua servono tre pilastri: la famiglia, la scuola e la compagnia», sostiene Toller. È frequente che in famiglia si parli in dialetto trentino ed è sempre più normale per i giovani avere relazioni esterne alla comunità. Dopo la primaria di Fierozzo, a scuola non si studia la lingua perché le medie più vicine sono a Pergine – fuori dal territorio. Ogni settimana, però, sul giornale l’Adige c’è uno spazio in mòcheno e il canale delle minoranze linguistiche trentine Tml dedica un telegiornale in lingua alle notizie locali. Tra i residenti fuori dalla valle, si dichiarano mòchene circa 800 persone (secondo il censimento 2011 della Provincia). «Un tempo essere mòcheni era considerato vergognoso ma per me è un orgoglio: devono invidiarmi», dice Giulia Iobstraibizer. Frequenta l’ultimo anno delle superiori e non ha ancora deciso se fare l’università: «Una parte di me vuole andarsene ma una parte vuole restare. Magari diventare maestra e insegnare il mòcheno. Andar via sarebbe un rischio: ho paura che non vorrei più tornare. È che mi sento in obbligo verso la famiglia: noi giovani abbiamo il dovere di mantenere vive le tradizioni».

Quell’equazione distorta “Sud uguale mafia e camorra” che nello Stato patrigno non muore mai. Anche nel programma di Augias su Rai3 un'immagine di Napoli distorta dai pregiudizi. Il tema dell’abbandono dello Stato non viene mai fuori e le colpe del degrado sono sempre addossate al Sud. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 20 aprile 2021. Un popolo dove ci si sbrana, dove la convivenza non è civile. Un paradiso abitato da diavoli. Città di lazzaroni e pulcinelli, semibarbara e africana. Così scrive Leopardi al padre parlando di Napoli. E così il programma “Città segrete” di Rai Tre riporta, ammiccando allo spettatore che forse questo vuol sentirsi dire. Corrado Augias ripercorre gli speciali sulle città meridionali con un pregiudizio imperante, che prevede che bisogna far prevalere le immagini di città degradate, in mano alla camorra, in cui il riferimento a Raffaele Cutolo e al sequestro Cirillo è d’obbligo.

IL MANTRA DEMAGOGICO. Un Paese che purtroppo non riesce a valorizzare il suo territorio, per cui se parli di Napoli o Palermo il riferimento alla camorra o alla mafia deve essere obbligatorio. Ma tant’è, l’approccio di una certa cultura demagogica e sinistrorsa che semplifica tutto in un approccio distorcente di una realtà complessa. Dove le cause dell’abbandono di uno Stato patrigno non vengono mai fuori e le responsabilità del degrado sono sempre ed esclusivamente dell’incapacità di una realtà lombrosionamente inferiore. «Non c’è nessuno, qui, che non sia un vinto, umano e storico, un messo a terra per sempre. Tutti quanti, andalusi, cretesi, turchi, arabi, occitani, armeni, siciliani, greci vixerunt, anche se di fuori sgambettano, la loro anima giace strangolata nel sottosuolo della storia, lo spettacolo, la scena, le parole sono sfoghi di vento, non c’è nulla dietro, popoli finiti… Sono i Mediterranei, morti come il loro mare, una specie mentalmente estinta, anche se in spermatozoi vivace ancora, ma non riproducono che sfinimento». Così il torinese Guido Ceronetti nel suo viaggio in Italia, ed è questo il mantra della parte “colta” del Paese.  Una maggior capacità di approfondimento, forse, avrebbe fatto capire meglio le ragioni per cui Maradona diventa un simbolo di riscatto. Ogni napoletano si riconosce in questo ragazzo nato a Buenos Aires. Voglio diventare l’idolo dei ragazzi di Napoli. Per cui finisce la storia d’amore tra Maradona e l’Italia ma non tra Maradona e Napoli. Perché la città lo sente come suo difensore rispetto a tutti i torti subiti da una colonizzazione che continua. E così la Rai che si permette di parlare in libertà, dando una immagine che certo non incoraggia i visitatori potenziali a confermare un viaggio, in una delle città più belle d’Italia che però nella classifica dei visitatori viene al 16° posto tra le città italiane con 3.200 presenze contro i 10 milioni di Firenze, così come Palermo viene al 38° posto, precedute entrambe da Riccione e Lazise.

GLI STEREOTIPI FASULLI. Per cui la gente oggi pensa di evitare un viaggio in una realtà descritta come un far west incontrollato. “Addà passá a nuttata” direbbe Edoardo De Filippo pensando a quel popolo stretto e accalcato in questi vicoli vocianti protagonista di una quotidiana messinscena con il viso segnato dalla malinconia! Perché la Napoli che non ha diritto di cittadinanza è quella dei ragazzi costretti a emigrare perché è morta anche la speranza di trovare un posto di lavoro nella Regione. Sono illuminanti le battute tratte dal film di Massimo Troisi “Ricomincio da tre”: «Ah lei è napoletano! Emigrante?». Eh sì, perché il meridionale scansafatiche, pizzaiolo, mandolinaro, poltronaro e con il reddito di cittadinanza oggi deve essere solo emigrante. Purtroppo anche la Rai, come tutti i media nazionali, non riesce a discostarsi da un approccio coloniale rispetto al Mezzogiorno e a una visione stereotipata che, piuttosto che valorizzare le bellezze di quella che è stata una delle capitali europee, insieme a Parigi e Londra, quando la Milano da bere era una piccola realtà di una zona nebbiosa, ne amplifica i tanti vizi che certamente esistono. Ma è un approccio che riguarda tutto il Sud, per cui se la sanità in Calabria non è all’altezza è colpa della ’ndrangheta e quindi dei calabresi, anche se la sanità in quella Regione è commissariata dallo Stato da oltre 10 anni. E il mantra che bisogna far correre Milano anche se Napoli affonda viene ripetuto da una classe dirigente settentrionale che non riesce a capire che la mediterraneità dello stivale è una virtù che va valorizzata più che un vizio che va represso.

LA MISTIFICAZIONE. E anche il miracolo di San Gennaro diventa in questa logica per Corrado Augias un evento da popoli sottosviluppati che credono a miracoli fasulli e viene affiancato ad un esperimento dell’ateo principe di Sansevero. Per cui ancora dai visitatori che, malgrado la vulgata di un Mezzogiorno da evitare, riportata ovviamente sui media internazionali, riescono ad arrivare a visitarlo, si sentono esclamazioni di meraviglia, perché le attese erano di dover uscire dall’albergo con il giubbotto antiproiettile. Anche l’accostamento con la cultura della morte delle anime pezzentelle dà una immagine lugubre di una città nella quale la luce e il colore sono invece i tratti predominanti. Nulla della grande tradizione della canzone napoletana, conosciuta in tutto il mondo, nulla di quel «’o sole mio» più noto dell’inno di Mameli. Nulla della grande tradizione giuridica, nulla degli ultimi 160 anni di unità che l’hanno degradata a periferia di un Paese proprio per questo ormai in declino. Purtroppo Augias di fronte a un impegno importante come raccontare Napoli o anche Palermo, si è fermato a tanti luoghi comuni. Il cambio di passo che serve ai nostri media per interpretare realtà in profondo cambiamento, come quelle del Sud, con una gioventù vivace che rappresenta il vivaio artistico nella musica come nel teatro nel cinema e nelle arti non si riesce ad avere. Più facile rifugiarsi nella storia da raccontare della camorra che, certamente, è ancora un dramma ma che è frutto di accordo scellerato tra classi dominanti locali e potere centrale che non ha impiegato tutta la sua forza per combatterla e annientarla, rimane il logo caratterizzante.

Il sondaggio: l'identità degli italiani, cittadini del mondo legati alla loro Regione. Ilvo Diamanti su La Repubblica il 19 aprile 2021. Lo studio di Demos rivela che il sentimento nazionale è sceso in 10 anni dal 28 al 20%. L'attaccamento al territorio invece sale. Tra i giovani cresce il cosmopolitismo. Quasi metà degli elettori della Lega si sente "nordista". Siamo un popolo di italiani e cosmopoliti. Cittadini d'Italia e del mondo. Lo sottolinea il sondaggio di Demos che proponiamo oggi. Dedicato all'identità territoriale degli italiani. Un tema importante all'interno del nostro Paese. Perché il territorio contribuisce alle nostre relazioni. Alle nostre condizioni economiche e alle nostre convinzioni. Nel territorio sorgono città, quartieri. Aziende, imprese. scuole. Ogni territorio ha una storia...

La trasmissione sotto accusa. Città Segrete, polemiche dei napoletani contro Augias e Rai: “Programma pieno di stereotipi”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 18 Aprile 2021. “Città segrete”, indignazione alla luce del sole. Si può utilizzare una battuta per evidenziare quanto accaduto dopo la puntata su Napoli della trasmissione del giornalista Corrado Augias, trasmessa sabato sui Rai3 e che in poche ore ha scatenato un fiume di polemiche via social. L’entusiasmo iniziale si è infatti trasformato in delusione e poi rabbia da parte dei cittadini napoletani con l’avanzare della trasmissione: una rincorre continuo allo stereotipo, dall’ampio spazio dato alle imprese criminali di Raffaele Cutolo, ricacciando dalle teche Rai vecchi filmati della Ottaviano degli anni ’80 in cui si difendeva il boss della camorra, fino ad un lungo ritratto di Diego Armando Maradona, sottolineando ovviamente le sua gesta sregolate e non le sue giocate da campione sul rettangolo verde. Chi insomma si aspettava di vedere una trasmissione sulla falsariga di Ulisse, il programma condotto magistralmente da Alberto Angela, è rimasto deluso. Delusione poi sfociata sui social, col profilo di Rai3 bombardato di messaggi indignati: “Pessima descrizione di Napoli. Piena di stereotipi. Una città ricca di storia raccontata con vecchie immagini che non rendono giustizia ad una città millenaria”, scrive un utente. “Una città che scoppia di storia, di eccellenze, di primati storici e di cosa andate a parlare? Di Maradona, camorra e Raffaele Cutolo. Vergognoso, incommentabile, fazioso e disgustoso”, aggiunge un secondo commentatore. Ma critiche sono arrivate anche dalla politica, a destra come a sinistra. Dal Comune di Napoli l’assessore Alessandra Clemente al termine della trasmissione si è fiondata sui social per ribadire come la puntata “ha deluso le mie aspettative” e “non dà merito all’immensa storia culturale della nostra città. Rai 3. Augias. Città Segrete. Mi farò sentire”. Da destra ad alzare la voce è Domenico De Siano, senatore e coordinatore campano di Forza Italia: “Dov’e’ la Napoli segreta della sua cultura millenaria? Di sicuro non è quella stereotipata mostrata ieri in maniera approssimativa, inadeguata e offensiva da Corrado Augias”. Giornalista che, tirato in ballo, non ha mancato di rispondere alle accuse arrivate dai napoletani. “Mi dispiace. – ha detto a Fanpage – d’altra parte, se dobbiamo rappresentare una realtà della città nelle sue varie sfaccettature nobilissime e anche criminali, dobbiamo parlare sia della grande tradizioni musicale e artistica, sia della camorra. Se no facciamo una stornellata, ma non è il nostro caso. La cultura è anche questo, cercare di vedere ogni aspetto della realtà, ovviamente calibrandolo all’interno di un quadro complessivo. Se vogliamo migliorare la realtà, bisogna in primo luogo affrontarla e raccontarla e da quella partire. Offendersi è un sentimento inutile”. Cutolo ha rappresentato non solo un pezzo della storia napoletana allora – spiega Augias – ma addirittura un perno del rapporto tra criminalità e politica, anche, intendiamoci bene, con una azione che in certi momenti e’ sembrata affiancare quella dello Stato. Però Cutolo era Cutolo, è stato un geniale inventore della Nco. Sono polemiche un po’ pretestuose. Se vogliamo migliorare la realtà, bisogna in primo luogo affrontarla e raccontarla e da quella partire. Offendersi è un sentimento inutile“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

"Stereotipi offensivi": Augias finisce nella bufera. Novella Toloni il 18 Aprile 2021 su Il Giornale. Il coordinatore campano di Forza Italia ha denunciato sui social il danno di immagine subito dal capoluogo partenopeo dopo la messa in onda di "Città segrete" su Rai Tre. Sui social scoppia la polemica e l'assessore partenopeo al patrimonio avverte: "Mi farò sentire". "Mi auguro un intervento immediato della Commissione di Vigilanza della Rai". Il senatore Domenico De Siano, coordinatore di Forza Italia in Campania, è deciso e risoluto nel denunciare ai cittadini e ai vertici di viale Mazzini quanto andato in onda nell'ultima puntata di "Città segrete" dedicata a Napoli, format di Rai Tre condotto da Corrado Augias. Nella puntata di sabato 17 aprile, Augias ha condotto i telespettatori in un viaggio virtuale nella Napoli segreta. Una narrazione tra luoghi, vicende e personaggi (da Eduardo a Maradona, da Masaniello a Artemisia) che ha cercato di ripercorrere la storia, artistica ma anche politica, della città partenopea, ma che in realtà ha raccontato Napoli a colpi di "stereotipi offensivi". "Dov'è la Napoli segreta della sua cultura millenaria? - ha criticato Domenico De Siano attraverso la sua pagina Facebook - Di sicuro non è quella stereotipata mostrata ieri in maniera approssimativa, inadeguata e offensiva da Corrado Augias". Nel mirino del coordinatore campano di FI è finito soprattutto il conduttore: "Napoli, con la sua storia millenaria, forse sconosciuta solo al conduttore televisivo è ben altra cosa rispetto all'immagine retorica di una città malavitosa e stracciona, fatta di personaggi discussi e discutibili, peraltro triti e ritriti". Imperdonabile lo scivolone fatto dalla televisione di Stato "prestatasi a tanto", ha proseguito De Siani, che ha auspicato "un intervento immediato della Commissione di Vigilanza della Rai" per rimediare al danno di immagine subito dalla città di Napoli. La denuncia del senatore di FI ha trovato terreno fertile sui social network, dove in molti hanno polemizzato su quanto andato in onda. Un "abuso di luoghi comuni tra camorra e rifiuti", che non ha fatto certo un favore a Napoli, anzi. Nel mirino del web è finita non solo la Rai ma anche il conduttore, Corrado Augias, che - prima della messa in onda della puntata - aveva elogiato la città. Nell'intervista introduttiva rilasciata a Massimo Gramellini, Augias era però caduto in fallo: "Con mia grande sorpresa ho trovato Napoli più pulita di Roma". Indignata anche l'assessore comunale al patrimonio, Alessandra Clemente, che - sempre sui social - ha amplificato le polemiche parlando di "provvedimenti": "Una puntata che ha deluso le mie aspettative e che non dà merito, secondo me, all’immensa storia culturale della nostra città. Rai 3. Augias. Città Segrete. Mi farò sentire". Intanto Corrado Augias si è scusato a metà attraverso Fanpage: "Mi dispiace. D'altra parte, se dobbiamo rappresentare una realtà della città nelle sue varie sfaccettature nobilissime e anche criminali, dobbiamo parlare sia della grande tradizioni musicale e artistica, sia della camorra. Se no facciamo una stornellata, ma non è il nostro caso. La cultura è anche questo, cercare di vedere ogni aspetto della realtà, ovviamente calibrandolo all'interno di un quadro complessivo. Sono polemiche un pò pretestuose. Se vogliamo migliorare la realtà, bisogna in primo luogo affrontarla e raccontarla e da quella partire. Offendersi è un sentimento inutile".

"Terra perduta", "Chieda scusa" E scoppia la bufera su Augias. Francesca Galici il 23 Gennaio 2021 su Il Giornale. Il governatore Nino Spirlì ha replicato piccato alle parole di Corrado Augias sulla Calabria, definita una "irrecuperabile" dal giornalista. La Calabria è una delle regioni più bistrattate d'Italia. Solo qualche mese fa, una nota compagnia aerea l'aveva associata alla malavita e l'aveva definita arretrata. Ora è stato Corrado Augias, noto giornalista e divulgatore televisivo, a far risentire il popolo calabrese. "La Calabria è purtroppo una terra perduta, questa inchiesta e anche il maxi processo in corso, del quale i media non hanno parlato a sufficienza, lo dimostrano", ha detto Augias a Rai3 pochi giorni fa, commentando l'operazione Basso profilo che ha colpito le ndrine più importanti della regione e ha portato in carcere 48 persone. Le sue parole hanno profondamente colpito la comunità calabrese, che per voce del suo governatore Nino Spirlì ha replicato al giornalista. Non è la prima volta che Corrado Augias rivolge parole sferzanti dai calabresi percepite come sprezzanti, nei confronti di questa regione. Il conduttore del programma nel quale era ospite il giornalista lo ha immediatamente fermato, resosi conto della gravità delle affermazioni. Ma Corrado Augias non ha fatto nessun passo indietro, confermando le sue parole: "È la mia opinione personale, dunque vale poco, vale quello che vale, è un sentimento, non un’affermazione politica. Io ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile. L’ho visto anche in occasione delle ultime elezioni, avevano un candidato ottimo, un impreditore calabrese forte, che resta lì nonostante i rischi che corre, che dà lavoro: lo hanno escluso, hanno eletto un’altra persona che sfortunatamente è mancata". "Irrecuperabile" è un aggettivo molto forte per definire una regione, che sebbene abbia delle probelematiche ben note, ha grandi possibilità di rialzarsi per occupare il posto che merita. Nino Spirlì, che pochi mesi fa ha preso il posto di Jole Santelli dopo la sua prematura dipartita, si è molto risentito per le parole di Corrado Augias. La sua reazione è quella dei calabresi che non vogliono che della loro regione venga data un'immagine così penalizzante. "Ho imparato dalla mia Fede a essere compassionevole con la gente che soffre, soprattutto di disturbi mentali. Chi offende parte certamente da questa patologia: quando la mente patisce, la lingua aggredisce. Nemmeno Corrado Augias sfugge all'atroce destino di chi subisce gli assalti di un'età che galoppa e di una mente che arranca", ha scritto in una nota il governatore della Calabria. Nino Spirlì non risparmia il giornalista e con la sua nota chiede rispetto per la Calabria, non diversa da molte altre realtà: "Offendere la Calabria e tutti i calabresi, considerandoli irrecuperabili e fuori regola, significa non essere tanto lucidi da poter constatare quanto questa terra sia uguale, nei comportamenti e nei sentimenti, al resto del creato. Il bene e il male lottano da quel primo giorno, in ogni angolo dell'universo: a volte vince l'uno, a volte l'altro. Chi perde sempre è la stupidità umana. Che, constato, è ben distribuita, purtroppo, su una buona parte di umanità". In chiusura, il governatore della Calabria "che Augias trovi, tra le pieghe del suo caos interiore, il tempo e i modi per chiedere scusa alla Calabria e ai calabresi, alla storia, al presente e all'avvenire di una terra che, prima del suo ultimo sproloquio televisivo, non conosceva l'esistenza di questo signore".

Da liberoquotidiano.it il 20 maggio 2021. Tensione alle stelle nel Movimento. Tra le battaglie esterne con Davide Casaleggio che non vuole fornire ai 5S i dati sugli iscritti e quelle interne, il partito fondato da Beppe Grillo è dilaniato. Martedì sera 18 maggio si è tenuta un'assemblea che è stato un tutti contro tutti e nella quale il ministro delle Politiche agricolo Stefano Patuanelli, pentastellato contiano, ha minacciato le dimissioni. Patuanelli infatti è stato attaccato da una sessantina di parlamentari del M5S , in gran parte del Sud, furiosi per la distribuzione dei soldi del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale. Le risorse, 6 miliardi per il prossimo biennio, vanno spartite tra Regioni e Province autonome. E secondo i grillini la ripartizione cui lavora da mesi anche Patuanelli, riporta il Fatto quotidiano, penalizzerebbe le regioni meridionali, e in particolare la Sicilia, che aveva parlato addirittura di "scippo". La discussione è accesissima: "Si spostano solo 110 milioni rispetto allo schema precedente, e non andranno tutti al Nord", tuona Patuanelli.  "Al Sud abbiamo il nostro principale bacino di voti, va tutelato", lo attaccano. Giulia Grillo e Carla Ruocco si scatenano contro il ministro: "Il governo e i suoi membri ottengono la fiducia in aula, ma la fiducia si può anche togliere". Quindi Patuanelli sbottai: "Se questa è la situazione ne traggo le conseguenze". Più tardi, nella chat dei senatori, annuncia di "valutare le dimissioni", per poi uscire dalla chat. "Stefano è rimasto scosso dalla riunione" raccontano. Difficile che lasci davvero ma la tensione nel Movimento è evidente. Ci sono troppi nodi da sciogliere: i grillini sono a disagio nel governo Draghi, la leadership di Giuseppe Conte ancora bloccata dalla guerra con Casaleggio. "Credo che tra fine maggio e i primi di giugno voteremo Conte come nuova guida" dice a Porta a Porta il ministro Federico D'Incà. Ma il tempo passa e come dice lo stesso Vincenzo Spadafora: "La leadership se non la eserciti ti sfugge di mano".

Un libro reportage di Giuseppe Smorto sulla Calabria fa cambiare tesi a Corrado Augias. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 30 maggio 2021. Corrado Augias, icona dell’intellighenzia di sinistra, pochi mesi fa aveva spaccato il sesto potere dei social, con una sua dichiarazione tranchant sulla nostra regione: “Calabria terra perduta e irrecuperabile” aveva detto in tv, per poi precisare di aver espresso un’opinione personale, di tipo sentimentale, non un giudizio politico”. Oggi Augias, rivede quella posizione. Lo fa dopo aver letto e recensito su Repubblica un utile libro appena pubblicato da Giuseppe Smorto “A Sud del Sud. Viaggio dentro la Calabria tra diavoli e i resistenti” (Zolfo edizioni 16 euro). L’autore, Peppe per gli amici, come l’appella anche Augias nella recensione, originario di Reggio Calabria, ha collezionato un’ottima carriera a Repubblica, diventandone vicedirettore. Smorto, nel quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, non ha mai perso un punto di vista sulla Calabria e sulla sua città. Ora ha fatto un bel dono Smorto alla sua regione, dotandoci di un ottimo attrezzo di conoscenza. Peppe ha fatto il cronista. Con ogni mezzo da inviato vecchio stile, ha percorso la Calabria in lungo e largo raccontando storie avvincenti che si leggono tutte di un fiato, con protagonisti molti resistenti, gli angeli e gli immancabili diavoli che affliggono da decenni il nostro paradiso. Smorto sa che la Calabria spesso non si sa raccontare, che è raccontata male, a volta non è raccontata per niente. E bene ha fatto a raccontarla lui con passione e verità realizzando un’inchiesta degna di questo nome. L’autore affronta con la sua conoscenza le tante Calabrie e con linguaggio piano ci offre un reportage su cooperanti che sfidano la mafia, bravi medici che contrastano il disastro sanitario calabro, i festival dal basso, le case editrici, i librai, le eccellenze, le contraddizioni del porto di Gioia Tauro, i paradossali ritardi nella realizzazione di opere pubbliche. Un vero racconto giornalistico, senza pregiudizi o luoghi comuni, riscontrato con i protagonisti di queste storie.  Augias ne ha preso atto. E infatti, ha scritto ieri su Repubblica: “Questo viaggio diventa un’esplorazione alla scoperta delle tante cose che funzionano, di alcuni sorprendenti scatti dell’intraprendenza e dell’invenzione”. A questo serve un buon libro come quello di Smorto. A saper far vedere quello che non si vede. A far cambiare le idee preconcette a senso unico. Siamo grati all’autore di questo reportage. Coincide con il nostro pensiero. Raccontare il buono della Calabria e denunciarne i mali senza indugio. Le storie di questo viaggio dentro la Calabria continueranno ad essere le nostre storie.

Cinque storie di buona sanità siciliana, per archiviare i viaggi della speranza. Giusi Spica su La Repubblica il 15 aprile 2021. In molti casi spostarsi al nord per curarsi non è più inevitabile. Dai volti ricostruiti in 3D alla banca del sangue raro: ecco i protagonisti dell'eccellenza isolana. Il superchirurgo belga che opera i bambini di tutta Europa, la scuola di chirurgia maxillo-facciale che ricostruisce i volti con l’aiuto della stampante tridimensionale, la rete per la cura delle malattie del fegato con i farmaci innovativi, l’équipe che ha eseguito il primo trapianto di utero in Italia, la banca del sangue con oltre 25mila donatori. Sono cinque eccellenze siciliane che hanno un volto e un nome. Il professor Jean de Ville de Goyet, grande esperto belga di chirurgia addominale e dei trapianti pediatrici, è stato arruolato da Ismett nel 2017. Da allora ha eseguito più di 70 trapianti. Ha operato bambini siciliani, laziali, campani, pugliesi, valdostani, lombardi. Per lui sono arrivati anche da fuori nazione: da Danimarca, Ungheria, Romania, Ucraina. Viaggi della speranza “al contrario”, da Nord a Sud, verso l’Isola dove ogni anno un paziente su dieci prende l’aereo per farsi curare. «Utilizziamo una tecnica unica che si chiama “bypass Meso Rex” per le malformazioni del sistema portale: per questo i nostri piccoli pazienti vengono da tutta Europa», spiega de Ville, approdato a Palermo dopo essere stato al Bambino Gesù di Roma e in altri centri fra Parigi e Bruxelles. Dal Sant’Orsola di Bologna è arrivato invece Alberto Bianchi, 59 anni, che nel 2018 — dopo aver vinto un concorso da professore associato all’università di Catania — ha impiantato una scuola di chirurgia maxillo-facciale specializzata nell’uso delle tecnologie. È stato uno dei primi chirurghi italiani a introdurre l’uso della stampante 3D per realizzare protesi personalizzate in titanio con cui ricostruire i volti sfigurati delle vittime di incidenti stradali ma anche di pazienti affetti da tumore. Negli ultimi sei mesi sono stati sei gli interventi di ricostruzione della mandibola su pazienti oncologici. "Gli altri due filoni di ricerca — spiega il professore belga — sono la simulazione computerizzata degli interventi e la Tac intraoperatoria unica in Sicilia". Il prossimo obiettivo è creare a Catania una “smile house” per restituire il sorriso ai bambini con malformazioni: "Al momento — dice — ne operiamo 10-12 l’anno e siamo stati inseriti fra i centri di eccellenza dalla Società italiana per la labiopalatoschisi". La Sicilia è all’avanguardia nelle cure delle malattie del fegato, grazie a una rete di quindici centri per la cura delle epatiti con i nuovi antivirali, coordinata dal Policlinico di Palermo. A guidarla è Antonio Craxì, professore di Gastroenterologia e Medicina interna e direttore del dipartimento di Promozione della salute all’università di Palermo. "Il progetto in cantiere — spiega Craxì — è la rete per i tumori primitivi del fegato, finanziata dalla Regione, che prevede la gestione multidisciplinare e comprende unità di epatologia, radiologia, chirurgia e oncologia di cinque aziende sanitarie: Policlinico di Palermo, Policlinico di Messina, Garibaldi-Nesima di Catania, Villa Sofia-Cervello di Palermo e Ismett". A settembre del 2020 la Sicilia esegue il primo trapianto di utero in Italia. Il primato è del Policlinico di Catania, in collaborazione con l’ospedale Cannizzaro. È stato eseguito su una trentenne siciliana dall’équipe composta dai professori Pierfrancesco e Massimiliano Veroux e dai ginecologi Paolo Scollo e Giuseppe Scibilia. "Lavoravamo a questo obiettivo da quattro anni — spiega il professor Paolo Scollo — siamo gli unici in Italia a essere autorizzati a questo tipo di trapianto che nel resto d’Europa si fa in Svezia. Nel nostro Paese è permesso solo da donatrici di cui sia stata certificata la morte cerebrale, in altre parti del mondo si fa anche da donatrici viventi". Un’altra eccellenza è la Banca dei gruppi sanguigni rari di Ragusa, l’unica in Italia oltre a quella di Milano. Anche in piena pandemia la città iblea è riuscita a mantenere il primato in Europa: il 7,9 per cento degli abitanti dona il sangue, rispetto a una media italiana del 3 per cento e a una europea vicina al 4. "Dal 2011, anno di nascita della Banca dei gruppi rari, abbiamo tipizzato 25.132 donatori in network con undici servizi trasfusionali e identificato 31 gruppi sanguigni rari", dice il responsabile del servizio trasfusionale dell’ospedale ragusano Giovanni Garozzo. Da quando è nata, ha risposto a 381 su 476 richieste di emazie di gruppi rari. La sanità che funziona, nonostante la sanità che non funziona.

La lungimiranza del Mezzogiorno e il miope egoismo del Nord. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 15 aprile 2021. Nel lontano 1984, quando iniziarono i lavori del Piano Generale dei Trasporti, come ho ricordato più volte, l’obiettivo portante della iniziativa era basata essenzialmente sulle riforme dell’intero sistema della offerta dei trasporti nel Paese. Tra gli obiettivi prioritari c’era quello di ridare ruolo e funzione strategica al trasporto ferroviario. I dati erano in calo in tutta l’Europa: l’Italia era passata da una percentuale del 16% ad una percentuale dell’11%, almeno per le merci e anche gli altri Paesi come la Germania dell’Ovest dal 28% era scesa al 24%. Il Commissario della Unione Europea Clinton Davis aveva informato la Commissione e tutti i Paesi della Unione (nel 1985 fatta solo di 12 Stati) che in mancanza di un rilancio organico della offerta ferroviaria, cioè non legata alla organizzazione della offerta all’interno dei singoli Paesi ma integrata a scala europea, la offerta ferroviaria stessa, nell’arco di un decennio, sarebbe diventata una modalità non essenziale, addirittura l’intero assetto comunitario sarebbe stato supportato da una sola modalità di trasporto e la rete ferroviaria sarebbe diventata “residuale”. Quel rischio, quella inarrestabile tendenza avrebbe provocato automaticamente una serie di danni in termini di costi della mobilità e, soprattutto, avrebbe prodotto un rilevante inquinamento atmosferico. L’allarme sollevato dal Commissario Davis non era, ripeto, mirato solo ad una riorganizzazione e ad un rilancio delle singole reti ferroviarie, ma della intera rete europea. Il nostro Paese ed in particolare il Dicastero dei Trasporti preposto alla redazione del Piano Generale condivise subito l’allarme e ritenne opportuno porre come condizione prioritaria l’approfondimento del sistema dei valichi lungo l’intero arco alpino. Per i redattori del Piano Generale dei Trasporti, tra cui il Premio Nobel Wassily Leontief, il rilancio della offerta ferroviaria era possibile solo rendendo la intera rete integrata in termini di omogeneità tecnica (stesse caratteristiche nella erogazione di energia, stesse caratteristiche nel sistema di segnalamento, ecc.) ma, soprattutto, garantendo una reale osmosi tra le reti assicurando proprio la realizzazione degli anelli mancanti presenti in particolare: nell’attraversamento della catena dei Pirenei, nell’attraversamento delle Alpi.

L’Italia aveva un dato di riferimento sulla quantità di merci transitate nel 1967 pari globalmente a circa 19 milioni di tonnellate e nel 1986, come si evince dalla Tabella riportata di seguito, tale valore era salito a 65,9 milioni di tonnellate e nel 2006 a quasi 128 milioni di tonnellate.

Il Mezzogiorno sesto Stato d’Europa ma “grazie” al Nord conta meno di Malta. Sono solo cinque le nazioni più popolose: al Sud converrebbe un rapporto diretto con la Ue invece che con uno Stato che lo umilia. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 14 aprile 2021. Ma non sarebbe meglio il rapporto diretto con l’Europa? L’Unione europea ha 448 milioni di abitanti, con una media per nazione di 17 milioni. Il Mezzogiorno, se fosse uno Stato, sarebbe il sesto Paese, per dimensione demografica, dopo Germania, Francia e Italia del Nord, che sarebbe ovviamente ridimensionata a 39 milioni e diventerebbe la quarta dopo la Spagna. Poi verrebbe la Polonia, che sarebbe quinta con i suoi 38 milioni, e poi il Mezzogiorno che sarebbe il sesto Paese. A seguire gli altri 21 Paesi europei, dodici dei quali sono più piccoli della sola Campania, gli altri nove della Sicilia. Tutti questi dati per avere un’idea della dimensione comparativa di un’area che invece non riesce ad avere una sua forza all’interno del Paese di appartenenza.

LINEA DIRETTA. Per cui a qualcuno potrebbe venire in mente che un collegamento diretto con l’Unione potrebbe essere vantaggioso per un Sud che di volta in volta potrebbe trattare le condizioni direttamente sia con gli organismi europei che con quelli internazionali. In termini di richieste di agenzie europee, per esempio, visto che non ve ne è localizzata nessuna. O in termini di grandi eventi che non hanno mai luogo in tali aree. O in termini di visibilità globale, partecipando a tornei internazionali come ha fatto la Croazia, che di abitanti ne ha un quarto. Oggi il Mezzogiorno conta meno di Malta, che ha meno di un quarantesimo della sua popolazione e del suo territorio. Nel caso del Recovery Plan la battaglia incredibile che sta portando avanti, con i sindaci in testa, i presidenti delle Regioni, gli ordini professionali, molti dei rappresentanti politici è difficilissima. E tutto per avere ciò che l’Europa ha destinato all’area. L’Unione ha distribuito le risorse in funzione della popolazione, del tasso di disoccupazione, commettendo un errore perché doveva farlo riferendosi agli occupati sulla popolazione, così avrebbe evitato la distorsione degli scoraggiati e del reddito pro capite. L’Italia in tal modo riesce ad avere una somma rilevante e assolutamente maggiore di quella che avrebbe avuto se il parametro di riferimento fosse stato quello della sola popolazione: 82 miliardi di euro a fondo perduto contro i 32 miliardi della Francia malgrado abbiano la stessa popolazione.

LE MISTIFICAZIONI. Si tenta intanto di mistificare. Ecco cosa scrive sul sito della Stampa Giacomo Barbieri il 14 gennaio 2021. «L’Italia è stata la Nazione più colpita dalla pandemia, e ha ricevuto quindi la maggior parte dei fondi Next Generation EU per la ripresa dal coronavirus». Affermazione chiaramente falsa. Intanto molti dei nostri governanti si prodigano con affermazioni che sostengono che il Sud avrà più del 34% della sua popolazione. Cioè ci “regalano” qualcosa in più di quello a cui avremmo diritto in base alla popolazione, ma certamente molto meno di quello che ci spetterebbe in base ai parametri utilizzati dall’Unione. Cioè si deve fare una grande battaglia per avere quello che l’Europa ha destinato e che sarebbe ovvio arrivasse, se il Meridione fosse uno Stato autonomo.

INFRASTRUTTURE TRADITE. Stesso discorso si potrebbe fare per il ponte sullo stretto che l’Europa ha sempre voluto e che solo l’insipienza della classe dirigente nordica del Paese, in combutta con gli sparuti ambientalisti locali, con grande visibilità costruita da parte di quel Nord miope, ha rinviato sine die, insieme al ponte, l’alta velocità Salerno Augusta, facendo perdere al nostro Paese quel ruolo di piattaforma logistica che hanno acquisito, udite udite, i furbi e frugali olandesi, facendo diventare centrale un porto periferico, rispetto ai traffici mediterranei e a quelli dell’Estremo Oriente, come quello di Rotterdam o favorendo anche TangeriMed, certamente più defilato di Augusta e Gioia Tauro.

GLI UTILI IDIOTI. Essere utili idioti, in mano a una classe dominante estrattiva locale predominante e idrovora, figlia spuria della aristocrazia locale dalla quale ha imparato il metodo, è triste. Ma essere portatori d’acqua di una realtà dominata dalla destra leghista lombardo veneta, in combutta con la sinistra tosco emiliana, vera classe dirigente inadeguata del Paese, che non capisce che insegnare al suo asino a non mangiare può portare a risparmiare ma alla fine lo porta alla morte, è disarmante. Tranne che in un moto d’orgoglio questo Sud maltrattato, ma anche disperso e conflittuale, riesce a trovare una voce unica competente e professionale, mettendo da parte i mille rivoli di protagonismo o alcune volte di rendite di posizione, per cui ormai si sono costituiti professionisti dello sviluppo del Sud che, come quelli dell’antimafia di sciasciana memoria, continuano a dare ricette per soluzioni improbabili, malgrado i fallimenti che hanno caratterizzato finora quelle dagli stessi proposte. O pensano sempre a nuovi progetti, come per il ponte/ tunnel subalveo/tunnel adagiato/ponte a più campate che possano foraggiare, con nuove soluzioni, già scartate in anni di studi, le proprie esigenze di commesse professionali milionarie. Mentre Pietro Salini, ad di We Build, dopo 30 anni di studi del progetto, dice di essere pronto a partire con 100.000 occupati, immagino nei sei anni di costruzione, quindi 15.000 l’anno. Aggiungendo poi i sei miliardi che ogni anno verrebbero pagati dalla Regione Sicilia per i costi dell’insularità, come afferma uno studio della Regione con il timbro prestigioso di Prometeia, l’operazione è di quelle che sembra incredibile non partano.

GLI OBIETTIVI MANCATI. Certo, se non ci fosse stata l’intermediazione del Paese ma un rapporto diretto con la Ue il ponte e l’alta velocita/capacità ferroviaria sarebbero già realtà da decine di anni, e avrebbero cambiato il destino non solo del Mezzogiorno ma anche dell’Italia. Chi pagherà per questi ritardi e questa mancanza di visione è chiaro a tutti. Pagano le migliaia di giovani meridionali, 100.000 annui secondo Svimez, che ogni anno, armi e bagagli e volo low cost, si trasferiscono verso altri lidi, in parte italiani. Con una perdita per il Sud di 20 miliardi in termini di costi affrontati per la loro formazione e di parecchi punti di Pil per il Paese, ormai fanalino di coda nella crescita rispetto a tutti gli altri Paesi europei. Con buona pace dei Bonaccini e degli Zaia, dei Fontana o dei Sala che con orgoglio parlano degli emiliani romagnoli, o dei veneti o dei lombardi, dimenticando le lotte e il sangue per far passare il nostro Paese dall’Italia dei Comuni alla grande Nazione che è conosciuta nel mondo.

IL COMMENTO. “C’È DA AVERE PIÙ PAURA DI TRE GIORNALI OSTILI CHE DI MILLE BAIONETTE”. Massimo Cogliandro, Partito del Sud, su SudOnline.it il 12 aprile 2021. Così diceva Napoleone Bonaparte stratega di indubbio spessore non solo sui campi di battaglia. Purtroppo il meridione ha un cattivo rapporto con buona parte della stampa ed io aggiungerei anche del cinema, della poesia della prosa e del teatro, sia per colpa dell’ignominia cucitaci ad arte sulle nostre spalle, sia per l’indole dimessa forgiata dagli anni di applicazione della famigerata Legge Pica. Ogni volta che assurgiamo agli onori giornalistici è solo per andare in cronaca nera ovvero ci troviamo da sempre di fronte al plotone d’esecuzione. Dopo la nascita di giornali meridionalisti come “Il Sud On Line”, ed altri, ed il fiorire di movimenti e gruppi meridionalisti, il modo di rappresentare il Sud ed il modo di approcciarsi ai meridionali è parzialmente cambiato. Ma non basta! Capita ancora oggi di ascoltare, da organi di informazioni anche nazionali, casi di più arresti nel nord Italia, ma farciti di sottolineatura/e dell’appartenenza geografica meridionale di qualcuno di questi individui; affermazione atta, per stereotipi, a giustificazione della situazione. Ovvero la sola presenza di un meridionale tra gli arrestati rende logico che abbia coinvolto, nella vicenda genti del nord come se lì si non abbia facoltà autonoma nel crimine ovvero che in quelle zone il fenomeno criminale non esista perché più evolute. Di contro se qualche meridionale assurge alle cronache per meriti scientifici, culturali o diversi ancora difficilmente sarà indicato come tale, si procederà ad un oltraggioso silenzio. Ad ulteriore riprova del modus operandi esistente vi chiedo se avete mai avuto per le mani una “Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione sull’andamento della giustizia” che viene redatta annualmente in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Se si, vi sareste accorti che, specialmente negli anni passati, ad esempio in concomitanza delle cosiddette “guerre di mafia” numericamente i morti registrati in quell’anno erano di quantità inferiore ai morti ammazzati in altre città del nord. Con la differenza che un morto ammazzato a Reggio Calabria, a Bari o a Napoli otteneva un’eco mediatica assolutamente superiore di uno ammazzato a Milano o a Udine, ammesso che venisse pubblicato. Va anche detto che questo tipo di giornalismo scandalistico ha così fatto la fortuna di qualche giornalista e di qualche giornale in danno dell’immagine del Meridione e forse sull’altare della lotta alla criminalità organizzata. Papa Francesco ha detto “Stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere che cosa succede.” Ed ha perfettamente ragione anche nel nostro caso specifico! Infatti nel nostro meridione possiamo trovare: personaggi illustri, esempi di vita, imprese da additare, istituzioni pubbliche efficienti ed altro ma non sono oggetto di articoli stampa! Va detto che il “bene” comunque non fa notizia, non da scandalo e quindi non fa vendere giornali! È però arrivata l’ora, per noi meridionalisti, – e assurgo tali presupposti senza averne titolo, arbitrariamente, anche per i giornali meridionalisti, – di cambiare passo, dobbiamo iniziare a dare spazio alle biografie di personaggi noti meridionali, alle imprese dei nostri territori che meritano e così via dicendo. Abbiamo il dovere di remare verso una corretta idea di Meridione dobbiamo parlare di Noi esaltando ciò che c’è di buono nella nostra terra e tra i nostri paesani. Questo nuovo modo di fare oltre che moralmente servirà a ridurre i luoghi comuni che certe volte soffocano persino il turismo o il progredire delle attività commerciali. Per fare un esempio prendiamo in esame la nomea del paese di Corleone, premetto di non conoscere quella realtà a causa del fatto che abito lontano da lì, ma posso dire che l’immagine di quel comune è legata, purtroppo in maniera indissolubile in quanto nativi, a Totò Riina e Bernardo Provenzano. ma il cinema con il libro ed film “Il Padrino” ha dato il colpo finale all’immagine di quel paese e dei suoi abitanti. Sono sicuro che attualmente, ed anche negli anni passati, in quel paese saranno presenti esempi di buona vita o buona amministrazione. Corleone deve essere additato per altro, e mi piacerebbe vederlo scritto su qualche giornale, pur abitando lontano e pur solamente a mezzo di ricerche tramite internet ho appreso che Corleone è il paese natio di Filippo Latino, oggi San Bernardo da Corleone religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, ex prima spada di Sicilia. Fu proclamato beato il 15.05.1768 da Papa Clemente XIII ed il 10.06.2001 proclamato Santo da Papa Giovanni Paolo II, da taumaturgo operò miracoli ed ebbe il dono della scrutazione e della profezia. Inoltre Corleone è poco nota per la fierezza di carattere dei suoi abitanti motivo per il quale fu chiamata “animosa civitas”, perché nel 1282, all’epoca dei famosi Vespri Siciliani, fu la seconda città, dopo Palermo, ad insorgere contro la dominazione di Carlo d’Angiò Re di Napoli. Ma Corleone non è nota per i suoi abitanti che hanno lottato contro la mafia e che per tale motivo sono stati ammazzati come: Bernardino Verro (sindaco di Corleone e sindacalista voleva l’equa ripartizione del latifondo), Placido Rizzotto, (anch’egli sindacalista e politico), Luciano Nicoletti (militante del Partito Socialista Italiano – corleonese d’adozione), Giovanni Zangara (assessore della giunta Verro), Calogero Comajanni (guardia campestre il quale arrestò Luciano Liggio per furto che poi si vendicò facendolo uccidere), Liborio Ansalone (comandante dei Vigili Urbani fu ucciso per avere collaborato con il Prefetto Antimafia Mori), Ugo Triolo (avvocato e Viceprocuratore onorario ucciso per queste sua attività di servizio), e perfino Giovanni Falcone, discendeva da parte di madre da Corleone ove addirittura visse una parte della sua infanzia. Come si vede il bene ed il male sono ovunque. Personalmente sono convinto che il bene è sempre superiore a ciò che c’è di male per cui mi appello ai compagni del Partito del Sud a tutti i meridionalisti ai componenti di questa testata ed a chiunque voglia e possa: innalziamo ciò che c’è di bene di prestigioso e di buono nel nostro meridione, scriviamolo, pubblichiamolo diamogli forza e diffusione anche parlandone vantiamolo contestando così i luoghi comuni su di noi! Massimo Cogliandro, Partito del Sud

Al Meridione è negato anche questo diritto. Il falso Sud delle serie tv: o sbirri o mafiosi. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Raccontarsi per come si è, né cartolina né necrologio, un po’ e po’, una miscela di tragedia, commedia, condita dalla farsa. La vita di ognuno è un misto di tutto, così la vita di una terra: un insieme di tutte le cose che accadono al mondo, in tutti gli angoli del mondo, con prevalenze e mancanze. A tutti dovrebbe essere permesso il racconto sincero, anche solo per lo sfizio di raccontare bugie. Il Sud questo diritto non lo ha, è quello che un narratore onnipotente e onnisciente vuole. Non è un pensiero a se stante, stratificato, complesso; è brandelli di pensate superficiali, in bilico fra quelle da cronaca nera e quelle da fiction. Perciò il Sud non è, resta un pianeta distante, confinato in una galassia lontanissima, di cui arrivano solo le leggende. Il Sud famigerato dei processi di mafia o quello colorato delle serie televisive. Falso uno e falso un altro: due bugie non hanno mai dato corpo a una verità. Una deriva a cui sembra impossibile sottrarsi: quasi nessuno prova a raccontarlo un Sud per come è, lo si racconta per come serve agli altri, a se stessi. Lo si racconta per come poi se ne possa fare pietanza. E non è che non ci siano stati grandi narratori a raccontarlo, passano gli sforzi di Pirandello, di Sciascia, di Alvaro, di Strati, e di una lunga e sacra schiera, come le puntate di un film neorealista non in tono con le tendenze attuali. Il Sud è commissari e procuratori, sbirri e banditi: tutti ora truci ora leggeri; una terra colorata, intrisa di zagare e sole che si sveglia tardi perché c’è sempre poco da fare, e poi finisce al tavolo di un ristorantino vista mare a godersi frittelle di fi ori e pescato freschissimo. Tutto si assonna nella certezza di un andrà tutto bene alla fine. E invece da secoli niente va a finire bene, perché il Sud non è un filmetto americano in cui i marine rimetteranno l’ordine dei giusti, o arriveranno i borghesi illuminati a distribuire carezze. Il Sud è il documentario su una zolfatara, i minatori si dicono l’un l’altro non ti schiantari, non aver paura, senza aspettarsi risoluzioni se non quelle che passeranno attraverso lotte e resistenze durissime. Dopo averlo vestito per decenni dei panni dell’imputato, si pensa di risarcire il Sud per mezzo di un inesauribile gomitolo di soap-fiction che tessono trame unendole a orditi fatti per tranquillizzare chi guarda, invitarlo in location da urlo. Nessuno ci pensa a raccontare il Sud di quelli che il Sud lo vivono, lo abbandonano, lo invocano e lo bestemmiano. Un Sud che sia un Sud vero, non la major di una cospicua stirpe di writer o storyteller, ma con un’aria che a volte sa di gelsomino e altre di cumuli di spazzatura bruciata. Un Sud che non è né arretrato né antimoderno, che semplicemente si sia scontrato con una modernità portata da lontano. Un incidente da cui una cultura ne sia uscita a pezzi, senza che nessuno si sia poi preso la briga di curarla, di sanarne le ferite. C’è un Sud che dovrebbe e vorrebbe raccontarsi da Sud, ma è un fi lm che quelli bravi, di fuori, dicono non potrebbe aver successo. E allora proseguiamo a narrare di camicie a fiori, di ozio creativo e di estati perenni. Proseguiamo a inventare finzioni patinate che lasceranno intonsa la sostanza di un mondo che continuerà a essere altro per chi davvero lo viva o lo abbandoni.

Il pizzo alle cosche, le interdittive, i sequestri…Il Sud in agonia sotto l’attacco di mafia, giornali e PM. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Novembre 2019. Le inchieste aperte da alcune Procure sulle attività della Mittal, e poi i sequestri e le nuove imputazioni – lo abbiamo scritto nei giorni scorsi – sono un tentativo, da parte dei settori più reazionari della magistratura, di assumere il comando della politica economica. Cioè di allargare le proprie competenze, dopo avere invaso largamente il campo della politica: in particolare quello del governo delle Regioni e degli enti locali, e poi quello delle competizioni elettorali e persino della definizione delle candidature. Esiste un aspetto di questo problema che riguarda la democrazia e la qualità della politica. È un aspetto del quale abbiamo parlato molte volte. Poi c’è un secondo aspetto, che è nuovo, e riguarda l’economia italiana e le prospettive della produzione di ricchezza e dell’orientamento dello sviluppo. In teoria queste materie sono di competenza in parte del mercato e in parte della politica. La discussione che da sempre si svolge, con risultati alterni, riguarda il rapporto di forza e di potere tra il mercato e la politica. Di solito la sinistra ritiene che il potere della politica debba essere prevalente sul potere del mercato, e la destra pensa il contrario. Entrambe però restano in questo ambito e ammettono che debba esserci un equilibrio tra politica e mercato (tranne le frange più estremiste della destra ultraliberista che vorrebbero tutto il potere al mercato, e le frange staliniste e stataliste che invece vorrebbero azzerare le competenze del mercato). La novità sta nell’invasione della magistratura che decide di delegittimare sia la politica che il mercato e di prenderne il posto. Il problema interessa tutto il Paese. Perché evidentemente si pone un’ipoteca molto seria sul funzionamento del sistema. Alle vecchie idee liberali e a quelle socialdemocratiche si sostituisce una idea piuttosto definita di repubblica delle Procure, governata dal potere giudiziario. Una questione, però, del tutto speciale è quella che investe il Mezzogiorno. Le scelte delle Procure, non contrastate dalla politica e sostenute attivamente anche dalla stampa, provocano, ovviamente, la fuga degli investitori. Non solo degli investitori stranieri ma anche degli italiani. Chi accetterebbe di rischiare una parte del suo patrimonio per avventurarsi in imprese imprenditoriali che possono essere spazzate via in un minuto dalla decisione di un giovane sostituto Procuratore? Una volta la dinamica era diversa. Il conflitto c’era, ed era una delle componenti del rischio di impresa del quale gli imprenditori tenevano conto. Ma il conflitto era tra i lavoratori e l’impresa. Tra i sindacati e il padrone. Se ne conoscevano le regole, le possibili ricadute, i probabili compromessi. A seconda dei rapporti di forza, anche politici, l’accordo poteva alla fine essere un po’ più favorevole ai lavoratori, e ai salari, o più favorevole al profitto. Ma il recinto della battaglia era chiaro e nessuno aveva il potere assoluto sugli altri. In questa nuova fase di Repubblica delle Procure non è più così. E oggi, chiunque decida di investire al Sud sa di rischiare di finire in una morsa: da una parte la mafia, che impone il pizzo e rende più costosa l’impresa e dunque meno remunerativo l’investimento, dall’altra le Procure, che possono azzerare l’impresa e produrre danni economici esorbitanti per l’imprenditore. Oltretutto non sono solo le Procure, perché al fianco delle Procure, e con il loro avallo, agisce il sistema dei prefetti, che adopera il sistema delle interdittive in modo assai spavaldo, ed è molto più agile delle Procure. In che consiste una interdittiva? Il prefetto, con il placet della Procura, stabilisce che una certa azienda ha un qualche legame con le cosche. Per esempio, un operaio, o un geometra dipendente di quell’impresa che ha sposato la sorella di una persona imputata per mafia. Basta questo, scatta l’interdittiva, si perde l’appalto. Talvolta poi interviene direttamente la magistratura e sequestra l’azienda, nomina un commissario, il commissario gestisce l’azienda per alcuni anni poi, spesso, la restituisce al proprietario ma dopo averla fatta fallire e coperta di debiti. Qualcuno dei proprietari si dispera e diventa povero. Qualcun altro si suicida. I casi di suicidio sono molti. Le interdittive peraltro sono in continuo aumento. Nel 2016 furono 510, nel ‘17 sono quasi raddoppiate arrivando a 972. L’anno dopo 1279. Quest’anno sono 1500. La situazione di una persona che decide di investire al Sud è questa. Mafia e Pm lo attaccano dai due lati. La mafia probabilmente gli chiederà un pizzo che semplicemente ridurrà i profitti. I Pm e i prefetti, se decidono di attaccarlo, lo annientano. E tutto questo, di solito, con l’appoggio fondamentale dei giornali e dei mezzi di informazione. Che spalleggiano le Procure e i prefetti e contribuiscono alla distruzione anche morale delle vittime. Voi pensate che in queste condizioni il Sud abbia qualche possibilità di riprendersi, di tornare a vivere? Evidentemente no: zero possibilità. Qualcuno reagirà a questo massacro? Capirà chi lo conduce? Proverà a fermarlo? Al momento le speranze sono poche poche. Cosa resta al Sud? L’unica via di salvezza è la fuga, l’emigrazione, come negli anni Cinquanta.

Albertini: “Sanità lombarda alla napoletana, non si capisce la scelta”. È bufera. Pubblicato da Gennaro De Crescenzo su brevenews.com Venerdì 2 aprile 2021. Gabriele Albertini e la Sanità lombarda alla napoletana, lo scivolone a "Stasera Italia", su Rete4. Albertini: “Sanità lombarda alla napoletana, non si capisce la scelta”. È bufera. Se c’è una cosa che abbiamo imparato da questa pandemia, è che in Italia nemmeno i luoghi comuni funzionano. Ad esempio quelli che indicavano la Lombardia come eccellenza si sono dimostrati assolutamente fasulli, così come quelli che, viceversa, davano le Regioni del Sud come arretrate da questo punto di vista. Ma Gabriele Albertini, ex Sindaco di Milano, da qualche anno ai margini della politica che conta, probabilmente avrà vissuto su un altro pianeta negli ultimi 14 mesi. O più semplicemente,  il senatore ex Forza Italia non ha avvertito i problemi e i disagi dei propri concittadini in questa terribile fase della nostra esistenza. Nel corso della trasmissione "Stasera Italia", su Rete4, Albertini, nel commentare le mostruosità a livello organizzativo che hanno caratterizzato la sua Regione dal punto di vista sanitario, si è lasciato andare al classico luogo comune delle cose fatte alla napoletana. Peccato, perché se così fosse, probabilmente si sarebbero salvati migliaia di lombardi, considerando che la Campania è la Regione col tasso di mortalità più basso in Italia e tra i più bassi in Europa. E invece, Albertini fa il gioco delle 3 carte cercando di abbassare l’attenzione sui disastri lombardi. A segnalare lo scivolone, l’ennesimo, è il Prof. Gennaro De Crescenzo. Il Presidente del Movimento Neoborbonico attraverso la propria pagina Facebook, ha postato lo spezzone ‘incrminato’ con un durissimo, ma legittimo sia chiaro, commento. Albertini: “Sanità lombarda alla napoletana”. Protesta del Movimento Neoborbonico ”IL “RAZZISMO” DI ALBERTINI (ANCORA) A RETEQUATTRO? Di fronte alla vergogna della folla di ottantenni lombardi accalcati per i vaccini e di fronte alle polemiche contro la Regione Lombardia, l’ex sindaco e senatore milanese Albertini ha parlato di “UNA ORGANIZZAZIONE E DI UNA MOSSA STRANA, NON LOMBARDA, IMPROVVISATA E CHE POTREBBE ESSERE PIÙ NAPOLETANA CHE LOMBARDA”. La conduttrice Barbara Palombelli questa volta è intervenuta per dire ad Albertini di evitare queste tesi e la risposta è stata ancora più carica di luoghi comuni e sfumature “razziste” (“in questo periodo anomalo stiamo assistendo a delle reinvenzioni delle tipologie territoriali”). Al senatore Albertini, evidentemente, non bastano 30 anni circa di inchieste e scandali lombardi (da Poggiolini al San Raffaele, dalle cliniche private agli assessori arrestati fino ad Expo o alle inchieste di questi giorni). Ad Albertini non bastano neanche i disastri di un’emergenza che ha visto morire oltre 30.000 poveri lombardi (6 volte di più dei morti campani). Per Albertini il parametro negativo era, è e sarà… Napoli e questa, in qualsiasi altro paese civile, si chiama discriminazione. E per questo motivo, dopo il recente caso dei “meridionali inferiori” di Feltri, sempre su Retequattro, chiediamo l’intervento urgente dell’ordine dei giornalisti e contatteremo gli sponsor della trasmissione per comunicargli che non potremo più acquistare i loro prodotti…

Movimento Neoborbonico e Movimento per il Nuovo Sud”. Pubblicato da Gennaro De Crescenzo su Venerdì 2 aprile 2021

RAZZA PADANA - Cara la mia Milano pandemica che strano vederti così. Francesco Specchia su Il Quotidiano del Sud il 2 aprile 2021. I tagliolini all’astice e il branzino al forno profumavano di cucina antica. Il cameriere zelante sgranava la lista dei vini come un rosario, il caffè fumava e la sala -con noi e un altro paio di tavoli di raccomandati ricchi- risuonava di un silenzio monacale, quasi romantico. Chi lo dice che, nella Milano pandemica avvolta dal colore della zona rossa (come la vergogna) e in un passato perduto, i ristoratori oggi chiudono e fanno la fame? Fanno la fame, ma non tutti. Io, per esempio, in zona Porta Venezia sono entrato regolarmente a pranzo in un ristorante très chic, varcando il retro e passando per le cucine, tanto per eludere le norme che impongono la chiusura dei locali. Mi accompagnavo ad un imprenditore simpaticissimo travolto anche lui dalla crisi che ha fermato la locomotiva. Era un cliente abituale, così in confidenza col ristoratore da permettersi -il massimo dello snob- il privilegio dell’apertura personale. Non è l’unico locale che viola le regole. E il privilegio non è tanto per rientrare nelle spese (la catastrofe economica è democratica); ma giusto per concedere l’illusione della normalità ai tanti manager, impiegati, abitatori del centro annichiliti dal Covid. Annichiliti dal Covid e dalla sua cattiva gestione, ammettiamolo. Milano mia, crogiuolo e lavacro della miglior razza padana, come ti sei ridotta. Non ti ho mai visto così disorganizzata, così sperduta, così politicamente sciatta. Abbiamo sbagliato tutto: la tratta dei camici e delle mascherine; i tamponi venduti a peso d’oro; l’emarginazione dei medici di base che potevano salvarci dalla furia dell’ospedalizzazione; la gestione della piattaforma delle prenotazioni. Prima le Poste, poi “Aria” che già nel nome ti dava l’idea di evanescenza, ora ancora le Poste. Ci voleva un generale degli alpini per farti un cazziatone, come sotto la naia. Milano mia. Ad attraversarti, in questi giorni, mi sembra di galleggiare nella tristezza di Luci a San Siro di Vecchioni. Piazza Duomo livida anche col sole, senza turisti, solcata da autoctoni col sorriso a mezz’asta. I tassisti fermi con lo sguardo verso via Manzoni o via Torino, private dell’eterno vocìo dei negozi spenti. I musei chiusi. Il piazzale di Palazzo Reale trasformato nel sagrato di una chiesa senza parrocchiani. I Navigli blindati con l’acqua che neanche sembra più scorrere. I ghisa disperati perché non ci sono auto e non riescono a fare le multe, forse se le fanno tra loro. Le colonne di Piazza S.Lorenzo liberate dalle mandrie degli studenti universitari intasati di birra e belle speranze; nella desolazione di pare quasi di vedere lo spettro del trombatissimo assessore Gallera che s’aggira senza pace. Al Parco Sempione verde-e-marrone come dicono Elio e le Storie Tese non suonano più i bonghi e nessuno si fa più le canne. Le università con lo smart working. Le chiese senza preti aperte solo a qualche ultraottantenne in preghiera per ottenere la chiamata del vaccino (somministrato unicamente a un over 80 su tre). Mia suocera che attende da un mese il suo turno e all’Asl la sfanculano; mentre i vicini di casa under 70 -un politico, uno psicologo e un avvocato che non frequenta il tribunale dall’88 – hanno già avuto la loro dose di Astrazeneca, fottendosene della massa plebea. Milano col cuore in mano. Quando ero ragazzo, abituato alle placidezze della mia Verona scendevo dal treno in Centrale e vedevo che tutti si trasformavano in milanesi: si tiravano su il bavero del paletot, nelle mani si materializza dal nulla una ventiquattrore in pelle, il sorriso si stirava in un rimbrotto di saluto e il ritmo del passo, all’improvviso, diventava quello d’un marciatore. Milanesi doc. Quando chiedevo lumi su quella strana metamorfosi mi rispondevano: A Milan, anca i moron fann l’uga, a Milano anche i gelsi fanno l’uva. Io annuivo. Mai capito che cacchio significasse; intuisco fosse una lode al lavoro duro e onesto. Oggi perfino i viaggiatori alla Stazione hanno perso il passo. E’ tutto cristallizzato nel tunnel col riverbero della luce lontana. Tutto desolante, laddove, passato l’Expo, eravamo il centro del mondo. «Nel 2020 il Pil di Milano ha registrato una caduta senza precedenti: sfiora il -11% in termini di valore aggiunto, più che in Italia e in Lombardia. Dobbiamo accorciare le filiere, essere ancora più uniti e fare sistema. Dobbiamo trasformare la crisi in opportunità», mi dice l’imprenditore con tagliolino in bocca. Ha ragione. Cara Milano hai passato la peste, la guerra, Tangentopoli e Fabrizio Corona. Ce la farai anche stavolta…

Vittorio Feltri, la risposta a Paolo Liguori: "Milano fa schifo? Evita di brindare e pensa ai disastri di Roma". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 29 marzo 2021. Ieri il mio collega e amico Paolo Liguori ha scritto un articolo di fondo sul Giornale diretto da Alessandro Sallusti per dire che Milano e la Lombardia in genere fanno schifo. Perché la sanità è un disastro, i commerci languono, l'economia piange. Insomma, secondo il giornalista, la regione e soprattutto il suo capoluogo hanno perso ogni primato e sono diventate perfino più buie, sembrano avviate a una morte precoce. Indubbiamente il direttore storico di varie testate televisive Mediaset afferma alcune verità, ma non tutta la verità. In particolare, attacca il territorio più evoluto del Paese forse perché ci vive e ci lavora da decenni, essendosene innamorato. Succede: quando ti sei affezionato a qualcuno, o a qualcosa, che poi ti delude, sei portato a coprirlo di insulti. Naturalmente esagerati. È innegabile, il Covid ha ferito noi polentoni, però non soltanto. L'Italia intera boccheggia, è stata trasformata in una prigione dove è vietato lavorare e produrre come un tempo, le disposizioni che ci bloccano tuttavia non sono parto delle istituzioni locali, bensì del governo che cambia colore trascurando di cambiare i divieti mortiferi. Tornando alla Lombardia, reale che è in ginocchio, eppure senza il suo Pil il bilancio nazionale sarebbe all'incirca come quello dell'Albania. Milano non è deceduta, dorme a causa del sonnifero che le viene impartito da Roma, la quale si vanta di aver fatto 900 mila vaccinazioni nel Lazio, cioè quante l'Inghilterra ne somministra in un giorno. Capirai che prodezza. D'altronde, se l'esecutivo non è in grado di procurarsi un numero sufficiente di dosi, è impossibile immunizzare il popolo sia del Nord sia del Sud. È accertato, la Lombardia ha avuto più vittime. Ovvio. Ha 11 milioni di abitanti, con una densità di abitazioni e di esercizi commerciali assai fitta, i contagi sono più facili. Bergamo nella fase acuta della pandemia è stata abbandonata da Conte, idem Brescia e varie altre città. Nonostante ciò questa regione rimane pilota. Segnalo a Liguori che ieri il Cnel ha diffuso dati da cui si evince che a Milano si campa in media dieci anni di più che a Napoli, sebbene attorno alla Madonnina si sviluppi uno smog record. Come si spiega questo strano fenomeno? O l'inquinamento è salutare oppure la sanità Milanese è molto più efficiente, a onta delle critiche, di quella partenopea. Le statistiche sui grandi numeri non sbagliano mai, e dimostrano che la mia regione, che ormai è pure la tua, Paolo, rimane la locomotiva del Paese alla faccia del virus. Peccato che le sue sorti in questo momento dipendano da Roma, la quale non sarà ladrona, tuttavia registra 30 morti l'anno per soli incidenti stradali provocati dalle buche trascurate dalla signora Raggi. Infine devo darti atto che il sindaco di Milano, Beppe Sala, è un campione di insensatezza, non perché è divenuto verde, ma perché ha ridotto la metropoli a un ginepraio cosparso di piste ciclabili più perniciose che inutili, incentivando per giunta l'uso dei monopattini, i quali esaltano l'irresponsabilità di parecchi ragazzi. In pratica la circolazione si sta paralizzando quantunque il traffico sia diminuito grazie alle proibizioni confermate da Draghi, l'uomo della provvidenza che ha provveduto esclusivamente a confermare la detenzione della gente. La Lombardia è paragonabile al primo della classe: allorché prende un brutto voto, i compagni festeggiano. Almeno tu, evita di brindare.

Vittorio Feltri, la confessione: "Il giornalismo? Raccomandato da un prete. A Dio farei una sola domanda". Alessia Ardesi su Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. In questo anno terribile la morte ci ha sforati e ha rapito molti dei nostri cari, riproponendoci domande che avevamo accantonato: l'Aldilà, la fede, la spiritualità. Questa serie di interviste non poteva che concludersi con il fondatore di Libero. 

Direttore Feltri, qual è il suo primo ricordo?

«Ero nella culla, quindi così piccolo che non so come faccio a ricordarlo, mi sentivo triste e reclamavo mia mamma».

Della scuola cosa le è rimasto?

«Alle elementari avevo un maestro, Natale Dolci. Un uomo, in effetti, dolcissimo. A sei anni, dopo che avevo perso mio padre, passava sotto casa mia tutte le mattine, a Bergamo di mezzo, con la Lambretta sidecar. Mi faceva salire accanto a lui e andavamo a scuola insieme. Mi sentivo un re».

Ha più rivisto il suo insegnante?

«A distanza di cinquant'anni mi è venuta voglia di fare un articolo su di lui. Il figlio lo lesse e mi avvisò che aveva più di novant'anni ed era malato. Andai a trovarlo e fu molto emozionante per tutti e due. Mi disse: "Caro Vittorio eri molto bravo, ma un po' troppo sintetico"».

Che studente era Vittorio Feltri?

«Vinsi un concorso per il miglior tema e andai a leggerlo nella quinta femminile (allora classi miste non ce n'erano). Alla fine tutte le ragazze mi applaudirono, tranne una: era Marialuisa Trussardi. La guardai. Aveva occhi meravigliosi, mi sembrò quasi di essermi innamorato all'istante, anche se ero arrabbiato che non mi applaudisse come le altre».

Vi fidanzaste?

«No. Però tiravamo di scherma insieme. Usavo il fioretto per correggere la sua posizione, per farle raddrizzare le gambe. Lei mi accusava di picchiarla; ma non era vero (Feltri sorride, ndr) ».

Com'era la sua famiglia?

«Mia mamma, Adele, aveva un'attività commerciale, vendeva pasta "Combattenti", quella dei reduci di guerra. Fin da piccolo andavo al lavoro da lei. Mi sentivo adulto a sistemare i camion che arrivavano nel piazzale della fabbrica, e a indicare dove dovessero essere parcheggiati».

E suo papà?

«Si chiamava Angelo. Era un funzionario dell'amministrazione provinciale di Bergamo. Ha avuto la cattiva idea di morire a 43 anni».

Di cosa?

«Morbo di Addison. Oggi si guarisce con due pastiglie di cortisone. Poche ore prima di spirare, mi volle vedere per salutarmi. Gli occhi erano già spenti, non riuscì a sorridermi, ma mi prese la mano. Poi uscii dalla stanza, vidi mia mamma che sussultava per i singhiozzi e capii che era finita. Ricordo i funerali come se fosse ieri. Mi sentivo smarrito. Il maestro mi trattava come un orfano, ma io odiavo la retorica degli orfani. Lui mi regalò un libretto della banca di risparmio lombardo, con 500 lire».

Ha fratelli?

«Due: Ariel e Mariella. Con loro ho un rapporto distratto. In casa con noi c'era anche la sorella di mamma, zia Tina, che mi ha fatto da madre».

Come era la zia?

«Una donna deliziosa. L'ho "sfruttata" perché mi rifiutai di andare all'asilo. Misi in piedi un casino per riuscire a non frequentarlo. E così trascorrevo le mie giornate con lei».

Cosa facevate?

«Avevo già una vera passione per i giornali. Così prendevo una sedia, che usavo come tavolino, sopra cui appoggiavo i quotidiani. Io ci mi mettevo seduto davanti, su uno sgabello, e cominciavo a fare domande alla zia per capire cosa ci fosse scritto. Ogni tre minuti la torturavo chiedendole il significato delle parole. Dopo sei mesi sapevo leggere e scrivere».

Come si è sviluppato il suo interesse per il giornalismo?

«Fin da giovane, con i soldi che raccattavo in famiglia, compravo l'Eco di Bergamo e me lo portavo a scuola. Ero affascinato dalla cronaca nera. Mi domandavo: "Chissà se anche io da grande riuscirò a scrivere cose meravigliose..."».

Qual è stato il suo primo lavoro?

«Il fattorino. Avevo 14 anni. La mia famiglia non aveva grandi disponibilità economiche e dovevo aiutare. Poi ho frequentato un corso da vetrinista, dalle 7 alle 10 di sera. Alla fine il maestro mi prese a lavorare con sé. Mi dava una quota degli incassi: a lui il sessanta per cento, a me il quaranta. Guadagnavo bene. Quando arrivai a tre milioni - con due milioni a quei tempi si poteva comprare un appartamento - sospesi le mie attività professionali».

Perché?

«Avevo fatto la terza media, ma non mi bastava. Cominciai ad andare a studiare nella migliore biblioteca di Bergamo. Un giorno mi avvicinò Angelo Meli, il direttore e priore della basilica di Santa Maria Maggiore. Era, per intenderci, uno di quei monsignori con i calzini rossi. Mi chiese perché stessi lì tutto il giorno».

Come rispose?

«Che volevo il diploma. Lui era anche professore di eloquenza al seminario diocesano e mi offrì il suo aiuto. Iniziai a frequentare la canonica per tre ore al giorno. Mi massacrava, era di una cultura infinita e di un'intelligenza superiore. Aveva un liberalismo mentale che non ho più trovato nemmeno nei liberali. Facevamo lezione lui e io da soli, in bergamasco o latino - che parlava benissimo. Studiavamo come matti e ci divertivamo».

Le è servito?

«Ho imparato tantissimo e anche in fretta per merito suo. Quando leggevamo Dante diceva: "Sommo poeta, ma un po' troppo bigotto". Quando eravamo sul Manzoni: "Anche lui un padre della lingua italiana, ma un po' troppo prolisso". Ancora oggi quando scrivo sto attento ai suoi insegnamenti. Non ho avuto un padre, ma lui lo è stato per me».

E poi?

«Una volta superato l'esame di maturità lui telefonò subito al direttore dell'Eco di Bergamo, Monsignor Spada: "Ho un mio allievo, si chiama Feltri, dagli una mano"».

Quindi ha cominciato grazie a una raccomandazione dei preti?

«Sì. Lui non mi parlava mai di religione. Ma io lo interrogai: "Perché crede in Dio?". E lui: "Ma in chi cavolo credi che creda? In te?"».

Frequentava la chiesa?

«Ho fatto il battesimo, la comunione e la cresima. Sono andato a messa fino ai quattordici anni. Poi ho smesso. Mi fermavo spesso alla chiesa di Santa Rita, che si trovava lungo il tragitto verso scuola».

Si fermava a pregare?

«No, entravo perché volevo parlare con Dio; poi mi sono accorto che non rispondeva. La mia famiglia mi ha educato con valori cristiani, ho vissuto tutta la vita da cristiano, ma non credo nel Signore. Non sono però un anticlericale».

È andato all'oratorio?

«Certo. Al San Filippo Neri, che ai miei tempi era solo maschile, le femmine andavano in quello delle canossiane. Giocavo a calcio. Ci insegnavano anche la dottrina. E non mancavo ad alcun appuntamento religioso. Mi adattavo alle regole, non per conformismo ma perché volevo cercare di capire. Il direttore del mio oratorio era simpaticissimo, e riusciva a tenere tra noi ragazzi una disciplina ferrea».

Gianni Rivera ha detto che lei era molto bravo con il pallone...

«Mi piaceva. Una volta monsignor Mansueto, un prete con cui sono cresciuto, mi chiese di giocare con i seminaristi di Bergamo, fingendo di essere uno di loro perché per il torneo erano in dieci. Prima di entrare in campo mi raccomandò di non bestemmiare, sarei stato subito scoperto. Mi divertii molto, ogni volta che qualcuno sbagliava le uniche imprecazioni che mi uscirono furono "accidenti", "caspita"».

Prega?

«Non se ne parla neanche. Do sempre il mio otto per mille alla Chiesa Cattolica, perché so che usano il denaro per fare del bene alla gente. Degli altri non mi fido, lo dico senza retorica».

Cosa c'è al termine della vita?

«Il cimitero. Si può fantasticare, sperare in qualcosa che dà continuità alla vita, ma è del tutto improbabile. L'umanità ha bisogno di pensare di non morire. Anche l'immortalità dell'anima non è provata da nulla. Sono speranze che cerchiamo di immaginare per consolarci».

Ha mai parlato di questo con un sacerdote?

«Molto spesso. Quando abitavo in città alta, andavo sovente a cena in trattoria con monsignor Mansueto e capitava di trattare questi argomenti. Era lui a bloccarmi: "Ada Vittorio! Parlem mia de chi laur che: go emò i döbe, se asculte te no ga crede piö del töt"; guarda Vittorio, non mi parlare di queste cose perché già ho i miei dubbi, se ascolto te non ci credo più... Ovviamente lo diceva scherzando».

Quindi Dante si è inventato tutto?

«Certo. Descrive il Paradiso in un modo che ritengo grottesco. La sua è una visione onirica».

Dove sono finiti i grandi del giornalismo? Montanelli, Biagi, Bocca?

«Sono finiti sottoterra. Ci hanno lasciato qualcosa a livello di pensiero, ma non si sono più fatti vivi».

Pensa mai alla morte?

«Una volta al giorno, tutti i giorni. Non la temo; temo il morire. Ho paura del modo in cui arriverà. Vorrei evitare la sofferenza fisica. Il dolore fisico mi agita. Quando fui ricoverato per una prostatite acuta, che rischiava di diventare qualcosa di più grave, ero molto spaventato. Un giorno provò anche a entrare nella mia stanza dell'ospedale un frate. Lo fermai sulla porta: "Lasci perdere". Lui se ne andò ridendo».

E del Covid, ha paura?

«Il Covid è abbastanza terrorizzante, perché ti può condurre a una morte dolorosa. Soffocare è orrendo. Così cerco di prevenirlo. Non spero in Dio; preferisco fare attenzione. Credere è un fatto sentimentale. E io non credo».

È proprio così certo che Dio non ci sia?

«Beh, se esistesse almeno una telefonata me la avrebbe fatta. Non ho mai percepito la sua presenza. Se ci fosse perché dovrebbe nascondersi? Dovrebbe farsi vivo e spiegarci».

In che modo è diventato giornalista?

«Quando ero all'Eco di Bergamo ero già convinto che avrei fatto questo mestiere, ma ero solo un collaboratore. Decisi di provare a entrare a La Notte. Incontrai il direttore Nino Nutrizio nel suo ufficio a Milano. Cominciò a parlarmi per capire chi fossi, dandomi del voi. Quando venne fuori che collaboravo all'Eco commentò: "Siete stato in quel giornale per quasi quattro anni e non vi hanno ancora assunto. Questo mi fa venire il sospetto che siate un cretino"».

Finì così?

«No, mi congedò dicendomi che non fidandosi del giudizio degli altri mi avrebbe messo alla prova per novanta giorni».

Come andò quel periodo?

«Mi impegnai. Dopo un mese e mezzo, era l'antivigilia di Natale, a Bergamo venne uccisa a coltellate, nella sua casa, una prostituta. Andai subito sul luogo del delitto e vidi la figlia di quattro anni con una fetta di panettone in mano seduta vicino alla pozza di sangue della madre. Feci un pezzo cardiaco. L'indomani andai in edicola per vedere se il mio articolo era stato pubblicato. Sfogliai per prime le pagine della cronaca di Bergamo ma non lo trovai. Mi disperai, temevo mi avrebbero mandato via».

E così fu?

«No, perché girai il giornale e lo lessi dalla prima pagina. La mia cronaca era l'apertura, un titolo a nove colonne con la mia firma. Impazzii di gioia. Mi chiamò il direttore: "Caro Feltri, come avete capito il vostro pezzo è di nostro pieno gradimento. La prova finisce qui e lei è assunto in pianta stabile". Ero di una felicità indescrivibile».

Che rapporto ha con i suoi figli?

«Bello. Con la mia prima moglie, Marialuisa, ho avuto Laura Adele e Saba Laura. Lei partorì di notte e al mattino quando arrivai in ospedale un'infermiera mi venne incontro con due fagottini in braccio. Le chiesi quale fosse la mia. Mi rispose: "Tutte e due". Ebbi un mancamento. Mi fecero una iniezione e quando mi ripresi ero euforico. Avevo ventidue anni. Dopo poco tempo Marialuisa morì, per le complicazioni dovute al travaglio».

Ha cresciuto lei le gemelline?

«Ho fatto tutto quello che poteva fare un uomo da solo. Poi mi sono reso conto che era difficilissimo crescerle in autonomia, e le portai in un istituto dell'amministrazione provinciale dove si presero cura di loro».

Per quanto tempo sono rimaste lì?

«Non a lungo. Perché conobbi presto una ragazza, Enoe, che lavorava lì e che mi piacque da subito. La corteggiai e la sposai. Le sono molto grato per come si è presa cura di Laura e Saba».

Poi ha avuto Mattia, bravissimo direttore dell'Huffington Post, e Fiorenza, che gestisce una farmacia a Milano...

«Sono cresciuti tutti e quattro in simbiosi. Hanno dato vita a una sorta di clan che è diventato una comunità quando abbiamo preso in adozione Paolo».

Ha anche un figlio adottivo?

«Sì. Era rimasto senza padre da piccolo e la madre non poteva seguirlo. Senza tante storie lo abbiamo accolto nella cascina con gli animali dove abitavamo, ed è cresciuto sereno insieme agli altri. Oggi lavora a Sky. Viene molto spesso a cena da me».

Cosa pensa di papa Francesco?

«Che fa il suo mestiere e non mi permetto di intromettermi. Non ho un grande trasporto per lui. Conosco il cardinale Becciu, una persona seria, e mi è molto dispiaciuto per la vicenda nella quale è stato coinvolto. L'ho difeso finché ho potuto».

La considerano un maschilista, ma è tutta l'intervista che parliamo di donne, oltre che di preti...

«Ma quale maschilista? Sono stato allevato dalle donne. Ho scoperto che sono più brave, intelligenti, tenaci, capaci di gestire meglio la vita. Ad esempio ho solo dottoresse femmine. Sono più sensibili, tenaci e di loro mi fido di più».

È per le quota rosa allora?

«No. Sul lavoro si scelgono le persone sulla base delle loro capacità, non per il loro sesso. Istintivamente però preferisco le donne. E poi mi piacciono di più. Meglio stare con loro a cena. Gli uomini mi parlano solo di calcio e stipendi».

Non c'è nessuno che vorrebbe intervistare?

«Uno ci sarebbe: Dio».

Quali domande gli farebbe?

«Una sola: perché tutto 'sto casino? Chi te l'ha fatto fare?».

Milano, città del degrado: "Tende e senzatetto in pieno centro". Silvia Sardone denuncia ancora la deriva sociale di Milano, dove a ridosso del centro si incontrano tende e sacchi a pelo dei senzatetto. Francesca Galici - Lun, 05/04/2021 - su Il Giornale. Milano capitale italiana dell'economia, ombelico del mondo della moda, città dalle mille opportunità. Questo era il capoluogo della Lombardia fino a qualche anno fa ma ora non ne resta che un ricordo sbiadito, anche a causa delle politiche amministrative che l'hanno fatta regredire costantemente fino a diventare la brutta copia di quello che era. Oggi a Milano è facile incontrare il degrado, che se fino a non troppo tempo fa era confinato alle periferie, oggi avanza inesorabile e conquista anche il centro della città, il suo cuore. Basta passeggiare in zona Duomo e nelle sue vie laterali per incontrare la povertà. A volte è necessario prestare la massima attenzione per evitare di inciampare su sacchi a pelo e coperte posati sui lati dei portici o della Galleria Vittoria Emanuele. È questo il degrado che ancora una volta ha raccontato Silvia Sardone, eurodeputata e consigliere comunale della Lega a Milano. "Da tempo si moltiplicano scene di degrado e disagio sociale. Non solo la Stazione Centrale a Milano, ormai abbandonata a sbandati e spacciatori. Anche il centro è preda di situazioni difficili con i clochard che si moltiplicano. Ho avuto modo di vedere la situazione nella centrale Piazza Vetra dove accanto alla Basilica di San Lorenzo ci sono numerose tende e sacchi a pelo", denuncia l'esponente della Lega. Questa zona, prima della pandemia e delle varie zone rosse, era uno dei punti nevralgici della movida di Milano. Le Colonne di San Lorenzo sono a due passi, così come il Naviglio con i suoi locali. Oggi è un dormitorio a cielo aperto per i senzatetto, con tutto ciò che ne consegue. "Ci sono sia italiani che stranieri", sottolinea Silvia Sardone, che nella sua nota evidenzia il fatto che non si tratta di una situazione isolata o sporadica. "Scene simili si possono vedere anche nelle gallerie di Corso Vittorio Emanuele accanto al Duomo o accanto alla stazione di Garibaldi", prosegue l'eurodeputata. Il coronavirus ha creato moltissimi nuovi poveri tra gli italiani ma anche l'accoglienza indiscriminata è causa di queste scene poco dignitose. "Ci sono situazioni di estrema povertà che riguardano anche tanti nostri connazionali che il sindaco Sala e il Comune di Milano non affrontano. Poi ci sono i danni dell’accoglienza senza freni che ha portato tantissimi stranieri a bivaccare nelle nostre piazze, senza futuro e con la prospettiva crescente di andare a ingrossare le fila della criminalità", afferma Silvia Sardone. L'esponente della Lega, quindi, punta il dito contro il sindaco di Milano Beppe Sala e la sua politica: "Come affronta il Pd queste emergenze: con il silenzio, censurando i problemi o non ammettendoli. Ancora si vantano di un inesistente modello di accoglienza e solidarietà. È inaccettabile questo lassismo!".

L'orgoglio ferito di Milano. Milano è indietro! Impensabile, incredibile, orribile, mai successo nell'ultimo quarto di secolo in Italia. Eppure, è così. Paolo Liguori - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Milano è indietro! Impensabile, incredibile, orribile, mai successo nell'ultimo quarto di secolo in Italia. Eppure, è così. L'affermazione si riferisce all'andamento delle vaccinazioni, che però, in questo momento, è il fulcro dell'emergenza nazionale. Il governo Draghi scommette sulle vaccinazioni tempo e quantità -, l'Europa è altrettanto frenetica e Milano e la Lombardia, abituate ad essere sempre all'avanguardia, sono pericolosamente indietro. C'è chi la butta in politica, chi lancia accuse e chi si difende, ma qui il fatto è più grande e più grave, va molto oltre le singole responsabilità. Non scherziamo con le cose serie: ricordate Giulio Gallera? Hanno scritto che era tutta colpa sua, ma non era vero, oggi cerchiamo di non moltiplicare lo stesso errore. Lo sconcerto dei cittadini di una regione, di una grande città, abituate a camminare sempre in testa al gruppo, a dare l'esempio, ad indicare gli errori e i ritardi altrove, è molto grande, merita una risposta seria, non si può risolvere con una semplice caccia ai responsabili. Il sistema sanitario lombardo ha certamente mostrato le sue piaghe e la pandemia ha fatto da detonatore: è talmente vero che, sotto i colpi del Covid, si sono incrinate molte altre certezze in giro per il mondo. Il mito dell'efficienza tedesca, per esempio, ha subito un duro colpo dopo le parole di scusa della Cancelliera Merkel e dopo l'ammissione che la stessa Germania sta faticando a procurarsi i vaccini, proprio come l'Italia. Però, Milano e la Lombardia di scuse non ne hanno avute e non si capisce neppure da chi dovrebbero averne. C'è un sottile vento di incertezza che percorre tutto il mondo nell'epoca del Covid, se è vero che, in piena discussione sui possibili disastri ambientali, un vero disastro economico parte e continua da giorni nel Canale di Suez per una causa banale. Il Grande Canale è troppo piccolo per i grandi trasporti di oggi. Cause oggettive, giustificabili, ma il declino evidente e rapidissimo di Milano e Lombardia è sotto i nostri occhi e coinvolge le istituzioni più diverse. Lasciamo da parte per un attimo la Salute e facciamo un salto in Tribunale, più esattamente alla Procura di Milano. Non sono mai stato un grande estimatore del modo in cui la Procura ha gestito la Giustizia a Milano, sono venuto a lavorare e a vivere in questa città 29 anni fa ed ho avuto sempre argomenti e spazio per criticare la gestione di Mani Pulite di Borrelli, Di Pietro, Davigo e Colombo. Poi, è stata la grande stagione della caccia persecutoria a Silvio Berlusconi e alle sue imprese, dopo che il fondatore decise di entrare in politica. Vicende ben conosciute che, da un esame ormai storico, dipingono la Procura come una Fortezza che si autodefinisce il luogo assoluto del Bene, impegnato nella Lotta contro il Male. Un falso, usato dalla politica, che poteva attrarre, nonostante tutto, molti milanesi, orfani della sinistra. E oggi? Quella stessa procura sembra un organismo in rotta, dopo aver subito nel processo contro due successivi amministratori delegati dell'Eni una sconfitta senza precedenti. Assoluzione con formula piena, nonostante richieste di condanna altissime e con la Procura Generale che parla apertamente di denaro pubblico sperperato. Ma il peggio rischia di venire ancora dallo stesso grande vaso scoperchiato da Luca Palamara, sentito di recente a Perugia sulle modalità delle nomine dei Procuratori Aggiunti a Milano. Lottizzazione tra le correnti è la tesi che Palamara documenta con i suoi sms: sempre politica al comando, come negli anni ruggenti, ma di livello più basso. Come finiscono quasi tutte le avventure rivoluzionarie in un mondo libero, da temibili persecutori a carrieristi spietati. Torniamo in città, nel territorio del sindaco Sala, e qui parliamo di una Milano che usciva fortissima dall'Expo: un simbolo di modernità e di rinnovamento, anche urbanistico, da additare come esempio. In un solo anno di Covid, lo spirito si perde, si corrompe e non soltanto per la scomparsa dentro le case dei dipendenti pubblici e una enorme chiusura degli esercizi commerciali. La città sembra prigioniera, contratta, addirittura più buia (sarà una forma di risparmio?), ma un Comune come Milano non può restare inerte. E infatti interviene in maniera pesantissima e discutibile, prima con la campagna «Milano non si ferma», poi sulla viabilità e sul traffico: il centro si riempie di piste ciclabili, che levano spazio al traffico su ruote, che è aumentato inevitabilmente per effetto dell'abbandono dei mezzi pubblici e dei camioncini necessari ad approvvigionare la città. E molti ciclisti interpretano il lockdown come un via libera per circolare senza rispettare il codice della strada. E si moltiplicano in modo esponenziale i monopattini, grande business per qualcuno, ma non per la città, che per tutto l'inverno giacciono abbandonati come spazzatura postatomica. Dicono che Sala non abbia voluto lo scempio e che sarebbe stato influenzato da due suoi assessori, ma il Sala dell'Expo (e anche quello che avrebbe voluto il ritorno al lavoro dei dipendenti pubblici) forse non avrebbe subito. Quello odierno, invece, annuncia l'abbandono del Pd e si iscrive ai Verdi Europei, scelta criptica. Su tutto, c'è la sofferenza sanitaria della regione e della città, con l'emergenza Covid più forte d'Italia. Un anno fa era la disinformazione, il dinamismo, un «caso», oggi è un «caos»: il sistema informatico autonomo è andato per Aria e ci sono volute le Poste, errori e ritardi si sono accumulati a scelte discutibili sulle categorie da vaccinare (professori universitari, con università chiuse?) e oggi il lavoro è diventato ancora più difficile per i responsabili. Ne usciremo certamente, perché non si può fare diversamente, ma la frustrazione e l'orgoglio ferito della Lombardia saranno lunghi e difficili da curare.

Sparò contro sei nordafricani: 12 anni al "Lupo di Macerata". La Cassazione respinge il ricorso della difesa di Luca Traini: "Tentata strage aggravata dall'odio razziale". Tiziana Paolocci - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. Dodici anni, non un giorno di meno. La Cassazione ieri ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di Luca Traini, il trentunenne che il 3 febbraio 2019 a Macerata sparò dalla macchina a sei immigrati. Confermata la condanna per tentata strage e anche l'aggravante dell'odio razziale. La Suprema Corte ha anche stabilito, per vittime e parti civili, tra cui il comune di Macerata e la struttura territoriale del Pd, il diritto al risarcimento. Il «Lupo di Macerata», testa rasata, un metro e 80, con il simbolo del movimento fascista eversivo «Terza posizione» tatuato sulla tempia destra, era legato ad ambienti dell'estrema destra e si era candidato con la Lega Nord alle comunali di Corridonia nel 2017, prendendo zero preferenze. Quel giorno era partito apposta dal suo paese di origine, Tolentino, con l'intento di colpire senza riserve. Sull'autostrada si era fermato per prendere un caffè e al barista aveva confessato candidamente il suo disegno: «Vado a Macerata e faccio una strage». Giunto nel centro cittadino, aveva estratto una pistola Glock 17 semiautomatica calibro 9 e dall'interno della sua Alfa 147 nera aveva fatto fuoco contro gli immigrati. Solo per caso fortuito non aveva ucciso nessuno, ma aveva ferito sei nordafricani e colpito negozi ed edifici. Dopo aver scaricato l'arma, aveva legato la bandiera tricolore sulle spalle e facendo il saluto romano aveva urlato «Viva l'Italia» davanti al monumento ai Caduti. Poi si era lasciato ammanettare, dicendo ai carabinieri di aver sparato per «vendicare l'uccisione della giovane Pamela Mastropietro», la 18enne romana fuggita da una comunità di recupero e poi uccisa e smembrata il 30 gennaio 2018 da Innocent Oseghale, il pusher nigeriano condannato in Appello all'ergastolo per il macabro delitto. In primo grado Traini era stato condannato a 12 anni di reclusione con rito abbreviato. Pena chiesta anche dal sostituto pg della Cassazione, Marco Dall'Olio, nella sua requisitoria davanti ai giudici della sesta sezione penale, chiamati a decidere se accogliere o meno il ricorso dell'imputato contro la sentenza pronunciata dalla Corte d'assise d'appello di Ancona il primo ottobre 2019. «È corretto definire strage ciò di cui ci stiamo occupando oggi - aveva sottolineato Dall'Olio -. Traini voleva uccidere un numero indeterminato di persone». Per questo, il magistrato ha ricordato la «sequenza impressionante di colpi, con 17 bossoli e 14 frammenti di proiettili rinvenuti», sparati «a distanza ravvicinata e ad altezza d'uomo», rivolti «verso persone, esercizi commerciali e anche verso la sede di un partito». «Chiunque si fosse trovato a passare di là, sarebbe potuto essere attinto dai colpi», ha aggiunto Dall'Olio. L'avvocato Fausto Coppi, difensore dell'imputato, aveva invece chiesto di escludere il reato di strage aggravata dall'odio razziale. «Da parte di Traini non c'era volontà di colpire chiunque mentre nella strage c'è l'indeterminatezza delle vittime - aveva ricordato Coppi -. Nel suo comportamento non c'è odio razziale. Traini, colto da un impulso irresistibile, voleva colpire solo i neri, ergendosi a vendicatore, perché riteneva i neri responsabili dello spaccio di droga». Ma la Cassazione ha sposato la tesi dell'accusa e per Traini restano i 12 anni di carcere.

SENZA VERGOGNA. I leghisti veneti contro il Sud per i fondi previsti dal Recovery Plan. «Chiediamo di investire in progetti concreti, perché il Veneto è terra di fatti e non di parole». Il Friuli non vuole più versare il suo 13% allo Stato (e la Gelmini apre un tavolo). Giuseppe Pietrobelli su Il Quotidiano del Sud il 18 marzo 2021. Lega bifronte a Nordest. In Veneto ha approvato l’altra sera (con i voti anche del Pd) una mozione a favore di un piano regionale di resilienza con la richiesta di cambiare il piano Recovery del governo Conte, che per due terzi prevedeva fondi per il Meridione. In Friuli Venezia Giulia, invece, inneggia all’unità d’Italia e all’essere “uniti nelle diversità da Nord a Sud”. Non possono non colpire le due diverse posizioni assunte dallo stesso partito in due realtà dove si trova al governo regionale. A Venezia sono state discusse tre mozioni relative alle proposte per il Recovery Fund. La prima della Lega di Luca Zaia, la seconda di Verdi-M5S, la terza del Pd. Sulla mozione della Lega, pur con qualche distinguo, sono confluiti i voti del Pd, che in cambio ha avuto dalla Lega il sostegno per far approvare la propria mozione. La proposta della giunta regionale punta su 155 progetti, per un valore di 25 miliardi di euro. Il Quotidiano del Sud ne ha analizzato a suo tempo i contenuti, visto che si tratta di un libro dei sogni che equivale al 12 per cento dell’ammontare dei finanziamenti europei per il rilancio dell’Italia. Troppo per pensare che una regione possa portarseli a casa, visto che il Recovery individua anche finalità globali. In questo contenitore c’è davvero di tutto: ospedali, infrastrutture, strade, idrovie e perfino alcune opere (come la pista di bob) per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026. Contenuti a parte, hanno colpito le motivazioni anti-meridionaliste di leghisti e Fratelli d’Italia. La mozione di maggioranza era presentata da Alberto Villanova, capogruppo in consiglio regionale della Lista Zaia Presidente. «Il precedente Governo aveva affrontato questa battaglia facendo errori macroscopici: aveva del tutto tagliato fuori Regioni ed enti locali, contravvenendo apertamente a quelle che erano le direttive di Bruxelles. Aveva operato una suddivisione ingiusta delle risorse, concentrandole per i due terzi al Sud Italia». Ecco il tarlo per i leghisti veneti, troppi soldi al Sud. «Al nuovo premier Draghi chiediamo di porre rimedio a questi errori, di tornare indietro su quello che era stato uno schiaffo alla parte produttiva del Paese, di inserire benzina nel vero motore del Paese, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna». Chi più è ricco non deve ricevere di meno. «Lasciare al margine queste tre grandi regioni, sarebbe una scelta davvero miope.  Chiediamo di investire in progetti concreti, perché il Veneto è terra di fatti, e non di parole. Chiediamo che il Veneto abbia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza quanto gli spetta, perché fino ad ora ha dimostrato di saper non solo spendere i fondi assegnati, ma di saperli investire nel migliore dei modi». Posizione-fotocopia per Giuseppe Pan, capogruppo Lega Salvini Premier. «Sarà fondamentale investire questi fondi nel migliore dei modi.  Sappiamo tutti quale è il male principale della nostra Italia: la burocrazia, l’eccessiva lentezza e macchinosità dei nostri ministeri. Se Roma pensa di poter gestire una quantità di fondi come questa senza coinvolgere le Regioni, sbaglia di grosso. Ed è anche sbagliato, come aveva fatto il premier Conte, concentrare la stragrande maggioranza delle risorse al Sud». La convinzione di Pan è granitica: «Dobbiamo dimostrarci all’altezza di questi fondi, dobbiamo dimostrare di saperli investire. Ma conosciamo purtroppo tutti la capacità di spesa del Mezzogiorno. Solo che la Regione Puglia ha restituito 90 milioni dell’ultimo Piano di sviluppo rurale europeo, proprio perché non è stata capace di investirli». Ma c’è qualcuno che si è spinto ancor più in là. Non un leghista, ma un consigliere di Fratelli d’Italia-Giorgia Meloni. Enoch Soranzo ha detto: «Il territorio  merita un riparto dei fondi proporzionale al nostro PIL regionale». Chi più ha, più deve continuare ad avere. «Visto che la nostra regione contribuisce per il 10% del PIL nazionale, se ne riconosca il merito e si ripensi un PNRR ove troppe risorse del Recovery Fund sono già state ipotizzate per il Sud Italia». FdI ha anche punzecchiato la Lega. «Oggi siede in Consiglio dei Ministri: ci aspettiamo non una via privilegiata, ma un riconoscimento concreto che per il Veneto si traduce nell’avere la benzina per tornare a correre in termini di rilancio dell’economia». Qualcuno, nel Pd, ha alzato la testa, Vanessa Camani: «La denuncia di un Nord penalizzato nelle scelte per favorire il Sud è in contrasto con l’europeismo che deve ispirare questa pianificazione». I leghisti friulani hanno detto qualcosa di molto diverso.  Il gruppo regionale, in occasione del 160 anniversario dell’Unità d’Italia, ha dichiarato: «Riscoprire il nostro essere comunità, uniti nelle diversità da Nord a Sud, è una necessità quanto mai stringente per affrontare la drammatica situazione di emergenza causata dalla pandemia. Stiamo affrontando un’emergenza sanitaria senza precedenti, con pesantissime ripercussioni anche di natura economica, finanziaria e sociale. Dunque, ricordare l’Unità nazionale significa mantenere vivi quei valori di solidarietà, di fratellanza e di spirito di sacrificio che serviranno per costruire l’Italia del domani».

Minoranze da difendere? Tutte, tranne gli ebrei...La sinistra non tutela più il "popolo" bensì le "diversità". Ma si è "scordata" una religione. Marco Gervasoni - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Il progressismo attuale, cioè la sinistra, lo sappiamo, non tutela più le classi lavoratrici e il «popolo» quanto le minoranze. Non c'è minoranza etnica, linguistica, religiosa, sessuale e persino di scelte culinarie (il veganesimo) che non sia difesa dai progressisti come modello di uno stile di vita che dovrebbe arricchire spiritualmente questo triste Occidente. Segno tangibile di decadenza, troviamo questa spasmodica ricerca della diversità anche in altri periodi caratterizzati dalla fine di una civiltà, come durante l'epoca alessandrina, il tardo impero romano, gli ultimi tempi di quello bizantino e così via. In attesa dei barbari che vengano a rivitalizzare la decadenza, la sinistra oggi è essenzialmente ed esclusivamente genderista, immigrazionista, filo islamica. L'unica minoranza religiosa che i progressisti si guardano bene dal difendere, e anzi spesso aggrediscono, è costituita dagli ebrei. Si riconferma così il classico paradosso che l'identità ebraica è al tempo stesso invisibile eppure onnipresente, e che la figura dell'ebreo è oggetto di operazioni di proiezione fantasmatica da parte dei non ebrei. In più, a complicare il quadro, sta il sostanziale filo islamismo dell'attuale sinistra, e per quanto non possiamo istituire una meccanica sovrapposizione tra antisemitismo e islam, oggi, in Occidente, gli islamisti sono i principali nemici degli ebrei. La patria di tutti questi paradossi non è gli Stati Uniti, nonostante il peso della identity politics (cioè l'assemblamento di minoranze) sia molto forte e gli ebrei abbiano un ruolo importante nella vita pubblica di oltre oceano. No, il luogo in cui cercare la contraddizione è il Regno Unito, dove la sinistra intellettuale e politica, rappresentata dal Labour, è al tempo stesso profondamente anti popolare e con uno spiccato carattere anti semita, e certamente anti israeliano. Le dimissioni di Corbyn non hanno modificato di molto il quadro: nonostante il linguaggio marxista e persino leninista, il Labour party è esattamente questo patchwork di minoranze di ogni tipo. Tutte tranne gli ebrei, che anzi spesso sono stati vittima della propaganda laburista. Ma il fenomeno è più profondo: il Labour non fa nient'altro che farsi collettore di immagini che circolano nella sfera pubblica inglese e in quella culturale, e della cultura che una volta si sarebbe detta di massa. Per questo il tema dell'antisemitismo a sinistra, ben tracciato da una serie di studi, appare in una luce nuova in questo volumetto proprio perché scritto da un attore (David Baddiel, Jews don't count, Harper Collins) il cui nome da noi non dice molto ma nel Regno Unito è un noto attore e presentatore televisivo, nonché sceneggiatore e romanziere, spesso impegnato nell'attività della comunità ebraica inglese. E qui si dimostra coraggioso assai perché anche a Londra tv e cinema sono occupati militarmente dai progressisti: che Baddiel sfida apertamente, accusandoli di difendere tutte le cause delle minoranze, meno quella degli ebrei. Di fatto, come spiega l'autore, per la sinistra gli ebrei non sono affatto una minoranza. Prova ne è che, nel mondo delle sceneggiature tv e cinematografiche, tutte dominate dal politicamente corretto, nella storia devono essere presenti tutte le minoranze, tutte ovviamente incarnazione di figure positive (i cattivi sono quasi sempre maschi bianchi etero ormai), tranne gli ebrei. Attraverso esempi calzanti spesso molto divertenti (si sente la penna dell'umorista), Baddiel cita i rarissimi casi in cui ebrei sono presenti nelle fiction, e sono quasi tutti personaggi negativi o perlomeno ambigui. Così, secondo un paradosso, alla fine la sinistra politicamente corretta finisce per fare la stessa cosa della produzione artistica della Germania nazista; in cui gli ebrei dovevano essere assenti, salvo incarnare figure negative. Persino nella scelta degli attori è così: rarissimamente personaggi ebrei sono interpretati da attori che lo sono davvero, diversamente da quando accade per le altre minoranze. Ovviamente la questione palestinese occupa un posto fondamentale, fino a un Ken Loach che spiega come «l'antisemitismo» sia una reazione «comprensibile» di fronte alle «azioni di Israele». Quanto all'antisemitismo nel Labour, Baddiel mostra come la spiegazione della intellighentsia rossa di oltre Manica sia piuttosto primitiva: solo propaganda della destra e dei suoi giornali. Fino a un noto editorialista del Guardian che istituisce una rigida gerarchia del razzismo, partendo dalle etnie o dalle religioni più aggredite fino a quelle più tollerate: indovinate chi siede all'ultimo posto? Gli ebrei, quasi estinti in Europa nel secolo scorso da un progetto sterminazionista, sarebbero insomma oggi poco toccati dal razzismo, quando non sarebbero razzisti essi stessi nei confronti degli arabi. Una sorta di neo negazionismo, come denuncia la scrittrice Deborah Lipstadt intervistata dallo stesso Baddiel. Che alla fine non fornisce rimedi e soluzioni: intanto però diverse organizzazioni islamiche hanno già chiesto che sia bandito dalla tv per... razzismo. Amara conferma della correttezza della sua tesi.

«L’INFANZIA AL SUD SENZA DIRITTI». IL RAPPORTO ONU CONDANNA L’ITALIA. «La mancata definizione dei Livelli essenziali di Prestazioni rende di fatto discriminante per un bambino nascere e crescere in una Regione piuttosto che in un’altra». Giovanna Gueci su Il Quotidiano del Sud il 10 marzo 2021. Un Sud ancora off limits per bambini e ragazzi. Ancora escluso dagli standard minimi di istruzione, salute, sicurezza sociale e benessere economico. Messo a dura prova dalla pandemia, che nel Mezzogiorno ha finito per aggravare diseguaglianze preesistenti, denunciate a più riprese dall’ONU, oltre che dall’Unione Europea, dall’ISTAT e dai Ministeri interessati. Il Rapporto 2020 sul monitoraggio della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, curato dal Gruppo CRC (Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza) – giunto al suo ventesimo anno di età e licenziato volutamente dopo le rilevazioni dell’effetto pandemia – conferma i numeri disastrosi del Sud e mette in luce il forte aggravio delle criticità registrate negli anni. Su tutto, “l’assenza dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nella cultura politico-amministrativa, nell’agenda politica e la mancanza di un coordinamento efficace in tale ambito”. Mancanza accentuata dalla riforma del Titolo V, parte II della Costituzione, che “attribuendo allo Stato potestà legislativa esclusiva in ambiti quali la determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, ha fatto sì che la loro mancata definizione accentuasse, nel tempo, le diseguaglianze già esistenti nell’offerta di determinati servizi essenziali, da Regione a Regione. Diseguaglianze che l’attribuzione alle autorità locali di potestà legislativa concorrente, in materie quali la tutela della salute e l’istruzione, non ha fatto che aumentare; rendendo di fatto discriminante per un bambino nascere e crescere in una Regione, piuttosto che in un’altra”.

SCUOLA E INTERNET. L’istruzione è stata il versante più colpito dall’emergenza sanitaria e dalle diseguaglianze della didattica a distanza, collegate a loro volta alla singola condizione familiare di bambini e ragazzi ed a quella sociale ed economica dei diversi territori di nascita e di appartenenza. Non a caso proprio la necessità di connessioni durante il lockdown da parte dell’intero nucleo familiare – didattica a distanza e telelavoro – ha evidenziato il digital divide preesistente, allarmante e fortemente sbilanciato a sfavore del Mezzogiorno. I dati ISTAT in questo senso sono molto chiari: per quanto riguarda la dotazione tecnologica, se il 12.3% dei minori dai 6 ai 17 anni non possiede un tablet o un computer, al Nord questa percentuale si attesta al 7.5% e al Centro al 10.9%, mentre il Meridione registra il primato del 19% (470.000 minori). Il divario si riscontra anche nella disponibilità di connessione a banda larga, indispensabile per l’accesso alla didattica a distanza: se il 77.9% dei minori nella fascia 6-17 anni vive in famiglie che dispongono di banda larga, questa percentuale si riduce al 73.1% al Sud e al 64.6% nelle Isole. In sostanza, secondo l’Istat, il 26% delle famiglie non dispone di accesso alla banda larga da casa e la differenza fra la Regioni con maggiore (Trentino) e minore (Molise) copertura è di ben 15 punti. Anche le differenze socio-economiche contano molto: solo il 16% delle famiglie senza titolo di studio ha un accesso a banda larga fissa o mobile, contro il 95% delle famiglie di laureati. Deficit che, sotto pandemia, si sono sommati nel Mezzogiorno alla necessità di rinunciare più a lungo alle lezioni in presenza anche a causa di un trasporto pubblico locale inadeguato e maggiormente esposto ai contagi. Dati, nel complesso, che se messi in relazione al reddito procapite ed alla spesa pubblica territoriale, penalizzano il Sud a 360 gradi: dall’accesso agli strumenti digitali, a una connessione Internet adeguata, fino al possesso delle competenze necessarie per utilizzare al meglio questi strumenti, sfruttandone quindi le potenzialità senza incorrere nei rischi di un loro uso scorretto o poco consapevole. Già nel 2019, con riferimento alla condizione pre-pandemia, il Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza aveva espresso preoccupazione per le “disparità esistenti tra Regioni relativamente all’accesso ai servizi sanitari, allo standard di vita essenziale e all’istruzione per tutti i minorenni nel Paese”, segnalandole come “violazioni del principio di non discriminazione” e raccomandando “l’adozione di misure urgenti per affrontare le disparità esistenti tra le Regioni relativamente all’accesso ai servizi sanitari, allo standard di vita essenziale, a un alloggio adeguato, allo sviluppo sostenibile e all’accesso all’istruzione di tutti i minorenni in tutto il Paese”. Insomma, l’impegno a garantire una crescita effettiva, in grado di annullare le due povertà strettamente connesse, quella economica e quella educativa. “Le opportunità che saranno offerte dai prossimi finanziamenti, a partire da Next Generation dell’Unione Europea – sottolinea il CRC – rappresentano un’occasione da non perdere se si vuole innovare e rendere più efficace e inclusivo il sistema di istruzione e rafforzare i settori dell’università e della ricerca, particolarmente penalizzati in termini di risorse e diritto allo studio”, evitando a causa del mancato completamento dell’anno scolastico e della fruizione a macchia di leopardo della didattica a distanza, di accrescere in modo esponenziale i divari territoriali nei livelli di apprendimento già molto forti in Italia.

SERVIZI ALL’INFANZIA. Premesso il riconoscimento legislativo italiano sia della natura educativa anche dei servizi per i più piccoli, che del carattere unitario del percorso educativo dalla nascita ai sei anni, l’Italia resta spaccata in due anche per la fascia 0-6 anni. Al sud, infatti, nonostante la scuola dell’infanzia sia ampiamente diffusa, un numero ancora molto alto di bambini ne fruisce solo a tempo parziale, in sezioni antimeridiane o per non più di 25 ore settimanali. Questo significa che molti di loro non condividono né un pasto quotidiano completo, né una socialità continuativa, mancando oltretutto turni di compresenza di due docenti per attività di gioco e apprendimento. In sostanza, se ancora oggi l’offerta educativa per i bambini sotto i tre anni non ha raggiunto da noi l’obiettivo europeo del 33% (il cui raggiungimento era stato fissato entro il 2010), fermandosi a poco meno del 25%, a fare la differenza è la diffusione dei servizi nelle diverse aree del Paese: tutte le regioni del Centro-Nord sono sopra la media nazionale e diverse hanno superato l’obiettivo europeo del 33%, soprattutto nelle aree metropolitane; mentre tutte le regioni del Sud, esclusa la Sardegna, sono sotto la media nazionale. In particolare, in Calabria, Sicilia e Campania, l’offerta educativa è disponibile al massimo per il 10% dei bambini sotto i tre anni. Non solo. I percorsi separati dei due segmenti dell’offerta educativa 0-3 e 3-6 anni trovano un drammatico punto di incontro nelle Regioni meridionali dove, di fronte alla carenza di servizi educativi, la crescente domanda delle famiglie trova sfogo nell’ingresso anticipato di molti bambini di due anni e qualche mese nella scuola dell’infanzia. Mentre infatti l’ingresso anticipato alla scuola dell’infanzia interessa soltanto il 10% dei bambini di due anni nel Centro-Nord, l’incidenza è di 1 bambino su 4 nel Sud e 1 su 5 nelle Isole, dove peraltro il fenomeno sembra riflettersi anche nel maggior numero di ingressi anticipati nella scuola primaria, con possibili ripercussioni sul successivo percorso scolastico.

POVERTA’ E DISPERSIONE SCOLASTICA. In generale, le disuguaglianze sociali sono in aumento, sia in termini di povertà assoluta, che di povertà educativa, con evidenti e reciproci condizionamenti. I divari regionali, innanzitutto, appaiono molto ampi già riguardo la povertà minorile in generale, che una volta di più ha finito per aumentare a causa dell’emergenza sanitaria proprio nel Mezzogiorno. Come emerge infatti da uno Studio regionale del Gruppo CRC, nel nostro Paese i minorenni che vivono in povertà sono il 56% in Sicilia, il 49% in Calabria, il 47% in Campania ed il 43% in Puglia. All’opposto si trovano Friuli ed Emilia Romagna (rispettivamente con il 14.9% e il 15.8%), poi Veneto (17.5%) e Umbria (20%). Con una compromissione obbligata ed inevitabile rispetto alla frequenza scolastica, al coinvolgimento delle famiglie nella formazione culturale e sociale dei minori e persino alla realizzazione effettiva del diritto allo sport, al gioco e alla salute. Solo per fare un esempio, sono proprio i motivi economici – uniti alla mancanza di impianti sul territorio – a costituire un ostacolo alla pratica sportiva per molti bambini e ragazzi, in particolare nelle regioni del Sud Italia, dove sono ancora del tutto insufficienti le aree pubbliche attrezzate. A tutto questo si aggiunge quanto registrato da Eurostat per il 2020: la quota di Early School Leavers (18-24enni che hanno conseguito un titolo di studio al massimo ISCED 2 – scuola media – e che non partecipano ad attività di educazione o formazione, sul totale della popolazione di pari età) in Italia è quasi dimezzata negli ultimi venti anni, passando dal 25.9% del 2001 al 13.5% del 2019. Il numero tuttavia è ancora lontano dalla media UE27 (10.2%) e non raggiunge l’obiettivo della strategia Europa 2020 della Commissione Europea, in cui viene richiesta la diminuzione del tasso di abbandono scolastico sotto la soglia del 10% entro il 2020. E, soprattutto, il dato più preoccupante resta ancora una volta quello territoriale, se si considera che gli abbandoni precoci permangono su valori elevatissimi al Sud (16.7%) e nelle Isole (21.4%). Con l’ulteriore aggravante che separa il Centro e il Nord del Paese dal Sud e dalle Isole dove, secondo i Rapporti INVALSI più recenti, le percentuali di studenti con performance giudicate come non sufficienti sono prossime o superiori al 50%. “Malgrado le numerose azioni intraprese negli anni da Governo, Ministero dell’Istruzione e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – si legge nel Rapporto CRC – i numeri di dispersione scolastica e formativa permangono su livelli allarmanti, richiamando alla necessità, non più differibile, di costruire e attuare un Piano nazionale di contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica e formativa che sappia guardare a una prospettiva di medio-lungo termine sullo sviluppo di un sistema di istruzione e formazione inclusivo e sulla riduzione dei divari tra Nord e Sud del Paese”.

MORTALITA’ INFANTILE. Il miglioramento nazionale è indubbio, dal momento che negli ultimi anni la mortalità infantile italiana è passata, secondo l’ISTAT, da 3.8 a 2.8 morti per mille nati vivi, con una progressiva riduzione del 50% negli ultimi 15 anni, soprattutto grazie al miglioramento della qualità dell’assistenza al parto e al bambino nel periodo perinatale. Il 75% dei decessi nel primo anno, infatti, continua a interessare bambini che hanno meno di un mese di vita. Un fenomeno, tuttavia, che se vede maggiormente coinvolti i maschi (2.9) rispetto alle femmine (2.6), registra il triste primato tra i bambini del Sud rispetto a quelli del Nord (Sicilia 4.2 contro Lombardia 2.7). Da non sottovalutare il fatto che, a livello regionale, le differenze riguardanti la mortalità perinatale sono da attribuire alla diversa efficienza territoriale del Sistema Sanitario, a conferma del fatto che in alcune Regioni persistono carenze nell’assistenza neonatale e infantile. Non bisogna dimenticare che la mortalità perinatale è un esempio di “morte evitabile” ed è costituita da due componenti: la natimortalità e la mortalità neonatale precoce. Ebbene, è vero che la natimortalità resta inferiore al 3%, ma anche in questo caso sono le le differenze regionali ad essere considerevoli: il dato infatti è inferiore al 2% in Valle d’Aosta, Provincia Autonoma di Bolzano, Lazio e Molise; mentre è superiore al 3.5% in Puglia e nelle Marche ed è oltre il 4% in Basilicata. Ancora, i risultati del progetto SPItOSS (Italian Perinatal Surveillance System), che si è concluso dopo tre anni di lavoro e che ha coinvolto tre Regioni italiane, rilevano che ogni 1.000 bambini nati si registrano 4 morti in Sicilia, 3.5 in Lombardia e 2.9 in Toscana.

ABUSI E MALTRATTAMENTI. Capitolo a cui mancano numeri certi e aggiornati. Non a caso, il Comitato ONU sollecita da anni l’Italia a dotarsi di un sistema nazionale di raccolta dati sulla violenza verso i minori, a partire da un’indagine sul maltrattamento condotta nel 2015 su 231 Comuni a cura di AGIA-CISMAI-Terre des Hommes: rispetto ai minori in carico ai Servizi Sociali, dalla ricerca emergeva che sono oltre 91.000 i minori maltrattati in Italia. In altre parole, circa 1 bambino su 5 – di quelli in stato di bisogno seguiti dai Servizi Sociali – è vittima di maltrattamento. 212 per mille sono femmine e 193 per mille sono maschi, mentre i minorenni stranieri sono il 20 per mille, a fronte dell’8 per mille dei minorenni italiani. E se il 47.1% dei minori è vittima di grave trascuratezza, il 19% di violenza assistita, il 13.7% di maltrattamento psicologico, l’8.4% di patologia delle cure, il 6.9% di maltrattamento fisico e il 4.2% di abuso sessuale, il recente Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia (a cura di Cesvi, CISMAI, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, ISTAT, MIUR, Istituto degli Innocenti, Consiglio nazionale Ordine degli Assistenti sociali) che valuta come il contesto socio-economico e i servizi presenti nelle varie regioni possano incidere, positivamente o negativamente, sul benessere dei bambini/e o, viceversa, sulla loro vulnerabilità a fenomeni di maltrattamento, mostra ancora una volta un Paese a due velocità, con un’elevata criticità dei territori del Sud, che rispetto alla media nazionale registrano peggioramenti sia tra i fattori di rischio che tra i servizi. In sintesi, la Sardegna è l’unica regione a registrare, rispetto al 2019, un abbassamento dei fattori di rischio e un miglioramento dei servizi.

E mentre le otto Regioni del Nord Italia sono tutte al di sopra della media nazionale, nel Mezzogiorno si riscontra un’elevata criticità: le ultime quattro posizioni dell’Indice sono occupate da Campania (20°), Calabria (19°), Sicilia (18°) e Puglia (17°). La Regione con la maggiore capacità nel fronteggiare il problema del maltrattamento infantile, sia in termini di contesto ambientale che di sistema dei servizi, si conferma invece, come negli anni precedenti, l’Emilia Romagna, seguita da Trentino Alto Adige (2°), Friuli Venezia Giulia e Veneto che si scambiano il terzo e il quarto posto, e Toscana, confermata in quinta posizione. Durante l’emergenza sanitaria le misure di contenimento e di limitazione degli spostamenti e dei contatti hanno esposto i minorenni a un maggiore rischio di violenza soprattutto in quelle regioni meno fornite di servizi territoriali, il cui rallentamento ha comunque inciso in generale sulla capacità di rispondere alle richieste. Il divario Nord-Sud ha finito anche qui per aggravarsi proprio per la capacità di resilienza offerta dalle maggiori disponibilità economiche dei territori del Nord.

Ottavio Cappellani per “La Sicilia” il 2 marzo 2021. L’ingegnere Francesco Terrone è un polentone. Di più: è un “belluscone”. E veniamo a spiegarci. Esso ingegnere, che di nome fa Francesco, di cognome Terrone, di qualifica Ing., salernitano, anni 59, ha portato in tribunale l’Accademia della Crusca per ingiungergli, giudiziariamente, l’obbligo della modifica del lemma “terrone” (usato in senso spregiativo dai polentoni con il significato di contadino, villano, che lavora la terra, o addirittura originario delle “terre ballerine” soggette a terremoti). Esso Ing. Sostiene che al significato spregiativo abbia da aggiungersi, il significato, per l’Ing., nobile, di “latifondista, feudatario, di nobili origini legati all’ascendenza aristocratica terriera”. Evidentemente l’Ing. Terrone è un classista, non si vede infatti dove un’ascendenza fondata sullo sfruttamento di un uomo su di un altro, dovuto a capitale ereditato, possa essere considerato un uso “positivo” del termine. Utilizzato con questo significato, difatti, il termine “terrone” andrebbe a sovrapporsi, quasi a identificarsi, con il proprietario di “fabbricheeeeeettta” padano, che eredita il capitale e sfrutta l’operaio. Il significato proposto dall’Ing. Terrone, cioè dire, farebbe diventare il “terrone” nient’altro che un sinonimo di “bellusconismo”, cancellando ogni differenza tra “terrone” e “polentone”. L’operazione, a mio avviso, dovrebbe essere di tutt’altra ispecie, posto che trascinare in tribunale (personalmente gradirei anche le manette) gli Accademici della Crusca, non cessa di apparirmi come una buona idea. Bisognerebbe – mostrando maggiore buon senso e abitudine alle cose del mondo – costringere, magari a frustate, gli Accademici della Crusca non a modificare il significato registrato alla voce “terrone”, bensì a implementare il lemma “polentone”, specificando che la polenta in questione è usata in senso squisitamente metaforico. “Polentone”, ossia, non starebbe unicamente per mangiatore di polenta, ma segnalerebbe un’identità letteraria che trova ampio riscontro nell’uso comune del detto: “siamo quello che mangiamo”. Così agendo, il “polentone” diventerebbe un individuo dalla mente farinosa e piena di acqua, addensato collosamente, intelligente come una portata del suddetto alimento, gommosamente stupido, insipido, il cui unico fine è riempire la pancia, senza alcunché di spirituale, mancante di intelletto, senza forma, “sformato”, blob, pastrocchio, squaraquacchio, sbobba, laddove il “terrone”, di contro, rappresenterebbe colui che il mais coltiva, conoscendo i segreti dell’agricoltura e varia, e attraverso questa, metaforicamente s’intende, i segreti del mondo e della pacifica convivenza. Grande occasione mancata, dunque, per l’Ing. Terrone, al quale auguriamo ogni rispettabilità dovuta a un latifondista, feudatario, di ascendenze aristocratiche terriere, ma anche di lignaggio “borbone”. E adesso veniamo al significato letterario del termine “pernacchia”...

TERRONE AD HONOREM. Mattia Feltri per “La Stampa” il 27 febbraio 2021. L'ingegner Francesco Terrone di Mercato San Severino, Salerno, chiede giustizia al tribunale affinché imponga all'Accademia della Crusca di rivedere la definizione del sostantivo che, nel caso del ricorrente, si è dolorosamente trasferito all'anagrafe. La Crusca riconosce a terrone soltanto accezioni scherzose o spregiative, e non ha dato udienza alle rimostranze di Terrone, persuaso della necessità di introdurre nella voce qualche accenno storico sul rilievo e sullo sfruttamento del mezzogiorno, nonché sul lustro consegnato al Paese da tutti i Terrone, omonimi e avi. Me ne dolgo moltissimo: da bergamasco residente a Roma da tre lustri abbondanti, in una breve biografia avevo chiesto mi fosse attribuita la qualifica di terrone ad honorem (ebbi soddisfazione), conoscendo la teoria della relatività: per i bergamaschi i romani sono tutti terroni, ma per i romani i terroni sono tali solo da Napoli in giù. Mi spiacerebbe essere riabilitato, da neoterrone, per via giudiziaria, oltretutto con inversione della prova: Terrone, dotato di prestigioso titolo di studio, dovrebbe sapere che i vocabolari non indirizzano la lingua, ma la registrano, e non sarebbe la riscrittura di una parola a cambiarne il significato. Terrone sarà ancora Terrone, e terrone pure, come insegna l'istruttiva storia del consigliere comunale di Napoli, Pietro Mastronzo, che stanco del dileggio dell'opposizione decise di ribattezzarsi Mastranzo. E quando in assemblea gli fu data la parola, annunciato dalle nuove fiammanti generalità, un avversario ottenne la messa agli atti di una mozione di partito: «Per noi Mastronzo resta».

Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 27 febbraio 2021. «I terroni non so, ma noi italiani non siamo razzisti». Per Francesco Terrone la famosa battuta di Ellekappa - un fulmine nella tempesta degli stereotipi - si attaglia perfettamente all'Accademia della Crusca, tacciata di persecuzione linguistica nei confronti del suo cognome. Il Terrone, salernitano, anni 59, è un ingegnere; e come tutti gli ingegneri opera con una tigna invincibile. Sicché, orgoglioso del proprio etimo e piccato nell'orgoglio, ha chiesto all'Accademia di cambiare la definizione del termine "terrone" contemplando anche la sua accezione "positiva", ovvero relativa alla ricchezza terriera del Sud Italia, e al concetto di latifondo evocato da Francesco De Sanctis (ma avrebbe potuto ironicamente ricorrere alle ironiche geolocalizzazoni di Luciano De Crescenzo: «In fondo siamo tutti un po' terroni»). Ma quando la sua terza raccomandata inviata alla secolare istituzione linguistica s' è persa in risposte evasive, l'uomo si è rivolto alla giustizia ordinaria. E il risultato è che la prima udienza si terrà al tribunale civile di Nocera Inferiore (Salerno, of course) a settembre. La richiesta al giudice è quella di aggiungere alla definizione attuale, un riferimento «alla terra dei latifondisti, dei feudatari, dunque alla ricchezza, oltre a riconoscere un cognome i cui discendenti diedero lustro all'Italia intera»; e il mondo dei lessicografi, degli antropologi culturali e dei meridionalisti se ne sta in fibrillante attesa della sentenza. La Crusca, che all'inizio pensava a uno scherzo screziato dal marketing (e non è detto che in fondo non lo sia), è caduta dal pero. Ed ha avuto un sussulto. «È assurdo voler far pagare alla Crusca la colpa dell'uso discriminatorio di un termine impiegato nella storia d'Italia quando, anzi, la nostra Accademia ha segnalato questo difetto, lo ha contestato, criticato, condannato, pur facendone, come è ovvio, la storia, perché la storia non si può cancellare» scuote la testa, intervistato dall'Adnkronos, il professore Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia. «È del tutto evidente che da parte nostra non c'è mai stato nessun intento discriminatorio e offensivo nel descrivere il significato della parola "terrone" - ha spiegato ancora Marazzini - anzi, fin dalle prime righe, segnaliamo che questa parola ha assunto storicamente un valore discriminatorio da cui prendiamo le distanze». La definizione del termine "Terrone" la Crusca la fa risalire a Bruno Migliorini, anno 1950: «Così gli italiani del settentrione chiamano gli abitanti delle regioni meridionali». La voce nasce nei grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con valore di "contadino" (come villano, burino e cafone) e «usata, in senso spregiativo o scherzoso, per indicare gli abitanti del Meridione in quanto il Sud era una regione caratterizzata da un'agricoltura arretrata». Quindi, il termine è indubitabilmente spregiativo, dai tempi dell'enclave meridionali, delle grandi migrazioni verso le industrie del nord, dei sorrisi spenti e delle valigie di cartone. Ed è qui che l'ingegnere Terrone accende la disputa linguista e afferma al Corriere Fiorentino: «Abbiamo esaminato dal punto di vista etimologico e storico la questione. Abbiamo molto materiale da presentare in tribunale». E nell'affermarlo, l'ingegnere richiama e fa propria un'immagine livida da "Rocco e i suoi fratelli": «All'inizio degli anni Novanta, arrivato in Brianza per una supplenza in una scuola, ho resistito due mesi. Mi sono sentito dire che con quel cognome potevo fare l'operaio, non certo l'ingegnere. Sa quante volte a Milano sono rimasto a piedi quando chiamavo un taxi e dicevo il mio nome? Sa quanti giovani presentano i curriculum nelle aziende vergognandosi di essere meridionali?». Per inciso, se oggi uno prova a telefonare all'ingegnere risponde un centralino, presumibilmente di un gruppo industriale. Forse il suo. Insomma, il Terrone è assai risoluto. Anche se (e lo dico da mezzo terrone), negli ultimi anni la "battaglia di civiltà" dell'ingegnere è diventata quella di almeno un paio di generazioni. Aveva iniziato il collega Pino Aprile ad attizzare - col best seller "Terroni" e sequel vari - quell'"orgoglio meridionalista" a cui accennavano, alla fine dell'800, studiosi come Carlo Cafiero e Giustino Fortunato; poi erano venuti Massimo Troisi e Pino Daniele, e la banda degli artisti e degli intellettuali della magna Grecia; infine le migliaia di studenti del sud cresciuti nel mito dell'Erasmus e della globalizzazione. Tant' è che in una postilla della voce "Terrone" si legge: «Oggi la parola terrone sta avendo una "rivalutazione" in senso positivo. Questo cambio di rotta è riscontrabile nell'uso che il sostantivo ha nelle varie pagine social, curate dagli studenti meridionali che vivono nel settentrione d'Italia, i quali ironizzano sugli stereotipi che negli anni passati hanno nutrito diffidenza e razzismo così da favorire un reale uso scherzoso della parola terrone e dei suoi derivati». In fondo il razzismo è uno stato emotivo. Che poi, come dice sempre il maestro Renzo Arbore, si è sempre terroni di qualcun altro.

Prima il Sud. Scrutando l'immensità da piccino, ora alla Nasa, Giuliano Liuzzi, il ricercatore tarantino. Vito Piepoli su Il Sudonline il 25 febbraio 2021. Marte è il quarto pianeta del sistema solare in ordine di distanza dal Sole; è visibile a occhio nudo ed è l'ultimo dei pianeti di tipo terrestre dopo Mercurio, Venere e la Terra. Il pianeta rosso Marte ha da sempre attirato l’attenzione dell’uomo perché è il pianeta a noi più vicino e perché assomiglia sia alla Terra sia alla Luna. Chiamato pianeta rosso per via del suo colore caratteristico causato dalla grande quantità di ossido di ferro che lo ricopre, Marte prende il nome dall'omonima divinità della mitologia romana. La sua superficie è rossa, per la presenza di minerali ferrosi, e un tempo, oltre quattro miliardi di anni fa, c’era acqua allo stato liquido. Marte è il quarto pianeta del sistema solare in ordine di distanza dal Sole; è visibile a occhio nudo ed è l’ultimo dei pianeti di tipo terrestre dopo Mercurio, Venere e la Terra. Il pianeta rosso Marte ha da sempre attirato l’attenzione dell’uomo perché è il pianeta a noi più vicino e perché assomiglia sia alla Terra sia alla Luna. Chiamato pianeta rosso per via del suo colore caratteristico causato dalla grande quantità di ossido di ferro che lo ricopre, Marte prende il nome dall’omonima divinità della mitologia romana. La sua superficie è rossa, per la presenza di minerali ferrosi, e un tempo, oltre quattro miliardi di anni fa, c’era acqua allo stato liquido. Pur presentando temperature medie superficiali piuttosto basse (tra −120 e −14 ° C) e un atmosfera molto rarefatta, è il pianeta più simile alla Terra tra quelli del sistema solare. Le sue dimensioni sono intermedie tra quelle del nostro pianeta e quelle della Luna e ha l’inclinazione dell’asse di rotazione e la durata del giorno simili a quelle terrestre. Oggi le sonde inviate su Marte raccontano agli astronomi di una realtà ben diversa, inadatta a ospitare esseri viventi, come invece si credeva  un tempo. “Perseverance è il rover più ambizioso fra i robot della Nasa, il cui obiettivo scientifico è scoprire se su Marte ci sia mai stata vita”, ha detto il capo del Direttorato delle Missioni scientifiche dell’agenzia spaziale americana Nasa, Thomas Zurbuchen. Il rover cercherà la risposta nel cratere Jazero, “al cratere Jezero, il sito marziano più impegnativo mai individuato per un atterraggio”. È di questi giorni infatti la felice notizia che è andata a buon fine la discesa sul suolo di Marte del rover Perseverance, e del suo piccolo compagno di viaggio, il drone-elicottero Ingenuity, compito della missione Mars 2020 della Nasa. Formato miliardi di anni fa, forse in conseguenza dell’impatto di un asteroide, il cratere Jezero si è poi riempito d’acqua ed è diventato un lago profondo circa 500 metri, per poi diventare arido quando il clima su Marte è cambiato.  Perseverance è il quinto rover della Nasa a muovere le sue ruote su Marte, dopo il Sojourner arrivato nel 1997 con la missione Mars Pathfinder e che funzionò meno di tre mesi, i rover gemelli Spirit e Opportunity, della missione Mars Exploration Rover arrivati nel gennaio 2014 e attivi rispettivamente per sei e quasi 15 anni, e Curiosity, arrivato con la missione Mars Science Laboratory il 6 agosto 2012 e ancora attivo. Per due anni il rover Perseverance setaccerà il suolo per raccogliere i primi campioni destinati a essere portati sulla Terra. La missione Mars 2020 segna infatti l’avvio del programma Mars Sample Return (Msr), di Nasa e Agenzia Spaziale Europea (Esa) e al quale l’industria italiana contribuisce con il gruppo Leonardo. I campioni raccolti verranno inseriti in contenitori e depositati in luoghi precisi. Il loro recupero sarà affidato alla missione prevista nel 2026 e nel 2031vi sarà un’altra missione per portarli a Terra. La curiosità e l’entusiasmo, per tutto questo, si fanno sentire anche in Italia. La Nasa si avvale anche della collaborazione di un italiano, Giuliano Liuzzi, ricercatore post-dottorato presso il NASA Goddard Space Flight Center. Nato a Taranto nel 1988 da Angelo Liuzzi e Vera Colucci e cresciuto a San Giorgio Ionico (Ta), si è trasferito negli Stati Uniti nel 2017, dopo gli studi di dottorato. Molteplici sono i suoi interessi di ricerca. Studia la composizione dell’atmosfera di Marte. “Uso i dati acquisiti dallo spettrometro NOMAD a bordo del Trace Gas Orbiter (TGO) per ricavare la composizione dell’atmosfera di Marte in modo molto dettagliato. In particolare, indago la presenza e l’abbondanza di gas in tracce, aerosol e le loro proprietà ottiche / microfisiche. Inoltre, lavoro per una migliore comprensione dell’evoluzione presente e passata dell’atmosfera marziana, attraverso l’analisi della composizione dei principali costituenti gassosi della sua atmosfera” ha riferito. E si interessa anche di elaborare il trasferimento radiativo e gli algoritmi di recupero, di nuovi algoritmi di machine learning e intelligenza artificiale per analizzare le osservazioni di esopianeti (pianeta non appartenente al sistema solare, orbitante cioè attorno a una stella diversa dal Sole), con l’obiettivo principale di migliorarne l’efficienza e l’accuratezza nel determinare la loro composizione atmosferica, e anche di analizzare la composizione dell’atmosfera terrestre. Per quanto riguarda il suo coinvolgimento in progetti attuali, è collaboratore scientifico associato dello strumento NOMAD. Fa parte del team scientifico dello spettrometro Nadir and Occultation for MArs Discovery (NOMAD) a bordo dell’ExoMars Trace Gas Orbiter (TGO), una missione ESA/ROSCOSMOS. La sua attività nel progetto è focalizzata sul recupero dell’acqua e dei suoi isotopologhi, aerosol, proprietà delle nuvole mesosferiche e analisi di sensibilità dalle osservazioni di occultazione solare. Inoltre è collaboratore del Planetary Spectrum Generator (PSG).  Ha guidato lo sviluppo del modulo di recupero del Planetary Spectrum Generator,  uno strumento online per la sintesi e l’analisi di spettri ad alta risoluzione di corpi planetari. È autore di numerose pubblicazioni e ha partecipato a diverse conferenze del settore in Italia e all’Estero, risultando anche un eccelso divulgatore. Ricordiamo a tal proposito tra le sue tante partecipazioni solo quella al Festival della Divulgazione di cui è stato tra gli organizzatori e nello staff  della 1° edizione, che attualmente si organizza ogni anno a Potenza, in Italia. E nel suo profilo Facebook si legge: “E’ da quando son piccino che vivo scrutando l’immensità. Perché, se non miri lontano, magari laddove non potrai nemmeno mai sognare di arrivare, che vita è?”. Vito Piepoli

La participating scientist del rover della Nasa. Teresa Fornaro, è napoletana l’unica italiana tra gli scienziati di Perseverance. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. È atterrato su Marte, “ammartaggio” riuscito, il rover Perseverance partito lo scorso 30 luglio. Un progetto della Nasa americana al quale partecipa anche una scienziata italiana: Teresa Fornaro, di Napoli, precisamente da Brusciano. È ricercatrice dell’Inaf (Osservatorio Astrofisico di Arcetri) di Firenze e tra i 13 participating scientist della missione, l’unica italiana. Il rover resterà sul pianeta per almeno un anno marziano, 687 giorni, con l’obiettivo di cercare tracce di vita sul Pianeta Rosso. “Buongiorno mondo”, il primo tweet dell’account di Perseverance, che all’atterraggio ha scatenato l’esultanza degli scienziati. A preoccupare proprio il cosiddetto “ammartaggio” che ha fatto schiantare circa il 60% delle sonde che avevano tentato la discesa. Il rover cercherà tracce di vita presso il cratere chiamato Jezero che sorge su quello che era un lago circa 3,5 miliardi di anni fa. “Il mio gruppo di ricerca ad Arcetri analizzerà i dati provenienti dal rover. Cercheremo di rivelare molecole organiche che possano essere considerate come indicatori di vita passata”, ha detto Fornaro. Originaria di Brusciano, come si diceva, nel napoletano, ha conseguito laurea triennale e magistrale in chimica a Napoli, il dottorato con una tesi su studi spettroscopici di sistemi molecolari rilevanti per l’astrobiologia alla Normale di Pisa. È stata post-doc all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, poi postdoctoral research fellow al Geophysical Laboratory del Carnegie Institution for Science a Washington, negli Stati Uniti. È tornata in Italia nel 2019 dopo aver vinto un concorso ed essere stata assunta a tempo indeterminato dall’Inaf. In un’intervista a La Nazione ha raccontato com’è entrata nel progetto e quale sarà il suo ruolo. “Ognuno di noi ha proposto un progetto di ricerca che ha a che fare con uno o più strumenti a bordo del rover. Il bando è stato pubblicato a marzo 2020, la conferma è arrivata lo scorso novembre – ha spiegato – Il mio progetto assisterà l’analisi e interpretazione di dati che verranno raccolti dagli strumenti SuperCam e Sherloc, supportando il team di questi due strumenti con esperimenti di laboratorio. Come participating scientist porto due collaboratori, John Brucato e Giovanni Poggiali sempre di Arcetri. Il nostro ruolo sarà quello di aiutare il team scientifico a identificare molecole organiche sulla superficie del pianeta, la loro natura e il loro stato di preservazione”. Fornaro è l’unica participating scientists in Italia, tra i tre fuori dagli Stati Uniti, gli altri a Oxford nel Regno Unito e in Canada. Il suo compito sarà dunque quello di individuare molecole organiche distinguendo le abiotiche, derivanti da processi che non riguardano la vita, e potenziali biosignature molecolari, di origine biologica. Durante l’atterraggio la scienziata era in diretta con Rainews24. “È molto plausibile che si siano sviluppate forme di vita unicellulari su Marte come avvenuto, durante lo stesso periodo, sulla Terra. Non ci aspettiamo che queste forme di vita si siano evolute come accaduto sulla Terra perché Marte si è rapidamente spento e la radiazione ha spazzato via tutto”, ha commentato. Il sindaco di Brusciano, Giuseppe Montanile, ha esultato su Facebook, riportando la notizia delle partecipazione di una sua cittadina alla missione su Marte: “Fra le scienziate in prima linea c’è la nostra Teresa Fornaro, ricercatrice all’Inaf di Firenze, nativa di Brusciano, unica italiana tra i 13 participating scientist della missione”.

"Il mio fidanzato cacciato dalla stazione mentre aspettava il treno solo perché di colore". Viola Giannoli su La Repubblica l'11 febbraio 2021. A Portichello di Luisago, provincia di Como. Il racconto della sua compagna su Facebook: "Il vigilante urlava: "vattene di qui". Ma io a questa umiliazione non ci sto". Cacciato dalla stazione, mentre aspettava il treno, probabilmente per il colore della sua pelle. Georges Christian, originario del Camerun, è in Italia da 13 anni. Sta per prendere la seconda laurea in Medicina. Il 9 febbraio fa freddo e lui si trova su una panchina della saletta di attesa della stazione di Portichetto di Luisago, in provincia di Como. È mezzanotte. Sta aspettando, per motivi urgenti e personali, il treno diretto a Milano, che passerà da lì a 12 minuti. Con sé ha solo uno zaino con dentro un libro di pediatria e uno di cardiologia. E nel frattempo chiacchiera al telefono con la sua fidanzata, si fanno compagnia. È lei a raccontare, su Facebook, cosa accade dopo. "Sento aprirsi la porta della sala della stazione e.... "Tu! Fuori immediatamente da qui". Qualcuno urla, ma Georges risponde: “Perché? Sto aspettando il treno!”. Ma il vigilante replica: “Te ne devi andare fuori punto e basta”. A un nuovo tentativo di obiezione: "Ancora? Esci! O chiamo i carabinieri”. Georges prova a dire: "Per favore. Li chiami pure". A quel punto Fabiana Del Giudice, la ragazza, una logopedista, si spaventa: "Prego Georges di non controbattere perché quel signore urlava in un modo impressionante. Georges mi dà retta. Torna a casa, quasi come se nulla fosse accaduto". Ma per Fabiana qualcosa è accaduto. "Non posso far nulla, ma sento il bisogno di raccontarvi tutta la mia indignazione ma soprattutto tristezza. Non è la prima volta che mi succede e non sarà l'ultima. Eravamo solo io e lui e alla fine...cosa risolvi? No caro Georges! Io non ci sto a questa umiliazione gratuita solo per partito preso. Anzi per colore preso". "Nel 2021 - conclude la ragazza - siamo arrivati al 5G, esiste una specie di taxi spaziale, sono riusciti ad intercettare il Dna di un dinosauro .... ma un nero seduto sulla panchina ad aspettare è ancora preistoria? Caro vigilante... qualunque sia la tua età, ti auguro di non ritrovarti mai a doverti sentire umiliato (o un tuo figlio) perché sei bianco, seduto su una panchina, con un biglietto, ad aspettare un treno".

Dario del Porto per repubblica.it il 4 febbraio 2021. Prima gli ha chiesto, dandogli del "tu", di mostrare il tesserino di avvocato. Poi non contenta ha domandato: "Ma sei laureato?". Così, racconta sui social l'avvocato napoletano di origini nigeriane, Hilarry Sedu, una psicologa giudice onoraria al tribunale per i minorenni si è rivolta al professionista che in quel momento stava assistendo una donna immigrata e la sua bambina in una pratica per il rilascio del permesso di soggiorno. "Questo non è razzismo, è idiozia", dice Sedu che così ricostruisce l'accaduto: "Giunto il mio turno per la discussione di una causa - scrive Sedu - il neo magistrato onorario mi chiede di esibire il tesserino di avvocato, lo faccio. Stupita o stupida, mi chiede se sono avvocato, poi ancora, mi chiede se sono laureato. Vi giuro che non è una barzelletta. Impulsivo come sono, ero tentato di insultarla, ma ho voluto mettere avanti il bene della causa da trattare, perché ne vale della vita della mia assistita e della sua bambina. No, non è razzismo, è solo idiozia. È la incompetenza di un organo amministrativo che non sa scegliere i componenti privati in ausilio della macchina giustizia. Comunque, cara giudice (onorario), sono anche Consigliere dell'Ordine degli Avvocati di Napoli" conclude Sedu che poi aggiunge: "Quel giudice onorario andrebbe rimosso, perché non è possibile che accadano ancora cose del genere, sintomo di un retropensiero duro a morire". Il presidente della sezione del tribunale per i minorenni dove si celebrava il procedimento, Maurizio Barruffo, uno dei magistrati più esperti dell'ufficio, stempera i toni e afferma: "Si è trattato certamente di un malinteso, non ci può essere alcuna forma di razzismo perché si tratta di un pensiero che  non appartiene al nostro ufficio e a quelli che lavorano qua. Conosco l'avvocato Sedu, ho stima di lui, lo aspetto in ufficio. Venga quando vuole e chiariremo tutto"

La frase choc della giudice onoraria: «Scusi, lei è avvocato? È anche laureato?» Simona Musco su Il Dubbio il 3 febbraio 2021. È accaduto a Napoli, protagonista della vicenda Hillarry Sedu, consigliere dell’ordine degli avvocati. «Questa gente decide della vita dei minori». Napoli, Tribunale dei minori. Hillarry Sedu, avvocato eletto lo scorso anno nel Consiglio dell’Ordine di Napoli, dove si occupa in prima persona dei diritti degli immigrati, si trova in aula per una delicata causa che riguarda una minore e sua madre. Si trova davanti una giudice onoraria nuova tra le stanze del palazzo di viale Colli Aminei, la quale, forse stupita dal fatto che l’avvocato sia di colore, chiede conferma di avere a che fare con un professionista. «Ero in Tribunale per trattare una causa delicata – racconta al Dubbio Sedu -, quando mi ha chiesto di esibire il tesserino. Dopo averlo fatto, stupita, mi chiede se fossi avvocato. Dopo avergliene dato conferma, mi ha guardato con faccia incredula chiedendomi se, dunque, fossi laureato». Sedu, stupito dalla richiesta, risponde affermativamente, ma alla giudice nemmeno questo basta. Così decide di uscire dall’aula, salire al piano superiore per chiedere ad un magistrato togato se conoscesse o meno Sedu. Dopo la conferma del magistrato, dunque, la giudice rientra in aula. «Impulsivo come sono – spiega Sedu -, ero tentato di insultarla, ma ho voluto mettere avanti il bene della causa da trattare, perché ne va della vita della mia assistita e della sua bambina. Non ho voluto infuriarmi in quel momento, perché per me era più importante il compito che stavo svolgendo che le mie questioni di moralità e di lesione della mia dignità. In quel momento io dovevo essere un avvocato». Sedu, però, è letteralmente basito. «La cosa che mi ha molestato è il fatto che io ho degli anticorpi, perché sono un professionista che in Italia ci è cresciuto e quindi ha la capacità di difendersi da solo – spiega ancora -, ma queste vicende accadono tutti i giorni a ragazzi che non sanno difendersi e non hanno capacità di reagire a determinati comportamenti discriminatori». Ma non si tratta soltanto di un problema personale. Perché, evidenzia Sedu, il vero problema è che tale giudice ha nelle proprie mani, letteralmente, la vita di decine di minori e delle loro famiglie. «La cosa che mi amareggia è che una persona del genere è alle dipendenze del Tribunale dei minorenni ed incide e decide sulla capacità o meno dei genitori di essere genitori e soprattutto decide della vita di molti minori – sottolinea -. È una cosa inaccettabile, una riserva mentale discriminatoria che assolutamente non può esistere per chi deve trattare della vita delle persone e decidere il merito delle loro vite». L’episodio è accaduto durante l’udienza, mentre Sedu indossava quella toga che, agli occhi della giudice, forse non avrebbe potuto indossare in quanto di colore. Ma per l’avvocato non si tratta di razzismo: «Un razzista, magari, si sarebbe limitato a guardare il tesserino per poi magari rigettare la causa – aggiunge -, invece in questo caso chiedere se fossi “anche” laureato significa essere di una stupidità profonda e acuta, cosa pericolosa per chi giudica la vita dei minori e dei loro genitori». La vicenda, di certo, non finisce qui. Perché Sedu ha annunciato di voler portare il caso nelle sedi istituzionali deputate, con un esposto al Csm, ritenendo che la giudice «non qualificata per il tipo di attività che dovrebbe svolgere». La storia, nel giro di poche ore, grazie anche allo sfogo pubblicato da Sedu sul suo profilo Facebook, ha fatto il giro del Paese. «La causa si deve ancora concludere – afferma infine -. Non temo che aver reso nota la vicenda possa pregiudicare il mio lavoro, ma se così sarà allora ci sarà il grado d’appello. Confido che giustizia sia fatta».

Al Tribunale per i minorenni di Napoli. “E’ avvocato, laureato?”, lo scivolone del giudice onorario. Sedu: “Queste persone decidono se togliere figli ai genitori”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. “Lei è avvocato, è laureato?”. E, nonostante l’esibizione del tesserino di iscrizione all’Albo, ancora: “Aspetti che vado a chiedere sopra al giudice togato”. Non è una barzelletta ma quanto accaduto questa mattina, mercoledì 3 febbraio, al Tribunale per i minorenni di Napoli. Vittima dello spiacevole episodio l’avvocato Hilarry Sedu, primo legale nero eletto, nel febbraio del 2019, al consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. Protagonista un magistrato onorario (che svolge le proprie funzioni in maniera non professionale, poiché di regola esercita la giurisdizione per un lasso di tempo determinato senza ricevere una retribuzione, ma solo un’indennità per l’attività svolta), una donna di circa 40 anni. “Giunto il mio turno per la discussione di una causa – spiega Sedu, 34 anni – il neo magistrato onorario mi chiede di esibire il tesserino di avvocato, lo faccio. Stupita o stupida, mi chiede se sono avvocato, poi ancora, mi chiede se sono laureato. Vi giuro che non è una barzelletta”. “Impulsivo come sono – ha proseguito nella sua denuncia social -, ero tentato di insultarla, ma ho voluto mettere avanti il bene della causa da trattare, perché ne vale della vita della mia assistita e della sua bambina. No, non è razzismo, è solo idiozia. È la incompetenza di un organo amministrativo che non sa scegliere i componenti privati in ausilio della macchina giustizia. Comunque, cara giudice (onorario) sono anche Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Napoli” aggiunge. Contattato dal Riformista, Sedu ha commentato l’accaduto aggiungendo che la cosa ancor più grave è “come soggetti del genere debbano giudicare la meritevolezza di perdere o meno la capacità genitoriale. Questo è davvero un fatto assurdo”. La giudice “non si è scusata perché probabilmente non si è neanche resa conto di quello che aveva detto. Anzi – prosegue Sedu – una volta mostrato il tesserino di avvocato è salita al piano di sopra dal giudice togato per accertarsi che fosse davvero tutto vero”. Poco dopo la giudice onoraria è tornata dall’avvocato Sedu confermando: “E’ tutto vero, il giudice (togato, ndr) la conosce”. LA STORIA – Arrivato con i suoi genitori dalla Nigeria in Italia, a Castelvolturno, a soli sei mesi, Hilarry Sedu è diventato nel frattempo cittadino italiano, ha giocato a calcio indossando la maglia della Salernitana (lo frenò un brutto infortunio al ginocchio), è sposato con una collega ed ha due figli. Da quando è avvocato ha continuato a difendere e tutelare i tanti migranti “invisibili” di Castel Volturno, da decenni in Italia ma senza diritti, con figli nati in Italia ma senza cittadinanza e alcun riconoscimento.

Il giudice onorario in tribunale gli aveva chiesto: "Ma lei è laureato?". Chi è Hilarry Sedu, l’avvocato nero napoletano: “Io e il giudice abbiamo fatto pace, uno schiaffo non genera amore”. Rossella Grasso su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. È una storia a lieto fine quella che ha coinvolto l’avvocato Hilarry Sedu. Presentatosi al Tribunale per i Minorenni di Napoli un giudice onorario gli ha chiesto di mostrargli il tesserino incredula del fatto che fosse davvero un avvocato. Il motivo? L’avvocato Sedu è di origine nigeriana. Poi a distanza di 24 ore le scuse del giudice. “Sono un abusivo, mi hanno chiesto pure il tesserino”, ci scherza su Sedu parlando con un amico al telefono in dialetto napoletano. Sì, perchè Sedu è napoletano. “Io non mi sento napoletano, io sono napoletano”, dice.

LA VICENDA – Il 3 febbraio Sedu, primo legale nero eletto, nel febbraio del 2019, al consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, si è presentato al Tribunale per i minorenni di Napoli insieme a una sua assistita. Un giudice onorario, una donna di circa 40 anni iscritta all’ordine degli psicologi, lo ha guardato e gli ha chiesto: “Lei è avvocato, è laureato?”. E, nonostante l’esibizione del tesserino di iscrizione all’Albo, ancora: “Aspetti che vado a chiedere sopra al giudice togato”. Sedu ha raccontato lo spiacevole episodio su Facebook: “Impulsivo come sono – ha proseguito nella sua denuncia social -, ero tentato di insultarla, ma ho voluto mettere avanti il bene della causa da trattare, perché ne vale della vita della mia assistita e della sua bambina. No, non è razzismo, è solo idiozia. È la incompetenza di un organo amministrativo che non sa scegliere i componenti privati in ausilio della macchina giustizia. Comunque, cara giudice (onorario) sono anche Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Napoli” aggiunge. Contattato dal Riformista, Sedu ha commentato l’accaduto aggiungendo che la cosa ancor più grave è “come soggetti del genere debbano giudicare la meritevolezza di perdere o meno la capacità genitoriale. Questo è davvero un fatto assurdo”.

LE SCUSE – All’indomani dello spiacevole episodio l’incontro chiarificatore tra l’avvocato e il giudice onorario. All’appuntamento hanno partecipato anche il presidente del Tribunale per i minorenni, Patrizia Esposito, e il presidente degli avvocati di Napoli, Antonio Tafuri, entrambi contattati telefonicamente in mattinata dal presidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania, Armando Cozzuto. “La questione è chiusa ma nella misura in cui non accada più – ha detto a caldo Hilarry Sedu – la dottoressa mi ha detto che è stato un malinteso, circostanza ribadita anche dal presidente Esposito, ed è stato escluso ogni intento razzista. Cosa cui io credo. Alla fine ci siamo dati il gomito; ma episodi così spiacevoli non devono più avvenire”.

“UNO SCHIAFFO NON GENERA AMORE” – L’avvocato Sedu raggiunto nel suo studio dal Riformista ha commentato l’episodio: “Ci sono state delle scuse che io ho accettato volentieri – dice – Non si può pretendere di cambiare il modus operandi o i pregiudizi di certe persone facendo al guerra. Non ho ami visto uno schiaffo restituito generare amore. Spiegando, confrontandosi, si può generare qualcosa di migliore”.

LA STORIA – Sedu è arrivato in italia quando aveva solo 6 mesi. È italiano a tutti gli effetti. Ha sposato una napoletana con cui ha due figli. Ha anche giocato nella salernitana ma ha dovuto lasciare la carriera sportiva dopo un infortunio. “Ma tuttavia ho sempre voluto fare l’avvocato”. Laureatosi in giurisprudenza alla Federico II ha poi conseguito un master in “Immigrazione e politiche pubbliche di accoglienza e integrazione. Da sempre si occupa della difesa dei diritti dei migranti e di quanti subiscono l’odio degli haters da tastiera.

Il caso Sedu stringe le istituzioni nella lotta al razzismo: “Non devono mai più succedere episodi come questo”. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Febbraio 2021. Si sono dati il gomito, perché stringersi la mano, almeno finché c’è la pandemia, non si può. E hanno voltato pagina. Da oggi ognuno tornerà in aula, al proprio lavoro e al proprio impegno in nome della giustizia avendo fatto un riflessione in più sul peso che hanno le parole. Ieri mattina, nell’ufficio della presidente del Tribunale per i minorenni Patrizia Esposito, c’è stato l’incontro chiarificatore tra l’avvocato Hilarry Sedu e la psicologa giudice onorario protagonista dello spiacevole botta e risposta avvenuto l’altro giorno in udienza. Presenti anche il presidente della sezione del Tribunale per i minorenni Maurizio Barruffo, il numero uno dell’Ordine degli avvocati di Napoli Antonio Tafuri e quello dell’Ordine degli psicologi della Campania Armando Cozzuto. «Tutti i presenti – si legge in una nota congiunta diffusa all’esito dell’incontro – hanno ribadito il proprio personale impegno a evitare che possano verificarsi in futuro situazioni tali da ingenerare, anche involontariamente, dubbi sia sulla sussistenza di sentimenti o opinioni discriminatorie nell’amministrazione della giustizia sia sulle competenze dei giudici onorari». «Siamo soddisfatti che la vicenda sia stata debitamente stigmatizzata nel migliore dei modi e che questo abbia di fatto fortificato il dialogo tra istituzioni e categorie professionali impegnate da molti anni sul territorio campano a lavorare insieme in modo produttivo ed efficace, a garanzia e a tutela della cittadinanza, nel rispetto dei primari diritti della persona e nel rigetto di ogni forma di discriminazione». Si chiude così il caso nato dopo il post su Facebook in cui l’avvocato Sedu, italiano di origini nigeriane, si sfogava per il comportamento che la psicologa giudice onorario aveva tenuto nei confronti prima dell’udienza in cui doveva discutere per il rilascio di un permesso di soggiorno per un’immigrata e la sua figlioletta. L’avvocato Sedu aveva segnalato che il giudice, dopo avergli chiesto il tesserino, gli aveva anche domandato se fosse laureato. La psicologa ha invece parlato di un fraintendimento dovuto forse all’uso della mascherina e che ha fatto sì che la sua richiesta del mandato (avanzata dopo aver riscontrato una discordanza tra i dati anagrafici sul documento della parte e quelli indicati agli atti) venisse scambiata per la domanda sull’essere laureato. Poche ore dopo quanto accaduto nell’aula del Tribunale per i minorenni di Napoli, la notizia ha fatto il giro e dagli ambienti giudiziari napoletani ha avuto un’eco nazionale, sollevando un’ondata di sdegno che si è alimentata soprattutto sui social dove le generalizzazioni sono state tantissime, con attacchi immotivati all’intera categoria dei giudici onorari. «Parto dal presupposto che entrambi siano in buona fede», aveva spiegato la presidente del Tribunale per i minorenni Patrizia Esposito subito dopo l’ondata di critiche, provando a stemperare i toni e respingendo qualsiasi sospetto di razzismo. «Mi amareggia che questo ufficio venga tacciato di razzismo – ha poi ribadito Esposito – Come cittadini siamo distanti da dinamiche mentali del genere e come giudici ogni giorno ci occupiamo di adozioni internazionali e assistenza ai minori stranieri, sempre nel rispetto di tutti e con la massima sensibilità».

Paolo Griseri per "la Stampa" il 18 gennaio 2021. Sentivamo la mancanza del vaccino per censo. L'idea di Letizia Moratti, neo assessora della Lombardia, di consegnare più dosi alle regioni che hanno un Pil più alto è di quelle che ci proiettano immediatamente nell'Italia di fine Ottocento. Quando il voto era appannaggio dei più abbienti secondo la teoria per cui chi più ha più decide. Dopo il vecchio slogan «Prima i Lombardi» e la sua versione salviniana «Prima gli italiani», la parabola del centrodestra approda dunque ad un più universale «Prima i ricchi». Così, piatto, senza mediazioni. Tutti gli animali sono uguali, avrebbe detto Orwell, ma di fronte alla siringa, i Paperoni sono più uguali degli altri. A meno che, con astuzia, Moratti non abbia voluto utilizzare il vaccino per spingere gli evasori a dichiarare il loro reddito. Il bastone e la puntura. Quanti accetterebbero?

Da repubblica.it il 19 gennaio 2021. Contributo che le Regioni danno al Pil, mobilità, densità abitativa e zone più colpite dal virus: sono questi i quattro parametri che la vicepresidente e neo assessora al Welfare della Regione Lombardia Letizia Moratti ha chiesto di tenere in considerazione per la ripartizione dei vaccini anti-Covid, con una lettera al commissario Arcuri. Il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, attacca: "Leggo con sconcerto le affermazioni della signora Moratti a sostegno di una distribuzione di vaccini legata al Pil delle diverse regioni. Si fa fatica a credere che si possa subordinare l'uguale diritto alla vita di tutti a dati economici. Si direbbe che siamo a un passo dalla barbarie. La signora Moratti è persona intelligente e civile. Mi auguro che voglia chiarire che si è trattato di un'affermazione non meditata, che non risponde alle sue convinzioni". Sulla questione interviene con una nota anche il movimento "Dema" del sindaco di Napoli Luigi de Magistris: "Dopo la secessione dei ricchi arriva la vaccinazione dei ricchi! Parole inaccettabili quelle pronunciate dalla Moratti che, in un momento storico difficile e complesso come quello che stiamo vivendo, tuonano come un progetto eversivo che mina l’unità e la coesione nazionale. Ancora una volta la Lombardia tenta di mettere a norma il divario tra Nord e Sud, chiedendo risorse vaccinali in funzione della ricchezza dei suoi territori, escludendo i fabbisogni dei cittadini e criteri di equità sociale. Un’idea malsana che viola la Costituzione e si appresta a riservare al Sud ancora atti iniqui e diseguaglianze inaccettabili".

Chiara Baldi per lastampa.it il 20 gennaio 2021. «Io ho già parlato con il commissario Arcuri e gli ho proposto quattro criteri: le zone più colpite, la densità abitativa, il tema della mobilità e il contributo che le regioni danno al Pil. Secondo me questi criteri dovrebbero essere tenuti in considerazione non tanto per modificare la distribuzione dei vaccini perché questo non sarà possibile, ma se non altro per accelerare nei confronti di quelle regioni che corrispondono a questi criteri». A parlare è la neo vicepresidente e assessora al Welfare Letizia Moratti nella riunione coi capigruppo del Consiglio Regionale a cui ha spiegato i nuovi criteri che vorrebbe proporre al commissario per l’emergenza Domenico Arcuri il quale, ha spiegato Moratti, «si è dichiarato d’accordo con alcuni di questi criteri, gli sto preparando una lettera ma ovviamente questo sarà confronto nella conferenza Stato-Regioni». Un audio che smentirebbe Moratti su quanto dichiarato oggi in Consiglio Regionale: «Non ho mai pensato di declinare vaccini e reddito». All’attacco il gruppo del Movimento Cinque Stelle: «Prendiamo atto del fatto che l’assessore Moratti abbia avvertito il bisogno di rettificare l’infelice uscita di ieri pomeriggio. Non comprendiamo invece la necessità di mentire. Nell’audio diffuso da alcune testate giornalistiche, relativo alla riunione dei capigruppo di ieri pomeriggio, l’assessore ha inequivocabilmente legato il criterio del PIL al piano vaccinale. Come peraltro confermato dalle successive parole dello stesso presidente Fontana. Le scuse e il conseguente implicito e immediato ritiro della proposta stessa, che registriamo con ovvia soddisfazione, sarebbero state sufficienti. Vergognarsene al punto di arrivare a mentire, invece non è certo sinonimo di un buon avvio per chi vorrebbe riformare la Sanità in Lombardia», commenta il capogruppo del Movimento Cinque Stelle, Massimo De Rosa, riguardo alla rettifica dell’assessore Letizia Moratti riguardo le dichiarazioni di ieri.

Ettore Livini per repubblica.it il 20 gennaio 2021. Il Pil, alla fine, conta davvero e il vaccino contro il Covid – almeno per ora – è un affare riservato solo ai ricchi. I numeri parlano da soli: al 18 gennaio le dosi somministrate in tutto il pianeta erano 41,39 milioni. Quasi 13 milioni sono state usate negli Usa, 4,5 in Gran Bretagna, 2,6 in Israele, 1,8 negli Emirati arabi. L’unica nazione in via di sviluppo entrata per ora in classifica è la Guinea, dove la campagna di immunizzazione è arrivata a quota 25 iniezioni grazie a una campagna sperimentale con un prodotto russo uscito dai laboratori del Gameleya Institute. E il rischio è che il sovranismo farmaceutico “diventi una catastrofe morale per tutti – ha detto il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus – visto che i giovani e gli adulti sani nella parte più ricca della terra saranno vaccinati prima degli infermieri e degli anziani di quella meno abbiente”. La corsa al vaccino in effetti, con buona pace delle tante parole spese quando la cura contro la pandemia non era ancora disponibile, è diventata una gara dove chi offre di più vince. L’Oms assieme a Gavi Alliance ha provato a mettere assieme Covax, una sorta di centrale di acquisti comune per comprare le dosi e distribuirle in modo equo in tutto il mondo. L’idea era di riuscire a smistare da questa stanza dei bottoni 2 miliardi di vaccini entro il 2021, ma il traguardo è molto lontano. Le donazioni e gli stanziamenti nazionali (l’Europa ci ha messo 400 milioni, l’Italia 103, la Gran Bretagna 750) sono stati di molto inferiori alle attese con gli Usa per ora alla finestra. Quelle private – con la Fondazione Gates in testa – sono arrivate con il contagocce. “E le grandi case farmaceutiche hanno fatto la gara per farsi approvare i farmaci dalle nazioni più ricche senza chiedere l’ok all’Oms” accusa Ghebreyesus e soddisfano subito le richieste di chi è in grado di pagare in contanti. La speranza dell’organizzazione è di riuscire a inviare le prime dosi nei paesi più fragili a fine marzo grazie a un accordo con Pfizer. E anche l’Europa, dopo la tirata d’orecchi, sembra pronta a muoversi per garantire una copertura universale più ampia. Bruxelles ha già ordinato 2,3 miliardi di dosi dalle società che stanno studiando i vaccini. L’idea è di girare quelle in surplus ai Balcani e all’Africa “studiando un meccanismo con i paesi membri”, ha detto il commissario alla salute Stella Kyriakides. Dosi che potrebbero arrivare in anticipo rispetto a quelle promesse da Covax. Il grande assente in questo sforzo di vaccinazione planetaria sono gli Stati Uniti che sotto la presidenza di Donald Trump hanno boicottato tutte le iniziative dell’Oms. Un approccio che molti sperano ora possa cambiare con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden.

Letizia Moratti, la sua proposta sui vaccini in base al Pil è già realtà nel mondo. Le Iene News il 19 gennaio 2021. Una proposta della neo vicepresidente della Lombardia ha acceso le polemiche: “Distribuire i vaccini tra le regioni anche in base al contributo che danno al Pil”. Un’idea che ha causato più di una polemica, ma che purtroppo nel mondo sta già avvenendo: se continueremo su questa strada però non ci libereremo mai della pandemia. “Distribuire i vaccini per il coronavirus tra le regioni anche in base al contributo che danno al Pil”: la proposta della neo vicepresidente della Lombardia Letizia Moratti ha sollevato un’enorme polemica politica. In molti hanno reagito in maniera sdegnata, a partire dal ministro della Salute Roberto Speranza: “Tutti hanno diritto al vaccino indipendentemente dalla ricchezza del territorio in cui vivono”, ha scritto su Twitter. Ma è davvero così? Oppure quello che ha proposto Letizia Moratti per le regioni italiane in realtà sta già avvenendo in tutto il pianeta? Nella lunga corsa alla vaccinazione contro il coronavirus infatti ci sono paesi che vanno più veloci, altri più lenti, altri ancora che zoppicano. Ve ne abbiamo parlato solo ieri qui, analizzando le cause di questi diversi ritmi. Però ci sono paesi che a questa corsa non sono nemmeno stati invitati, e sono proprio i più poveri del mondo. L’allarme lo ha lanciato ieri - in una strana coincidenza temporale con le dichiarazioni di Letizia Moratti - l’Organizzazione mondiale della sanità: “Nei paesi poveri del mondo sono state somministrate solamente 25 dosi di vaccino”. Venticinque, tra l’altro tutti distribuiti in Guinea, tutti provenienti dalla Russia. Una delle persone vaccinate è il presidente del paese. Per dare meglio l’idea del contrasto, nei paesi del mondo ad alto reddito sono state somministrate più di 40 milioni di dosi. Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom, ha usato parole durissime per condannare questo scempio: “Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con le vite dei cittadini più poveri del mondo. Non è giusto che i giovani in salute nei paesi poveri siano vaccinati prima dei medici e degli anziani dei paesi poveri”, ha aggiunto Adhanom. La ragione di questo scempio purtroppo è semplice: i paesi ricchi hanno stretto accordi economici importanti con le case farmaceutiche attualmente autorizzate a commercializzare i loro vaccini, e la penuria di dosi in tutto il mondo ne ha causato l’indirizzamento solamente verso chi può fare la migliore offerta. L’allarme per la distribuzione dei vaccini è stato lanciato già a dicembre da Oxfam e da Amnesty International: secondo un report delle due associazioni, il 90% degli abitanti di 67 paesi a reddito medio o basso non avranno accesso al vaccino contro il coronavirus. I motivi sono due: i vaccini costano troppo e i paesi ricchi del mondo ne hanno comprato quasi interamente la disponibilità per tutto il 2021. I paesi ricchi del mondo, ricorda Amnesty, rappresentano il 14% della popolazione e hanno già comprato il 53% delle dosi di vaccino che dovrebbero essere disponibili nel 2021. Guardando solo i prodotti di Pfizer e Moderna, gli unici due già approvati dalla maggior parte dei paesi ricchi, il dato sale al 95%. E così mentre i ricchi potranno vaccinarsi varie volte (il Canada ha già opzionato dosi sufficienti a vaccinare cinque volte la popolazione), ci sono miliardi di persone che per adesso sono rimaste fuori e potrebbero morire a decine di migliaia. Tra i paesi esclusi ce ne sono cinque dove si sono registrati oltre due milioni di casi: Kenya, Nigeria, Ucraina, Pakistan, Myanmar. E con loro altri 64 paesi che nel 2021 potrebbero non vedere nemmeno una singola dose di vaccino. Cosa rischiamo però se il sistema continuasse così, e i vaccini fossero davvero distribuiti in base al Pil dei singoli paesi? Semplice: non ci libereremmo mai della pandemia di coronavirus. Se il virus continuasse a circolare liberamente in questi paesi, che sono abitati da miliardi di persone, continuerebbe a trovare un modo per entrare anche nei paesi ricchi: gli stretti rapporti commerciali e i movimenti di persone sarebbero veicoli perfetti per il Covid-19 per girare indisturbato per tutto il pianeta. Esattamente come accaduto all’inizio della pandemia. Inoltre è plausibile pensare, date le conoscenze attuali sui virus, che il contatto tra persone non vaccinate e vaccinate spingerebbe il Covid-19 a mutare per poter contagiare di nuovo chi è protetto. E nel mondo globalizzato contemporaneo è impossibile immaginare di chiudersi completamente al contatto con i paesi dove la campagna vaccinale rischia di non partire mai. Nel caso italiano, il dato è ancora più chiaro guardando ai numeri degli immigrati regolarmente residenti sul nostro territorio: soltanto da Ucraina, Pakistan e Nigeria - tre dei cinque paesi citati sopra - sono 485mila. Negli ultimi dieci anni, sono arrivate 197mila persone da questi tre paesi. Un calcolo che prende in considerazione solo tre paesi e solo gli immigrati regolari: allargando lo sguardo agli altri stati e anche ai migranti irregolari, il numero cresce di molto. Insomma, i rischi nell’escludere i paesi poveri del mondo dalla vaccinazione contro il coronavirus sono enormi per tutti, non solo per loro. Non c’è un minuto da perdere nel distribuire equamente le dosi in tutto il pianeta, non solo perché la salute è un diritto umano che non dovrebbe essere messo a rischio a causa del reddito, ma anche perché è nell’interesse di tutti noi.

Vaccini in base al Pil, la Moratti ha sdoganato l’assurda idea di molti. Giulio Cavalli su Notizie.it il 19/01/2021. Non di sola Moratti muore la dignità in tempi di pandemia: si chiama capitalismo ed è l’olio che lubrifica il mondo e che schiaccia gli oppressi. Eccola qua la sciura Letizia Moratti, la milanesissima borghesissima ex sindachissima che ha sempre amministrato le cose pubbliche come se fossero il suo salotto, quella che divide il mondo in ricchi e poveri, in privilegiati che la politica deve continuare a preservare e in fastidiosi bisognosi di cui disfarsi per non rovinare il mobilio. La vice presidente e assessora che non avrebbe dovuto far rimpiangere Gallera (e non era difficile, viste le sciagurate gesta del predecessore) ha partorito la fulminante idea di assegnare il vaccino prima alle regioni che producono più Pil e senza nemmeno rendersi conto della castroneria che le frullava per la testa ha preso carta e penna ed è riuscita a scriverla nero su bianco in una lettera inviata al commissario Arcuri. Avrà pensato, la gerarca Moratti, che il soldo sia sempre un motivo valido per stabilire le priorità, del resto quella è la sua forma mentis, e che non ci fosse nulla di male nell’avere il coraggio di dire quello che, soprattutto in Lombardia, in molti hanno messo in pratica in questi mesi di pandemia in cui la chiusura delle fabbrichette della Val Seriana terrorizzavano la classe dirigente molto di più della fila di camion militari che svuotavano la bergamasca dalle vittime del virus. In sostanza la differenza tra Letizia Moratti e gli imprenditori e i politici d’assalto sta solo nell’aver scritto quelli che molti altri pensano e non dicono, una leggerezza che si può perdonare all’ex sindaca che ingolfò il comune di Milano di super consulenze ai suoi amici degli amici, che cambiò le regole per permettere al figlio di costruirsi una Bat-caverna in città e che accusò il suo sfidante Giuliano Pisapia di un reato che non aveva mai commesso in diretta televisiva. Letizia Moratti è così, con quella sicumera che accompagna sempre i prepotenti che si considerano impunibili, coloro che si ritengono sovversivi e riformisti perché hanno il coraggio di scoperchiare le schifezze che gli altri non hanno nemmeno il coraggio di pensare. E chissà se vale davvero la pena ricordare ai tanti Moratti che ci sono in giro l’articolo 32 della Costituzione, quello che dice chiaramente che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” e che soprattutto in Lombardia viene calpestato giorno dopo giorno, da decenni, perfino sventolato, qui dove sono fieri di avere regalato un pezzo del SSN ai privati più ingordi per trasformare i pazienti in clienti, la salute in profitto e gli ospedali in un covo di lupi che inseguono il fatturato con la bava alla bocca. Però non di sola Moratti muore la dignità in tempi di pandemia e sarebbe riduttivo e miope prendersela solo con lei. Il pensiero della Moratti lo abbiamo annusato in questi mesi nelle richieste più o meno velate di chi proponeva di curare con meno foga gli anziani perché improduttivi, chi proponeva magari di chiuderli in casa, chi se la prende con i virologi colpevoli di “terrorizzare gli italiani” e di fare scendere i consumi: è la stessa architettura di idee di chi dice che “se muore qualcuno, pazienza” ma l’importante è che non scenda il fatturato. Nasci, cresci, fattura, spendi e crepa; e se non fatturi e se non spendi allora crepa prima perché non sei funzionale al sistema: la Costituzione non scritta che indirizza certa destra è da anni questa cosa qui, che poi ha un nome e un cognome, si chiama capitalismo ed è l’olio che lubrifica il mondo e che schiaccia gli oppressi. C’è anche un altro piccolo particolare che varrebbe la pena sottolineare: mentre noi siamo qui a discutere delle beghe morattiane nostrane nei Paesi più poveri del mondo (lo dice l’OMS) sono state vaccinate 25 persone, 25 persone in tutto. Forse il problema è un po’ più vasto della semplice Lombardia.

Il Paese che non ama. Mauro Munafò su L'Espresso il 19 gennaio 2021. È questa qui la destra italiana. Ed è sempre stata così. Grazie Letizia Moratti, te lo dico davvero. Grazie. Grazie perché la tua ultima uscita permette ancora una volta, e senza ipocrisie e mezze misure, di ricordare a tutti gli smemorati che cosa è la destra in Italia. La neo assessora in Lombardia ha infatti messo per iscritto un'assoluta ovvietà, un pensiero in perfetta continuità e coerenza con quanto questa parte politica predica e realizza da anni nel nostro Paese.  Secondo Moratti infatti, i vaccini devono essere distribuiti tenendo in considerazione anche quanto una regione contribuisce al Pil. Tradotto: la Lombardia che è una regione più ricca, deve averne di più e prima degli altri. È questa, e lo è da sempre, l'unica dottrina politica che anima le destre: il dio denaro. I ricchi hanno ragione, i poveri hanno torto. Non è una gaffe, tanto che qualche mese fa le stesse identiche cose le aveva dette anche un leghista, l'europarlamentare Angelo Ciocca, che aveva chiesto proprio di far arrivare i vaccini prima in Lombardia perché i lombardi "producono" di più. Le persone annullate e appiattite su un solo parametro: quanto possono produrre, quanta ricchezza possono generare, quanti soldi possono far girare. E quindi, come rovescio della medaglia, la povertà come colpa, la disoccupazione come incapacità, la vita ridotta alla sola dimensione del Pil. E allora di cosa ci stupiamo oggi, di cosa ci stiamo indignando esattamente? Lo scempio della sanità privata nelle ricche regioni del Nord, i soldi che girano sempre nelle tasche delle stesse persone (leggere la precisa inchiesta di Gianfrancesco Turano sul tema) non erano abbastanza? A quanto pare no. E allora grazie ancora assessora Moratti per avercelo ricordato.

Vittorio Feltri. Dagospia il 19 gennaio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, mi ritengo un giornalista libero ma non di Libero (dato contrattuale inconfutabile). A tal proposito, riguardo all’intervista di Vittorio Feltri, apparsa a mia firma sul suo quotidiano e di conseguenza sul tuo portale, tengo a precisare che è tratta dal mio libro “Ci metto la firma! La gavetta dei giornalisti famosi” pubblicato da Aliberti nel 2009. Il magnifico di-rettore, in modo a dir poco irrituale, ha pensato di estrapolarla arbitrariamente dal volume per auto-incensarsi. Ma non solo ha omesso di avvertirmi né ha chiesto l’autorizzazione dell’editore – che pretese! – ma neppure ha citato il titolo del volume, entrato tra l’altro nei Meridiani Mondadori di Storia del giornalismo italiano. Maleducazione aggiunta a scorrettezza professionale, dunque, quella di Feltri, a maggior gloria dei suoi 59 anni di professione. Che dire?  Auguri per i prossimi 59! Mariano Sabatini

Risposta di Vittorio Feltri: Caro D’ago, il giornalista Sabatini, che stimo, ha scritto una lettera a te, e non a me, per lagnarsi di una intervista che lui fece a me, e non io a lui, riportata su Libero alcuni giorni orsono. Faccio sommessamente notare che il padrone delle mie interviste sono io e non lui e neppure alcun editore. La produzione intellettuale è personale, per cui delle mie parole nessuno può vantare di essere proprietario. Aggiungo di aver citato Sabatini nel distico, un atto di cortesia. Costui cosa pretende che lo paghi io per un’intervista rilasciatagli molti anni fa e ancora attuale? Mi vuole rubare quel che gli ho detto assumendone la responsabilità? Grazie Dago. Scusa il disturbo. Vittorio Feltri

Mariano Sabatini per “Libero quotidiano” il 15 gennaio 2021. Ha imparato a leggere sui giornali, Vittorio Feltri. Già alle elementari comprava i quotidiani e si beveva la cronaca nera e sognava di vedere la sua firma sotto agli articoli. Per motivi di sopravvivenza da giovane fece diversi altri mestieri, tra cui «il fannullone in un ente pubblico dove avevo vinto un concorso senza merito. Ero di ruolo, ma a ventiquattro anni ho mollato tutto e sono diventato praticante alla Notte. Non avrei potuto campare a lungo fuori da una redazione».

Cominciò, pur di cominciare, con le recensioni dei film.

«Mi sono occupato anche di sport. Ma la mia vocazione era un' altra: raccontare i fatti della gente. Ci sono riuscito. E continuo anche se ho compiuto 77 anni. Vorrei morire alla macchina per scrivere giacché non uso il computer».

La sua prima redazione da interno?

«Mi sembrava una sacrestia, un silenzio opprimente. Seduto alla scrivania più grande, il capocronista con gli occhiali sulla fronte. Mi osserva e dice: "Perché sei venuto qui, non sai che questo mestiere è finito" "Sarà per questo che mi piace" gli risposi con un sorrisino imbarazzato. Scosse la testa e borbottò: "Allora non ti pentirai"».

Gli aspetti piacevoli e quelli sgradevoli del mestiere?

«Parlo per me: è piacevole che il lavoro coincida con l' hobby. Avere la responsabilità del lavoro altrui è un peso, e una seccatura. Ma la cosa che più mi scoccia è ascoltare le lagnanze dei colleghi frustrati, quasi tutti. Ne incontro ogni giorno. In ogni caso ho sofferto molto al Corriere della Sera, agli inizi: volevo fare l' inviato e invece mi toccava stare in redazione, una noia. Poi ce l' ho fatta ed è stato bello. Perfino esaltante».

Giornalisti "casta stampata"?

«I giornalisti non sono tutti uguali perché la natura non è democratica. Alcuni diventano famosi e fanno parte di una casta. La moltitudine consuma i propri giorni rodendosi l' anima e parlando male di chi ha sfondato».

Ha mai fatto una marchetta?

«Naturalmente, sì. Non sono un marziano, vivo da uomo in questo mondo e ho tutti i problemi dei miei simili. Nessuno è innocente. Nessuno è vergine».

Alcol, fumo, sregolatezze dei giornalisti al cinema?

«I giornalisti dei film sono macchiette o caricature. La realtà è un' altra cosa».

La sua giornata di lavoro?

«Mi alzo tardi perché mi corico presto, non è un errore. La mattina leggo un paio di giornali. Poi vado a Libero. Riunione. Telefonate. Pranzo. Rientro alle 15.30. Telefonate. Conversazioni coi collaboratori. Pianificazione della prima pagina. Nuova riunione. Ultimi ritocchi. Infine scrivo e do un' occhiata ai pezzi più importanti. Faccio tre o quattro titoli della prima. Cena. Divano. Letture varie. Un po' di tivù e nanna. Mi manca il saio per essere un frate».

La sua mazzetta di giornali?

«Ne sfoglio una decina e di solito mi rompo le palle. Arrivo in fondo a un pezzo non più di cinque volte al dì».

Dove le piace scrivere?

«Al mio tavolo. Ma scrivo ovunque. Anche in auto su un taccuino da stenografo, con la biro».

Cosa ha imparato da quelli che considera suoi maestri?

«A scrivere si impara leggendo, preferibilmente i fuoriclasse. Ma non si è mai imparato abbastanza. Nella confezione del giornale aiuta parecchio l' esperienza e aver lavorato accanto a colleghi bravi: Nino Nutrizio, Gino Palumbo, Franco Di Bella, Tino Neirotti. Ovviamente adesso ci metto del mio».

Gli errori più gravi agli esordi?

«Cercavo a ogni costo la bella scrittura e cadevo nella ampollosità. Sono guarito presto».

La prima soddisfazione?

«Riscuotere il primo stipendio, il doppio rispetto a quello di un impiego pubblico».

Scoop a ogni costo?

«Il nostro dovere è pubblicare le notizie. Va da sé che se sono inedite è meglio. Se nella routine capita lo scoop, la gioia è grande. Chi non cerca lo scoop è giornalista a metà».

Il suo scoop più grande?

«Sono direttore da oltre trent' anni. Il mio compito non è quello di scarpinare alla ricerca delle "bombe". Semmai sono fiero delle tirature dei giornali che ho diretto».

Chi stima tra i colleghi del passato?

«I morti erano tutti molto bravi. I vivi un po' meno. Apprezzo molto Scalfari e Pansa, due santoni. I santini non li cito per evitare di dimenticare i più meritevoli».

Diplomatico.

«Non disprezzo nessuno. Ogni bottiglia dà il vino che contiene, l' importante è che non sia aceto».

Come si diventa una firma?

«Conquistando la fiducia dei lettori. Occorre temperamento e un pizzico di talento. Il resto viene da sé».

Per scrivere il suo pezzo come procede?

«Lo scrivo e basta. Talvolta preparo una scaletta. Rileggo e taglio qualcosa, di solito aggettivi, avverbi e qualche relativa».

Quante volte rilegge prima di dare il "visto, si stampi"?

«Una volta subito. Poi una seconda. Chiedo sempre a un collega di passarlo. Non si sa mai. L' errore può sempre capitare».

Per le ricerche?

«Non so navigare su internet. Consulto dei libri in caso di vuoti di memoria».

Quella dell' inviato è ancora una figura mitica, bramata, ammirata?

«Non ho mai promosso alcuno a mito. Tra gli inviati ci sono sempre stati e ci saranno sempre degli ottimi giornalisti e dei fessi patentati. Come in qualsiasi altra categoria. Mi fanno tenerezza quelli che vorrebbero andare alla guerra e ignorano che le guerre ormai non si combattono in trincea o sul campo, ma coi missili e gli aerei supersonici, e se vai sul posto non vedi un accidenti».

Perché si fanno sempre meno inchieste?

«Questo è un luogo comune. Di inchieste se ne sono sempre fatte poche. Il giornalismo italiano è basato sulle idee più che sui fatti. Non siamo anglosassoni. Ogni Paese ha la sua tradizione: la nostra è questa».

I fatti sempre separati dalle opinioni?

«Chi scrive, come chi parla, è obbligato a filtrare le parole attraverso il proprio senso critico. Inoltre i giornalisti riferiscono cose sentite dire.

Insomma, la scelta stessa dei vocabolari usati per raccontare rivela un' opinione».

Come sceglie l' attacco giusto?

«Non ho mai avuto il problema dell' attacco. Scrivere è come telefonare. Si comincia da ciò che preme dire. Non c' è bisogno di costruire con effetti speciali quando si ha qualcosa da comunicare. Un buon attacco e una buona chiusa, se non c' è in mezzo un buon pezzo, non ha senso».

Giornalisti - cani da guardia del potere?

«Spesso sono soltanto cani».

Le doti caratteriali o psicologiche di un buon giornalista?

«Non credo alla psicologia d' accatto, non fa per me. La curiosità è fondamentale. Il talento conta il 10%. Per diventare grandi in ogni campo serve temperamento».

Fallaci o Capote, chi ha dato di più al giornalismo?

«Oriana Fallaci amava Truman Capote. Io amo entrambi. Non scelgo.

I suoi "ferri" del mestiere?

«Uso la macchina per scrivere, il taccuino dello stenografo è l' alternativa di fortuna. Di macchine ne ho una dozzina tutte restaurate. Il problema sono i nastri. Quando ne trovo faccio incetta».

Meglio saper scrivere o scovare le notizie?

«Trovare le notizie e non saperle scrivere è come non averle trovate».

Quando un articolo è perfetto?

«La perfezione non c' è. Mi sono rassegnato: un buon articolo che non annoi è già un ottimo risultato».

Un' intervista?

«È un genere che non amo. Ovvio, se suscita clamore perché contiene notizie e commenti non scontati, la pubblico volentieri».

L' italiano giornalistico?

«Lo stesso che usi quando parli al telefono con tua moglie».

Bisogna limitare gli aggettivi?

«L' aggettivo azzeccato non disturba, anzi aiuta. L' orgia degli aggettivi è disgustosa».

Internet rappresenta il futuro del giornalismo?

«Nel mio futuro c' è una tomba. Internet per ora è una discarica. I giornali finché l' uomo andrà al cesso saranno insostituibili».

In questo mestiere contano le raccomandazioni?

«Ho cominciato con una raccomandazione, avevo 18 anni. Un mio professore di italiano e latino telefonò all' Eco di Bergamo e mi fece avere una collaborazione: critico cinematografico di rincalzo. Non ero capace. Però cominciai a stare un po' in redazione e non ne sono più uscito. Quel professore era un prete. È per lui che sono l' unico ateo clericale del mondo».

Fare i giornalisti è sempre meglio che lavorare?

«È l' unico lavoro che faccio volentieri. Finché non mi mandano via, di qui non mi muovo».

Si smette mai di essere giornalisti?

«Io sono giornalista anche quando dormo. Nei miei sogni compare sempre un quotidiano, un titolo, una tipografia».

Nella storia del mestiere come si colloca?

«Questo mestiere mi ha permesso di avere più di quanto abbia dato. Ne sa qualcosa la mia famiglia. Credo possa bastare. A Bergamo dove sono nato non mi dedicheranno neanche un vicolo. Giustamente».

Bisogna «trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose gravi» sosteneva Camilla Cederna. È sbagliato?

«È un paradosso, come tutti i paradossi è una verità acrobatica. La condivido».

Consiglierebbe a un giovane di fare il giornalista?

«Non do mai consigli non richiesti. Anzi, non do consigli. Al massimo do una mano a chi ne ha bisogno».

Lei cosa dice ai giovani giornalisti che prendono servizio al giornale?

«Dico che li assumerò dopo aver maturato la certezza che non sono cretini».

Il suo motto professionale?

«Meglio guadagnare copie con un articolo così così che perderne una con un capolavoro».

Da ilgazzettino.it il 15 gennaio 2021. Altra truffa legata al Covid. Aiuti alimentari acquistati con fondi statali per l'emergenza del virus negati a stranieri e anziani non autosufficienti per darli a famiglie più ricche. Parla di questo l'inchiesta della Procura di Vercelli, che ha portato all'arresto della sindaca leghista di San Germano Vercellese, Michela Rosetta. La prima cittadina è ai domiciliari insieme ad un consigliere comunale, l'ex assessore Giorgio Carando. Nell'inchiesta sono indagate anche altre sette persone, tra cui due imprenditori. Peculato, falso materiale e ideologico e abuso d'ufficio i reati contestati a vario titolo. Sarebbero stati direttamente la sindaca Rosetta e Carando a gestire gli aiuti alimentari destinati alle famiglie povere, distribuendoli illecitamente a famiglie con redditi oltre ai 7.000 euro mensili anziché ai veri beneficiari dei fondi statali: anziani non autosufficienti, nuclei con redditi bassi o con figli minori o disabili, o stranieri in difficoltà. Nelle intercettazioni emergono frasi con cui i due arrestati ammettono di avere «figli e figliastri» e di consegnare, ai soggetti a loro meno graditi, il «pacco da sfigati». Nella stessa operazione, condotta dal pm Davide Pretti, sono stati sottoposti all'obbligo di presentazione in caserma anche un altro consigliere comunale, un ex dipendente e una quinta persona. Oltre alla distribuzione iniqua dei pacchi, la procura contesta anche l'acquisto di generi non essenziali, come mazzancolle e capesante, al centro lo scorso settembre di dure polemiche. Significativa la vicenda di una cittadina extracomunitaria a cui la sindaca avrebbe negato gli aiuti dopo la richiesta di evitare alcuni alimenti per motivi religiosi. Le indagini hanno riguardato anche l'abbattimento dell'ex chiesa di Loreto, a San Germano, dopo il crollo di una parte di facciata che - hanno accertato i pm - sarebbe stato procurato volontariamente. Per questo motivo c'è anche l'accusa di distruzione di beni sottoposti a vincolo culturale.

Andrea Zanello per “la Stampa” il 16 gennaio 2021. Ad alcuni andavano i pacchi «da sfigati», come si sente in un' intercettazione, quelli con poca roba. A qualcuno non arrivava proprio nulla. Altri ancora invece ricevevano il cibo senza che ne avessero diritto, mentre un assessore si serviva dal magazzino portandosi a casa quello che voleva. Qualcuno nel piatto si trovava mazzancolle e capesante, altri dovevano chiedere dello yogurt per tirare avanti quando la prima ondata della pandemia aveva iniziato a mettere in ginocchio le fasce più deboli. Secondo l' indagine della Procura e dei carabinieri del Nor di Vercelli, tra febbraio novembre del 2020, a San Germano gli aiuti alimentari per i cittadini del comune messi in difficoltà dalla pandemia erano gestiti in maniera tutt' altro che equa. Facendo «figli e figliastri», come è emerso da un' intercettazione tra la sindaca leghista Michela Rosetta e l' allora assessore ed oggi consigliere Giorgio Carando. Ieri per i due amministratori sono stati disposti gli arresti domiciliari in un' operazione che ha disposto anche l' obbligo di firma per Maurizio Bosco, consigliere comunale e in passato vicesindaco, e per altre due persone, tra cui un ex dipendente comunale. Poi ci sono altri sette indagati: le accuse riguardano più ipotesi di peculato, falsità materiale e falsità ideologica in atto pubblico commessa dal pubblico ufficiale, abuso d' ufficio e distruzione di beni sottoposti a vincolo culturale. Il perno dell' inchiesta sono gli aiuti alimentari destinati alla popolazione, acquistati dal Comune con fondi economici statali, quelli messi a disposizione lo scorso marzo per far fronte all' emergenza economica legata alla pandemia. A San Germano a disposizione c' erano poco più di 9 mila euro: secondo le accuse l' impiegata comunale che se ne doveva occupare fu estromessa dalla sindaca e dall' assessore Carando. Sarebbero stati loro, secondo l' impianto accusatorio, a gestire tutto decidendo a chi sarebbero andati gli aiuti alimentari in maniera «iniqua», come hanno sottolineato dalla Procura di Vercelli che ha parlato di «articolata attività di indagine che per il contesto storico-epidemiologico nel quale si è sviluppata si vorrebbe non aver mai avuto la necessità di svolgere». Sarebbero stati consegnati aiuti a nuclei familiari con un reddito oltre i 7mila euro mensili e sarebbe stato ignorato chi ne aveva davvero bisogno. Come il caso di un' anziana allettata non autosufficiente che vive con 600 euro al mese e famiglie straniere in difficoltà. Tra di loro una cittadina marocchina, madre di due figlie. La donna aveva ricevuto un pacco che conteneva della carne: ha scritto al Comune dicendo che non poteva mangiarla per questioni religiose, chiedendo yogurt, olio farina e zucchero. Secondo gli investigatori Michela Rosetta avrebbe preso malissimo la richiesta, tanto da distruggere la lettera che era stata protocollata e decidendo che la donna non avrebbe dovuto più ricevere nulla. La sindaca leghista non sapeva di essere intercettata mentre parlava, con toni molto accesi, dell' accaduto: per questo episodio la Procura le contesta l' aggravante della finalità di discriminazione ed odio razziale. Michela Rosetta ha per altro già fatto notizia in passato con due delibere contestate, che prevedevano multe a chi affittava ai migranti in paese e vietavano l' utilizzo del parco giochi ai bimbi delle famiglie che non pagavano la mensa. Nel magazzino del Comune dove erano state messe le derrate alimentari sono state installate delle microspie. Per l' accusa le registrazioni mostrano l' allora assessore Giorgio Carando che pesca tra i generi alimentari, per poi caricare tutto sulla sua auto, su cui gli investigatori avevano installato un gps, per poi tornare a casa e non distribuire nulla di quanto preso. Secondo l' indagine condotta dal sostituto procuratore Davide Pretti ci sarebbero quasi 20 episodi di questo tipo a carico dell' ex assessore. In un' occasione avrebbe portato a casa del pesto poi considerato eccessivo, tanto da chiedere ad altri parenti se ne avessero bisogno.

MERLER (TRENTO UNITA): “SIAMO CITTADINI E NON SUDDITI DI SUDICI SUDISTI”. Una vera e propria gaffe per l’ex candidato sindaco e ora Vicepresidente del Consiglio Comunale. Autori Vari su secolo-trentino.com il 3 gennaio 2021. “Un Governo meridionalista e sudista (in salsa PD-5) a trazione foggio-salernitana (con cultura del debito) non potrà mai capire il valore culturale, salutistico ed economico della Montagna. Se non inizia la stagione invernale non sarà un problema delle regioni del Nord, ma di questo Paese”. Così, in un post sulla sua pagina ufficiale Facebook, l’ex candidato sindaco per  il centrodestra popolare e autonomista a Trento Andrea Merler, ora consigliere comunale per Trento unita nel capoluogo trentino, (che con lega e fratelli Italia compongono l’attuale coalizione in comune). Una vera e propria gaffe per l’ex candidato sindaco e ora Vicepresidente del Consiglio Comunale. Un post che non è passato inosservato e che, nel giro di pochi minuti, ha generato un putiferio di reazioni politiche locali, con esponenti che ne hanno chiesto l’immediata rimozione. Tra i primi a rispondere al consigliere di opposizione Andrea Merler anche Giuseppe Urbani, consigliere comunale di Fratelli d’Italia (in corsa proprio con la Lega alle ultime amministrative e ora parte del gruppo Trento Unita), che non ci è andato per il sottile, chiedendo al consigliere e collega Merler di chiedere immediatamente scusa. Una vera e propria contraddizione visti i valori che proprio i partiti che compongono il centrodestra autonomista, tuttavia, rappresentano a livello nazionale. Anche la Consigliera di Si Può Fare!, Silvia Zanetti, quarta più votata alle ultime comunali trentine, si è espressa dopo esserci messi in contatto con lei, commentando con queste parole in merito alla vicenda: “capisco l’esigenza di tutela del territorio alpino della nostra provincia, ma non è facendo distinzione tra nord e sud Italia che si trovano soluzioni! Va bene la tutela della montagna, soprattutto in un momento critico come questo a livello economico e turistico, ma non porta a nulla fare distinzioni del genere. Semplicemente inaccettabile!”.

Da corriere.it il 2 gennaio 2021. La prima bambina nata in Liguria nel 2021? «Non può essere definita nè ligure nè italiana» in quanto nera. Parole scritte da Stefano Mai, che è il capogruppo della Lega Nord nel consiglio regionale della Liguria. Parole che indignano anche il governatore Giovanni Toti; era stato proprio quest’ultimo a condividere sui social le foto e le notizie dei «fiocchi azzurri e rosa» che avevano salutato l’inizio del nuovo anno negli ospedali della regione senza immaginare di urtare la suscettibilità altrui.

«Benvenuto ai nuovi liguri». Sembrava - quello di Giovanni Toti - un messaggio cortese e di circostanza, una tradizione di ogni primo gennaio. «Diamo il benvenuto ai primi liguri nati nel 2021! Alla Spezia poco dopo mezzanotte è nata Morena, a Imperia Louis e dal San Martino mi arriva la foto di Greta, prima nata a Genova. Benvenuti al mondo piccoli e auguri alle vostre famiglie a nome di tutta la Liguria», aveva scritto Toti, postando la foto di una mamma non italiana, con la sua bimba appena nata. E invece fin da subito erano partiti gli insulti per via dell’appellativo «ligure» accostato a un’immagine di una donna e della sua figlia di colore.

Il leghista: «Non c’è ius soli». Una situazione purtroppo consueta, quando ci sono di mezzo notizie che riguardano i migranti. Ma la situazione è cambiata quando alla canea degli anonimi o dei «leoni da tastiera» si è unita una voce istituzionale, quella di Stefano Mai, appunto, numero uno della Lega Nord in consiglio regionale, partito componente della maggioranza che sostiene Toti. «Non si può definire italiano, né ligure, chi nasce sul nostro territorio da genitori stranieri. Auguri e benvenuti a tutti i nuovi nati del 2021 in Liguria, ma ribadiamo che per essere italiani e liguri sia necessario intraprendere un percorso ben definito e quindi richiedere successivamente la cittadinanza, secondo quanto previsto dalle norme vigenti. NO allo Ius soli»: posizione che l’esponente del Carroccio ha ufficializzato con un comunicato stampa. «Con la Lega al governo in Liguria così come, speriamo presto, a Roma - ha aggiunto il capogruppo leghista - non accadrà mai che l’acquisizione della cittadinanza italiana avvenga come semplice conseguenza del fatto giuridico di essere nati in Italia. Occorre difendere le nostre tradizioni e la nostra identità».

La replica del governatore. Giovanni Toti non ha fatto passare sotto silenzio l’intemerata e in chiusura di giornata ha preso le distanze dal consigliere della lega Nord con queste parole: «Stupisce, lascia amareggiati e per la verità anche un po’ perplessi che qualcuno, in un anno come questo, riesca a fare polemica anche su un post di benvenuto al mondo per una bimba nata in una notte così carica di dolore e di speranza. Nel Paese con il tasso di natalità più basso del mondo, una nuova creatura è un fatto positivo, quale che sia la sua nazionalità e il colore della sua pelle». «Greta - scrive Toti - si chiama così, è nata in un ospedale ligure, con medici e infermieri liguri. Sua madre ha in tasca una tessera sanitaria del nostro Paese. Non ho chiesto alla direzione del San Martino se fosse immigrata, naturalizzata, cittadina italiana o di un altro Paese. Greta è nata qui, andrà qui in Liguria all’asilo e a scuola. I suoi genitori e anche lei, quando crescerà, da lavoratrice avrà gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri lavoratori. E gli stessi diritti e doveri sociali».

Covid, il mistero dei cinesi in Italia: "Non si ammalano, non muoiono". Libero Quotidiano l'08 gennaio 2021. Sulla presunta immortalità dei cinesi le battute si sprecano. C'è chi sostiene che, presentandosi più o meno simili all'occhio dell'occidentale inesperto, gli abitanti della Cina in realtà non crepino mai, bensì si riciclino, proprio come la plastica, o che l'uno prenda il posto dell'altro appena deceduto, assumendone l'identità. E c'è pure chi si dichiara convinto che campino più o meno 150-200 anni. Leggende metropolitane raccontano persino che i migranti cinesi non seppelliscano i loro defunti. Cosa ne facciano si ignora. Li rispediscono in patria? Li congelano e poi ce li servono al ristorante "All you can eat"? Li inumano sotto il parquet oppure li impagliano per poi piazzarli in bella vista in soggiorno come si usava fare un tempo con la testa del cervo cacciato dal proprietario di casa, a mo' di trofeo? Tali domande affliggono davvero i cittadini del Belpaese, per i quali i cinesi, che vivono sepolti e nascosti all'interno delle loro comunità ma che tuttavia si danno un gran bel da fare sgobbando come nessuno da mattina a sera - onore al merito -, sono e resteranno senza alcun dubbio un mistero. Non a caso in molti chiedono a Google: perché i cinesi non ingrassano? Perché non invecchiano? Perché mangiano tanto aglio? Perché hanno la pelle liscia? Perché non fanno lo scontrino? Quesiti - Ah no, niente, questa è un'altra storia. Insomma, decine di quesiti ci angosciano allorché si parla di loro. Nel primo capitolo del libro Gomorra, Roberto Saviano scrive: «Raccolti, l'uno sull'altro, in fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l'uno con l'altro. Ecco dove erano finiti Erano lì. Ne cadevano a decine dal container, con il nome appuntato su un cartellino annodato a un laccetto intorno al collo». Ci rincuora il fatto che persino lo scrittore idolo della sinistra abbia compiuto queste considerazioni. Nessuno dunque ci accusi di razzismo se lecitamente ci interroghiamo sul motivo per cui in Italia non abbiamo mai appreso di un funerale - e dico uno solo - cinese. Per di più a noi i migranti cinesi stanno simpatici, ci piacciono, li ammiriamo poiché pensano soltanto a sfacchinare. Di certo, quando scompaiono, i cinesi lo fanno con discrezione. Senza baccano. Senza drammi. Senza sceneggiate. Senza urla isteriche e pianti struggenti, come siamo soliti fare noi da millenni. Essi sono composti in tutto: nella gioia così come nella sofferenza. Tanta stima. Eppure delle statistiche esistono. Risulta che in Italia, dove la comunità cinese è nutrita, non muoiano che poche decine di cinesi ogni anno, i quali vengono seppelliti nei nostri cimiteri, quindi non imbalsamanti e parcheggiati in sala da pranzo. La verità non è che i cinesi sono eterni, bensì che non gradiscono affatto tirare le cuoia nel Bel Paese, preferiscono semmai tornarsene in patria intorno ai 50 anni. Segnali - Del resto, la Cina è in piena espansione economica e a breve, prima del previsto, grazie all'accelerazione fornita dal coronavirus che ha paralizzato gli altri sistemi ma non quello cinese (guarda caso), diventerà la prima potenza economica mondiale. I cinesi appaiono immuni al virus che pure hanno messo in circolazione. Non ci sono stati ricoverati, contagiati, morti di nazionalità cinese sul nostro territorio a causa del Covid-19, fatta eccezione per i coniugi cinesi infetti in vacanza dalle nostre parti, i quali lo scorso febbraio hanno generato quella naturale paura nei confronti di una possibile diffusione del contagio, paura spacciata dalla sinistra come razzismo, da qui le campagne "abbraccia un cinese", "mangia cinese", "mordi un involtino primavera". E tutti siamo al corrente di come andarono le cose successivamente nonché che il timore di una fuoriuscita del minaccioso virus dai confini cinesi avrebbe dovuto essere considerata cosa ovvia, mica impossibile come illustri esperti pretendevano di spiegarci. Al 5 gennaio risultano essere stati fatti in Cina oltre 4,5 milioni di vaccini. Non stupiamoci. Invero, trattasi di poca roba se il dato viene rapportato alla popolazione totale. Nonostante tutto in Cina il morbo è debellato, come hanno dimostrato a tutto il mondo le immagini dei festeggiamenti in piazza in occasione del capodanno. Migliaia e migliaia di persone strette gomito a gomito. Altro che distanziamento sociale! E anche questo è un gigantesco enigma. Se non sono imperituri, i cinesi sono almeno dei gran furbacchioni. Da tutta una vita non fanno altro che copiarci, taroccando il Made in Italy e spedendoci qui la loro merce di pessima qualità. Eppure lo scorso 3 gennaio la Cina ha bloccato una partita di carne suina proveniente dall'Italia. Il motivo: i nostri maiali sarebbero infettati dal virus cinese. Fa ridere, già. Secondo l'Opas (Organizzazione prodotto allevatori suini), nient' altro che una scusa per colpire il nostro commercio e le nostre eccellenze. Inimitabili. 

La gaffe della capogruppo di Nardella: "Omicidio Gudeta? Colpa della Lega". Omicidio Gudeta, Mimma Dardano, capogruppo della lista Nardella al Comune di Firenze chiama in causa "la politica di intolleranza delle destre e della Lega" ma l'omicida è un ghanese. Salvini: "Questa è la sinistra". Elena Barlozzari, Giovedì 31/12/2020 su Il Giornale. Il mistero del delitto di Agitu Ideo Gudeta per qualcuno era una trama già scritta. Ancor prima che gli investigatori dessero un nome e un volto al suo omicida c’è chi aveva già risolto il caso. Subito dopo la scoperta del corpo senza vita dell’imprenditrice, d’altronde, le ricostruzioni giornalistiche puntavano tutte nella stessa direzione: quella dell’odio razziale. Per saltare alle conclusioni è bastato inserire il suo nome nel motore di ricerca. Scoprendo così che due anni fa era stata insultata, minacciata e persino aggredita per ragioni squisitamente razziali. È vero, la donna simbolo dell’integrazione gentile non piaceva a tutti, ma stavolta l’intolleranza non c’entra. E non c’entra neppure la Lega. Già, la Lega. A tirarla in ballo è stata Mimma Dardano, capogruppo della lista Nardella al Comune di Firenze. In un post Facebook pubblicato il giorno successivo al ritrovamento del cadavere la consigliera emette il suo verdetto. Il movente è sicuramente da ricercare nel colore della pelle della vittima: “Mentre siamo distratti dalla domanda: cosa farai il giorno di Capodanno? – scrive la capogruppo – gesti ignobili si consumano nel nostro Paese "libero" e "democratico", dove l’inclusione e il colore della pelle fanno ancora paura”. Cosa c’entra la Lega? La Dardano lo spiega qualche riga dopo: “Agitu era un’imprenditrice di successo, ma era nera e questo in una delle tante regioni italiane dove, grazie ad una politica di intolleranza delle destre e della Lega, per qualcuno non era ammissibile”. Insomma, la nardelliana sembra suggerire che ad armare idealmente la mano dell’assassino siano stati proprio i sovranisti. Qualche ora dopo il giallo viene risolto e le congetture della Dardano si rivelano errate. L’omicida è un pastore ghanese che lavora alle dipendenze di Agitu, si chiama Adams Suleiman ed ha agito per questioni di denaro. Nel frattempo il j’accuse della consigliera è arrivato all’orecchio di Matteo Salvini. “La capogruppo della lista Nardella – scrive sui social il leader del Carroccio – aveva già messo la Lega e il "razzismo" sul banco degli imputati per l’orribile omicidio di Agitu Gudeta, questa è la sinistra”. Del post incriminato adesso non c’è più traccia. Al suo posto ce n’è un altro dove la nardelliana prova a correggere il tiro. “La mia posizione è stata evidentemente fraintesa (…) non era certo mia intenzione individuare alcun mandante dell’omicidio, questo – chiarisce – non spetta a nessuno fuorché alla giustizia, che ha fatto il suo corso individuando il responsabile, né tantomeno addossare colpe a parti politiche”. Ma la toppa è peggio del buco. Sì perché adesso è lei a rivolgere al mittente le accuse di strumentalizzazione: “Adesso smettiamola con le strumentalizzazioni su una tragedia che ha sconvolto tutti e su una giovane donna, vittima di una violenza feroce”.

Il capodanno dei radical chic: così s'inventano omicidi razzisti. Il caso di Agitu Ideo Gudeta, rifugiata uccisa a martellate in Trentino, rivela il tic di cercare sempre la pista razzista. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 01/01/2021 su Il Giornale. Avevo pensato di dedicare il primo appuntamento del 2021 di questa rubrica ad una classifica dei peggiori esempi di chiccismo dell’ultimo anno. Poi è successa quell’immane tragedia di Frassilongo dove è stata uccisa una signora etiope, simbolo di accoglienza e integrazione. Agitu Ideo Gudeta aveva creato un allevamento, vendeva formaggio di capra, aiutava i migranti. Aveva pure subito minacce razziste. Il suo decesso è un orrore, come tutti i delitti. Ma la reazione alla notizia della sua morte riassume non pochi tic radical chic che vale la pena raccontare. Non appena si scopre che il corpo di Gudeta è stato ritrovato esanime nella sua casa in Trentino il pensiero, e il racconto senza conferme, si concentra sulle “minacce razziste” denunciate dalla 43enne etiope in passato. L’occasione è ghiotta: muore una donna, rifugiata, imprenditrice vittima di attacchi xenofobi e pure “pastora” (con la “a” finale di ordinanza radical). Gli ingredienti ci sono tutti per cavalcare la vicenda politicamente. Torniamo all’articolo pubblicato mercoledì da Repubblica, oracolo dei radical chic. Il problema della donna, racconta il quotidiano, negli ultimi due anni erano diventati i vicini: “Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto”, aveva denunciato ai carabinieri. Il tribunale si era espresso e aveva condannato un uomo del posto a 9 mesi per lesioni. Il signore in questione, che ha sempre negato pregiudizi razzisti, subito dopo l’omicidio ha pensato giustamente di schivare eventuali accuse: con la sua morte non c’entro nulla, “nonostante la mia personale esperienza”. I carabinieri in effetti di certezze sulla matrice dell’assassinio non ne hanno. Ma Repubblica titola: “Uccisa la rifugiata icona d’integrazione: aveva denunciato le minacce razziste”. Come a dire: sento puzza di crimine xenofobo. Anche Mimma Dardano, capogruppo della lista Nardella al Comune di Firenze, interpreta a suo modo i contorni della vicenda. E su Facebook si lascia andare ad un lungo sfogo: “Gesti ignobili si consumano nel nostro paese ‘libero’ e ‘democratico’, dove l’inclusione e il colore della pelle fanno ancora paura - scrive - Agitu era una imprenditrice di successo ma era nera e questo in una delle tante regioni italiane dove, grazie ad una politica di intolleranza delle destre e della Lega, per qualcuno non era ammissibile”. Il messaggio è chiaro: colpa del (presunto) razzismo destroide. E invece? E invece l’assassino reo confesso della proprietaria de “La capra felice” è un ghanese. Sbarcato in Italia nel 2015, Adams Suleimani, 32 anni, era stato assunto da Gudeta come pastore. Un lavoro, un alloggio dove vivere, uno stipendio. Mica male. Per colpa di una mensilità pagata in ritardo, però, l’immigrato l’ha colpita a martellate e poi ha abusato di lei mentre agonizzava a terra. In meno di 24 ore crolla così la pista xenofoba. Repubblica lo deve ammettere, quasi dispiaciuta per l’epilogo di quella che “poteva sembrare una storia di razzismo” ed è “in realtà un femminicidio”. Capito? Pure la Dardano, alla fine, si è dovuta scusare usando la classica formula del sono stata “evidentemente fraintesa”. Ma tant’è: storia già vista. Il tic radical chic di cercare sempre il movente xenofobo, infatti, non nasce con l’orribile morte di Gudeta. Ricordate le uova lanciate addosso all’atleta italiana di colore? Si parlò per giorni di un Paese incattivito e prossimo alle leggi fascistissime (al Viminale c’era Salvini), accecato dall’odio e dal razzismo di stampo leghista, e invece a prendere di mira la giovane Daisy Osakue erano stati tre scemotti capitanati dal figlio di un esponente Pd. Niente uova razziste allora così come non c’è alcun assassino xenofobo oggi. I radical chic se ne dovranno fare una ragione. E magari aspettare un po’ prima di puntare il ditino. Intanto auguriamo buon anno pure a loro.

Dafne Roat per il “Corriere della Sera” il 31 dicembre 2020. «Ho preso il martello e l'ho colpita. Ho ucciso e sono pronto a morire per quello che ho fatto». Parla solo inglese Suleiman Adams, nonostante sia in Italia da qualche anno. Sono le 22.25 circa quando il pastore ghanese di 32 anni entra nella stazione dei carabinieri di Pergine Valsugana e confessa. Sono trascorse più di 14 ore dall'agghiacciante delitto, da quando, martedì mattina, ha afferrato il martello appoggiato a un termosifone e ha colpito a morte Agitu Ideo Gudeta, l'imprenditrice etiope, 43 anni domani, conosciuta e stimata in tutto il Trentino, una donna coraggiosa e forte, titolare dell'azienda agricola «La capra felice», da lei fondata in valle dei Mocheni. La donna è stata uccisa nella camera da letto del suo appartamento al secondo piano dell'ex canonica nel Comune di Frassilongo. È stata trovata ai piedi del letto, supina, con i pantaloni sfilati, dai vicini di casa, preoccupati della sua prolungata assenza. «Abbiamo pensato che stesse male visto il periodo del Covid e siamo saliti urlando il suo nome, ma non abbiamo avuto risposta - racconta Maura Menzietti, abbassando lentamente il tono di voce -. Siccome la porta era socchiusa siamo entrati e abbiamo visto l'albero di Natale, poi Alberto ha preso il telefonino e con la pila ha illuminato la stanza. Si è girato verso di me, facendomi segno che era morta». Cinque, sei colpi alla testa, come conferma un primo esame effettuato sulla salma ieri pomeriggio, hanno ucciso Agitu. Suleiman, arrestato nella notte per omicidio volontario, non tenta di giustificarsi, davanti ai carabinieri racconta l'agghiacciante verità, quei minuti terribili all'interno della casa. Il peso del terribile gesto e la consapevolezza di non poter più tornare indietro. «Mi volevo uccidere per quello che ho fatto, ma non ho trovato il veleno con cui volevo suicidarmi. In questo momento preferirei morire», spiega ai militari che lo hanno sentito. Un racconto dettagliato, scioccante, che il pastore ghanese ha ripetuto anche davanti al sostituto procuratore Giovanni Benelli. Seduto accanto all'interprete e al suo avvocato, Fulvio Carlin, il giovane continua a parlare. Racconta minuto per minuto la tragica mattinata iniziata con un caffè che si stava preparando nella cucina della casa di Agitu. E poi quel cruccio che lo tormentava da tempo: uno stipendio arretrato che l'allevatrice di origine etiope non gli avrebbe pagato. Aveva bisogno dei soldi per i suoi due figli in Ghana. È bastato questo a scatenare la furia omicida. Prima di allora, come confermano i vicini di casa, non c'erano mai stati litigi. L'uomo, arrivato in Italia, a Lampedusa, a bordo di uno dei tanti barconi della speranza lungo la rotta dall'Africa all'Europa, aveva già lavorato per l'allevatrice, poi circa due mesi fa era stato richiamato, ma mancava uno stipendio. Gli arretrati non pagati, forse mille euro o meno, e secondo il racconto del pastore, più volte sollecitati. «Da tempo avevo chiesto i soldi che mi doveva per il lavoro svolto - sostiene - ma lei ha sempre rifiutato di darmeli». L'uomo parla di messaggi, telefonate assidue. Martedì mattina il pastore, che vive in una stanza al piano terra, sotto all'appartamento che occupava Agitu, è salito nella casa della donna, di cui aveva le chiavi, per prepararsi il caffè. Sono le 7.30. La vede e chiede di nuovo i soldi. «Come sempre lei è scappata in camera da letto», dice. Non si incontravano spesso perché facevano orari diversi e gran parte della giornata Suleiman la trascorreva nella stalla con le sue capre, la stessa in cui è stato trovato dai carabinieri. Dopo la tazza di caffè, bevuta in fretta, l'uomo era tornato nella sua stanza per prendere gli abiti sporchi e fare una lavatrice. Così è salito al piano di sopra una seconda volta, ha visto Agitu e ha chiesto di nuovo i soldi. Poi è montata la rabbia e ha preso il martello, poi gettato in cantina insieme al giubbotto sporco di sangue. Il pastore nel cuore della notte ha confessato anche di aver compiuto un gesto di autoerotismo, che dice di non riuscire a spiegare. Per i carabinieri si tratterebbe di un atto di spregio, per umiliare la donna.

·        Quei razzisti come gli spagnoli.

"La conquista de la transicion" di Villaamil. Come è rinata la Spagna dopo Franco, dal regime alla democrazia. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 19 Novembre 2021. Oscar Alzaga Villaamil è un avvocato, costituzionalista, nonché ex deputato spagnolo nato nel 1942. Una personalità significativa della transizione spagnola. Ha appena dato alle stampe un bel libro, La conquista de la transiciòn (1960-1978), Memorias documentadas, edito da Marcial Pons e dalla Fundacion Concordia y Cultura. Di orientamento democristiano moderato-conservatore e liberale, Alzaga sostiene soprattutto una tesi convincente che è già chiara dal titolo: la Transizione non è stata una gentile concessione, programmata sin dall’inizio in modo voluto, è stata una conquista della sapiente tessitura di un’opposizione democratica, cresciuta nel tempo, giunta progressivamente tra gli anni Sessanta e Settanta a una maggioranza di consensi nelle generazioni più giovani, e forte di due elementi: il cambiamento della Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II e il pontificato montiniano che delegittimava alla radice di un sistema che non era solo autoritario ma anche clericale e il legame con la Comunità Economica Europea, sempre più necessario per assicurare uno sviluppo al Paese. A contribuire alla falsa immagine di una Transizione come un “qualcosa di naturale” e di una democrazia come qualcosa che altri “donarono” e non, come nella realtà, “che furono obbligati” a concedere (p. 27) fu anche un episodio descritto nel dettaglio del rogo degli archivi del Regime deciso nel dicembre del 1977 (p. 30). L’intento di evitare vendette, odi, rancori, finì quindi per travolgere anche elementi chiave di memoria storica che sarebbero stati preziosi per illuminare il contesto degli anni della dittatura franchista (p. 32). La ricostruzione della delegittimazione del Regime da parte della Chiesa conciliare è molto puntuale e dettagliata. Franco capisce subito, già dall’inizio, con la bozza del cosiddetto Schema XIII, che poi diventerà la Costituzione “Gaudium et Spes” sui rapporti tra Chiesa e mondo, che c’è una chiara scelta preferenziale per le democrazie liberali (p. 44), ma soprattutto la situazione diventa irreversibilmente compromessa con l’elezione di Giovanni Battista Montini, notoriamente antifranchista e amico del filosofo Maritain che fin dall’inizio aveva negato legittimità alla dittatura. I cardinali spagnoli vengono ricevuti in ambasciata prima del Conclave che segue la morte di Giovanni XXIII con l’istruzione di opporsi in tutti i modi all’elezione di Montini (p. 63). Da lì in poi Franco è costretto a giocare in difesa, mentre il papa a uno a uno sostituisce i vescovi legati al Regime con nuovi presuli a esso ostili e favorevoli a un orientamento chiaramente democratico e pluralista (pp. 199-201). Questo non impedisce alcuni colpi di coda dei vescovi pro franchisti, in primo luogo Guerra Campos e Morcillo, che sedevano addirittura come componenti nelle Camere franchiste, compresa la pratica epurazione dei principali quadri dell’associazionismo cattolico giovanile spinti di fatto fuori dal mondo cattolico, con molti che finirono per orbitare nell’area socialista (p. 200 e 243), a cominciare da Gregorio Peces Barba, allievo di Maritain e di Bobbio (pp. 106-107). Alzaga colloca qui una delle cause che hanno impedito la nascita di un partito democristiano spagnolo, da lui auspicato, anche se forse da lui sovrastimata nel determinare tale esito. Il punto è che neanche la nuova classe episcopale montiniana, guidata con grande capacità di leadership ecclesiale ma anche politica dal cardinale Tarancon, intendeva favorire un partito dc: era necessario dopo un rapporto osmotico con un Regime autoritario liberare la Chiesa da qualsiasi rapporto stretto con la politica di parte, anche con la nuova politica democratica. Il cardinale aveva guidato uno scontro molecolare che aveva portato a ben trecento i preti incarcerati per opposizione alla dittatura nel carcere di Zamora a loro dedicato (p. 386), aveva addirittura minacciato di scomunica i componenti del Governo per aver arrestato e cercato di esiliare il vescovo Anoveros (p. 390), ma riteneva ora doveroso battersi solo per la libertà di tutti. La parola “tutti” torna per ben diciassette volte nell’omelia per l’incoronazione del nuovo Re Juan Carlos (p. 441). Proprio per questo, come spiega Tarancon ad Alzaga «la Chiesa deve mantenersi al margine della politica» nella sua accezione di scelta di parte (p. 484). Tuttavia la mancata nascita di un partito democristiano è legata anche ad altri fattori, non meno importanti. Pesò anche l’assenza di un leader unificante e indiscusso: il montiniano Ruiz-Gimenez che si trovò per una fase alla guida di un provvisorio partito dc era un uomo che interpretava un’esigenza di rinnovamento spirituale e morale, ma era altamente impolitico come segnala l’Autore, forse con qualche eccesso polemico per quello che non è stato ma che comunque non poteva essere (pp. 479-484). Per di più, e ancora più decisivamente, portava lì proprio la via giuridica sostenuta da Alzaga, quella consistente nell’approvare una nuova legge costituzionale rispettando la legalità formale del regime franchista, una “autorottura” del sistema (p. 529), ossia, secondo una felice sintesi di allora, il passaggio “dalla legge alla legge attraverso la legge”, avallata anche dal Tribunale Supremo a ridosso della morte di Franco. Se si adotta un modello di questo tipo per uscire da un Regime autoritario di destra, come concretamente accaduto, lo spazio politico che va dal centro alla destra finisce per essere occupato dalle forze del Regime precedente che hanno accettato il pluralismo votando la riforma, mentre ciò che aveva favorito i dc italiani e tedeschi era il discredito della destra, l’impossibilità di avere rivali seri sul fronte moderato. Per inciso, per quanto abbia avuto storicamente successo e per quanto fosse l’unica prospettiva realistica per oppositori sensati, oltre che per gli esponenti del Regime che avevano capito la necessità della svolta, quella tesi, segnata da un assoluto formalismo, era obiettivamente debolissima. La procedura di revisione prevista dalle norme del Regime era stata pensata per restare ovviamente sempre dentro i principi dello Stato autoritario e così era effettivamente stata utilizzata sin lì: la legge costituzionale del 1966 che era stata citata come precedente perché aveva derogato ad alcune norme delle precedenti, specie al Fuero del Trabajo del 1938, copiata dai testi fascisti (p. 353), era stata solo un limitato lifting del franchismo. Usare quella procedura per giungere ad elezioni libere e competitive tipiche di uno Stato democratico pluralista, aperte persino al Partito Comunista (p. 547), era un’evidente frode alla Costituzione del Regime precedente, come avevano denunciato dal loro punto di vista i pochi parlamentari delle Cortes franchiste che vi si erano opposti. L’area dal centro alla destra era pertanto occupata dai due partiti espressi dalle forze provenienti dal vecchio Regime e che avevano accettato la democrazia (l’eterogenea Ucd, destinata a durare ben poco e la più coesa Ap, che poi sarebbe diventato il Pp) mentre la sinistra era destinata a essere egemonizzata dai socialisti anche perché in Europa, compreso il vicino Portogallo da poco democratico (p. 410) era loro la forza dominante, mentre l’eurocomunismo era già in crisi irreversibile. Per queste ragioni, se negli anni Sessanta e nei primi Settanta il protagonismo nell’opposizione di democristiani e comunisti aveva fatto immaginare un esito simile a quello italiano, si era trattato solo di un’illusione (p. 243 e 292). Il legame con l’Europa, la necessità di scegliere tra il pieno ingresso nello spazio economico e politico europeo, incompatibile col Regime precedente, anche con tentativi timidissimi di autoriforma, è l’altra chiave del volume. L’opposizione democratica la assume come leva sin dal 1962 (p. 87) e vari passaggi della Transizione, compresa rinascita del Psoe con nuovi dirigenti non provenienti dall’esilio con l’assistenza soprattutto della Spd tedesca (p. 418), confermano pienamente questa chiave di lettura. Stefano Ceccanti

Da Vox a Podemos: lo stato del populismo in Spagna. Federico Giuliani su Inside Over il 2 agosto 2021. A metà strada tra “ombra” e “spettro” della democrazia. Un “ospite scomodo” che minaccia la tenuta dei sistemi democratici o, secondo altri, un fenomeno politico che ne permette la loro effettiva realizzazione. Il populismo ha una storia piuttosto lunga e si è manifestato, in epoche e forme differenti, in quasi tutto il mondo. Ha tuttavia assunto una certa importanza all’interno del dibattito pubblico occidentale per lo più in seguito alla crisi economico-finanziaria che ha scosso il mondo a cavallo tra il 2007 e il 2013. Da quel momento in poi, un termine che fino ad allora era utilizzato soprattutto da accademici ed esperti, ha iniziato a trovare spazio sui media generalisti. Il popolo contro le élite: ecco la nuova narrazione che di lì a poco avrebbe scardinato gran parte della politica tradizionale e plasmato il modo di ragionare di una buona parte dell’elettorato, stanco di politici e politicanti “di professione”. Dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Regno Unito, dall’Italia agli Stati Uniti, passando per l’America Latina e altre regioni, il nuovo ciclo del populismo è cresciuto su un terreno fertilissimo, coltivato nel corso degli anni da diseguaglianze economiche, diffidenza nei confronti di una classe dirigente percepita distante (se non incapace) e crisi finanziarie varie. Nel lungo periodo, la pandemia di Covid-19 – che dal 2019 ha di fatto paralizzato il pianeta – continuerà a modificare lo scenario politico globale, come in parte ha già fatto. A quel punto, i populismi si troveranno di fronte a un bivio, visto che, in base a come sarà la situazione economica nel post pandemia, questi fenomeni politici potrebbero essere rianimati dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria oppure indeboliti dal ritorno di un sostanziale status quo.

Il caso spagnolo. Iniziamo la nostra analisi relativa al panorama europeo con la Spagna. Al di là della pandemia, questo Paese ha sempre dovuto fare i conti con importanti spaccature, più o meno evidenti in base al periodo storico, tra il governo centrale e i governi locali, molti dei quali fautori di un acceso indipendentismo. In ogni caso, la crisi economica avvenuta nella seconda metà degli anni Duemila ha generato le giuste basi per lo sviluppo di fenomeni populisti nazionali, gli stessi, tra l’altro, che ancora oggi giocano un ruolo rilevante nel sistema politico spagnolo. Due sono le esperienze da citare: quella di Podemos (in italiano “Possiamo”), un partito di ispirazione tendenzialmente socialdemocratica, fondato nel marzo 2014 dal professore universitario Pablo Iglesias Turrion, e quella di Vox, formazione associata alla destra e creata nel dicembre 2013 da alcuni dissidenti del Partito Popolare. Entrambi, dopo periodi di alterne fortune elettorali, sono riusciti a creare i presupposti per poter influenzare le vicende politiche nazionali. Al momento, l’attuale governo della Spagna, presieduto da Pedro Sanchez, si regge su una maggioranza di centro-sinistra formata dal Psoe (Partito Socialista), Psc (Partito dei Socialisti di Catalogna) Iu (Izquierda Unida) e, appunto, Podemos, con l’aggiunta esterna di altri partiti autonomisti.

Podemos e Vox. Alla luce dei fatti, non sarebbe corretto definire Podemos e Vox – il primo al governo, il secondo all’opposizione – dei veri e propri buchi nell’acqua. Ne abbiamo parlato con Marco Tarchi, politologo, tra i massimi esperti in materia di populismo, nonché professore di scienza politica all’Università di Firenze. Tarchi, autore del fondamentale testo Italia Populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (Il Mulino), è sicuro: “Podemos e Vox tutto sommato sono due formazioni politiche venute fuori in parte dal nulla, e che hanno conquistato un potere di condizionamento dei partiti maggiori”. Podemos, infatti, è al governo con i socialisti “e se togliesse il suo appoggio, gli stessi socialisti non potrebbero formare un esecutivo autonomo”, quindi il partito “ha ancora un peso”. Bisogna però fare una considerazione. “Podemos ha deluso i suoi iniziali elettori, perché ha progressivamente abbandonato quelle caratteristiche di parziale superamento delle vecchie fratture sinistra-destra, ed altre fratture sociali che contraddistinguevano la vecchia politica, e si è spostato di più su posizioni di radicalismo di sinistra”, ha ribadito Tarchi. Nonostante il partito abbia perso una parte del suo potenziale elettorale è però “ancora in grado di esercitare il suo ruolo”. Passando a Vox, il discorso è simile a quello fatto per Podemos. “Non direi che abbia avuto questo insuccesso, perché è riuscito a diventare condizionante a sua volta in governi regionali, in particolare in quello dell’Andalusia, ma anche in quello della regione metropolitana di Madrid”, ha fatto notare ancora Tarchi. Come se non bastasse, “sebbene il Partito Popolare si sia spostato più a destra – proprio per bloccare l’emorragia elettorale che aveva avuto, e di cui Vox era stato beneficiario – Vox ha dimostrato nelle elezioni recenti di avere ancora una solida base”. In definitiva, a detta di Tarchi, stiamo parlando di due formazioni che “pur non rappresentando in modo puro, né l’una né l’altra, una forma di populismo, servendosi di forme populiste sono comunque riuscite a entrare nella dinamica di coalizione governativa del loro Paese”. “Da questo punto di vista non possiamo ancora dire che abbiano esaurito il loro compito”, ha concluso ancora Tarchi.

Il populismo nella Spagna odierna. Dovendo dare una definizione al populismo, può essere utile citare quanto scritto nel volume Italia Populista. Possiamo definire il populismo come “la mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione”. Parlando di mentalità, dunque, il populismo può mostrarsi in un determinato soggetto politico in modo più o meno persistente. Oltre a Vox e Podemos, ci sono altri fenomeni populisti nella Spagna attuale? “Alcuni osservatori indicavano come populista una forza politica che secondo me non ha mai avuto quelle caratteristiche, cioè Ciudadanos“, ha spiegato Tarchi. Ciudadanos è un partito nato sì “sulla spinta, come il suo nome dice, di una rivendicazione dei diritti dei cittadini nei confronti della burocrazia statale – e quindi tematiche che appartengono al populismo”, ma è altrettanto vero che è soprattutto “grazie ai successi che ha ottenuto con una linea fortemente anti indipendentista in Catalogna, che ha capito poter esser l’ago della bilancia del sistema politico e partitico spagnolo”. In un secondo momento, Ciudadanos ha teso a diventare “prima una forza socialconservatrice, poi social liberale, anche se adesso è stata fortemente svuotata del suo consenso e ha virato verso il centro”.

Indipendentismo e populismo. L’indipendentismo, spesso etichettato da alcuni giornalisti ed esperti di essere populista, che rapporti ha con questo fenomeno politico? Tarchi ci tiene subito a chiarire: “L’indipendentismo è accusato dai suoi nemici di essere populista perché rivendica il primato del popolo. Ma il primato del popolo degli indipendentisti catalani, ad esempio, è in realtà il primato della nazione catalana contro il centralismo – reale o supposto – castigliano. E quindi, a mio parere, rientra in un’altra categoria”. Dobbiamo, semmai, parlare di movimenti che, almeno nella loro origine, possono essere definiti etno-nazionalisti, che si basano su caratteristiche come l’uso quotidiano della lingua, la rivendicazione della propria diversità nelle abitudini, e via dicendo. Ebbene, i suddetti movimenti “hanno qualche caratteristica populista, ma da un certo punto di vista siamo sempre al solito discorso. Ci può essere nella politica un uso del populismo un po’ in tutti gli ambienti”, ha affermato Tarchi. “La mia considerazione di un movimento, per definirlo populista, implica che questo abbia sostanzialmente le caratteristiche che attribuisco alla mentalità populista. Se ne fa un uso parziale e strumentale, a mio parere, si fa un torto alla verità chiamando populista questo gruppo. D’altronde sono proprio gli indipendentisti catalani che contrastano questa etichettatura sostenendo che con il populismo non hanno niente a che fare”, ha concluso Tarchi. 

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 6 luglio 2021. Stasera sarà battaglia; e non solo sportiva. Perché la fratellanza tra italiani e spagnoli è uno dei grandi equivoci della storia. Nella realtà, i due popoli si sono combattuti e detestati per secoli. La Spagna era la potenza egemone, talora occupante. Milano era governata dagli spagnoli, e neanche troppo bene, come ricorda Manzoni. Il Papa, dopo le tremende prove del valenciano Borgia, poteva essere italiano; ma doveva essere amico. Gli spagnoli si permettevano il lusso di un proprio Stato, detto non a caso dei Presìdi, tra la Toscana e Roma; e consideravano il Regno di Napoli come roba loro. Artisti e musicisti, da Tiziano a Farinelli, partivano per la corte di Madrid. Persino quando italiani e spagnoli si allearono, come a Lepanto, gli screzi furono tali che il patto venne subito infranto: fino all' assedio di Famagosta e già qualche mese dopo la battaglia, la Repubblica veneta si trovava meglio con i turchi del sultano Selim II, la cui favorita e madre dell'erede al trono era veneziana. Appena avemmo l'occasione, pure noi tentammo di farci valere. Amedeo di Savoia, figlio cadetto di Vittorio Emanuele II, divenne re di Spagna, da dove fuggì rapidamente per avere salva la vita. Nella guerra civile spagnola gli italiani combatterono su entrambi i fronti. I fascisti si macchiarono di orribili atrocità nelle Baleari, che il Duce sognava segretamente di annettersi, fino a quando Franco non gli fece capire che non era il caso: davanti alle stragi ordinate dal sedicente conte Rossi - si chiamava in realtà Arconovaldo Bonacorsi -, il cattolico conservatore Georges Bernanos si convertì alla causa repubblicana, e scrisse «I grandi cimiteri sotto la luna». Quando poi il regime esaltò la presa di Santander, l'inviato Indro Montanelli scrisse: «È stata una lunga passeggiata con un solo nemico, il caldo». Negli anni della lunga gelata franchista, l'Italia del boom economico guardava ai cugini latini con un sorriso benevolente, finendo quasi per crederli un popolo fraternamente innocuo. Madrid ci era propizia: nel 1982 vincemmo il Mondiale di calcio della rinascita; dieci anni dopo il Settebello della pallanuoto sconfisse la Spagna in una mitica finale alle Olimpiadi di Barcellona, dopo sei tempi supplementari, con Juan Carlos - nato e cresciuto a Roma - affranto in tribuna. E invece. Non soltanto le Furie rosse, che nel calcio non ci battevano dai tempi di Zamora, nel 2008 ci eliminarono dagli Europei; nello stesso anno il governo spagnolo annunciò il sorpasso nel Pil procapite (il nostro governo negò, e subito dopo venne la grande crisi a rendere vana la discussione). Telefonica-Telecom e Abertis-Autostrade trattarono fusioni e separazioni. Sabina Guzzanti girò «Viva Zapatero!», simbolo dello spirito libertario lontano dall' Italia ruinian-berlusconiana; e pazienza se poi Zapatero non ha fatto una grande fine. I nostri figli e nipoti partivano in massa per Barcellona, prima che la Catalogna si infilasse nel labirinto secessionista. Le mamme ascoltavano Julio Iglesias, che parlava benissimo italiano come anni dopo il suo omonimo Pablo, aspirante rivoluzionario che citava Gramsci e Berlinguer. Si andava al cinema per i film di Almodovar, dove i padri diventavano madri e Penelope Cruz una suora sieropositiva; ma i cattolici tradizionalisti seguivano il «santo» chitarrista Kiko Arguello, che ebbe pure lui i suoi guai, mentre dopo Giussani Comunione e Liberazione si affidava a Julian Carron, nato in Estremadura, la regione di Javier Cercas, il grande scrittore che ama l'Italia. Insomma, i punti in comune sono molti; ma non siamo fratelli, anzi siamo quasi sempre stati rivali. L' equivoco nasce forse dalla percezione distorta che l'Italia ha della Spagna, e viceversa. Se gli spagnoli pensano l'Italia come un'immensa Napoli, con il sole la pizza il mandolino gli spaghetti, noi pensiamo la Spagna come una grande Andalusia, i tori le corride le spiagge il gazpacho. La Spagna verde, atlantica, zitta, diffidente, ci è estranea; sono posti dove non si va in vacanza e che non si vedono in tv. Un' antica diceria popolare iberica, radicata nei secoli del declino e delle guerre civili, racconta che la Spagna sia nata sotto una cattiva stella; in Italia avevamo inventato invece la leggenda dello stellone. Invece oggi - secondo le statistiche - gli spagnoli sono il popolo più ottimista d' Europa, o comunque il più allegro, e noi il più pessimista. La loro cultura calcistica è all' insegna del possesso palla, la nostra è molto più prudente, almeno fino all' arrivo di Mancini. Stasera ce la giochiamo, tra atleti e tra popoli che si conoscono e si stimano; ma che restano diversi. 

Roberto Pellegrino per "il Giornale" il 10 marzo 2021. Si complica il futuro dell'ex presidente disobbediente della Catalogna, Carles Puigdemont, assieme ai suoi ex consiglieri Toni Comin e Clara Ponsatì. Il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria, ha revocato ieri l'immunità ai tre esponenti politici del separatismo catalano che si erano rifugiati a Bruxelles nell' inverno del 2017, per sfuggire a un ordine di cattura del Tribunale Supremo di Spagna per disobbedienza, ribellione e sedizione. Il Parlamento di Louise-Weiss a Strasburgo, presieduto da David Sassoli, rispondendo a un ordine di cattura europeo dei magistrati di Madrid, ha deciso singolarmente per Puigdemont, Comin e Ponsatì che hanno tutti avuto una media di 400 voti a favore della richiesta e 240 contrari. La perdita dello scudo dell'immunità, ora consentirà di ridare valore ai mandati europei emessi dall' Audencia Nacional: sarà il tribunale del Belgio, dove attualmente risiedono i tre ribelli, a decidere sulla loro estradizione. Puigdemont, da Bruxelles, dove risiede dal 2017, dopo la decisione di Strasburgo, ha parlato di «persecuzione politica», aggiungendo che «oggi è un giorno triste per il Parlamento europeo». L' ex numero uno della Catalogna assieme ai suoi consiglieri furono accusati di disobbedienza, ribellione e sedizione, per Puigdemont c' era anche la malversazione di denaro pubblico. I tre si resero protagonisti del quasi colpo di Stato contro Madrid, celebrando, prima il referendum per l' autodeterminazione e separazione della Catalogna, benché gli ammonimenti dell'allora premier Mariano Rajoy e della Corte Costituzionale. Poi, peggiorarono la loro situazione, chiudendosi nel Parlamento di Barcellona e proclamando con i principali partiti autonomisti, per voce di Puigdemont e del vice Oriol Junqueras la «Repubblica Indipendente di Catalogna», strappando con Madrid. La Capitale s' infuriò e inviò forze aggiuntive della Guardia Civil per domare le violente rivolte di strada che produssero centinaia di arresti e feriti tra manifestanti e agenti di polizia. Poi Rajoy commissariò la Comunità autonoma catalana, nominando commissaria la sua prima vicepresidente María Soraya Sáenz de Santamaría Antón, cosa che fece ancor più infuriare i separatisti che la ritenevano la peggior delfina del Partito Popolare. I giudici dell' Audencia ordinarono l' arresto immediato di Puigdemont che, nel frattempo era fuggito in Belgio, e di altri 14 politici catalani, di cui due sostenitori. Tra questi, Junqueras, capo del partito della Sinistra Repubblicana Catalana (Erc) decise di consegnarsi alla giustizia che lo rinviò a processò il 14 ottobre del 2019, condannandolo a una pena di 13 anni di carcere per disobbedienza, sedizione e uso di fondi pubblici per organizzare il referendum illegale. Assieme alla notizia della perdita dell' immunità di Puigdemont, Comin e Ponsatì, è giunta quella dello stop al regime di semilibertà per Junqueras e altri sei indipendentisti condannati nel 2019. Il Tribunale di sorveglianza della Catalogna un anno fa, in occasione delle legislative spagnole e poi delle amministrative catalane, aveva dato la semilibertà ai 7 condannati, tra cui gli ex consiglieri Jordi Turull, Josep Rull, Raul Romeva e Joaquim Forn, e i leader delle associazioni civiche Anc e Omnium, Jordi Sanchez e Jordi Cuixart. Ora gliela ha tolta. Sull' estradizione a Puigdemont e ai due consiglieri, invece, deciderà la giustizia belga che finora si è sempre espressa contrariamente, non riconoscendo alcuni capi d' accusa.

Caso Puigdemont, il sollievo del governo italiano: evitato un caso internazionale. Emanuele Lauria, Alessandra Ziniti Vecchio su La Repubblica il 24 settembre 2021. Gli agenti aspettavano l’eurodeputato in aeroporto. La Lega attacca: responsabilità politiche. Il patto con la Ue violato da Madrid.  Il sentimento più diffuso nel governo, a fine giornata, è il sollievo. La soddisfazione per il fatto che la vicenda Puigdemont si sia chiusa nel giro di poche ore, con il riconoscimento della legittimità di un arresto deciso ufficialmente in piena autonomia dalla polizia di frontiera di Alghero ma anche con una ritrovata condizione di libertà dell'ex presidente della Catalogna che lascia tutti gli scenari aperti ma che soprattutto evita il deflagrare di un caso internazionale.

Da corriere.it il 24 settembre 2021. Per la giudice della Corte d’Appello di Sassari, Plinia Azzena, l’arresto di Carles Puigdemont non è illegale. Tuttavia, accogliendo anche la richiesta in tal senso della procuratrice generale Gabriella Pintus, la giudice ha stabilito che non c’è motivo di applicare a carico dell’ex presidente della Catalogna alcuna misura cautelare. La vicenda tuttavia non si esaurisce qui, perché resta da stabilire se Puigdemont dovrà essere estradato o meno. Sino a quel momento dovrà rimanere in Sardegna. L’udienza odierna di convalida si è svolta in videoconferenza tra il tribunale e il carcere di Sassari. L’esito è stato reso noto su Twitter dalla presidente del Parlamento catalano Laura Borras: «Puigdemont è libero senza misure cautelari!». L’ordinanza della giudice Azzena viene invece definita «imminente, tra mezz’ora o un’ora» da parte dell’avvocato italiano di Puigdemont, Agostinangelo Marras. Sempre secondo il legale, alla domanda se intenda tornare in Spagna, l’indipendentista ha risposto di no. Resta dunque da risolvere il rebus sullo status giuridico del leader indipendentista catalano: la magistratura spagnola ha infatti emesso un ordine di cattura internazionale ma per l’avvocato difensore il provvedimento è «neutralizzato» dall’immunità di cui Puigdemont gode in quanto europarlamentare. Lo «scudo» di cui il politico dovrebbe beneficiare è oggetto da mesi di ricorsi alla Corte Ue del Lussemburgo; di fatto Puigdemont, dal giorno della sua elezioni all’assemblea di Strasburgo, avvenuta nel 2019 ha potuto girare liberamente senza mai essere sottoposto a restrizioni (ma non è più tornato in Spagna, dove il mandato di cattura è sempre stato in vigore).

Il giallo diplomatico. Il leader catalano Puidgemont arrestato ad Alghero, i dubbi sulla validità del fermo. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 24 Settembre 2021. La Corte Europea di Giustizia gli aveva garantito la sospensione dello status di ricercato, ma com’è, come non è, l’Italia non ha esitato un istante a mettergli le manette ai polsi. L’ex presidente catalano Carles Puigdemont è stato arrestato in Sardegna, dove il leader indipendentista si era recato per partecipare ad una serie di incontri. Non è chiaro se il governatore sardo, Solinas, era stato avvisato dell’arrivo dell’ex governatore catalano. Certamente il suo atterraggio era atteso: come si legge sulla pagina Facebook del politico catalano, il fermo è avvenuto all’aeroporto di Alghero. Puigdemont – che secondo l’Adnkronos è stato trasferito in carcere a Sassari – era atterrato sull’isola perché nei prossimi giorni avrebbe dovuto partecipare all’edizione annuale dell’Adifolk, festa internazionale della cultura popolare catalana. Oggi Puigdemont dovrebbe essere messo a disposizione della magistratura, chiamata a decidere se rilasciarlo o acconsentire alla sua estradizione in Spagna, dove è in corso un procedimento giudiziario per la dichiarazione di indipendenza della Catalogna nel 2017. Il suo avvocato Gonzalo Boye scrive su Twitter che Puigdemont si stava recando in Sardegna “come eurodeputato”. La sua cattura, sostiene Boye, sarebbe avvenuta “in base ad un ordine di arresto internazionale del 14 ottobre 2019 che, per imperativo legale – secondo lo statuto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – è stato sospeso”. Il legale precisa che l’ex numero uno della Catalogna avrebbe goduto del pieno diritto di viaggiare e di prendere parte all’evento pubblico, posto che “nella risoluzione del 30 luglio del Tribunale dell’Ue che avallava la revoca dell’immunità parlamentare per Puigdemont, la Spagna aveva garantito che nessun Paese avrebbe eseguito un mandato d’arresto di questo tipo”. Nella stessa delibera, aggiunge ancora Boye, “il Vicepresidente del Tribunale aveva indicato che, ove necessario, si sarebbe chiesta una nuova misura cautelare”. Secondo fonti giuridiche consultate da El País, l’ordine di arresto è invece ancora in vigore. Chiarimenti urgenti sono attesi in giornata.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Nicola Pinna per “La Stampa” il 25 settembre 2021. Ha dormito bene, ma ha mangiato la pasta fredda e persino scotta, Carles Puigdemont. E in meno di venti ore dietro le sbarre, non ha avuto neanche il tempo di capire quali fossero le regole da rispettare nel carcere di Sassari. Le visite ieri mattina sono iniziate presto. Prima l'avvocato, poi un senatore sardista, poco dopo un consigliere regionale e infine il presidente della Regione, che al leader separatista catalano ha portato la solidarietà dello storico partito autonomista della Sardegna. Spilletta sul petto e storiche rivendicazioni da rispolverare. Detenuto speciale, «trattato con rispetto, qui non ho avuto paura», dice lui. «Non ce l'ho con la giustizia italiana, ma con quella spagnola», racconta a uno dei politici che vanno a trovarlo in cella. All'uscita, dopo la liberazione decretata in un'ora di udienza dalla Corte d'appello di Sassari, avrebbe sì qualcosa da dire ma non c'è tempo di fermarsi davanti ai microfoni. Sventolano le bandiere, si crea la ressa, c'è gente che spinge e i 700 catalani sbarcati a Porto Torres di buon mattino fanno coro insieme agli indipendentisti sardi. È un po' caos e un po' festa. Puigdemont riesce solo a bisbigliare qualcosa ai microfoni delle tv spagnole: «Continuerò a combattere e poi sarò qui per l'udienza». Promette che tornerà, il 4 ottobre, quando i giudici dovranno decidere se accordare o no la richiesta di estradizione avanzata subito dal governo spagnolo. Ma c'è un'opzione da tenere in considerazione: se Carles Puigdemont non tornerà in Sardegna, la Corte d'appello dovrà semplicemente dichiarare il "non luogo a procedere" e così il caso sarà chiuso definitivamente. D'altronde il nemico giurato del governo di Madrid potrà in questi giorni andare dove vuole. E l'avvocato Agostinangelo Marras, che ieri lo ha difeso chiamandolo sempre "presidente", l'ha spiegato chiaramente: «Non è sottoposto ad alcuna misura cautelare, per cui potrà andare dove vuole. D'altronde neanche il procuratore generale ha chiesto al giudice l'applicazione di alcuna misura restrittiva». Il primo sassolino dalla scarpa, visto il caos davanti al cancello del penitenziario, l'organizzatore del clamoroso referendum del 2017 se lo toglie via Twitter: «La Spagna non perde occasione per apparire ridicola». È già l'ora del tramonto, davanti al cancello del carcere di Bancali restano solo due bandiere: quella catalana e quella dei quattro mori. Tutti si spostano ad Alghero, dove Carles Puigdemont è l'ospite più atteso: la festa, nella città sarda che di Barcellona si sente una specie di frazione, aveva davvero rischiato di spegnersi. Il blitz della polizia in aeroporto nessuno lo temeva, ma dalle manette all'udienza sono passate 20 ore che sembravano un secolo. La decisione del giudice di Sassari, alla fine, ha rianimato i militanti, i tanti che erano già pronti a far arrivare qui anche altri i rinforzi e a trasformare un evento culturale in un weekend di proteste. Invece, il venerdì sera è diventato una festa collettiva, tra i bastioni e il porto, dove i nomi delle vie sono tutti scritti in catalano. E sembrava proprio un paradosso che l'arresto di Puigdemont sia scattato proprio qui, nella città in cui si parla la stessa lingua, nell'isola che come la Catalogna ha una storia lunga di rivendicazioni indipendentiste. Gli striscioni dei movimenti locali, quelli che quasi mai sono riusciti a portare avanti una campagna elettorale uniti, stavolta ci sono tutti. Insieme, a dare forza allo stessa rivendicazione: «Libertà per Carles Puigdemont». Per sottolineare il concetto, quando si conosce già la decisione del giudice, arriva a Sassari il presidente della Regione, Christian Solinas, che è anche il segretario nazionale del Partito sardo d'azione: «Doveroso essere qui, per portare la nostra solidarietà a un prigioniero politico». Non la pensa esattamente così ma quasi, la giudice Plinia Azzena, che scrive in poche righe la sentenza più attesa più attesa d'Europa: arresto legittimo, ma non necessaria la custodia cautelare. L'ordine è preciso: «Scarcerazione immediata». Il presidio dei militanti e delle tv di mezzo mondo si sposta velocemente: dopo ore passate davanti al tribunale si corre verso l'ingresso del carcere. Si sentono applausi e ovazioni, mentre l'avvocato cerca di spiegare la decisione. Carles Puigdemont, che forse tornerà a Bruxelles dopo il festival del folk, si fa risentire dopo alcune ore: «Molte grazie a tutti coloro che si sono preoccupati per me e mi hanno sostenuto in queste ultime ore. La lotta non si ferma».

90 anni fa la proclamazione. Storia della Spagna: 1931, quando fu proclamata la Seconda Repubblica. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 14 Aprile 2021. Il 14 aprile 1931, poche ore dopo che a Barcellona era stato proclamato da Francesc Macià, leader di Esquerra Repubblicana, lo Stato catalano, sia pure nell’ambito di una futura federazione iberica, veniva anche proclamata in Spagna la Seconda Repubblica e poco dopo si costituiva un governo provvisorio repubblicano sotto la guida del moderato Alcalà Zamora. La storia costituzionale spagnola prima di quel periodo si era già caratterizzata per un’instabilità di fondo delle Costituzioni e dei regimi politici: basti vedere l’elenco offerto dall’ottimo sito dell’Università di Torino sulle Costituzioni storiche. All’instabilità di fondo non avevano fatto eccezione le modalità quasi rocambolesche e impreviste con cui si era giunti a quell’esito e non avrebbero fatto eccezione neanche le vicende successive della Seconda Repubblica. Dopo l’esaurimento del consenso alla dittatura di Primo De Rivera l’anno precedente e l’instaurazione di una cosiddetta “dittablanda”, un periodo di transizione governato da Corona e militari, le elezioni comunali indette per il 12 aprile dal nuovo Governo del generale Aznar-Cabañas, avevano dato una sorprendente maggioranza ai repubblicani nelle aree urbane, comprese quelle della Catalogna, in cui il voto era più libero. Era un contesto delicatissimo. Infatti erano aperte in quel momento simultaneamente molte gravi questioni: sociale, religiosa, militare, agraria e autonomistica. Il Re decise di fuggire senza abdicare. Il Governo provvisorio indisse quindi elezioni per un’Assemblea Costituente in cui si affermò di nuovo una maggioranza radical-socialista che dichiarò il Sovrano colpevole di alto tradimento e giunse ad approvare la nuova Costituzione nel successivo dicembre. Un testo quasi sconosciuto in Italia se non grazie a un bel commento di Franco Pierandrei del 1946 nella collana predisposta dal Ministero per la Costituente. Il testo esordiva parlando nel suo articolo 1 di “Repubblica democratica di lavoratori di ogni classe”, con un evidente intento di compromesso tra forze diverse. Analogo intento vi era, sempre nel medesimo articolo 2 con l’originale definizione di “Stato integrale compatibile con la autonomia dei Municipi e delle Regioni” per riconoscere le aspirazioni dei movimenti regionalisti, a cominciare dalla Catalogna, che avevano contribuito in modo decisivo alla caduta della Monarchia. Ad essa si raccordava anche la tutela delle lingue regionali prevista dall’articolo 4. Tra i principi qualificanti del Titolo preliminare vi erano anche agli articoli 6 e 7 il ripudio della guerra come strumento della politica nazionale e l’apertura al diritto internazionale nel nuovo clima segnato dalla Società delle Nazioni. Il principio decisamente più rivoluzionario era quello del rifiuto della religione di Stato, affermato nell’articolo 3. Le parti successive della Costituzione sviluppavano poi questi principi in modo diverso. Lo “Stato integrale”, visto come intermedio tra quello centralizzato e quello federale, manteneva ferme le premesse di una ricerca di equilibrio e di compromesso. L’articolo 12 dava a ciascuna Regione l’iniziativa per il proprio Statuto, che doveva però alla fine essere approvato dal Parlamento. Gli elenchi di materie per le competenze di Stato e Regioni erano poi analoghi alla Costituzione tedesca di Weimar del 1919 e a quella austriaca del 1920: nell’articolo 14 erano previste quelle esclusive dello Stato, nel 15 quelle in cui alle Regioni era data competenza esecutiva modulata dal Parlamento e il 16 stabiliva una competenza residuale delle Regioni. Il primo e unico Statuto approvato fu quello catalano il 21 settembre 1932, mentre quello basco non riuscì ad arrivare fino a quella tappa. Viceversa la separazione tra Stato e Chiesa cattolica era costruita con intento palesemente ostile, non solo escludendo finanziamenti ma anche costituzionalizzando la soppressione dei gesuiti in quanto prevedevano un vincolo di obbedienza speciale al Papa visto in contraddizione con la fedeltà allo Stato e una serie di limiti molto stretti anche per gli altri ordini religiosi (art. 26). Anche la libertà religiosa in genere era vista con sospetto: tutte le manifestazioni pubbliche della medesima erano soggette ad autorizzazione preventiva (art. 27). Queste norme ebbero effetti gravi ed immediati sui lavori della Costituente: suscitarono il ritiro degli esponenti cattolici dai lavori dell’Assemblea e le dimissioni di Alcalà Zamora dalla guida del governo contribuendo a renderla una Costituzione di parte, non condivisa.

Ciò nonostante, il testo aveva indubbi pregi per l’epoca come il suffragio universale femminile (art. 36), il riconoscimento dei sindacati (art. 39), l’uguaglianza tra i coniugi (art. 43), più in generale un ampio riconoscimento dei diritti sociali, seguendo il modello di Weimar, un Tribunale Costituzionale (articoli da 121 a 124) e una procedura rigida per la revisione (art. 125). Secondo l’impostazione delle sinistre, e nonostante il carattere regionale dello Stato, per il Parlamento fu fatta una scelta monocamerale con alcuni tratti assembleari: la Camera poteva sfiduciare non solo il governo, ma anche i singoli ministri (art. 64) e il deterrente dello scioglimento anticipato era disincentivato prevedendo che ove il capo dello Stato, nel corso del suo mandato di sei anni, avesse proceduto a un secondo scioglimento il primo atto della nuova Camera avrebbe dovuto essere il voto su una possibile destituzione (art. 82). Norma di cui fu vittima Alcalà Zamora che nel frattempo era stato recuperato alla fine dell’approvazione del testo con l’elezione a Capo dello Stato. La Costituente proseguì poi i lavori per varare alcune importanti riforme legislative, a cominciare dalla espropriazione e socializzazione dei latifondi e dalla nazionalizzazione delle fabbriche. Ciò mobilitò larga parte dell’opinione pubblica contro la maggioranza uscente e portò le destre a vincere nelle elezioni del 1933. Nelle successive elezioni del febbraio 1936 tornarono a vincere le sinistre, confermando una frattura che poi sfociò nella Guerra Civile. Queste vicende furono ben presenti ai Costituenti spagnoli nel 1977 che si prefissero non solo la redazione di un ottimo testo, ma anche di un “nucleo del consenso” come lo definì uno degli autori, il socialista Peces Barba, che partisse primariamente dai due partiti più forti che avrebbero dovuto alternarsi al Governo (Ucd e Psoe), ognuno dei quali avrebbe dovuto anche coinvolgere l’altra forza politica minore del suo schieramento, Ap a destra (il futuro Pp, che poi divenne egemone a destra, una volta esplosa l’Ucd) e il Pce a sinistra. Anche lo specifico rapporto tra Stato e Chiesa cattolica fu risolto per tempo, già prima del lavoro costituente, con una separazione questa volta non ostile, che combinava aconfessionalità dello Stato con rapporti pattizi con la Chiesa cattolica e con altre confessioni religiose. Non del tutto risolto è stato invece il rapporto Stato-Regioni, pagina lasciata sostanzialmente aperta nel testo e principale oggetto di conflitti negli ultimi anni. La lezione, comunque, del 1931 fu appresa bene nel 1977-1978: i testi costituzionali non poggiano solo sulla forza dei loro enunciati, ma sulla capacità di costruzione di un consenso sociale e politico, che regga anche alle alternanze di governo.

L'anniversario. Golpe Tejero, storia del colpo di stato fallito che fece fiorire la Terza Spagna. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Rivedremo in questi giorni da più parti le immagini del tenente colonnello Tejero che irrompe armato nell’aula della Camera dei deputati spagnola quarant’anni fa, il 23 febbraio. A prima vista, soprattutto a chi non conosce la storia di allora, apparirà un episodio grave, ma del tutto velleitario e a tratti ridicolo, come quello dell’attacco al Parlamento che abbiamo visto recentemente negli Stati Uniti d’America. La Spagna è oggi una democrazia consolidata e quindi questa lettura tranquillizzante sembra essere del tutto ragionevole. Tuttavia questa razionalizzazione ex post deve essere respinta almeno in parte come semplicistica. Agli innamorati di romanzi storici può bastare per capire il quadro il bellissimo testo di Cercas Anatomia di un istante, su cui trovate qui una recensione di qualche anno fa. L’anno scorso, però, è uscita la nuova edizione del volume storico di Paul Preston El triunfo de la democracia en Espana che consente di cogliere in modo ancor più sistematico i punti di forza e di debolezza della democrazia spagnola in quella fase. L’interpretazione complessiva di Preston fa leva sulla “terza Spagna”, quella parte di Paese che voleva superare, integrandosi nell’Europa delle democrazie consolidate, la frattura tra vincitori e vinti della Guerra Civile che invece Franco, nonostante il lifting successivo alla seconda Guerra Mondiale, dopo la sconfitta dei nazifascisti, e contrariamente a quanto sostiene una parte della storiografia di destra, aveva voluto sempre perpetuare. È grazie a due elementi che la democrazia si stabilizza: dal basso, la terza Spagna, che trascina i vinti del 1936-1939 e larga parte dei vincitori; dall’alto, la fermezza della Monarchia, che così guadagna una nuova “legittimità di autorità” nonostante che il re Juan Carlos fosse giunto alla Corona voluto da Franco. Grazie a entrambi i fattori, sociale e istituzionale, i ripetuti tentativi di golpe, di cui quello del 23 febbraio 1981, fu solo il più noto, falliscono, anche se la situazione era potenzialmente ancora incerta, poteva degenerare in un grave conflitto. La terza Spagna era silente dopo le prime elezioni democratiche e l’approvazione della Costituzione nel 1978. Quella fase di riflusso, di “desencanto” come veniva descritta allora, talora forzando i toni in senso negativo da parte dei media, portò secondo Preston i militari a una conclusione erronea, cioè che i cittadini fossero anche disponibili al ritorno a un passato autoritario. Non era affatto questa la volontà della “terza Spagna”, né di gran parte degli altri due campi contrapposti nella Guerra Civile. Ciò non significa però che gli esiti fossero scontati in un senso pacifico e tranquillo. Gli elementi di debolezza sul terreno istituzionale, oltre a quelli specificamente economici prima che l’intervento del Re in Tv alle 1.15 del 24 febbraio non portasse al fallimento del golpe, vengono puntualmente ricostruiti dallo storico inglese. In primo luogo lo stato confusionale del partito che aveva gestito la transizione, la Ucd di Suarez, un insieme molto eterogeneo quasi come la Dc italiana. Solo che la Dc aveva trovato nell’egemonia comunista a sinistra un collante formidabile, fino a che è durato, mentre qui la leadership riformista di Gonzalez col doppio congresso del 1979 (in cui sbaraglia la componente della sinistra tradizionalista) e col dibattito parlamentare in cui presenta una mozione costruttiva non per vincere in Parlamento ma per presentarsi al Paese come alternativa pronta, è già in grado di attrarre l’elettorato centrista e di accelerare la dissoluzione dell’Ucd. Tant’è che vincerà alla grande nel 1982 e sarà dura per la destra spagnola ricostruire un’alternativa credibile a partire dal partito postfranchista Ap, che poi evolverà nel Pp. La crisi dell’Ucd porta alle dimissioni di Suarez e alla designazione per mancanza di meglio, del debole, “taciturno”, Calvo Sotelo, un vuoto di potere in cui irrompe Tejero. La Camera stava infatti votando l’investitura al nuovo Governo in seconda votazione a maggioranza relativa, dopo aver fallito la prima a maggioranza assoluta. In secondo luogo, altra importante debolezza, il ruolo persistente del terrorismo dell’Eta che cercava di provocare nei militari la reazione securitaria in senso opposto e che veniva a sommarsi alle preoccupazioni dei militari e dei settori centralisti per l’avvio effettivo del processo di regionalizzazione, che non è ben delimitato dal testo costituzionale e che è quindi aperto a esiti politici più diversi. Un nodo tuttora aperto e che genera conflitti in modo ricorrente. Il 27 febbraio tre milioni e mezzo di spagnoli manifestarono in piazza a favore della democrazia. Furono per Preston la fine del “desencanto”. In altri termini Tejero aveva provocato in pochi giorni una gigantesca eterogenesi dei fini: si era mosso seguendo il modello di Pinochet. Mentre parte dei registi voleva utilizzarlo per imporre un governo di emergenza, ma aveva finito per dimostrare il contrario, il radicamento popolate della democrazia.

Da ansa.it l'11 febbraio 2021. La televisione pubblica spagnola Tve è in finita al centro di polemiche dopo aver mostrato uno striscione con una scritta che l'opposizione ha giudicato offensiva nei confronti della famiglia reale. Il tema è la partenza della 15enne erede al trono Lenor, figlia del re Felipe e della regina Letizia, per un periodo di studi in Galles. Nel sottopancia televisivo si leggeva: "Leonor lascia la Spagna come suo nonno" con riferimento all'esilio di re Juan Carlos ad Abu Dhabi dopo essere stato coinvolto in diverse inchieste per corruzione. I gruppi politici di destra all'opposizione hanno immediatamente protestato, accusando il gruppo Rtve, emittente pubblica cui fanno capo la televisione Tve e la radio Rne, di essere al soldo del governo guidato dal socialista Pedro Sanchez: "La deriva di Rtve non ha ormai limiti, arriva ad attaccare la Corona", ha denunciato il Partido Popular su Twitter. Dai vertici di Tve è giunta intanto l'ammissione di un "grave errore" nel mostrare tali immagini. La principessa Leonor, erede al trono, frequenterà il liceo dal prossimo anno presso l'istituto scolastico United World Colleges (UWC), l'UWC Atlantic College in Galles (Regno Unito), il cui costo, stimato in 67.000 sterline (76.500 euro), sarà pagato dai reali con la loro indennità annuale. La primogenita del re Felipe inizierà a frequentare la scuola tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, riferisce la Casa Reale in un comunicato pubblicato dall'agenzia Efe. La principessa renderà compatibile questo periodo di educazione con "il progressivo sviluppo dei suoi impegni istituzionali in Spagna", aggiunge la nota.

Il cantante si era barricato nell'università di Lleida. Chi è Pablo Hasél, il rapper arrestato per le canzoni contro la Monarchia spagnola. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. È stato arrestato stamattina il rapper spagnolo Pablo Hasél, condannato a nove mesi di carcere per aver scritto canzoni offensive nei confronti della corona spagnola e secondo l’accusa a favore del terrorismo. L’artista, al secolo Pablo Rivadulla i Durò, si era barricato ieri nell’Università di Lleida, nella comunidad della Catalogna, per evitare di essere arrestato. Hasél ha 33 anni. Il tribunale ha considerato alcune sue canzoni un insulto alla Corona oltre che apologia di terrorismo. Avrebbe dovuto costituirsi venerdì scorso. Ha passato la notte nel rettorato dell’università con altri studenti. È stato quindi arrestato martedì mattina, intorno alle 6:30, dopo un blitz delle teste di cuoio, i Mossos d’Esquadra. Decine di agenti, una ventina di furgoni. All’esterno dell’università una cinquantina di sostenitori del rapper che gridavano: “Libertà per Pablo Hasél!”, mentre questo veniva tratto in arresto dalla polizia. “Morte allo stato fascista!”, ha gridato Hasél passando davanti agli studenti e ai giornalisti. È stato trasportato al carcere Ponent di Lleida. Nessun incidente violento e nessun ferito. Alcuni momenti di tensione all’inizio dell’operazione degli agenti quando gli studenti hanno lanciato oggetti e svuotato estintori per complicare l’ingresso dei Mossos. I sostenitori di Hesél avevano costruito barricate con sedie e tavoli incatenati. Già nel 2014 l’artista era stato condannato a due anni di carcere per incitamento al terrorismo. Altre due denunce tra il 2017 e il 2018, per resistenza a pubblico ufficiale e violazione di domicilio. “Con la sua storia delittuosa risulterebbe assolutamente discriminatorio nei confronti di altri accusati, e anche una grave eccezione individuale nell’applicazione della legge, totalmente carente di giustificazione, sospendere l’esecuzione della pena”, ha argomentato il tribunale che ieri ha rifiutato la sospensione della pena. A sostegno del rapper 33enne anche stelle del cinema e dello spettacolo come il regista Pedro Almodovar, l’attore Javier Bardem, il cantante catalano Joan Manuel Serrat. Questi hanno firmato una petizione contro l’arresto di Hasél. Anche Amnesty International ha criticato la pena inflitta dal tribunale. Contrari all’arresto il vicepresidente in funzione della Generalitat Pere Aragonés e il partito di sinistra Podemos: aspetto che mette in difficoltà la maggioranza di Madrid. Il governo guidato dal socialista Pedro Sanchéz non sembra intenzionato a concedere la grazia come richiesto dall’alleato Pablo Iglesias di Podemos. Hasél viene accusato per una canzone dove chiama, in un gioco di parole, il Re emerito Juan Carlos di Borbone, Bobòn, invece che Borbon, che significa “sciocco”. La condanna: nove mesi di prigione e 30mila euro di multa. “La base della sentenza – scrive La Vanguardia – è l’esaltazione del terrorismo di ETA, Grapo, Terra Lliure e persino di Al Qaeda in rete e nei testi. Hasél è stato condannato nel 2014 a due anni di carcere, punizione sospesa dalla Corte. Nel 2018 è stato nuovamente processato per lo stesso crimine e un altro di insulti alla monarchia e alle forze di sicurezza”. Sui social anche accuse alla polizia che tortura e uccide manifestanti e migranti da parte del rapper. Il caso Hasél ha un precedente in quello del rapper Valtònyc, condannato a tre anni e mezzo di carcere nel 2018. Quest’ultimo fuggì in Belgio, dove un tribunale non ha deciso per l’estradizione.

Monica Ricci Sargentini per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2021. L'hanno portato via ieri mattina all'alba, tra gli applausi di una cinquantina di manifestanti che si erano barricati con lui nell'università di Lleida, in Catalogna, accatastando sedie e banchi per intralciare la polizia. Un arresto scenografico quello di Pablo Hasel, il rapper diventato un simbolo della libertà di espressione dopo una condanna a nove mesi per il reato di «glorificazione del terrorismo» e insulti alla monarchia. «Morte allo Stato fascista» ha gridato lui con il pugno chiuso in alto mentre gli agenti dei Mossos d'Esquadra lo facevano entrare nell'auto della polizia. «Vinceremo, non ci piegheranno con la loro repressione, mai!», aveva detto poco prima davanti alle telecamere delle tv. Il mandato d'arresto era stato emesso lunedì dalla Corte nazionale dopo che l'artista non si era presentato in prigione volontariamente per scontare la condanna. Lui aveva reso chiaro di ritenere «un'umiliazione indegna» la sentenza e aveva spiegato su Twitter, dove ha oltre 125 mila follower: «Il prossimo potresti essere tu». Come a dire: non viviamo in uno Stato libero e democratico. La sua battaglia ha trovato appoggi illustri come quelli del regista Pedro Almodóvar, dell'attore Javier Bardem e del cantante Joan Manuel Serrat, che hanno firmato, insieme con altre 63 mila persone, la petizione di Amnesty International in cui si chiedeva di evitargli il carcere e di cambiare la cosiddetta ley mordaz a, la legge bavaglio del 2015: «L'incarcerazione di Pablo Hasel è una spada di Damocle sulla testa di tutte le figure pubbliche che osano criticare apertamente le istituzioni dello Stato - si legge nel testo - . Siamo consapevoli che se consentiamo che Pablo venga imprigionato, domani potranno inseguire ognuno di noi, finché non saranno riusciti a silenziare ogni sospiro di dissidenza». La questione imbarazza la coalizione di sinistra al governo, e in particolare il Partito socialista. Tanto che la scorsa settimana, pur senza citare espressamente Hasel, l'esecutivo ha promesso una riforma del codice penale, affinché gli «eccessi verbali nell'ambito di manifestazioni artistiche, culturali o intellettuali» non costituiscano più reato e non portino a pene detentive. La proposta, tuttavia, era stata respinta dall'opposizione conservatrice del Partito popolare e dall'estrema destra di Vox. Ieri, dopo l'arresto, la vicepremier Carmen Calvo aveva detto alla stampa che «mettere in carcere le persone su questioni di libertà d'espressione non dovrebbe accadere in una democrazia come quella spagnola». Hasel, all'anagrafe Pablo Rivadulla Duró, classe 1988, ha scoperto il rap a dieci anni e ha cominciato a registrare le sue canzoni nel 2005. I suoi sono testi crudi e rivoluzionari come «Morte ai Borbone», in cui accusa la famiglia reale di essere l'erede del regime franchista. Il rapper era stato condannato nel 2018 per una canzone sull'ex re Juan Carlos e 64 tweet, tutti pubblicati fra il 2014 e il 2016, che, oltre a descrivere l'ex monarca come un boss mafioso, accusavano la polizia di torturare e uccidere manifestanti e migranti, incitavano all'insurrezione, tirando in ballo più volte l'Eta e il Grapo, due noti gruppi armati ormai estinti, e paragonavano i giudici ai nazisti. Ma ci sono dei precedenti. Hasel era stato accusato in altre tre occasioni di aggressione, violazione di domicilio, insulti alla monarchia, apprezzamento di gruppi armati. Nel 2014 era stato condannato a due anni di carcere per apologia di terrorismo ma non era stato incarcerato perché incensurato. L'anno dopo altri sei mesi per aver aggredito un giornalista. Questa volta, però, è finito in cella.

Francesco Olivo per "la Stampa" il 10 febbraio 2021. Si può finire in carcere per una canzone o un tweet. Potrebbero essere le ultime ore di libertà per Pablo Rivadulla Duro, in arte Hasél, «rapper, poeta e comunista», che nei suoi testi ha insultato il re di Spagna e i politici. Entro domenica il 32enne catalano si deve consegnare in un carcere, dopo la condanna definitiva per «esaltazione del terrorismo e ingiurie alla Corona e alle istituzioni dello Stato», contenute nei testi di canzoni e post sui social dove i membri della casa reale vengono definiti, nel migliore dei casi, «ladroni». Un cantante dietro le sbarre, scenario imbarazzante per un governo progressista come quello di Pedro Sánchez, che infatti prova a correre ai ripari con una riforma delle leggi sul vilipendio. Quello di Pablo Hasél è l' ultimo di una serie piuttosto lunga di casi controversi, nei quali si utilizza il codice penale per censurare contenuti spesso sgradevoli (a volte molto sgradevoli) ma che negli altri Paesi europei non sarebbero materia di processi. Il rapper di Maiorca Valtonyc, dopo aver auspicato, fra le varie provocazioni, «la fucilazione dei Borbone», esaltato le azioni dell' Eta e la morte dei poliziotti, è scappato in Belgio per evitare la prigione e ora vive in «esilio». Prima di lui, il cantante César Strawberry era stato condannato (anche se poi assolto dal Tribunale costituzionale) per una serie di tweet dove ironizzava sulle vittime del terrorismo. Il caso più discusso è quello dell' attore Willy Toledo processato per alcune frasi che «offendevano il sentimento religioso». Una lista troppo lunga per non aprire un dibattito sulla libertà d' espressione in un Paese democratico. La Ong Free Muse, che si batte per la libertà di espressione, nel 2019 ha calcolato 14 casi di artisti condannati in Spagna (maglia nera in Europa in questa categoria). Il mondo della cultura ha lanciato un manifesto di condanna, firmato da oltre duecento artisti, tra i quali il regista Pedro Almodóvar, l' attore Javier Bardem e il cantante Joan Manuel Serrat: «La persecuzioni a rapper, utenti di Twitter, giornalisti, così come altri rappresentanti del mondo della cultura e dell' arte che esercitano il proprio diritto alla libertà di espressione sono diventate purtroppo una costante nel nostro Paese». Per il governo spagnolo l' imbarazzo è evidente, vedere un artista dietro le sbarre è troppo per un governo progressista, per giunta in un momento di tensione interna, con Podemos che mette in discussione il fatto che la Spagna sia «una democrazia compiuta», a causa della presenza dei leader indipendentisti catalani in carcere. Argomento utilizzato, in altro contesto, dal ministro degli Esteri russo Lavrov, per ribattere alle accuse europee per l' arresto di Navlany.

Articolo di Juan Luis Cebrián pubblicato da “La Stampa” l'1 marzo 2021. Il re Juan Carlos I, artefice e fautore dell'attuale democrazia spagnola, potrà diventare un ostacolo per la sua stessa sopravvivenza? Il 23 febbraio scorso, nel 40° anniversario del tentato colpo di Stato militare che stava per porre fine all'allora nascente regime di libertà, in Parlamento si è svolta una commemorazione alla presenza del re Felipe VI, del capo del governo e dei rappresentanti delle forze costituzionali, mentre i leader dei partiti nazionalisti e repubblicani si sono rifiutati di partecipare. Ma l'assenza più evidente è stata quella del vero vincitore di quella notte del 1981: Juan Carlos I di Spagna, re emerito dopo la sua abdicazione, oggi accusato di corruzione dai media e dall'opinione pubblica. Dall'estate dello scorso anno vive negli Emirati Arabi Uniti, in esilio volontario. Le celebrazioni del 23 febbraio sono servite, allo stesso tempo, per rivendicare la monarchia come garante in difesa della democrazia e per denigrarla come responsabile del mantenimento di un ordine neoliberista, erede del franchismo. Nonostante gli sforzi degli indipendentisti catalani o baschi e dei radicali di sinistra per dimostrare che il colpo di Stato del 23 febbraio sarebbe stato una sorta di montatura fallita del potere costituito, non c'è dubbio che sia stato un tentativo dei militari di porre fine alla monarchia parlamentare. Chi tra noi ha avuto l'opportunità di vivere quegli eventi può testimoniare che l'intervento di Juan Carlos è stato decisivo per lo smantellamento del colpo di Stato e il mantenimento e il progresso della democrazia che lui stesso aveva contribuito a costruire. Paradossalmente, l'eroe di quei giorni, restauratore della dinastia borbonica e trionfatore delle libertà, potrebbe finire per essere uno dei principali ostacoli al funzionamento delle istituzioni. La sua relazione con Corinna Larsen, un'intrigante lobbista, già nota per i rapporti con i sostenitori del Cremlino, è alla base dell'attuale discredito, che minaccia di minare il prestigio del sistema. Dopo essere stata lasciata, non ha cessato di accusare l'anziano monarca di loschi affari. La storia è iniziata con accuse infondate di aver incassato una tangente per la concessione dei lavori del treno ad alta velocità tra Medina e La Mecca. Non c'è nulla di provato, ma si è scoperto che Juan Carlos aveva ricevuto dal monarca saudita una donazione di 100 milioni di dollari che non ha dichiarato al fisco e ha dato a Corinna, in regalo, lei sostiene, anche se ne avrebbe chiesto la restituzione. L'inviolabilità della figura del re ha impedito ai giudici di avviare procedimenti nei suoi confronti per evasione, riciclaggio e reati fiscali. Ma, in seguito alle indagini di un procuratore svizzero su consiglieri e fiduciari del monarca, sono state scoperte altre irregolarità commesse quando non era più detentore della corona. Juan Carlos ha lasciato volontariamente la Spagna per non ostacolare l'attuale monarca e danneggiare l'istituzione che incarna. La monarchia come forma di governo è soggetta a un intenso attacco da parte di forze estreme di sinistra, comprese quelle che sostengono l'attuale governo o ne fanno parte, e chiedono l'istituzione di una Repubblica. Lui ha detto che è a disposizione della giustizia in ogni momento e i parenti assicurano che è ansioso di tornare in Spagna. Ma l'autoesilio non ne ha aiutato molto l'immagine. I sondaggi indicano che la monarchia parlamentare continua a godere di un considerevole sostegno e la figura dell'attuale re è apprezzata dalla stragrande maggioranza degli spagnoli. Tuttavia, la Corona è un'istituzione sotto assedio sin dalle guerre dinastiche del XIX secolo. La Spagna, che non ha mai ghigliottinato i suoi re, li ha spesso esiliati. Le due esperienze repubblicane del passato hanno rappresentato un fallimento. La prima ebbe luogo nel XIX secolo dopo la rinuncia di re Amadeo Saboya, invitato dai militari spagnoli ad occupare il trono dopo il rovesciamento di Isabella II. La Repubblica durò appena due anni e si concluse con la restaurazione borbonica nella persona di Alfonso XII, figlio della regina detronizzata. La Seconda Repubblica venne instaurata nel 1931, dopo che il re Alfonso XIII, nonno di Juan Carlos, andò in esilio in Italia. Quest'ultimo nacque a Roma in seguito all'allontanamento dell'intera famiglia reale. Il sistema repubblicano iniziò a crollare nel 1936 con la rivolta militare che provocò la guerra civile e culminò nella dittatura franchista. Nel 1976, dopo la morte del Caudillo, salì al trono Juan Carlos I, designato erede dal dittatore, che tuttavia restituì tutti i suoi poteri alla sovranità popolare, promosse la riconciliazione tra vincitori e vinti e inaugurò l'attuale periodo democratico. Dati i suoi successi, durante il suo regno lo «juancarlismo» conquistò anche molti repubblicani tradizionali. La scrittrice Laurence Debray, figlia del famoso scrittore e giornalista francese Regis Debray, dice di Juan Carlos I: «È un'icona vivente, perché ha adempiuto perfettamente la missione per la quale era stato istruito: ristabilire la monarchia con un carattere duraturo e riconciliare gli spagnoli dilaniati e tormentati dalla guerra civile». I suoi seguaci oggi temono che la delusione causata dal suo comportamento privato poco esemplare degli ultimi anni ne offuschi il primato di campione della democrazia. E molti si chiedono se l'istituzione sopravviverà alla distruzione della sua immagine personale. Al momento, il governo socialista, insieme con l'opposizione conservatrice, sembrano volerla.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 3 dicembre 2021. I diari di un commissario di polizia caduto in disgrazia hanno rivelato che tre delle più grandi aziende spagnole hanno pagato 5,4 milioni di euro a un’ex amante del re Juan Carlos per mantenere segrete le prove della loro relazione. Si tratterebbe di Repsol, Santander e Telefonica, che avrebbero versato, a partire dagli anni Novanta, 1,8 milioni di euro ciascuno, a rate, al servizio di sicurezza del paese che poi ha passato i soldi alla modella Barbara Rey, concorrente di Miss Mondo. Secondo il diario, il denaro sarebbe passato di mano dopo che José Maria Aznar, primo ministro spagnolo dal 1996 al 2006, ha incontrato il capo della Repsol Ramon Blanco Balin e gli ha chiesto di trasferire i fondi, assicurandogli che anche le altre aziende stavano pagando. Barbara Rey, attrice e modella, ha negato di aver mai ricevuto denaro da Juan Carlos o da chiunque altro della sua cerchia. Nessuna delle aziende nominate nel diario ha commentato. Juan Carlos, che ha abdicato al trono nel 2014 e ora vive in un esilio autoimposto ad Abu Dhabi mentre in patria affronta processi per corruzione, ha precedentemente negato qualsiasi illecito e si è detto pronto a parlare con i pubblici ministeri. Le voci del diario sarebbero state scritte da José Manuel Villarejo, un poliziotto sotto copertura che è accusato di essere un "risolutore di stato" e che attualmente sta affrontando dozzine di processi. 

Da “Libero Quotidiano” il 27 febbraio 2021. Uno studio legale che rappresenta Juan Carlos I ha affermato che l'ex monarca spagnolo ha pagato quasi 4,4 milioni di euro alle autorità fiscali di Madrid nel suo ultimo tentativo di regolarizzare le entrate non dichiarate del passato. L'ex monarca, che vive all'estero da più di sei mesi dopo che i media hanno rivelato nuove accuse di misfatti finanziari, precedentemente aveva già risarcito un altro debito fiscale a dicembre per donazioni ricevute tra il 2016 e il 2018 con il pagamento di oltre 678.000 euro comprensivi di interessi e multa. L'avvocato di Juan Carlos, Javier Sanchez-Junco, ha spiegato che l'ultimo debito fiscale si riferisce ai pagamenti che una fondazione privata, la Zagatka, ha effettuato per conto dell'ex re per «diverse spese di viaggio e altri servizi». La fondazione, che ha sede nel Principato del Liechtenstein è di proprietà di Alvaro de Orleans, un uomo d'affari e lontano cugino di Juan Carlos che ha ammesso pubblicamente di aver finanziato alcune delle spese private dell'ex monarca. Il quotidiano spagnolo El Pais e il sito di notizie online El Espanol, che per primi hanno riportato la notizia del nuovo accordo fiscale, hanno affermato che la fondazione ha pagato i voli del sovrano con una compagnia di jet privati per più di un decennio fino al 2018. La dichiarazione dell'avvocato afferma che il pagamento delle tasse scadute più gli interessi e «soprattasse» era volontario e che le autorità fiscali non lo avevano richiesto. Ora comunque gli obblighi fiscali dell'ex monarca «sono stati regolarizzati», ha detto il legale. Secondo la legge spagnola, confessare un reddito non dichiarato e pagare le tasse in sospeso consente ai trasgressori di evitare di essere accusati di evasione fiscale. L'ex re è oggetto di un'inchiesta giudiziaria in Spagna e Svizzera per possibili illeciti finanziari. Uno di questi riguarda possibili tangenti relative a un contratto ferroviario in Arabia Saudita. Quelle indagini lo hanno spinto a lasciare la Spagna ad agosto per gli Emirati Arabi Uniti dove è stato fotografato in un lussuoso hotel dove i media spagnoli sostengono che risieda come ospite del principe Mohammed Bin Zayed.

Vittorio Sabadin per "la Stampa" il 28 luglio 2021. Re Filippo VI di Spagna cerca in ogni modo di far dimenticare le malefatte di suo padre Juan Carlos: gli ha tolto la pensione e ha rinunciato alla sua eredità. Ma non c'è niente da fare: il passato non vuole morire, e quando si ha di fronte una donna tradita, lo si sa fin dai tempi di Shakespeare, è peggio che finire all'inferno. La donna in questione è Corinna Larsen, che non vuole mollare il nobile cognome dell'ultimo ex marito, un Sayn-Wittgenstein, e se ne fregia ancora. Si credeva ormai di sapere tutto sulla profonda amicizia tra la signora e l'ex re di Spagna, ma nelle case reali europee, a Madrid come nel Regno Unito, le sorprese non finiscono mai. Corinna, ha rivelato il «Financial Times», ha infatti presentato una causa all'Alta Corte di Londra, accusando Juan Carlos di molestie «dal 2012 a oggi», di minacce, di diffamazione e di farla spiare dai servizi segreti spagnoli. Nella denuncia, sollecita una ingiunzione che impedisca all'ex re di comunicare con lei, di seguirla, diffamarla o avvicinarsi a una distanza inferiore a 150 metri. Per ora non c'è pericolo: Juan Carlos è scappato ad Abu Dhabi dopo l'abdicazione del 2014, e difficilmente lascerà il Paese. La signora zu Sayn-Wittgenstein è furibonda a causa del versamento di 65 milioni di euro che l'ex sovrano le fece nel 2012 «per assicurare un futuro felice a lei e ai suoi figli», come ha scritto ai giudici di Londra. La somma proveniva da una "donazione" di 100 milioni fatta a Juan Carlos dal defunto sovrano dell'Arabia Saudita, Abdullah bin Abdulaziz, e depositata alla banca Mirabaud di Ginevra nel 2008. Parte dei soldi furono usati dall'ex re per spese personali, e il resto fu trasferito nel 2012 su un conto di Corinna alla banca Gonet delle Bahamas. Ma il trasferimento era davvero un regalo o un modo di fare sparire il denaro? L'ex re era per la seconda ipotesi, e dopo un po' di tempo ha infatti richiesto indietro i soldi. Corinna ora sostiene che, al suo rifiuto, Juan Carlos l'ha accusata di avere rubato i fondi. Non solo, l'ha anche diffamata di fronte a persone con le quali lei ha rapporti di lavoro, come il re saudita Salman e il principe ereditario Mohammed, che oggi la credono una ladra. Ha quindi chiesto ai giudici di condannare l'ex re a un cospicuo risarcimento, valutabile in decine di milioni di euro. La Corte dovrà comunque prima decidere a chi spetti la giurisdizione del caso, visto che l'accusato è un ex capo di stato di una nazione straniera che non vive nel Regno Unito. Nelle 20 pagine della denuncia, presentata nel dicembre scorso, ma resa nota solo lunedì, Corinna sostiene che Juan Carlos l'ha fatta sorvegliare da agenti del Centro Nacional de Inteligencia spagnolo, che hanno invaso le sue proprietà e messo sotto controllo telefoni e computer. L'ex re l'avrebbe minacciata dicendole che «le conseguenze per lei non sarebbero state buone», e l'allora capo del Cni, Félix Sanz Roldàn, le avrebbe detto che «non poteva garantire la sua sicurezza né quella dei suoi figli». Ha anche rivelato che il Sultano dell'Oman ha acquistato per Juan Carlos un appartamento a Londra del valore di 50 milioni di sterline. Felipe VI e sua moglie Letizia vorrebbero far dimenticare tutto questo, ma come si fa? Visitano ospedali, consolano i malati di Covid, tengono lontani i parenti impresentabili, come Cristina di Borbone e il marito, ma gli scandali non finiscono mai. Il giudice inglese avrà ora 18 mesi per decidere: c'è tutto il tempo di chiamare Corinna, e forse basterà farsi dare il suo Iban.

Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2021. Se davvero aveva ricevuto dal sovrano, al tempo ancora capo dello Stato, l' incarico di convincere l' ex amante reale a tenere la bocca ben chiusa, il boss dell' intelligence spagnola (fino al 2019), generale Félix Sanz Roldán, non poteva essere più maldestro. L' ultimo azzardo è stato probabilmente quello di querelare per diffamazione l' ex commissario di polizia (arrestato nel 2017 per corruzione, riciclaggio e altro) José Manuel Villarejo che, in un' intervista televisiva, lo aveva accusato di aver minacciato la bella cortigiana, al corrente degli opachi movimenti finanziari internazionali del monarca. Risultato: la vittima, vera o presunta, è stata convocata dal tribunale spagnolo e, in video conferenza da Londra, ha rincarato la dose. Non soltanto era stata intimidita dal capo del Centro Nacional de Inteligencia, ma l' ordine di terrorizzarla doveva venire da sua maestà. Le minacce e la loro provenienza hanno lasciato poche tracce utili per la giustizia. Ma la ricostruzione fornita da Corinna Larsen, e degna di un copione cinematografico, approfondisce ulteriormente il solco tra il re emerito Juan Carlos di Borbone e l' opinione pubblica. Proprio mentre si stava assopendo il dibattito politico sul varo di una «Legge della Corona» per modernizzare la monarchia. Proprio a pochi giorni dalla mediazione del governo rosso-viola di Pedro Sánchez per placare le polemiche: Juan Carlos I manterrà il titolo di «re emerito» a vita e le future riforme saranno concordate con la casa reale e il re in carica, Felipe VI. Socialista, Sánchez presiede un governo di coalizione con «Unidas Podemos», il partito nato da una costola degli «Indignados» e guidato dal fervente repubblicano Pablo Iglesias. Ogni nuovo capitolo del feuilleton sentimental-tributario rischia di compromettere gli equilibri. È probabile che siano i monarchici, più dei repubblicani, a scandalizzarsi dell'intrigo amoroso (Corinna Larsen, divorziata dal principe tedesco Casimir zu Sayn-Wittgenstein, è stata la relazione extraconiugale più stabile e vistosa di Juan Carlos I), e forse anche degli ultimi sviluppi spionistici divulgati dalla protagonista. Le minacce risalirebbero al 2012, poco dopo la fine della love-story con il re, quando Félix Sanz Roldán la incontrò in un hotel di Londra, The Connaught, combinazione in Carlos place, per avvisarla che, se lei non avesse seguito le istruzioni, lui non avrebbe potuto «garantire la sicurezza fisica sua e dei suoi figli». Tornata nella sua casa di Villars-sur-Ollon, in Svizzera, Corinna Larsen trovò, lasciato in bella vista, un libro sulla morte di Lady D nel tunnel dell'Alma e ricevette una telefonata anonima che alludeva in spagnolo alle gallerie tra Nizza e Monaco, dove risiede e gestisce i propri affari. Ma i retroscena sui quali la magistratura svizzera, gli agenti del fisco spagnolo (e molti repubblicani) vorrebbero ascoltarla riguardano piuttosto i 100 milioni di dollari versati al re dall'Arabia Saudita e transitati su conti off shore, tra il 2008 e il 2012, quando Juan Carlos era protetto dall' immunità e dall' appoggio dell'amante, omaggiata infine con 65 milioni di euro. A dicembre i legali dell'anziano re, esule volontario ad Abu Dhabi, hanno presentato all' Agenzia delle Entrate una «dichiarazione integrativa» per gli anni 2016-2018, un ravvedimento operoso sostenuto da un conguaglio di 678 mila euro, a proposito dell'utilizzo (dopo l'abdicazione) di carte di credito intestate a un imprenditore messicano già sotto inchiesta, Allen Sanginés-Krause, e alimentate da fondi fino ad allora sfuggiti al fisco spagnolo. Così i soci di governo hanno ricominciato a litigare sull' opportunità di istituire una commissione d' inchiesta parlamentare sulle fortune occulte di Juan Carlos.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 22 ottobre 2021. Durante un’audizione parlamentare, l’ex capo della polizia spagnola Jose Manuel Villarejo ha raccontato che all’ex re spagnolo, oggi in esilio, Juan Carlos sono state somministrate iniezioni con «ormoni femminili per controllare il suo dilagante desiderio sessuale». Secondo l’uomo, i servizi segreti spagnoli hanno iniettato bloccanti del testosterone all’ex monarca, che ora vive in un hotel di lusso ad Abu Dhabi, per controllare la sua libido, considerata «un problema di Stato». Villarejo, ex commissario della polizia spagnola attualmente sotto processo in un caso di ricatto, ha dichiarato secondo The Times: «Il CNI (National Intelligence Center) ha iniettato ormoni femminili e bloccanti del testosterone per controllare la sua libido perché era considerata un problema di Stato». E ancora: «Gli hanno portato via tutto, non poteva stare con una donna o fare altro». Villarejo, che è stato accusato di spiare e lavorare per screditare alcuni dei politici più importanti della Spagna, ha anche insistito che gli è stato chiesto di sbarazzarsi dei documenti medici che avrebbero dimostrato la somministrazione del farmaco. L’uomo ha detto di non essere stato coinvolto nello sforzo di tenere sotto controllo il famigerato desiderio sessuale di Juan Carlos e ha detto di averlo scoperto da Corinna Larsen, un'ex amante dell'ex monarca che ora vive a Londra. Le notizie sulla leggendaria libido dell’ex re non sono nuove. Recentemente un autore e storico militare spagnolo, Amedeo Martinez Ingles, ha scritto un libro intitolato “Juan Carlos: The King of 5.000 Lovers”, mettendo insieme le prove dei suoi rapporti e dipingendo il re come dipendente dal sesso. Il libro sostiene che Juan Carlos ha avuto 62 amanti in soli sei mesi, e che durante il suo "periodo appassionato" tra il 1976 e il 1994, il re è andato a letto con ben 2.154 donne. Si dice che anche la principessa Diana sia stata una delle giovani donne che l'ex re, ora 79enne, ha cercato di conquistare. L'esperta della famiglia reale spagnola Pilar Eyre ha confermato le affermazioni di Martinez Ingles: secondo la donna l'ex re ha tentato di andare a letto con la principessa Diana quando lei aveva solo 25 anni. La stessa Diana negò che fosse successo qualcosa di spiacevole, ma ammise che il re era «affascinante» e che era stato «un po' troppo attento». Nel gennaio 2017 è emerso che i servizi segreti avevano versato milioni di sterline a un'ex concorrente di Miss Mondo per impedirle di raccontare a tutti la sua presunta relazione con Juan Carlos quando era ancora re di Spagna. Le affermazioni sono state fatte dal rispettato sito di notizie spagnolo OKDIARIO e sono state immediatamente riprese da altri media spagnoli che si sono concentrati sull'accusa scioccante secondo cui i soldi presumibilmente pagati alla signora Rey, candidata Miss Mondo del paese nel 1971, provenivano da fondi pubblici che avrebbero dovuto essere spesi per combattere il terrorismo e la criminalità organizzata. C’è poi il caso della casalinga belga che sostiene di essere la figlia di Juan Carlos. La richiesta di paternità di Ingrid Sartiau è stata respinta dalla Corte suprema spagnola nel 2015 dopo che gli avvocati dell'ex monarca hanno presentato ricorso. Anche il cameriere spagnolo Albert Sola ha affermato più o meno nello stesso periodo di Ingrid di essere un figlio illegittimo di Juan Carlos, ma i suoi tentativi di essere riconosciuto sono falliti all'inizio. Juan Carlos ha regnato come re di Spagna dal 1975 al 2014 quando ha abdicato in favore di suo figlio Felipe VI. L'83enne ha lasciato la Spagna per Abu Dhabi nell'agosto dello scorso anno dopo che i pubblici ministeri svizzeri hanno aperto un'indagine sui conti bancari che presumibilmente deteneva nei paradisi fiscali.

·        Quei razzisti come i francesi.

Così Zemmour sdogana l’antisemitismo ed esalta gli estremisti. Tiziana Della Rocca su L’Inkiesta il 7 Dicembre 2021. Nello scontro a distanza con Bernard-Henri Lévy il candidato alla presidenza di religione ebraica ha fatto ricorso, più volte, ai soliti squallidi cliché razzisti. Negli ambienti più a destra la sua stessa figura viene vissuta come un lasciapassare: finalmente qualcuno dice ciò che pensiamo. La candidatura alla presidenza francese di Éric Zemmour scatena in Francia e altrove una certa inquietudine, o forse addirittura il panico. Anche se sarà (probabilmente) Macron il vincitore delle prossime elezioni, la sua eventuale vittoria verrà comunque ricordata come quella che ha liberato i francesi, e non solo loro, dalla paura di un antico anche se edulcorato fascismo, sempre in agguato in Europa. 

Sto esagerando? Non proprio. Zemmour, ebreo di origine algerina, è accusato da Bernard-Henri Levy di fascismo, negazionismo, revisionismo, ed è stato già condannato due volte da un tribunale francese per incitazione all’odio razziale.

Già prima che iniziasse la sua campagna presidenziale ufficiale si era divertito a puntare un fucile, durante una visita alla fiera della sicurezza a Parigi, contro i giornalisti, minacciandoli. A suo dire, per scherzo.

Poi, sui principali media francesi, ha infuocato per mesi il dibattito dicendo che, con la strage del Bataclan, è esplosa in Francia una vera e propria guerra civile, che bisogna combattere e vincere. Malgrado tutto ciò, o forse proprio grazie a questo, il candidato alla presidenza francese continua a far parlare di sé. Il suo primo giorno di campagna elettorale a Villepinte (piccolo comune alla periferia di Parigi) è finito, infatti, in una rissa tra i partecipanti.

Zemmour ha lanciato anche il suo nuovo partito, con il nome di “Reconquête” (riconquista), puntando, come si sa, al tema dell’identità nazionale minacciata sia dall’Islam radicale che dall’Islam tout court e opponendosi, anche, al presunto declino di un Occidente rassegnato a subire l’immigrazione incontrollata. Per lui la Francia si è fatta piccola, subisce, è totalmente domata, piegata, come se non fosse consapevole del disastro umano provocato dalla sostituzione etnica in corso.

Alle accuse di razzismo scagliate contro di lui da Bernard-Henri Lévy, risponde che non ha nulla contro gli stranieri ma preferisce i francesi, il che è come dire che, essendo inferiore ai francesi, nessuno straniero è degno di abitarne il territorio. Lo infanga moralmente, spiritualmente. Occorre, quindi, riappropriarsi della Francia per salvarla dalla morte a cui altrimenti sarebbe destinata.

Dunque vorrebbe salvare il suo Paese dalla presunta invasione straniera. Ma, secondo lui, chi sarebbero gli stranieri da espellere, possibilmente da tutta l’Europa fraternamente stretta, e governata dai più forti? I jihadisti e i salafiti? Certo, loro, i più spregevoli di tutti, ma pure i semplici migranti, ma non solo, anche altri, aggiungo io. Chi sarebbero questi altri? Semplicemente tutti quelli che non la pensano come lui, quelli che non credono che la Francia e l’Europa siano in pericolo imminente; in pratica, coloro che si dichiarano francesi o europei e lo sono anche di fatto, ma non nell’anima. Insomma, chi osa dissentire dalla sua visione, chi non si riconosce nel suo appello identitario.

Non è l’estremismo di Zemmour, unito al suo carisma e al suo fascino, a fare di lui una figura pericolosa: a essere pericoloso è piuttosto il fatto che lui sia ebreo, lo rivendichi, eppure allo stesso tempo sdogani l’antisemitismo.

Zemmour, quando accusa alcuni ebrei francesi di non essere dei veri patrioti francesi perché troppo legati allo Stato d’Israele, non ritira fuori un vecchio stereotipo antisemita “dell’ebreo non assimilabile”? È vero, nell’ebraismo esiste un’identificazione tra religione e nazionalità, ma Zemmour manipola questa convinzione religiosa per dimostrare che un ebreo francese rischia di riconoscere solo Israele come sua vera patria, e quindi non si integrerà mai completamente in altre nazioni.

E quando dice di Bernard-Henri Levy che incarna la figura assoluta del traditore, non ritira fuori, anche qui, lo stesso stereotipo antisemita? Levy non è, per lui, un doppiogiochista che da quarant’anni, pur essendo francese, non fa che denunciare e incolpare i francesi? «Il suo impegno è sempre contro la Francia. Il suo internazionalismo è ancora anti-francese (…) Difende i curdi e Israele perché se ne frega della Francia e dei francesi. Non solo è un traditore della Francia, ma è anche, per questa ragione, il più grande produttore di antisemitismo nel mondo», conclude Zemmour. Levy, se mai, ricorda ai francesi, in modo bruciante, quel che vorrebbero dimenticare, cioè Vichy, la resa, l’onore perduto. È stato il collaborazionismo (che Zemmour difende) a disgustare Levy, la scelta di alcuni francesi in favore dei vincitori. Fatta non per paura o opportunismo, ma perché erano sinceramente filonazisti.

La grande attenzione che l’Occidente giustamente riserva ai fanatici islamici, e la lotta contro questo fenomeno che vorrebbe ingaggiare, può funzionare, insiste Levy, solo se non ci si dimentica come nel nostro stesso cuore, nel cuore dell’Europa, sia nato l’inferno.

Per giustificare il suo ultranazionalismo, Zemmour ha dichiarato di recente che l’ebraismo, in realtà, consiste in una legge, quella mosaica, una terra, e un popolo, e che quindi l’ebraismo vero, quello che lui pratica, è molto vicino all’ideologia sovranista.

Falso. L’ebraismo non consiste in questo: gli ebrei non si radicano mai, la terra rimane sempre “promessa”, anche se conquistata e abitata. È triste sapere che ci siano ebrei che vedono Zemmour come il loro nuovo eroe per i suoi commenti razzisti contro gli arabi. Ma si tratta di un abbaglio, o di una strumentalizzazione: Zemmour non fa che realizzare un vecchio sogno dell’estrema destra, cioè di avere proprio un ebreo che la scagiona da tutti i suoi crimini, compresa la peste dell’antisemitismo.

Da "Libero quotidiano" il 7 dicembre 2021. «Éric Zemmour ha provocato in me un sussulto, la voglia di impegnarmi a tempo pieno per la Francia». Tanguy David ha diciotto anni, è di origini africane, studia giurisprudenza a Caen, nel nord della Francia, è iscritto all'Uni, il principale sindacato studentesco di destra, e domenica era al Palazzo delle Esposizioni di Villepinte, dove si è tenuto il primo meeting di campagna di Éric Zemmour, il candidato outsider che punta a sparigliare le carte in vista delle presidenziali francesi del prossimo anno. Tanguy David, durante il meeting, era seduto assieme ad altri militanti dietro il pulpito da cui Zemmour ha lanciato la "Riconquista" della Francia, nome dato al suo partito. Ma la sua presenza ha infastidito diverse persone, secondo le quali se hai la pelle nera non puoi essere un fan di Zemmour. Una di queste è una celebre influencer francese e militante di Black Lives Matter, Dairing Tia, che su Twitter lo ha definito il «nero di servizio» di Zemmour, aggiungendo che «sostenere un razzista quando sei nero è veramente troppo». «Il "nero dietro Zemmour" ero io. E ne vado fiero. Che fervore, che atmosfera, Éric Zemmour è stato grandioso. Quelli che sono infastiditi dalla mia presenza possono andarsene da qui, la Francia può fare a meno di loro», ha risposto su Twitter David Tanguy, che è anche responsabile di Génération Z, la giovanile di Zemmour, nel dipartimento del Calvados. Altri utenti, lo hanno addirittura minacciato di morte, «Giuro su Allah, ti decapitiamo», «ti veniamo a cercare». Nell'affaire, è intervenuto a gamba tesa anche Gilbert Collard, eurodeputato del Rassemblement national. «Dopo il presidente di Sos Racisme sotto inchiesta per razzismo, Dairing Tia, militante di Black Lives Matter, definisce Tanguy, sostenitore di Zemmour, un "nero di servizio": è vergognoso! Dietro l'ipocrisia dell'antirazzismo c'è il peggiore dei razzismi», ha tuonato Collard. Ma si sa, per la gauche multiculturale e i suoi fanatici sostenitori se sei nero non puoi avere simpatie di destra. 

Chi è davvero il “popolo” di Zemmour? Francesca Salvatore su Inside Over il 7 dicembre 2021. Di lui conosciamo-quasi-tutto: sostenitore de “La Francia ai francesi”, nostalgico del gollismo, conservatore su Islam e immigrazione, tendenzialmente misogino. Eric Zemmour è un po’ Trump, un po’ Bonaparte, un po’ Reverendo Falwell. Un po’ meno sappiamo dei suoi sostenitori, che sfuggono alle tradizionali dicotomie destra/sinistra e che promettono di dare filo da torcere ai partiti tradizionali alle prossime elezioni.

I follower mediatici

Zemmour buca lo schermo, è l’incumbent che divide, che spacca, che galvanizza, forte di una vita immersa nel giornalismo e nella comunicazione. Zemmour, per questa ragione, è potenzialmente un candidato pigliatutti: il suo seguito, o meglio, i suoi followers, è un corpo trasversale per età e professione. Studenti, pensionati e imprenditori sono affascinati dall’uomo che piace perché “non piace agli altri”, come tuona Le Monde, ma che soprattutto negli ultimi trent’anni “non si è comportato da banderuola”: così recitano i suoi sostenitori armati di tricolore, accorsi ad acclamarlo domenica 5 dicembre alla sua prima riunione dei candidati a Villepinte. Buona parte di quelli che oggi si dichiarano pronti a seguirlo attingono motivazione e spinta dal mondo dei social e del giornalismo strillato al quale Zemmour appartiene da tempo.

La Francia spaventata dall’Islam, quella “declinista” e tradizionalista

Spinge sui temi caldi, corre sul filo del politicamente scorretto, soffia sulle debolezze della Francia e sui timori di chi è terrorizzato per via di anni di attentati di matrice islamica continui, alcuni ben orchestrati, altri casi isolati. I sostenitori di Zemmour sono quelli spaventati dagli ultimi venti anni, dai fatti del Bataclan come dalla strage di Charlie Hebdo. Sono quelli che temono l’assenza dello stato nelle banlieu e che si battono contro il velo islamico. Ma sono anche i nostalgici del tempo che fu: i giovani, per quel tempo di Bengodi mai assaporato, i più anziani per quell’Eldorado perduto in fatto di potenza economica e ruolo nelle relazioni internazionali. È il popolo declinista, quello che crede che serva più spirito nazionale per riprendersi quell’onore e rispetto di cui godeva Parigi ai tempi della Guerra Fredda.

Ma il popolo di Zemmour è anche quello che propaganda la famiglia tradizionale, facendo appello all’atavica divisione tra generi: era il 2006 quando nel suo libro The First Sex egli denunciava “la femminilizzazione della società”. Da questo punto di vista raccoglie la visione tradizionale della società francese, quella legata alla quiete della grande Francia borghese che Philippe de Chauveron nel 2014 raccontò magistralmente nella commedia Qu’est ce-qu’on a fait au bon Dieu?.

Ultradestra? Populisti?

Davvero complesso è comprendere da quale parte dello spettro politico provenga Zemmour. Certamente di destra, ultradestra, sembra però cozzare con i valori centristi e moderati.

Gli elettori della destra aspettano da tempo uno come lui su questioni come immigrazione, giustizia e sicurezza. Eppure, definire di ultradestra i sostenitori di Zemmour resta analiticamente inesatto. Zemmour, come individuo, non ha mai fatto campagne di estrema destra, non è mai stato un membro del Fronte nazionale, si definisce gollista, ergo fa appello a valori largamente diffusi in Francia, ispirandosi a uno dei padri della Nazione. Non bisogna dimenticare, nel considerarne il seguito attuale ed eventuale, le origini ebraiche di Zemmour e quanto questo potrebbe incidere sul seguito da parte di gruppi antisemiti, neonazisti o neofascisti: al momento il candidato non sembra impegnarsi troppo a proposito delle sue ascendenze, che non sembrano trasformarsi in strumento elettorale. Eppure, come sostiene il filosofo Bernard-Henri Lévy, ciò è diventato irrilevante. Nonostante le rigorose critiche della comunità ebraica, “ciò che fa il signor Zemmour, che gli piaccia o no, [è] nel nome ebraico”.

Alla luce di tutto questo, politologicamente, si può affermare che-per il momento- il seguito di Zemmour sia populismo di ultradestra con argomenti abbastanza stereotipati, riconducibili al modello del contemporaneo partito populista. Fra i suoi sostenitori, infatti, è palese il popolo scontento della destra tradizionale, che vede Marine Le Pen perdere elettori a causa dopo che il suo partito non è riuscito ripetutamente a conquistare il potere. Il popolo di Zemmour attacca la casta, i poteri forti, vuole giustizia perché si sente frodato del futuro.

…nemmeno sovranisti

Tendenzialmente, sull’Unione europea il seguito di Zemmour appare poco informato e le questioni europee, infatti, entrano poco nel discorso politico: non si tratta di sovranisti contemporanei, poiché la critica principale è indirizzata a una Francia perduta che deve tornare a splendere. Né tantomeno si tratta di suprematisti in stile americano, sebbene sposino i temi della stretta sull’immigrazione e della lotta all’Islam. Nella massa multiforme di questo futuro elettorato, del quale non sappiamo prevedere le mosse e il peso politico, c’è anche una buona dose di imprecisione e di ignoranza storica del loro beniamino che spesso si è macchiato di confuse ricostruzioni storiche come quando sostenne, falsamente, che il governo francese di Vichy, che in tempo di guerra collaborò con la Germania nazista, mise in salvo gli ebrei; ma Zemmour è anche un sostenitore esplicito della teoria complottista della «grande sostituzione», alla quale-secondo un sondaggio del novembre scorso- crede circa la metà dei francesi: di certo non tutti elettori di destra o attuali suoi sostenitori.

La carta potenzialmente vincente

A suo modo Zemmour, galvanizza non solo i suoi lettori-vecchi e nuovi-, non flirta (almeno alla luce del sole) con l’alt-right made en France, ma cerca di usare il cospirazionismo e l’antico, confuso, mito della Francia bonapartiana per attirare a sé porzioni della società reiette, desiderose di autoritarismo, che rifiutano il gauchismo post-Sessantotto e che giudicano la destra come venduta e annacquata.

Ha una carta, in più, però, Zemmour. E questo, per assurdo, può attirargli simpatie di immigrati di vecchie generazioni: le origini ebraiche, una consorte tunisina, i tratti somatici magrebini, non solo lo mettono al riparo dall’accusa di razzismo, ma lo rendono potenzialmente vincente presso sacche della società insospettabili. Proprio come accadde per Donald Trump, all’epoca scambiato per una gigantesca bolla mediatica e nulla di più.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2021. Non è stato un comizio come gli altri , perché Éric Zemmour non è un candidato come gli altri. Questa è la sua forza e ciò che molti giudicano inquietante. Si sono viste sedie volare, pugni in faccia, sangue, inseguimenti con le cinghie in pugno, invocazioni al nuovo «re di Francia», e lo stesso Zemmour all’arrivo viene agguantato al collo da un aggressore, o forse un fan troppo entusiasta, mentre per raggiungere il palco attraversa tutta la grande sala tra spintoni, un servizio d’ordine quasi sopraffatto, musica epica e la folla che urla gioiosa e furibonda «Zed! Zed! Zed!» come la «Z» (zeta in francese si dice zed) di Zemmour. Ovvero l’uomo che promette di restituire ai francesi «il più bel Paese del mondo», che sarebbe stato rubato loro dagli immigrati, dalle élite che hanno tradito, dai giornalisti, dalla sinistra ipocrita e politicamente corretta e dalla destra che ha smesso trent’anni fa di fare il suo lavoro. Fuori dal comune anche il luogo: il gigantesco Parc des Expositions di Villepinte, alla periferia di Parigi, scelto perché capace di contenere 15 mila persone, giudicato più controllabile dalla polizia che già temeva incidenti, e infine simbolicamente situato nella Seine-Saint-Denis, il dipartimento dove l’immigrazione musulmana è più alta e dove Zemmour ha lanciato ieri la sua Riconquista. «Reconquête!» è il nome del nuovo partito. Per Zemmour appassionato di Storia è un richiamo evidente alla Reconquista che nel Medioevo permise ai regni cristiani della penisola iberica di riprendersi i territori occupati dall’islam, con la conquista finale di Granada nel 1492. Il comizio di Villepinte ieri era il primo appuntamento della campagna elettorale, quello in cui Zemmour era atteso alla trasformazione definitiva da polemista televisivo e scrittore di pamphlet di enorme successo a candidato credibile alla presidenza della Repubblica. Ma chi pensava o sperava in una normalizzazione è stato deluso. Scenografia di enorme effetto, affidata a Olivier Ubéda (già vicino a Sarkozy) che cura la comunicazione di Zemmour, ieri apparso in pubblico con inediti occhialini, che nelle intenzioni dovevano forse essere rassicuranti. Sei schermi giganti, tre a ogni lato del palco, perché tutti possano vedere il leader carismatico; tricolore francese ovunque, più qualche sostenitore avvolto nella bandiera con il giglio dei monarchici di estrema destra dell’Action française. L’attesa del capo è interminabile: scorrono i video delle riunioni in tutta la Francia, quelle che in teoria erano solo presentazioni dell’ultimo libro La Francia non ha detto l’ultima parola. Per esempio in Corsica, dove Zemmour aveva reso omaggio al popolo corso e all’adorato Napoleone, teorizzando che la Francia non ha bisogno di altra diversità perché ce l’ha già al suo interno, tra bretoni e occitani, normanni e corsi, pronti a fondersi — come lui, ebreo berbero d’Algeria felice di assimilarsi — in un’unica nazione. Tra i tanti oratori che si succedono davanti al pulpito per scaldare la platea c’è l’alto funzionario e saggista un tempo vicino ai Le Pen, Paul-Marie Coûteaux, che se la prende con l’America e la sua «cultura di paccottiglia» dalla quale la Francia deve rinascere indipendente, e poi invoca Zemmour che sarà «più che un presidente, sarà il re di Francia, è una questione d’amore che toccherà il cuore di ogni francese». Questa faccenda dell’amore è un po’ sospetta, perché anche il curatissimo merchandising gioca sul tema, con un’autoironia divertente e lievemente sinistra: si vendono magliette con la scritta «Fate Zemmour non fate la guerra», e il logo della campagna su cappellini e tazze da caffé prevede un ramoscello d’ulivo stilizzato: simbolo di pace e riferimento a Zemmour che in berbero significa «ulivo». Solo che quando i militanti di Sos Racisme infiltrati tra il pubblico — indubbia provocazione — aprono i cappotti mostrando le magliette che formano la scritta «no al razzismo», vengono subito menati da zemmouriani di estrema destra. Gli incidenti si ripetono ma Zemmour porta a termine il discorso. «Gli avversari vogliono la mia morte politica, i giornalisti la mia morte sociale e gli jihadisti quella fisica», dice, ma questo non fa che esaltare lui e il suo pubblico. On est chez nous!, ripetono, «Questa è casa nostra».

Zemmour aggredito, rissa al primo comizio. L'anti-Macron promette: zero immigrazione. Gaia Cesare su Il Giornale il 5 Dicembre 2021. Scoppia la rissa, sedie che volano, pugni e il volto di un paio di contestatori insanguinato al primo grande comizio elettorale di Eric Zemmour, l'intellettuale di estrema destra da una settimana candidato ufficiale anti-Macron. Il polemista prestato alla politica ha aperto ieri, in grande stile, le danze di una campagna elettorale che si preannuncia caldissima: 15mila sostenitori ad acclamarlo, 400 giornalisti accreditati, centinaia di bandiere francesi e cori. Ma dopo la dichiarazione di sostegno dell'ex leader dei gilet gialli, Jacline Mouraud, l'arrivo del candidato anti-Macron, tra la folla in tripudio, è stato condito da due fuori programma: un uomo gli salta al collo durante l'ingresso in sala, e viene subito allontanato dalle guardie del corpo, poi fermato dalle forze dell'ordine. Zemmour non si ferma, sale comunque sul palco e comincia il suo discorso, ma a fine serata si scopre che è stato ferito a un polso. Non è tutto. Un gruppo di attivisti dell'associazione Sos Racisme - mentre il candidato parla - urla «No al razzismo», uno slogan esibito a sorpresa anche su alcune magliette. I fan di Zemmour si infuriano e finisce con sedie che volano, una contestatrice colpita con un pugno, gli altri messi a terra. Almeno due i feriti. È la prova che saranno presidenziali ad alta tensione. D'altra parte il comizio di Zemmour, che si è svolto in una mega-sala a Villepinte, Seine-Saint-Denis, banlieue nord di Parigi, era previsto in un primo momento allo Zenith ma è stato spostato sul finale a venti chilometri dalla capitale. «Entusiasmo popolare», hanno spiegato gli organizzatori. Ma a pesare è stata la questione sicurezza, dopo che una cinquantina fra organizzazioni sindacali, movimenti e associazioni di sinistra hanno organizzato a Parigi una manifestazione anti-Zemmour, «per mettere a tacere il candidato» e «non lasciare che il fascismo avanzi». Zemmour ha cambiato i piani e ha scaldato la platea con un programma estremo, lanciando lo slogan «impossibile non è francese» (citazione attribuita a Napoleone) e annunciando il nome del nuovo partito: «Reconquête», Riconquista, a indicare la necessità di riappropriarsi di una Francia che non c'è più, vittima della crisi economica, culturale e dell'immigrazione. Da qui le promesse: via tutti i clandestini, immigrazione zero, fine dello ius soli, limitazione del diritto d'asilo e degli aiuti sociali agli extra-europei. «Io razzista? - chiede - Impossibile, sono berbero», dice. Intanto promuove l'uscita dalla Nato, promette di reindustrializzare la Francia con un ministero ad hoc, meno tasse e imposte, la priorità alle imprese francesi e a quelle familiari. La sua discesa in campo, ne è certo, «è l'inizio della riconquista del più bel Paese al mondo». Macron viene liquidato con frasi sprezzanti: «Nessuno sa chi è, perché non è nessuno. La Francia ha eletto il vuoto e ci è finita dentro».

Le Figaro impietoso: «Napoli è terzo mondo d’Europa». E salva solo il Polo hi tech di San Giovanni a Teduccio. Reportage del giornale francese. «Manfredi? Le élite napoletane lo aspettano come un messia». E ancora: «Mentre tutte le città si trasformano, essa resta arroccata ai suoi cliché». Anna Paola Merone su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. Napoli fra luci e ombre. Una città «fatiscente e soffocata dai suoi debiti, in attesa del suo salvatore». Le Figaro ha raccontato le elezioni in Italia dedicando quasi una pagina al caso Napoli. L’articolo di Valèrie Segond è stato pubblicato domenica 3 ottobre. E parte da un assunto. «Se non fosse tifoso dichiarato della Juventus Gaetano Manfredi avrebbe buone possibilità di essere eletto al primo turno sindaco di Napoli... É l’opposto del sindaco uscente... Le élite napoletane lo aspettano come il Messia» scrive Segond, che è stata profetica. «Gaetano Manfredi si è effettivamente imposto su tutti, ha vinto a mani basse — rileva —. Noi abbiamo scelto di raccontare Napoli proprio perché immaginavamo che la vittoria sarebbe stata immediata e schiacciante, perché Napoli è una città di riferimento per tanti francesi che ci vivono e la scelgono per i propri viaggi. É una vera città del Sud, ricca di problemi, di contraddizioni, affogata dai debiti e dal problema della camorra e più suscettibile ad eventuali cambiamenti. La cronaca di quei giorni è un punto di partenza per decifrare il presente e mettere a fuoco le priorità, le emergenze, i punti critici ma anche per sottolineare la grandezza di una città, che fa innanzi tutto riferimento allo sviluppo tecnologico. Voi avete una piccola Silicon Valley, autentiche eccellenze».

La vita quotidiana difficile

Per il resto c’è poco da stare allegri: «Napoli è il terzo mondo d’Europa» racconta Segond che ricorda il tunnel della Vittoria chiuso, Bagnoli e i suoi trent’anni di promesse e progetti caduti nel vuoto, il traffico nelle strade, il degrado, il verde abbandonato. «Mentre tutte le città d’Europa si trasformano, Napoli resta arroccata ai suoi cliché, che sono anche il suo fascino». Perciò i turisti la amano, la vita culturale è vivace e i musei di certo affollati, ma la vita quotidiana resta difficile, con i trasporti pubblici che affannano, i cantieri della metropolitana aperti dal 1990 e ancora in sospeso e i servizi comunali poco efficienti, con un organico di addetti insufficiente e la povertà nelle periferie esplosiva. «Una povertà dei servizi— che ha raccontato a Le Figaro il direttore del Corriere del Mezzogiorno , Enzo d’Errico — ha innanzi tutto penalizzato gli indigenti, che non possono permettersi di ricorrere a servizi privati».

«Apple in una terra desolata»

La piccola delinquenza e la camorra occupano in modo diverso i territori e fanno affari anche nel settore della sanità. Intanto la Regione ha avviato alcune azioni di rigenerazione urbana, come a Scampia, «città dormitorio a Nord di Napoli celebre per Gomorra » rileva il giornale francese. Ma il vero polo d’eccellenza è a San Giovanni a Teduccio. «Una terra desolata dove Apple ha creato nel 2016 un centro europeo di formazione per sviluppatori di app, l’Apple Academy al quale si sono aggregate altre nove aziende tecnologiche.... Un polo dal quale in totale un migliaio di giovani escono ogni anno» rileva Le Figaro al quale Giorgio Ventre direttore scientifico di Apple Academy, dice con grande chiarezza che a Napoli «c’è una piccola Silicon Valley, la terza per il numero di star up create». Altra luce nella città dolente è Tecno: «Alla Riviera di Chiaia vista mare c’è una società — racconta Valérie Segond — per il monitoraggio a distanza dell’impatto ambientale dei grandi siti». Il presidente e fondatore Giovanni Lombardi racconta con orgoglio alla testata francese che dei suoi 140 dipendenti, 25 vengono dal Nord. Ma le ombre sono cupe. «Napoli è sommersa dai debiti e ha il più alto debito procapite in Italia» come conferma a Segond il candidato Manfredi. Che adesso, da sindaco, si è rimboccato le maniche, ha una sua squadra e aspetta che il Governo mantenga alcune promesse. Mentre la Francia osserva da lontano.

Sorrentino: Napoli si difende da sola

E, sollecitati dai cronisti, sul tema oggetto dell’articolo di Le Figaro si sono soffermati anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino , nella sua città per presentare «È stata la mano di Dio», e l’attore Toni Servillo. «Quando giravamo “L’uomo in più” - dice Servillo - il set era affollato di curiosi. Come si chiama sto film? Chiese un ragazzo. E io: “L’uomo in più”. Ah, già l’aggio visto, rispose. Anche oggi è così spiazzante e magnifica: è il terzo mondo questo? Se sì, io lo amo». E Sorrentino: «Misi Toni e gli altri della band in una decappottabile molto piccola: erano in 5. Un ragazzo mi fece la stessa domanda e disse: in più nel senso che state stritt stritt dentro la macchina?». E dunque: «Mi pare che Napoli si difenda benissimo da sola».

MA PERCHÉ LE FIGARO NON FA LA CAMPAGNA PER IL BIDET NEI BAGNI FRANCESI? Napoli è “il terzo mondo dell’Europa” si legge in un articolo del giornale parigino. Il complesso di inferiorità dei francesi si manifesta, ormai, in maniera sistematica. Michele Inserra su Il Quotidiano del Sud il 17 novembre 2021. Napoli è “il terzo mondo dell’Europa”. Il complesso di inferiorità dei francesi si manifesta, ormai, in maniera sistematica. D’altronde come si può pretendere che si percepiscano le bellezze e l’unicità di Napoli in tutta la sua complessità e problematicità se ancora oggi non si è riusciti a comprendere l’importanza e la funzione di un bidet in un bagno? 

“Mi pare che Napoli si difenda benissimo da sola”. Di poche e sentite parole è stato ieri Paolo Sorrentino, in occasione della presentazione napoletana del suo film “È stata la mano di Dio”. D’altronde la non curanza è il miglior disprezzo, come ci insegnano i nostri avi. “Le Figaro”, con un articolo scritto dall’inviato Valerie Segond, pubblicato il 3 ottobre e ripreso ieri dal Corriere del Mezzogiorno, ha fatto una analisi con la solita letteratura a senso unico che vuol vedere la città prevalentemente come terra di camorra, malaffare, munnezza, spaghetti, pizza e mandolino. “Napoli è il terzo mondo d’Europa”, dice parlando del tunnel della Vittoria chiuso, di Bagnoli, del traffico e del verde abbandonato. “Mentre tutte le città d’Europa si trasformano, Napoli resta arroccata ai suoi cliché, che sono anche il suo fascino”, continua. Tante ombre, pochissime luci. Le Figaro parla di San Giovanni a Teduccio come una cattedrale nel deserto: «Una terra desolata dove Apple ha creato nel 2016 un centro europeo di formazione per sviluppatori di app, l’Apple Academy al quale si sono aggregate altre nove aziende tecnologiche…. Un polo dal quale in totale un migliaio di giovani escono ogni anno». Il reportage, uscito prima delle elezioni amministrative, descriveva – questo il titolo – una città «fatiscente e soffocata dai debiti, in attesa del suo salvatore», ossia Gaetano Manfredi: «Se non fosse tifoso dichiarato della Juventus avrebbe buone possibilità di essere eletto al primo turno… è l’opposto del sindaco uscente… le élite napoletane lo attendono come il Messia», scriveva l’autrice del servizio. “Gaetano Manfredi si è effettivamente imposto su tutti, ha vinto a mani basse – continua -. Noi abbiamo scelto di raccontare Napoli proprio perché immaginavamo che la vittoria sarebbe stata immediata e schiacciante, perché Napoli è una città di riferimento per tanti francesi che ci vivono e la scelgono per i propri viaggi. É una vera città del Sud, ricca di problemi, di contraddizioni, affogata dai debiti e dal problema della camorra e più suscettibile ad eventuali cambiamenti. La cronaca di quei giorni è un punto di partenza per decifrare il presente e mettere a fuoco le priorità, le emergenze, i punti critici ma anche per sottolineare la grandezza di una città, che fa innanzi tutto riferimento allo sviluppo tecnologico. Voi avete una piccola Silicon Valley, la terza per il numero di star up create”. A replicare al giornale francese è anche l’attore Toni Servillo sempre in occasione della presentazione della pellicola di Sorrentino. “Parto da una constatazione: tra settembre e dicembre io ho tre film in sala di tre grandi autori campani (‘Qui rido io’ di Mario Martone, ‘Ariaferma’ di Leonardo Di Costanzo e ‘E’ stata la mano di Dio’ di Paolo Sorrentino, ndr), quindi mi sembra che il bilancio di questa città sia molto buono – ha commentato –  Io non saprei vivere da un’altra parte del mondo, quindi amo profondamente questo terzo mondo”.   Raccontare Napoli e in generale il Sud abolendo una letteratura a senso unico potrebbe essere un grosso passo in avanti. Non si deve oscurare nulla. Nel bene e nel male. Oggi, purtroppo, negare il fermento e la voglia di cambiamento che si registra in alcune periferie di Napoli, significa mortificare il lavoro di tanti volontari che hanno scelto di sporcarsi le mani, rischiando in prima persona. C’è ancora tanto da fare. Questo è palese. Ma la speranza c’è, nonostante tutto.

NON È LA PRIMA VOLTA 

Una “class action”, con annessa richiesta di scuse e danni alla tv francese per il video, diventato virale sui social, con il quale si sbeffeggia con ironia di pessimo gusto la pizza italiana sfruttando il dramma del coronavirus: nel marzo del 2020 ad annunciare l’iniziativa furono l’associazione napoletana “Noiconsumatori”, presieduta dall’avvocato Angelo Pisani e il presidente di “FareAmbiente Campania”, Francesco Della Corte. «Il tentativo di sporcare l’immagine dell’Italia e le sue eccellenze alimentari, – scrissero in una nota – che non rappresentano di certo un mero e semplice piatto ma il frutto di storia, cultura e tradizioni italiane, non può e non deve passare inosservato». «Ci aspettiamo, – spiegarono Pisani e Della Corte – oltre al risarcimento danni, anche che le istituzioni francesi prendano immediatamente le distanze da quanto accaduto. Nessuno può mettere in dubbio le eccellenze dei prodotti italiani nel mondo, da sempre orgogliosamente simbolo della nostra identità nazionale e di elevata qualità».  Dalla Francia arrivò solo silenzio.

"Macaronì", "Les italians": i francesi contro i nostri operai. Roberto Vivaldelli su il Giornale il 17 novembre 2021. Sembra di fare un salto indietro nel tempo, quando gli italiani emigravano verso gli altri Paesi europei in cerca di lavoro e di maggiore fortuna. In Belgio, dove moltissimi erano finiti a lavorare nelle miniere, i nostri connazionali venivano chiamati con disprezzo macaronì, epiteto che prende il nome dalla pasta che gli italiani mangiavano e che i belgi non conoscevano. Qui invece siamo in Francia e li chiamano semplicemente les italians. Come riportato dal quotidiano La Nazione, fino al 31 dicembre, in alcuni casi addirittura fino a giugno, lo stabilimento Stellantis (ex Fiat) di Noidans-les-Vesoul, comune francese situato nel dipartimento dell'Alta Saona nella regione della Borgogna-Franca Contea, ospiterà circa 200 operai metalmeccanici provenienti da Melfi e Pomigliano d’Arco. Le condizioni di lavoro in Francia sono un compenso per vitto e alloggio, ma nessun bonus specifico. Possono tornare a casa ogni 45 giorni e lo stipendio è lo stesso: i sindacati parlano apertamente di "ricatto". Come scrive la stampa francese, les italiens "in città si riconoscono dai vestiti invernali come se stessero sciando, cappello all'altezza delle orecchie, grande piumino chiuso fino al mento". Dopo il lavoro, "questi italiani di Melfi e Pomigliano vicino a Napoli si incontrano alla Bella Vita, una pizzeria gestita da un italiano che fa loro da interprete e che è diventata il fulcro di buoni affari per trovare un alloggio economico". No, non siamo negli Anni '20 del secolo scorso ma nel 2021, anche se il tempo sembra essersi fermato. Come riporta France Info, il gruppo automobilistico, che cerca di ottimizzare la propria forza lavoro, ha offerto a 200 dipendenti italiani di percorrere 1.300 chilometri per lavorare a Vesoul. Lo stabilimento dell'Alta Saona, infatti, non è così colpito dalla crisi come gli altri siti perché non produce automobili: è l'hub globale per i pezzi di ricambio e dunque il lavoro non manca. Il problema è un altro: gli italiani hanno inconsapevolmente preso il posto di 300 precari francesi, notizia che ha fatto infuriare i cugini d'oltralpe e rischia di scatenare una "guerra" fra poveri. Jean-Pierre Mercier, delegato sindacale CGT a Stellantis, ha denunciato la volontà dell'azienda di "trasformare i dipendenti in nomadi dell'industria automobilistica". Secondo il sindacalista, "il sito di Vesoul è oberato di lavoro, c'è un ritardo di produzione monumentale. Non sarà sufficiente l'arrivo dei lavoratori di Mulhouse e di Sochaux, e dei lavoratori italiani della Fiat. Soprattutto se la direzione licenzia tutti i precari". Per Mercier, Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, "vuole dislocare in giro per l'Europa, italiani, francesi e polacchi, per guadagnarci. Vorrebbe metterci in competizione tra di noi". È una politica davvero mortale per noi dipendenti, insiste, Una "vera politica di concorrenza tra i lavoratori". L'obiettivo di Stellantis, secondo i sindacati, è aumentare ulteriormente i profitti nonostante la crisi dei semiconduttori, per abbassare i salari, con un conseguente peggioramento delle condizioni lavorative generali. Esattamente come in passato, gli italiani si presentano nel Paese che li ospita con grande umiltà e voglia di lavorare. Ciro, ad esempio, racconta a France Info di essere partito a causa della "crisi" in Italia dopo essere "rimasto a lungo senza lavorare". "Anche se facciamo sacrifici per partire, almeno qui ci restituiscono un po' di dignità" spiega. I siti produttivi vengono chiusi per mancanza di semiconduttori e le giornate in cui non si lavora non vengono pagate. "In Italia i siti sono stati chiusi per molto tempo. Lì lavoravamo due o tre giorni alla settimana" racconta un altro operaio approdato in Francia. A Vesoul gli italiani lavorano come magazzinieri, preparano gli ordini. Domenico si è dovuto adattare alle nuove mansioni: "Siamo pronti a tutto. Da 1.300 chilometri, anche per fare un altro lavoro. L'importante è poter sfamare i nostri figli e vivere, semplicemente", spiega. Circostanze che ricordano da vicino l'emigrazione italiana del Novecento e fine Ottocento. Come ricorda l'enciclopedia Treccani, fra il 1880 e 1900 in Europa la meta preferita dell'emigrazione italiana fu la Francia, seguita da Austria, Germania e Svizzera, oltre al Sud America e agli Stati Uniti. La Francia divenne la meta preferita degli italiani anche nel decennio 1920-30, anche se con il fascismo il fenomeno migratorio si ridusse drasticamente (e riprese nel secondo dopoguerra). I numeri erano importanti: basti pensare che all'inizio degli anni '30 erano più di 800.000 i nostri connazionali in terra francese. Molti arrivavano dal nord Italia, in particolare dal Piemonte ma anche da regioni come la Toscana. E ora, dopo tanti anni, nel 2021 in Francia tornano Les Italiens.

Ecco quanto costa agli italiani il flop dei supermercati francesi. Andrea Muratore il 17 Novembre 2021 su Il Giornale. Auchan e Carrefour: i francesi rompono e i cocci sono italiani, in termini di problemi economici, posti di lavoro a rischio, attività legate all'indotto, alla logistica, alla subfornitura danneggiate o costrette a chiudere. Per anni sono stati marchi di grande distribuzione organizzata noti e apprezzati nel nostro Paese, ma l'ultimo biennio ha cambiato tutto: i due colossi francesi della grande distribuzione organizzata, Auchan e Carrefour, hanno drasticamente corretto le proprie strategie nella penisola. Ritirandosi completamente, come ha fatto Auchan, o accorciando notevolmente le proprie linee, come ha annunciato di voler fare Carrefour, i due marchi francesi hanno segnato e segneranno profondamente un mercato fortemente concentrato e in cui ogni riorganizzazione settoriale costa notevolmente in termini di occupazione e impatto economico, soprattutto a livello locale. Il recente caso di Esselunga che è stata capace di sfondare il "muro" delle Coop e insediarsi a Livorno dopo una battaglia pluriennale segnala la complessità del mercato della Gdo italiana in cui, forti del loro potere di mercato, Auchan e Carrefour negli ultimi decenni erano entrate a passo di carica forte di un potere economico e finanziario sostenuto dal capitalismo nazionale transalpino. Che della battaglia per l'espansione dei suoi marchi di punta aveva fatto una punta di lancia per la promozione del suo brand in termini di prodotti e sistema-Paese all'estero. Auchan e Carrefour hanno penetrato il mercato italiano, ne hanno modificato gli assetti e trasformato le dinamiche salvo poi decidere strategie strutturali con un semplice tratto di penna.

Il ridimensionamento di Carrefour

Ultima tegola in ordine di tempo per l'economia italiana è arrivata da Carrefour. Il gruppo, un autentico gigante con diffusione globale, col suo piano industriale per il 2022, ha avviato una procedura di licenziamento collettivo per 769 lavoratori e lavoratrici: 261 dipendenti in 27 Ipermercati, 313 in 67 market, 168 in 10 cash&carry e 168 posti di lavoro presso le sedi amministrative di Milano, Nichelino, Roma, Airola, Gruliasco, Napoli, Rivalta e Moncalieri. Previste inoltre 106 chiusure, 82 di Carrefour Express e 24 di Carrefour Market. Un problema strutturale, quello che potrebbe aprirsi, legato principalmente al fatto che i Carrefour chiusi corrispondono ad altrettanti contesti di comunità locali e di vicinato che con l'avanzata tentacolare del gruppo francese, ben esaminabile in città come Milano, hanno visto la chiusura di attività di prossimità e la distribuzione organizzata finire in mano a un sostanziale oligopolista.

Proiezione diretta del sistema-Paese Francia, come dimostrato dalle manovre del governo di Emmanuel Macron per evitarne la scalata da parte di operatori stranieri nei mesi scorsi. Non sembra sufficiente la giustificazione di Carrefour Italia circa un piano che sarà "gestito su base esclusivamente volontaria" per la riduzione del personale: che ne sarà di chi lavora in punti vendita destinati alla chiusura, senza possibilità di trovare un altro market nelle vicinanze? Come conciliare questa dichiarazione con la certosina distribuzione dei tagli al personale tra le varie fasce di punti vendita? Come per Auchan, anche Carrefour sembra esser stata colpita dal contraccolpo della passata volontà di esercitare un assiduo, forse eccessivo presidio del territorio. Una "bulimia" di presenza che alla lunga ha potuto incentivarsi per la superiore potenza finanziaria del gruppo francese, ma non è stata finanziariamente sostenibile.

L'addio di Auchan

Nel 2019 Auchan ha scelto di ritirarsi dal mercato italiano promuovendo l'idea di un calo sensibile del fatturato retali e ceduto i suoi asset a Conad in seguito all’acquisizione realizzata dal veicolo Bdc, controllato dal gruppo distributivo (51%) e dalla WRM (49%) del finanziere Raffaele Mincione. La Conad è un gruppo in salute, ha chiuso il 2019 pre-pandemico con un fatturato da 14,3 miliardi di euro arrivato nel 2020 a 15,95 miliardi, in aumento del 12,3%, ma ha sempre messo in chiaro che l’operazione Auchan avrebbe portato in dote tagli ai punti vendita dei marchi controllati, compreso Simply, ridimensionamento delle attività non alimentari e sforbiciate al numero dipendenti. In sostanza, Auchan ha lasciato dietro di sé una situazione difficilmente gestibile in termine di management del patrimonio immobiliare, sviluppo della rete logistica, piani di crescita industriale.

Tanto da lasciare una vera e propria "patata bollente" in mano a Conad: "l’acquisizione di Auchan Italia da parte di Conad avvenne senza debiti pregressi e con un capitale sociale di un miliardo di cui 500 milioni versati da Auchan holding per coprire circa 30 mesi di possibili perdite", ha scritto Il Sole 24 Ore. Nel corso di un anno e mezzo attraversato dalla pandemia, è andato in scena un gigantesco processo di ristrutturazione nel corso del quale è stata data nuova forma alla struttura di rete costituita da 17 mila addetti in 269 negozi, più varie sedi regionali, poco più della metà delle quali (55%) è entrata in Conad. Il 40% è stato diviso tra varie sigle, insegne, dettaglianti. Il resto, invece, rischia di trasformarsi in una "Rust Belt" commerciale fatta di vani sfitti, negozi ridotti di dimensione, ipermercati in parte vuoti e, soprattutto, lavoratori nell'incertezza. A maggio in queste vertenze seguite alla precipitosa ritirata di Auchan dall'Italia rimanevano incerti i destini di 32 punti vendita ex Simply/Auchan con 838 addetti, di cui 5 quadri.

In entrambi i casi, i francesi rompono e i cocci sono italiani, in termini di problemi economici, posti di lavoro a rischio, attività legate all'indotto, alla logistica, alla subfornitura danneggiate o costrette a chiudere. Il protagonismo francese nella Gdo è dunque da tenere seriamente sotto controllo: e non è l'unico campo in cui la volontà transalpina di giocare un ruolo dominante nel nostro Paese può condurre a squilibri. Come, dagli alimentari alle Tlc, numerosi altri noti casi insegnano. Andrea Muratore

La polemica. Le Figaro sbaglia, Napoli è una città-mondo. Nino Daniele su Il Riformista il 18 Novembre 2021. Dall’empireo del primo mondo i giornalisti de Le Figaro hanno fatto ricorso alla più abusata metafora per descrivere Napoli: quella di essere una città da terzo mondo. Stereotipo talmente ripetuto da sconfinare nella ovvietà e nella banalità seriale. Se è tutto qui lo sforzo analitico dei redattori del giornale francese non possiamo che mostrarcene delusi. Prima ancora che addolorati. Non offesi. Non ci tange. Già l’espressione in sé contiene residui colonialistici nella visione del mondo che manifesta ma, soprattutto, stride con il fortissimo legame storico e culturale che lega Napoli alla Francia. Un rapporto che, grazie al lavoro di ambasciatori, consoli, direttori dell’Istituto francese di Napoli presso il Grenoble, ha prodotto iniziative culturali ed artistiche di estremo interesse e carica innovativa. Sia nella ricerca storica e filosofica che nei linguaggi dell’espressività artistica contemporanea la circolazione e la produzione culturale tra Napoli e la Francia è intensa, di mutuo arricchimento, feconda, creativa. Consideriamo pertanto l’angusta lettura de Le Figaro espressione di un punto di vista molto parziale e per nulla rappresentativo dello sguardo e della considerazione rispettosa con cui dalla Francia si guarda a Napoli. Le parole generose e amichevoli del presidente Macron e della sua consorte, così intimamente connessi con la nostra città, ne sono testimonianza preziosa e mettono al riparo un rapporto che ha molto da dare all’Europa e ai grandi ideali riformisti che devono guidarla fuori dalla crisi drammatica e dalle difficoltà presenti. La Napoli contemporanea è una grande metropoli euromediterranea nella quale sono riscontrabili mali, disagi sociali, croniche arretratezze, disuguaglianze di reddito ed opportunità ma nel contempo livelli alti ed eccellenti in molti campi della produzione, della ricerca scientifica, dei saperi e della conoscenza, dell’immaginario artistico, delle reti della solidarietà sociale e dei legami civili. Nella cultura, nelle arti, nella ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica Napoli è oggi uno dei luoghi più interessanti e stimolanti; attrae e affascina non solo per il suo patrimonio universale di pensiero e storia ma per la vitalità creativa e il talento che alimentano teatro, musica, letteratura, cinema, arti figurative ecc. Napoli è una città attraversata da aspre contraddizioni. I conflitti che la connotano non sono i residui di un passato non più redimibile, di un angolo morto della storia. Sono il cuore delle drammatiche alternative del presente dell’Occidente. In questo senso Napoli come in altri momenti cruciali della sua storia è città-mondo. Città che anche nei momenti più difficili della sua storia ha saputo parlare al mondo. Dialogare con il mondo. Idee e modelli di sviluppo, modi e forme delle relazioni tra ceti e classi sociali, gerarchie territoriali e di potere sono in discussione. Napoli vive, li attraversa, si rappresenta. Lo fa senza nascondersi e senza nulla occultare della drammaticità della posta in gioco. A volte spietata e senza indulgenze anche con sé stessa. Forse è per questa radicalità popolare e dei sentimenti che respinge le ipocrisie e si fa patria delle inquietudini e città rifugio per gli insoddisfatti del migliore dei mondi possibili dove alberga l’areopago de Le Figaro. Nella narrazione impegna il suo essere la città più filosofica del mondo e l’orgoglio dei grandi pensieri, delle grandi personalità, dei moti storici e civili che l’hanno messa in relazione da protagonista con i punti più alti della civilizzazione europea, dei diritti universali dell’uomo, della libertà e della giustizia. Napoli è uno dei centri di cultura dove si prova a forgiare un nuovo umanesimo. Napoli ha coscienza che non può farcela da sola. Che nessuno si salverà da solo. È scritto da sempre nella sua lingua, nella sua musica, nelle sue canzoni, nella sua drammaturgia, nella sua cinematografia, nei suoi testi letterari e poetici. C’è molta più Europa qui cari amici corrispondenti. Quella Europa che ha iniziato un cambio di passo per affrontare i drammi della Pandemia. Quell’Europa che ha forse cominciato a comprendere che muri, fili spinati, periferie sterminate, oceani di esclusione, fratture sociali e generazionali non sono terzo mondo ma all’interno del mondo. Viva Napoli e Parigi. Siano esse all’altezza della loro storia, guida verso un mondo che offra a tutti la possibilità di ricercare la felicità. Nino Daniele

Trasferta vietata per Marsiglia-Lazio, Botteri: “Sono laziale ma non sono fascista”. Riccardo Castrichini il 02/11/2021 su Notizie.it. Ai tifosi della Lazio è vietata la trasferta a Marsiglia, i tifosi sono "violenti e fascisti". La risposta della società e di Giovanna Botteri. Ha fatto molto discutere la decisione del Ministro dell’Interno francese di vietare la trasferta in Francia dei tifosi della Lazio in vista della partita di Europa League contro il Marsiglia. I supporter biancocelesti vengono definiti dal ministro “violenti e fascisti” e per questo non desiderati allo stadio Vélodrome. Contro questa scelta si è schierata anche la giornalista del Tg3 Giovanna Botteri che ha rivendicato la sua fede laziale e la sua completa adesione all’antifascismo. “Lo spostamento individuale o collettivo – si legge nell’ordinanza firmata dal ministro dell’Interno, Gérald Darmanin – con ogni mezzo, di qualsiasi persona che si definisca tifoso della Società Sportiva Lazio, o si comporti come tale, è vietato tra i punti di frontiera stradali, ferroviari, portuali e aeroportuali francesi, da una parte, e il comune di Marsiglia dall’altra parte”. La Botteri ha così risposto all’ordinanza: “Questo costringe l’intera tifoseria laziale ad essere bandita dalla Francia perché accusata di essere fascisti e violenti. Io sono una tifosa laziale e non sono né fascista né violenta. Sono una triestina e non sono una no vax e neanche una violenta”. Pronta è arrivata anche la risposta della Lazio che in un comunicato ha scritto: “La decisione del Ministero dell’Interno francese di vietare in via precauzionale la trasferta nella città di Marsiglia ai tifosi della Lazio non sorprende ed è in linea con quanto già deciso dalle Autorità italiane nella partita d’andata. A stupire sono piuttosto le modalità di applicazione dell’ordinanza su scala nazionale e le sue ingiustificabili motivazioni (di cui è stata data notizia anche sui tg nazionali): la Lazio non può accettare un’offesa gratuita a tutta la tifoseria biancoceleste ed alla Società stessa, che ha sempre combattuto con azioni concrete i comportamenti violenti ed ogni tipo di discriminazione, dentro e fuori gli stadi”. “Ci attendiamo quindi – si legge ancora – un chiarimento da parte delle istituzioni francesi ed una presa di posizione netta della nostra diplomazia verso espressioni di qualunquismo che dovrebbero indignare tutti gli italiani, a prescindere dall’essere tifosi o meno e dai colori delle proprie bandiere”.

Da corrieredellosport.it il 4 novembre 2021. La Lazio non può sbagliare per evitare di complicarsi i piani in Europa League. Al Velodrome deve fare risultato contro un Marsiglia carico e voglioso con lo stesso obiettivo in testa: portare a casa i tre punti. In conferenza stampa, il tecnico biancoceleste Maurizio Sarri (comunista), ha parlato della sfida con i francesi e del momento: "Mi aspetto una partita difficile, all’andata il Marsiglia ha dimostrato grande doti di palleggio Attaccano con un modulo, difendono con un altro. “Il ministro francese? Se fossi in Lotito lo inviterei a vedere le partite della Lazio, si renderebbe conto di aver detto una cazzata.

Verso le presidenziali del 2022. Chi è Eric Zemmour, il giornalista xenofobo che vuol fare le scarpe a Le Pen. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 3 Novembre 2021. Le campagne elettorali durano ormai sempre più a lungo. Le elezioni dirette per designare il nuovo presidente francese avranno luogo fra sei mesi, in aprile del prossimo anno. Ma la campagna elettorale è già in pieno svolgimento, occupa costantemente le prime pagine dei giornali e invade i media di oltralpe. La situazione però è ancora particolarmente fluida. Oggi, sulla base degli ultimi sondaggi, i due possibili sfidanti al secondo turno – quello che avrà luogo se, come certamente accadrà, al primo nessuno dei candidati avrà ottenuto il 50% più uno dei voti validi – potrebbero essere due candidati non ancora ufficialmente dichiaratisi: Emmanuel Macron e Eric Zemmour. Il presidente uscente, per ragioni di etichetta, attenderà ancora un po’ a scendere ufficialmente in campo: è ancora il presidente in carica e non può fare troppo presto il candidato. Quanto al secondo possibile finalista, finora da noi meno noto, è utile fornire qualche informazione supplementare su di lui, anche per capire i motivi per cui attende a candidarsi ufficialmente: probabilmente dirà che glielo chiedono i cittadini – lui non ci voleva necessariamente andare, ma è stato trascinato dal popolo. In realtà, per ora Zemmour non ha ancora le cinquecento firme di sostegno necessarie per candidarsi alla presidenza da parte di eletti parlamentari o locali. Eric Zemmour, 63 anni, ebreo berbero e giornalista per molto tempo del Figaro, era conosciuto in Francia per la sua verve di polemista, spesso invitato a parlare nei talk shows televisivi, e per le sue posizioni estremiste, particolarmente ostili ai mussulmani, ma anche alle donne. Figlio di immigrati algerini, cresciuto nella banlieue parigina a Drancy, ha certamente faticato non poco ad “assimilarsi” – vedremo che questo termine è importante per lui – alla cultura francese, non particolarmente favorevole agli immigrati magrebini. Questo e le sue letture hanno avuto su di lui un effetto non del tutto sorprendente, producendo quello che in tedesco si chiama Überanpassung, termine con il quale si intente una conformità eccessiva ad una situazione nuova e diversa nella quale uno si trova a vivere, un po’ come accade a chi diventa e gli conviene diventare più realista del re. Oggi nei sondaggi (quanto a domani, si vedrà), pur avendo iniziato la sua pre-campagna da poco, il figlio di algerini “assimilato” potrebbe superare tutti i possibili sfidanti di Macron, non solo quelli della sinistra divisa in vari tronconi, ma anche quelli della destra liberale e filoeuropea, che non ha per ora un suo esponente unico. Le ricerche sulle intenzioni di voto assegnano oggi a Zemmour tra il 15 e il 17% al primo turno delle presidenziali, quello che seleziona i due candidati per il ballottaggio. Nei primi sondaggi in cui era apparso il suo nome, in luglio, le intenzioni di voto lo davano al 5-7%. Certo è troppo presto per sapere se sarà lo xenofobo Zemmour lo sfidante di Macron per la presidenza della Repubblica in Francia. Bisognerà aspettare la candidatura della destra gaullista. Ma è importante cercare di capire che cosa rende possibile che un outsider come lui possa ottenere una tale rapida e sorprendente esplosione di popolarità nella Francia dei Lumi e dei diritti universali, lui che dei Lumi, della Rivoluzione, oltre che dell’Unione Europea è un nemico dichiarato. E anche un fan di Trump, il presidente americano più detestato dai francesi. Occorre anzitutto sottolineare che questa elezione presidenziale è senza precedenti, perché caratterizzata da un contesto politico estremamente incerto. Eletto cinque anni fa agevolmente al secondo turno contro Marine Le Pen, Macron ha avuto difficoltà a governare perché si è scontrato con varie e molteplici forme di protesta sociale, dagli scioperi che hanno bloccato la riforma sulle pensioni alla rivolta del gilets jaunes e, in seguito, con la pandemia, che ha ulteriormente frenato la volontà riformatrice del presidente. Intanto il processo di disgregazione delle tradizionali componenti del sistema partitico francese è precipitato. Né la sinistra tradizionale, che aveva garantito a Mitterrand 14 anni di presidenza, né la destra post-gaullista sembrano in grado, per il momento, di presentare un candidato espressione dei due campi politici che hanno dominato fino alle ultime elezioni presidenziali il panorama politico della Quinta Repubblica. La frammentazione del sistema dei partiti, nonostante una legge elettorale non proporzionale, mina il sistema istituzionale dove il presidente fa pensare ormai – contro le speranze del Generale – al re della Monarchie de Juillet, che regnava, ma non doveva governare. La migrazione dal giornalismo alla politica elettorale di Zemmour si può provare a spiegare tenendo dunque conto di qualche aspetto della realtà politica francese. Prima della sua irruzione nel mercato dell’offerta politica, la sfidante di Macron, preconizzata da praticamente tutti gli osservatori politici sulla base dei sondaggi, era Marine Le Pen. Malgrado il fatto che i francesi, in base ai sondaggi di opinione degli ultimi mesi, non vedevano di buon occhio la ripetizione dello stesso film di cinque anni fa: la sfida Macron – Le Pen. Inoltre, il Rassemblement National (il nuovo nome del partito di destra radicale e nazionalista della disunita famiglia Le Pen – il vecchio Jean-Marie sostiene Zemmour piuttosto che la figlia, la quale per lui non è abbastanza estremista) aveva del piombo nelle ali dopo la sconfitta inattesa nelle ultime elezioni locali. Oltre che a causa probabilmente dello sforzo fatto negli ultimi anni per rendersi presentabile, attutendo i toni estremisti della sua propaganda politica. Ma in Francia, come altrove, se la destra si de-radicalizza, si forma subito uno spazio vuoto, che Zemmour, autore di un libro recente, La Francia non ha detto l’ultima parola, ha prontamente occupato. La propaganda di Zemmour è semplice e monocorde e presenta una versione non letteraria di quella fantasiosa del romanzo di Houellebecq, La sottomissione. La Francia, come al tempo di Carlo Martello, sarebbe minacciata da una invasione di mussulmani che ne distruggerebbero la matrice cristiana e i suoi valori. E forzerebbero le donne a coprirsi il volto (anche dopo la fine della pandemia) e i maschi a riprendere il loro “naturale” potere nei confronti di tutti i diversi: di cultura e di gender. Nei confronti del pericolo di tale minacciosa “grande trasformazione” Zemmour, gentile nella forma (come è ormai divenuto nei talk shows per vendersi sul mercato politico), ma estremista nei contenuti, ripropone una ricetta apparentemente semplice eppure, oltre che radicale, minimalista e irrealizzabile: espellere i mussulmani (quelli senza passaporto francese, supponiamo, perché espellere gli altri sembra impossibile, dato che, come lui che non è mussulmano, sono diventati in gran parte cittadini francesi). Non sa bene, forse, che espellere un immigrato, sperando di sapere dove mandarlo, costa, pare, 5.000 euro a persona. Lui esige che ogni abitante del territorio della Francia diventi un “assimilato” come lui. Ma non si rende conto che il problema è molto più grave e che non basta invocare due dei suoi eroi, Napoleone, che ha però esportato in Europa la dichiarazione dei diritti, e De Gaulle, che ha schiacciato l’estrema destra francese dando l’indipendenza all’Algeria. Gérard Larcher, il presidente conservatore e gaullista del Senato, ha dichiarato di non condividere nessuno, proprio nessuno (così ha detto) dei valori di Zemmour. La lunga campagna elettorale francese è solo all’inizio. Bisognerà tornarci sopra. Più di una volta. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino 

Eric Zemmour, chi è lo xenofobo che punta all’Eliseo in Francia. Sessista, ultraliberista, intollerante, popolarissimo in tv. Dopo Marine Le Pen la destra francese ha trovato il suo nuovo idolo. Federica Bianchi su L'Espresso il 28 ottobre 2021. Affascinante. Ultra ambizioso. Senza scrupoli. Come fece a sinistra Emmanuel Macron nel 2017, così oggi, a sei mesi dalle elezioni presidenziali, sogna Éric Zemmour di fare a destra. Imbastire rapidamente una nuova forza politica che intercetti le frustrazioni di quella parte dell'elettorato e che gli consenta in sei mesi di ascendere alla presidenza della Repubblica francese. Con in più l'ambizione dichiarata di diventarne lui, campione del politicamente scorretto, il Charles de Gaulle del 21esimo secolo, l'uomo forte che riporterà la Francia agli splendori antichi, dopo anni di presunto declino politico e sociale. La sua candidatura non è ancora stata ufficializzata, ma già da un mese l'intellettuale ebreo di origini algerine, noto da una decina d'anni per le posizioni ultranazionaliste e condannato due volte per istigazione all'odio razziale, ha preso a girare in lungo e in largo l'Esagono per presentare il suo ultimo libro, "La Francia non ha detto ancora l'ultima parola", sulla cui copertina appare a braccia conserte, la bandiera nazionale che sventola alle spalle. Un libro dal titolo che riecheggia lo slogan “Make America great again” di Donald Trump, l'ex presidente americano con cui condivide la nostalgia di un'indefinita età dell'oro che lui solo può resuscitare. Lingua tagliente e battuta pronta, Zemmour fa capolino quotidianamente da ogni trasmissione televisiva. Fisico asciutto, occhi chiari e naso imponente, ovunque distribuisce polemica e tempesta, e per ogni leader politico ha un commento sarcastico, quando non sprezzante. Macron incluso: «Pensavo fosse un Sarkozy meno rozzo e invece è solo un Hollande meglio vestito». Cresciuto in quella che è oggi la banlieue parigina di Saint Denis, un luogo che chiama con sdegno «enclave islamista», da cui la famiglia si è spostata quando era adolescente, se ne è riscattato con l'ammissione alla prestigiosa università di SciencePo. Ha mosso i primi passi da giornalista nel Quotidien de Paris per poi passare al quotidiano di destra Le Figaro ma è diventato noto al grande pubblico grazie al canale televisivo C-news, una specie di Fox News francese, che ne ha amplificato le tesi estremiste: dall'idea che la femminilizzazione della società sia la causa dei mali moderni a quella che gli immigrati possano trovare spazio in Francia solo se accettano di essere assimilati ai francesi. Scrittore assiduo di saggi e romanzi, il successo letterario arriva nel 2015 con il libro "Il suicidio francese", 500mila copie e il premio Combourg-Chateaubriand, in cui spiega come gli eventi degli anni Settanta siano alle radici dell'epoca infelice in cui viviamo. Già nell'introduzione c'era una frase che in questi giorni sta diventando la base del suo programma politico: «È ora di decostruire i decostruzionisti». A differenza del Macron dell'autunno 2016, Zemmour non ha ancora un suo movimento, anche se stanno aumentando velocemente i fan che si riconoscono in «Generazione Z», zeta come Zemmour appunto, l'associazione nata per sostenerne la candidatura presidenziale. Moltissimi gli uomini, di destra ma non solo, tanti i giovanissimi alla ricerca di un leader da seguire. «Ho votato Hollande nel 2012, poi Fillon», racconta ridendo Marie, 30 anni, tra le sostenitrici di GenerazioneZ: «Oggi senza di lui non saprei chi votare. È l'unico che ha un'idea chiara del futuro della Francia. Marine Le Pen ha dimostrato nel 2017 di non avere la statura da capo di Stato». La sua squadra sta prendendo forma. Sarah Knafo, l'affascinante enarca 28enne con cui Zemmour, sposato e padre di quattro figli, è stato fotografato due settimane fa in pose affettuose al mare durante una pausa del tour pubblicitario, è da un anno che gestisce le sue relazioni pubbliche, i rapporti con i media e ora la campagna elettorale, seguendolo come un'ombra da una conferenza a un dibattito televisivo. Il modello di campagna è quello utilizzato tra il 2016 e il 2017 da Macron: un pugno di giovani fidatissimi, un brand che ispira fiducia nelle qualità del leader carismatico, un gruppo di grandi finanziatori a cui restare legato una volta al governo e una retorica personale elaboratissima. «Certo che la forma è la stessa», ha detto a chi ne chiedeva conto: «Abbiamo iniziato entrambi senza un partito!». A cambiare completamente però è il contenuto politico: il mito della «nazione start up» con cui Macron voleva sostituire il vecchio ordine economico francese è stato rimpiazzato dall'obiettivo di «salvare la nostra identità e ristabilire la nostra sovranità». Pallone gonfiato destinato ad afflosciarsi con l'arrivo della primavera o fenomeno nuovo, destinato a sconquassare la destra? I sondaggi lo danno in costante crescita dall'estate fino a raggiungere il 16-17 per cento negli ultimi giorni, in un testa a testa con Marine Le Pen. Sono molti a credere che al ballottaggio con Macron alla fine ci andrà lui. «Quello che colpisce è che Zemmour è un candidato che attira tutti», osserva Frédéric Dabi, direttore generale dell'Ifop: «Rosicchia nei due segmenti elettorali della destra e mi chiedo quando si fermerà. La dinamica è così forte che non credo a uno sgonfiamento. Mai vista una cosa simile a sei mesi dal voto». Ed è per questo che Robert Ménard, ex fondatore di Reporter senza frontiere, oggi sindaco di Bezier e grande sostenitore di Le Pen, ha lanciato un appello per l'unione politica tra lui e la leader sovranista con lo scopo di battere l'attuale presidente. Ma è difficile che accada. Zemmour non perde occasione di ricordare come Le Pen abbia malamente perso il dibattito presidenziale del 2017, «umiliando» la destra e dimostrando incompetenza, e come, difendendo le istanze delle classi sociali più deboli, si sia alienata i consensi della borghesia di destra. Le Pen, in calo nei sondaggi nonostante o forse a causa degli sforzi fatti per posizionarsi più al centro, lo considera un estremista ultraliberista pronto a smantellare lo stato sociale. Non ha torto. Nel suo programma Zemmour, che ha definito «demagogica» l'ipotesi di aumentare il salario minimo, prevede di alzare l'età pensionabile a 64 anni, di sopprimere le imposte di produzione, di ridurre le tasse sulle Pmi e di tagliare i contributi sociali. «Un compito liberista classico da bravo studente ma senza dettagli e senza fonti di finanziamento», osserva Jean-Hervé Lorenzi, fondatore del think-tank parigino Cerchio degli Economisti. Tanto più che è improbabile che la sua misura economica di punta, la cancellazione delle prestazioni di solidarietà non contributive per gli stranieri, porti grandi risorse in cassa. Con toni che ricordano quelli usati dai sostenitori della Brexit quattro anni fa, ha più volte twittato che «gli ospedali sono assediati da una popolazione venuta da tutto il mondo», anche se i dati dimostrano che solo l'1 per cento dei pazienti dei pronto soccorso si serve dell'aiuto medico concesso dallo Stato agli immigrati irregolari indigenti. Ma è proprio la lotta all'immigrazione islamica il principio cardine su cui si regge il suo successo. «Penso che ci dirigiamo verso il caos. Questa situazione di un popolo nel popolo, dei musulmani all'interno del popolo francese, ci condurrà alla guerra civile», ha detto, aggiungendo, in un secondo tempo, che «la guerra civile è già iniziata. Come vogliamo altrimenti definire gli atti orribili che si ripetono sul suolo francese come l'assassinio di Samuel Paty? Ci sono milioni di persone che vivono qui in Francia e che non vogliono vivere alla francese» e, anzi, perseguono «una logica colonizzatrice». Zemmour si pone personalmente come esempio di «assimilazione riuscita» al punto che si spinge a dire, lui ebreo, che la Repubblica di Vichy protesse gli ebrei, quando invece ne inviò a migliaia nei campi di concentramento. E propone di impedire l'utilizzo per i nuovi nati di nomi non francesi, da Mohamed a Karim, così che l'assimilazione inizi fin dalla culla. Se l'immigrazione è il male assoluto della società francese non è però il solo. L'altro è l'individualismo nato all'incrocio del Rinascimento italiano e del protestantesimo tedesco che ha trasformato delle grandi nazioni in «società d'individui paurosi e capricciosi che esigono la riconoscenza delle loro sensibilità e delle loro fragilità». Risultato? Una società femminilizzata, dunque debole, che considera tossica la virilità, in cui non esiste la razza ma esistono i razzisti, e dove i razzisti sono solo i bianchi, per la quale il capitalismo e il patriarcato maltrattano le donne e distruggono il pianeta, in cui la scuola ha come compito la riduzione delle disuguaglianze e in cui la Francia non può fare nulla senza l'Europa. In sintesi: quello di Zemmour è un atto di accusa contro tutte le conquiste recenti della società occidentale e un inno ad un modello di società arcaica, fondata su una ricetta misogena, razzista, omofobica, sovranista, ultra capitalista, classista e fortemente antieuropeista. Per l'intellettuale di destra il ritorno al passato, ovvero a prima della rivoluzione del 1968, quando «le donne facevano le donne» e non esisteva la «teoria del genere» e la comunità Lgbtq non era riconosciuta e accettata, è il solo modo di salvare la Francia dalla sua sparizione come nazione. Intervistato dal canale allnews Bfmtv, non ha esitato a dire di essere «contro ogni tipo di discriminazione positiva, dunque contro la parità» perché tanto «il problema delle donne non è sedere in un cda quanto il non farsi aggredire dai migranti». Una cosa è certa. Dalla sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo fino agli antipodi della leader sovranista Marine Le Pen, passando per Emmanuel Macron, Zemmour è riuscito a mettersi contro l'intero arco dei politici francese. Sarà un sintomo della sua forza o, invece, della sua debolezza?

Tunisino fa la migliore baguette di Parigi. Definiva "cani" i francesi. Alessandra Benignetti l'1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il fornaio tunisino vincitore del concorso che premia la migliore baguette della capitale francese è accusato di aver postato messaggi anti-francesi sui social. Lui si difende: "Account hackerato". Ma le forze dell'ordine aprono un'indagine. Per qualche ora è stato il simbolo dell’inclusione e dell‘integrazione possibile. Makram Akrout, titolare di una panetteria al civico 54 di boulevard de Reuilly, nel XII arrondissement di Parigi, è arrivato in Francia dalla Tunisia a 23 anni. Per sei ha vissuto da clandestino, poi ha trovato lavoro come fornaio, ha ottenuto la cittadinanza francese e una manciata di giorni fa è stato proiettato nell’Olimpo dei panettieri, quando una giuria di chef e rappresentanti della categoria lo ha nominato vincitore del concorso per la baguette più buona di Parigi. Un riconoscimento importante, visto che il primo classificato tra i 173 sfidanti diventa automaticamente il fornitore ufficiale dell’Eliseo per un anno. È stata anche la presidenza francese, infatti, con un tweet, a complimentarsi con il panettiere di origine tunisina, il quinto nordafricano ad aggiudicarsi il premio negli ultimi anni. Segno, scrivono i principali media francesi, che i migranti possono davvero integrarsi nella società, assimilandone le tradizioni fino a superare le maestranze locali. Akrout si è goduto il suo successo, finché non è finito al centro di un’indagine delle forze dell’ordine per una serie di messaggi che sarebbero stati pubblicati sul suo account di Facebook. Post in cui difende la religione islamica attaccando la Francia e i francesi, definiti "cani". A ripescarli in rete sono stati, secondo quanto si legge sui quotidiani locali, dei militanti di estrema destra, indignati per il fatto che il prestigioso riconoscimento fosse stato assegnato ad un panettiere musulmano di origine nordafricana. Il contenuto delle frasi scritte in arabo è stato pubblicato da Hala Oukili, giornalista di Sud Radio e del quotidiano online Causeur. È stato tra i primi a scoprire che nel 2019 Akrout se la prendeva con la Francia, accusata di "propagare la decadenza in Tunisia per proteggere i suoi interessi coloniali e spingerci ad allontanarci dalla religione e dai valori islamici". E ancora, un anno fa, polemizzava: "Abbiamo pianto per Charlie Hebdo e Notre Dame a fianco della Francia, ma questi cani non piangono mica quando ci si prende gioco del creatore Allah".

Frasi ben lontane dai valori fondanti della République, impegnata sotto la presidenza Macron in una dura lotta contro l’estremismo e il separatismo islamico. E la beffa, sottolinea qualcuno, è che l’autore di certi post stia per diventare il panettiere di fiducia del capo dell’Eliseo. Il fornaio tunisino ha preso le distanze sporgendo denuncia e si è difeso sostenendo che il suo account fosse stato hackerato. Ma le forze dell’ordine ora stanno scandagliando i suoi account per capire se si ponga o meno un problema di sicurezza per il presidente. Il suo avvocato, intanto, citato dall’emittente francese Bfmtv, parla di un "cliente distrutto da quello che ha letto sulla rete". "Gli screenshot – ha dichiarato – provengono dall’estrema destra e Akrout li contesta". Anche per il comune di Parigi si tratta soltanto di voci non confermate. Tant’è che, dopo una iniziale esitazione, un portavoce della sindaca, Anne Hidalgo, ha fatto sapere che la cerimonia di premiazione resta confermata per la giornata di domani a Notre Dame. Ma la polemica sulla "baguette" è appena iniziata. Philippe Olivier, eurodeputato del Rassemblement National di Marine Le Pen su Twitter attacca l'Eliseo: "Malgrado le rivelazioni sui suoi post ostili alla Francia e la connotazione islamista del signor Akrout, si continua a promuoverlo". "Il nostro Paese - commenta - viene umiliato fino alla tavola del presidente".

Alessandra Benignetti. Nata nel 1987, vivo da sempre a Roma, città che amo. Sono laureata cum laude in Scienze Politiche all'Università La Sapienza, giornalista pubblicista, moglie e mamma. Appassionata di geopolitica e relazioni internazionali, per il Giornale.it realizzo video reportage e inchieste

Come funzionano i servizi segreti francesi. Andrea Muratore su Inside Over il 22 settembre 2021. Nel quadro della ricostruzione della potenza nazionale operata dal generale Charles de Gaulle dopo la sconfitta francese nell’invasione tedesca del 1940 la Republique ha potuto usufruire dell’apporto di un apparato di sicurezza fondato su un sistema di servizi segreti estremamente professionalizzato e spregiudicato. L’intelligence francese è un cardine della proiezione di potenza transalpina e ne rappresenta la garanzia della capacità di azione su scala globale che solo pochi attori nel campo occidentale guidato dagli Stati Uniti possono permettersi di avere.

Una lunga tradizione. L’intelligence in Francia è mestiere antico e metodo di acquisizione di potenza consolidato. Maestri di intelligence furono importanti esponenti della Francia monarchica che tra Medioevo e Età Moderna fu al centro della politica europea: i cardinali Richelieu e Mazzarino e il “Diavolo zoppo” Talleyrand, ministro degli Esteri dei Borbone e di Napoleone Bonaparte, seppero gestire complessi apparati informativi alla loro dipendenza personale che valorizzarono sia l’interesse nazionale di Parigi sia la loro prominente posizione delle dinamiche politiche europee. Dall’epoca di Luigi XIII e almeno fino all’età napoleonica, in particolare, negli uffici di governo dell’Esagono fu attivo il Cabinet noir, una centrale di intelligence che otteneva informazioni controllando la corrispondenza di settori o enti ritenuti di rilevanza sensibile. Dopo la disfatta contro la Prussia di Otto von Bismarck nel 1870, invece, la Terza Repubblica si dotò di un sistema strutturato di intelligence militare, costituito come secondo ufficio dello Stato maggiore, da cui il nome “Deuxième Bureau”. Il Db restò in attività fino alla caduta della Francia nel 1940 e si conquistò in particolare grande fama come primo servizio d’intelligence capace di utilizzare le tecnologie di decrittazione e codifica dei cifrari militari segreti, arrivando nel 1918 a violare il cifrario tedesco ADFGVX e a fornire al comando supremo alleato del maresciallo Ferdinand Foch informazioni preziose sui movimenti delle truppe tedesche del generale Luddendorf prossime all’ultima, disperata offensiva che le avrebbe portate a cinquanta chilometri da Parigi prima della disfatta dell’autunno successivo.

L'intelligence della "Republique". Charles de Gaulle, guidando la resistenza della Francia Libera contro la Germania e il regime di Vichy, dotò le istituzioni militari fedeli alla Repubblica di un sistema nuovo, destinato a tenere i contatti con i partigiani operanti sul territorio metropolitano, a carpire informazioni nel campo degli Alleati, a lungo ambigui col Generale, e a strutturare la difesa delle aree rimaste fedeli al governo in esilio. Il Service de Renseignements (SR) fu fondato nel 1941 sulle ceneri del Db e fu alla base della strutturazione dei servizi segreti repubblicani rinati dopo la liberazione del 1944. Dal 1944 fu dunque attivo il Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage (Sdece) subordinato non più allo Stato Maggiore ma al presidente del Consiglio nell’era della Quarta Repubblica e, dopo la riforma semipresidenzialista, al primo ministro e attraverso di questi al presidente della Repubblica, “monarca repubblica” dell’era gaullista inaugurata nel 1958. Questo cambio di prospettiva si consolidò negli anni anche dopo la trasformazione dello Sdece in Direction générale de la sécurité extérieure (Dgse) nel 1982, nell’era di François Mitterrand, e rafforzò l’intelligence come strumento della proiezione di politica estera della Francia negli anni del declino dell’impero coloniale e della potenza mondiale di Parigi. L’intelligence francese fu in prima linea nel difendere gli ultimi avamposti in Indocina, a condurre la “guerra sporca” a favore dei pied-noir intenti a difendersi dal Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria, nel tentare di promuovere la causa francese nel Biafra nigeriano sul finire degli Anni Sessanta e, contro la volontà stessa di De Gaulle, nel trasferire tecnologia nucleare a Israele. Vero e proprio Stato nello Stato, la Sdece arrivò addirittura a supportare il separatismo del Quebec provocando l’ira del primo ministro canadese Pierre Trudeau e fu coinvolta nel puntellare i regimi africani favorevoli a Parigi dopo la decolonizzazione e a tentare di detronizzare i leader divenuti scomodi. Un tentativo del genere riuscì nel 1979 con l’Operazione Barracuda che portò alla fine del regime dei Jean-Bedel Bokassa in Repubblica Centrafricana, mentre analoghe azioni condotte contro Muammar Gheddafi nel medesimo periodo non sortirono effetti paragonabili, anche se in seguito la Dgse sarebbe stata in prima linea nel sostegno ai ribelli libici durante la rivoluzione del 2011 che condusse alla caduta del Colonnello. Tra gli Anni Novanta e Duemila, inoltre, successi importanti furono ottenuti con la fornitura di armi ai ribelli kosovari e l’infiltrazione nei campi di addestramento dei jihadisti in Afghanistan.

Il fronte interno. La presenza di una forte problematica securitaria interna e dell’insorgenza terroristica a partire dall’inizio degli Anni Duemila ha spinto la Francia a dotarsi di capacità di analisi d’intelligence interna con la strutturazione della Direction générale de la sécurité intérieure (DGSI) quale agenzia di coordinamento di tutte le competenze in materia di antiterrorismo, lotta al cybercrimine, controspionaggio e prevenzione dell’attività criminale prima parcellizzate tra diversi corpi di polizia. La Dgsi fa capo al ministero dell’Interno ed è stata subito esposta alla sua prima, impegnativa prova del fuoco di fronte all’ondata di attentati che a partire dall’assalto a Charlie Hebdo del gennaio 2015 ha sconvolto il Paese. Di importanza fondamentale per la Francia è anche la creazione di una strutturata cultura di intelligence economica trasversale alle varie agenzie governative. La Scuola di Guerra Economica francese (antesignana europea della materia) ha condotto analisi importanti sul tema dell’utilizzo del ciclo delle informazioni come strumento di costituzione di vantaggio competitivo in termini politici ed economici per sfruttare settori strategici in funzione dell’interesse nazionale. In Francia il capitalismo nazionale è “politico”, l’attore pubblico si adopera perché i mercati esteri siano aperti all’azione dei campioni industriali francesi e questi ultimi agiscono da portavoce delle priorità nazionali. Su questa sinergia s’innesta una cooperazione che porta la Francia a proiettarsi oltre le sue frontiere grazie all’industria e alla finanza nazionale, fattispecie ben conosciuta sul territorio italiano. Recentemente, in virtù di una proposta di legge fatta dal Senato francese, il 25 marzo 2021 è stata posta in essere oltralpe la possibilità di creare un Segretariato generale per l’intelligence economica (Sgie) sotto l’autorità del Primo Ministro che come dichiarato dall’analista Giuseppe Gagliano a L’Espresso avrà il compito di “anticipare e agire di fronte agli attacchi economici che potrebbero indebolire il Paese e consigliare le autorità pubbliche e gli attori economici per scopi operativi”. Gagliano ha sottolineato che la proposta di portare la politica francese a considerare la nascita dello Sgie come evoluzione naturale delle sue agenzie d’intelligence è frutto della “professionalità nel campo della analisi e della prassi di intelligence in senso lato di Alain Juliett che nel 2009 fu nominato Alto responsabile per l’intelligence economica per il Primo Ministro oltre ad aver occupato incarichi di rilievo” in seno alla Dgse. L’intelligence francese è dunque un corpo vivo che, tra operatività, azione autonoma e sviluppi complessi, recepisce e si adatta alle priorità del sistema Paese e agli sviluppi del contesto mondiale. Rappresentando un presidio fondamentale per la natura di grande potenza che Parigi intende promuovere e coltivare.

Stefano Montefiori per “corriere.it” il 25 agosto 2021. Una coppia simbiotica, nella quale non è chiaro dove finisce uno e comincia l’altro, che si parla di continuo a ogni ora del giorno, prestata alla politica ma fondata per sempre sul romanticismo. Così la scrittrice Gaël Tchakaloff descrive Emmanuel e Brigitte Macron nel libro «Tant qu’on est tous les deux» , che esce oggi nelle librerie francesi per Flammarion/Versilio. «Purché stiamo insieme» è il titolo e il senso delle due vite: la politica e l’Eliseo appaiono come elementi secondari, temporanei, il terreno nel quale si esprime oggi, per il momento, la loro intesa, che è la vera priorità della coppia. Tchakaloff ha scritto questo libro dopo avere frequentato i Macron per cinque anni, diventando amica soprattutto di Brigitte. Una relazione che si è incrinata quando la scrittrice 49enne le ha confidato il progetto. «Ti ho spiegato che il mio libro avrebbe parlato di voi due, e non solo del Presidente, perché mi sembrava impossibile scrivere su di lui senza scrivere su di te — spiega Tchakaloff rivolgendosi all’amica —. Non lo hai sopportato. Le tue parole fredde, definitive, hanno interrotto il nostro scambio». La première dame è chiara: «Non voglio che si parli di noi, che la nostra coppia sia esposta». Ma per 250 pagine il libro cerca di fare luce sull’amore tra due persone che si sono conosciute sui banchi del liceo avendo l’una 24 anni più dell’altro. Un rapporto che non può non avere conseguenze sul governo della Francia, se è vero, come sostiene Tchakaloff, che su qualsiasi tema politico il presidente ha un consigliere più influente di tutti gli altri, sua moglie Brigitte Trogneux. Racconta l’amico Gaspard Gantzer: «Una sera vedo arrivare questa donna che dimostra meno dei suoi anni ma è nettamente più grande di Emmanuel, e quel che è incredibile è che si comportano come adolescenti, stanno tutto il tempo a pomiciare, si tengono per mano». Gantzer è compagno di corso all’Ena (la scuola delle élite che Macron ha appena chiuso, ndr), ed è stato poi il responsabile della comunicazione del presidente François Hollande quando Macron era ministro dell’Economia. «Lei gli offre un amore incondizionato che lo sostiene, gli dà una fiducia smisurata in se stesso». Ganzter racconta anche di come Macron ha annunciato all’allora presidente Hollande che avrebbe lasciato il governo per candidarsi all’elezione presidenziale: con un sms, il giorno dopo essere entrato nel suo ufficio senza dirgli niente. «Emmanuel non è affatto un tipo cattivo, si affeziona sinceramente alle persone. Ma quando si tratta di cose di lavoro, può essere spietato». Valérie Trierweiler, che è entrata all’Eliseo come compagna di Hollande prima di scoprire il tradimento con Julie Gayet, è entusiasta del libro e di una «complicità indistruttibile che fa la forza di questa coppia fuori del comune». La scrittrice Gaël Tchakaloff ha raccolto la testimonianza anche della madre di Macron , Françoise Noguès. Mancano pochi mesi all’elezione della primavera 2022, e il presidente in carica sembra confermarsi tutto fuorché un politico di professione. «Emmanuel prima o poi si lancerà nella scrittura — dice la madre —, credo che cambierà strada. Non è il tipo da fare conferenze politiche in giro per il mondo. A 27 anni non sapeva che cosa avrebbe fatto nella vita, e oggi (a 43, ndr) penso che sia uguale».

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 23 agosto 2021. Joséphine Baker porterà il sorriso, la voce, il suo gonnellino di banane, i seni nudi, e la sua pelle nera, dentro al Panthéon francese. Dal 30 novembre, le spoglie della famosa ballerina e cantante, prima star internazionale di colore, nata nel Missouri e naturalizzata francese, riposeranno sotto la cupola che celebra «i grandi uomini» di Francia, come si legge ancora sul frontone del monumento, sulla collina del quartiere latino di Parigi. In realtà Josephine Baker, morta nel 1975 a 69 anni, sarà la sesta donna ad essere panteonizzata, accanto, tra le altre, a Marie Curie e all'ex ministra Simone Veil, oltre a Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, Victor Hugo, Emile Zola E' stato Emmanuel Macron a dire sì a fine luglio al comitato che da qualche anno si batte per onorare Joséphine Baker, la quale non fu soltanto vedette e cantante, ma partecipò anche alla Resistenza francese contro i nazisti, entrò nel controspionaggio, ricevette la Legion d'Onore e lottò poi al fianco di Martin Luther King per i diritti civili. La petizione per chiedere di onorare la vedette tra i grandi della patria aveva raggiunto le 38mila firme. «Artista, prima star internazionale nera, musa dei cubisti, entrata nella resistenza durante la seconda guerra mondiale, attiva al fianco di Martin Luther King e in Francia con la Lega internazionale contro il razzismo e l'antisemitismo, noi riteniamo che Joséphine Baker abbia tutti i diritti di avere un posto al Panthéon» si leggeva nel testo, proposto, tra gli altri, dallo scrittore Pascal Bruckner. «Ebbene, io dico che avete ragione!» ha detto Macron il 21 luglio ai membri del comitato ricevuti all'Eliseo, secondo quanto riportato dal Parisien e poi confermato dall'entourage del Presidente. Nata nel 1906 nel Missouri da una mamma ballerina e padre artista di strada che abbandonò presto la famiglia, Joséphine fu costretta a sposarsi una prima volta a 13 anni e una seconda a 14, ma non smise di cantare e ballare meravigliosamente, con compagnie itineranti.

SUPERSTAR A PARIGI Sbarca a Parigi nel 1925 e diventa quasi subito una superstar, con uno spettacolo che fa scandalo, La Revue Nègre, portando il charleston ai francesi e una musa ai cubisti come Desnos o Picabia, sempre in prima fila. Nel '37 è naturalizzata francese, poi partecipa alla guerra. Torna sulla scena nel '75, per una serie di spettacoli al teatro Bobino. Muore, colpita da ictus, al termine della 14esima rappresentazione. Non poté avere figli, ma ne adottò dodici: «la mia tribù arcobaleno» diceva. 

Houellebecq, Onfray, Zemmour: dalla nuova “rive droite” i sovranisti chic soffiano sul fuoco. Da sinistra alla reazione. E dalle élite al populismo. È il percorso che unisce in Francia un gruppo di intellettuali à la page. Vittimisti, vanesi e retorici, nemici dell’Europa e dell’Islam, irrompono nella campagna per le presidenziali del 2022. E vogliono sconfinare. Anna Bonalume su L'Espresso il 03 agosto 2021. «Alcuni intellettuali francesi, in particolare Alain Finkielkraut e Michel Onfray, hanno abbandonato il campo delle élite per avvicinarsi al campo del popolo. Immediatamente sono stati osteggiati da tutti i media, si sono uniti al campo dei populisti abietti, dove c’era già Éric Zemmour e dove io andavo a fare un giro di tanto in tanto». In questa dichiarazione di Michel Houellebecq, durante una conferenza a Buenos Aires nel 2017, si ritrovano i termini del mutato paesaggio intellettuale e politico francese di oggi, nell’anno chiave che porta alle elezioni presidenziali del 2022. Avanzano in Francia, fanno proseliti in Europa, anche in Italia. Hanno un nemico comune: le élite progressiste, gli apostoli del progressismo e della “religione dei diritti umani” che disprezzano e ostacolano il campo formato dal popolo e dagli “spiriti liberi” che parteggiano per il popolo. Predicano la provocazione, l’amore per il politicamente scorretto e soprattutto il culto del proprio status di vittime di élite e media: Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Michel Onfray e Michel Houellebecq sorridono alla politica populista. Mentre Zemmour è sempre stato di estrema destra, la conversione degli altri tre è piuttosto recente. Houellebecq comunica solo con i suoi libri. Profeta moderno per alcuni, islamofobo e misogino per altri, lo scrittore oggi è diventato l’idolo della destra sfrenata e infastidisce l’intellighenzia di sinistra. Nel 2019 il presidente gli ha conferito la Legione d’Onore: «Visceralmente antieuropeo», ha concesso Emmanuel Macron, è impossibile non riconoscere a questo scrittore «romantico perso in un mondo diventato materialista» il merito di aver «reinventato il romanzo francese». Il suo ultimo libro è una raccolta di testi dal titolo “Interventions 2020” edito da Flammarion. Vi spicca l’articolo “Donald Trump è un buon presidente”, pubblicato da Harper’s Magazine nel 2019. Houellebecq sosteneva la diplomazia non convenzionale dell’ex presidente americano, il suo atteggiamento conciliante verso il presidente russo Vladimir Putin, la sua sfiducia nel libero scambio e nella costruzione europea. Allo stesso modo, elogia la libertà di pensiero di Eric Zemmour, definito il «più interessante avatar contemporaneo» dei «cattolici non cristiani» che ammirano la Chiesa senza credere in Dio. Il “libero pensatore” Eric Zemmour è un giornalista politico vicino a Marion Maréchal. Ex deputata, la nipote di Marine Le Pen si è ufficialmente ritirata dalla vita politica: ora si occupa a tempo pieno della scuola di scienze politiche fondata a Lione, dove ama intervenire Zemmour, che ha anche presenziato all’apertura della “convention della destra” da lei organizzata a Parigi nel 2019. In questa occasione, la sua retorica violenta contro l’Islam e l’immigrazione gli è valsa una condanna e una multa di 10.000 euro per insulto e incitamento all’odio. Sanzioni che hanno avuto l’effetto di aumentare la sua popolarità. Il giornalista si è fatto conoscere come ospite fisso del programma “Face à l’info” in onda in access prime time sul canale d’informazione CNews, passato nelle mani del gruppo Bolloré, proprietario di numerose aziende di media e pubblicità. Zemmour potrebbe essere interessato alle elezioni presidenziali del 2022, anche se non ci sono conferme ufficiali da parte sua. Il suo editore Albin Michel ha cessato il contratto con lui in vista delle elezioni. «Abbiamo avuto uno scambio molto franco con Zemmour che aveva confermato la sua intenzione di partecipare alle elezioni presidenziali e di fare del suo prossimo libro un elemento chiave della sua candidatura», ha spiegato Gilles Haéri, capo di Albin Michel. Tra gli intellettuali francesi citati da Houellebecq, c’è Michel Onfray, uno dei filosofi francesi contemporanei più prolifici. Autore di più di cento opere, ha appena pubblicato in Francia “La nave dei folli”, nel quale condanna il delirio dell’Occidente, e “L’arte di essere francese”, in cui denuncia l’inevitabile apocalisse del mondo contemporaneo. «La civiltà sta crollando, i valori vengono rovesciati, la cultura si sta riducendo come una pietra, i libri contano meno degli schermi, le scuole non insegnano più a pensare ma a obbedire al politicamente corretto, e la famiglia esplosa, scomposta e ricomposta è spesso formata da persone egocentriche e narcisiste», tuona la quarta di copertina. Il filosofo lamenta di essere stato marcato a fuoco dai responsabili di questa catastrofe culturale, ovvero le élite europeiste e la «fasciosfera di sinistra» che, lui dice, lo spacciano per «un fascista, un antisemita, un islamofobo, un reazionario». Eppure questo non gli impedisce di continuare ad occupare ampiamente le vetrine delle librerie e gli studi televisivi, dove si destreggia tra una feroce invettiva e l’altra, e le espressioni provocatorie sono la sua principale modalità di esistenza. Per il filosofo le elezioni americane sono state un fallimento, come racconta all’Espresso: «La vittoria di Biden è quella di un uomo più malleabile di Trump: quest’uomo impulsivo e brutale, irascibile e aggressivo, volgare e maleducato, sembrava impossibile da pilotare! Biden è un uomo vecchio, stanco, una vecchia volpe della politica, in secondo piano da quarant’anni, messo in primo piano grazie all’aiuto del suo romanzo di famiglia ben sfruttato. È l’uomo del politicamente corretto, il cliente ideale dei Gafam, mentre l’account di Trump è sospeso dagli stessi capi dei Gafam», dove Gafam è l’acronimo che indica le cinque maggiori multinazionali dell’intelliggenza artificiale: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Sul futuro dell’ex presidente americano, Onfray ha una visione chiara: «Trump potrebbe trasformare questo fallimento elettorale in una vittoria politica nazionale. Assumerebbe quindi la guida di un movimento più ampio rispetto alla limitata presidenza degli Stati Uniti». In Europa, invece, il vero nemico è l’Unione Europea, «un club di banchieri che per un quarto di secolo hanno nascosto i loro interessi dietro la propaganda ideologica; per loro l’Europa sarebbe la fine della disoccupazione, la piena occupazione, il senso della Storia, l’amicizia tra i popoli, la fine di tutte le guerre, la fine del razzismo». Per Onfray invece queste conquiste sono fandonie: «Dopo un quarto di secolo questa politica ha generato esattamente il contrario!». Per divulgare queste idee, che lui definisce di tipo «socialista proudhiano», ha fondato la rivista sovranista “Front populaire”, un progetto nato per «costituire un Fronte Popolare in opposizione al Fronte del Populicidio costituito da Macron e dai suoi (la classe politica Maastrichiana di destra e di sinistra) il cui progetto consiste nell’estromettere il popolo dalla politica». L’obiettivo finale del filosofo e dei suoi alleati è chiaro: «Noi vogliamo la sovranità, che è l’arte di riprendere in mano il controllo politico del Paese per realizzare ciò che definisce la democrazia: il governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. Perché, da questo punto di vista, non siamo più in una democrazia, ma in una aristocrazia del capitalismo». Accanto al “populicidio”, c’è la minaccia dell’Islam, che per Onfray «porta avanti una guerra di civiltà contro la giudeo-cristianità». La difesa della civiltà occidentale dagli attacchi dell’Islam accomuna Onfray, Zemmour, Finkielkraut ed è la provocazione sulla quale si basa il romanzo di Houellebecq “Sottomissione”. Sulla difesa della cultura e dell’Identità della civiltà occidentale, non si sottrae il filosofo Alain Finkelkraut. Recentemente ha confessato le proprie angosce a Vanity Fair: «Siamo entrati in una crisi dalla quale non sono sicuro potremo rimetterci. La Francia si trova di fronte a un’immigrazione incontrollata e sta subendo un mutamento demografico senza precedenti nella nostra storia». Di fronte a questo cambiamento cosa fanno le elite? Sono impegnate in «un’autoflagellazione sistematica e delirante». A dare voce a queste posizioni, una nuova costellazione di media di più o meno recente creazione, orientati a destra ed estrema destra. Tra questi ci sono il canale televisivo CNews, il settimanale Valeurs Actuelles, il magazine L’incorrect, il sito internet Boulevard Voltaire, la rivista Front Populaire, il nuovo media online Livre Noir. L’ultima battaglia è sui vaccini, il grande tema politico di inizio campagna elettorale per le presidenziali. I riferimenti intellettuali degli antivax sono il medico Didier Raoult, noto medico difensore del controverso trattamento per il covid-19 a base di idrossiclorochina, e Zemmour che due settimane ha dichiarato su CNEWS : «Macron ci impedisce di vivere senza vaccinazione, quindi siamo obbligati a vaccinarci. Non ha il coraggio di obbligarci perché aveva detto il contrario». Anche Zemmour si era contraddetto esaltando qualche mese prima la campagna vaccinale di Boris Johnson, ma non importa. Provocazioni e contraddizioni peseranno nella prossima campagna elettorale, le elezioni presidenziali del 2022. 

Emanuela Minucci per "La Stampa" il 18 ottobre 2021. Michel Houellebecq è arrivato a Torino nel tardo pomeriggio di sabato. E, spiazzante come al solito, pur essendo la vera stella supernova di questo Salone del Libro, non ha preteso né suite a 5 stelle né tantomeno un cachet. Una condizione però l'ha posta: «Una camera dove si possa fumare, meglio se con un balcone, altrimenti non prenotate neppure l'aereo». Accontentato. All'hotel vicino alla stazione di Porta Nuova, dove gli abbiamo offerto una birra, si è presentato chiuso nello stesso Barbour da «intellettuale un filo nichilista» (definizione di una lettrice che dichiara di aver letto Serotonina tutto in una notte) che indossava anche ieri, fra i velluti rossi dell'Auditorium del Lingotto. Qui ha ritirato dalle mani del «giudice monocratico» Marco Missiroli, il 47° premio Mondello. Davanti a Elisabetta Sgarbi, l'editrice della Nave di Teseo che pubblica i suoi romanzi, e al direttore del Salone Nicola Lagioia che non esita a definire l'evento «un incontro che dal punto di vista letterario passerà alla storia», l'autore delle Particelle elementari annuncia di avere finito un nuovo libro, senza scendere in troppi dettagli: «Sarà una storia deprimente, mi manca ancora il personaggio femminile ma lo troverò». L'Auditorium è stracolmo e silenzioso come una cattedrale. E qui comincia il dialogo tra Marco Missiroli e il suo ruvidissimo mito letterario: Michel Houllebecq che trova meraviglioso il fatto di essere non solo tradotto in italiano, ma anche nella lingua dei segni.

Chi era Houellebecq prima dell'Estensione del dominio della lotta?

«È lunga da spiegare, sono vecchio. Ho cominciato leggendo poesie in pubblico e poi le ho pubblicate. Ero uno scrittore promettente, non avevo ancora un grande successo e non ero troppo polemico, perché per essere molto polemici bisogna avere un grande successo. Poi è arrivato tutto insieme con Le particelle elementari. Mi sono reso conto che sapevo scrivere romanzi, ma non sarei in grado di scrivere un saggio».

Come si trova un uomo tranquillo come lei alla ribalta del demonio?

«Chi è violento nella scrittura è molto dolce nella vita, perché la scrittura è liberatoria e viceversa. Diffidate di chi scrive cose dolci, è gente pericolosa».

 C'è sempre un principio amoroso alla base dei suoi libri, magari fa un giro più lungo, in questo lei mi ricorda Conrad, nei suoi dissidenti c'è sempre stato un amore tenebroso, nero…

«L'amore nei libri ha lo stesso ruolo che può avere Dio: anche se si può avere dubbi sulla sua esistenza e anche se Cristo si sbagliasse è sempre preferibile stare con Cristo. È tanto tempo che non parlo di Schopenhauer, magari ne approfitto adesso». 

Prego.

«Intanto c'è un suo passaggio che trovo magnifico in cui dice che l'amore esiste, diversamente che per tanti altri filosofi, e in cui prende in giro Kant dicendo che su questo argomento non capisce nulla. Schopenhauer dice anche che l'amore è di origine sessuale e che la sessualità è importante perché serve per avere figli e che la domanda "chi mi succederà" è più importante di tutto il resto». 

Nei suoi libri l'amore è sessuale?

«Questa è una cosa strana. Si dice che c'è tanto sesso nei miei libri, ma è qualcosa che faccio fatica a capire».

Forse perché la sessualità nella sua letteratura è trattata come le relazioni umane e quelle di lavoro. Ciò che noi chiamiamo eros per lei è chimica, biologia, particelle è sociologia.

«Le Particelle è un libro scientifico, in altri libri l'approccio è più sociologico, culturale, e questo irrita molti perché la gente non vuole essere ridotta a una categoria sociologica, preferisce essere ricondotta a qualcosa di chimico. Ma sarebbe un errore». 

È vero che lei scrive a notte fonda?

«Sì, perché di notte il nostro spirito è libero. E poi bisogna approfittare dei sogni che si ricordano e scrivere prima di cominciare a parlare».

Ci spieghi le sue tre cattedrali: supermercati, automobili e l'aeroporto Charles De Gaulle.

«Il supermercato è quanto di più vicino al paradiso abbia costruito l'uomo. Dell'automobile è affascinante il linguaggio. Io amo le auto, Mercedes e Bmw. E l'aeroporto è il simbolo del concentrazionismo. Lì si vende di tutto, ma non c'è nulla che serve».

Quanto l'appassiona la politica?

«Della politica mi interessano le strategie, le alleanze, il non detto, i giochi di guerra. Ma nel retroscena nelle trame politiche i maestri siete voi italiani, con Machiavelli». 

Però nella politica contemporanea sono i francesi ad avere prodotto le più grandi sorprese.

«Le elezioni del 2017 sono state più affascinanti di qualsiasi trama di film». 

E stavolta chi vincerà?

«Al secondo turno vincerà Macron e si batterà contro il candidato della destra e non è detto che sarà Le Pen o Zemmour».

Lei scrive: io mi sento irresponsabile, sempre.

«Irresponsabile nel senso che non mi sento un guru e non cerco discepoli».

Alla fine, suo malgrado, lei è una star della letteratura mondiale. Come ci si sente?

«Non male. Diciamo che è una condizione positiva, necessaria, ma non difficile».

Standing ovation.

Houellebecq racconta "l'autunno delle idee" e incanta con Baudelaire. Alessandro Gnocchi il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Timido e istrionico, il grande scrittore francese ha recitato le poesie più belle dei "Fiori del male". Il carisma si manifesta sul palco della Milanesiana, a Parma, martedì sera verso le 21 e 30, al Parco della musica, sotto un albero secolare. Lo scrittore francese Michel Houellebecq sale sul palco, si accomoda su una seggiola rossa, ignora il leggio e inizia la sua lectio magistralis su Baudelaire. Pronuncia poche parole (come nel resto della giornata) di introduzione. In Francia, nessuno ha ricordato il bicentenario di Charles Baudelaire. Come mai? «I rapporti tra Baudelaire e la Francia non sono mai stati facili. Nella cultura francese, e in particolare nella letteratura francese, prevale una certa visione restrittiva, nella quale Baudelaire fatica a entrare». Grandi festeggiamenti invece per i quattrocento anni dalla nascita di Jean de La Fontaine. Prosegue Houellebecq: «Montaigne, La Fontaine, Voltaire Esiste una linea. Scettica, ironica, misurata, satirica, leggermente cinica». In seguito, a partire da Victor Hugo, prevale «una specie di ottimismo umanistico» che ci conduce ai nostri giorni. Baudelaire non rientra in queste categorie dello «spirito francese». Il pubblico, a questo punto, si aspetta una conferenza vera e propria. Invece Houellebecq si alza e recita in francese, mentre la traduzione corre sullo schermo alle sue spalle, venticinque minuti di poesie scelte dai Fiori del male. In prevalenza va a braccio, si aiuta appena con gli appunti. Si muove lentissimo da una parte all'altra del palco, ogni tanto si riposa, beve un po' d'acqua, si siede, si alza, riprende. Quando sbaglia (due volte) chiede scusa: «Non sono più abituato». Houellebecq sceglie poesie famose, «non è che lo siano per caso» commenta sornione, che un lettore sensibile alla poesia si porta con sé tutta la vita. Un altro si spezzerebbe le ossa, alle prese con versi scolpiti nella memoria collettiva. Invece, grazie a Houellebecq, è come scoprirli per la prima volta e accorgersi che c'era qualcosa di diverso. L'incipit è subito da knock out. Il nemico: «La mia giovinezza non fu che una oscura tempesta, traversata qua e là da soli risplendenti; tuono e pioggia l'hanno talmente devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio. / Ecco, ho toccato ormai l'autunno delle idee». Reversibilità: «Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe, e la paura d'invecchiare e il tormento orribile di leggere l'orrore segreto della devozione negli occhi ove a lungo bevvero i nostri avidi occhi? Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe?». Poi gli «ultimi ardori» della Morte degli amanti, la morte come consolazione della Morte dei poveri, gli oppiacei sogni di felicità di Invito al viaggio e Raccoglimento Un pugno in faccia, assestato con somma grazia, ma un pugno in faccia. Baudelaire, e Houellebecq attraverso Baudelaire, dicono parole che raramente si ascoltano volentieri: la senescenza è la nostra condizione; nostra, personale; nostra, della società in cui viviamo. È l'autunno del corpo ma anche delle idee. L'Occidente confonde lo sviluppo col progresso (proprio il «Progresso» è il tema della Milanesiana 2021). Insegue il feticcio della tecnologia ma si è dimenticata l'umano e il divino. Sembra andare sempre più veloce ma è immobile. Georges Bernanos diceva: i vermi che spolpano il cadavere sono convinti di compiere un'opera dalle magnifiche sorti e progressive. Il cadavere? Siamo noi, è la nostra Europa. Le particelle elementari (La nave di Teseo, 1999), il romanzo che ha rivelato al mondo il talento di Houellebecq, finisce con la frase: «Questo libro è dedicato all'uomo». L'ultimo, Serotonina (La nave di Teseo, 2019), si chiude così: «E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all'insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito? Parrebbe di sì». Non c'è da stupirsi che Houellebecq sia un punto di riferimento per chi scommette sull'umano (e sul divino). La lettura è finita. Resta il tempo di una impressione sullo scrittore. Riceve il premio alla memoria dei grandi editori francesi Jean-Claude e Nicky Fasquelle. Imbarazzatissimo. Timidissimo. Silenziosissimo. Stretta di mano vigorosa, però. Giubbotto del tipo parka, camicia blu scura a mezze maniche, pantaloni color kaki scuro. Si colloca al di sotto dell'understatement. La moglie Lysis sembra volerlo proteggere. Alla consegna della Rosa, simbolo della manifestazione, sulle note degli Extraliscio, chiacchiera con Laura Morante, tra gli ospiti della serata, accenna un passo di danza, poi si mette a giocherellare con i bottoni della camicia. Niente di strano. È come te lo aspetti. Del resto, la timidezza e il sentirsi al posto sbagliato sono programmatici. Nella prosa lirica che apre la sua prima raccolta poetica, Restare vivi (1991, ora Bompiani 2016), Houellebecq scrive: «La timidezza non è da disdegnare la timidezza è un eccellente punto di partenza per un poeta». Ancora: «Talvolta, è vero, la vita vi apparirà niente più che un'esperienza fuori luogo. Ma il risentimento dovrà sempre restare vicino, a portata di mano, anche se scegliete di non esprimerlo. E tornate sempre alla fonte, che è la sofferenza». Infine: «Quando susciterete negli altri un misto di pietà spaventata e di disprezzo, saprete di essere sulla buona strada. Potrete cominciare a scrivere». In mezzo alla ritrosia e al pudore, spicca ancora di più, monumentale, la parola poetica che Houellebecq ha portato magistralmente sul palco. Il carisma, vocabolario alla mano, è dono divino e autorevolezza tutta umana. Per un grande scrittore come Houllebecq potremmo definire il carisma in questo modo: lasciare la parola alla parola scritta e dimostrarne la profondità abissale. Alessandro Gnocchi

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam" Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione”, il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani». Sylvain Bourmeau su L'Espresso il 07 gennaio 2015. Siamo nel 2022. La Francia ha paura. Il Paese è da tempo in preda a disordini misteriosi. E le elezioni presidenziali hanno un risultato clamoroso: il leader del giovane partito della Fraternità musulmana, Mohammed Ben Abbes, batte nettamente Marine Le Pen al ballottaggio. Dall’oggi al domani la Francia cambia. Le donne indossano lunghe bluse su pantaloni larghi e lasciano in massa il lavoro, le università diventano islamiche: chi non è musulmano è obbligato alla pensione o alla “Sottomissione”. È questo il titolo del nuovo romanzo di Michel Houellebecq, pubblicato in Francia da Flammarion il 7 gennaio tra le polemiche (in Italia esce il 15 per Bompiani). Nel suo sesto romanzo, l’autore di “Le particelle elementari” si mette improvvisamente e atrocemente a somigliare a quegli editorialisti politici di serie B -  Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Renaud Camus... - che nei loro bestseller preelettorali hanno agitato lo spauracchio dell’invasione dell’Islam. E lo fa con quello che si deve decisamente definire un vero suicidio letterario. Perché l’abiezione politica e la debolezza letteraria sono in questo libro strettamente legate. Un romanzo arido e triste, approssimativo, mal documentato, senza dialoghi e senza poesia: “Sottomissione” suona falso da cima a fondo e non è certamente degno di apparire nella bibliografia di quello che rimane comunque uno dei più importanti scrittori contemporanei di lingua francese. Parola mia, cioè del critico che negli ultimi vent’anni ha più spesso intervistato Houellebecq: per questo l’autore aveva deciso di dare a me la prima intervista su “Sottomissione”. Ci siamo incontrati il 19 dicembre nell’ufficio di Flammarion. 

Houellebecq, perché questo libro?

«Per molti motivi, penso. Non amo usare questa parola, ma ho la sensazione che questo sia il mio ‘mestiere’. Ho vissuto a lungo in Irlanda e quando sono tornato in Francia ho riscontrato grandi cambiamenti, cambiamenti che non sono specificatamente francesi, del resto, ma dell’Occidente in generale. In effetti, da espatriati non ci si interessa granché a nulla, né alla società dalla quale si proviene, né a quella nella quale si vive, e in più l’Irlanda costituisce un caso un po’ particolare. Secondo motivo, forse il mio ateismo non ha veramente resistito alla serie di perdite che ho subito. Le ho trovate insopportabili, in realtà». 

Allude alla morte del suo cane e dei suoi genitori?

«Sì, a questo. Sono state molte perdite in un arco di tempo ristretto. Il tutto forse è stato aggravato dal fatto che, contrariamente a ciò che credevo, non ero veramente ateo, ma veramente agnostico. In generale, dire così serve a crearsi un paravento nei confronti dell’ateismo, ma nel mio caso non credo. Riesaminando alla luce di ciò che so la faccenda dell’esistenza di un creatore, di un ordine cosmico, di una cosa del genere, mi sono reso conto che non mi sentivo in grado di rispondere né sì né no». 

Mentre in precedenza aveva la sensazione…

«Avevo la sensazione di essere ateo, proprio così. A questo punto, non so dire di più. Ecco, io credo che siano state queste due motivazioni a indurmi a scrivere, e la seconda probabilmente è stata più forte della prima». 

Come definirebbe questo libro?

«La definizione di ‘fantapolitica’ non è male. Non mi sembra di averne letta molta, ma un po’ sicuramente sì, più nella letteratura inglese che francese”. 

A che cosa si riferisce?

«Ad alcuni libri di Conrad, per esempio, e anche di John Buchan. E poi a libri più recenti, meno belli, più imparentati al thriller. Il thriller può fiorire benissimo in un contesto di fantapolitica, non essendo obbligatoriamente vincolato al mondo degli affari. In verità, c’è un terzo motivo per il quale ho scritto questo libro, ed è che l’inizio mi è piaciuto moltissimo. In pratica, in una volta sola, di getto, ho scritto tutta la prima parte fino alla pagina 26. E l’ho trovata molto convincente… Perché me lo vedo che uno studente possa scegliersi come amico Huysmans  e dedicargli la propria vita. A me una cosa simile non è capitata: ho letto Huysmans molto più tardi, intorno ai 35 anni, credo, ma una cosa del genere mi sarebbe molto piaciuta: la mia stanza non era malaccio, e nemmeno la mensa universitaria era terribile e mi sono immaginato che cosa egli avrebbe potuto voler dire rispetto a tutto ciò. Penso che avrebbe potuto essere un amico vero per me. Insomma, dopo aver scritto la prima parte, per un po’ di tempo non ho scritto altro. Era il gennaio 2013, e ho dovuto riprendere in mano il testo nell’estate di quell’anno. In realtà, il mio progetto originario era molto diverso. Non doveva intitolarsi “Soumission” (Sottomissione). Il primo titolo che gli avevo dato era “La conversion” (La conversione). E inizialmente, nei miei piani, il narratore si convertiva sì, ma al cattolicesimo. Vale a dire che a un secolo di distanza seguiva il medesimo percorso di Huysmans, partendo dal naturalismo e approdando al cattolicesimo. Poi però non ci sono riuscito». 

Perché?

«Perché non funzionava. Secondo me, la scena clou del libro è quella nella quale egli guarda per l’ultima volta la Madonna nera di Rocamadour e si sente investito da una forza spirituale, come una serie di onde, che a un tratto si allontana e lui scende verso il parcheggio. Solo e disperato». 

Definirebbe satirico questo romanzo?

«No. Al massimo, ma solo molto parzialmente, è una satira del giornalismo politico. Della classe politica, forse, un po’ di più. Ma i personaggi principali non sono una satira». 

Come le è venuto in mente di inventare un ballottaggio per le elezioni della presidenza del 2022, con Marine Le Pen in competizione con il presidente di un partito musulmano?

«Beh, per Marine Le Pen mi pare del tutto verosimile nel 2022 – mi sembra verosimile che ci si arrivi già nel 2017… Quanto al partito musulmano, qui siamo al nocciolo della questione. Ho cercato di calarmi nei panni di un musulmano e mi sono reso conto che i musulmani in verità vivono in una situazione del tutto alienata. A livello globale infatti non si interessano molto di questioni economiche, dato che a loro stanno maggiormente a cuore quelli che nella nostra epoca definiamo temi sociali. È evidente che sono molto lontani dalla sinistra, e ancor più dagli ecologisti a proposito di queste tematiche. Basti pensare al matrimonio tra omosessuali per rendersene conto. Del resto, ovunque è così. Per di più, non si capisce proprio per quale motivo dovrebbero votare per la destra, e ancor meno per l’estrema destra che li rifiuta con tutte le sue forze. Che cosa può fare quindi un musulmano che vuole votare? Si trova in una situazione impossibile, perché non è rappresentato. Sarebbe ingannevole affermare che la religione musulmana non ha conseguenze politiche, perché ne ha, proprio come il cattolicesimo del resto, anche se i cattolici sono stati rimessi al loro posto. Di conseguenza, secondo me, l’idea del partito musulmano è plausibile». 

Ma da qui a immaginare che un partito del genere tra sette anni possa trovarsi nella condizione di vincere un’elezione presidenziale…

«Sono d’accordo, questo è poco plausibile. Per due ragioni principali. La prima è la più difficile da concepire: per i musulmani sarebbe necessario riuscire a mettersi d’accordo tra di loro. Sarebbe necessario che trovassero una persona estremamente intelligente e di un talento politico eccezionale, qualità che io ho dato al mio personaggio Ben Abbes. Un talento così superiore, però, è per sua stessa definizione poco probabile. Supponiamo, in ogni caso, che esista: questo partito potrebbe dunque compiere passi avanti, ma servirebbe più tempo. Se si considera il metodo utilizzato dai Fratelli Musulmani, notiamo una rete sul territorio fatta di associazioni di beneficienza, di luoghi di aggregazione culturale, di centri di preghiera, di vacanza, di cura… Un po’ l’equivalente di quello che aveva fatto il Partito Comunista. Sono del parere che in un paese nel quale la miseria dilaga tutto ciò potrebbe effettivamente convincere anche più dei musulmani ‘normali’ – se così posso dire –, perché oltretutto non ci sono soltanto i musulmani ‘normali’, ma anche i convertiti, persone che non sono di origine maghrebina… Un tale processo, in ogni caso, richiederebbe parecchie decine di anni. In realtà, a questo proposito il sensazionalismo mediatico riveste un ruolo negativo. Alludo, per esempio, a come è stata accolta la storia vera della conversione di un tizio che abitava in un piccolo villaggio della Normandia, francese al cento per cento, e che per di più non aveva alle spalle una famiglia disgregata. Beh, si è convertito ed è partito per combattere la jihad in Siria. In effetti, è ragionevole suppore che per uno così ci siano svariate decine di persone che si convertono senza partire per combattere la jihad in Siria. La jihad in Siria non è divertente. In fin dei conti, quindi, fa presa soltanto su individui fortemente motivati dalla violenza. Ovvero, una minoranza». 

Si potrebbe anche dire che ciò che interessa a queste persone più che altro è partire per la Siria, non convertirsi…

«Non credo. Io credo che esista un bisogno reale di Dio, e che il ritorno del sentimento religioso non sia uno slogan, ma una realtà. Anzi, questo processo ha ormai raggiunto una velocità addirittura maggiore». 

Questa ipotesi è fondamentale per il suo romanzo, ma è risaputo che in realtà è smentita da tempo da numerosi studiosi che hanno dimostrato che stiamo assistendo a una fase di graduale laicizzazione dell’Islam, e che violenza ed estremismo devono essere considerate alla stregua di ultimi sussulti. Questa è la tesi di Olivier Roy, di Gilles Kepel e di molti altri che studiano queste questioni da oltre vent’anni.

«Non è quello che ho constatato io. Del resto non è solo l’Islam a giovarsi di questo ritorno della spiritualità: in America del Nord e del Sud sono gli evangelisti a giovarsene. Non si tratta di un fenomeno francese, ma di un fenomeno globale che interessa quasi tutto il mondo. Così accade in Asia, anche se non sono molto informato in proposito, e così accade in Africa, dove questo fenomeno è interessante perché si vanno affermando sempre più due grandi forze religiose: l’evangelismo e l’Islam. In buona parte sono rimasto kantiano e non credo che una società senza religione possa durare». 

Ma perché ha deciso di “drammatizzare” le cose, tenuto conto che proprio lei afferma che è inverosimile che nel 2022 possa essere eletto un presidente musulmano?

«Beh, qui forse è entrata in gioco la parte di me che adora far presa sul grande pubblico con il thriller». 

Non sarai stato invece influenzato in parte da Eric Zemmour?

«Non lo so, non ho letto il suo libro. Che cosa dice, di preciso?» 

Al pari di un certo numero di altre persone, al di là delle naturali differenze, Zemmour delinea un ritratto della Francia contemporanea che mi pare decisamente di fantasia, nel quale una delle caratteristiche fondamentali è la minaccia di un Islam che influisce moltissimo sulla società francese. Drammatizzando questo stesso tema, come ha fatto lei nella sua fiction, si ha l’impressione che lei accetti come punto di partenza la descrizione della Francia contemporanea che riscontriamo oggi nelle opinioni di  intellettuali come Zemmour.

«Non saprei… Conosco soltanto il titolo del suo libro "Il suicidio della Francia", e questa non è l’impressione che ne ho io. A me non sembra di assistere a un suicidio della Francia. Ho la sensazione opposta, invece: l’Europa si sta suicidando mentre, proprio al suo centro, la Francia si batte con tutta sé stessa e perdutamente per sopravvivere. In pratica, è l’unico paese a battersi per la propria sopravvivenza. La Francia non si suicida affatto. Del resto, per gli esseri umani convertirsi è un gesto di speranza, non una minaccia. Aspirano a un modello diverso di società. Anche se, per quanto mi riguarda, non credo che ci si converta per motivazioni sociali. Ci si converte per ragioni più profonde. E anche se su questo punto il mio libro si contraddice un po’, Huysmans è il caso tipico di chi si converte per ragioni puramente estetiche. Le tematiche che agitano Pascal lo lasciano del tutto freddo, non ne parla mai. Faccio quasi fatica a immaginare un esteta a questo punto. Per lui la bellezza, invece, è rivelazione. La bellezza della poesia, della pittura, della musica attesta l’esistenza di Dio». 

Ciò ci riporta alla questione del suicidio, tenuto conto che Baudelaire diceva che gli restava solo la scelta tra il suicidio o la conversione…

«No, è Barbey d’Aurevilly ad aver fatto questa osservazione, del resto proprio dopo aver letto "Controcorrente". Me lo sono riletto tutto, nei dettagli, e alla fine è veramente cristiano. È sbalorditivo». 

Torniamo alla drammatizzazione di cui parlavo: nel libro essa assume per esempio la forma di descrizioni molto scorrevoli e vaghe di avvenimenti che accadono senza che si capisca chiaramente di che cosa si tratta. Siamo nell’ambito delle apparenze? Della politica della paura?

«Forse sì. Sì, un po’ di paura c’è. Io sfrutto il fatto di incutere paura». 

Quindi lei sfrutta coscientemente il fatto di incutere paura parlando di un Islam che conquista la maggioranza nel paese?

«In realtà, non si sa bene di che cosa si ha paura, se delle identità o dei musulmani. Tutto resta nell’ombra». 

Si è chiesto quali conseguenze può avere un romanzo che contiene un’ipotesi simile?

«Nessuna conseguenza. Nessuna». 

Non crede che ciò contribuisca a rafforzare le immagini della Francia che citavo prima, per le quali l’Islam incombe come una spada di Damocle, come la cosa più terrificante?

«In ogni caso, già ora questo è più o meno l’unico argomento di cui si occupano i media, che non potrebbero farlo in misura maggiore. È impossibile parlarne più di quanto già facciano oggi, quindi il mio libro non avrà nessuna conseguenza». 

Questa costatazione non le fa venire voglia di scrivere altro? Di non inserirsi nel flusso del conformismo?

«No, oggettivamente fa parte del mio lavoro parlare di ciò di cui parla la gente. Io vivo nella mia epoca». 

In questo romanzo lei sottolinea che gli intellettuali francesi hanno una propensione particolare a non sentirsi mai responsabili. Ma lei si è posto il problema della sua responsabilità di scrittore?

«Ma io non sono un intellettuale. Non mi schiero, non difendo alcun regime. Respingo ogni responsabilità, rivendico l’irresponsabilità, senza mezzi termini. A eccezione di quando nei miei romanzi parlo di letteratura, nel qual caso mi assumo la responsabilità del critico letterario. In verità, sono le opere di saggistica a cambiare il mondo». 

Non i romanzi?

«Forse sì. Tuttavia, ho l’impressione che quello di Zemmour sia grosso, troppo grosso. Ho la sensazione che il “Capitale” fosse troppo grosso, e a essere letto e ad aver cambiato il mondo sia stato invece il “Manifesto del Partito Comunista”. Rousseau ha cambiato il mondo, sapeva essere convincente al momento giusto. È semplice, se si ha intenzione di cambiare il mondo bisogna dire chiaramente: “Ecco, il mondo è così e questo è quanto va fatto”, senza perdersi in considerazioni romanzesche. Perché non serve a niente». 

Non sarà sicuramente a lei che insegnerò quanto il romanzo sia uno strumento epistemologico… Del resto, questo era il tema centrale del suo libro “La carta e il territorio”. A questo proposito, ho la sensazione che lei si assuma la responsabilità delle categorie descrittive, delle contrapposizioni più discutibili, quelle categorie con le quali funzionano la redazione di “Causeur”, Alain Finkielkraut, Eric Zemmour, sicuramente Renaud Camus. Per esempio, opporre l’antirazzismo e la laicità.

«È innegabile l’esistenza di una contraddizione». 

Io non la percepisco. Al contrario, ci sono persone che spesso sono a uno stesso tempo militanti antirazzisti e ferventi difensori della laicità, e le loro radici risalgono alla filosofia dei Lumi.

«Beh, sulla filosofia dei Lumi possiamo anche tracciare una croce: fine. Vuoi un esempio calzante? La candidata col velo nella lista Besancenot (candidata politica dell’estrema sinistra, NdR) è un vero esempio di contraddizione. Non sono soltanto i musulmani a trovarsi in una situazione di alienazione di questo tipo, in ogni caso: a livello di quelli che di norma si chiamano valori, le persone di estrema destra hanno più cose in comune con i musulmani che con la sinistra. Tra un musulmano e un ateo laico c’è più opposizione innata che tra un musulmano e un cattolico. Mi sembra evidente». 

Ma io non capisco il collegamento col razzismo nel caso specifico…

«Effettivamente, non c’è. Oggettivamente, non c’è. Quando sono stato prosciolto, in occasione del processo che mi hanno intentato una decina di anni fa per razzismo, il procuratore mi ha fatto giustamente notare che la religione musulmana non è appartenenza razziale. Oggi ciò è diventato ancora più evidente. Si è esteso l’ambito del razzismo, quindi, inventando il reato di islamofobia». 

Il termine forse è scelto male, ma esistono forme di stigmatizzazione di gruppi o di categorie di persone che sono forme di razzismo…

«Ah no, l’islamofobia non è razzismo. Se esiste un espediente che ormai è chiaro a tutti è proprio questo». 

L’islamofobia serve da paravento a un razzismo che non è più enunciabile perché punibile a termini di legge.

«Credo che sia completamente sbagliato. Non sono d’accordo». 

Altro abbinamento opinabile al quale lei fai ricorso è la contrapposizione tra antisemitismo e razzismo… Al contrario, si potrebbe osservare quanto nel corso della storia antisemitismo e razzismo siano andati di pari passo.

«Io credo che l’antisemitismo non abbia niente a che vedere col razzismo. Ho impiegato molto tempo a comprendere l’antisemitismo, in realtà. Il primo pensiero è quello di assimilarlo al razzismo, ma che tipo di razzismo è quello per il quale nessuno può dire se l’altro è ebreo o non ebreo, in quanto non lo si ‘vede’? Il razzismo è più elementare di questo, è un colore diverso di pelle…». 

No, perché da molto tempo esistono razzismi culturali…

«Ma in questo caso si utilizzano le parole ben oltre il loro significato. Razzismo è semplicemente detestare qualcuno perché appartiene a un’altra razza, perché non ha il medesimo colore della pelle, la stessa fisionomia. Non si deve dare a questo termine un significato più ampio». 

Tenuto conto però che da un punto di vista strettamente biologico le razze non esistono, per forza di cose il razzismo è culturale.

«Ma ciò vale, a quanto pare, in ogni caso. Chiaramente, vale a partire dal momento in cui col meticciato si crea un incrocio di razze. Su Sylvain! Lo sa bene che razzista è colui che detesta un altro perché ha la pelle nera o perché ha la bocca da arabo. Questo è razzismo!». 

O perché ha usanze o una cultura…

«No, si tratta di un altro problema, mi dispiace!». 

… O perché è poligamo, per esempio…

«Ah, questa poi… Si può essere sconvolti dalla poligamia senza essere neanche un briciolo razzisti. È il caso di molte persone che non sono neanche un briciolo razziste. Ma ritorniamo all’antisemitismo, perché si è trascurato questo punto. Visto e considerato che nessuno ha mai potuto dedurre se una persona è ebrea soltanto dal suo aspetto o dal suo stile di vita, giacché pochi ebrei avevano uno stile di vita ebraico quando si è sviluppato l’antisemitismo, di che cosa si può trattare? Questo non è razzismo. E sufficiente leggere ciò che è stato scritto per rendersi conto che si tratta semplicemente di una teoria del complotto: ci sono alcune persone, nascoste, responsabili di tutti i guai del mondo, che complottano contro di noi, pronte a invaderci… Il mondo va a rotoli ed è colpa degli ebrei, della finanza ebraica… È solo una teoria del complotto». 

In “Sottomissione” non c’è forse una teoria del complotto, l’idea che sia in atto la “grande sostituzione”, come la chiama Renaud Camus, e che i musulmani si impossesseranno del potere?

«Conosco male la tesi della grande sostituzione, ma a quanto pare è una questione alquanto razziale. Ebbene, in questo caso non si parla proprio di immigrazione. Non è questo il tema centrale». 

Non è necessariamente una questione razziale, può essere religiosa. Nel caso specifico, la religione cattolica è sostituita dall’Islam.

«No. È in atto un processo di distruzione della filosofia nata dal secolo dei Lumi, che non ha più senso per nessuno, o lo ha per pochissime persone. Quanto al cattolicesimo, si mantiene in forma piuttosto discreta. Io sostengo effettivamente che un’intesa tra cattolici e musulmani è possibile. Lo abbiamo già visto. E può ripetersi». 

Lei, che è diventato agnostico, vede di buon occhio questa distruzione della filosofia nata dall’Illuminismo?

«Sì. Doveva succedere e tanto vale che succeda adesso. Su questo punto torno a essere kantiano. Eravamo in quella che egli chiamava la fase metafisica, iniziata nel Medio Evo e che aveva come unico scopo la disintegrazione della fase precedente. Di per sé, essa non può produrre nulla, se non il nulla e il dolore. Quindi sì, sono contrario a questa filosofia nata dall’Illuminismo, occorre dirlo chiaramente, senza mezzi termini». 

Perché ha scelto di ambientare il romanzo nel mondo accademico? Proprio perché incarna questo secolo dei Lumi?

«Posso rispondere che non lo so? In fondo credo proprio che questa sia la realtà… In verità, volevo che ci fosse un rapporto molto lungo con Huysmans, e da qui è venuta l’idea di farne un accademico». 

Il fatto di scrivere un romanzo in prima persona è stato immediato?

«O forse è nato dal fatto che era un gioco con Huysmans. È così, fin dalle prime frasi». 

Vi è una dimensione di autoritratto, ancora una volta, in questo personaggio. Non completamente ma… C’è la morte dei genitori, per esempio.

« Sì, utilizzo qualcosa, anche se nei dettagli tutto in verità è diverso. Non si tratta mai di autoritratti, ma sempre di proiezioni. Per esempio, se avessi letto Huysmans da giovane, se avessi fatto studi umanistici e fossi diventato professore universitario... Mi immagino dentro vite che non ho vissuto». 

Lasciando però che alcuni eventi della vita reale si introducano in queste vite fittizie.

«Ricorro a episodi che mi colpiscono nella vita reale, questo sì. Ma ho la tendenza a inserirne sempre di più. In questo caso ciò che resta della realtà è proprio l’elemento astratto ‘morte del padre’, ma in realtà ogni cosa è diversa. Mio padre era molto differente da questo tipo, e la sua morte non è avvenuta così. Di fatto, è la vita a mettermi davanti gli argomenti». 

Scrivendo questo romanzo lei si è calato fino in fondo nei panni di una Cassandra, nel vero senso della parola, dato che nel romanzo fornisce anche una spiegazione precisa di ciò che è una Cassandra…

«Non è possibile etichettare questo libro come un presagio pessimista. In fin dei conti, non è così negativo». 

Non così negativo per gli uomini. Per le donne, invece, è un po’…

«Ah, quello è un altro problema. Ma ritengo che il progetto di ricostituzione dell’Impero romano non sia una stronzata… Ricentrare l’Europa sul sud, potrebbe dare un senso a tutto ciò che per il momento non ne ha. Politicamente, si può parlare di forte accettazione. Non si tratta di una catastrofe». 

Ciò non toglie che il libro è incredibilmente triste.

«Sì, vi è una tristezza molto intensa che lo percorre integralmente sotto sotto. Secondo me l’ambiguità culmina nell’ultima frase: "Non avrei avuto nulla da rimpiangere». In realtà, se ne deduce esattamente il contrario. Ha due cose da rimpiangere: Myriam e la vergine nera. Diciamo che non è andata proprio così. A rendere triste il libro è una specie di clima di rassegnazione». 

Come pensa che si collochi questo romanzo rispetto ai suoi libri precedenti?

«Diciamo che ho fatto ricorso a qualche espediente, come volevo fare da molto tempo e non avevo mai fatto. Per esempio, creare un personaggio molto importante ma che non compare mai, nello specifico Ben Abbes. Penso anche che in questo romanzo ci sia la fine più demoralizzante di un rapporto amoroso che io abbia mai scritto, perché è la più banale: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. C’erano dei sentimenti. In generale, c’è una sensazione di entropia ancora più forte rispetto agli altri miei libri. C’è un lato crepuscolare malinconico che dà a questo libro un accento alquanto triste. Per esempio, se il cattolicesimo non funziona, è perché è già servito, sembra appartenere al passato. L’Islam ha un’immagine in divenire. Perché la nazione non va bene? Perché si è troppo abusato di lei». 

Non vi è più la benché minima traccia di romanticismo, per non parlare della poesia. Si è passati al decadentismo.

«È vero, il fatto di partire da Huysmans ha sicuramente avuto un ruolo in tutto ciò. Huysmans non poteva più tornare al romanticismo, ma poteva ancora convertirsi al cattolicesimo. Il punto più evidente in comune con i miei altri romanzi è l’idea dell’indispensabilità della religione, una religione qualsiasi. Questo concetto è presente in molti miei libri. E anche in questo caso, l’unica differenza è che si tratta di una religione che esiste». 

Fino a questo punto si poteva pensare ancora a una religione nel senso che intendeva Auguste Comte?

«Comte ha cercato invano di crearne una e, in effetti, nei miei libri ho parlato più volte della creazione delle religioni. La differenza è che in questo caso essa esiste sul serio» 

Che posto occupa l’umorismo nel libro?

«C’è qualche personaggio divertente, qua e là. Ho la sensazione che l’umorismo occupi la stessa posizione di sempre. Ci sono personaggi comici come ce ne sono sempre stati». 

Si parla poco di donne… Si attirerà ancora critiche da questo punto di vista.

«Di sicuro, una femminista non potrà che essere depressa da questo libro. Ma non posso farci niente». 

Tuttavia era rimasto scioccato dal fatto che “Estensione del dominio della lotta” potesse essere considerato un libro misogino. Adesso però aggrava la sua posizione…

«Non mi ritengo affatto misogino, in verità. E direi che al limite non è nemmeno la cosa più grave. Dove peggioro veramente la mia posizione è enunciando che il femminismo è demograficamente condannato. Da qui l’idea implicita, e che può non piacere, che infine l’ideologia non abbia un peso rilevante in rapporto alla demografia». 

Non è una provocazione questo libro?

«Io eseguo un’accelerazione della storia, ma no, non posso dire che sia una provocazione, nella misura in cui non dico cose che ritengo essere incredibilmente false soltanto per provocare. In questo libro condenso un’evoluzione a mio avviso verosimile». 

E ha anticipato reazioni alla pubblicazione, scrivendolo o rileggendolo?

«Non faccio mai previsioni, davvero». 

Ci si potrebbe stupire del fatto che lei abbia deciso di andare in questa direzione, quando il romanzo precedente era quello del trionfo e i critici se ne erano rimasti in silenzio.

«La vera risposta è che francamente non ho deciso niente. All’inizio quella che si doveva verificare era una conversione al cattolicesimo». 

Non c’è qualcosa di disperato in questa azione che non è stata veramente decisa?

«La disperazione è l’addio di una civiltà in ogni caso antica. In fondo però il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. Evidentemente, come in ogni altro testo religioso, ci sono vari margini di interpretazione, ma leggendolo sinceramente si giunge alla conclusione che la guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e che solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Piuttosto, ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo. Le femministe, loro, non riusciranno a essere veramente sincere. Ma io e parecchia altra gente sì». 

Si possono sostituire le femministe con le donne, no?

«No, non si può sostituire le femministe con le donne. Non si può proprio, no. Anzi, faccio presente che oltre tutto ci sono anche delle conversioni femminili all'Islam». 

Traduzione di Anna Bissanti

Gli scandali travolgono Sciences Po, tempio dell’intellighenzia francese. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 28 luglio 2021. Il tempio dell’intellighenzia francese e simbolo della sinistra gauché, Sciences Po, è diventato da qualche mese il regno degli scandali. Tutto nasce lo scorso gennaio quando è stato pubblicato “La Familia grande”, racconto biografico firmato da Camille Kouchner, che accusa il suo patrigno, il celebre politologo di sinistra Olivier Duhamel, docente presso Sciences Po, di incesto e di aver abusato per diversi anni del suo gemello quando erano 13enni, alla fine degli anni 80′. Camille Kouchner è la figlia 45enne dell’ex ministro e fondatore di Medici Senza Frontiere Bernard Kouchner e della scrittrice Évelyne Pisier, morta nel 2017. Per larga parte della sua adolescenza ha vissuto con il secondo marito di quest’ultima, Duhamel, uno dei più importanti pensatori della sinistra chic francese. A seguito della pubblicazione del libro il procuratore di Parigi, Remy Heitz, ha deciso di aprire un’indagine per” stupri e aggressioni sessuali” a carico di Duhamel, che all’epoca dei fatti “aveva autorità su minore di meno di 15 anni”. Le clamorose rivelazioni contenute nel libro di Camille Kouchner hanno portato il patrigno a dimettersi da tutti gli incarichi alla Sciences Po. E non finisce qui. L’indagine che conferma: “Studenti vittime di abusi”. Ora un nuovo rapporto ministeriale travolge l’Istituto di studi politici di Parigi, culla dell’élite politica-mediatica-economica di Francia. Come riporta LeFigaro, lo scorso febbraio, a seguito dello scandalo Duhamel, un’ondata di testimonianze di studenti, testimoni o vittime di aggressioni, ha sconvolto i social network con l’hashtag #sciencesporcs. Cosicché l’Ispettorato generale dell’istruzione, dello sport e della ricerca (IGESR), ha aperto un’inchiesta sugli abusi segnalati negli Istituti di Studi Politici (IEP) e nei campus di Sciences Po sparsi in giro per la Francia. In tutto, sono state condotte 312 udienze e sono state ascoltate 492 persone. Dopo diversi mesi di indagini e dopo aver esaminato tutti e dieci gli istituti e i campus di Sciences Po, il rapporto del ministero segnala un totale di 89 episodi di violenza sessuale e 41 stupri tra gennaio 2019 e giugno 2021. Una cifra potenzialmente più alta se si tiene conto “dell’omertà che persiste” e del fatto che le vittime si confidino” di più con i parenti che con i sistemi dedicati, non sempre conosciuti o visibili”.

Abusi e omertà negli istituti francesi. Le situazioni segnalate negli Istituti di Studi Politici (PEI) rappresentano “i fatti più gravi dal punto di vista penale”: stupri nel 45% dei casi e violenza sessuale nel 20%. Le molestie sessuali rappresentano il 5%. Quasi il 17% dei fatti sono commenti sessisti o comportamenti inappropriati che rientrano nella categoria degli atti sessisti che possono essere oggetto di procedimenti disciplinari”. In totale, di legge, l’83% dei casi “rientrano nel codice penale”. La maggioranza (51%) delle violenze di genere e sessuali avviene “tra studenti della stessa istituzione”. Il rapporto sottolinea inoltre che il ricorso a procedimenti disciplinari “appare molto limitato vista la gravità dei fatti”. In tutto, sono state avviate appena 14 procedure, ovvero circa il 16% dei casi totali. Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro dell’istruzione superiore, Frédérique Vidal: “I membri delle commissioni disciplinari sono più abituati a trattare problemi di plagio o frode agli esami che non di atti di violenza sessuale. Devono quindi essere formati”. Bénédicte Durand, nominata preside ad interim dell’ateneo dopo le dimissioni di Frédéric Mion, prova a difendersi, spiegando che a Sciences Po “non c’è la cultura dello stupro”. “Ho intrapreso un tour dei sette campus per incontrare gli studenti e identificare i modi per trasformare questa rabbia in azione” ha spiegato a Le Figaro. Rimane il fatto che per l’immagine dell’istituto che produce l’élite francese, è un colpo durissimo e voltare pagina non sarà così semplice.

 Gaia Cesare per “il Giornale” il 23 luglio 2021. Regno Unito e Unione Europea litigano sul protocollo post-Brexit per l'Irlanda del Nord e intanto Londra firma un accordo con uno dei Paesi leader d'Europa per frenare il boom di migranti che continuano a voler raggiungere la Gran Bretagna. L'intesa con la Francia è stata siglata martedì dai ministri dell'Interno dei rispettivi Paesi, la britannica Priti Patel e il francese Gérald Darmanin, e prevede l'impegno di Londra a sborsare 62 milioni e trecentomila euro a Parigi per rafforzare i controlli di polizia sulle coste francesi, che si aggiungono ai 175 milioni di euro già affidati alla Francia per contrastare il flusso di migranti negli ultimi dieci anni. Circa settecento migranti hanno raggiunto le coste inglesi negli ultimi due giorni e in piena estate il numero complessivo di arrivi clandestini ha già sfiorato gli 8500, superando il totale dello scorso anno. Raddoppiare il numero di agenti francesi in grado di arginare i migranti prima che si imbarchino per il Regno Unito è l'obiettivo delle autorità britanniche, che da Parigi solo quest' anno hanno ottenuto lo stop di 5mila clandestini. D'altra parte è stata approvata in seconda lettura ed è ormai a un passo dall'entrata in vigore la controversa legge di riforma della cittadinanza e del diritto d'asilo nel Regno Unito post-Brexit, definita «xenofoba» e «crudele» dall'opposizione laburista e dalle associazioni per i diritti umani. Il Nationality and Borders Bill prevede pene dai sei mesi ai quattro anni di carcere per chi cerca di entrare nel Paese illegalmente. In un discorso in cui ha scaricato il peso dei migranti sui Paesi di frontiera, la ministra Patel è stata chiara: «Le persone dovrebbero chiedere asilo nel primo Paese sicuro che raggiungono». Nel suo discorso alla Camera dei Comuni lunedì, la «lady di ferro» del governo di Boris Johnson è stata persino più incisiva: «Il popolo britannico ne ha abbastanza delle frontiere aperte e della migrazione incontrollata, di un sistema di asilo fallito che costa al contribuente oltre un miliardo di sterline l'anno, dei gommoni che arrivano illegalmente sulle nostre coste, diretti da bande criminali organizzate (...), dei migranti economici che fingono di essere veri rifugiati, degli adulti che si fingono bambini per chiedere asilo». Patel ha ricordato i numeri dell'accoglienza inglese: dal 2015 oltre 25mila rifugiati, «più di qualsiasi altro Paese europeo». Ma adesso Londra promette: «Romperemo il business dei trafficanti». GaCe. 

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" il 12 luglio 2021. Ricatti morali, persecuzione sul posto di lavoro, pressioni indebite su 14 giovani collaboratori. La senatrice ecologista Esther Benbassa, 71 anni, tripla nazionalità francese, turca e israeliana, molto nota in Francia per il suo lavoro di storica e per le posizioni in difesa dei musulmani, della causa palestinese e più in generale dei deboli, è stata sospesa - con decisione all' unanimità - dal gruppo ecologista al Senato. Le rivelazioni che hanno portato un duro colpo alla carriera politica e all' immagine pubblica della senatrice arrivano da Mediapart +, il giornale online che dalla sua creazione nel 2008 ha messo in difficoltà i potenti fino a provocarne talvolta le dimissioni: dal ministro anti-evasione fiscale Jerome Cahuzac scoperto a tenere un conto in Svizzera all' altro ministro François de Rugy che abusava dei soldi pubblici, ai presunti finanziamenti di Gheddafi a Sarkozy. Uomini di destra o di sinistra ma comunque di governo. Stavolta invece Mediapart ha indagato su una delle esponenti più celebri della sinistra radicale e antagonista, lontana forse dal governo ma comunque influente in Parlamento, nei media e nell' accademia. E lo scandalo in Francia è notevole, perché Esther Benbassa ha fatto della difesa «dei deboli e degli oppressi» la cifra del suo impegno politico. Senza paura di prendere posizioni molto contestate - come quando ha difeso il velo islamico «non più alienante della minigonna» - e di venire trattata da traditrice quando, più volte negli ultimi anni, ha preso le difese di Hamas contro Israele. Otto ex collaboratori parlamentari e sei ex assistenti all' università hanno consegnato a Mediapart centinaia di email e messaggi sms che sembrano dimostrare il «clima di terrore» instaurato dalla senatrice con i suoi sottoposti. Ci sono i lunghi scambi con una ragazza che deve operarsi d' urgenza al polmone, che si trova allo scadere del periodo di prova del contratto di assistente parlamentare e che non riesce più a temporeggiare con il chirurgo. Benbassa pretende che l'operazione venga rinviata di almeno quattro mesi: «Il suo medico le dice che non spetta a me decidere delle questioni mediche, io però le parlo dei problemi che avremo in ufficio. C' è in ballo la riforma delle pensioni». E poco dopo: «Credo che non ci intendiamo. Sarà difficile fare un cammino comune. Lei è fragile e mi mette angoscia». Poi ci sono le email nelle quali Benbassa umilia i sottoposti per mancanze varie - «non sapete scrivere una lettera, il Senato non fa per voi» - e quelle in cui li accusa di comportarsi «da sindacalisti». A prendere le difese della senatrice, che si è scusata «con le persone che ho potuto ferire», c' è l'intellettuale di sinistra Geoffroy de Lagasnerie, molto vicino al sociologo Didier Eribon e allo scrittore Edouard Louis. Negli ultimi anni Lagasnerie ha rilanciato in Francia una visione della società basata sulla lotta di classe, e quel prisma sembra guidarlo anche nell' intervento per Benbassa. «Ci sono sicuramente inchieste che Mediapart non ha pubblicato per non macchiare la reputazione di certe persone - scrive Lagasnerie -. In uno spazio di sinistra bisogna diffidare del quadro totalizzante nel quale le rivelazioni sono inscritte dalla logica stessa della narrazione mediatica». Insomma, per Benbassa, bisognerebbe chiudere un occhio. Mediapart risponde che «in 13 anni abbiamo condotto inchieste su politici di tutti i partiti. I fatti sono fatti». 

Esther Benbassa nella bufera: crolla un altro mito della sinistra francese. Roberto Vivaldellisu Inside Over il 12 luglio 2021. Crolla un altro mito della gauche francese, quella dei salotti parigini più progressisti e delle battaglie a favore dell’immigrazione e contro l’islamofobia: la paladina della sinistra chic Esther Benbassa, storica del giudaismo e dal 2011 senatrice dei verdi Europe Écologie Les Verts, tripla nazionalità francese, turca e israeliana, è stata sospesa all’unanimità dal suo gruppo politico al senato. Motivo? Come riporta il Corriere della Sera, la 71enne accademica, nota in Francia per le sue battaglie a favore della causa palestinese, in difesa dei musulmani e delle minoranze in generale, è accusata di ricatti morali, persecuzione sul posto di lavoro e pressioni indebite su 14 giovani collaboratori. Lo scoop è del giornale online Mediapart, che ha pubblicato centinaia di email e messaggi sms che sembrano raccontare un clima tutt’altro che sereno nel giovane staff della senatrice che ha fatto della lotta a favore dei più deboli e degli oppressi, un vero e proprio marchio di fabbrica. Alla senatrice della sinistra antagonista, tuttavia, pare piaccia predicare bene e razzolare malissimo, come evidenzia il materiale esplosivo pubblicato dalla testata francese. La coerenza, insomma, non è proprio di casa. 

Le accuse contro la senatrice mito della sinistra. Dalle mail pubblicate da Mediapart, Benbassa sembra aver instaurato un vero e proprio clima di terrore contro i suoi malcapitati collaboratori. Più che l’empatia che ha sempre invocato a favore degli oppressi, la senatrice ecologista dà ampia dimostrazione di un cinismo ai limiti della perfidia. Come spiega Le Figaro, tutti evocano un clima di “terrore” instaurato dalla senatrice, fatto di pressioni, ricatti e umiliazioni sistematiche. Un ex collaboratore l’accusa, in particolare, di aver tentato di fargli rinviare un’importante operazione chirurgica ai polmoni con il pretesto di una fitta agenda politica al tempo della riforma delle pensioni, nel 2020.  “Il suo medico le dice che non spetta a me decidere delle questioni mediche, io però le parlo dei problemi che avremo in ufficio. C’è in ballo la riforma delle pensioni” scrive Benbassa, per poi rimarcare: “Credo che non ci intendiamo. Sarà difficile fare un cammino comune. Lei è fragile e mi mette angoscia”. Un altro ex collaboratore accusa la senatrice ecologista di avergli fatto pressioni affinché venisse a lavorare in ufficio in pieno lockdown e mentre il regolamento del Senato prevedeva che la presenza dovesse essere solo eccezionale.

“Mi scuso con quelli che ho ferito, sono diretta”. “Si dice che io sia umana, anche calorosa, ma so che sono anche diretta. Non sono immune agli sbalzi d’umore”, ha spiegato Esther Benbassa in un comunicato di replica alle accuse di Mediapart.  “Ma se sono esigente, sono anche ansiosa di valorizzare il lavoro e gli sforzi dei miei collaboratori”, ha aggiunto presentando le sue “scuse” verso “quelli e coloro che avrei ferito”. La senatrice ha tuttavia contestato di “aver scelto consapevolmente e deliberatamente di mettere in pericolo la salute dei (suoi) dipendenti”. Sul tema è intervenuto il sindacato dei collaboratori parlamenti, spiegando che “questa professione, a causa del suo legame con la politica e i rapporti di potere, è spesso troppo contaminata da questo tipo di violenza”.

Contro l’islamofobia. La senatrice è stata fra le promotrici della marcia contro l’islamofobia del novembre 2019, promossa da Libération giorni dopo l’attentato a una moschea a Bayonne, nel sud-ovest della Francia, e mentre il dibattito pubblico del Paese rifletteva sul concetto francese di laicità e sul divieto di indossare l’hijab: un tema che ha diviso (anche) la sinistra francese. Benbassa sta, senza se e senza ma, con l’islam – anche quello “politico” – e di recente ha spiegato che ciò i musulmani passano ogni giorno in termini di restrizioni e pregiudizi non è molto diverso da ciò che hanno vissuto gli ebrei in passato.

Da corrieredellosport.it l'1 luglio 2021. Per vincere a volte non bastano i campioni se non c'è il collettivo e unione di intenti. A pochi giorni dalla clamorosa eliminazione della Francia dall'Europeo, i media francesi L'Èquipe e French Football News hanno rivelato alcuni retroscena dal ritiro della nazionale di Deschamps. Un clima tutt'altro che sereno, trasformatosi in una vera e propria polveriera dopo il ko negli ottavi contro la Svizzera ai rigori. I primi segnali si erano visti già sugli spalti, dove la madre dello juventino Rabiot se l'era presa con le famiglie di Pogba e Mbappé. L'Èquipe, però, ha raccontato che tutto è iniziato nell'amichevole contro la Bulgaria, quando Giroud si è lamentato con il fuoriclasse del Psg perché non riceveva il pallone. Il centravanti del Chelsea ha poi spiegato che non ce l'aveva personalmente con Mbappé. Ma queste crepe avrebbero segnato una voragine insanabile all'interno dello spogliatoio e in campo. L'atteggiamento lunatico di Kylian Mbappé avrebbe fatto arrabbiare alcuni senatori della squadra: Steve Mandanda, Hugo Lloris e Moussa Sissoko. Tornando alla partita contro la Svizzera di Petkovic, costata l'eliminazione ai transalpini, secondo French Football News Rabiot e Pogba si sarebbero insultati a vicenda durante gran parte della sfida in quanto il centrocampista della Juve era scontento del lavoro difensivo di Paul. Si sarebbe scoperto anche che Varane ha rimproverato duramente Pavard per la sua scarsa attenzione difensiva, e si aggiunge che il difensore del Real Madrid ha anche ripreso Pogba per il suo atteggiamento in fase di copertura. Tutto questo dopo aver segnato con una perla di rara bellezza il gol del momentaneo 3-1. Ma non è finita qui, perché la Francia è stata chiamata a cambiare città più volte e secondo i media francesi alcuni calciatori si sarebbero lamentati dell'albergo ungherese nel quale alloggiavano. I francesi si sarebbero sentiti "confinati" secondo L'Équipe nel Marriott Hotel di Budapest, dove non si potevano aprire le finestre delle stanze. A questo andrebbe aggiunto il fatto che i calciatori non hanno potuto avere nessun contatto con i loro familiari. Cause e concause che hanno fatto diventare il ritiro della Francia una vera e propria bomba ad orologeria.

Da corrieredellosport.it l'1 luglio 2021. Nervi tesi dopo la sconfitta ai rigori della Francia agli ottavi contro la Svizzera. Come riportato da RMC Sport, dopo la sequenza di rigori, che ha condannato i campioni del mondo in carica, è esplosa una lite sugli spalti della National Arena di Bucarest tra la madre di Adrien Rabiot con le famiglie di Paul Pogba e Kylian Mbappé. Veronique Rabiot, mamma e agente del centrocampista della Juventus è esplosa dopo l'eliminazione della Nazionale francese. Prima ha attaccato la famiglia di Pogba al fischio finale dei tempi regolamentari. Il motivo di questa prima discussione è per il terzo gol della Svizzera, scaturito da una palla persa proprio dal centrocampista ex Juve. Poi si è rivolta contro la famiglia di Mbappé al termine dei rigori, con l'attaccante del Psg autore dell'errore decisivo. Veronique ha chiesto ai genitori di redarguire il figlio e di renderlo meno arrogante, causando un'accesa discussione: la lite è proseguita per diversi minuti con altre famiglie che hanno assistito alla scena.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" l'1 luglio 2021. Il jet privato dei Bleus è atterrato all'aeroporto del Bourget intorno alle 16.30, accolto da pioggia, molti giornalisti e zero tifosi. Le partite nel girone contro Germania (1-0), Ungheria (1-1) e Portogallo (2-2) avevano già mostrato non poche magagne, ma prima di lunedì sera nessuno in Francia pensava che i campioni del mondo potessero uscire agli ottavi battuti dalla Svizzera, oltretutto già maltrattata dall' Italia. Era un'ipotesi inconcepibile, e per questo in Francia lo choc è enorme. Alla fine della partita sono scoppiati incidenti a Lione, Bordeaux, Lille, con risse tra tifosi e forze dell'ordine, ma lo sconcerto ha travolto anche l'entourage dei giocatori. Kylian Mbappé, che ha sbagliato il rigore decisivo (avendo comunque il coraggio di non sottrarsi e di tirarlo), si è scusato: «Mi dispiace per il rigore sbagliato. Volevo aiutare la squadra, ho fallito». Ma sulle tribune dello stadio di Bucarest era già scoppiata una rissa verbale tra Véronique Rabiot, l'ingombrante madre del giocatore della Juventus e della Francia, e le famiglie di Pogba e dello stesso Mbappé. «Come ha potuto perdere quel pallone?», ha gridato la madre di Rabiot ai parenti di Pogba, che ha segnato il magnifico gol del 3-1 ma qualche minuto dopo ha anche perso la palla fatale che ha permesso al contropiede svizzero di raggiungere il 3-3 e riagguantare una partita che i francesi pensavano già vinta. Non solo, Véronique Rabiot se l' è presa anche con il padre di Mbappé, invitandolo a dare una bella ridimensionata al figlio, accusato di essersi montato la testa e di avere portato la squadra alla rovina. Il colpo di scena dell'eliminazione con la Svizzera sta riportando alla luce tensioni tra i giocatori che erano già emerse nelle partite precedenti e che erano state più o meno messe a tacere dall' intervento dell'allenatore Didier Deschamps. C'erano state le parole di Olivier Giroud, poco a suo agio per il ritorno in Nazionale di Karim Benzema. E non solo perché anni prima Benzema si era paragonato a una Formula Uno definendo invece Giroud un go kart, ma anche perché gli arrivavano pochi palloni dai compagni, in particolare da Mbappé. Alle parole di Giroud, in conferenza stampa, Mbappé è scattato e stava per intervenire, c' è voluto Deschamps a fermarlo tenendolo per un braccio. Troppe stelle, troppi campioni, il miracolo che era riuscito a Deschamps in Russia 2018 - grande coesione del gruppo - non è riuscito a riprodursi a questi Europei. E lo si è visto chiaramente in diretta tv, lunedì sera: dopo l'errore che condannava tutta la squadra, non un compagno si è avvicinato a Mbappé per consolarlo. C' era questo ragazzo di 22 anni, pur pagato 18 milioni di euro nel 2021 e candidato al Pallone d' oro, che si aggirava per il campo da solo, con lo sguardo incredulo per il suo stesso sbaglio, e che dopo qualche istante se ne è tornato negli spogliatoi, sempre da solo, mentre i compagni restavano sul terreno di gioco. Nei prossimi giorni l'allenatore Deschamps e il presidente della Federazione francese, Noël Le Graët, faranno «quattro chiacchiere», ha detto quest' ultimo. Oltre al disastro Mbappé - quattro partite, zero gol e il rigore fallito - ci sono i tanti errori imputati a Deschamps: la convocazione giusta ma tardiva di Karim Benzema, la scelta di indebolire la difesa pur di far giocare tutte le stelle davanti, il modulo sbagliato nel primo tempo con la Svizzera e la gestione confusa di Griezmann. Qui la critica arriva anche da Mourinho: «Non si può togliere Griezmann all' 89'. Alla fine vai ai supplementari e ti sei tirato la zappa sui piedi perché l'hai sostituito all' ultimo minuto. Spero che Deschamps faccia tesoro di questa esperienza». Ma corre voce che Zidane sia già pronto a prenderne il posto.

«La Francia di Macron continua a giocare con il Ciad, come all’epoca delle colonie». Lo scrittore Koulsy Lamko parla del presente e del futuro del paese africano dopo l'omicidio del Presidente Idriss Déby Itno. Orlando Trinchi su Il Dubbio il 29 giugno 2021. «La Francafrica ha tutto il tempo per svolgere le sue reti ed è probabile che il Ciad sarà sponsorizzato da un altro Paese francafricano come il Niger o il Togo, che aiuterà a rafforzare il regime di Déby figlio. Non sarebbe la prima volta; già suo padre, durante i primi anni di potere, era stato patrocinato dai buoni e leali servizi dei «missionari» di Blaise Compaoré del Burkina Faso. In Francafrica, spesso la storia mormora…». Lo scrittore e docente universitario Koulsy Lamko non nasconde una comprensibile apprensione riguardo le sorti del proprio Paese natale, il Ciad, di recente interessato da una successione autoritaria di potere fra l’ex Presidente Idriss Déby Itno, morto il 20 aprile in combattimento contro una colonna di ribelli, e il generale Mahamat Idriss Déby Itno, suo figlio.

Lamko, a suo avviso quali responsabilità si nascondono dietro la morte di Idriss Déby?

La responsabilità principale è dello stesso Idriss Déby. Qualunque cosa si dica, la morte non assolve il tiranno che ha tenuto per trent’anni il suo popolo in una violenta e completa indigenza. A mio avviso, tutto rientra nella motivazione originaria che attiene alla presa di potere e alle alleanze che si annodano per arrivarci. Solo la volontà del popolo dovrebbe legittimare il fatto che lo si mantenga così a lungo. Viviamo in un’epoca in cui il politico è castrato, espiantato; sono i poteri della finanza a insediare la maggior parte dei dirigenti e dei leader politici. La defezione, la disobbedienza degli ordini e delle ingiunzioni dei poteri occulti che hanno insediato e legittimato l’occupante di palazzo – anche attraverso una farsa elettorale – equivale a firmare la sua condanna a morte. Succo d’arancia spremuto, buccia d’arancia gettata. Riferendoci ai discorsi di Idriss Déby poco prima della sua morte, vi ritroviamo un tono premonitore. Poi, per quanto concerne le varie versioni che circolano in rete e nelle fucine diplomatiche, non sono a parte né dei segreti degli dei, né di quelli dei servizi segreti per poter dipanare la pellicola degli eventi. Tra il fattuale, il probabile e l’ipotetico esistono solo versioni meno credibili di altre. Forse non sapremo mai la verità. Dopo più di trent’anni stiamo ancora cercando di sapere qualcosa di più sui mandanti dell’assassinio di Thomas Sankara.

Secondo quanto previsto dalla Costituzione del Ciad, in caso di vuoto di potere è il presidente dell’assemblea nazionale a dover assumere il controllo, non il capo della guardia presidenziale. Si potrebbe parlare, in questo caso, di “colpo di Stato”?

Si tratta chiaramente di un colpo di Stato, dal momento che il Consiglio Militare di Transizione scioglie l’Assemblea e il governo, ignorando tutte le disposizioni di legge. Si brandiva l’indisponibilità del Presidente dell’Assemblea, accusandolo di non aver voluto assicurare l’interim e, così, giustificando la presa di potere da parte dei generali. La Costituzione ha previsto che, in caso di impedimento del Presidente dell’Assemblea, è il primo vice-presidente ad assicurare l’interim. Il trucco è farci credere che vi sia assolutamente bisogno di un militare alla guida del Paese, perché i ribelli attaccano, piuttosto di un Presidente civile che avrebbe potuto avviare consultazioni con la controparte. Ad ogni modo, per il popolo del Ciad, segni premonitori presagivano una successione dinastica di un figlio di Déby che garantisse gli interessi dell’oligarchia del clan; la sola domanda che ci ponevamo era come sarebbe andata a finire, dato che, trattandosi di un militare, non rientrava nel quadro costituzionale. L’occasione era troppo allettante. Sfida il buon senso il fatto che di tutta la folle pletora di generali – più di 450, di cui alcuni molto esperti – si scelga il più giovane, manifestamente non molto ferrato in affari di Stato, per dirigere un Paese la cui Costituzione non contempla candidati con meno di 45 anni. Cosa ci si può aspettare quando lo stesso Idriss Déby e il suo regime si sono costantemente abbandonati a violazioni della Costituzione da quando essa esiste? Non si possono dimenticare le sue stesse parole, per legittimare le frodi elettorali: «Sono arrivato al potere per mezzo delle armi, colui che vorrà prendere il mio posto dovrà fare lo stesso». Quanto all’attuale governo, non è altro che un remake, un agglomerato di buoni servitori del sistema Déby, ministri “plurirecidivi”, gli uni dal regime di Hissene Habré, gli altri non aventi altra legittimazione che quella delle armi o di essere «figli di papà». È polvere negli occhi: una sorta di pegno che dimostri buone intenzioni di fronte alle probabili velleità di sanzioni da parte dell’Unione africana o delle istituzioni finanziarie «erogatrici di fondi», ma un pegno molto poco convincente. Il loro intento non dichiarato sarà di insediare in modo duraturo il figlio di Idriss Déby, perpetuare il sistema di clan per continuare a nuotare in acque torbide e mantenere i propri interessi di classe!

Il Primo ministro francese Macron ha inizialmente sostenuto la successione al governo del generale Mahamat Idriss Déby per poi prenderne le distanze. Cosa pensa al riguardo?

Un secolo dopo, la politica coloniale della Francia in Ciad non ha quasi subito sostanziali variazioni. Il Ciad rappresenta l’essenza del dispositivo militare francafricano. Questo immenso Paese al centro del continente, al crocevia fra popoli di cultura arabo-islamica e africana, costituisce una manna dal cielo sul piano geo-strategico. Dal Ciad si può tenere sotto controllo l’Africa da est a ovest, dal nord al sud del Sahara. Se ne è fatto un campo militare dell’ «Esagono». Il Paese è posto sotto lo sguardo permanente del Ministero francese della Difesa e dei servizi segreti francesi della DGSE, ai quali si sono recentemente aggiunti altri, come MOSSAD e CIA. Come i suoi predecessori alla guida dello Stato francese, Emmanuel Macron s’inscrive nella continuità del sistema francafricano, con uno stile più giovane, più disinibito, ma ugualmente cinico. Le decisioni prese a questo livello sono state preparate a lungo e in precedenza. Macron ha dato carta bianca al Consiglio militare di transizione, ma ha anche fornito aiuti militari e logistici per decimare la colonna di ribelli e preservare quello che definisce la stabilità e l’integrità del Ciad. L’ha promesso durante il suo discorso d’addio a Déby. Invocare con determinazione, meno di una settimana dopo, «una transizione pacifica, democratica, inclusiva e – non più – un piano di successione» non inganna nessuno. Ci si è abituati ai discorsi ipocriti e contradditori dei responsabili francesi. Dietro le quinte, i suoi servizi diplomatici lavorano per dividere l’opposizione e indebolire le organizzazioni che rifiutano l’imposizione del Consiglio militare di transizione.

La società civile del Ciad ha manifestato nella capitale N’Djamena e a Moundou, nel Sud del Paese. Il popolo del Ciad, finora escluso, sta cercando di riappropriarsi della propria voce?

Le libertà del popolo del Ciad sono state confiscate molto presto, solo pochi anni dopo l’indipendenza, con l’imposizione e la promozione del partito unico. Tutti i regimi che si sono succeduti hanno regnato attraverso il terrore e il silenziamento delle masse popolari. Il regime di  Hissene Habré ne è stato il culmine, con 40.000 morti e dispersi nelle sue carceri sinistre e altrove in tutto il territorio. La paura suscitata dalla polizia politica e dalle forze d’intervento militari ha mantenuto il popolo in un mutismo cronico e favorito una carenza di cultura e coscienza politica, permettendo di conservare quei riflessi tribali che i diversi responsabili sanno manipolare quando necessario. Tuttavia, non bisogna minimizzare le lunghe lotte dei sindacati per i loro interessi corporativi. Ma ciò riguarda solo una minima parte di una popolazione prevalentemente rurale, in cui potenziali rivendicazioni di agricoltori e allevatori non saranno mai prese in considerazione. L’apparente apertura democratica del regime di Déby, con la sua pletora di partiti politici, agli ordini e agli organi di stampa non è che l’applicazione dell’altro principio della dittatura: «perché, abbaia sempre, la carovana passa». Ciò non ha impedito nemmeno le controversie nei rapporti fra i cittadini e lo Stato, poiché una parola libera viene facilmente interpretata come un delitto e numerosi giornalisti hanno conosciuto l’autocensura, la prigione e pagato multe pesanti. L’autocensura è praticata in seno ai partiti politici d’opposizione, alcuni sono talvolta obbligati dal regime che dà loro prebende. Dall’avvento del partito dei «Trasformatori» e il rilancio dei movimenti per i diritti dell’uomo, l’espressione delle rivendicazioni è diventata più presente, in ogni caso fuori dagli schemi degli elogiatori del partito di Déby.

Come le appare oggi il suo Ciad?

Un popolo formidabile che ha esaurito le sue capacità di resilienza e vuole finalmente iniziare a vivere libero e con dignità. La nazione non è ancora nata, i manghi e le palme da dattero sono in fiore; bisognerà costruirla. Per questo occorrerà sedersi tutti, per dirci la verità senza paura, giudicare, se necessario, ladri e criminali, inventarsi un nuovo modello di gestione politica ispirato dalle necessità e dalla voglia di vivere insieme, di rompere con i demoni del colonialismo e la Francafrica. A volte capita di sognare che ciò sia possibile. Altre volte, si vede librarsi come un’ombra pesante lo spettro della rassegnazione e del caos, di cui si scorgono le avvisaglie nelle repressioni violente attuate dal Consiglio militare di transizione e dal suo governo contro i manifestanti pacifici, le imprecisioni ambigue e conniventi che ritardano i rapporti dell’Unione africana, le visite affrettate dei tentacoli della piovra neocoloniale.

Leonardo Martinelli per "La Stampa"  il 28 giugno 2021. Riemerge in Francia, inesorabile, quel divario destra-sinistra che Emmanuel Macron aveva ormai dato come finito, per lui riflesso anacronistico di un passato lontano. Ieri, in Francia, al secondo turno delle regionali, la destra classica e neogollista (e non lepenista) si è imposta definitivamente in sette delle tredici regioni, mentre in altre cinque ha prevalso la sinistra (ogni volta rappresentata, nella persona del futuro governatore, da un esponente di quel Partito socialista, che pure da anni vive una profonda crisi). Intanto, dura sconfitta per il Rassemblement National (Rn), di Marine Le Pen, che invece sperava di conquistare una regione, impresa storicamente mai realizzata dall'estrema destra. Macron e la République en Marche, il suo partito (o pseudo, vista l’inconsistenza), erano addirittura assenti ai diversi ballottaggi o hanno ottenuto risultati imbarazzanti. Certo, pesa su queste regionali il macigno dell'astensionismo, praticamente lo stesso del primo turno: ieri non è andato a votare il 65,7% dei francesi. È così che una scocciata Marine Le Pen, nel suo discorso (stringato), pronunciato ieri sera dopo i risultati, ha detto: «Do appuntamento ai francesi già da domani per costruire l'alternanza di cui la Francia ha bisogno». Insomma, chiudiamo la parentesi di queste regionali e andiamo dritti verso le presidenziali, che si terranno nell'aprile 2022. La campagna comincia, ma non sarà così semplice. Queste ultime elezioni hanno ridato speranza alle forze politiche classiche e in particolare alla destra. E fanno emergere possibili contendenti al troppo prevedibile tandem Macron-Le Pen per il ballottaggio delle presidenziali.

La corsa di Bertrand. In particolare, Xavier Bertrand, già governatore dal 2015 degli Hauts-de-France, il Nord, economicamente in crisi e dove l'Rn è tradizionalmente forte. Sì, ieri Bertrand, nel passato già ministro sotto Jacques Chirac e sotto Nicolas Sarkozy, si è confermato alla guida della regione con il 53% dei voti, una percentuale molto alta, che lo ha spinto a pronunciare subito un discorso da candidato alle presidenziali. Esponente della «destra sociale» dal sapore gollista, si è rivolto agli astensionisti, «quel grido della Francia, gente che lavora ogni giorno e non riesce ad arrivare alla fine del mese. E vive in uno dei Paesi dove si paga più tasse, ma dove i servizi pubblici si stanno sgretolando». È quell'elettore che non è andato a votare alle regionali. In molti casi sceglie la Le Pen e Bertrand vuole attirarlo l'anno prossimo. Lui si è già candidato alle presidenziali, ma è uscito, in rotta con la «politica tradizionale», dai Repubblicani, il partito della tradizione neogollista. Questo lo sceglierà comunque come proprio candidato? Potrebbe preferirgli altri personaggi, vedi Laurent Wauquiez, che nel partito è rimasto e ieri è stato confermato alla guida della regione Alvernia-Rodano-Alpi (quella di Lione). O Valérie Pécresse, altra transfuga dei Repubblicani, ma una delle donne simbolo della destra moderna e moderata, che ha vinto nella regione di Parigi. Ritornando ai risultati di ieri, nella Provenza-Alpi-Costa Azzurra, Renaud Muselier, dei Repubblicani (ma appoggiato anche dai macronisti), è riuscito a imporsi su Thierry Mariani, un tempo nello stesso partito, ma ormai passato con la Le Pen. Mentre la socialista Carole Delga ha vinto in Occitania, la regione di Tolosa, con il 58% dei voti, un record in queste elezioni.

Da sport.sky.it il 24 giugno 2021. Percorrere oltre mille km per poi accorgersi... di aver confuso città. È la curiosa avventura capitata a sei tifosi transalpini, partiti dalla Francia per seguire l'ultima partita del girone dei Bleus contro l'Ungheria. Il match è in programma a Budapest, ma i sei fan hanno scoperto, due ore dopo essere atterrati, di ritrovarsi a Bucarest. A rivelarlo un giornalista del quotidiano Jurnalul National che ha notato i sei in disparte rispetto ai supporters ucraini, presenti a loro volta nella capitale rumena per sostenere la Nazionale di Shevchenko durante l'ultimo incontro perso contro l'Austria, e ha cominciato incuriosito a rivolgere loro alcune domande. In quel momento ha capito che i francesi erano lì per sbaglio. Una volta atterrati a Bucarest, infatti, avevano seguito un gruppo di tifosi che - a parer loro - erano ungheresi ed erano diretti verso lo stadio. Peccato che circa due ore dopo si sono ritrovati in una piazza diversa da quella immaginata e hanno capito l'errore: dopo aver ricontrollato i biglietti, hanno notato che metà di loro avevano in teoria la giusta destinazione, mentre gli altri avevano prenotato erroneamente proprio per Bucarest. Niente Ungheria-Francia, dunque, ma la sorte potrebbe essere comunque dalla loro parte: nel caso la squadra di Deschamps dovesse vincere il girone F, infatti, disputerebbe l'ottavo di finale proprio alla National Arena.

Il precedente di... Michael Jackson! Un precedente simile capitò nel 1992 a Michael Jackson. Affacciandosi dal balcone del Palazzo del Parlamento rumeno, infatti, si rivolse ai suoi fan gridando per sbaglio: "Ciao Budapest".

Da fanpage.it il 24 giugno 2021. (…) Quello di confondere Budapest con Bucarest non è stato l'unico errore dei ragazzi francesi, che non hanno carpito le distinzioni tra la bandiere rumene e quella ungherese né hanno colto la differenza tra la lingua parlata dai funzionari dell'aeroporto. Nessuno di questi indizi ha destato sospetti ai viaggiatori di essere arrivati nel posto sbagliato. Intervistati dal giornale rumeno che ha riportato questa esperienza, i ragazzi hanno dichiarato che vedendo tutti quei tifosi pensavano che fossero ungheresi in cammino verso lo stadio: "Pensavamo che fossero tifosi ungheresi che andavano alla partita e li abbiamo seguiti, pensando che essendo della città conoscessero la strada per lo stadio". Alla fine hanno scoperto il loro errore e hanno guardato Ungheria-Francia in tv ma uno dei membri del gruppo ha affermato: "Dobbiamo studiare di più l'Europa". 

Chi era il cardinale Richelieu. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 26 giugno 2021. L’espressione eminenza grigia, dal francese éminence grise, è parte integrante del vocabolario universale dell’umanità. L’eminenza grigia è una figura, solitamente anziana – sebbene il grigio sia più un riferimento alla natura caliginosa del personaggio che all’età –, che affianca e supporta costantemente, ma riservatamente, il capo di Stato, fornendogli consigli, suggerendo politiche da adottare e formulando strategie da implementare. L’eminenza grigia è il consigliere per antonomasia, una persona che, essendo più realista del re, spesso e volentieri può combaciare con o sovrapporsi ad altre figure simili, quali sono il potere dietro alla corona e il grande burattinaio. Ogni capo di Stato che si rispetti ha una o più eminenze grigie: loschi ma preparati figuri, battezzati alle arti sacre della guerra e della diplomazia, che sanno come muoversi nel mondo, che conoscono le leggi del bellum omnium contra omnes e che aiutano i loro re Davide ad affrontare e vincere i Golia di turno. Ma da dove proviene questo modo di dire che ha segnato l’immaginario collettivo (non soltanto occidentale)? Da quell’epoca di grandi stravolgimenti politici, guerre religiose e rivalità dinastiche che ha fatto la storia dell’Europa: la guerra dei trent’anni. E colui che, più di ogni altro, avrebbe lavorato per eternare il proprio nome, spingendo la posterità a ricordarlo come l’eminenza grigia, fu il cardinale Richelieu, colui “che faceva tremare con la sua politica la Francia e l’Europa”.

Le origini del mito. Il cardinale Richelieu, al secolo Armand du Plessis, nasce a Parigi il 9 settembre 1585 da una famiglia della piccola nobiltà di Poitou. Suo padre, François, era signore di Richelieu e sua madre, Susanne, proveniva da una famiglia di giuristi. Non avrebbe mai avuto il modo di conoscere realmente suo padre, morto in battaglia durante le guerre di religione francesi, mentre il futuro cardinale aveva soltanto cinque anni. Immiserito e di salute cagionevole, il piccolo Armand fu inviato dalla madre al collegio di Navarra (Parigi) per studiare filosofia all’età di soli nove anni. Conclusi gli studi, il giovane avrebbe voluto intraprendere la carriera militare, ma un improvviso dono proveniente dall’allora re Enrico III, per commemorare la vita e la morte di François, lo avrebbe infine condotto verso la Chiesa. Investiti del titolo di reggenti della diocesi di Luçon, i restanti du Plessis optarono per iniziare Armand alla carriera ecclesiastica. Accettato l’onere-onore, non prima di aver studiato nei dettagli il cattolicesimo e di aver ottenuto un via libera ad hoc da parte di Paolo V per via della giovane età, Armand fu intronizzato vescovo di Luçon nel 1607. Una carriera scelta da altri per lui, quella del clero, ma che lui, Armand, avrebbe fatto propria e dimostrato subitaneamente di amare con ardore. Ad esempio, poco dopo aver assunto la guida della diocesi di Luçon, Armand diventò il primo vescovo di Francia ad implementare le riforme istituzionali prescritte e delineate dal Consiglio di Trento. E fu precisamente qui, all’interno dell’influente Chiesa cattolica, che Armand fu introdotto alle arti sacre della guerra e della diplomazia segreta, venendone completamente stregato. Qui, all’ombra di campanili e sagrestie, avrebbe imparato ogni segreto utile a diventare l’uomo più potente di Francia dal frate cappuccino François Leclerc du Tremblay, anche noto come l’eminenza grigia, dal quale avrebbe preso anche il soprannome.

La scalata ai vertici del potere reale. Nominato dai chierici di Poitou quale loro rappresentante agli ultimi Stati generali del diciassettesimo secolo, quelli dell’anno domini 1614, quivi poté mostrare alla Francia che contava il proprio volto, le proprie idee e il proprio acume. Nel dopo-stati generali, non a caso, entrò a far parte della corte di Luigi XIII in qualità di grande elemosiniere. Una volta fatto ingresso alla corte del re, il giovane ma saggio vescovo entrò nelle grazie di Concino Concini, il capo del governo di Luigi XIII, aiutandolo nell’elaborazione di strategie attinenti alle relazioni internazionali del regno. Dalla gestione degli affari religiosi a quella degli affari esteri il passo fu relativamente breve: nel 1616 fu nominato Segretario di Stato. Ma l’incarico sarebbe stato mantenuto soltanto per poco tempo: una volta assassinato Concini, rimasto vittima di un intrigo di palazzo, Armand fu destituito. Il re, comunque, lo avrebbe richiamato rapidamente, affidandogli l’incarico di mediare tra lui e la regina, che, sconvolta dall’omicidio di Concini, aveva dato inizio ad una ribellione tra gli aristocratici. Il vescovo-stratega riuscì nell’ardua impresa di riportare la regina a più miti consigli, restaurando la pace in famiglia e nel regno con il trattato di Angouleme. A partire da quel momento, saggiate ufficialmente le sue abilità diplomatiche e la sua lealtà alla Corona, Luigi XIII lo avrebbe impiegato come proprio consigliere – un ruolo ricoperto fino alla morte.

Il vescovo-stratega. Il cardinale Richelieu avrebbe dato prova di essere più realista del re, o meglio di possedere ciò che soleva definire il senso per la raison d’Etat (ragion di Stato), poco dopo essere divenuto il consigliere di Luigi XIII. Aveva capito che per evitare che la Francia venisse soverchiata dall’accerchiante dinastia Asburgo, che all’epoca regnava sia sulla Spagna sia sull’Austria, la Corona parigina avrebbe dovuto scendere a compromessi con i propri nemici, utilizzando l’astuzia e l’imprevedibilità come armi. Fu così che, allo scoppio della crisi valtellinese, per evitare che il ramo spagnolo degli Asburgo prendesse il controllo dell’odierna Lombardia, il cardinale decise di supportare le armate dei Grigioni (svizzeri protestanti). Un cattolico, per di più appartenente al clero, che aveva cacciato dei cattolici con l’aiuto di protestanti: una prima assoluta di “ecumenismo strategico“, in un’epoca bagnata dal sangue delle guerre religiose, che lo avrebbe reso un nemico, quasi un eretico, agli occhi del Papa, ma che lo avrebbe reso grande in Francia. Politica estera a parte, il cardinale aiutò il re ad accelerare il processo di centralizzazione del potere, suggerendogli di ridurre l’influenza della nobiltà feudale nell’ottica di prevenire rivolte in tempi di crisi. Chiunque avrebbe potuto essere una potenziale quinta colonna al servizio altrui, soprattutto i piccoli nobili alla costante ed avida ricerca di maggiori ricchezze, perciò il cardinale persuase il re della necessità di privare i castelli delle loro fortificazioni, indebolirne le armate e controllarne le finanze. Rimanendo sul fronte interno, il cardinale, realizzando l’incredibile potere di quello strumento allo stato embrionale chiamato stampa, spinse il re a imporre dei controlli sulla pubblicazione dei contenuti – una censura ante litteram – onde evitare la diffusione di notizie esiziali per l’ordine costituito. Non meno duro sarebbe stato nei confronti della minoranza ugonotta, effettivamente supportata da Londra in chiave antifrancese, che, dopo averla sconfitta a La Rochelle, decise di privare dei diritti politici e di protezione. I protestanti avrebbero continuato ad essere tollerati, come stabilito dall’editto di Nantes del 1598, ma il lungimirante cardinale li aveva messi nella posizione di non nuocere alla sicurezza dello Stato. Divenuto ufficialmente duca di Richelieu nel 1629, a seguito delle innumerevoli vittorie conseguite in una varietà di fronti simultaneamente, il cardinale avrebbe trascorso gli anni successivi a combattere contro l’accerchiamento della Francia da parte della dinastia Asburgo, divenendo il più grande sostenitore di una Germania mantenuta divisa e frammentata in centinaia di staterelli in guerra tra loro. Quest’ultimo fu il motivo per cui, allo scoppio della guerra dei trent’anni, il cardinale persuase il re a parteciparvi: Parigi doveva impedire la materializzazione di una nuova potenza nel cuore d’Europa – Berlino –, che, stesa su una terra ricca di risorse naturali e forte di una mentalità improntata all’efficienza e di una cultura militare di tutto rispetto, avrebbe potuto egemonizzare l’intero continente. Sullo sfondo dello stato di guerra permanente fuori e dentro la Francia, il cardinale dovette affrontare una serie di minacce alla propria vita. Consapevole di essere inviso alla piccola nobiltà, nonché alla stessa famiglia del re e alle corti di tutto il continente, Richelieu creò un ristretto ed esclusivo sistema di spionaggio personale – non al servizio del re, ma al proprio – che, negli anni, si sarebbe rivelato fondamentale, sventando complotti, intrighi e tentativi di assassinio. Richelieu, diplomatico, stratega e capo di uno dei servizi di spionaggio più efficienti ed estesi di tutta Europa – rispondenti non ad uno Stato, quanto ad un solo uomo –, grazie alla propria rete di spie sarebbe riuscito a sopravvivere a diversi attentati contro la sua vita e, cosa non meno importante, a prevedere la trasformazione di propri seguaci in nemici, come l’insospettabile Henri Coiffier de Ruzé, un marchese, amico di famiglia, che il chierico avrebbe fatto giustiziare a seguito della scoperta di un complotto ordito con gli Asburgo di Spagna. Morì sul finire della guerra dei trent’anni, il 4 dicembre 1642, a soli 57 anni, a causa di una salute cagionevole mai fortificatasi. Morì circondato da invidie e inimicizie, perché dotato di un’intelligenza fuori dal comune, che gli permise di prevedere il futuro come un chiaroveggente, ma non prima di lasciare un ultimo dono al mondo: il cardinale Giulio Mazzarino. Quest’ultimo, iniziato dall’eminenza grigia alle arti della strategia e della diplomazia, avrebbe raccolto il legato del maestro e tentato di portarne avanti la lungimirante agenda per l’Europa basata sul mantenimento in stato di divisione delle terre germaniche, sul rafforzamento dello Stato centrale francese e sul doppio contenimento degli Asburgo di Spagna ed Austria.

Gli insegnamenti di Richelieu. Richelieu ha lasciato una mole di insegnamenti alla posterità, un bagaglio immane di lezioni in materia di statismo, diplomazia e geopolitica da cui sarà possibile attingere per sempre. Perché, oggi (e domani) come ieri, il vissuto dell’eminenza grigia (ci) rammenta che: Il nemico del mio nemico è mio amico – gli svizzeri, gli olandesi e gli svedesi protestanti contro gli Asburgo cattolici.

La religione, come ogni altra cosa nelle relazioni internazionali, è semplice politica – Stati cattolici possono combattersi tra loro, ed un protestante può aiutare l’uno a vincere l’altro. Accadde nell’Italia settentrionale, con il supporto francese alle forze svizzere in chiave antiaustriaca, ma anche negli attuali Paesi Bassi, con l’aiuto agli olandesi in chiave antispagnola, e con il regno di Svezia, alleato contro gli Asburgo. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio – avere un controspionaggio personale e parallelo che veglia sugli organi spionistici ufficiali può risultare salvavita, permettendo di stanare doppiogiochisti e sventare intrighi di palazzo altrimenti impossibili da scoprire. Prevenire è meglio che curare – privando feudatari e piccoli nobili dei loro eserciti, e sguarnendo le loro fortezze, lo stratega con il rosario voleva impedire che proliferassero quinte colonne potenzialmente letali nei territori di Francia. La stessa strategia sarebbe stata impiegata nei confronti degli ugonotti, una minoranza protestante permeabile alle infiltrazioni esterne, specialmente inglesi, e dunque da monitorare e spogliare di alcune concessioni. Possedere lungimiranza – cercando di evitare l’unificazione dei territori tedeschi sotto un’unica bandiera, il cardinale avrebbe voluto impossibilitare l’emergere di una superpotenza nel cuore d’Europa, di gran lunga più pericolosa di Austria, Inghilterra e Spagna, e la storia successiva gli avrebbe dato ragione. L’imprevedibilità è un’arma – il cardinale Richelieu seppe sorprendere i rivali di Francia ricorrendo all’impiego di mercenari, ufficialmente sul libropaga inglese, per operare sabotaggi nelle terre tedesche. Ricostruire dalle fondamenta può essere più conveniente di un restauro – diffidente nei confronti del sistema Francia basato sul duopolio di alta borghesia e nobiltà feudale, l’eminenza grigia persuase il re della necessità di limitare il raggio d’azione politico-militare dei più abbienti, finanche privandoli dei loro eserciti, e creò un nuovo sistema di riscossione dei tributi basato sulle figure degli intendenti in sostituzione del precedente centrato sugli ufficiali locali, notoriamente corrotti e inaffidabili. L’importanza di trasmettere i sogni – trovando nel futuro cardinale Mazzarino il proprio erede, da Richelieu iniziato alle arti dell’inganno, della diplomazia, della guerra e dello statismo, la visione di una grande Francia concepita dal cardinale-stratega sarebbe sopravvissuta e avrebbe prosperato negli anni a venire. I suoi contemporanei lo avrebbero odiato, attentando più volte alla sua vita, ma la storia avrebbe dato ragione ai suoi sforzi: la Francia, alleandosi tatticamente con le forze protestanti durante la guerra dei trent’anni, sarebbe uscita dal conflitto come una grande potenza in ascesa. La dinastia Asburgo, condotta all’astenia finanziaria perché mirabilmente trasformata da accerchiatrice ad accerchiata, nel dopoguerra sarebbe entrata in un lungo periodo di declino. Altrettanto determinante si sarebbe rivelata l’agenda di Richelieu per gli affari interni, con il processo di accentramento e riorganizzazione funzionale alla costruzione della macchina burocratica più avanzata d’Europa e con l’avanguardistica rete spionistica utile per i successori a scovare quinte colonne e agenti stranieri e a completare la foggiatura del futuro Stato. Per i motivi di cui sopra, il cardinale Richelieu è ritenuto da alcuni storici il padre degli stati-nazione europei. L’eredità dell’eminenza grigia, però, è molto più vasta e tangibile. A lui è debitore la scuola del realismo politico – essendo stato un teoreta professante del muscolarismo, della ragion di Stato e dell’amoralità in politica –, a lui si deve la presenza del francese nell’America settentrionale – vide del potenziale nelle missioni dell’esploratore Samuel de Champlain, supportandolo nella fondazione della città di Québec, perciò ivi si trova un fiume che porta il suo nome – ed è sempre a lui, o meglio alla sua idea di una Germania frammentata per il bene dell’Europa, che pensarono Roosevelt e Stalin nel secondo dopoguerra, avallando la bipartizione dello stato tedesco – inizialmente diviso in quattro parti.

GIORDANO TEDOLDI per Libero Quotidiano il 28 giugno 2021. Emilio Fede è un signore di novant' anni, infermo (si sposta su una sedia a rotelle) che giovedì ha perso la moglie, giornalista come lui, Diana de Feo. Lei viveva a Napoli, lui sta a Milano, così ha chiesto l' autorizzazione al Tribunale di sorveglianza della sua città per partecipare alle esequie della consorte: infatti sta scontando, in affidamento ai servizi sociali, una pena a quattro anni e sette mesi per il suo coinvolgimento nel cosiddetto caso Ruby - ricorderete, la presunta nipotina di Mubarak, le olgettine, le serate allegre a Arcore...Cose di questo tenore: non ci permettiamo di soppesarle sul piano giuridico, quello è il lavoro dei magistrati, ma certo non delineano una pericolosità criminale pari a quella di Al Capone. Eppure, singolarmente, forse per meri automatismi burocratici, il nonagenario invalido Emilio Fede viene fatto oggetto di controlli e sorveglianze che lo fanno apparire più letale di un capomafia. La certezza della pena, concetto non di rado puramente teorico nei confronti di personaggi rei di gravi delitti, con Emilio Fede - e ripetiamo, sarà una casualità -, diventa una morsa implacabile. Un anno fa, sempre a Napoli, dove era sceso per cenare con la moglie in occasione del di lei compleanno, gli agenti della polizia l'avevano arrestato al ristorante. Diciamo che ci sono modi meno traumatici di far notare a un uomo molto anziano che non aveva ancora ottenuto l’autorizzazione ad allontanarsi da Milano, pur avendola regolarmente chiesta. Perché di questo si trattava. La vicenda suscitò scalpore, perché anche chi non ha mai amato Fede per le sue posizioni politiche e per il suo giornalismo, non poté fare a meno di notare un certo eccesso nelle modalità di intervento. Poi naturalmente ci sono quelli per cui Fede, se non altro perché deve scontare la sua fedeltà berlusconiana, deve morire a prescindere, come direbbe Totò, e con quelli c' è poco da ragionare. Ma lasciamo perdere gli eterni rancorosi (che farebbero bene a scrutare dentro se stessi) e torniamo a Fede. Giovedì, nella chiesa di San Gennaro ad Antignano, al Vomero, assiste ai funerali della moglie, con la quale era sposato da sessant' anni. La sera cena al ristorante con la figlia Sveva, poi torna al suo albergo, il Santa Lucia di Napoli. Nella notte, intorno alle quattro di mattina, viene svegliato dagli agenti della polizia, che prima lo fanno chiamare in camera dalla portineria, poi bussano alla porta della donna che lo assiste perché, si è detto, è vecchio e non autosufficiente. Quindi, altra irruzione nella stanza di Fede, sempre per il medesimo motivo che lo fece arrestare al ristorante con la moglie un anno prima: controllare che il Tribunale di sorveglianza di Milano abbia autorizzato la trasferta napoletana. Stavolta però, riferisce lo stesso Fede, dopo le verifiche durate circa un'ora, nei documenti suoi e anche della sua assistente era tutto a posto. E Fede è rimasto a Napoli, da dove, scaduto il permesso, tornerà a Milano. Ora, dal punto di vista procedurale, immaginiamo che non si possa eccepire nulla alle forze dell'ordine e ai magistrati responsabili di queste operazioni. Però la giustizia non può essere una macchina cieca e impersonale, fredda e burocratica, perché diventa vessazione. La giustizia la fanno gli uomini, non un algoritmo, e quindi bisognerebbe che fosse umana in tutti i suoi atti. Umanità vuole, ad esempio, che un novantenne malato cui è notoriamente morta la moglie, possa ottenere un trattamento meno aspro se gli si vogliono controllare i documenti. Altrimenti ha ragione lui a esclamare: «Dimenticatevi di me!» e a domandarsi in che paese siamo. Si badi, facciamo questo discorso a favore di Fede, ma lo faremmo pari pari nei casi analoghi di cittadini sconosciuti. Fede, naturalmente, per via della sua popolarità, diventa un caso, ma temiamo che altrettanta eccessiva rigidità colpisca anche altri che, come lui, scontano una pena pur non essendo, con ogni evidenza, il mostro di Firenze. Uomini che avete l'onere di amministrare la giustizia e di applicarla: non dimenticatevi della dignità delle persone.

 Talleyrand-Périgord, lo stregone della diplomazia. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 28 giugno 2021. L’Ottocento è stato il secolo di Napoleone, Metternich e Bismarck, i tre uomini universali – perché furono tutto: condottieri, strateghi, soldati e diplomatici – alla cui fervida immaginativa si deve l’attuale conformazione dell’Europa e, in parte, del mondo. L’Ottocento è stato anche il secolo della grande svolta che ha preludiato all’ingresso del mondo nel turbolento Novecento, essendo stato il tempo delle ultime guerre d’indipendenza dei popoli europei, della decadenza dell’impero ottomano, dell’estinzione dello Stato pontificio e della progressiva diffusione degli ideali rivoluzionari di Marx ed Engels. L’Ottocento, questo secolo che è stato tutto e il contrario di tutto, non sarebbe stato lo stesso se dal grembo fertile della Francia, madre di re cristianissimi e di illuministi votati alla distruzione del Cattolicesimo, non fosse nato Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, lo Stregone della diplomazia sopravvissuto alla ghigliottina degli illuministi, alle manie distruttive di Napoleone e ai cambi di regia della Restaurazione.

Infanzia e formazione. Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord nasce a Parigi il 2 febbraio 1754 da una famiglia altolocata. Il padre, Charles-Daniel, era un cavaliere appartenente all’ordine di San Michele, nonché uno dei luogotenenti del re di Francia e conte di Périgord. Suo zio paterno, invece, era Alexandre-Angélique de Talleyrand-Périgord, un carismatico chierico che, prima di morire, sarebbe divenuto cardinale arcivescovo di Parigi. A causa di una forma di invalidità manifestata dalla nascita – era zoppo, forse perché affetto dalla sindrome di Marfan o perché vittima di un incidente durante i primi mesi di vita –, sarebbe stato ribattezzato “il diavolo zoppo” nell’adultità e maltrattato dai genitori fin dall’infanzia perché ritenuto antieconomico e una ferita all’onorevolezza della dinastia Talleyrand – per muoversi aveva bisogno di una protesi metallica. Privato del diritto di maggiorasco – il diritto del primogenito all’eredità familiare –, che i genitori girarono a suo fratello Archambaud, il piccolo zoppo fu prima “consegnato” alle cure della bisnonna, Marie-Françoise de Rochechouart, e dopo iniziato alla carriera ecclesiastica. L’obiettivo dei genitori, in ambedue i casi, era il medesimo: allontanare il piccolo Talleyrand dalla quotidianità domestica. Nel 1769, a soli quindici anni e dopo averne trascorsi sette presso il collegio d’Harcourt, si iscrive al seminario di Saint-Sulpice. Avrebbe ottenuto i voti minori sei anni più tardi, nel 1775, venendo dirottato alla cattedrale di Reims – all’epoca amministrata dallo zio Alexandre-Angélique. Diventerà sacerdote effettivo soltanto nel 1779, investito del titolo ad una cerimonia di ordinazione alla quale non avrebbe presenziato nessun Talleyrand. Pur essendo stato assegnato all’abbazia di Saint-Remi, inquadrata nella diocesi di Reims, il don zoppo sceglie di stabilirsi nella capitale, Parigi, perché guidato da obiettivi di rivalsa nei confronti di tutti coloro che lo hanno ripudiato e trattato alla stregua di un reietto appestato. Gli eventi successivi gli avrebbero dato ragione: aiutato dallo zio Alexandre-Angélique, unico membro della famiglia che lo ha sempre sostenuto, riesce a farsi rapidamente strada nel clero che conta, avvicinandosi successivamente alla massoneria e alla diplomazia.

La scalata ai vertici del potere. Il 1780 è l’anno della svolta per Talleyrand. Dopo aver mediato (con successo) la controversia tra casa reale e Chiesa cattolica concernente l’autonomia dei beni ecclesiastici – proponendo uno scambio: un contributo libero (ma ingente) alle casse statali da parte del clero in cambio dell’intoccabilità del patrimonio immobiliare –, viene nominato agente generale per il clero dall’Assemblea della Chiesa gallicana. È nel contesto delle controversie tra clero e Stato che Talleyrand scopre la sua vera vocazione: la diplomazia. Crescentemente vicino al reame, aiutato a mezzo di preziosi suggerimenti in materia di economia e finanze, il Diavolo zoppo degli anni Ottanta del Settecento è un carrierista in ascesa che avrebbe scalato gradatamente i vertici della piramide del potere anche senza l’aiuto del potente zio. Eloquente, carismatico e in possesso di un bagaglio di conoscenze e competenze in una grande varietà di settori, dal diritto canonico all’economia, Talleyrand viene nominato vescovo di Autun alla vigilia della Rivoluzione francese. Proveniente da una famiglia di cavalieri, chierico e sostenitore dell’Ancien Régime, il fato di Talleyrand sembrava già scritto: ghigliottina. Sorprendentemente, invece, il Diavolo zoppo sarebbe uscito indenne dagli spasmi anticattolici della Rivoluzione. Come? Facendo proprie le doglianze dei fedeli, in sede di Assemblea degli Stati generali, e reinventandosi voce del Terzo Stato. Colta l’inevitabilità del cambio d’epoca, Talleyrand vuole assicurarsi di salire sul carro giusto – quello dei vincitori –, perciò propone agli Stati generali di adempiere ad ognuna delle richieste dei dimostranti: dal superamento della monarchia all’abolizione dei privilegi dei feudatari e del clero. Convinto di aver fatto la scelta giusta, nonostante l’opinione contraria di una maggioranza soverchiante ed armata, Tallyerand si unisce ai membri dell’Assemblea nazionale costituente. La storia gli avrebbe dato rapidamente ragione: poco tempo dopo, dinanzi agli occhi increduli di reame e clero, la Francia verrà sconvolta dall’inizio della Rivoluzione.

Talleyrand, il camaleonte che sopravvisse a tutte le epoche. Noto ai membri dell’Assemblea nazionale costituente per le sue qualità diplomatiche, Talleyrand diventa nottetempo il formulatore dell’agenda degli aspiranti rivoluzionari. È lui che propone di confiscare i beni immobili alla ricca Chiesa di Francia – prendendo parte al saccheggio a scopo di autoarricchimento. È lui che propone di privare il cattolicesimo del titolo di religione di Stato, nonché di estendere la cittadinanza ad ebrei e avignonesi. È lui che scrive la maggior parte degli articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Ed è sempre lui che mette la firma sulla Costituzione civile del clero, divenendo uno dei primi a prestarvi giuramento e a subirne gli effetti – la perdita della guida della diocesi di Autun e la scomunica da parte di Pio VI. Non avrebbe agito in tal modo perché realmente convinto della e dalla Rivoluzione, ma perché obbligato dalla necessità, perché spinto da ragioni di sopravvivenza. Nel dietro le quinte della partecipazione ai lavori dell’Assemblea, invero, avrebbe continuato a supportare il re nella speranza-aspettativa di ribaltare le sorti degli eventi. Un supporto che sarebbe durato fino a quando, vistosi rifiutare un piano per decapitare l’intera Assemblea e porre fine ai moti, comprese che il re aveva inconsciamente accettato il proprio destino e che i Rivoluzionari sarebbero stati i soli e totali vincitori del conflitto. Nel 1792, mentre l’ordine rivoluzionario va ottenendo crescente istituzionalizzazione e riconoscimento tra le masse, Talleyrand viene inviato in Inghilterra con l’obiettivo di rassicurarne la famiglia reale: la Rivoluzione francese non rappresenta una minaccia per il resto d’Europa. Al di là di ogni pronostico, Talleyrand rincasa con la promessa di neutralità da parte britannica, ma il momento trionfale dura poco: qualcuno scopre e invia alla stampa le lettere segrete fra il diplomatico e il re, oramai prossimo alla ghigliottina, determinando la formulazione di un mandato di cattura nei suoi confronti. Talleyrand riesce ad evitare l’arresto, e la probabile condanna a morte, perché al momento dello scandalo si trova in Inghilterra. Qui aveva fatto ritorno poco dopo aver siglato il patto di neutralità, perché preoccupato dal regime del Terrore instauratosi in Francia. Un’intuizione che gli avrebbe salvato la vita. Da Londra si imbarca alla volta di Filadelfia, nell’attesa che si calmino le acque – o meglio, che i suoi gregari in loco le calmassero –, e qui avrebbe avuto l’onore di conoscere uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, Alexander Hamilton. Nel 1796, morti sia il re sia Robespierre, Talleyrand può rientrare in Europa. Accolto freddamente e con diffidenza dal Direttorio, memore dei suoi trascorsi con il defunto sovrano, riesce a riottenerne la fiducia completa sventando un colpo di Stato orchestrato da nostalgici realisti in combutta con alcuni membri dello stesso Direttorio, tra i quali l’arcinemico Lazare Carnot. Eliminata ogni forma di concorrenza, Talleyrand può ricominciare l’ascesa ai vertici della Francia: nel 1797, invero, gli viene affidata la guida del ministero degli Esteri. La prima (ostica) missione che deve affrontare il diavolo zoppo riguarda gli Stati Uniti, una nazione che ebbe modo di conoscere durante la breve fuga dalla Francia. Il governo francese vorrebbe siglare un trattato commerciale con questa potenza in ascesa ricalcante quello angloamericano, ma gli sforzi negoziali non avevano prodotto risultati. Talleyrand, allora, ha un’idea: massimizzare la tensione per poi ridurla mediante trattato, ovvero spirale bellica controllata. Richieste di tangenti e sequestri di mercantili da parte francese avrebbero dato vita alla cosiddetta “quasi-guerra” con gli Stati Uniti, che le rispettive diplomazie avrebbero risolto nel 1800 con il celebre trattato di Mortefontaine. È nel contesto della quasi-guerra che Talleyrand ha un’intuizione simile a quella del pre-Rivoluzione: il Direttorio è agli sgoccioli. La prognosi del diplomatico chiaroveggente è infausta: geopoliticamente miope, strategicamente morta, nonché crescentemente scollata dalla realtà, l’entità rivoluzionaria viene ritenuta in stato di morte cerebrale. E come profittare del cambio di paradigma, considerato inevitabile, Talleyrand lo capisce dopo aver fatto la conoscenza del giovane Napoleone, all’indomani della campagna d’Italia. Le ambizioni golpiste di Talleyrand, in qualche modo comprese dal Direttorio, gli valgono l’allontanamento dal ministero degli Esteri nel luglio 1799. Il Direttorio, ad ogni modo, più che impedire la propria fine, l’avrebbe soltanto ritardata. Il 9 novembre dello stesso anno, invero, Napoleone consuma un colpo di Stato e pone fine all’esperienza repubblicana. Colpo di Stato che sarebbe stato impossibile senza il supporto dell’astuto Talleyrand, il cui uomo nel governo, il potente ministro della Polizia Joseph Fouché, ordinò alle autorità di sicurezza pubblica di non intervenire nella faccenda, permettendo a Napoleone, de facto, di assumere il potere senza colpo ferire.

L'epoca napoleonica. Napoleone non avrebbe mai dimenticato l’aiuto prezioso ricevuto da Talleyrand, colui che ne facilitò e rese possibile l’ascesa al trono. Nell’immediato post-Direttorio, Napoleone lo ristabilisce a capo del ministero degli Esteri e lo trasforma nella propria ombra, facendolo consigliere. Le manie di grandezza dell’imperatore, però, che lo spingono ad interferire pesantemente in quasi tutti i processi negoziali, impediscono a Talleyrand di esercitare il ruolo ministeriale come vorrebbe, potrebbe e dovrebbe. Compreso il carattere totalizzante del nuovo sovrano, il Diavolo zoppo opterà per una massimizzazione del profitto orientata al lunghissimo termine, ovvero profitterà degli innumerevoli viaggi all’estero per tessere amicizie internazionali che si riveleranno fondamentali al termine dell’epoca napoleonica. Napoleone è abile e carismatico, ma la sua scontentezza quasi-cronica lo acceca (geo)politicamente, perciò il diplomatico-indovino ha una nuova intuizione: l’epopea imperiale è destinata a naufragare, soccombendo al peso delle pressioni economiche e delle perdite umane provocato dalle campagne militari infinite. Neanche la vittoria di Austerlitz convincerà il pessimista Talleyrand, che, contrariamente all’imperatore, non crede nella possibilità di egemonizzare singolarmente e direttamente l’Europa, credendo, invece, nella possibilità di controllarla in maniera morbida, ossia informale, attraverso schemi di alleanze e meccanismi di dialogo e cooperazione basati sull’equilibrio.

Guidato da questa visione di lungo termine, all’interno della quale si possono intravedere i semi del futuro Concerto, e consapevole che i contemporanei lo avrebbero ringraziato a tempo debito e in sede opportuna, Talleyrand apporterà alcune modifiche al celebre trattato di Presburgo, rendendo le condizioni di pace meno dure per l’Austria, e trascorrerà gli anni successivi a persuadere l’imperatore della necessità di non infliggere misure eccessivamente punitive ai vinti – perché sorgenti di pericolosi risentimenti –, sullo sfondo di rumoreggiati carteggi con i colleghi moscoviti, prussiani e viennesi. Lo scoppio dei moti antifrancesi in Spagna è rivelatorio per Talleyrand, nel frattempo espulso dal ministero degli Esteri per via dei dissapori con l’imperatore. L’episodio, considerato per ciò che è realmente – un presagio della prossima fine –, incoraggia il diplomatico a fare la mossa più azzardata: scrivere una lettera a Klemens von Metternich, titolare degli esteri austriaco, suggerendogli di attaccare la Francia. La missiva viene scoperta dallo spionaggio napoleonico, ma a Talleyrand, sorprendentemente, al posto del patibolo, verrà proposto di tornare agli Esteri – offerta che rifiuterà, accettando, però, di riassumere il ruolo di consigliere. Il ritrovato idillio tra Napoleone e Talleyrand, però, avrà vita breve. Poco dopo aver sposato Maria Luisa d’Asburgo-Lorena – un matrimonio reso possibile dalla mediazione di Talleyrand con Metternich –, Napoleone deciderà di dichiarare guerra alla Russia, nonostante la contrarietà del proprio consigliere. Nel 1814, dopo aver rifiutato per l’ennesima volta di assumere la guida degli Esteri, Talleyrand avvia un processo di pace parallelo con lo zar Alessandro e con Metternich, illuminandoli su come prendere Parigi nella maniera meno cruenta e più veloce. Il sovrano russo, eloquentemente, dopo aver catturato la capitale francese, risiederà presso gli alloggi di Talleyrand.

La fine. Non dimentichi del supporto ricevuto dallo scaltro diplomatico, i sovrani europei acconsentono alla nascita di un governo Talleyrand, funzionale, necessario e propedeutico ad una transizione pacifica verso il post-napoleonismo. I lavori dell’esecutivo condurranno all’ascesa al trono di Luigi XVIII, che, a sua volta, affiderà a Talleyrand la guida degli Esteri e la gestione dell’intero processo di pace con le potenze vincitrici. Il Diavolo zoppo, facendo leva sul rapporto amichevole instaurato con gli omologhi di tutto il continente negli anni napoleonici, ottiene un trattamento più che equo: nessuno smembramento della Francia, ma una semplice e celere restituzione dei territori conquistati dal 1792 in avanti. Lo stesso anno, poi, parteciperà ai lavori del Congresso di Vienna in qualità di protagonista, contribuendo in maniera determinante a ridisegnare i confini dell’Europa nel nome dell’equilibrio e del concerto. Napoleone sarebbe morto solo ed esiliato, pochi anni più tardi, dopo un ultimo e disperato tentativo di riconquista del potere. Talleyrand, invece, sarebbe deceduto nel 1835, quasi ottantenne, non prima di aver coronato il suo ultimo sogno: riottenere la reinvestura episcopale, morendo in pace e in comunione con la Chiesa cattolica.

Luigi XIV il re rivoluzionario che ritardò la rivoluzione. Philip Mansel racconta l'ascesa di un monarca ragazzino che stabilizzò la Francia ma ad un prezzo altissimo. Matteo Sacchi, Mercoledì 17/02/2021 su Il Giornale. In che anno è iniziata la Rivoluzione francese? Nel 1789, lo sappiamo tutti. Avrebbe potuto avvenire con più di un secolo d'anticipo ed essere, nel bene o nel male, molto diversa. Probabilmente più simile a quella che costò la testa a re Carlo I d'Inghilterra, nel 1649. Per rendersene conto niente di meglio della corposa biografia di Luigi XIV appena pubblicata per i tipi di Mondadori e a firma di Philip Mansel: Il re del mondo. La vita di Luigi XIV (pagg. 824, euro 35). Mansel ricostruisce con acribia la vita (1638-1715) e il lungo regno del monarca che più ha caratterizzato, dalla guerra alla moda passando per la cultura, la seconda metà del Secolo di ferro e i primi anni del Secolo dei lumi. E proprio nelle pagine che tratteggiano il primo periodo del regno del giovane Luigi si può vedere come sarebbero facilmente bastati una reggente (Anna d'Austria) e un primo ministro, il cardinale Giulio Mazzarino, meno accorti perché la Francia andasse incontro a profondi rivolgimenti politici ben prima della nascita di Robespierre. Il Paese, stremato dal lungo confronto con la Spagna degli Asburgo, alla morte di Luigi XIII nel 1643 era una vera e propria polveriera sociale. Le grandi famiglie nobili, soprattutto i principi del sangue, erano ancora dotate di enorme potere e di eserciti privati, il parlamento di Parigi, ma anche le altre corti di giustizia sparse per il Paese, erano composte da una nobiltà di toga recalcitrante verso il potere centrale ed erano pronte ad impugnare ogni legge della monarchia che apparisse lesiva di libertà e «costumi della terra». Non solo, esistevano ancora tensioni tra ugonotti e cattolici, il sistema di tassazione era percepito come assolutamente vessatorio... Insomma, erano in corso tutti quei movimenti centrifughi che avrebbero provocato quei movimenti di rivolta noti come le due «Fronde». E qui si inserisce il miracolo Luigi XIV. Salito al trono a 5 anni, a lungo fu solo il, fragile, simbolo di una monarchia ancora rivestita di un potere mistico e magico ma sotto assalto sotto molti altri aspetti. A lungo la corte del giovane re fu costretta a vagare per le città francesi, essendo Parigi ingovernabile e il re a rischio di cattura da parte del potente di turno. I quattro anni che vanno dal 5 gennaio 1649, quando la corte dovette fuggire da Parigi, e il 3 febbraio 1653, quando riuscì a rientrarvi, sono tra i più confusi della storia di Francia. Ma intanto il giovane re iniziava a mostrare doti non comuni, a undici anni partecipò per la prima volta ad un consiglio di Stato. Nel 1650 contribuì con un pericoloso stratagemma a favorire l'arresto di due dei suoi principali nemici, i principi di Condé e di Conti. Li intrattenne fingendosi un ragazzino docile e timoroso, sino a condurli nel salone dove li attendevano guardie rege ben armate... Nel frattempo studiava sotto l'attenta sorveglianza di Mazzarino: latino, italiano, geografia e molta matematica. Gioco preferito di Luigi quando ne aveva tempo? La guerra. Addestrò sin dalla giovinezza una piccola truppa di nobili chiamati gli enfants d'honneur. Alcuni divennero ufficiali fidati dei suoi veri eserciti. Appena compiuti 13 anni, equivalenti alla sua maggior età, venne ripetuta la cerimonia d'incoronazione. Iniziava un maggiore percorso d'autonomia che però Luigi XIV si guardò bene dal forzare. Si tenne stretto Mazzarino che sarà stato pure molto lesto a convogliare verso le sue finanze private molti dei redditi della corona, ma sapeva come muoversi in ogni contesto diplomatico militare. Solo dopo il 1661, e la morte del cardinale, Luigi prese in mano completamente il regno. Ma l'esperienza costruita sino a quel momento lo rese capace di rintuzzare qualsiasi tentativo di destabilizzare il suo potere. Stroncò il potente sovrintendente alle finanze Nicolas Fouquet (1615-1680) noto come «lo scoiattolo». Aveva iniziato a distrarre grandi cifre dall'erario, a crearsi delle forze navali personali e a fortificare un'isola con 400 cannoni... Finì in carcere per il resto della vita ed iniziò l'ascesa di Colbert. Colbert compilava personalmente dei librini con cifre dorate, in cui Sua maestà poteva vedere l'andamento dei conti. Nonostante il noto sfarzo della costruenda reggia di Versailles in Luigi fu sempre presente l'idea dell'importanza del pareggio di bilancio e della creazione di manifatture francesi, capaci di far competere il Paese con le ben più avanzate, commercialmente parlando, Inghilterra e Olanda. Giusto per fare un esempio, tra i molti ricordati da Mansel, i francesi iniziarono una vera e propria guerra contro i veneziani per la fabbricazione dei pizzi. E ci scapparono pure un paio di morti, due maestri traditori trasferitisi in Francia e liquidati dagli agenti della Serenissima. Ovviamente questi buoni propositi economici portarono la Francia prima alla guerra dei dazi con i vicini e poi anche verso lo scontro aperto. C'era in Luigi un desiderio di egemonia che era sia ambizione personale sia la volontà di non veder mai più la Francia e la monarchia sull'orlo di sfaldarsi, sotto il peso delle pressioni esterne ed interne. Così Luigi si rivolse a quella che veniva chiamata Ultima ratio regum: ovvero le armi. Del resto proprio quel motto era inciso sui 13mila cannoni del suo esercito. Luigi sapeva bene, come del resto scriveva il suo segretario: «Dio è dalla parte dei grandi squadroni e dei grandi battaglioni contro quelli piccoli, e lo stesso vale per gli eserciti». Ma in questo caso Luigi dimenticò anche che Dio non è quasi mai dalla parte di chi ha troppi nemici. Dal 1688 in poi fu quasi solo e soltanto guerra. In un certo senso quelle stesse guerre che un secolo dopo travolsero il nuovo sogno della Francia forte incarnato da Napoleone. In questo caso Luigi riuscì a salvarsi sulla soglia del baratro. Dal 1697 si rassegnò a cedere terreno ai nemici. Morì nel 1715 di cancrena al centro della sua corte magnifica essendo ancora il sovrano più potente d'Europa. E di certo nessuno in Francia avrebbe mai osato, a quel punto, ribellarsi alla monarchia. Ma era un sovrano isolato, nonostante avesse garantito ai Borbone il dominio della Spagna. E un sovrano che per vincere e unire il Paese aveva prosciugato tutte le risorse, anche morali, disponibili alla monarchia. Versailles era un enorme monumento al potere dei re, ma un monumento funebre. Il più grande dei sovrani non può cambiare il destino di una Nazione o di una monarchia. Al massimo ritardarlo di un secolo.

Quando Cesare Lombroso andava a caccia di "criminaloidi" nella Rivoluzione Francese. Daniele Abbiati il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. L'antropologo indagava sul punto di equilibrio tra politica e violenza di massa. In qualità di antropologo e criminologo, Cesare Lombroso non poté non calcare il terreno della politica. Dunque, non poté non affrontare anche il tema della rivoluzione. Lo fece prendendo di petto la regina delle rivoluzioni moderne, quella francese, in una conferenza del 1886 alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. Il titolo: La delinquenza nella rivoluzione francese (Aragno, pagg. 71, euro 12). Lecito aspettarsi, da un antropologo e criminologo, la sottolineatura dell'esplosione di violenza pubblica e privata. Ma abbiamo anche altro. Leggiamo: «Il delitto politico ha la sua base nel ribrezzo naturale nell'uomo per ogni novazione, sia essa politica, religiosa o artistica, talmenteché, ogni progresso diventa un fatto antisociale, quindi un delitto, quando urta troppo profondamente gli istinti conservatori delle masse».

Ecco il punto nodale, «gli istinti conservatori delle masse». «Conservatori», non «rivoluzionari». Dunque per Lombroso, se è vero che i rivoluzionari compiono delitti politici, è anche vero che i conservatori, quando esagerano nell'opporsi alla «novazione», non sono esenti da colpe. La parola chiave è dunque «misoneismo», ovvero l'odio per il nuovo. Parola che non sorprende, in bocca o nella penna di Lombroso, il quale politicamente parlando era molto meno tranchant che da scienziato, attestandosi sulle posizioni del socialismo conservatore... Infatti afferma: «Abbiamo oggidì, si dice, la libertà, la giustizia per tutti; ma in fondo i privilegi non fecero che cambiare da una all'altra casta; non sono più i sacerdoti ed i nobili, ma pochi avvocati politicanti che predominano ed al cui vantaggio lavorano tutti - senza o quasi senza compenso - gli onesti ed i disonesti». Prima di sciorinare alla sua maniera la galleria di «uomini delinquenti» in azione nel 1789 e dintorni, i vari Jourdan, Carrier, Marat, Legendel, Roussignol..., e di fare un rapido excursus storico-geografico fra differenti scenari di sollevazioni rivoluzionarie nel mondo, Lombroso distingue «tra le rivoluzioni propriamente dette che sono effetto lento, preparato, necessario, al più reso di un poco più rapido da qualche genio nevrotico, o da qualche accidente storico, - e le rivolte o sedizioni, le quali sarebbero un'incubazione precipitosa, artificiale - a temperatura esagerata - di embrioni tratti perciò a certa morte». Il darwinismo dell'autore emerge da questo passaggio: «La rivoluzione è l'espressione storica della evoluzione: dato un assetto di popolo, di religione, di sistema scientifico, che non sia più corrispondente alle nuove condizioni, ai nuovi resultati politici, ecc., essa li cambia col minimo degli attriti e col massimo del successo, per cui le sommosse e le sedizioni che provoca, se pure ne sono una parte necessaria, sono appena avvertite e svampano appena comparse: è la rottura del guscio del pulcino maturo». Insomma, Parigi valeva bene un pulcino destinato a diventare galletto, ma la follia dei rivoluzionari, anzi dei sediziosi, lo ha fatto nascere morto prima del tempo. Perché «le riforme esagerate dell'89, improvvisate colle stragi e in mezzo alle stragi, dalla prepotenza di pochi, provocando una naturale reazione, per la stessa loro eccessività, impedirono quella evoluzione lenta e feconda che si andava manifestando in tutte le classi». E se «la Repubblica non ebbe mai un capo se non in colui che la uccise: Napoleone», responsabile della tara che l'ha minata è un «delinquente e pazzo di genio, il Rousseau». In mano di quel «lipemaniaco» l'idea, in sé ottima, della «sovranità popolare» diventa un mito, una favola ingannatrice, uno specchietto per le allodole. O per i pecoroni: «Così certo, le pecore, cadute nel baratro dietro al pastore, fino al momento in cui sentono il cranio frangersi sul duro fondo, opinano di andare per la via diritta».

Terrore e rivoluzione. Chi era Robespierre, il tribuno che da carnefice diventò vittima. Alessandra Necci su Il Riformista il 23 Giugno 2021. «Ha annientato tutti, quest’uomo di così modesta apparenza… che per tanto tempo si era tenuto nascosto dietro le figure gigantesche dei suoi predecessori… Da quando Mirabeau, Marat, Danton, Desmoulins, Vergniaud, Condorcet sono spariti, da quando sono spariti cioè il tribuno, il ribelle, il duce, l’oratore e il pensatore della giovane Repubblica, egli concentra tutto nella sua persona, è il pontifex maximus, il dittatore, il trionfatore». Queste parole, scritte da Stefan Zweig nella biografia su Joseph Fouché, si riferiscono a Maximilien de Robespierre. Freddo, livoroso, amante del potere, indifferente ai sentimenti, ossessionato dal proprio mito e dalla propria missione, l’Incorruttibile ha stretto il paese nel Terrore, elevando la Virtù a sistema politico. Sulle prime ha favorito la “scristianizzazione” della Francia, poi si è inventato una religione di Stato, “il culto dell’Essere Supremo”, insieme alla Dea Ragione. Affiancato da Louis-Antoine Saint-Just (“l’arcangelo della morte”) e Georges Couthon, l’antico giacobino che si sente la personificazione della Repubblica e della Libertà ha mandato alla ghigliottina – “il rasoio nazionale” – i suoi nemici, bollati come nemici della Nazione. Grazie al Comitato di Salute Pubblica del 6 aprile 1793, all’espulsione dei Girondini dalla Convenzione, alla “legge dei sospetti” ha riunito nelle sue mani le redini del potere. Sono considerati “indiziati”, e dunque passabili di arresto, praticamente tutti. Famosa è la formula per identificare i possibili sospetti: «Coloro che non hanno fatto nulla contro la libertà e non hanno neppure fatto nulla per essa». Categoria fluida, incerta, proteiforme, rete a strascico nella quale può rimanere impigliato chiunque. Per “sputare la testa nel cesto”, come si usa dire con aulico linguaggio, basta una delazione, una lettera anonima, una parola di troppo, un’invidia, un posto da liberare, un conto in sospeso…Non è Robespierre uno degli iniziatori della Rivoluzione, ma è riuscito a cavalcarla, contribuendo a eliminare degli uomini della prima fase. Agli esordi, del resto, era impossibile comprendere dove avrebbe portato quella trasformazione, quello smottamento del sistema a cui avevano contribuito gli ideali illuministi, i philosophes, l’opinione pubblica, i giornali, la Rivoluzione americana, la crisi economica, i club (i partiti politici del tempo, fra cui Girondini, Giacobini, Foglianti, Cordiglieri), lo screditamento della monarchia e dell’Ancien Régime. Dopo secoli di immobilismo, il tempo ha ripreso a scorrere a velocità vertiginosa. Nel maggio 1789 c’è stata l’apertura degli Stati generali; il 20 giugno la riunione della Pallacorda; il 14 luglio la presa della Bastiglia. Luigi XVI, pieno di buone intenzioni ma privo di tempra, non è in grado di «domare il mostro che ha imprudentemente liberato dalle catene». Il 4 agosto l’Assemblea ha approvato l’abolizione dei privilegi, il 26 ha redatto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (donne e schiavi non sono contemplati). La situazione ha preso quindi a degenerare, gli ideali di Liberté, Égalité, Fraternité a mescolarsi con derive feroci. Lungi dal rientrare negli argini, il fiume è destinato a esondare con maggior violenza. Fra tumulti sobillati, sans-culottes urlanti, pescivendole con i coltellacci, teste sulle picche, i sovrani sono stati obbligati a tornare a Parigi. Nel giugno 1791 è fallita la fuga di Varennes; poi la famiglia reale è stata rinchiusa nel Tempio. Il 16 gennaio 1793, la Convenzione – assai più radicale dell’Assemblea – ha deciso la condanna del re. Per costringere il Parlamento, l’Incorruttibile non ha lesinato: «La monarchia è un crimine di lesa maestà… Chiedo che la Convenzione dichiari Luigi colpevole di tradimento verso la Nazione francese, di crimini contro l’umanità». A dargli man forte ci si è messo Jean-Paul Marat, il sedicente ami du peuple, che ha imposto il voto palese e per appello nominale. La Convenzione ha quindi inviato i suoi “proconsoli” a stroncare le tentazioni realiste e “i nemici della rivoluzione”. Mentre vengono adottate misure eccezionali e la Francia è in guerra con quasi tutta Europa, mentre massacri e esecuzioni sono all’ordine del giorno, si consuma lo scontro interno. Usi e costumi riflettono il clima. A Parigi si è scatenata una voluttà, un gusto del sangue: le signore inalberano pettinature à la victime e nastri rossi al collo, i bambini giocano con macchine per decapitare, in giro si intonano inni a “Madame la Guillotine”. Robespierre e i suoi premono per la revolution intégrale – la dittatura – lanciandosi alla gola dei loro avversari, siano essi moderati o “arrabbiati”. Il regolamento di conti è allo zenith; i notabili si affrontano simili alle belve nell’arena e, come si dice, “la Rivoluzione divora i suoi figli”. Honoré de Mirabeau è morto, Georges Danton finisce sulla ghigliottina per volere dell’Incorruttibile – «Mostrerai la mia testa al popolo, non capita spesso di vederne del genere», ingiunge al carnefice – Nicolas Condorcet si suicida come molti altri, Marat è stato ucciso da Charlotte Corday, Sono scomparsi Camille Desmoulins (e anche la moglie, l’innocente Lucille, di cui Robespierre era testimone di nozze) Jacques-René Hèbert, Fabre d’Eglantine e altri. Fra i condannati c’è Philippe Ėgalité, il duca d’Orléans che aveva votato la morte del cugino Luigi XVI. Sembrerebbe che il vincitore sia l’Incorruttibile, “consacrato re dalla morte di Danton” e di cui Mirabeau aveva detto: «Quest’uomo andrà lontano, perché crede in tutto ciò che dice». Invece Robespierre – che pure troverà diversi sostenitori fra gli storici, i letterati e i politici dell’avvenire – ha i giorni contati. Ha governato con il Terrore, verrà eliminato a causa di esso. Nessuno si sente più sicuro, con lui al vertice. E così Paul Barras, Joseph Fouché, Joseph Sieyés, Jean-Lambert Tallien e altri ordiscono la congiura che porterà a Termidoro. Il discorso vago ma pieno di paurose allusioni, che Robespierre tiene alla Convenzione il 26 luglio 1794, è la goccia che fa traboccare il vaso. Il giorno successivo la sua orazione è interrotta, lui non riesce a parlare, qualcuno grida: «È il sangue di Danton che ti soffoca!». Nel pomeriggio tutto è finito, il “pontefice massimo” viene arrestato insieme ai suoi. «La Repubblica è perduta… i briganti trionfano», commenta allora. Il giorno dopo, orrendamente sfigurato, viene condotto alla ghigliottina. E quello stesso popolo che tanto lo aveva acclamato, grida di gioia nel vedere la sua testa caduta. Fra “Osanna” e “Crucifige”, la distanza è minore di quello che si pensi. Ed è sempre pericoloso brandire l’arma della virtù, unita allo strumento politico della giustizia da usare contro i nemici di ieri e domani per conquistare il potere, inteso come dominio assoluto. Allora come oggi, il risultato è un “cannibalismo” in cui le diverse fazioni si dilaniano nel disprezzo di ogni regola liberale. Alessandra Necci

DA leggo.it il 24 giugno 2021. Avevano travolto con un monopattino elettrico Miriam Segato e si erano date alla fuga. A Parigi, due giovani infermiere di 25 anni sono state fermate, in mattinata dalla polizia parigina. Secondo la prima ricostruzione le due ragazze, a bordo di un monopattino elettrico, erano ubriache e, dopo aver investito Miriam, sono scappate in preda al panico. La trentunenne toscana che stava passeggiando in compagnia di un'amica attorno alle una di notte, nella zona pedonale lungo la senna, è stata travolta dalle due infermiere e cadendo ha battuto la testa entrando in coma. Le due giovani donne sono state fermate dalla polizia. Secondo quanto ricostruito dalle dichiarazioni di alcuni testimoni, c'è anche chi avrebbe approfittato del momento di panico per rubare alcuni effetti personali a Miriam. Le due ragazze erano ricercate da quattro giorni e, solo oggi, le autorità parigine sono riuscite a fermare le due infermiere. La procura ha indicato che il provvedimento di fermo si riferisce ai reati di omicidio involontario alla guida di veicolo motorizzato aggravato dal reato di fuga. L'incidente era avvenuto attorno alle una del mattino, in via Georges Pompidou, dove la ragazza passeggiava in compagnia di un'amica. Miriam è stata sbalzata al suolo e ha sbattuto la testa con violenza. La corsa verso l'ospedale Pitié-Salpêtrière, dove è arrivata incosciente, non è servita. Miriam è morta due giorni più tardi.  Grazie a un appello le forze dell'ordine sono riuscite a rintracciare le due colpevoli, mentre veniva aperta un'inchiesta per omicidio involontario.

Parigi, una ragazza toscana investita e uccisa da un monopattino pirata. Derubata quando era a terra incosciente. Marco Preve su La Repubblica il 19 giugno 2021. Miriam Segato, 31 anni di Capalbio lavorava in un ristorante. Fuggite le due ragazze sulla "trottinette" che l'ha travolta. Una 31 enne toscana, Miriam Segato, originaria di Capalbio è morta a Parigi dopo essere stata investita da due ragazze su un monopattino su uno dei viali del lungo Senna, quai de la Mégisserie, all’una di notte. Come racconta il quotidiano Le Parisien Miriam e un’amica sono state investite da due ragazze sulla “trottinette” come vengono chiamati in francese i monopattini, che provenivano da place de la Concorde.

Vittorio Sabadin per "la Stampa" il 13 giugno 2021. Si credeva che il commerciante d' avorio Kurtz, il protagonista del più cupo racconto di Joseph Conrad, Cuore di tenebra, fosse un personaggio inventato dal grande maestro della letteratura inglese per indagare negli abissi della mente umana. Ma Kurtz è esistito davvero: si chiamava Paul Voulet, era francese, era un capitano dell'esercito, e si era macchiato di delitti così orrendi nell' Africa coloniale di fine '800 da avere lasciato dietro di sé, lungo le rive del Congo, un ricordo indelebile. Conrad aveva risalito il fiume nel 1880 sull' imbarcazione a vapore «Roi des Belges» e molti dei personaggi descritti in Cuore di tenebra li aveva davvero incontrati in quel viaggio. Gli studiosi si domandano da tempo se anche Kurtz sia stato ispirato da una persona realmente esistita. Il principale indiziato era un agente della Compagnia per l'avorio di nome Klein, morto sul battello proprio come il protagonista del racconto. Ma ora un documentario della Bbc sostiene un'altra tesi, del tutto plausibile. In Congo, ha scoperto il regista Rob Lemkin, Conrad era stato ospite di Cora Stewart, moglie separata del capitano Donald Stewart, rappresentante britannico nell' Africa occidentale. In un rapporto segreto inviato al primo ministro Lord Salisbury l'ufficiale aveva descritto con sgomento la condotta del suo rivale francese, il capitano Voulet, accusandolo di catturare donne e bambini e di venderli come schiavi per pagare i suoi mercenari. Stewart, anche se il rapporto per Salisbury era top secret, ne aveva di certo parlato con la moglie e Cora potrebbe certamente averlo riferito a Conrad, forse invitandolo a scriverne un romanzo. Ma che cosa hanno in comune Kurtz e il capitano Voulet, che cosa unisce il loro cuori di tenebra? Nel racconto di Conrad, un marinaio di nome Charles Marlow racconta ai compagni l'incontro con il commerciante d' avorio nella insidiosa e malsana foresta pluviale del Congo, popolata da personaggi che non possiedono più tracce di umanità. Kurtz, il losco trafficante di maggior successo, ha creato un piccolo regno personale che gestisce con violenza inaudita usando come schiavi gli indigeni, che lo temono e lo credono un dio. La sua capanna è circondata da teste mozzate, un ammonimento per chi non lo ritenga tale. Voulet era di stanza in Africa alla fine dell'800, come l'immaginario Kurtz. Era un giovane e promettente ufficiale francese, insignito della medaglia di soldato dell'anno a Parigi nel 1889. Era stato poi incaricato di mettere in sicurezza il lago Ciad, unificare i territori francesi dell'Africa Occidentale e proteggere la zona a Est del Niger. Nessuno gli aveva posto limitazioni su come eseguire l'incarico. Ubriaco di potere, il capitano Voulet si era trasformato presto in un criminale di guerra, responsabile con i suoi mercenari del massacro di migliaia di indigeni e dello stupro di centinaia di donne, poi deportate con i loro bambini per essere vendute come schiave. I suoi pretoriani tagliavano le mani delle vittime come prova dell'uccisione e venivano pagati per ogni mano. Voulet teneva un registro dei massacri e dell'ammontare che aveva speso. Le teste venivano mozzate e collezionate, proprio come avrebbe poi fatto Kurtz nel racconto di Conrad. L' ufficiale francese si convinse presto di essere un nuovo Napoleone, il cui destino era quello di creare un impero nero in Africa. Consapevoli che la sua follia li avrebbe presto portati alla rovina, i mercenari lo uccisero e lo seppellirono in un villaggio del Sahel, dove la sua tomba si troverebbe ancora. La storia del capitano Voulet fu raccontata per la prima volta nel 1899, con molte censure, su Blackwood' s, lo stesso periodico scozzese che aveva appena pubblicato a puntate Cuore di tenebra. Il documentario della Bbc African Apocalypse prende il nome dal riadattamento più famoso del racconto di Conrad, il film del 1979 Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, che si avvalse di una delle più intense interpretazioni di Marlon Brando. Anche il Kurtz di Coppola era un militare, anche lui alla fine ucciso da un altro soldato, il capitano Willard. Il regista americano ebbe la grande intuizione di trasformare alla fine del film l'uccisore di Kurtz nel nuovo Kurtz, completando la visione dell'eterna natura del male che ha ispirato tanti lavori di Conrad e, di riflesso, molti dei più grandi scrittori in lingua inglese del primo Novecento. Il racconto di Conrad è di fatto un ritratto della storia brutale dello Stato libero del Congo, all' epoca dominio privato del re del Belgio Leopoldo II, e degli aspetti più torbidi e crudeli del colonialismo europeo. Si è anche ipotizzato che Kurtz sia stato ispirato da Léon Rom, l'amministratore di re Leopoldo, o da Edmund Musgrave Barttelot, feroce capo di una spedizione di soccorso, o da Arthur Hodister, un commerciante privo di scrupoli. Forse il cuore di tenebra era in tutti loro, ma Conrad lo ha visto nascosto dove sta dai tempi degli Adamiti, in ognuno di noi.

Afferrato e schiaffeggiato: Macron aggredito dai Gilet gialli. Alessandra Benignetti l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il presidente francese, Emmanuel Macron, schiaffeggiato davanti ad un istituto alberghiero della Drome, nel sud-est della Francia. La polizia ha fermato due uomini. L'aggressore ha dichiarato di essere "anarchico", ma la sinistra radicale punta il dito contro la "destra monarchica". Prima gli ha teso la mano, poi lo ha afferrato per un braccio e lo ha schiaffeggiato. Protagonista dell’episodio un uomo con una maglietta verde militare che ha dato una sberla in pieno volto al presidente francese Emmanuel Macron. Il capo dell’Eliseo si stava avvicinando, come di consueto, ad alcune persone che lo attendevano per salutarlo all’uscita dalla scuola alberghiera di Tain-l'Hermitage, nel dipartimento della Drome, nel Sud Est del Paese, una delle tappe del "tour de France dei territori" che lo vede impegnato in queste settimane. Al posto delle solite strette di mano, però, dalla folla è partito uno schiaffo, assieme alle parole "Montjoie Saint-Denis", il grido di guerra dei Re di Francia, e "abbasso il macronismo". L’uomo ha colpito il presidente francese, nonostante la presenza di numerose guardie del corpo, prima di dileguarsi tra la folla. Macron è stato subito portato via da uno dei bodyguard ma è tornato tra la gente poco dopo il fuori programma. Il video amatoriale che ha ripreso la scena ha fatto il giro del web in pochi minuti, e così l’Eliseo non ha potuto far altro che confermare l’accaduto. Secondo l’emittente Bfmtv la polizia avrebbe già provveduto a fermare due persone. Uno dei due, l’aggressore, identificato come Damien T., si è dichiarato "anarchico". Secondo Le Figaro entrambi sarebbero appartenenti al movimento dei Gilet gialli. Damien e Arthur C., infatti, secondo lo stesso quotidiano, avrebbero preso parte ad una manifestazione dello stesso movimento che si sarebbe svolta poco prima dell'arrivo di Macron e alla quale erano presenti circa 25 persone. Gli stessi attivisti, entrambi 29enni del comune di Saint-Vallier, nello stesso dipartimento della Drome, sempre stando a quanto riportato dai media francesi, avrebbero ammesso di far parte dell'organizzazione. Sui social i politici di sinistra radicale accusano l'autore del gesto di essere un estremista di destra. Éric Coquerel, deputato del partito La France insoumise, su Twitter, esprimendo solidarietà al presidente, spiega che lo slogan pronunciato dall’uomo prima di schiaffeggiare Macron, "Montjoie Saint-Denis", è "quello dell'estrema destra monarchica". La stessa frase fu urlata proprio contro di lui, nell'aprile del 2018, quando tre militanti del gruppo Action Française gli tirarono una torta fatta di schiuma da barba in faccia durante un comizio a Colombes. Anche il leader del movimento, Jean-Luc Melenchon, denuncia la matrice estremista dell'aggressione. "Questa volta cominciate a capire che i violenti passano all'azione?", ha scritto in un tweet, denunciando di essere stato minacciato a sua volta di morte da uno youtuber di destra. Intanto, il premier francese Jean Castex invoca un "sussulto repubblicano". "Ad essere in gioco sono le fondamenta della nostra democrazia", è stato il commento del primo ministro francese. "La democrazia è dibattito, dialogo, confronto, disaccordi legittimi. Ma non può in alcun modo essere violenza, aggressione verbale e ancora meno aggressione fisica", ha aggiunto Castex parlando all’Assemblea Nazionale. Sulla vicenda è intervenuta anche la leader del Rassemblement Nationale, Marine Le Pen, che si prepara a sfidare di nuovo Macron alle prossime presidenziali. "È inammissibile attaccare fisicamente il presidente della Repubblica. Sono la prima oppositrice di Emmanuel Macron, ma è il presidente: lo si può combattere politicamente ma non ci si può permettere la benché minima violenza nei suoi confronti", ha detto. "Il dibattito democratico può essere aspro, ma non potrà tollerare in nessun caso la violenza fisica", ha proseguito condannando l'epidosio, definito "intollerabile". I protagonisti della vicenda ora rischierebbero fino a 3 anni di carcere e una maxi multa da 45mila euro, mentre l'Eliseo ha fatto sapere che il tour del presidente andrà avanti. Macron non è il primo capo di Stato francese ad essersi trovato coinvolto in una situazione di questo tipo. Nel 2011 fu Nicolas Sarkozy ad essere strattonato proprio durante un'occasione pubblica, mentre nel 2012 François Hollande, allora candidato socialista alla presidenza, fu bersagliato con un lancio di farina.

Alessandra Benignetti. Nata nel 1987, vivo da sempre a Roma, città che amo. Sono laureata cum laude in Scienze Politiche all'Università La Sapienza, giornalista pubblicista, moglie e mamma. Appassionata di geopolitica e relazioni internazionali, per il Giornale.it realizzo video reportage e inchieste seguendo da vicino i fatti di cronaca e l'attualità. Il mio obiettivo? Raccontare la realtà senza filtri e descrivere i fatti con obiettività, con uno sguardo sempre oltre il sipario.

Da “il Giornale” l'11 giugno 2021. È stato condannato a quattro mesi di carcere Damien Tarel, il 28enne che ha schiaffeggiato Emmanuel Macron e ha riconosciuto i fatti. Dichiarato colpevole ieri, in un processo per direttissima, il giovane è stato condannato a 18 mesi di detenzione, di cui quattro da scontare subito in cella e altri 14 con la condizionale, riferiscono i media francesi. Una volta scarcerato, Tarel sarà in libertà vigilata per due anni durante i quali avrà l'obbligo di lavorare o seguire un corso di formazione. Dovrà ricevere cure psicologiche e non potrà commettere infrazioni. Tarel non potrà possedere armi per cinque anni, sarà privato dei diritti civici per i prossimi tre e interdetto per sempre da ogni funzione pubblica. Intanto Macron continua a minimizzare. All' emittente televisiva «BfmTv», nell'ambito di una visita nel ritiro della nazionale francese di calcio, ha spiegato che «non è grave ricevere uno schiaffo quando si va verso una folla». «Bisogna relativizzare» senza «banalizzare nulla». Poi ha voluto rimarcare anche il clima di «ottimismo» che regna nel Paese. «In Francia c' è una volontà di ritrovare la vita, è dinamismo». 

Francesca Pierantozzi per “Il Messaggero” il 6 giugno 2021. Il negoziatore libanese zio di Amal Clooney, la regina dei paparazzi di Francia amica dei Macron, false interviste, vere inchieste e continui colpi di scena: diventa un feuilleton non solo giudiziario l'affare dei presunti finanziamenti libici della campagna presidenziale del 2007 di Nicolas Sarkozy, che lo vede indagato per corruzione, abuso di fondi pubblici, finanziamento illecito di campagna elettorale e associazione per delinquere. A otto anni dall'apertura dell'inchiesta, ieri è stata formalmente indagata anche Michéle Mimi Marchand, 74enne proprietaria dell'agenzia di paparazzi Bestimage, considerata la regina del gossip francese, eminenza grigia all'Eliseo per quanto riguarda l'immagine della coppia presidenziale Brigitte-Emmanuel. L'accusa per lei è di subornazione di testimone e truffa in banda organizzata. Secondo i magistrati francesi, ci sarebbe lei dietro le quinte di un'intervista rilasciata da Beirut a Paris Match e a BfmTv lo scorso novembre da Ziad Takieddine: il testimone chiave nell'inchiesta sui fondi libici si era allora rimangiato tutto, in particolare smentiva (come sostenuto fino allora) di aver consegnato di persona a Sarkozy e al suo ex direttore di Gabinetto Claude Guéant, tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007, «tre valigie» contenenti un totale di cinque milioni di euro in banconote provenienti da Gheddafi. Takieddine evocava «pressioni dei magistrati» e «la paura di finire incastrato». «Finalmente la verità!» aveva gridato Nicolas Sarkozy, che ha sempre negato tutte le accuse. Il 14 gennaio scorso Takieddine ha però rifatto marcia indietro: a due giudici francesi venuti a interrogarlo a Beirut ha detto che in effetti no, non può «assolutamente escludere che non ci sia stato un finanziamento» di Gheddafi a Sarkozy, e che le sue dichiarazioni «sono state deformate da Paris Match». Per gli inquirenti francesi sarebbe stata proprio Mimi Marchand (che ha ammesso che a fine novembre si trovava a Beirut) a orchestrare l'intervista a Takieddine per scagionare l'amico Sarkozy. A scattare le immagini dell'uomo d'affari libanese per Paris Match è stato d'altra parte un fotografo della sua squadra. «Ha agito in qualità di giornalista che ha avuto l'esclusiva dell’intervista, ha organizzato le foto e l’incontro, in base alle regole della sua professione» ha dichiarato ieri l'avvocata di Marchand. Takieddine, mediatore e negoziatore di trattati internazionali, membro di un'importante famiglia del Libano che conta ex ministri, campioni di scacchi e anche l'avvocata Amal Alamuddin, moglie di George Clooney (è figlia di un suo cugino) è stato già condannato per falsa testimonianza e corruzione in un altro tentacolare affare giudiziario, quello delle cosiddette retro-commissioni di Karachi che vide coinvolto l'entourage dell'ex premier Balladur. Proprio per sfuggire alla condanna a cinque anni a Parigi è tornato in Libano (paese che non estrada i suoi cittadini) alla fine del 2020. Marchand lo avrebbe contattato per favorire il suo «amico Nicolas». Protagonista delle notti della Parigi anni '80, proprietaria di nightclub, ha poi fatto fortuna nel settimanale gossip Voici diventando confidente di politici, attori e imprenditori. C'era lei dietro le foto di Ségolène Royal in costume da bagno durante la campagna per l'Eliseo nel 2007 e sempre lei dietro le prime immagini di Sarkozy e Carla Bruni innamorati.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021. «Riservato ai locali, turisti go home» oppure «occhio alle auto» sono alcune scritte che nelle ultime settimane si vedono sempre più spesso all' ingresso delle spiagge atlantiche di Biarritz, Hossegor o Anglet, dove è nato il surf in Europa. Chi si avventura con la tavola corre il rischio di prendersi un pugno, e se ha un'auto targata «75», il numero di Parigi, di ritrovarsi con le gomme tagliate. Sono le gioie del surf: sole, pace e amore fuori dall' acqua ma, talvolta, violenze e minacce quando si tratta di difendere spazi e regole in mare. Il localismo accompagna il surf più o meno dalla nascita e in tutte le spiagge del mondo: da Tamarin Bay alle Mauritius a Lunada Bay in California, dalla Nuova Zelanda a Varazze, dove capita che i surfisti liguri non apprezzino le uscite dei milanesi nel loro mare. Nella versione peggiore il localismo è una forma di prepotenza e egoismo, in quella più presentabile è una reazione alla maleducazione di chi ignora regole e precedenze con comportamenti pericolosi. Prendersi una tavola in faccia perché qualcuno non ha rispettato il proprio turno non è piacevole. Ma quel che accade in queste settimane a Biarritz è una specie di tempesta perfetta, dove al solito localismo comune a tutti gli sport del Pianeta si aggiungono condizioni particolari: oltre a un certo carattere autonomista del Paese basco, l'insofferenza verso i parigini sempre più numerosi che comprano case nella zona facendo lievitare i prezzi, e la pandemia che ha esasperato il contrasto tra la capitale e il resto del Paese. I lockdown hanno spinto molti abitanti delle grandi città a cercare luoghi più piacevoli dove fare smart working, e le località sul mare - dalla Normandia alla Bretagna alle Landes ai Paesi Baschi - sono le più ricercate. «Molti nostri clienti sono già proprietari di case in un'altra città, per esempio a Parigi - dice Philippe Mirail dell'agenzia immobiliare Carré rouge di Biarritz - ma adesso iscrivono i figli a scuola qui per trasferire a Biarritz la residenza principale». Il risultato è che una casa con parcheggio e piccolo giardino non si trova più a meno di 900 mila euro, e che i locali, con stipendi di solito inferiori ai parigini, sono messi fuori mercato. Così sono apparsi gli striscioni «parigini tornate a casa, siete il virus del Paese basco», e il settimanale basco Enbata invita «ad azioni di resistenza» contro l'invasione. Queste tensioni si trasferiscono nelle acque di Biarritz, dove il surf è arrivato per la prima volta in Europa

"Dio è felice quando gli italiani muoiono". L'odio social dei francesi. Serena Pizzi il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo la tragedia di Stresa, i francesi hanno iniziato a bombardare i social con messaggi disgustosi: "Italiani uccisi dopo il cocainagate all'Eurovision". Mentre ancora l'Italia festeggiava la vittoria dei Maneskin all'Eurovision Song Contest e si difendeva dalle accuse choc della Francia ("Siete dei cocainomani"), siamo stati travolti da una tragedia. Un cavo della funivia del Mottarone, in Piemonte, si è spezzato a 100 metri dalla vetta e la cabina è precipitata. 14 persone sono morte, tra cui due bambini di 2 e 9 anni. Un bimbo di appena 5 anni, invece, è ricoverato a Torino in codice rosso. Una catastrofe. Una sciagura. Un dramma che avrebbe dovuto sconvolgere tutti e che invece ha raccattato per strada i soliti sciacalli. Fa un po' specie dover scrivere di questo. Fa specie perché, mentre due persone sono appesa al filo della vita e altre 14 sono morte, qualche centinaio di inetti gode per il brutto fatto di cronaca accaduto a Stresa. Ci spieghiamo meglio. Ieri pomeriggio, i principali organi di informazione europei hanno parlato della morte dei nostri concittadini. Tutto normale, verrebbe da dire, se non per un dettaglio. Dopo qualche ora, i social sono stati bombardati da vergognosi messaggi (andare su Twitter - digitare "télephérique italie" - per credere). Trascriviamo. "Dio è felice quando gli italiani muoiono". "Dio ha ucciso 13 figli di puttana italiani oggi. Grazie Dio. Baci". "Caduta la funivia a Stresa: una giusta punizione del karma dopo il cocainagate dei Maneskin all'Eurovision". "Questo è il karma, ahahah". "Gli italiani sono disoccupati", scrive uno. L'altro risponde: "Si eliminano anche velocemente". "L'euforia dell'Eurovision distrutta dalla caduta di una funivia. Ballavano lì dopo la vittoria e così le corde di sono rotte. Ecco. La Francia ha dovuto lasciare la vittoria a una canzone vuota". "La funivia è gestita dalla mafia?". Potremmo continuare a riempire righe su righe di insulti. Sui social ce ne sono a bizzeffe, di frasi simili. Per fortuna c'è anche qualche perla rara (francese) che non sta a questo gioco al massacro. "Mi dispiace così tanto - scrive un ragazzo su Twitter -. Quelle persone non rappresentano la Francia. Sono felice per la vittoria dell'Italia quest'anno e spero di poter viaggiare lì per sostenere la Francia (o forse un altro Paese, chi lo sa ahah). Non hai rubato la tua vittoria, te lo sei meritato. Forza Italia". Ovviamente, sotto a tanta violenza si è scatenato il finimondo ed è ripartita la "guerra" Francia-Italia. I nostri cugini rosiconi ce l'hanno a morte con noi per la vittoria dell'Eurovision e ci augurano le peggiori cose (ma vi sembra normale arrivare a tanto?!?). Gli italiani rispondo a tono e purtroppo - a volte - si abbassano a certi livelli di cattiveria. Una "guerra" di insulti che non porta a nulla, che non riporterà in vita i 14 morti e che non darà forza ai due in ospedale né alle famiglie che hanno perso tutto. E se la "guerra" tra noi e loro è fine a se stessa, dobbiamo riflettere su tanta cattiveria. È davvero possibile che una competizione musicale, con una mancata vittoria (della Francia), con accuse infamanti verso un cantante e una nazione intera (ci danno dei drogati) possa portare a tanto odio? È possibile che esista anche solo un francese (anzi, diciamo più in generale un uomo) capace di godere sulle spalle della tragedia altrui? Se la risposta è sì, non è di certo un uomo.

EUROVISION: «I MÅNESKIN SNIFFANO COCAINA», LA FRANCIA CHIEDE LA SQUALIFICA. PARIS MATCH E LA PRESUNTA SNIFFATA DI DAMIANO DEI MANESKIN. Stefano Montefiori per corriere.it il 23 maggio 2021. La vittoria degli italiani Måneskin e la sconfitta della francese Barbara Pravi fa intervenire persino il Quai d’Orsay: «È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione — dice il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian —. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test». La presa di posizione del capo della diplomazia francese può apparire un po’ sproporzionata, e fa capire quanto la serata di Rotterdam non sia andata giù a tanti francesi. La Francia c’ha creduto fino all’ultimo, «Voilà» di Barbara Pravi sembrava la canzone perfetta per vincere e tutto era pronto per i festeggiamenti, anche il documentario sulla nuova Piaf che è andato in onda comunque: dopo l’annuncio della vittoria dei Måneskin il collegamento con Rotterdam è stato chiuso e il canale pubblico France 2 ha mandato subito in onda la storia della seconda classificata. Poco prima dell’una del mattino il presidente Emmanuel Macron ha scritto un messaggio su Twitter: «Grazie a Barbara Pravi per avere realizzato questo sogno folle. Il sogno folle di una ragazza dagli occhi neri. Il sogno folle di fare brillare la Francia all’Eurovision. Stasera, è anche il sogno folle di potere di nuovo vibrare insieme, da europei». Solo che, lontano dalla tv, la serata era appena cominciata. L’immagine del cantante dei Måneskin che avvicina il volto al tavolino viene diffusa un po’ per scherzo su Twitter, e ritwittata immediatamente soprattutto da utenti francesi. Sulle prime scherzando, poi «Paris Match» prende sul serio la teoria (una bufala) della sniffata di cocaina in diretta e diffonde la notizia che gli organizzatori stanno valutando una squalifica per i Måneskin, nel qual caso la vittoria andrebbe alla candidata francese. A quel punto lo scherzo diventa meno simpatico, in conferenza stampa Damiano dei Måneskin deve smentire di avere preso la droga, «non è vero, per favore, non ditelo». Solo che ormai molti account francesi sono scatenati, e molti chiedono un test antidroga. Nell’epoca delle più grandi suscettibilità, a nessuno viene in mente che accusare qualcuno di essersi drogato in diretta può essere spiacevole. Lo stereotipo «sex & drugs & rock’n’roll» è irresistibile, e avrebbe il merito di ridare alla Francia una vittoria che sembrava acquisita. In compenso viene invertito l’onere della prova: gli accusatori non ci pensano neppure a dimostrare la colpa della persona in questione, è l’accusato che improvvisamente è chiamato a discolparsi e infatti Damiano si offre di fare il test per fugare ogni dubbio. L’Eurovision è un gioco, certo, e lo spettacolo si nutre anche del clima da Giochi senza frontiere, le rivalità nazionali fanno parte del divertimento, ci mancherebbe, ed è ovvio che gli italiani siano doppiamente contenti: perché hanno vinto, e perché hanno vinto battendo i cugini francesi. Però lo scorno di tanti francesi per il secondo posto sembra un po’ eccessivo, come lo sono i tweet infervorati della star Cyril Hanouna, il più celebre, pagato e seguito animatore della tv francese, protagonista qualche settimana fa di una copertina sul magazine di «Le Monde». Hanouna è una potenza anche perché possiede una cosa che tutti i politici gli invidiano, ovvero la capacità di entrare in contatto con i francesi comuni, una specie di tribuno popolare giudicato talvolta eccessivo, ma comunque un personaggio chiave per comprendere gli umori della Francia. Cyril Hanouna frequenta l’Eliseo, si scambia sms con il presidente Macron ed è amico della première dame Brigitte, e non esita a fare valere questo rapporto privilegiato anche nella vicenda Måneskin. Tweet notturno: «Se fosse confermato che il candidato italiano ha commesso questo gesto (la pista di cocaina, ndr), ci vuole davvero una squalifica. Attendiamo le conclusioni dell’inchiesta! Ma se è vero, squalifica! Se è così stanno le cose la Francia deve vincere! Faccio appello alla tv francese, a Eurovision e Emmanuel Macron». Per essere un gioco, è andato un po’ troppo avanti. Come dice Macron, «è stato bello vibrare insieme, da europei», ma sarebbe stato anche bello, per qualche suo connazionale, mostrare di saper perdere.

Maneskin, arriva la nota ufficiale sul caso-droga all'Eurovision: cosa succede adesso. Da liberoquotidiano.it il 23 maggio 2021. La vittoria dei Maneskin all’Eurovision è stata molto discussa per via dell’accusa – lanciata   dalla rivista francese Paris Match Magazine – secondo cui il frontman della band Damiano David avrebbe sniffato cocaina in diretta. Una notizia che il gruppo ha subito smentito in conferenza stampa dopo l’evento. Adesso si è pronunciata l’organizzazione della kermesse. Lo European Broadcasting Union, in particolare, ha diramato un comunicato nel quale si legge: “Siamo consapevoli delle voci che riguardano il video dei vincitori italiani dell’Eurovision Song Contest nella Green Room di ieri sera. La band ha fortemente smentito le accuse di consumo di droga e il cantante in questione farà un test antidroga volontario dopo l’arrivo a casa. Lo hanno chiesto loro stessi ieri sera ma non siamo riusciti ad organizzarlo”. E ancora: “La band, il loro management e il capo della delegazione ci hanno informato che non erano presenti droghe nella Green Room e hanno spiegato che si era rotto un bicchiere al loro tavolo e che il cantante stava pulendo. L’EBU può confermare che il vetro rotto è stato trovato dopo un controllo in loco. Stiamo ancora esaminando attentamente i filmati e aggiorneremo con ulteriori informazioni a tempo debito”. Sui social si continua a parlare tanto della questione. Molti utenti italiani si sono scagliati contro i francesi che hanno messo in giro questa voce. Anche diversi vip si sono espressi sulla vicenda. Alessia Marcuzzi, per esempio, ha consigliato ai Maneskin di andare per vie legali e di far pagare care le subdole dichiarazioni rivolte al gruppo.

Da liberoquotidiano.it il 23 maggio 2021. "Ma che meraviglia". Cristiano Malgioglio rimane in mutande in diretta per celebrare la vittoria dei Maneskin all'Eurovision Song Contest e Carolina Di Domenico, su Rai1, non può che commentare impotente lo spogliarello imprevisto e imprevedibile, sperando che l'esuberante cantautore pugliese non arrivi fino in fondo. Gabriele Corsi e Malgy, d'altronde, l'avevano promesso. I due conduttori hanno commentato la serata di Rotterdam in diretta su Rai1, registrando prima con una punta di amarezza il "tradimento" di Paesi amici come San Marino e Albania, che non hanno premiato nel televoto la rockband romana di Zitti e buoni ("Incidente diplomatico", preannunciano), quindi hanno esultato quando la Slovenia a sorpresa ha votato in massa per Damiano David e soci. La classifica vedeva l'Italia dietro i cantanti di Francia e Svizzera, prima che il pronunciamento della giuria popolare europea rovesciasse l'esito del confronto. "Se vincono i Maneskin ci spogliamo", avevano giurato i due. E hanno mantenuto la parola, sbottonandosi a tempo di record i pantaloni con l'autore di Gelato al cioccolato, che sotto ha sfoggiato un paio di boxer tricolori, indossati evidentemente con scarso senso della scaramanzia. E sui social, ovviamente il tripudio per i Maneskin si è trasformato in ovazione per chi ne ha cantato (in deshabillé) le gesta, nonostante immaginiamo la comprensibile apprensione ai piani alti di viale Mazzini. Un "momento iconico" che ha fatto dimenticare anche le critiche ricevute da Corsi, che in un eccesso filologico pronunciava Maneskin "Moneskin", seguendo le regole della lingua norvegese. Ma al componente del Trio Medusa, sabato sera, si è perdonato anche l'essere un po' tropppo pedante.

Che tempo che fa, "Mi fa orrore": Maneskin ospiti dopo il caso-droga all'Eurovision. Fabio Fazio incredulo. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. “La polemica su di voi mi fa orrore, voglio esprimervi tutto il mio affetto”: Fabio Fazio si è rivolto così ai Maneskin, suoi ospiti a Che tempo che fa su Rai 3, in merito alla voce secondo cui il frontman Damiano avrebbe sniffato cocaina poco prima della premiazione all’Eurovision.  "Quello che hanno detto su di voi è una stupidaggine – ha continuato il conduttore, sostenuto anche da Luciana Littizzetto -. A parte il fatto che vuol dire che non li conoscono”. Poi Fazio ha spiegato la dinamica: “Damiano si è chinato per togliere i cocci di un bicchiere che si era rotto. Chi di voi l’ha rotto?”. “Thomas, è quello maldestro del gruppo”, hanno risposto i Maneskin. Il conduttore, incredulo, ha proseguito: “Ci sono le fotografie del bicchiere rotto per terra e qualche genio ha pensato che in eurovisione Damiano potesse sniffare. Cose da pazzi”. E infine una sorta di pacca sulla spalla per i giovani artisti: “Non prendetevela, sarà una cosa che racconterete a Che tempo che fa tra 40 anni, quando verrete ospiti”. Parlando della vittoria, invece, il frontman ha rivelato: "Mio padre si è arrabbiato perché ha detto che l'ho fatto piangere per la seconda volta in due mesi".

Maneskin, Matteo Salvini e il post social: "Vergogna". Cosa non torna, l'indecente complotto sinistro. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. Dalla vergogna francese contro i Maneskin alla vergogna italiana contro Matteo Salvini, il passo è brevissimo. La rockband romana vince a sorpresa l'Eurovision Song Contest con quella Zitti e buoni che aveva già messo a ferro e fuoco il Festival di Sanremo lo scorso marzo, sbaragliando la concorrenza all'Ariston. I francesi, arrivati secondi, non la prendono bene visto che il trionfo arriva con la giuria popolare che ribalta l'esito del televoto. Così, forse per vendetta forse solo per "rosicamento", sui social diventa virale un post in cui il frontman Damiano David è ritratto a capo chino sul tavolino, accusato di "sniffare cocaina", Monta lo scandalo, migliaia di transalpini chiedono la squalifica del gruppo italiano. Tutto falso, lo si scoprirà più tardi. Più o meno contemporaneamente, inizia a girare sui social anche lo screenshot di un post di Salvini, in cui il leader della Lega prende posizione proprio contro i Maneskin, condividendo la foto incriminata della presunta "pippata": "Fare uso di droghe in diretta davanti milioni di bambini? è questo il messaggio che questi signori applauditi dalla sinistra vorrebbero trasmetterci? Robe da matti! Io dico VERGOGNA!". Qualcosa non torna, anche perché tutto si può dire dei disimpegnatissimi Maneskin tranne di essere un gruppo "di sinistra". E così si mettono al lavoro i cacciatori di fake news di Bufale.net. Dopo aver accertato che Damiano non stesse facendo uso di droga, ma semplicemente sgombrando il terreno dai cocci di vetro di un bicchiere rotto dal compagno di band Thomas (versione confermata dallo stesso cantante in una surreale conferenza stampa), gli esperti precisano che anche il presunto post di Salvini è una bufala, appunto. Fatta per screditare non i Maneskin, però, ma lo stesso Salvini, che finisce nel tritacarne social da diverse ore schierato in modalità "Mondiale di calcio 2006" a favore della band romana. E sì, stavolta, lo zampino di qualche sinistro potrebbe centrare eccome.

Maneskin, Damiano David e la cocaina: "Il naso e il tavolino", ecco la prova. Francesi umiliati a tempo di record. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. La valanga di fango della Francia contro i Maneskin e Damiano David si trasforma in un velenosissimo boomerang. Tutta "colpa" (o merito) dei social. La rockband romana con Zitti e buoni trionfa all'Eurovision song contest a Rotterdam, regalando all'Italia una vittoria che mancava da 31 anni, quando Toto Cutugno trionfò con Insieme 1992. Il risultato è frutto di un sorprendente ribaltone: la giuria popolare europea sovverte il televoto, che vedeva Francia e Svizzera in vantaggio, E i francesi, come da tradizione, non la prendono benissimo. Di più: si arriva alla diffamazione a rischio di querela. Su Twitter, Facebook e Instagram migliaia di telespettatori transalpini iniziano a far girare un video in cui Damiano, frontman della band, si china sul tavolino con il capo abbassato. "Sta sniffando cocaina", assicurano. E arrivano a chiedere la squalifica degli italiani, che darebbe dunque la vittoria alla francese Barbara Pravi. Tutto molto facile, troppo bello. E pure troppo falso. "Non uso droga, a Thomas si era rotto un bicchiere", ha spiegato Damiano quando in conferenza stampa post-vittoria gli hanno riportato la diceria sulla cocaina. I fan italiani iniziano a far girare gli screenshot del luogo del delitto, per rispondere alle accuse dei francesi. Tutto vero, sul pavimento si notano i cocci di vetro di un bicchiere frantumato e la spiegazione di Damiano torna. Anche David Puente, indagatore di bufale per conto di Open, il sito fondato da Enrico Mentana, si prende la briga di verificare con tanto di "perizia millimetrica" per smentire la fake news diventata, come spesso purtroppo capita, virale a tempo di record nel giro di pochi minuti. "Damiano china il capo tenendo entrambe le mani a pugno, agitandole entrambe. Il gesto risulta quello di un’esultanza piuttosto che di una 'pippata'", spiega Puente sottolineando poi che la distanza del naso del frontman dal tavolino è troppo grande. "E nel chinarsi rimane fermo", come se stesse in realtà cercando di raccogliere (o spostare) qualcosa vicino ai suoi piedi. Cari complottisti francesi, stavolta la squalifica è per voi.

"I Maneskin sniffano cocaina". L'accusa choc della Francia. Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Polemica all'Eurovision sui Maneskin: la Francia ha accusato Damiano di aver sniffato cocaina nella green room. Loro vincono e poi chiariscono. I Maneskin vincono l'Eurofestival: dopo oltre trent'anni una canzone italiana è salita sul gradino più alto del podio della competizione musicale europea. Un traguardo raggiunto grazie alle voci e alla grinta straordinaria di quattro ragazzi romani poco più che ventenni che nel corso della finale hanno dovuto subire l'accusa della Francia di essere drogati. Tutto nasce da un video girato in green room durante la diretta, che ha scatenato le polemiche in rete riportate poi da una giornalista del Paris Match. Netta e piccata la replica dei Maneskin, prima in conferenza stampa e poi sui social. "Grande tensione a #Eurovision con l'immagine della striscia di cocaina di un componente della squadra italiana... Gli organizzatori stanno discutendo sul da farsi ", ha scritto Mariana Grépinet. Durante la diretta, infatti, alcuni utenti hanno sostenuto di aver visto Damiano sniffare una striscia di cocaina in green room. Una circostanza ovviamente fraintesa dal pubblico a casa, che per qualche attimo ha messo in discussione la permanenza dei Maneskin all'Eurofestival. I giovanissimi italiani sono partiti come favoriti anche se il voto delle giurie nazionali, come facilmente immaginabile da chi segue l'Eurovision da tempo, non li ha premiati. È stato il televoto a portare i Maneskin sul tetto d'Europa, pur con la polemica. In conferenza stampa, Damiano si è immediatamente difeso dall'accusa di aver sniffato droga e ha spiegato le dinamiche di quel video. "Non era cocaina, ragazzi! Non uso droghe!", ha detto stizzito Damiano davanti ai giornalisti. "Non ne faccio uso, per favore non ditelo. Non faccio uso di cocaina", ha proseguito Damiano spiegando cosa davvero è successo nella green room dell'arena di Rotterdam. Il frontman dei Maneskin, quindi, ha raccontato che Thomas ha rotto un bicchiere e lui ha abbassato la testa per capire cosa fosse successo. Un gesto fatto automaticamente che, però, davanti alle telecamere ha dato adito a pettegolezzi e polemiche strumentali da parte della nazione che ci ha conteso il podio fino quasi alla fine. Al termine della conferenza, dal loro profilo social i Maneskin hanno commentato: "Siamo davvero sotto choc in merito a quanto le persone stanno dicendo su Damiano che fa uso di droghe. Siamo veramente contro le droghe e non abbiamo mai usato cocaina. Siamo pronti a effettuare il test, perché non abbiamo nulla da nascondere. Siamo qui per suonare la nostra musica e siamo molto felici per la nostra vittoria all'Eurovision. Vogliamo ringraziare tutti quelli che ci hanno sostenuto. Il rock'n roll non morirà mai. Vi amiamo".

"Test anti-droga per Damiano". Ma gli organizzatori continuano a indagare. Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo l'accusa della Francia ai Maneskin, l'Eurofestival rilascia un comunicato dichiarando che si stanno ancora effettuando controlli sui filmati. Possibile che la cantonata, volendo usare un eufemismo, presa dai francesi sui Maneskin tenga banco a quasi 24 ore dalla proclamazione dei vincitori? Purtroppo sì. Il brevissimo video di Damiano David nella green room dell'arena di Rotterdam, dove il frontman della band italiana è inchinato sul tavolo con i pugni chiusi, ha dato adito a interpretazioni fantasiose da parte dei transalpini, pronti a puntare il dito contro il cantante per accusarlo di aver sniffato cocaina in mondovisione. Se non fosse un'accusa così infamante per un giovanissimo artista ci sarebbe anche da ridere. A cavalcare la polemica sono stati i giornalisti francesi, gli influencer e altri personaggi a cui evidentemente non è andato già che la nuova Edith Piaff portata all'Eurofestival dalla Francia si sia dovuta accontentare del secondo posto, letteralmente spazzata via dalla grinta dei Maneskin. Avremmo potuto derubricare il tutto con un sorriso e qualche sfottò ai francesi ma addirittura l'organizzazione dell'Eurofestival si è sentita in dovere di rilasciare un comunicato stampa sulla vicenda. "Siamo a conoscenza delle speculazioni che circondano il videoclip dei vincitori italiani dell'Eurovision Song Contest nella Green Room ieri sera. La band ha fortemente smentito le accuse di uso di droghe e il cantante in questione farà un test volontario sulla droga dopo essere arrivato a casa. Ciò è stato richiesto da loro ieri sera, ma non ha potuto essere immediatamente organizzato dall'UER", si legge sul sito ufficiale dell'Eurofestival. Addirittura avrebbero voluto che Damiano si sottoponesse al test in conferenza stampa? Evidentemente sì ma non stupisce, visto che c'è stato anche chi ha richiesto l'intervento di Emmanuel Macron per bloccare la partecipazione dei Maneskin. Ma andiamo oltre. Il comunicato dell'Eurofestival prosegue: "La band, la loro direzione e il capo delegazione ci hanno informato che nella Green Room non c'erano droghe e ci hanno spiegato che un bicchiere era rotto al loro tavolo ed era stato sgomberato dal cantante. L'UER può confermare che il vetro rotto è stato trovato dopo un controllo in loco. Stiamo ancora esaminando attentamente i filmati e ci aggiorneremo con ulteriori informazioni a tempo debito". Quindi ci sono ancora persone che stanno analizzando i fotogrammi di un video già di per sé chiarissimo per capire se davvero un ragazzo abbia completamente perso la ragione per sniffare nella green room di un programma in mondovisione? Ok. Saranno pure "fuori di testa" questi giovani romani, ma a tutto c'è un limite. Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro degli Esteri francese, che ha dichiarato: "Penso che l'Eurovision abbia la responsabilità di onorare questa competizione e se c'è bisogno di fare dei test, lo faranno. Spetta al comitato etico di Eurovision verificare se c'è un problema. Non voglio farmi coinvolgere in questa giuria, non è di mia competenza". Capiamo il bruciore di una sconfitta europea ma a un certo punto è anche bene imparare ad accettare le sconfitte. Così come il 9 luglio 2006 il cielo era "azzurro sopra Berlino" allo stesso modo il 2 maggio 2021 il cielo era azzurro sopra Rotterdam. Suvvia amici francesi, "zitti e buoni" e almeno per una volta imparate a gioire per i successi di noi italiani. Senza troppe scuse.

Le alleanze politiche per far perdere i Maneskin. Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Senza il televoto i Maneskin avrebbero chiuso al quarto posto, azzoppati dallo scambio di douze points che da sempre penalizza l'Italia. Se fosse stato per le giurie dei singoli Stati, l'Italia dei Maneskin avrebbe dovuto chiudere l'Eurofestival al 4 posto. Prima la Svizzera, seconda la Francia, terza Malta. L'attribuzione degli agognati 12 punti da parte delle giurie è ogni anno motivo di discussione, perché in molti casi è lo specchio delle alleanze geopolitiche ed economiche tra i Paesi. E in queste alleanze l'Italia gioca sempre un ruolo marginale, tanto che raramente ottiene (e dà) il massimo dei voti dai grandi Paesi europei. Anche quest'anno San Marino non ha fatto completamente sponda al nostro Paese, così come non l'hanno fatto l'Albania e Malta, solitamente "amici" all'Eurofestival. Ma poteva andarci peggio.

I voti all'Italia. Su 38 Paesi (39 in gara ma non ci si può autovotare), l'Italia ha ricevuto voti da 28 giurie. Quattro Paesi hanno attribuito ai Maneskin il massimo del punteggio, ossia i tanto ambiti douze points, ossia i 12 punti: Slovenia, Ucraina, Croazia e Georgia. Infatti sui social sono piovute espressioni di giubilio e promesse di vacanze da parte degli italiani anche a Tblisi e Kiev, oltre che a Lubiana e a Zagabria, due città già molto amate dai nostri connazionali. 10 punti, invece, sono arrivati da Svezia, Russia, Lituania, Bulgaria, Macedonia del Nord e San Marino. Lettonia, Cipro e Svizzera hanno assegnato 8 punti ai Maneskin, mentre l'Islanda ha dato 7. L'Italia dei Maneskin ha ricevuto 6 punti da parte di Austria, Germania, Australia, Finlandia e Repubblica Ceca e 5 punti dalla Polonia e dalla Norvegia. Albania e Grecia hanno dato 4 punti ai Maneskin, Estonia, Portogallo e Romania ne hanno assegnati 3. Il Belgio ha dato 2 punti. Mentre nessuna giuria ha dato 1 punto ai Maneskin, ben 10 Paesi hanno escluso la band romana dalle loro classifiche, assegnando 0 punti. Tra questi la Francia, il Regno Unito, la Spagna, Malta e la Danimarca.

I douze points e il caso Uk. La reciprocità dei douze points è una componente importantissima nelle dinamiche dell'Eurofestival e infatti non stupisce, per esempio, che la Spagna, la Germania, la Svizzera e il Regno Unito abbiano dato i loro 12 punti alla Francia che, invece, ha dato i suoi 12 punti alla Grecia. Anche San Marino ha dato il massimo del punteggio alla Francia, il che ha spinto molti utenti sui social a invitare la piccola enclave nella penisola italica a trasferirsi Oltralpe. Curioso anche il caso dei Paesi del nord Europa, che hanno votato quasi compatti con il massimo dei voti per la Svizzera. Infatti, Finlandia, Islanda, Danimarca, Lettonia, Estonia hanno dato i 12 punti al Paese elvetico. Non stupisce lo scambio di douze points tra Grecia e Cipro. Clamorosamente al palo il Regno Unito. È la prima volta da quando è stato istituito il nuovo punteggo (2016) che un Paese non prende nemmeno un punto né dalla giuria e nemmeno dal televoto.

I francesi rosicano per i Maneskin: "Italia Paese di drogati". Serena Pizzi il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. La Francia accusa l'Italia e i Maneskin di fare uso di cocaina. Scoppia la polemica e l'odio social. I nostri "cugini" d'oltralpe non sono per niente sportivi. I Maneskin hanno schiacciato tutti. Sono andati oltre ogni aspettativa (degli altri) ma non nostra. L'Italia ci ha sempre creduto, fin da quando si sono esibiti sul palco di Sanremo - dove si sono portati a casa il leoncino d'oro - e hanno infiammato il palco dell'Ariston. A Rotterdam hanno fatto ancora meglio: hanno vinto l'Eurovision Song Contest con 524 punti (318 del pubblico e il resto delle giurie competenti degli altri Paesi) e la loro canzone è la più ascoltata in Europa. Grazie a loro, il premio è tornato in Italia dopo 31 anni. "Il rock non muore mai", ha urlato Damiano - il cantante della band - non appena sono stati proclamati vincitori. Tanta emozione, pianti, abbracci e festeggiamenti. Ma in un clima di festa generale - dove le favorite erano Francia (499 punti) e Svizzera (432) - non sono mancate le polemiche. Sterili polemiche. Anche malefiche, aggiungerei. Da parte di chi? Di quelli che dovrebbero essere i nostri "cugini" d'oltralpe: i francesi. Il motivo? Subito dopo l'annuncio dei vincitori, i siti di informazione francesi, giornalisti, influencer e più in generale i social sono stati bombardati da 10 secondi di frame di un video nel quale si vede la band italiana. Nella clip i quattro artisti stanno guardando in punti diversi, ma ad un certo punto Damiano abbassa la testa e poi la rialza. Cosa sarà mai successo? "Thomas ha rotto un bicchiere, mi sono abbassato per vedere", ha spiegato in conferenza stampa il cantante dei Maneskin. Ma per la Francia la storia è un'altra: Damiano ha sniffato cocaina. Anzi, lo diciamo esattamente con le parole della giornalista del Paris Match: "Grande tensione all'Eurovision con l'immagine della coca di un membro della squadra italiana. Gli organizzatori stanno discutendo sul da farsi". E subito altri la seguono a ruota: "Il vincitore prende tutto. E così fa con la cocaina? Cosa contiene la busta strappata che tira fuori con la mano sinistra sotto il tavolo, scuote, si punge il naso, prima di essere chiamato sul palco?". "Uh, come si eccita, direi che ha rubato un po' di farina", "C'è la droga, squalifica immediata". Potremmo andare avanti all'infinito. I detrattori, ieri sera, sono usciti dalle gabbie e hanno sfogato tutto il loro odio contro la giovanissima band italiana. Cosa speravano di ottenere? La squalifica dei Maneskin in modo tale da far vincere la sportivissima Francia. Ovviamente, la polemica social è arrivata anche in sala stampa e i cronisti hanno domandato a Damiano se abbia sniffato cocaina. Il cantante - caduto dalle nuvole perché ovviamente non sapeva cosa stesse succedendo nel mondo degli odiatori frustrati - ha subito spiegato che nessuno di loro fa uso di droghe e che sono pronti a sottoporsi al test. Ma era davvero necessaria una polemica del genere? No. Fa rabbrividire che dopo un anno di pandemia dove tutto il mondo è rimasto paralizzato, un evento che dà una minima parvenza di normalità venga macchiato da migliaia di francesi incarogniti solo perché non hanno vinto. Complimenti. Ma non finisce qui. Perché se sui social hanno dato a Damiano dello sniffatore per eccellenza, i siti di informazione hanno rilanciato il tutto dandoci dei drogati seriali ("L'Italia o il Paese del pippare e della cocaina. Quando raccogli un bicchiere rotto con il naso sporco di farina. Oh, che caso"). Il Paris Match scrive: "Va detto che le immagini sono inequivocabili (ah si?!?, ndr) anche se manca la prova formale. [...] Damiano ha aspettato mentre prendeva la cocaina all'angolo di un tavolo. Sulle immagini trasmesse in diretta televisiva e che ora circolano sui social, si vede chiaramente il futuro vincitore inclinare la testa e compiere un movimento molto significativo... senza che nessuna sostanza sia visibile sullo schermo. Il batterista del gruppo Ethan Torchio sembra accorgersi della presenza della telecamera e lo avverte con un gesto del gomito. Troppo tardi per evitare lo scandalo (lo scandalo?, ndr) [...] Coincidenza o no, l'inno rock cantato da Damiano David Zitti e buoni (in francese: 'Taisez-vous et être sages') è proprio una critica al politicamente corretto (quindi? chi è politicamente scorretto si droga di default?, ndr). Il Paris Match (oltre a fare una figuraccia e una pessima informazione) se la canta e se la suona da solo. Una giornalista di Europa1 commenta divertita: "Così ha sniffato il vetro". Wow, che professionalità. Mentre un conduttore arriva addirittura ad appellarsi a Macron per la squalifica della band. Abbiamo toccato il fondo, è ufficiale. Così Francia e Italia hanno trascorso la notte al fronte. Ogni secondo partiva un colpo mortale. I francesi hanno passato le ore dandoci dei cocainomani e gli italiani si sono incazzati come delle iene (in giro ci sono diverse risposte degne di nota, altre fin troppo volgari. Però, a volte, non bisogna abbassarsi a certi livelli, cari italiani. Lasciateli crogiolare nel loro brodo di invidia). Raccontati i fatti, spiegato l'accaduto dai diretti interessati, guardati e riguardati i video, mi viene spontaneo pormi una domanda. Ma i francesi credono davvero che Damiano sia riuscito a portare (di nascosto) della cocaina davanti a migliaia di telecamere, controlli e telespettatori, quando per potersi esibire sul palco ha dovuto togliere dal brano "coglioni" e "cazzo"? La faccio ancora più breve: i nostri simpatici cugini credono davvero che a Rotterdam non accettino le parolacce cantate ma sponsorizzino la cocaina?

Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone. Del resto sono i dettagli a fare la differenza, no? Vivo in simbiosi con i miei

Tutte le rosicate dei francesi. Simone Savoia il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Il caso dei Maneskin e della bufala sulla cocaina è solo l'ultimo di una serie di casi in cui i francesi, sconfitti dagli italiani, hanno rosicato. E non poco. Rotterdam, 22 maggio 2021, Eurovision Contest Song, classifica finale: primi i Måneskin con 524 punti, seconda la francese Barbara Pravi con 499 punti e terzo il franco svizzero Gjon’s Tears con 432 punti. il quartetto rock italiano composto da Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan si porta a casa il trofeo dopo aver bruciato sul traguardo tutti i concorrenti della gara canora internazionale grazie al voto del pubblico. I Måneskin erano quarti dopo il voto della giuria tecnica; ma il pubblico (per regolamento non quello italiano) li ha fatti volare in testa con una pioggia di voti, che hanno fruttato ben 318 punti. “Zitti e buoni”, come recita il titolo della canzone vincitrice, e tanti saluti a tutti. Nemmeno il tempo di spegnere le luci e i rumori della festa ed ecco che spunta un video estrapolato dalla diretta della serata. Si vedono i Måneskin seduti a un tavolino dopo la loro esibizione sul palco e prima della dichiarazione dei voti; a un tratto il frontman Damiano David si china sul tavolino e si rialza quasi subito. Secondo alcuni si tratterebbe di una clamorosa “pippata” di cocaina in eurovisione. E indovinate chi chiede subito a gran voce la squalifica della band romana? I francesi, ovviamente! Che in questo modo vedrebbero la loro beniamina Barbara Pravi balzare al primo posto con la canzone “Voilà”, un titolo e un programma. Ovviamente non succede nulla, i Måneskin si dicono pronti anche a sottoporsi a un test anti-droga e Damiano David nega di aver mai fatto uso in vita sua di sostanze stupefacenti. Ma qualche media francese entra a gamba tesa con titoli e articoli sugli “italiani popolo di drogati”. Il problema è che, quando un italiano li batte sul campo, i cugini francesi non la prendono mai benissimo. “E i francesi ci rispettano/ che la balle ancora gli girano”, come canta Paolo Conte in ‘Bartali’ del 1979, uno dei suoi pezzi più famosi e iconici. Il cantautore astigiano si riferiva alla vittoria di Gino Bartali al Tour de France del 1948, prima tappa con arrivo in volata a Trouville-sur-Mer in Normandia: il ‘Ginaccio’ nazionale aveva bruciato sul traguardo Guy Lapèbie e Louis Bobet, campioni del ciclismo transalpino dell’epoca. E sarà sempre Bartali ad arrivare in maglia gialla sull’Avenue des Champs-Élysées a Parigi, fine della Grand Boucle. E sempre l’Arco di Trionfo della Ville Lumière farà da cornice a un’altra apoteosi del ciclismo italiano: 2 agosto 1998, Felice Gimondi, direttore sportivo della Mercatone Uno-Bianchi solleva sul podio il braccio al suo ciclista di punta, il Pirata Marco Pantani, trionfatore dell’ottantacinquesima edizione del Tour. 9 luglio 2006, Berlino, Olympiastadion. Finale dei Campionati del mondo di calcio, Italia-Francia. Minuto 10 del secondo tempo supplementare, squadre stremate e ferme sull’1 a 1. I nostri cugini sembrano a tanto così dal piazzare il colpo decisivo e portarsi a casa la Coppa. Ma a un tratto l’arbitro argentino Horacio Helizondo ferma il gioco perché poco distante dall’area azzurra, a palla lontana, il difensore centrale Marco Materazzi si contorce a terra dal dolore con le mani al petto. È stato colpito con una testata dal campionissimo francese Zinedine Zidane, che viene espulso, chiudendo in questo modo la sua straordinaria carriera e condannando i transalpini alla sconfitta ai calci di rigore. Polemiche a non finire sui media francesi sugli “italiani imbroglioni”, rinfocolate poi il 28 novembre 2006 dalla decisione del settimanale francese France Football di conferire il Pallone d’Oro 2006 al difensore Paolo Cannavaro. Apriti cielo! Offesa mortale a Zidane, italiani ladri di coppe e palloni d’oro eccetera, eccetera. 26 marzo 2021, il quotidiano francese ‘Le Monde’ titola così un articolo sul Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Un italiano così europeo…”. I giornalisti transalpini sono preoccupati che l’autorevolezza dell’ex presidente della Banca Centrale Europea possa togliere spazio nei consessi continentali all’allure del presidente francese Emmanuel Macron e alla tradizionale grandeur francese. 2 marzo 2014, Los Angeles. Alla cerimonia per gli Oscar del cinema trionfa ‘La grande bellezza’ del regista napoletano Paolo Sorrentino. Una fotografia strepitosa a immortalare i mille angoli eterni di Roma Capitale. Ed è di nuovo una grande “rosicata” per i nostri cugini. Il quotidiano ‘Le Monde’ titola su una Roma “a rischio bancarotta. Jep Gambardella (il protagonista del film, ndr) perfetto simbolo del declino”. Forse anche perché la famosa statuetta non arriva dalle parti di Parigi dal 1993, anno in cui fu premiato il film “Indochine” di Règis Wargnier. Un digiuno di celluloide lungo 18 anni. 22 novembre 1985, Parigi. Silvio Berlusconi in conferenza stampa risponde alle perplessità di ambienti governativi e mediatici francesi circa l’operazione La Cinq, cioè lo sbarco in Francia della tv commerciale autorizzato dal governo transalpino 48 ore prima. A chi lo accusa di voler creare una ‘télévision Coca-Cola’, cioè estremamente commerciale, il Cavaliere risponde di voler creare invece una ‘télévision beaujolais et champagne le samedi’, cioè una televisione da grandi vini rossi e champagne, bandiere dell’enologia francese. Berlusconi aveva messo il dito nell’orgoglio francese, rimasto spiazzato da un imprenditore italiano che veniva a conquistare l’etere di casa loro. Diventarono pazzi. “Rosicare”, “ronger” diventa un’arte francese specialmente quando i nostri cugini volgono lo sguardo verso il Bel Paese. Ma, suvvia, un po’ di sportività. La grandeur, cari cugini, resta alla Francia! Noi italiani ci accontentiamo di stare “zitti e buoni”…

Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione

Maneskin, Damiano e la cocaina. "Vincere e vinceremo": Delphine Ernotte e l'ipotesi della denuncia francese. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Le grottesche conseguenze del "caso Maneskin" rischiano di travolgere mezza Francia che conta. Ricapitoliamo: la rockband italiana sabato sera vince l'Eurovision Song Contest, grazie alla giuria popolare che ribalta l'esito del televoto, relegando la cantante transalpina Barbara Pravi al secondo posto. I francesi, che si sentivano già il trionfo in tasca, non la prendono bene, e sui social iniziano far diventare virale un video (poi verificatosi una fake news, ancorché equivocabile) in cui Damiano David, cantante dei giovanissimi vincitori, abbassa la testa su un tavolino. "Sta sniffando cocaina", assicura il tweet. Apriti cielo: Damiano e i Maneskin smentiscono per ore e ore ("Mai fatto uso di droghe", "Inaccettabile", ripetono) e addirittura, al ritorno in Italia, il frontman si sottoporrà a un test anti-droga volontario. Il guaio è che a protestare e a chiedere la squalifica dei Maneskin non è solo qualche migliaio di fan invasati sui social. In gioco entrano anche personalità politiche e dello spettacolo francese di primissimo piano. Un incidente diplomatico vero e proprio. "Se fosse confermato che il candidato italiano ha commesso questo gesto, ci vuole davvero una squalifica. Attendiamo le conclusioni dell’inchiesta! Ma se è vero, squalifica! Se è così stanno le cose la Francia deve vincere! Faccio appello alla tv francese, a Eurovision e Emmanuel Macron", ha attaccato sabato notte su Twitter Cyril Hanouna, seguitissimo e molto vicino anche al presidente Macron. Il ministro degli Esteri francese in persona, Jean-Yves Le Drian, tuona: "È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test". Il quotidiano Paris-Match per primo chiede la squalifica dei Maneskin, e si sparge la voce che la delegazione francese dell'ESC, guidata da France Televisions, sia pronta a denunciare Damiano. Dopo molte ore, scrive Le Parisien, la patron di France Televisions Delphine Ernotte avrebbe però precisato che "non intende sporgere denuncia". Scelta di buon senso che fino a poche ore fa non appariva così scontata. E nonostante le foto diffuse sui social testimoniano come il motivo per cui il cantante italiano si era abbassato sul tavolino non fosse per "pippare", ma per spostare da terra i cocci di un bicchiere di vetro fatto cadere inavvertitamente, anche la grande sconfitta Pravi (forse l'unica autorizzata a essere amareggiata) si era abbandonata ai veleni: "Quello che è vero è che queste sono persone che sono state elette e dal pubblico e dalla giuria. Dopo, se si drogano, se si mettono le mutande sottosopra o qualcosa del genere, non è un mio problema". Se è una riconciliazione, è decisamente goffa. "L'Eurovision - assicura invece Ernotte - è una competizione sana, senza grossi problemi, con molto fair play e amicizia tra le squadre e dobbiamo mantenere quello spirito. Vogliamo vincere, ma saremo felici di andarci il prossimo anno in Italia. E vinceremo". Ci mancavano pure il riferimento al Duce e l'ombra del boicottaggio".

Maneskin, lo zampino di Macron sulla richiesta di squalifica per "cocaina". Tweet nella notte, chi è Cyril Hanouna. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. La macchina del fango contro i Maneskin e Damiano David, accusato di aver "sniffato cocaina" in diretta all'Eurovision Song Contest è partita dalla Francia, delusa per il ribaltone della giuria popolare che ha assegnato la vittoria alla rockband italiana beffando la cantante transalpina Barbara Pravi, in testa dopo il televoto. A Parigi si sentivano il trionfo in tasca e non l'anno presa bene. A scatenare la vergognosa campagna mediatica social contro i Maneskin è però stato soprattutto un uomo di spettacolo, seguitissimo in Francia e molto intimo con il presidente Emmanuel Macron e la moglie Brigitte. Si tratta del comico Cyril Hanouna, che con un tweet notturno ha rilanciato i sospetti su Damiano e ha scritto: "Se fosse confermato che il candidato italiano ha commesso questo gesto, ci vuole davvero una squalifica. Attendiamo le conclusioni dell’inchiesta! Ma se è vero, squalifica! Se è così stanno le cose la Francia deve vincere! Faccio appello alla tv francese, a Eurovision e Emmanuel Macron". Da scherzo e meme social, la questione dunque è diventata diplomatica. A tal punto da indurre il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian a intervenire, in maniera ufficiale: "È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test". Una entrata a gamba tesa senza precedenti, che ha costretto gli organizzatori a commentare quanto accaduto a Rotterdam sabato sera. "Siamo consapevoli delle voci che riguardano il video dei vincitori italiani dell’Eurovision Song Contest nella Green Room di ieri sera - spiega in una nota la European Broadcasting Union -. La band ha fortemente smentito le accuse di consumo di droga e il cantante in questione farà un test antidroga volontario dopo l’arrivo a casa. Lo hanno chiesto loro stessi ieri sera ma non siamo riusciti ad organizzarlo". Alla faccia del "è solo rock & roll". Quando c'è di mezzo la Francia (sconfitta), tutto può accadere.

I Maneskin sono rock? Sì, come Toto Cutugno…Come un sol uomo, la nazione tutta si stringe intorno a Damiano dei Maleskin, accusato di aver usato cocaina nella Green Room in attesa del risultato finale dell’Eurofestival. I tempi sono cambiati: il rock diventa "pulito". Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 24 maggio 2021. Perché è un bravo ragazzo/e nessuno lo può negar. Come un sol uomo, la nazione tutta si stringe intorno a Damiano dei Maleskin, accusato di aver usato cocaina nella Green Room in attesa del risultato finale dell’Eurofestival. L’Italia chiamò: a parte i fan, pronti a marciare su Rotterdam, Cristiano Malgioglio tira giù le braghe e sfoggia un magnifico paio di boxer tricolori; Alessia Marcuzzi, Fabio Fazio, Amadeus, Selvaggia Lucarelli, Francesco Giorgino, per dirne solo alcuni – insomma, uomini di spettacolo e giornalisti seriosissimi – sono pronti a mettere la mano sul fuoco sull’integrità morale di questi ragazzi. Non poteva mancare la chiesa: don Dino Pirri, prete molto amato dai giovani perché diffonde il Vangelo anche sui social, è lapidario: «I Maneskin non sniffano». E se lo dicono i preti. E poi, c’è il sigillo governativo: l’account twitter ufficiale di Palazzo Chigi si congratula per la vittoria. Sventola il tricolore. Manuel Agnelli che li ha sempre sponsorizzati si spinge in una dichiarazione storica: «Da oggi non ci considereranno più solo pizza e mandolino». D’altronde che siano proprio bravi ragazzi lo avevano già dimostrato – cambiando “le parolacce” di Zitti e buoni, come da regolamento del festival europeo; e ci hanno vinto il premio per il miglior testo, prima di vincere quello generale: così, il verso “Vi conviene toccarvi i co**ioni” è diventato “Vi conviene non fare più errori” mentre “Non sa di che caz*o parla”, si è trasformato in un più pacifico “Non sa di che cosa parla”. I giurati hanno premiato le buone intenzioni. E i francesi che s’incazzano – non dovrebbe stupirci più di tanto, lo fanno sempre quando le prendono da noi. Il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha auspicato l’effettuazione di un test antidroga da parte della band. Prima del voto del pubblico, Voilà di Barbara Pravi era alle spalle del brano presentato da Gjon’s Tears per la Svizzera. Al termine delle votazioni (giuria più pubblico) la Francia si è piazzata seconda. Però, gli svizzeri non hanno detto nulla. Paris Match, uno dei settimanali francesi più diffusi, ci va giù d’accetta: «Va detto che le immagini non danno adito a dubbi, anche in mancanza di una prova formale». E i giornali che svolazzano. Il comunicato ufficiale dell’European Broadcasting Union consolida la tesi dei Maneskin: nella Green Room non è successo niente. L’orgoglio italiano si ritrova dopo trentun anni – tanti ne sono passati dalla storica vittoria di Toto Cutugno, 1990, che a sua volta arrivava ventisei anni dopo la storica vittoria di Gigliola Cinquetti, 1964 – in una manifestazione che, per la verità, non è che abbiamo amato mai molto. Dal 1997 al 2011, l’Italia non ha partecipato all’Eurofestival: va detto che all’Eurofestival si entra e si esce con una certa frequenza, quest’anno erano assenti Armenia, Montenegro e Ungheria, che se c’erano chissà come finiva. Nel 1997 dovevano vincere i Jalisse – era quasi dato per certo. E invece arrivarono quarti, dietro la Turchia. Forse per ripicca poi vi rinunciammo – però a viale Mazzini non è che fossero proprio entusiasti dell’idea di poter vincere, che poi sarebbe toccato all’Italia organizzare e sono spese e pensieri, insomma. D’altra parte, già dal 1981 al 1983 la Rai aveva deciso di non partecipare, perché «la manifestazione era di scarso interesse». Mica siamo l’Albania, noi, che lo dà su tutti i canali disponibili. L’Eurofestival è un po’ come Giochi senza frontiere, quel programma voluto dall’Unione europea che andò in onda dal 1965 al 1999, in cui cittadini di questa o quella città europea si sfidavano in giochi bizzarri, elaborazioni complicate di un “rubabandiera” dell’oratorio. Non è stato mai attraversato da polemiche particolari – tranne nel 1969 quando ben quattro nazioni arrivarono ex-aequo e tutte furono proclamate vincitrici e l’Austria si era rifiutata di partecipare perché si teneva nella «Spagna fascista». Neanche la vittoria della drag queen Conchita Wurst nel 2014, creò particolare scandalo. I tempi sono cambiati, signora mia. Ma la droga, no. Così, in uno strano rovesciamento delle cose, il rock diventa “pulito”: niente Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison e la lunga litania di band, dai Beatles ai Rolling, ai Sex Pistols impasticcati, bucati, pippati, ribelli. “Noi siamo contro la droga” – si affrettano a dire i Maneskin, pronti a effettuare un test, se necessario: siamo all’oratorio, no? «Mio papà, dice Damiano, mi ha rimproverato perché ieri l’ho fatto piangere per la seconda volta in un mese» – le due vittorie a filotto: Sanremo e Rotterdam. I figli so’ piezz’ ‘e core – si sa. Comunque, abbiamo vinto qualche cosa. E nei tempi grami del covid, è un sollievo nazionale. L’Italia chiamò.

Toto Cutugno, "sei mesi dopo scoppiò la guerra". Maneskine, cocaina e vergogna francese: una inquietante profezia. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. C'è un filo che lega i Maneskin e Toto Cutugno, ultimo vincitore italiano, 31 anni fa, dell'Eurofestival prima dei ragazzi romani. "Ha vinto un pezzo rock e mi ha fatto molto piacere perché significa che l’Italia può fare tutto", si è complimentato il cantante che oggi ha 77 anni. "Capacità scenica e modo di stare sul palco, sono andati fuori da tutti gli schemi e proprio questa è stata la loro forza", ha commentato. Ai tempi di Cutugno dovevano esserci i Pooh, vincitori a Sanremo 1990, scrive il Corriere della Sera, "ma ci ripensarono. E allora chiesi io di poterci andare da secondo". Allora c'era molta tensione a Zagabria, ricorda Toto, c'era ancora la Jugoslavia: "Nel pomeriggio salii su una mongolfiera contro il parere dei miei discografici. Sbandò e mi vennero a prendere, incavolatissimi". E la sera non portò Gli amori, con cui aveva gareggiato quell’anno, ma scelse un brano Insieme: 1992 dove il cantante raccontava "l’Europa unita prima che si realizzasse". Poco dopo sarebbe scoppiato il conflitto in Jugoslavia. "Quattro ragazzi del coro mi raccontarono dei problemi", prosegue Toto Cutugno, "sei mesi dopo ci fu la guerra e uno di loro è morto. Non posso dimenticarlo". Quella sera però le cose andarono bene: Toto Cutugno infatti riucì a battere, esattamente come adesso, i francesi, rappresentati da tale Joëlle Ursull. E con un copione davvero simile a quello di sabato: "La Francia era prima, io ero terzo o forse quarto e verso la fine l’ho superata". Ma nessun ministro degli Esteri a Parigi allora provò a contestare la sua vittoria, con fantomatiche accuse di uso di droga, come è accaduto per i Maneskin. E si spera che a differenza di allora, non stia per scoppiare nessuna guerra.  

Damiano dei Maneskin, "riportami a casa": brutale umiliazione per i francesi in prima pagina, la pesantissima frase rubata. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Una vergogna francese, quella contro Damiano dei Maneskin, trionfatori all'Eurovision. Come è noto, i transalpini hanno montato una panna rancida contro l'artista, accusato di aver sniffato cocaina davanti a tutti, nel corso della proclamazione. Un assoluto delirio: basta guardare con attenzione il video per comprendere come sia impossibile che Damiano abbia sniffato della cocaina. Ma tant'è, nemmeno di fronte all'evidenza i francesi si sono arresi. Sono piovuti articoli vergognosi che davano il fatto per certo, assodato. E ancora, interventi di ministri e politici che, altrettanto, non avevano dubbio alcuno: Damiano aveva pippato. Inspiegabile. Vergognoso. Dunque le accuse della stessa televisione che trasmette l'evento, che ha però fatto sapere nella tarda mattinata di lunedì 24 maggio che non denuncerà il cantante. Cara grazia...Il povero Damiano, in tutto ciò, sta per sottoporsi a un test anti-droga con cui fugare in modo definitivo ogni sospetto e dimostrare che di cocaina non ne pippa, men che meno in favor di telecamera agli Eurovision. E su questa vicenda, ecco piovere l'inarrivabile ironia di Osho, sulla prima pagina del Tempo, il quotidiano capitolino diretto da Franco Bechis. Il titolone della foto di prima riporta: "Il trionfo Maneskin non vi giù ai francesi". E a corredo ecco la Gioconda, il capolavoro di Leonardo Da Vinci da sempre al centro di una contesa tra Italia e Francia, con i secondi che se lo tengono ben stretto. E nella libera interpretazione di Osho, ecco che la Monnalisa, rivolgendosi al frontman dei Maneskin, afferma: "Damià, riportame a casa insieme a Marlena". E chi ha orecchie per intendere, intenda...

Maneskin, Matteo Salvini contro la Francia: "Ma chi lo dice ai francesi?", caso chiuso con sfottò. su Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. "Bisogna saper perdere". Matteo Salvini, sui social, cita una vecchia canzone dei Rokes, band di culto del beat italiano anni Sessanta, per commentare quanto sta accadendo intorno ai Maneskin e all'Eurovision Song Contest. Sabato sera, a Rotterdam, la giovanissima rockband romana vince grazie alla giuria popolare, ribaltando il televoto che dava la francese Barbara Pravi in testa. Subito dopo il verdetto, i telespettatori transalpini pensano bene di guardare la festa agli italiani facendo diventare virale un video (palesemente falso, anche se equivocabile) in cui Damiano David, cantante dei Maneskin, si china sul tavolo. "Sniffa cocaina", è la tragicomica accusa, cavalcata però anche da autorità di primo piano d'Oltralpe, a partire dal comico Cyril Hanouna che si è appellato al presidente Macron (a cui è considerato molto vicino) per chiedere la squalifica degli italiani. Del caso si è occupato addirittura il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, tuona: "È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test". Si arriva al punto da costringere Damiano a sottoporsi a un test anti-droga volontario al rientro in Italia, mentre la delegazione francese minaccia addirittura di denunciare il cantante. Ora che tutto sembra lentamente (troppo lentamente...) rientrare e che la delirante bolla social si sta afflosciando, non resta che compatire simpaticamente i cugini, mai tanto amici. "Bisogna saper perdere - scrive Salvini -. Chi lo spiega ai francesi?!?". Quindi il leader della Lega si fa molto più serio: "Bravo Damiano e bravi Måneskin, le vostre parole contro le droghe siano di esempio a molti".

Eurovision, l'accusa alla cantante francese dopo il cocaina-gate: "Copiona, da dove arriva quel testo".  Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Cristiano Malgioglio è stato una delle più belle sorprese dell’Eurovision Song Contest 2021, vinto dai Maneskin e trasmesso in diretta su Rai1, che ha fatto registrare un vero e proprio boom di ascolti. Malgioglio è stato sul pezzo e ha anche aggiunto quella nota di colore e leggerezza necessaria in una trasmissione del genere. Ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno, ha affrontato ovviamente anche la polemica innescata dalla Francia su Maneskin. In particolare Damiano David è stato accusato di aver sniffato cocaina in eurovisione, mentre attendeva la proclamazione del vincitore della kermesse canora europea: una follia pura, smentita sia dalle immagini che dalle testimonianze degli organizzatori. Addirittura alcune trasmissioni televisive francesi hanno interpellato il ministro degli Esteri e chiesto la squalifica dei Maneskin, salvo poi iniziare a ritrattare una volta compresa la figura barbina a livello internazionale. Malgioglio ha risposto al fuoco francese accusando la loro cantante di essere una “copiona”. “Dolce, stupenda, bella voce”, ha ammesso riguardo a Barbara Pravi, salvo poi aggiungere diverse stoccate: “Quando l’ho vista ho pensato che stesse partecipando a Tale e Quale Show, mi sembrava una Edith Piaf. Ma a differenza della Piaf che aveva questo dolore in gola, lei aveva una voce molto pulita. In quella canzone c’era un po’ di tutto. Quando ha cominciato a cantare ‘voilà, voilà, voilà’ mi ha ricordato ‘padam, padam, padam’ della povera Piaf o ancora mi ricordava ‘manì, manì, manì’. Orrenda. Chi mi conosce sa benissimo che io non mi tengo niente”.

Da repubblica.it il 24 maggio 2021. "Nessun consumo di droga è avvenuto nella Green Room e riteniamo chiusa la questione". Così l'Ebu, European Broadcasting Union, che promuove e organizza l'Eurovision Song Contest mette fine alla vicenda che ha coinvolto i Maneskin e Damiano in particolare per alcune immagini in cui sembrava stesse sniffando durante la diretta tv della finale vinta dalla band romana. "A seguito delle accuse di consumo di droga nella Green Room dell'Eurovision Song Contest Grand Final di sabato 22 maggio, l'European Broadcasting Union (Ebu), come richiesto dalla delegazione italiana, ha condotto un esame approfondito dei fatti, controllando anche tutti i filmati disponibili", si legge nel comunicato ufficiale reso noto poco fa. "Un test antidroga è stato anche fatto volontariamente nella giornata di oggi dal cantante del gruppo Maneskin che ha restituito un risultato negativo visto dall'Ebu - si legge ancora -. Siamo allarmati dal fatto che speculazioni imprecise che portano a notizie false abbiano oscurato lo spirito e l'esito dell'evento e influenzato ingiustamente la band. Ci congratuliamo ancora una volta con i Maneskin e auguriamo loro un enorme successo. Non vediamo l'ora di lavorare con il nostro membro italiano Rai alla produzione di uno spettacolare Eurovision Song Contest in Italia il prossimo anno". E la Francia ha fatto sapere che non sporgerà reclamo sulla vittoria della band romana "perché l'Italia non ha rubato la vittoria", ha detto la numero uno di France Télévisions, la tv pubblica francese, Delphine Ermotte, nel corso di un'intervista al quotidiano Parisien. "Il voto è stato estremamente chiaro in favore dell'Italia - ha sottolineato Ermotte - La vittoria non è stata rubata ed è questo ciò che conta". La dirigente ha sottolineato che "l'Eurovision è una competizione sana, senza colpi bassi, con molto fair-play e amicizia tra le squadre e bisogna conservare questo spirito". Nessun dubbio, secondo la manager, che sarà la Francia, seconda classificata quest'anno, a trionfare il prossimo anno in Italia. "Vogliamo vincere, ma l'anno prossimo andremo con piacere in Italia. E vinceremo con lealtà, senza bisogno di reclami", ha concluso.

Maneskin, "Damiano ha fatto il test antidroga": dagli organizzatori dell'Eurovision, l'umiliazione finale della Francia. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Il cocaina-gate è un capitolo definitivamente chiuso. Damiano David, frontman dei Maneskin freschi vincitori dell’Eurovision Song Contest 2021, si è sottoposto volontariamente a un test antidroga dopo che la stampa francese lo aveva accusato di aver sniffato cocaina indiretta. Un’accusa folle e infamante, avvalorata con alcuni frammenti di immagini che potevano sembrare equivoche a un primo sguardo. “A seguito delle accuse di consumo di droga nella Green Room dell’Eurovision Song Contest Grand Final di 22 maggio - si legge nel comunicato ufficiale degli organizzatori di Ebu - abbiamo condotto un esame approfondito dei fatti”. Sono stati controllati tutti i filmati disponibili, come richiesto in primis dalla delegazione italiana che non poteva credere alle accuse infamanti e assolutamente false mosse dalla Francia. “Un test antidroga è stato anche intrapreso volontariamente nella giornata di oggi dal cantante del gruppo Maneskin che ha dato esito negativo visto dall’Ebu”, si legge nel comunicato. “Nessun consumo di droga è avvenuto nella Green Room e riteniamo chiusa la questione”, ha aggiunto l’Ebu. Che poi ha rifilato una stoccata non indifferente alla Francia, che dovrebbe chiedere scusa e vergognarsi e non semplicemente prendere atto della vittoria onesta dell’Italia. “Siamo allarmati - hanno scritto gli organizzatori - dal fatto che speculazioni inesatte che portano a notizie false abbiano oscurato lo spirito e l’esito dell’evento e influenzato ingiustamente la banda. Ci congratuliamo ancora una volta con i Maneskin e auguriamo loro un enorme successo. Non vediamo l'ora di lavorare con il nostro partner italiano Rai alla produzione di uno spettacolare Eurovision Song Contest in Italia il prossimo anno”.

Da open.online il 24 maggio 2021. La Francia adesso ci ripensa. Dopo essere arrivata seconda all’Eurovision, e aver accusato i vincitori, i Maneskin, di aver fatto uso di cocaina durante la diretta, ha deciso che «non intende sporgere denuncia». La notizia, riportata da Le Parisien, arriva da Delphine Ernotte, patron di France Televisions, che gestisce la delegazione francese. La bufera tiene ancora banco, così Damiano, frontman della band italiana, ha fatto sapere che si sottoporrà volontariamente, insieme ai suoi colleghi, al test antidroga, dopo che il video che lo ritrae mentre si avvicina col capo chino a un tavolo – e che è stato ritenuto ambiguo – è diventato virale. E dopo le insinuazioni fatte in conferenza stampa: «Non è vero, per favore, non ditelo», aveva commentato. «L’Eurovision è una competizione sana, senza grossi problemi, con molto fair play e amicizia tra le squadre e dobbiamo mantenere quello spirito», continua il tecnico Ernotte. «Vogliamo vincere, ma saremo felici di andarci il prossimo anno in Italia. E vinceremo». Anche Barbara Pravi, arrivata seconda alla competizione con Voilà, si è staccata dalle polemiche. «Queste sono cose che non mi riguardano. E soprattutto quello che è vero è che queste sono persone che sono state elette e dal pubblico e dalla giuria. Dopo, se si drogano, se si mettono le mutande sottosopra o qualcosa del genere, non è un mio problema», ha detto. Intanto ieri la band italiana è atterrata a Fiumicino. Grida di gioia e applausi hanno accolto i cantanti, stanchi ma felici, all’aeroporto. Dopo 31 anni, l’Italia è tornata vittoriosa alla competizione europea di musica leggera.

Marco Molendini per Dagospia il 23 maggio 2021. Fuochi d'artificio, titoloni sui giornali (sul tono: ha vinto l'Italia delle otto milioni di canzonette e ha sconfitto i francesi, per i cugini transalpini una sorta di nuova Waterloo), gran trionfalismo digitale fra siti e social. Cosa è successo? I Maneskin dopo Sanremo hanno trionfato all'Eurovision song contest (più semplicemente identificabile come Eurofestival) sempre con la stessa canzone, Zitti e buoni. Un successo, non c'è dubbio: ma dei quattro ragazzi romani, non del Paese. Di gara canora si tratta e neppure di alto profilo. E poi che senso ha giudicare la musica per la bandiera che l'accompagna? Il patriottismo è un sentimento ridicolo in questo caso, se vince un gruppo o un artista italiano non c'è nessun progresso e la nazione non ne trae alcun vantaggio. E' lo stesso atteggiamento provinciale di quando si sventolano con orgoglio le classifiche di vendita (sia pure al lumicino) gioendo se la topten è occupata solo da titoli italiani: l'autarchia musicale è un regresso, il talento non ha passaporto. Perché dovrebbe essere meglio ascoltare una canzone dei Maneskin che di Bruce Springsteen o degli U2? Ancora peggio è il tifo per una gara musicale, specie se questa gara è notoriamente una baracconata, un Giochi senza frontiere (infelice sagra paesana basata su giochi scemi che doveva sancire l'unità continentale televisiva) a cui partecipano una sfilza di canzoni che battono bandiera, come se in ballo ci fossero i destini delle nazioni. Per lo più, dal punto di vista musicale ci si muove in un territorio ristretto i cui confini sono il trash e il kitsch, un rosario di scontatezze, messe in scena circensi, un totale appiattimento sui canoni della musica che più scontata non si può, una serie di esibizioni da serie C, dove i momenti in grado di sollevare un minimo di curiosità sono come l'acqua nel deserto. Una parata smisurata dove, anche quel poco di buono o di accettabile che c'è è all'insegna della fuga dall'originalità. L'inzeppamento dei partecipanti, con la scusa di rappresentare un paese, lascia spazio perfino a nazioni che hanno una tradizione musicale lontana dai canoni occidentali (come l'Armenia o l'Azerbajan, tanto per dirne un paio). Viene infilata addirittura l'Australia che, se non sbagliamo, fa parte di un continente che si chiama Oceania. E non è Europa neppure Israele. Così, alla fine a contare è il televoto inquinato da quella forma insana di patriottismo musicale. I Maneskin hanno vinto, ma non cambieranno i destini della patria. Possono piacere o meno, basta sapere che non sono la rivoluzione del rock (e probabilmente neppure il rilancio). Si dovranno accontentare dell'esposizione che hanno avuto e dei benefici che questo porterà alla loro popolarità (dubito che si aprano mercati internazionali, Azerbaijan compreso), dell'impulso alla vendita dei biglietti per il loro tour (partirà il 14 dicembre dal Palazzo dello sport dell'Eur), dei titoli dei giornali, dei servizi fotografici. Quanto alla Rai, incassa un buon ascolto (il tifo di stampo calcistico funziona, il 27 per cento di share in più dell'anno scorso), ma eredita qualche grattacapo, nel senso che organizzarlo (tocca sempre al vincitore) significa correre il rischio di rimetterci dei soldi. Nel 2019 Israele ha speso 28,5 milioni di euro, l'anno prima il Portogallo 23,5 al lordo di un contributo di qualche milione (tre i 4 e i 6): ci saranno gli sponsor e l'indotto, ma per l'ente televisivo organizzatore far quadrare i conti non sarà facile.

Francesco De Remigis per “il Giornale” l'1 settembre 2021. Di François Mitterrand si pensava che si fosse già detto tutto, raccontato più di quanto provato e ipotizzato ogni forma di gossip. Chiacchiere, voci, strampalati pettegolezzi regalati alla cinematografia e talvolta informazioni riservatissime consegnate alla storia dai diretti protagonisti. Nulla però di paragonabile (e di così indigeribile per una certa sinistra moralista col letto degli altri) all'ultimo sexgate: e cioè un'altra relazione extraconiugale del socialista per antonomasia, oltre a quella già documentata con Anne Pingeot. Stavolta con una studentessa 19enne da cui lo separavano cinquant'anni di età, conosciuta quando Mitterrand era proiettato verso il secondo mandato all'Eliseo. Non trattandosi di Serge Gainsbourg, artista a cui tutto è stato concesso e perdonato, né di Michel Foucault, filosofo la cui vita privata è stata sbianchettata per non turbare generazioni di intellò, ma del «grande presidente» francese dal 1981 al 1995, la rivelazione di questi ulteriori «istanti rubati al tempo» ha risvegliato una Francia alle prese con zaini di scuola e ragazzi che domani tornano in classe. É tutto svelato in un libro, che «combina ritratti, dialoghi, ricordi, pranzi all'Eliseo, serate, letture, passeggiate sulle rive della Senna, corrispondenze» di cui sono circolate le primissime anticipazioni. Autrice del volume, è l'inviata del quotidiano Le Monde Solenn de Royer. Il 6 ottobre sarà in libreria e promette di rovesciare l'attitudine del socialista a tenere distanziata la politica dal letto. Intitolato L'ultimo segreto del presidente, il libro ricostruisce fatti inediti: «Nel 1988, Claire incontra Mitterrand. Lei studentessa di diritto, lui presidente della Repubblica. Cinquant' anni di vita li separano. Si ameranno di nascosto, fino alla fine, nel 1996». Dentro, i personaggi chiave dell'epoca; porte chiuse, anzi sigillate dal silenzio degli apparati che per anni hanno mantenuto il «segreto» difendendo l'onorabilità della massima istituzione francese. Nel 2016, Gallimard aveva già pubblicato Lettres à Anne, 1.218 corrispondenze che Mitterrand inviò all'amante più nota dopo averla conosciuta nel '62 (lui senatore 47enne con moglie e figli, lei neanche 19enne): era la Pingeot, compagna clandestina per 33 anni e madre di Mazarine (la figlia nascosta alla Francia, rivelata da Paris Match nel '94). L'ultimo segreto proietta invece nuove ombre sulla tumultuosa vita sentimentale dell'ex capo dello Stato. «Un racconto di un amore e al tempo stesso la storia di un regno», si legge nella presentazione choc dell'editore Grasset. Non in una scappatella come quella che vide il suo erede politico all'Eliseo François Hollande farsi beccare dai fotografi mentre raggiungeva l'amante Julie Gayet in scooter; Mitterrand ha sempre mantenuto un riserbo totale, con una seconda famiglia nell'ombra ed una pubblica per tranquillizzare la Francia benpensante. Quella con «Claire» è un'ulteriore relazione, parallela alle altre e duratura, dal 1988 fino al suo capezzale, che stona con l'abito da fascinoso equilibrista del cuore. Per mezzo secolo si è discettato sul vorticoso privato mitterrandiano, dalla presunta relazione con la cantante Dalida tra il '79 e l'81 alle altre. Ma senza ledere mai, agli occhi della sinistra, l'onorabilità della «Sfinge». Stavolta il castello scricchiola tra rumors e realtà, flirt e love story. Architetto della Grande Europa e incallito dongiovanni. 

Cesare Martinetti per “la Stampa” il 7 maggio 2021. Il primo a far fuoco è stato il filosofo di estrema destra Michel Onfray sul Figaro: «Mitterrand ha ucciso la sinistra con un fucile a due colpi». L' ultimo, ieri, Nicolas Sarkozy con una sterminata intervista a Le Point: «Molti avevano capito il genocidio che stava per compiersi in Ruanda, non al vertice dello Stato, né il capo di stato maggiore, né il presidente Mitterrand». Dopo il 5 maggio arriva il 10 e dopo Napoleone Bonaparte, dal calendario degli anniversari spunta François Mitterrand. Era giusto il 10 maggio 1981, quando fu eletto presidente e in Francia si affermò la «forza tranquilla» dell'uomo riuscito nell' impresa storica di unire la sinistra in un «programme commun». La festa fu di un'intensità emotiva pari a quella della liberazione. Si diffuse l'espressione: «Mitterrand, du beau temps». Ma il passato è implacabile, l'uso politico che si fa della storia mai innocente. Mercoledì, mentre Marine Le Pen deponeva una corona di fiori sotto il monumento a Bonaparte in place Vendôme («Il destino della Francia è nella sua grandeur»), Emmanuel Macron si destreggiava con l'inevitabile omaggio per l'imperatore: «Napoleone è parte di noi», «costruttore e legislatore» e se la schiavitù fu un suo «errore», fu «la stessa Francia a ripararlo». Materia per storici e appassionati. Con Mitterrand è un po' più difficile perché siamo sulla carne viva della Quinta Repubblica, quella tuttora in esercizio. Quarant' anni sono tanti e son niente, i mitterrandiani sono tra noi, nel suo nome si combatte un'aspra battaglia politica che dice del presente più che del passato. La destra è all' attacco di una figura indecifrabile, con un labirintico percorso che va dalla Francia filo-nazi di Vichy, alla resistenza, dall' Algeria francese, all' appoggio ai movimenti post coloniali. Un enigma con il quale le semplificazioni del presente fanno male i conti, uno spirito «florentin» (che in francese significa machiavellico) che gli ha permesso di appropriarsi di quel ruolo che il generale De Gaulle aveva ritagliato per sé. Un' acrobazia se si pensa che aveva definito quel sistema un «coup d' état permanent» (un colpo di stato permanente). Ma se è più che naturale vedere la destra all' attacco, perché la sinistra tace? «Eredità troppo ingombrante - risponde il politologo Marc Lazar -. L' immagine di leader della sinistra è andata distrutta negli anni, Mitterrand appare oggi come una figura ambivalente e questo spiega perché non ci sia nessun entusiasmo, anzi un palpabile imbarazzo. Lionel Jospin che prese il suo posto alla guida del Ps , aveva annunciato nel 1995 un "dovere di inventario" che non è mai stato fatto e oggi la sinistra è ai minimi storici». Ma accade in tutta Europa secondo un sondaggio realizzato nei grandi paesi: in Francia la sinistra ha il minimo di adesioni, 24 per cento; l' Italia il massimo, 31 per cento. Alla Bastiglia ci sarà una mostra di fotografie. Da qualche parte una lettura di poesie del presidente che si voleva anche finissimo letterato. Ma l' iniziativa più interessante è quella organizzata da Marc Lazar a Sciences-Po con l' Institut Mitterrand, una giornata di studio sul leader politico diventato presidente. L' evento sarà online sul sito sciencespo.fr con i big dell' epoca (Fabius, Védrine, Chévènement) storici e studiosi, a rappresentare una gamma di giudizi anche molto differenti: «Mitterrand - ci dice Gaëtan Gorce, segretario dell' Istituto - ha suscitato sentimenti divisivi, a destra come a sinistra, ammirazione e odio. Ma diffonderemo un sondaggio sul sentimento dei francesi e si vedrà che nel profondo del paese resta qualcosa di molto forte, un' affezione particolare». Forse per quel carisma presidenziale che al di là delle sfumature politiche nessuno dei suoi successori ha saputo incarnare. L' idea di un «presidente-monarca», come dice Lazar, che però ora si scontra con le rivelazioni della storia. Un mese fa la commissione di indagine istituita da Macron sul genocidio in Ruanda ha denunciato l' appoggio che Mitterrand diede al regime di Juvénal Habyarimana, poi responsabile della strage degli 800 mila tutsi dopo l' assassinio del presidente nel 1994. Non complicità, ma una «pesante» responsabilità politica frutto di quell' «accecamento» che Sarkozy attribuisce ora a Mitterrand. I posteri giudicheranno se fu vera colpa, intanto la politica urge e nessuno da sinistra rievocherà la festa perduta del 10 maggio 1981 né andrà al voto dichiarandosi erede di quell' uomo misterioso.

Da Agi.it il 5 maggio 2021. Un agricoltore belga ha spostato la pietra di confine con la Francia di oltre due metri, apparentemente perché infastidito dalla lastra che si trovava sul percorso del suo trattore. L’estensione de facto del territorio belga - riportata dalla stampa locale di entrambi i Paesi interessati e ripresa dal sito della Bbc - è stata scoperta da un appassionato di storia mentre passeggiava tra i boschi al confine franco-belga di Bousignies-sur-Roc, comune francese nel nordest dell’Esagono. La pietra di confine risale al 1819, pochi anni dopo la sconfitta Napoleone Bonaparte alla battaglia di Waterloo, quando fu delimitata per la prima volta la frontiera tra la Francia e l’attuale Belgio. Il contadino belga, spostando la pietra di 2 metri e 29 centimetri, “ha reso il Belgio più grande e la Francia più piccola”, ha detto David Lavaux, sindaco del villaggio belga di Erquelinnes, al canale televisivo francese Tf1. Il primo cittadino ha poi ricordato con ironia il momento in cui ha appreso la notizia: “Ero felice, la mia città sarebbe stata più grande, ma il sindaco di Bousignies-sur-Roc non era d’accordo”. Le autorità locali belghe - a quanto riferisce la testata Sudinfo - intendono ora contattare l'agricoltore per chiedergli di riporre la pietra nella sua posizione originale. In alternativa, il caso potrebbe finire sulla scrivania del ministero degli Esteri belga, che dovrebbe convocare la commissione di frontiera franco-belga, organismo dormiente dal 1930. Il sindaco Lavaux ha osservato che l'agricoltore potrebbe anche affrontare conseguenze legali, qualora non dovesse collaborare con le autorità. Tuttavia, “se mostrerà buona volontà, non avrà problemi e risolveremo la faccenda amichevolmente”, ha concluso il primo cittadino.

Il confine spostato di 2 metri e 29 cm: cosa succede in Francia. Francesca Galici il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Il trattore non passa: contadino sposta una pietra dal suo campo ma non sa che quello è il confine di Stato. Ecco cosa rischia l'uomo. Cosa succede a spostare un sasso che disturba la traiettoria del proprio trattore? Di solito nulla, in Belgio rischia di innescare un caso diplomatico internazionale con la Francia. La questione è nata per caso, perché un appassionato di storia di storia che passeggiava nei boschi al confine tra i due Paesi ha notato l'anomalia e riportato tutto alle autorità. Il caso è stato trattato dalla BBC e ora i due Paesi devono capire in che direzione muoversi perché, di fatto, quella pietra rappresenta il confine di Stato, che ora è stato spostato di 2,29 metri in avanti per il Belgio, riducendo lo spazio territoriale francese. La pietra si trova lungo il confine che corre nei pressi della cittadina francese di Bousignies-sur-Roc, nella parte nord-ovest del Paese. Non è ben chiaro quando sia stata spostata dall'agricoltore, ma si sa quando è stata posizionata: nel 1819. Napoleone Bonaparte aveva da pochi anni perso la ben nota battaglia di Waterloo e si stavano delimitando per la prima volta i confini dei due Stati. Quella pietra è uno degli indicatori che sono stati posizionati per la determinazione dei limiti dei due Paesi e probabilmente il contadino non ne era a conoscenza quando, visto che intralciava il suo lavoro nei campi, ha deciso di portarla qualche passo più in là, in modo tale che quando si trova a passare col trattore questo non incontrasse ostacoli. "Ha reso il Belgio più grande e la Francia più piccola", ha detto David Lavaux, sindaco del villaggio belga di Erquelinnes, al canale televisivo francese Tf1. Certo, i diretti interessati hanno accolto con ironia quanto accaduto, soprattutto il sindaco belga, il cui villaggio ha 2,29 metri in più di territorio. Tuttavia, anche se in apparenza può sembrare una questione irrilevante, quella pietra è effettivamente un simbolo di confine e deve tornare al suo posto. Le autorità belghe vogliono tentare di convincere il contadino a posizionare nuovamente la pietra laddove è sempre stata, almeno negli ultimi 200 anni. Nel caso in cui l'uomo dovesse rifiutarsi di adempiere, il caso potrebbe essere oggetto di discussione presso la Commissione di frontiera franco-belga. Quest'organismo non viene convocato da quasi 100 anni e per l'agicoltore in quel caso potrebbero nascere anche problemi legali per il mancato adempimento. Il sindaco belga, però, è fiducioso che tutto si concluderà nel migliore dei modi, perché "se mostrerà buona volontà, non avrà problemi e risolveremo la faccenda amichevolmente".

La storia (complessa) delle relazioni tra Italia e Francia. Andrea Muratore, Emanuel Pietrobon su Inside Over il 3 maggio 2021. La “sfida francese” sta condizionando profondamente, da tempo, l’Italia e la sua azione in campo europeo ed internazionale. Il dualismo con Parigi è la storia di un’alleanza asimmetrica, di un rapporto in cui la potenza transalpina è al contempo amica e avversaria latente (o palese) del nostro sistema-Paese, tende ad ergersi in maniera esplicita per proiettare oltre le Alpi la sua influenza politica ed economica, mira a fare dell’Italia al tempo stesso un alleato ed un satellite. Troppo spesso l’Italia, oggi come in passato, ha giocato con timore reverenziale e pavidità questa partita, che offre, però, la possibilità di costruire le basi di un triangolo portante dell’Europa che, assieme alla Germania, ne indirizzi geopolitica ed economia. Questo triangolo permetterebbe all’Italia di giocare da soggetto delle dinamiche continentali, anziché che da oggetto, e all’interno di un rapporto franco, e non subordinato, con la Francia, a patto, però, di smussare i numerosi fattori di contrapposizione con essa. Per comprendere i motivi conduttori dell’antica rivalità italo-francese, nonché per avere una panoramica estesa ed approfondita delle similitudini e delle differenze che accomunano e distinguono i cugini delle Alpi, abbiamo raggiunto lo scrittore, professore universitario ed economista Giuseppe Sacco.

Professor Sacco, l’Italia è presa dal continuo dualismo della “sfida francese”: cooperazione e competizione si confondono in un tutt’uno nella relazione tra noi e la Francia. Parigi sembra avere un’idea chiara di quel che vuole da Roma, che vede come un importante junior partner da attrarre a sé come satellite con cui controbilanciare Berlino, ma Roma sa cosa vuole da Parigi?

I problemi tra l’Italia e la Francia, come testimoniato dalle continue e numerosissime invasioni francesi della Penisola, sono molto antichi. Una storica aggressività di Parigi contro il nostro Paese è evidente e, in passato, non dissimile da quella di altre popolazioni europee, soprattutto germaniche. Ed è anche facile da spiegare: l’Italia non solo è stata per molti secoli il Paese più ricco del mondo, e quindi una preda allettante, ma anche un Paese che un esercito invasore poteva attraversare senza dover superare zone desertiche, dove sarebbe difficile trovare nutrimento. Più di recente, tuttavia, l’ostilità ha avuto motivazioni differenti e, se ci si pone in una prospettiva tipicamente francese, comprensibili. La Francia è, storicamente, un Paese molto particolare nel contesto europeo. È stata per molti secoli, sin dai suoi inizi, un pays de royauté, cioè, politicamente, un Regno; e questo significava una posizione di rottura nei secoli in cui era prevalente la concezione medioevale dell’Impero unico, comprendente tutto il corpus christianum. Anche come regime interno, la storia della Francia è quella di un lungo processo di omogeneizzazione culturale più o meno forzata dei vari gruppi etnico-linguistici presenti sul suo territorio e di centralizzazione politica, mentre la tradizione imperiale era vista come una tradizione di diversità e di libertà; intesa, ovviamente, come libertà locali, non come libertà personali.

Quindi la Francia dell’Ancien Régime è stata anch’essa un Paese rivoluzionario, molto prima della Rivoluzione francese?

I francesi hanno a lungo percepito se stessi come un popolo ideologicamente “diverso” e militarmente assediato. I Re francesi hanno così sviluppato una sindrome che ha raggiunto il suo punto massimo all’epoca di Carlo V, quando – in aggiunta al mai risolto conflitto con l’Inghilterra, che di fatto le ha impedito di trarre dal suo lunghissimo litorale ogni possibile beneficio marittimo, militare, commerciale o coloniale – il nemico germanico premeva da Est, i Paesi Bassi del Nord erano parte dell’Impero, e gli spagnoli, di cui Carlo V era re, stringevano la Francia sui Pirenei. E il fatto che il Gran Cancelliere di Carlo V, in pratica il Ministro degli Esteri, fosse un piemontese, Mercurino Gattinara, li inquietava non poco. L’idea della formazione di uno Stato nazionale unitario, al di là delle Alpi, molto più popoloso, molto più ricco e molto più sofisticato dei regni iberici, terrorizzava le classi dominanti transalpine. Questa sindrome non è mai morta; anzi, a guardar bene, è visibile persino oggi. Soprattutto, anche senza andare così indietro, limitandosi agli ultimi 150 anni, cioè dall’unificazione nazionale dell’Italia ad oggi, questa ossessione della politica estera francese viene resa evidente dal fatto che mai è stato perdonato a Napoleone III di essere entrato in guerra contro l’Austria insieme al Piemonte (anche se poi lo ha tradito immediatamente) con il disegno di creare una specie di Belgio padano, un buffer state, uno stato cuscinetto, e di avere così grossolanamente sbagliato la valutazione del sentimento nazionale italiano da finire per favorire quello che sarà il nostro Risorgimento nazionale. Ancora oggi, l’idea dell’Italia frammentata in più staterelli fa sognare i Francesi, basta vedere l’attenzione dedicata dalle scuole di scienze politiche ai vaneggiamenti separatisti della Lega della prima ora, e persino alle risibili ambizioni dell’attuale erede dei Borboni delle Due Sicilie di un possibile ritorno a Napoli, come sovrano. Non a caso, la televisione francese lo ha mostrato mentre rispondeva allo scetticismo di un intervistatore: “Cosa ci sarebbe di strano? Anche mio cugino è tornato sul trono di Spagna!”. Del resto, subito dopo la guerra, persino un grande statista come De Gaulle si fece attrarre dal sogno di prendersi una provincia italiana. Ma l’accoglienza che la popolazione della Valle d’Aosta riservò ad una sua visita, lo convinse rapidamente a lasciar perdere.

Gli interessi di Roma e Parigi nell’arena internazionale sono destinati a collidere o, in qualche modo, a coincidere anche solo parzialmente?

Gli obiettivi internazionali di Francia e Italia sono del tutto incomparabili. In comune hanno soltanto un fatto difficilmente discutibile: quello di essere entrambe, come tutta l’Europa, dominate in maniera soverchiante dalla Germania. L’asse franco-tedesco è poco più di una foglia di fico che dovrebbe nascondere all’opinione pubblica internazionale da un lato la debolezza di Parigi e dall’altro il ruolo imperiale di Berlino. A differenza dell’Italia, però, la Francia cerca di rivalersi come può dell’evidente asimmetria franco-tedesca. E cerca di farlo soprattutto fuori dall’Europa, mirando al recupero della parte africana del suo ex impero coloniale. Parigi presenta questo disegno restauratore, questa rinnovata tendenza imperialistica, sotto la fictio di voler ricreare un’area internazionale francofona. Ma in realtà, dietro a questo, si cela un disegno neocoloniale. E, per di più, facendo riferimento all’elemento linguistico, la Francia può anche sperare di impadronirsi, tra l’altro, dei territori che furono del Belgio, come il Congo, enorme e ricchissimo di risorse da mettere in valore. In Europa, le sue possibili ambizioni potrebbero rivolgersi principalmente alla parte meridionale dello stesso Belgio, la Vallonia, che verrebbe a formare tre nuovi dipartimenti. La Francia neo-imperiale, insomma, può trovare spazio soprattutto fuori dall’Europa: oltre che nei Paesi francofoni, puntando alle potenzialità dei fondali oceanici. E questa non è poca cosa: anzi, soprattutto a partire dagli anni ’70, man mano che le risorse terrestri diminuivano, i fondali oceanici hanno suscitato crescente interesse in quanto serbatoi di risorse sia energetiche che alimentari. Infatti, pur costretta dalle circostanze della Guerra Fredda a rinunciare alle proprie colonie in Indocina e Nord Africa, la Francia – a differenza dell’Inghilterra, altra grande potenza coloniale – ha mantenuto la sovranità su un gran numero di territori d’oltremare, in genere piccole e piccolissime isole, i cosiddetti “coriandoli dell’Impero”, sparpagliati e diffusi ai quattro angoli del pianeta. E questo l’ha enormemente favorita quando i fondali oceanici sono stati spartiti tra i Paesi rivieraschi, cosicché, con undici milioni di chilometri quadrati, la Zona Marittima Economica Esclusiva di Parigi è la seconda al mondo per dimensioni dopo quella di Washington. Per di più, dato che Washington non ha ratificato la convenzione di Montego Bay, che regola questa materia, Parigi finisce per essere il principale Paese marittimo all’interno degli organismi delle Nazioni Unite.

Quindi la Francia ha orizzonti assai più ampi di quelli europei, e molto diversi da quelli dell’Italia.

Assolutamente. L’Italia non ha, e non può avere, nessuna ambizione e possibilità di questa scala, né di questo tipo, e non può in alcun modo essere confrontata alla Francia. Questo, però, non significa che l’Italia non abbia interessi in conflitto con le ambizioni della Francia. Per esempio, l’Italia è stata duramente danneggiata dall’assassinio e del cambio di regime in Libia, voluti e organizzati dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Gheddafi, infatti, aveva capito che con l’Italia si poteva andare d’accordo, anche perché, come dichiarò esplicitamente in un’intervista ad un quotidiano tedesco, “gli italiani sono l’unico popolo europeo che non ha nostalgia del colonialismo”. Non si sbagliava: per questo era diventato un grande sostenitore dell’amicizia tra i due Paesi. Ed è per questo che ha perso la vita. Per quel che riguarda i rapporti con la Francia, troppo spesso l’Italia, oggi come in passato (con la sola eccezione dell’anno in cui il nostro ambasciatore a Parigi fu Giuseppe Saragat, il futuro presidente della Repubblica) ha giocato con timore reverenziale e pavidità nei rapporti bilaterali. Basti pensare alla pluridecennale, ma anche recentissima, vicenda dei criminali e terroristi italiani ospitati in Francia, arrestati solo per dare un contentino all’opinione pubblica francese di estrema destra, che proprio nei giorni immediatamente precedenti aveva dato dei pericolosi segni di vita. Questi arresti sono stati presentati da qualche “esperto di geopoliica” da due soldi come una manovra per favorire una sorta di Patto a tre assieme all’Italia e alla Germania, di cui peraltro sembra difficile che si concretizzino veramente le condizioni.

Può spiegarci quali sono le principali differenze tra i due cugini delle Alpi?

Per semplificare, si tenga presente che quando uno parla della Francia sta parlando di uno Stato, mentre se parla dell’Italia sta parlando tutt’al più di una Società. Si tratta di due cose diverse: il primo è un concetto storico-giuridico, il secondo un concetto sociologico-culturale. E – come tutti sanno – la tradizione statale italiana è assai breve, mentre quella francese è lunghissima, di fatto la si può far risalire a circa mille anni or sono – forse persino di più, a seconda di come si legge la storia. Ma c’è di più. In Francia lo Stato condiziona fortemente la Società, mentre ciò non si può dire dell’Italia. In quanto Stato, la Francia pone grande attenzione alla tutela non sono degli interessi economici e politici della Società, ma anche alla preservazione della sua struttura sociale e dei suoi distintivi tratti culturali. Pensiamo soltanto alla questione linguistica: la Francia non solo difende come meglio può l’uso del Francese come lingua internazionale, ma si è data anche una struttura che controlla l’introduzione e l’impiego delle parole straniere nei propri vocabolari, così da limitare l’imbarbarimento del francese. Ad esempio, è noto che in Francia, formalmente, si dovrebbe dire ordinateur in luogo di computer e cadre anziché container. E la questione viene presa molto sul serio. Anzi, anni or sono, ai tempi dell’ascesa dell’inglese, ebbe grande successo un famoso libro che denunciava l’emergere del franglais, cioè del francese inquinato dagli anglicismi.

Lo Stato francese si occupa anche di queste cose?

La questione linguistica in Francia è legata in una certa misura al fenomeno dell’immigrazione. Non solo la Francia ha una quota di immigrati superiore a quella dell’Italia, ma soprattutto ospita nei quartieri periferici di Parigi e di tutte le altre città degli immigrati che provengono, in grande maggioranza, dai Paesi arabo-berberi dell’Africa settentrionale e occidentale, che parlano più o meno la stessa lingua e professano la stessa religione. In altri termini: hanno in comune le principali caratteristiche che hanno storicamente contraddistinto le Nazioni. In Italia, al contrario, l’immigrazione proviene da tutti i Paesi del mondo, anche da quelli anglosassoni, e la loro lingua franca è necessariamente l’italiano. E ciò rafforza la già straordinaria capacità di assimilazione della nostra società. È per questo motivo che il fatto di avere un organismo che decide quali parole utilizzare al posto di quelle importate da lingue straniere, a noi italiani un po’ fa ridere e un po’ ci allarma. Ci fa sospettare della natura profonda del regime politico della cugina latina. Perché una politica di questo tipo l’Italia l’ha avuta durante il fascismo. Il regime fece una vera e propria guerra contro le parole straniere, ad esempio abolendo goal, sostituito con rete, e trasformando football in calcio. Ancora maggior successo ebbe tramezzino, che ha completamente sostituito l’inglese sandwich, mentre dire garçonnière era abbastanza snob da riuscire a sconfiggere giovanottiera. E poi, nel caso italiano, la minaccia non viene dall’arabo, ma dalla moda di usare – il più delle volte a sproposito – quanti più anglicismi possibili: moda peraltro praticata specialmente da quelle persone che l’inglese non lo sanno. Pensiamo al verbi implementare, italianizzato dall’inglese to implement, che viene talora usato nel senso proprio di applicare, attuare, ma che molti – che non sanno l’inglese – usano spesso nel senso di aumentare, accrescere.

Nessuno sembra considerare come un problema l’anglicizzazione della lingua italiana.

Qualcuno sì. Non so se lo abbiate notato, ma è stato Mario Draghi – una persona per la quale l’inglese è stato quasi sempre una lingua di lavoro, oltre che di studio – la prima autorità italiana a schernire pubblicamente l’uso di “tutte queste parole inglesi”, persino da parte dei suoi speech writers. E perdonatemi se uso anch’io un anglicismo, ma l’equivalente italiano di speech writer, che immagino conosciate, è stato dichiarato “politicamente scorretto”. Draghi sembra convinto del fatto che anche la lingua italiana andrebbe difesa. E non avrebbe tutti i torti. Un po’ perché altrimenti, tra breve, non saremo più in grado di leggere Manzoni, ammesso che ne avessimo voglia. E un po’ perché altrimenti, ancora prima, finiremo per leggere anche noi dei manifesti di propaganda elettorale – magari dei Cinque Stelle – simili a quelli con cui un celebre Sindaco italoamericano di New York chiedeva il consenso dei suoi concittadini: “Fiorello La Guardia è il vostro sindaco. Sopportatelo!“. Si noti poi la differenza tra Italia e Francia nella denominazione dei ministeri dell’educazione: in Francia si chiama Ministero dell’Educazione Nazionale, in Italia, dopo la Seconda guerra mondiale, è stato chiamato Ministero della Pubblica Istruzione. È una differenza non priva di significato e che mi preme sottolineare, sebbene io, personalmente, preferisca la seconda formula, e non rinuncerei mai a quell’aggettivo – “pubblica” – che enfatizza la dimensione tanto universale quanto sociale dell’istruzione. Ed enfatizza, altresì, una visione dell’istruzione in antagonismo con quella privata, che, invece, negli ultimi anni si è diffusa nel nostro Paese, anche a livelli universitari, con risultati, spesso, culturalmente catastrofici. Questo è, insomma, un altro elemento che mostra come in Francia, a differenza dell’Italia, la scuola sia nazionale, se non addirittura nazionalista, e che debba riflettere la tendenza a formare la Nazione attraverso decisioni di natura statale. Può sembrare irrilevante, ma questo fatto mostra una forte discrasia tra Italia e Francia. Politiche come la promozione di certi aspetti identitari, in Francia sono considerate del tutto normali, e mostrano uno Stato che cerca ininterrottamente di forgiare la Nazione, la sua identità collettiva. E questo in Italia non c’è. Ogni tentativo di “fare gli Italiani” è ovviamente diventato pressoché impresentabile dopo l’orgia di retorica patriottarda con cui il fascismo ha trascinato l’Italia nella catastrofe del razzismo e della sconfitta.

Ma la Francia è un Paese illiberale?

No, questo no. Al contrario, quella francese è una società in cui si gode, e si è goduto, prima che ciò fosse possibile in qualsiasi altra società, di libertà personali e politiche, ed anche di libertà identitarie, che sono ancora oggi impensabili in molti Paesi. Specialmente le donne, ma non solo loro, hanno sempre goduto di diritti personali che in Italia stentavano ad essere riconosciuti. Voglio solo far notare come in Francia, la Nazione e la società accettino coraggiosamente le decisioni dello Stato in campi in cui noi non siamo disposti a rinunciare alla decisione individuale: basti pensare alla legge che proibisce l’ostentazione troppo marcata dei simboli religiosi. In Francia abbiamo uno Stato che, per certi aspetti, assume la guida della nazione e si fa carico di garantire la continuità dei suoi tratti principali. È in campo economico che la Francia potrebbe essere definita un Paese poco liberista. Se si guarda comparativamente all'”estroversione” di Italia e Francia, si vedrà subito una netta differenza. In primo luogo, si vedrà che l’Italia è un Paese che esporta proporzionalmente molto di più della cugina d’Oltralpe. Poi, si noterà che le esportazioni dell’Italia sono principalmente prodotti del settore privato, mentre le esportazioni provenienti dal settore pubblico sono molto ridotte. La Francia, invece, esporta soprattutto dei beni nella cui produzione è fortemente coinvolto il capitale pubblico – come, ad esempio, gli aerei Airbus e i Mirage. L’Italia esporta di meno in campo aeronautico, anche se esporta molti prodotti militari, come le mine, comunque appartenenti al settore privato. Parigi, poi, è molto presente sui mercati mondiali nel settore atomico. E, a questo proposito, è importante far notare come sia quasi impercettibile la differenza tra civile e militare nella ricerca francese in questo campo. La Francia ha 58 centrali atomiche sul proprio territorio, quasi una per ogni milione di abitanti, oltre a due altri grandi progetti, tra cui uno ambiziosissimo nel campo della fusione termonucleare controllata per la produzione di energia elettrica. La Francia vende prodotti e tecnologie in questo campo, così come fa anche la Russia. In Italia non esiste nulla di tutto questo: anzi, è totalmente impensabile. Anche perché l’opinione pubblica si pronunciò contro il nucleare con un referendum. Il commercio estero francese, soprattutto le esportazioni, è spesso finalizzato ad obiettivi politici e segue delle logiche politiche. In Italia questo non soltanto non c’è, ma non è neppure pensabile. Al capitalismo italiano, che, non a caso, Karl Max definì il “capitalismo straccione”, interessano solo gli “sghei” o i “diné”. Vero è che Italia e Francia, così come la Germania, sono uscite sconfitte dalla Seconda guerra mondiale, ma la Francia lo ha fatto con volontà di revanche, cioè di riconquistare il posto che occupava nel mondo prima del conflitto. Tanto è vero che in Italia la guerra è finita nel 1945, in Francia, invece, nel 1962, con l’indipendenza dell’Algeria. In breve, Italia e Francia si approcciano nello scenario internazionale in maniera radicalmente diversa: in Francia tutto è politica, e le questioni culturali nazionali non lo sono meno dei rapporti con l’estero, inclusa l’economia. In Italia la società interagisce direttamente con il resto del mondo, e lo Stato soffre ancora del fatto di essere stato creato tardivamente e in maniera incompleta e improvvisata.

La Francia è uno Stato organico, capace di proiezione e di azione strategica. L’Italia è poliarchica, divisa tra i suoi centri di potere e influenza, costellati di “partiti” legati a determinate nazioni straniere. Che peso ha il partito francese in Italia? Ed esiste un partito italiano in Francia?

Si può sicuramente affermare che c’è un partito francese in Italia, ma non si può dire che c’è un partito italiano in Francia: non esiste. Il partito francese in Italia è presente soprattutto nel mondo degli affari, pensiamo al caso Montezemolo. Già Enrico Letta, durante il “periodo di esilio”, quando dovette lasciare il posto a Renzi, andò in Francia a dirigere il settore relazioni internazionali della più importante scuola di scienze politiche francese. Fu un’invenzione della Francia; erano gelosi del fatto che il partito tedesco in Italia avesse ottenuto Mario Monti alla presidenza del consiglio dei ministri. Abbiamo anche una parte della televisione italiana in mano ai francesi. Quale Paese lascia la propria televisione ad uno straniero? Un Paese coloniale. È vero: oggi la presenza straniera in Francia sta aumentando, ma non quella italiana. Noi non abbiamo un partito in Francia. Il peso del partito francese in Italia è importante, ma inferiore a quello del partito tedesco. Il partito tedesco è riuscito ad avere un presidente del consiglio, Monti – che poi si sia rivelato incapace al ruolo è un altro discorso. I francesi non sono mai arrivati a tanto. Inoltre, i tedeschi comprano in Italia per chiudere, per eliminare la concorrenza, mentre i francesi hanno un altro atteggiamento.

Nel 1993 Paolo Savona, all’epoca ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato nel governo Ciampi, propose un’alleanza industriale preventiva tra i grandi gruppi industriali nazionali e le controparti d’Oltralpe per prevenire un eccessivo schiacciamento del capitalismo nazionale in caso di protagonismo francese. Secondo lei, la materializzazione della proposta di Savona avrebbe potuto riequilibrare un rapporto fattosi col tempo asimmetrico?

Ci avrebbero mangiati vivi. Assicurazioni Generali, di Venezia, da decenni è a partecipazione francese e il loro CEO è francese, Donnet. Oggi ci sono due banche italiane che hanno presidenti francesi, la Fiat con un presidente americano. Questo è pensabile solo in Italia. Sarebbe stato un rapporto completamente asimmetrico.

Quali lezioni potrebbe apprendere l’Italia dal modello capitalistico francese basato su protezionismo, tutela dei campioni nazionali e dirigismo?

In Francia si possono trovare ministri che sono ex capitani di impresa, e viceversa. C’è una circolarità dell’élite all’americana: si passa dalle cariche pubbliche a quelle private, e viceversa. In Italia questo non c’è, perché c’è una distinzione netta tra politica e business. Dubito che l’Italia possa imparare qualcosa, perché per poter applicare le politiche francesi dovrebbe diventare la Francia, essere uno stato anziché una società. Ci fu un periodo dove lo Stato italiano contava, il periodo delle grandi aziende statali, come l’Eni di Mattei, ma dalla liquidazione avvenuta dopo l’incontro del Britannia del 1992 – al quale partecipò lo stesso Draghi in qualità di funzionario – l’Italia non ha più gli strumenti per fare una politica industriale alla francese. Diciamo così: l’Italia è un Paese senza testa e non possiamo cambiare, perché superati certi limiti non si può più cambiare.

Secondo lei è possibile che Italia e Francia possano collaborare sulla base di un’agenda comune anti-austerità in Europa e, magari, raggiungere un equilibrio anche tra Africa e Mediterraneo? Vede possibilità di convergenza su fronti come Sahel, Mediterraneo orientale e Libia?

Quando Macron dice che la Nato è morta, la sua idea qual è? Trasformare la comunità europea in direzione di una politica di difesa che consenta alla Francia di fare guerre in Africa con il sangue e i soldi degli europei. E gli italiani che partecipano alle missioni nel Sahel, come in Mali e Niger, hanno la funzione di ascari. Per quanto riguarda l’Europa, il discorso di Draghi sul debito preannuncia una svolta, significa che è finita l’austerità, ma questo trascende Italia e Francia.

La linea cooperativa che il governo Draghi ha promosso tramite Giancarlo Giorgetti con ministri (Le Maire) e commissari (Breton) di Emmanuel Macron potrebbe spianare la strada all’Italia in direzione dell’ottenimento di un ruolo paritario nei progetti francesi di autonomia strategica europea?

Non credo, da quello che ho detto risulta chiaramente che non è possibile. Forse non saremmo neanche dei junior partner. 

"La Francia va difesa dall'islamismo". I generali contro Macron. Gerry Freda il L'appello anti-islam lanciato dai militari ha però provocato la dura reazione del governo, con il ministro della Difesa che minaccia "sanzioni". Dalle Forze armate francesi è stato ultimamente lanciato un forte appello "anti-islam" al presidente Emmanuel Macron, ossia un'esortazione affinché le autorità nazionali si dimostrino patriottiche si attivino contro il pericolo del settarismo e della crescente violenza nelle periferie. Il tema del contrasto al problema del radicalismo e della crisi dei valori repubblicani è stato di recente oggetto di una legge promossa dallo stesso capo dello Stato e subito contestata da più fronti.

L'appello dei generali. L'appello Per il ripristino dell'onore dei nostri governanti è stato sottoscritto da una ventina di generali transalpini in pensione, su iniziativa dell'ufficiale di carriera Jean-Pierre Fabre-Bernadac, e pubblicato mercoledì scorso sulla rivista Valeurs Actuelles, di orientamento conservatore. Nel dettaglio, i militari hanno esortato la classe politica a lottare contro la "disintegrazione" del paese, invitando quindi l'Eliseo a difendere "la patria", che ritengono messa in pericolo dall'"islamismo e dalle orde di banlieue". Per i generali, l'islam radicale e i gruppi criminali attivi nelle periferie urbane "vogliono trasformare il nostro Paese in un territorio sottomesso a dei dogmi contrari alla nostra Costituzione". L'appello terminava con le seguenti parole: "Quindi, signore e signori, basta procrastinare; l'ora è seria; il lavoro è colossale; non perdete tempo e sappiate che siamo pronti a sostenere politiche che tengano conto della salvaguardia della nazione. D'altra parte, se non si interviene, il lassismo continuerà a diffondersi inesorabilmente nella società, provocando alla fine un'esplosione e l'intervento dei nostri compagni attivi in ​​una pericolosa missione di protezione dei nostri valori di civiltà e salvaguardia dei nostri compatrioti sul territorio nazionale. Come possiamo vedere, non c'è più tempo per rinviare, altrimenti domani la guerra civile metterà fine a questo caos crescente e le morti, di cui sarete responsabili, saranno migliaia." L'esortazione in questione è stata sottoscritta anche da un centinaio di alti graduati e da un migliaio di soldati semplici.

La minaccia delle sanzioni. L'appello lanciato a politici e istituzioni francesi dalle colonne di Valeurs Actuelles ha però provocato una reazione di condanna, da parte del governo, dei militari firmatari. Il ministro della Difesa di Parigi, Florence Parly, ha infatti annunciato, nel silenzio di Macron, "sanzioni" nei confronti dei promotori di quella lettera, accusandoli di insubordinazione ed evocando il pericolo "putschismo". A difesa dei militari si è invece schierata Marine Le Pen, condividendo tutte le preoccupazioni manifestate dai firmatari di quell'appello sull'islam e sulla bomba-banlieue. Di conseguenza, gli esponenti del governo transalpino hanno immediatamente accusato la Le Pen di vicinanza a dei "golpisti".

24 maggio, così quel giorno de Gaulle fermò i comunisti. Simone Savoia il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Così il generale fermò il Sessantotto francese. Parigi, 24 maggio 1968. Alle ore 20 il generale Charles De Gaulle, presidente della Repubblica francese, parla in televisione alla nazione. La Francia e la sua capitale erano sconvolte dalle manifestazioni studentesche che avrebbero impresso il loro marchio sul Sessantotto in tutto il mondo. Il 22 marzo gli studenti avevano occupato un intero piano della palazzina amministrativa dell’università di Nanterre, cittadina della ‘petite couronne’ parigina. In quel momento la Francia è prospera, in crescita economica, ha praticamente azzerato il debito pubblico nel 1967, il golllismo è saldamente al potere. Eppure un malessere cova sotto l’abitudine al benessere conquistato dai francesi. Infatti il quotidiano “Le Monde” titola il 15 marzo 1968: “Quando la Francia s’annoia…”. Quasi una profezia. L’occasio belli dell’occupazione di Nanterre era l’arresto di alcuni operai durante alcune manifestazioni dei giorni precedenti contro la guerra nel Vietnam. Ma ben presto le rivendicazioni si allargano dalla richiesta di scarcerazione di queste tute blu a una contestazione generale delle strutture dello Stato francese. E diventano protesta permanente contro l’autoritarismo, il consumismo, il militarismo, il bigottismo, l’imperialismo che pervadono la società transalpina. L’incendio si propaga da Nanterre ad altre città francesi, le piazze mettono nel mirino soprattutto Charles De Gaulle, considerato il simbolo di una vecchia Republique da abbattere. Il 3 maggio oltre 400 manifestanti occupano il cortile dell’università Sorbona di Parigi. Subito iniziano violenti scontri con le forze dell’ordine. Tra il 10 e l’11 maggio centinaia di studenti issano barricate per le strade del Quartiere latino di Parigi. La polizia assalta questi sbarramenti con ondate ripetute: oltre 100 feriti. La repressione delle forze dell’ordine appare eccessiva, probabilmente anche figlia di un’impreparazione a una situazione simile di ordine pubblico. Questo è l’elemento che porta molti parigini a solidarizzare con i manifestanti. Infatti il 13 maggio circa un milione di persone sfila per le strade del centro della Ville Lumiere. Questa manifestazione segna l’inizio dello sciopero. Il 14 maggio il generale De Gaulle parte per una visita di Stato in Romania. Il 19, al rientro in patria, il presidente definisce “chienlit” (“La réforme, oui. La chienlit, non”) i manifestanti parlando con la stampa. Spregiativamente ‘un casino’ o comunque ‘un carnevale’. Poco dopo Parigi viene inondata di manifesti e volantini che raffigurano una caricatura di De Gaulle con la scritta ‘La chienlit c’est lui!’. Tra il 13 e il 22 maggio la Francia è paralizzata: università occupate, fabbriche occupate, uffici deserti, trasporti pubblici bloccati, niente benzina presso i distributori, telecomunicazioni sospese. Almeno 10 milioni di lavoratori, più della metà della forza lavoro nazionale, non si recano al lavoro perché in sciopero o fermati dallo sciopero. Assemblee spontanee di cittadini si riuniscono permanentemente per discutere di tutto: filosofia, società, consumi, cultura, istruzione, salari. Tra i luoghi simbolo di questo clima il teatro Odeon di Parigi, luogo d’incontri tra comuni cittadini, politici, filosofi, militanti di sinistra, studenti universitari, operai, turisti. Il 24 maggio gli studenti vanno all’assalto della riva destra della Senna: incendiano la Borsa di Parigi e si avvicinano minacciosamente al Palazzo dell’Eliseo, residenza ufficiale del Presidente della Repubblica francese. Il primo ministro George Pompidou cerca una trattativa ufficiosa con i sindacati tramite un giovane sottosegretario al lavoro, Jacques Chirac. Ma gli scontri sono violenti, da un lato i sindacati e i partiti di sinistra hanno perso ogni presa sulla piazza, dall’altro la polizia non si sente tutelata a sufficienza dal governo e quindi pone in atto una forte repressione militare. In quello stesso 24 maggio il presidente de Gaulle appare in tv e parla alla nazione francese: appare stanco, il mezzo di comunicazione che gli è più congeniale è la radio, anche l’ultimatum lanciato agli studenti e ai lavoratori in sciopero appare un po’ “scarico” rispetto alla drammaticità del momento. Infatti i disordini continuano. E in questo caos con la nave in piena tempesta dov’è il comandante, cioè de Gaulle? È sparito, gettando nello sconcerto anche diversi esponenti del governo. Il generale in gran segreto il 29 maggio si reca in elicottero a Baden Baden, confine sudoccidentale tra Germania e Francia. Lì c’è una caserma dell’esercito francese. Le truppe della Republique in territorio tedesco sono comandate da Jacques Massu, il generale che si è messo in luce durante la battaglia d’Algeri del 1957 al comando della decima divisione paracadutisti, con il contestatissimo utilizzo di torture e sparizioni contro i militanti del Fronte di Liberazione Nazionale algerino e dei loro fiancheggiatori. Massu è un fedelissimo di de Gaulle, unico politico da lui stimato. De Gaulle ha quasi 78 anni, è stanco e demoralizzato, forse paventa persino una presa violenta del potere da parte dei comunisti che sconvolgerebbe gli equilibri dell’Europa divisa nei due blocchi. È stato l’indiscusso protagonista della guerra di liberazione francese dai nazisti, poi il protagonista della vita politica stabilmente dal 1958. Pare che Massu gli dica queste parole: “Generale, non può permettere che dieci giorni distruggano dieci anni di lavoro”. Il 30 maggio de Gaulle rientra a Parigi, salutato da una manifestazione di sostegno che raduna oltre un milione di persone sugli Champs-Élysées. Il presidente scioglie l’Assemblea Nazionale e indice le elezioni politiche per il 23 e il 30 giugno successivi. È un trionfo gollista: l’Unione per la Difesa della Repubblica supera di gran lunga le sinistre sia in voti che in seggi. Il Sessantotto si chiude così, con il movimento studentesco rimasto spiazzato dall’improvviso ritorno sulla scena del vecchio generale. Che nel 1969 abbandona la politica e si ritira a vita privata. Una specie di “notte dell’Innominato” di manzoniana memoria quella di de Gaulle nei giorni tra il 24 e il 29 maggio 1968. Ma in questo caso non c’è stato un pentimento bensì la presa di coscienza dell’uomo solo al potere. Un uomo certo logorato da diverse stagioni di governo, che vedeva la grandeur francese dissolversi nelle automobili date alle fiamme, nei sanpietrini divelti dalle strade, nell’assemblearismo permanente, in cittadini che sembravano rassegnati a uno strapotere delle sinistre. Non si seppe mai cosa si dissero de Gaulle e Massu in quel colloqui privato di un’ora circa a Baden Baden (forse il presidente si era garantito l’appoggio delle forze armate). È certo però, come rilevò anche Indro Montanelli, che la Francia trovò nel generale un argine al dilagare degli effetti più mefitici del movimento sessantottino. Cosa che, continuava il suo ragionamento il fondatore del Giornale, non era purtroppo avvenuta in Italia. Dove questi effetti si sarebbero manifestati ben oltre il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (16 marzo-9 maggio 1978) e avrebbero ipotecato buona parte dei circuiti culturali, editoriali e politici del Paese. Facendo danni anche all’economia. E portando alla formazione di un reducismo che di fatto ha bloccato non solo un sano ricambio, ma anche alla radice la formazione di una nuova classe dirigente. All’Italia mancò un “padre della Patria” capace di porsi come un faro per l’opinione pubblica e per una maggioranza che non fosse solo silenziosa ma animata da sinceri sentimenti democratici. All’Italia, secondo alcuni osservatori, mancò un de Gaulle. Certamente una figura di un altro mondo; oggi i politici non guidano nessuna piazza, né reale né virtuale. Al massimo vi si accodano prontamente per qualche decimo di percentuale in più nei prossimi sondaggi.

Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione Italiana Sommelier, munito di videocamera e microfono per vigneti e cantine d'Italia. Tifoso del Napoli e della Polisportiva Apollosa 1981. In emotiva partecipazione anche per il Benevento Calcio. Troppo ottimista per essere pessimista. Troppo pessimista per essere ottimista

L’arte del comando secondo De Gaulle. Matteo Carnieletto su Inside Over il 4 aprile 2021. Nel 1932 Charles De Gaulle è un ufficiale di 42 anni. Ha conosciuto gli orrori della Prima guerra mondiale e della prigionia; ha addestrato il neonato esercito polacco e lo ha visto combattere nella guerra di Russia del 1920-1921; è stato a Beirut, in Libano, e infine è stato richiamato in patria negli uffici del segretario generale del Consiglio superiore. Il suo è un percorso di tutto rispetto, tanto da essere apprezzato dal maresciallo di Francia Philippe Pétain, all’epoca la personalità militare più amata nel Paese. De Gaulle è allo stesso tempo un allievo perfetto e insoddisfatto. Vede nell’esercito francese stanchezza e allontanamento dagli antichi valori e crede che qualcosa debba essere cambiato. Riformato. È per questo che nel 1932 pubblica Il filo della spada, una sorta di arte della guerra moderna, che oggi viene ripubblicato da Oaks editrice, arricchito da un’introduzione di Sergio Romano. In quegli anni, la Francia è reduce dalla vittoria della Prima guerra mondiale, ma si trova a vivere una crisi politica senza precedenti. La Germania è stata umiliata e si sta preparando alla guerra. Parigi è nel caos. Il clima di quei giorni è ben descritto dai romanzi di un francese d’adozione, Bruce Marshall, in particolare in Candele gialle per Parigi: “Abbiamo fatto la guerra. (…) Quattro anni: la Marna, la Somme, Verdun. Quando ero in trincea mi dicevano che ero un eroe., ma quando sono tornato non m’hanno neanche voluto dare un posto”. È questa la condizione in cui si trova la Francia, insieme a tante altre potenze mondiali, a cavallo tra le due guerre: “L’eccesso delle prove recentemente supportate ha per conseguenza l’inerzia delle volontà, una depressione dei caratteri, una lassezza morale che stornano l’opinione dall’ordine militare e riescono a turbare anche le vocazioni più risolute”, scrive De Gaulle. I francesi non sanno più cosa fare. Sognano la grandeur, ma non sanno come raggiungerla. Il futuro generale comprende tutto questo. Sa che il mondo non sarà per sempre in pace e che, quindi, è necessario prepararsi alla guerra, secondo l’antico adagio latino: Si vis pacem para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra. Per farlo, però, è necessario un esercito vero, che per De Gaulle è di volontari, che rappresenti un’élite di animi, prima che di corpi. “La difficoltà attira l’uomo di carattere, perché dominandola realizza se stesso. (…) Egli vi cerca, qualsiasi cosa accada, l’aspra gioia della responsabilità”. È l’ascesi, la nobiltà d’animo, quella di cui parla De Gaulle e che sembra riecheggiare le parole scritte da un filosofo, Ortega y Gasset, due anni prima, ne La ribellione delle masse. Il centro dell’esercito è ovviamente legato al capo che è tale non perché ha più diritti, ma più doveri: “Al capo – si legge ne Il filo della spada – non basta legare gli esecutori con un’obbedienza impersonale. È nelle loro anime ch’egli deve imprimere il suo marchio vitale. Colpire la volontà, impadronirsene, indurle a volgersi da se stesse verso il fine che egli si è stabilito, ingigantito e moltiplicare gli effetti della disciplina con una suggestione morale che superi il ragionamento, cristallizzare attorno a sé tutto quanto nelle anime esiste di fede, di speranza, di devozione latenti, tale è questo dominio”. Così fece Cesare con i suoi veterani. Così fece Alessandro. Il capo ha l’obbligo di tracciare la rotta, che non può mai essere in piano, ma sempre in salita perché “Ciò che il capo ordina deve rivestire (…) il carattere dell’elevazione. Deve puntare in alto. Aver ampie vedute, giudicare con larghezza, spiccando così sulla gente comune che si dibatte tra stretti confini. Egli deve impersonare il disprezzo delle contingenze, mentre la massa è votata alle minute preoccupazioni. Deve scartare ciò che vi è di meschino nei modi e nel comportamento, quando vi manchi la volgarità”. Il capo è lontano e malinconico perché solo così – ovvero dall’alto – può osservare il campo di battaglia: “Riserbo, carattere, grandezza, queste condizioni del prestigio impongono a coloro che vogliono realizzarle uno sforzo che scoraggia i più. Questa incessante angustia, questo rischio costante mettono alla prova le personalità fino alle fibre più segrete”. Sono le circostanze a forgiare i militari, in particolare i comandanti: “Valutare le circostanze in ogni caso particolare è dunque il compito essenziale del capo. Nella misura in cui le conosce, le analizza, le sfrutta, è vincitore; nella misura in cui le ignora, le giudica male, le trascura, è vinto. Sulle contingenze bisogna costruire l’azione”. Ed è proprio quello che fece De Gaulle. Non solo da militare, ma anche (e soprattutto) da politico.

Mariella Bussolati per it.businessinsider.com il 12 marzo 2021. Alle 5,34 del 2 luglio 1966 sull’atollo di Mururoa venne sganciata la bomba Aldebaran, il nome della stella più luminosa della costellazione del Toro. L’isola, disabitata e utilizzata solo per la coltivazione delle noci di cocco, era stata ceduta alla Francia che, nel pieno della guerra fredda, lo aveva designato come sito di esperimenti nucleari. L’ordigno aveva una potenza di 30 chilotoni, molti di più dei 18 di quella di Hiroshima. Pochi secondi dopo l’esplosione una palla di fuoco vaporizzò tutto, salì nell’aria, si raffreddò e si trasformò in una nube carica di particelle radioattive che venne dispersa dal vento. A 400 chilometri di distanza c’era l’arcipelago Gambier, abitato. Era solo il primo di una serie di 193 test nucleari i cui risultati sono rimasti impressi nell’ambiente e nei corpi dei polinesiani, terminati nel 1996 dopo che il presidente Chirac, che aveva consentito una ripresa degli esperimenti dopo una sosta, in seguito a polemiche internazionali decise di mettere uno stop. Il risultato furono leucemie, linfomi, cancri alla tiroide, ai polmoni, al seno e allo stomaco. Problemi che forse si potevano evitare, o attenuare. Un rapporto meteorologico dimostra che tre ore prima del lancio di Aldebaran il vento stava soffiando in direzione Mangareva, l’isola principale dell’arcipelago Gambier. Non avrebbero dunque dovuto effettuare l’operazione perché i risultati erano prevedibili. I mali tra l’altro colpirono anche le forze armate francesi. In una mail del 2017 circolata all’interno del Ministero della difesa, si rivelava che circa 2mila persone, del totale di 6 mila che componevano lo staff, avevano contrato il cancro. Queste informazioni sono rimaste segrete fino a ora. Sono venute alla luce solo adesso grazie al dossier Mururoa files preparato dal programma di Scienza e Sicurezza globale dell’Università di Princeton, da Disclose, un gruppo di giornalisti investigativi e da Interprt un gruppo che utilizza il design per documentare crimini ambientali. Gli studiosi sono venuti in possesso di oltre 2 mila documenti militari che erano rimasti segreti fino al 2013 e sono stati resi pubblici grazie a una battaglia legale tra le vittime e il governo francese. Grazie a questi e a una serie di interviste hanno investigato sulle conseguenze dei test nucleari e hanno potuto dimostrare per la prima volta che le radiazioni hanno colpito pesantemente gli abitanti. Secondo i nuovi calcoli circa 110 mila persone sono state raggiunte dalle radiazioni ionizzanti, in pratica l’intera popolazione polinesiana dell’epoca. Le autorità francesi hanno nascosto il reale impatto per oltre cinquant’anni. Il ministero della difesa ha sempre definito i test esperimenti “puliti” e ha sempre minimizzato le richieste, sostenendo di aver messo in atto con la Commissione atomica francese (Cea) un piano per prevenire le ricadute di materiale radioattivo. Ci sono prove invece che il governo francese abbia sempre sottostimato l’impatto di quanto ha fatto e lo sta facendo ancora oggi. In febbraio 2021  l’Inserm, l’istituto nazionale francese di salute ha pubblicato un rapporto sulle conseguenze dei test concludendo che non si può stabilire con certezza di un legame tra i test nucleari e diversi casi di cancro nelle isole polinesiane. Un documento del ministero della salute polinesiano dice però che le vittime di cancro alla tiroide sono state 10 mila tra Tahiti e l’arcipelago Gambier. Ciascuno di loro ha ricevuto dosi pari a 5 millisieverts. Il nuovo studio sostiene che la maggior parte della popolazione è stata sottoposta a 1 millisievert, in particolare in occasione dello sgancio nel 1974 della bomba Centaur, quando 500 volte il livello massimo di ricaduta di plutonio raggiunse Tahiti, 1.250 chilometri lontana. La nuvola prodotta in seguito all’esplosione sarebbe dovuta andare verso nord e salire ad altezze di 9 mila metri. Restò invece intorno ai 5 mila e andò verso est, raggiungendo Tahiti, che non era stata avvertita, 42 ore dopo lo scoppio. 1 millisievert è anche il minimo oltre il quale si ha diritto a un risarcimento. Quindi 110 mila persone, non 10 mila, potrebbero chiedere un risarcimento. Nel 2010 venne creata una commissione, il Civen per aggiudicare le compensazioni dovute in caso di danni. Si basavano su un rapporto creato dal Cea nel 2006  e validato dall’Iaea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, in cui erano stati rivalutati gli effetti delle radiazioni ionizzanti. Non venne però mai reso pubblico e nessuno lo potè controllare e confutare. Neppure l’Iaea aveva avuto accesso ai dati originali. Gli errori però erano numerosi, come hanno scoperto i ricercatori di Princeton. Per esempio tra i fattori non era stata considerata la contaminazione dell’acqua potabile. I calcoli Cea dunque erano da due a dieci volte più bassi delle stime effettuate ora. La questione degli indennizzi ha sempre scatenato un acceso dibattito, anche perché non è per nulla facile accedervi. Le persone che li richiedono devono dimostrare di aver vissuto nella Polinesia francese all’epoca dei test nucleari e di avere una o più delle patologie incluse in un elenco di 23. Ma nei dieci anni da quando il Civen è stato istituito, solo 454 persone hanno ricevuto una somma in danaro, mentre l’80 per cento dei casi sono stati rifiutati. I polinesiani spesso non hanno tutte le informazioni mediche necessarie per lo studio del loro caso, né dispongono di dati che possano stimare precisamente il livello di radiazioni subite. Dovevano esserci 26 stazioni radiologiche che consentivano questo tipo di misurazione, ma in realtà solo il 20 per cento del territorio è stato controllato. Una serie di errori e omissioni dunque hanno nascosto una verità drammatica, che lentamente sta venendo a galla.

Francesco De Remigis per "il Giornale" l'11 marzo 2021. Gli archivi del colonialismo francese rimasti segreti per oltre 50 anni, in particolare sulla guerra d'Algeria, da ieri sono a disposizione degli storici: declassificati dal presidente Macron in nome della riconciliazione delle due sponde del Mediterraneo, hanno però aperto un vaso di Pandora che rischia di confliggere con la caccia alla verità. Neppure il tempo di somatizzare le responsabilità nell'omicidio dell'avvocato algerino Ali Boumendjel, trucidato dai bleu blanc rouge nel 1957 e per cui Macron ha ammesso l'insabbiamento, ed ecco spuntare assurde rivendicazioni pronte a infiammare tv e social network. Inclusa la provocazione lanciata da un giornalista algerino che chiede a Parigi di «restituire» la Tour Eiffel accusando la Francia d'aver attinto alle miniere di ferro algerine per costruirla. Restituzioni di beni, riconoscimenti di errori e ammissioni di colpa. Un bel fuori programma per l'Eliseo. Animato da nobili intenti, Macron aveva chiesto allo storico Benjamin Stora di indagare sugli anni della guerra fino all'indipendenza del '62. Ma il cosiddetto dossier «della comune memoria» è diventato un libro su cui ognuno legge ciò che ritiene più conveniente. E genera, anzi ri-genera, vecchi miti: come quello rilanciato dal cronista Mohamed Allal in tv. Nel suo intervento, citato dal magazine Causeur e diventato virale, il giornalista sostiene che la Dama di Ferro debba la sua esistenza allo sfruttamento di minerali che appartengono agli algerini, poiché «estratti dal suolo» nella sponda sud del Mediterraneo. Dunque può essere, per così dire, chiesta indietro. La rivendicazione fa impazzire i media: davvero l'Algeria può esigere il simbolo di Parigi e della Francia intera? Già nel 2018, il canale Beur Fm trasmetteva informazioni sull'origine del metallo, indicando che il ferro della Tour Eiffel fosse stato estratto dalle «miniere di Zaccar e Rouïna», nel nord dell'Algeria. In realtà sembra che arrivi dalla Lorena, in Francia. Ma, sull'onda della riscrittura della Storia, l'algerina Lina Télévision, che ha ospitato il giornalista-influencer, ha preteso le scuse di Parigi. Ormai il vaso di Pandora del colonialismo è aperto. Ciò che contiene non è stato «visto» del tutto e va gestito al meglio. Allal, sull'onda della tensione Parigi-Algeri, insiste sul «ferro rubato». L'Eliseo prova a correre ai ripari ignorandolo. Ma dicendo che la declassificazione dei dossier sarà più veloce: basta timbri foglio per foglio. D'ora in poi sarà quasi automatico l'accesso ai dossier. Nella sua assurda pretesa, che di storico sembra aver ben poco (si basa sulla leggenda di Gustave Eiffel che pare avesse donato un orologio montato su una torre di metallo al villaggio di El Abadia per ringraziare gli abitanti), il giornalista è sostenuto da una larga schiera di algerini francesi: molti concordano con lui sulla natura dei materiali usati per costruire. Altri, sui social, l'hanno invece sbeffeggiato. Tra i messaggi apparsi in Francia su Twitter uno dice: «Forse è ora di riportare gli algerini in Algeria». In risposta, la stampa algerina agita lo spettro della xenofobia. Il dibattito tra i due Paesi avrebbe dovuto riconciliare. Invece i leoni da tastiera si sono gettati a pesce sul dossier: s'è fatto avanti pure il predicatore islamico Cheikh Chems-Eddine, contro la Francia perché «non si è ancora scusata per i crimini commessi durante la colonizzazione». Insomma, bugie o verità, la Storia fa discutere ancor prima d'essere riscritta.

"Torturato e assassinato dall'esercito francese". Macron ammette il crimine sul leader algerino. Il presidente ristabilisce la verità sulla fine del nazionalista Ali Boumendjel. Francesco De Remigis - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. «Nessun crimine, nessuna atrocità commessa da chicchessia durante la guerra d'Algeria può essere giustificata o nascosta». Parola di Emmanuel Macron. Un gesto forte, quello del presidente francese, per sanare le ferite ancora vive della guerra d'Algeria. L'Eliseo ha infatti ammesso, «a nome della République», che l'avvocato e leader nazionalista algerino Ali Boumendjel nel 1957 è stato «torturato e assassinato» dall'esercito francese. E che dunque non si era affatto suicidato come da sempre ha sostenuto Parigi. Un riconoscimento ufficiale, basato sul rapporto consegnato all'Eliseo dallo storico algerino Benjamin Stora, incaricato dallo stesso Macron di far luce sulla guerra conclusasi con l'indipendenza del '62. Non si tratta di riscrivere la storia del colonialismo. Ma di superare un trauma aggiornando i libri di scuola. Primo presidente nato dopo quella guerra (1954-1962), Macron si è impegnato a compiere «azioni simboliche» con l'Algeria. Certo, ha escluso ogni forma di «pentimento» e di «scuse» per il colonialismo. Ma ricevendo all'Eliseo i nipoti del trucidato Boumendjel ha fatto un passo storico, ammettendo che quel leader «nel cuore della battaglia di Algeri fu arrestato dall'esercito francese, messo in isolamento, torturato e assassinato il 23 marzo '57». Nel 2000, lo stesso Paul Aussaresses (ex capo dei Servizi ad Algeri) confessò d'aver ordinato a uno dei subordinati di mascherare il crimine. Siamo solo all'inizio di un percorso. Prematuro parlare di riconciliazione. C'è la volontà di «continuare», incoraggiando gli storici e aprendo gli occhi e gli archivi, per dare alle famiglie dei dispersi «su entrambe le sponde del Mediterraneo» la possibilità di «conoscere la verità», spiega l'Eliseo. I pregressi non si cancellano però con un'ospitata o con un parzialissimo mea culpa. Come far scomparire il risentimento della generazione dei nipoti delle vittime di quegli abusi, che cova anche tra i francesi d'origine algerina? A loro Macron promette che la sua «ammissione» non sarà «un fatto isolato». Il documento su cui si basa l'operazione-riconciliazione è del 20 gennaio, accolto da dure critiche sia in Francia sia in Algeria perché non ha portato alle «scuse» di Parigi per quel passato. Macron nel 2018 ammise che pure Maurice Audin, matematico e membro del Partito comunista algerino (Pca), fu «torturato e giustiziato» dai francesi l'11 giugno '57, e oggi parla di un dramma reso possibile da «un sistema collaudato». Il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune cita i «buoni rapporti»; sottolinea però che gli algerini «non rinunceranno mai alle loro rivendicazioni storiche». Alla tv di Stato dice: «Quello che ha fatto il colonialismo non è facile da superare, la memoria resta e non la useremo mai per negoziare». Il cosiddetto dossier «della comune memoria» (chiesto al prof da Macron lo scorso luglio, con «correttezza storica») per ora resta un libro su cui ognuno legge ciò che più ritiene opportuno.

Macron ammette: il leader della resistenza algerina fu assassinato. Si tratta dell'avvocato e leader nazionalista Ali Boumendjel. L'Eliseo: «Nessun crimine, nessuna atrocità commessa da nessuno durante la guerra d'Algeria può essere giustificata o nascosta». Il Dubbio il 3 marzo 2021. Emmanuel Macron ha ammesso, «in nome della Francia», che l’avvocato e leader nazionalista Ali Boumendjel è stato «torturato e assassinato» dall’esercito francese durante la guerra algerina nel 1957, omicidio all’epoca mascherato da suicidio. Il Capo dello Stato lo ha annunciato ai nipoti di Ali Boumendjel quando li ha ricevuti martedì, uno dei gesti di pacificazione raccomandati dallo storico Benjamin Stora nel suo rapporto sulla colonizzazione e la guerra algerina, al fine di risolvere le tensioni intorno alla memoria di questo conflitto. «Nel cuore della battaglia di Algeri, è stato arrestato dall’esercito francese, messo in isolamento, torturato, poi assassinato il 23 marzo 1957», precisa l’Eliseo in un comunicato stampa. Nel 2000, «Paul Aussaresses (ex capo dell’intelligence ad Algeri, ndr) stesso ha confessato di aver ordinato a uno dei suoi subordinati di ucciderlo e mascherare il crimine come suicidio». Martedì, il Presidente della Repubblica ha ricevuto al Palazzo dell’Eliseo quattro nipoti di Ali Boumendjel per raccontare loro, a nome della Francia, quello che Malika Boumendjel avrebbe voluto sentire: «Ali Boumendjel non si è suicidato. È stato torturato e poi assassinato», aggiunge la presidenza francese. «Ha anche raccontato loro la volontà di continuare il lavoro iniziato diversi anni fa per raccogliere testimonianze e incoraggiare il lavoro degli storici aprendo gli archivi, per dare i mezzi a tutte le famiglie dei dispersi, su entrambe le sponde del Mediterraneo, per conoscere la verità». Questo gesto «non è un atto isolato», promette il presidente. «Nessun crimine, nessuna atrocità commessa da nessuno durante la guerra d’Algeria può essere giustificata o nascosta. Questo lavoro sarà esteso e approfondito nei prossimi mesi, in modo che possiamo andare avanti verso la pacificazione e la riconciliazione», conclude il comunicato stampa, che chiede di «guardare in faccia la storia, riconoscere la verità dei fatti» per «una riconciliazione dei ricordi». «La generazione dei nipoti di Ali Boumendjel deve essere in grado di costruire il proprio destino, lontano dai due solchi dell’amnesia e del risentimento. È per loro adesso, per i giovani francesi e algerini, che dobbiamo avanzare sulla via della verità, l’unica che può portare alla riconciliazione dei ricordi», precisa l’Eliseo. Il mese scorso, la nipote di Ali Boumendjel, Fadela Boumendjel-Chitour, ha denunciato la «menzogna dello Stato (francese) che è stata devastante».

Leonardo Martinelli per "la Stampa" l'1 ottobre 2021. Nei giorni scorsi Nicolas Sarkozy era apparso particolarmente loquace. Sul candidato sorpresa per le prossime presidenziali, il sovranista Eric Zemmour, aveva detto: «Non è la causa del vuoto della politica francese ma solo un sintomo». E riguardo alla querelle dei sommergibili che oppone Parigi a Australia e Usa, secondo l'ex presidente, «Macron ha fatto bene a reagire fermamente». Intanto Sarkò, 66 anni, gira tutta la Francia a presentare un nuovo libro, "Promenades", sui propri gusti artistici. Quasi si dimenticherebbero i suoi guai giudiziari. Ma ieri una nuova sentenza li hanno riportati alla ribalta. Al tribunale di Parigi Sarkozy è stato condannato a un anno di carcere senza la condizionale per avere superato ampiamente e consapevolmente i limiti massimi imposti dalla legge per le spese relative alla sua campagna elettorale nel 2012, quando era stato battuto da François Hollande. È il cosiddetto "affaire Bygmalion", dal nome dell'agenzia di comunicazione che organizzò i suoi meeting faraonici (le spese toccarono i 42, 8 milioni di euro, il doppio della soglia prevista dalla legge). La pena è più pesante di quella che era stata richiesta dalla pubblica accusa (un anno di carcere ma solo sei mesi senza la condizionale). Come sottolineato da Caroline Viguier, presidente della corte, al momento di annunciare il verdetto, «Sarkozy ha continuato a organizzare meeting dopo che lo avevano avvertito per iscritto di aver superato la soglia massima stabilita dalla legge per il finanziamento di una campagna. E lui non era alla prima, aveva un'esperienza da candidato». In carcere, comunque, almeno nell'immediato non ci andrà: ha fatto appello e la sentenza non prevede l'esecuzione immediata della pena. Stabilisce anche di scontarla con un braccialetto elettronico, agli arresti domiciliari. Insomma, niente prigione in vista, ma una vita diversa da quella attuale... Senza contare che, nel marzo scorso, l'ex presidente era già stato condannato a tre mesi (di cui due con la condizionale) per corruzione e traffico d'influenze, per le pressioni fatte su un magistrato per avere informazioni su altre indagini della giustizia sul proprio conto, promettendo di dare una spinta a questo giudice per la carriera. Anche lì ha fatto appello. E la sentenza prevede (ma eventualmente) il braccialetto elettronico. Intanto, Sarkozy è incriminato per i sospetti di finanziamenti illegali di Gheddafi alla campagna elettorale (quella vittoriosa) del 2007. Potrebbe incassare una nuova condanna. Nell'ultimo processo, si è presentato solo per essere interrogato. Per il resto, è stato sempre assente, anche ieri. Durante l'udienza Vanessa Perrée, procuratrice, aveva criticato il suo atteggiamento e sottolineato che «la totale disinvoltura di chi all'apparenza non rimpiange nulla è l'immagine della disinvoltura di cui dette prova nella campagna elettorale».

(ANSA il 30 settembre 2021) - L'ex presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, è stato condannato oggi per il finanziamento illecito della sua campagna elettorale del 2012, nel cosiddetto caso delle false fatture "Bygmalion". Sarkozy non era presente in aula alla lettura del verdetto. L'accusa aveva chiesto per lui un anno di carcere.

Parigi, l'ex presidente Sarkozy condannato per finanziamento illecito: indosserà il braccialetto elettronico. Redazione Tgcom24 il 30 settembre 2021. L'ex presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, è stato condannato a un anno di carcere senza condizionale per il finanziamento illecito della sua campagna elettorale del 2012, nel cosiddetto caso delle false fatture "Bygmalion". Sarkozy, che non era presente in aula alla lettura del verdetto, dovrà indossare il braccialetto elettronico. Caroline Viguier, presidente del tribunale, ha definito i fatti addebitati "di una gravità senza precedenti". Sarkozy, insieme con altri dei 14 imputati, "ha proseguito l'organizzazione di comizi, consentito nuove prestazioni, disposto spese e volontariamente omesso, in qualità di candidato, di esercitare un controllo sulle uscite". Braccialetto elettronico - Il tribunale ha poi precisato che "la pena sarà applicata ed eseguita in base al regime della sorveglianza elettronica". L'ex presidente, 66 anni, a prescindere dal quasi certo appello che i suoi avvocati presenteranno, non andrà quindi in carcere. Sarkozy nega ogni accusa - Già condannato lo scorso marzo a tre anni di carcere (uno senza condizionale) per corruzione e traffico di influenze nel caso delle "intercettazioni", l'ex Capo di Stato francese ha presentato appello contro quella sentenza. E potrà ricorrere anche contro il verdetto odierno: Sarkozy ha infatti negato con forza ogni accusa.

L'accusa - Secondo i giudici, Nicolas Sarkozy ha speso "consapevolmente" almeno il doppio della somma massima legale di 22,5 milioni di euro per la campagna elettorale. L'ex presidente avrebbe inoltre "volontariamente" evitato di controllare le spese aggiuntive.

La condanna di Sarkozy? Toghe in delirio d’onnipotenza. Il Dubbio il 14 marzo 2021. Pubblichiamo un articolo di un alto funzionario dello Stato francese apparso sul sito “slate. fr” che ritorna sulla condanna a tre anni di prigione inflitta all’ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, al suo avvocato Therry Herzog e al giudice Gilbert Azibert. Pubblichiamo un articolo di un alto funzionario dello Stato francese ( che è voluto rimanere anonimo) apparso sul sito “slate. fr” che ritorna sulla condanna a tre anni di prigione inflitta all’ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, al suo avvocato Therry Herzog e al giudice Gilbert Azibert. Avere fiducia nella giustizia del proprio Paese e non criticare pubblicamente le sentenze. Mi sarei tenuto senz’altro a questo principio se le nozioni di giustizia penale che ho appreso a scuola fossero oggi rispettate in Francia. Mi avevano insegnato che un’accusa di corruzione deve fondarsi su prove solide. E in mancanza di prove, almeno su una grande quantità di gravi indizi, ma nella sentenza che ha condannato Nicolas Sarkozy, Thierry Herzog e Gilbert Azibert non c’è nulla di tutto questo. Come hanno fatto i giudici ad accontentarsi di una costruzione intellettuale della procura basata su stralci di intercettazioni telefoniche tra un avvocato e il suo cliente? Mi hanno insegnato che un “patto di corruzione” è tale solo se c’è uno scambio di favori che intacchi l’autorità dello Stato, ma tra Nicolas Sarkozy e il Glibert Azibert non è avvenuto nessuno scambio di favori come ha dimostrato la difesa senza peraltro essere smentita. Mi hanno insegnato che un giusto processo deve tenere conto della ricerca della verità e del diritto alla difesa. I legali degli imputati hanno presentato argomentazioni molto concrete ma si ha l’impressione che i giudici abbiano emesso la sentenza prima ancora che iniziassero le udienze, Mi hanno insegnato che il giudizio penale non deve tenere conto di elementi estranei all’inchiesta che servono solo a infangare l’immagine degli imputati. Mi hanno insegnato poi che la pena deve essere proporzionata alla gravità reato commesso. È proporzionata l’imposizione del braccialetto elettronico a un ex presidente della Repubblica per uno scambio di favori che non c’è mai stato? E il divieto per l’avvocato Herzog di esercitare la sua professione per i prossimi cinque anni è forse necessario e proporzionato? Se tutto quello che mi hanno insegnato a scuola non vale più non è perché la magistratura in questo affare è contemporaneamente parte giudicante e parte in causa? Per il suo carattere sintomatico il processo conto Sarkozy, Herzog e Alibert pone dei quesiti sullo stato d’animo e sulla cultura dei magistrati francesi negli ultimi 50 anni. Cosa cerca l’autorità giudiziaria perseguitando i responsabili politici? Di purificare il sistema giocando all’angelo sterminatore? Di affermare il suo potere? Di prendersi una rivincita sociologica sulle proprie condizioni di lavoro che sono, questo è vero, spesso indecenti? L’indipendenza della giustizia è oggi un fatto indiscutibile. È purtroppo la sua imparzialità che è venuta meno. Nella sua rappresentazione allegorica la giustizia si mostra con gli occhi bendati per incitare il giudice a tenere in equilibrio i piatti della bilancia e non per farli pendere dall’una o dall’altra parte a seconda dei pregiudizi, dello spirito di casta o delle semplici passioni personali.

Michela Allegri per "Il Messaggero" il 3 marzo 2021. Consulenze milionarie opache, fondi per finanziare la campagna elettorale, persino commissioni sospette. Il giorno dopo la sentenza a tre anni di reclusione per corruzione, emergono dai fascicoli giudiziari altre accuse che incrinano forse definitivamente la figura dell'ex presidente francese Sarkozy e di fatto gli precludono qualsiasi possibilità di tornare sulla scena politica transalpina. I tempi in cui Sarkò sorrideva ironico in favore di telecamera durante i vertici europei parlando dell'Italia e dell'allora premier Silvio Berlusconi, sembrano lontani, eppure era solo il 2011. Due giorni fa è stato condannato per corruzione per avere cercato di ottenere informazioni riservate da un magistrato in cambio di favori, e nelle prossime settimane dovrà affrontare altri inquirenti per chiarire il suo ruolo in diverse altre vicende poco chiare. Una delle indagini più delicate riguarda i suoi i legami con la Libia: Sarkozy è accusato di avere ricevuto tangenti da Muammar Gheddafi per finanziare la propria campagna elettorale del 2007. Avrebbe accettato milioni di euro dal regime, poi rovesciato nel 2011 dopo una campagna della Nato guidata proprio dalla Francia. Gli investigatori sospettano che la campagna sia stata finanziata tramite quel denaro, ma anche grazie ai proventi della vendita, avvenuta nel 2009, di una villa in Costa Azzurra ad un fondo di investimento libico gestito da Bashir Saleh, l'ex capo dello staff del colonnello Gheddafi. Ma non è tutto. A mettere nei guai il politico c'è anche il caso Bygmalion, sul finanziamento illegale della campagna elettorale del 2012: Sarko avrebbe consapevolmente sforato il tetto delle spese consentito di 22,5 milioni di euro, spendendone altri 20,5. Una vicenda che coinvolge altre 13 persone e la società di comunicazione Bygmalion, che avrebbe emesso numerose fatture false a carico del partito dell'ex capo dell'Eliseo. Poi c'è un altro caso di presunta corruzione nell'ambito di un contratto internazionale di 2 miliardi di euro siglato tra il Kazakistan e l'azienda Eurocopter in merito all'ordine di 45 elicotteri: una fattura gonfiata avrebbe permesso all'intermediario di ottenere una commissione molto più alta. All'epoca dei fatti Sarkozy aveva preso parte al negoziato in qualità di capo dello Stato. E c'è l'affaire Karachi, che riguarda due contratti, firmati nel 1994, per la vendita di sottomarini e armi al Pakistan e all'Arabia Saudita, che avrebbero generato retrocommissioni servite a finanziare la campagna presidenziale dell'ex premier Edouard Balladur, nel 1995. All'epoca Sarkozy era ministro del Bilancio, e portavoce della campagna. Ma la vicenda che sembra essere la più imbarazzante per l'ex presidente francese è recentissima e coinvolge una società russa di assicurazioni, la Reso-Garantia: l'accusa è traffico di influenze e riguarda un contratto di consulenza firmato da Sarkozy per 3 milioni di euro. Il politico sarebbe stato assunto come consigliere dal gruppo di proprietà dei due fratelli miliardari Sergei e Nikolai Sarkisov e le indagini avrebbero documentato che Sarkozy avrebbe già incassato 500mila euro come prima tranche del compenso pattuito per le sue attività. Le indagini sono scattate dopo la segnalazione dell'unità nazionale antifrode francese, Tracfin, che - in questo contesto - avrebbe considerato sospetta l'acquisizione da parte della compagnia assicurativa Axa del 36,7% della compagnia russa, dal momento che la stessa Axa è uno dei principali clienti dello studio legale Realyze, cofondato da Sarkozy nel 1987. E adesso i magistrati francesi vogliono capire che ruolo abbia avuto l'ex presidente francese in quella transazione, nella doppia veste di consulente legale di Axa attraverso lo studio Realyze e di consigliere di Reso-Garantia dei fratelli Sarkisov.

Federico Giuliani per ilgiornale.it l'1 marzo 2021. L'ex presidente francese Nicolas Sarkozy è stato riconosciuto colpevole di corruzione e traffico di influenza, e per questo condannato a tre anni di reclusione, uno dei quali da scontare in carcere e due con la condizionale.

La condanna di Sarkozy. La decisione, stabilita dal tribunale di Parigi, è arrivata al termine del processo sul "caso delle intercettazioni" scoppiato nel 2014, due anni dopo la sua uscita dall'Eliseo. Ricordiamo che Sarkozy, 66 anni, era finito nell'occhio del ciclone perchè sospettato di aver ottenuto da un magistrato della Corte di cassazione, Gilbert Azibert, delle informazioni in cambio di un posto alla Corte di revisione a Monaco. Il tribunale ha informato del fatto che Sarkozy potrà richiedere gli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico. Sempre questo mese, il politico affronterà un altro processo, con altre 13 persone, per accuse legate a finanziamenti illegali della sua campagna presidenziale nel 2012. Lo scorso 8 dicembre, la pubblica accusa aveva chiesto per l'ex presidente 4 anni di cui due sospesi perchè riteneva che l'immagine presidenziale fosse stata "deteriorata" da questa vicenda dagli "effetti devastanti". L'accusa si riferisce a fatti del 2014, quando Sarkozy aveva cercato di ottenere, con l'intermediazione del suo avvocato Thierry Herzog, informazioni riservate dall'allora alto magistrato Azibert, nell'ambito dell'indagine sulle sue agende, a margine della vicenda Bettencourt. Le informazioni sarebbero state fornite in cambio di una spintarella per un posto di prestigio a Montecarlo. In tribunale, la sua difesa ha sostenuto che, alla fine della vicenda, Sarkozy non ha avuto vantaggi davanti alla Corte di Cassazione e che Azibert non ha mai ottenuto quel posto a Montecarlo. Ma secondo la legge, non è necessario che si ottenga una contropartita per caratterizzare il reato di corruzione. Adesso l'ex presidente può ricorrere in appello.

Mauro Zanon per "Libero quotidiano" il 18 giugno 2021. «Il candidato è stato disinvolto nella gestione dei conti della propria campagna», ha tuonato ieri il procuratore del tribunale correzionale di Parigi Vanessa Perrée durante la requisitoria a due voci accanto al collega Nicolas Baietto. Il candidato, o meglio l'ex candidato, è Nicolas Sarkozy, contro cui ieri è stata richiesta una pena di un anno di prigione, di cui sei mesi con la condizionale, assieme a una multa di 3.750 euro per le spese allegre durante la sua campagna elettorale per le presidenziali del 2012, quando difendendo i colori dell'Ump perse malamente contro il socialista François Hollande. È il cosiddetto "affaire Bygmalion", dal nome della società di comunicazione a cui venivano intestate false fatture. «Nicolas Sarkozy, a quanto pare, non si pente di nulla visto che è venuto ad una sola udienza», ha affermato la Perrée, denunciando «la totale disinvoltura» dell'ex inquilino dell'Eliseo, ritiratosi dalla scena politica nel 2016. Il procuratore, nella severa requisitoria, ha puntato il dito contro il comportamento da sbruffone e la tracotanza dell'ex capo dello Stato francese. «Il fatto di non considerarsi un imputato come gli altri, un cittadino come gli altri, corrisponde a ciò che è stato durante questa campagna presidenziale, situandosi fuori dalla mischia», ha dichiarato la Perrée. «Questa disinvoltura nei confronti degli altri imputati (13 in tutto, ndr) e del tribunale è all' immagine della disinvoltura mostrata nella sua campagna», ha insistito, facendo leva sulla versione dell'accusa: c'è stata un'«accelerazione» della campagna segnata da «un'improvvisazione e un'impreparazione totale», partendo da «una quindicina di meeting» inizialmente previsti per arrivare ai 44 finali organizzati tra gennaio e maggio 2012. Con una conseguente esplosione dei costi e un significativo superamento del tetto di campagna, fissato per legge a 22,5 milioni di euro. Nel dettaglio, le spese sarebbero schizzate «ad almeno 42,8 milioni», secondo l'inchiesta citata durante la requisitoria. «L'importante non era il tetto legale di campagna, ma vincere le elezioni (...), i soldi non contavano», ha detto il procuratore Perrée, parlando di «gravi derive finanziarie». La tegola giudiziaria caduta ieri in testa all' ex président fa molto male. Anche perché arriva a soli tre mesi e mezzo dalla condanna a tre anni per corruzione e traffico di influenze nell'ambito del cosid detto "affaire des écoutes", lo scandalo delle intercettazioni che lo perseguita dal 2014, ossia da quando la giustizia ha scoperto la sua linea telefonica segreta, a nome di Paul Bismuth, e la promessa di un incarico prestigioso a un magistrato in cambio di informazioni coperte dal segreto istruttorio sul dossier Betten court. Secondo quanto raccontato dal giornale d'inchiesta Mediapart, presente in aula martedì per l'unica audizione a cui ha partecipato Sarkozy, l'ex inquilino dell'Eliseo era molto agitato, «parlava forte e gesticolava», rispondendo alle domande dei giudici dell'undicesima camera correzionale di Parigi. Sarkozy non è riuscito a spiegare perché i grandi meeting si moltiplicavano nel 2012, nonostante gli avvertimenti di chi gestiva i conti dell'allora Ump. «Mi piacciono le piccole riunioni, mille, duemila persone, perché si è a contatto con la gente», ha detto Sarkò, cercando di convincere i giudici. Invano. E nei prossimi mesi potrebbero esserci brutte sorprese anche per quanto riguarda i finanziamenti illeciti di Gheddafi alla campagna elettorale del 2007, il cosiddetto "affaire libyenne".

Guai giudiziari. Nel maggio 2016 la corte di appello di Parigi ha cancellato alcuni atti dell'inchiesta, ritardando la prospettiva di un processo. Il 18 giugno 2020 la Corte di cassazione ha respinto i vari ricorsi presentati da Sarkozy e Alibert. Due questioni prioritarie di costituzionalità formalizzate dalla difesa dell'ex presidente sono state anch'esse respinte, aprendo la strada al processo, cominciato lo scorso 23 novembre. Il giorno stesso della sua apertura, è stato subito sospeso a causa della richiesta di rinvio per motivi di salute presentata in udienza da uno dei co-imputati, il giudice Azibert. Il ricorso è stato respinto dal tribunale di Parigi poiché la perizia medica ha stabilito che il magistrato 73enne fosse in grado di comparire di persona. Il processo è quindi ripreso il 30 novembre. Al di là della sentenza odierna, l'ex presidente Sarkozy non avrà ancora chiuso con la giustizia: l'affaire Azibert o Bismuth è solo uno dei diversi guai giudiziari che negli ultimi anni lo hanno visto coinvolto sia come imputato che come coimputato, persona informata dei fatti o testimone e per alcuni dei quali è già stato prosciolto.

Potrà richiedere i domiciliari. Nicolas Sarkozy condannato a tre anni per corruzione: stangata per l’ex presidente francese. Redazione su Il Riformista l'1 Marzo 2021. L’ex presidente francese Nicolas Sarkozy è stato dichiarato colpevole di corruzione e traffico d’influenza dal tribunale di Parigi. Sarkozy, alla guida della Francia dal 2007 al 2012 con l’UMP, Unione per un Movimento Popolare, è stato condannato a 3 anni: due con la condizionale e uno di carcere. Il politico 66enne è stato condannato per aver tentato di ottenere illegalmente informazioni da un magistrato nel 2014, a proposito di un procedimento legale in cui era coinvolto. Il tribunale ha informato del fatto che Sarkozy potrà richiedere gli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico. I pubblici ministeri della Capitale avevano chiesto  quattro anni di reclusione, di cui due con la condizionale, sia per l’ex presidente che per il suo avvocato Thierry Herzog e il magistrato della Corte di Cassazione Gilbert Azibert. La vicenda riguarda il passaggio di informazione da Azibert a Sarkozy in merito ad un processo che vedeva coinvolto l’ex presidente, in cambio di un posto di rilievo alla Corte di revisione giudiziaria a Monaco. L’avvocato Thierry Herzog avrebbe fatto da tramite tra i due. Le richieste di informazioni riguardavano un finanziamento proveniente dalla Libia per la sua campagna elettorale del 2007, quella che lo avrebbe poi portato all’Eliseo fino al 2012. I fatto sono di “particolare gravità essendo stati commessi da un ex presidente della Repubblica”. “Si è servito del suo status e delle sue relazioni politiche e diplomatiche per gratificare un magistrato“, ha dichiarato la presidente del tribunale correzionale, Christine Mée. Sempre questo mese Sarkozy affronterà un altro processo, con altre 13 persone, per accuse legate a finanziamenti illegali della sua campagna presidenziale nel 2012. Sarkozy non è il primo presidente francese a subire una condanna penale: il precedente è del 2011, quando il suo predecessore Jacques Chirac si vide infliggere due anni per assunzioni di favore al comune di Parigi, pur non scontando mai la pena. Per Sarkozy ha subito espresso “Sostegno irremovibile” Christian Jacob, presidente del partito Les Républicains, su Twitter, dopo la sentenza odierna. Per il deputato di Seine-et-Marne, “la severità della pena comminata è assolutamente sproporzionata e rivelatrice dell’accanimento giudiziario di un’istituzione già molto contestata”. A difendere a spada tratta l’ex presidente anche Carla Bruni, ormai ex première dame che si schiera con un post su Instagram accanto al consorte con parole d’amore e di battaglia. “Che folle implacabilità amore mio… la lotta continua, emergerà la verità”, scrive la cantante ed ex modella, aggiungendo l’hashtag #injustice.

La mano di piombo dei giudici: Sarkozy condannato a tre anni di carcere. L'ex presidente, francese riconosciuto colpevole di corruzione e traffico di influenze, non ci sta: «Sono innocente, lo dimostrerò in appello». Sara Volandri Il Dubbio martedì 1 marzo 2021. La prima linea difensiva di Nicolas Sarkozy è crollata sotto le bordate dei giudici che hanno rigettato tutte le argomentazioni dei suoi avvocati, condannando l’ex presidente della repubblica francese per corruzione e traffico d’influenza. Per quanto minore da quella richiesta dalla procura, la pena è pesantissima: tre anni di prigione di cui due sospesi. Una decisione, quella della 32esima sezione della corte penale di Parigi, destinata a far discutere e che scuote il mondo politico d’oltralpe. L’inchiesta sul cosiddetto “affare delle intercettazioni” che Sarko definisce «una persecuzione», si fonda infatti su molti elementi indiziari e, come sostengono i suoi difensori, su un reato che non è mai stato materialmente commesso. Ma ecco i fatti: Sarko è accusato di aver esercitato pressione per far promuovere al tribunale del principato di Monaco il giudice Gilbert Azibert. In cambio avrebbe ottenuto informazioni su un’altra inchiesta giudiziaria che lo coinvolge, quella sui presunti fondi occulti ricevuti dal regime libico di Gheddafi per finanziare la vittoriosa campagna presidenziale del 2007. Che la promozione in questione non abbia poi mai avuto luogo non è stato un argomento sufficiente per convincere i giudici a prosciogliere Sarkozy. «È un processo alle intenzioni, un processo ai fantasmi», gridano i legali, mentre per i giudici l’ex capo dello Stato sarebbe al centro di un «vero e proprio patto di corruzione» che oltre ad Azibert avrebbe come figura centrale Thierry Herzog, l’avvocato personale di Sarko. «Il comportamento dell’imputato in quanto capo dello Stato è particolarmente grave e mina l’indipendenza del potere giudiziario e la fiducia dell’opinione pubblica nelle istituzioni, per questo necessita una risposta penale decisa» ha spiegato la presidente del tribunale Christine Mée, mentre leggeva la sentenza. Condannati assieme a Sarkozy anche l’avvocato Herzog (stessi reati e stessa pena, oltre al divieto per 5 anni di esercitare la professione di penalista), peraltro intercettato illegalmente nel corso dell’inchiesta. E naturalmente anche il giudice Azibert, riconosciuto colpevole di “corruzione passiva” (stessa pena) e di violazione del segreto professionale. «Sono innocente e questa è una giustizia a orologeria, dimostrerò la mia innocenza nel processo d’appello», ha commentato l’ex inquilino dell’Eliseo, mentre l’avvocata Jacqueline Laffont parla di una sentenza «totalmente sconnessa dalla realtà dei fatti». Durissime le parole della senatrice repubblicana Valérie Boyer: «È scioccante sapere che in Francia si può essere condannati sulla base di intercettazioni telefoniche illegali di un imputato e il suo avvocato». Quale sarà dunque la sorte di Sarkozy? Tradizionalmente negli affari di corruzione e nei reati finanziari la corte d’appello tende ad addolcire le sentenze emesse in primo grado. Se la difesa non riuscirà a smontare il castello accusatorio e verranno confermati i capi d’imputazione è probabile che la pena venga commutata negli arresti domiciliari o magari con l’obbligo del braccialetto elettronico.In ogni caso basterebbe a seppellire per sempre le ambizioni politiche dell’ex inquilino dell’Eliseo proprio in un momento in cui la droite è alla disperata ricerca di un leader e in cui il suo nome è stato più volte evocato come salvatore della baracca post-gollista.Ma anche in caso di assoluzione in appello, i guai non sono certo terminati e altre inchieste pendono minacciose sulla sua testa.La più impellente riguarda l’”affare Bygmalion” il cui processo inizierà il prossimo 17 marzo; anche in questo caso Sarko è accusato di finanziamento illegale della campagna presidenziale, stavolta quella perdente del 2012 che vide il socialista François Hollande approdare all’Eliseo: tramite la società Bygmalion il suo partito (oggi Républicain, all’epoca Ump) avrebbe emesso fatture false dalle quali sarebbero stati stornati fondi- crica 17 milioni di euro- per la sua campagna personale. Un’inchiesta che coinvolge anche il vecchio tesoriere dell’Ump Dominique Dord, e Jean-François Copé, ex deputato ed ex ministro, nonché fedelissimo di Sarkozy.

La parabola discendente dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy. Roberto Vivaldelli su Inside Over l'1 marzo 2021. Sono passati dieci anni da quando Sarkò sbeffeggiava il nostro Paese deridendo l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in conferenza stampa, in compagnia di Angela Merkel. Dopo dieci anni da quell’episodio e da quell’Annus horribilis per l’ Italia – il 2011, l’anno dello spread alle stelle e del governo Monti – Merkel è ancora al suo posto, Berlusconi è uno dei protagonisti della politica italiana e sponsor del governo di Mario Draghi mentre non si può dire lo stesso dell’ex presidente transalpino. Quella di Nicolas Sarkozy, ventitreesimo presidente della Repubblica francese, dal 16 maggio 2007 al 15 maggio 2012, è infatti una parabola discendente. Come riporta IlGiornale.it, l’ex presidente francese è stato riconosciuto colpevole di corruzione e traffico di influenza, e per questo condannato a tre anni di reclusione, uno dei quali da scontare in carcere e due con la condizionale. La decisione, stabilita dal tribunale di Parigi, è arrivata al termine del processo sul “caso delle intercettazioni” scoppiato nel 2014, due anni dopo la sua uscita dall’Eliseo. Sarkozy, 66 anni, era finito nell’occhio del ciclone perché sospettato di aver ottenuto da un magistrato della Corte di cassazione, Gilbert Azibert, delle informazioni in cambio di un posto alla Corte di revisione a Monaco. Il tribunale ha informato del fatto che Sarkozy potrà richiedere gli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico. Nelle prossime settimane Sarkò affronterà un altro processo, con altre 13 persone, per accuse legate a finanziamenti illegali della sua campagna presidenziale nel 2012.

Dal 2012 in poi molte grane giudiziarie e poche gioie per Sarkò. Da quando non è più all’Eliseo, Nicolas Sarkozy ha raccolto davvero poche soddisfazioni e molti guai giudiziari. L’ultima tegola lo scorso gennaio, quando quando l’ex presidente è finito nella bufera per un incarico di assistente parlamentare “fittizio ma ben pagato” assegnato alla sua ex moglie Cécilia Attias. L’ex seconda consorte dell’esponente gollista, separatasi da lui nel 2007, avrebbe infatti beneficiato di un incarico parlamentare, all’epoca in cui Sarkozy era ministro dell’Interno, che lei avrebbe svolto esclusivamente sulla carta, venendo però ricompensata con oltre 3mila euro al mese per tale suo “lavoro”. Come ricorda IlGiornale.it, a portare alla luce l’incarico fasullo e i soldi pubblici di cui avrebbe immotivatamente beneficiato Cécilia Attias, nonché a lanciare l’ennesima campagna mediatica contro il politico conservatore, è stato il settimanale satirico parigino Le Canard Enchainé. In base alle accuse dell’organo di stampa, vi sarebbero documenti attestanti l’assunzione di Cécilia come assistente parlamentare part-time nel momento in cui l’allora marito Sarkozy diveniva ministro dell’Interno. Ma le grane giudiziarie non finiscono qui. Nel marzo 2015 Sarkozy era stato ascoltato come testimone assistito nell’inchiesta su 400 mila euro di multa che Sarkozy avrebbe dovuto pagare per lo sforamento del tetto delle spese autorizzate durante la campagna elettorale 2012. Della somma si era fatta carico la direzione del suo partito, l’Ump. Il caso si è chiuso con un non luogo a procedere generale. L’unica consolazione, insieme al successo letterario del suo ultimo libro, sempre essere la fidata moglie, Carla Bruni, che sui social ha preso le sue difese: “Che folle implacabilità amore mio… la lotta continua, emergerà la verità”, ha scritto la cantante ed ex modella, aggiungendo l’hashtag #injustice.

Le ombre sulla guerra in Libia. Nicolas Sarkozy passerà alla storia come il Presidente che trascinò l’Occidente in guerra contro la Libia di Muammar Gheddafi nei primi mesi del 2011. Motivazioni umanitarie? Il timore di un imminente genocidio? Gli stupri di massa da parte dei miliziani? Nulla di tutto questo. Come si è scoperto in seguito, grazie alle mail declassificate dell’ex Segretario du Stato Usa Hillary Clinton, furono ben altre le motivazioni che spinsero Sarkozy a intervenire militarmente, con il pieno supporto della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Attacchi che successivamente furono unificati il 25 marzo 2011 sotto l’Operazione Unified Protector a guida Nato. La email No. F-2014-20439 Doc No. C05779612 inviata il 2 aprile 2011 dal funzionario Sidney Blumenthal (stretto collaboratore prima di Bill e poi di Hillary) all’allora Segretaria di Stato Usa Hillary Clinton, dal titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, svela la verità sull’intervento occidentale in Libia a supporto degli insorti. “Secondo le informazioni disponibili – scrive Blumenthal – il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento. Durante la fine di marzo 2011 questi stock sono stati spostati nel Sabha (sud-ovest in direzione del confine libico con il Niger e il Ciad); presi dai caveau della Banca centrale libica a Tripoli”. Questo oro, prosegue, “è stato accumulato prima dell’attuale ribellione e doveva essere utilizzato per stabilire una moneta panafricana basato sul dinar libico. Questo piano è stato progettato per fornire ai Paesi africani francofoni un ’alternativa al franco francese (Cfa)”. Un piano, quello del Colonnello, che allarma l’Eliseo, come conferma Blumenthal nella stessa e-mail, nero su bianco. “Gli ufficiali dei servizi segreti francesi hanno scoperto questo piano poco dopo l’inizio della ribellione in corso e questo era uno dei fattori che hanno influenzato la decisione del presidente Nicolas Sarkozy di impegnare la Francia nell’attacco alla Libia”. C’erano poi i rapporti personali fra Gheddafi e Sarkozy a giustificare quell’intervento militare a fianco degli insorti: perché il Ràis, come ha documentato anche Fausto Biloslavo su IlGiornale intervistando l’ex consigliere di Gheddafi Moftah Missouri, finanziò la campagna elettorale dell’ex presidente transalpino per milioni di dollari. Un rapporto, quello fra Sarkozy e Gheddafi, documentato anche dal libro firmato dai giornalisti Fabrice Arfi e Karl Laske e pubblicato nel 2017 nel quale si parla di “borse piene di banconote che viaggiano tra Tripoli e Parigi, bonifici sospetti, lettere con promesse di milioni per favorire l’elezione dell’ allora leader della destra francese”. Verità, quelle sulla guerra in Libia, che hanno distrutto l’immagine di un Presidente che non passerà certo alla storia da statista.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 16 gennaio 2021. Ennesimo colpo alle residue speranze di un come-back in politica dell' ex presidente Nicolas Sarkozy: un nuovo affaire giudiziario si aggiunge alla sua collezione. Ieri la Procura finanziaria nazionale ha ammesso di avere aperto un' indagine preliminare su Sarkò riguardo alle sue attività di consulenza in Russia. È sospettato di traffico d' influenze illecite e di riciclaggio di denaro. L'uomo politico ha firmato nel 2019 un contratto da tre milioni di euro con Reso Garantia, una delle maggiori compagnie assicurative in Russia, controllata da due miliardari di origini armene, Sergey e Nikolai Sarkisov. Secondo il sito Mediapart, «la giustizia cerca di verificare se l' ex capo di Stato ha agito solo come consulente, il che sarebbe perfettamente legale, o se si è impegnato in attività di lobbying potenzialmente criminali per conto di questi oligarchi russi». Va sottolineato che nel 2007 Axa, uno dei colossi assicurativi francesi, ha acquisito il 36,7% di Reso Garantia. E Axa è uno dei principali clienti dello studio legale Realyze, cofondato da Sarkozy nel 1987. Intanto l' ex presidente è nell' attesa il primo marzo della sentenza del processo Bismuth, intentato contro di lui per le pressioni esercitate su un magistrato.

·        Quei razzisti come i belgi.

Niccolò Fantini per mowmag.com il 18 agosto 2021. Il libro “I becchini del Belgio" (in olandese: De Doodgravers van België, in francese: Les Fossoyeurs de la Belgique) è stato pubblicato il 1 luglio 2021 dal giornalista di Newsweek, Wouter Verschelden. Il volume ripercorre i 662 giorni di crisi politica del paese franco-fiammingo, che hanno portato alla nascita dell'attuale coalizione di governo, denominata “Vivaldi”, il cui Premier in carica da ottobre 2020 è il liberale Alexander De Croo. Il libro è una cruda analisi, da parte del giornalista politico-economico, dell'attuale classe dirigente di Bruxells: egolatria, lotte fratricide, colpi bassi, tradimenti e segreti. Una fotografia dei nostri cugini europei, che sembra quasi la cronaca politica d'Italia. Ma per l'uomo qualunque è interessante il capitolo dedicato a una relazione "privata" del premier Alexander De Croo: una serie di messaggini su Whatsapp che l'attuale primo ministro belga, classe 1975, coniugato e padre di due figli, ha inviato in pandemia a una famosa italiana, di vent'anni più giovane: la pornostar Eveline Dellai. Che infatti è nata a Villamontagna (Trento) nel 1993, da padre italiano e mamma della Repubblica Ceca. Eveline Dellai è una famosa stella mondiale dell'intrattenimento per adulti, che da circa 6 anni è tra le protagoniste femminili dei set e dei lungometraggi, nelle più importanti produzioni pornografiche d'Europa e degli Stati Uniti. E alle cronache italiane è anche nota, con lo pseudonimo di “Dellai Twins: Le gemelle Dellai”, per gli spettacoli a luci rosse, le serate in discoteca e le ospitate da Barbara D'Urso su Mediaset, in coppia con la sorella gemella Silvia. Però come mai la trentina Eveline Dellai chattava in privato con il futuro capo del governo belga che, all'epoca di questo flirting via app, era il ministro delle telecomunicazioni? E perché la storia non è oggetto di pruderie da parte dei mass media d'Europa, come la foto di Topolanek, ignudo in piscina, ai tempi d'oro del berlusconismo? E, cribbio, perché non c'è traccia della notizia sul web? Se Angela Merkel mandasse dei messaggini a Rocco Siffredi, sarebbe uno scoop interplanetario e chiunque, dalle Alpi alle Ande, lo leggerebbe sul proprio smartphone. E non c'entra l'asfissiante litania di sessismo-misoginia-maschilismo, infatti negli scandali porno-politici esiste da sempre la “gender equality”: le rivelazioni sulla passata relazione tra l'ex pornostar Stormy Daniels e Donald Trump, hanno tappezzato i media del globo per lungo tempo, durante la scorsa Presidenza USA. MOW è il primo magazine nel Vecchio Continente e anche in tutti gli altri, a raccogliere la testimonianza, diretta e personale, di Eveline Dellai circa lo scandalo belga di cui è l'inconsapevole protagonista.

Eveline, cerchiamo di comprendere meglio: ci racconti quando sei stata contattata in privato da Alexander De Croo, l'attuale premier del Belgio?

«Allora, questo tipo mi ha contattato tanto tempo fa. Non so come ha fatto ad avere il mio numero personale, ma da quel suo numero mi ha contattato nel 2020. E non mi ha scritto solo una volta, mi ricordo che ci ha provato... tante volte.»

I messaggi delle chat che hai inviato a MOW (e di cui siamo in possesso dopo che sono stati cancellati dal web) sono espliciti: “Hey tesoro. So che sei in Belgio il 24 novembre... Fantastico! Pensi che potremmo fissare un incontro il giorno dopo lunedì 25?”. Si legge che ci provava spudoratamente, per un appuntamento con te. Ma tu sapevi che quel numero era di un ministro, ora a capo del governo di Bruxells?

«Quella che è uscita fuori (le due schermate della chat di cui siamo in possesso) era l'ultima volta. Me lo ricordo bene perché in quel periodo ho collaborato con Denis. E io gli ho chiesto se poteva conoscere chi questo tizio, dato che diceva di essere una persona importante. Il Denis allora mi ha detto che quel numero era di un politico del Belgio.»

La relazione privata di Alexander De Croo è stata svelata al sito P-magazine da Dennis Black Magic, al secolo Dennis Burkas, produttore belga di pornografia, che si trova ora in carcere, accusato di aggressione e stupro da parte di un'altra attrice hard in Belgio. Il pornografo svela, in una telefonata dalla galera e pubblicata sul canale Youtube della testata, le chat private tra Eveline Dellai e il futuro primo ministro europeo, Alexander De Croo, nonché sottolinea la scomparsa della notizia e il disinteresse dei media di Bruxells, raccontando anche di altri successivi incontri, segreti e in ambigui parcheggi, con rappresentanti ed emissari del governo.

Quindi il produttore Dennis Black Magic è la “gola profonda” che ha raccontato al Belgio le chat del primo ministro?

«Sì. Ma comunque Denis era innamorato di me. Perciò ha contattato De Croo. Ma io non lo sapevo! Non ero in Belgio e non mi interessava questa cosa, per cui l'ho dimenticata quasi subito. Ma un giorno ho litigato definitivamente con Denis, gli ho detto cosa penso di lui e poi l'ho cancellato dalla mia vita. Forse per questo si deve essere offeso e ha raccontato tutto questo alle mie spalle. Ma non so perché e cosa è successo tra di loro due.»

Ok: lui ha contattato Alexander De Croo e ha raccontato delle vostre chat private ai suoi concittadini, ma tu quando e come l'hai scoperto?

«L'ho scoperto sui giornali. Lo scorso anno: nel 2020. Ho visto che in Belgio c'era scritto su Internet tutto questo discorso, su di me e quel politico. Perché ha fatto tutto questo Dennis, non lo so. Forse perché era arrabbiato con me. Forse per una questione di soldi, davvero non lo so.» 

Il libro che racconta la vicenda è uscito a luglio del 2021, molti mesi dopo che Alexander De Croo è diventato, il 1 ottobre 2020, il premier dell'attuale coalizione di partiti che governano il Belgio. Tra le fonti e i documenti che riporta nel libro, il giornalista di Newsweek pone l'accento su una conversazione, che dimostra come le porno-avances via Whatsapp di Alexander De Croo hanno influenzato l'agenda politica e prolungato il calendario della crisi politica di Bruxells. I messagini privati a Eveline Dellai spiegano infatti perché Gwendolyn Rutten, altra importante politica fiamminga, nonché collega e presidente di partito del premier, si vedesse durante il 2020 candidata a primo ministro al posto di Alexander de Croo, poiché indebolito da questo scandalo personale, soprattutto se la notizia fosse diventata di dominio pubblico. Wouter Verschelden nel libro riporta una conversazione diretta tra i due: “Possono ricattarti? Oppure sei intoccabile?” chiede Rutten a De Croo, che risponde di non poterlo garantire. Un premier ricattabile per le sue relazioni private e i suoi gusti in fatto di donne e sesso: questa in Italia pare di averla già sentita. Anche il noto sito di politica internazionale, Politico.eu, segnala l'analisi di Verschelden: lo scandalo privato di Alexander De Croo, confermato da differenti fonti e sommato ad altri fattori, ha contribuito a ritardare di un anno la nascita della coalizione “Vivaldi”, nonché a segnare la fine della lunga crisi di governo a Bruxells. La vicenda ha dunque influenzato le tempistiche della politica, ma non l'agenda dei media: la notizia non è mai infatti diventata di dominio pubblico. Dalle informazioni presenti sul web e dalle conferme nel libro del giornalista di Newsweek, pare evidente che i mass media del Belgio, tra cui l'importante quotidiano De Morgen, fossero a conoscenza della notizia ma, trattandosi di relazioni private e pettegolezzi, non cercarono riscontri e quindi uscì da scaletta e ordine del giorno.

E ora, che sei in un capitolo del libro fresco di stampa, quando hai saputo che tornava l'interesse in Belgio per questa vicenda?

«Quasi un paio di mesi fa, poco prima dell'estate, verso fine giugno: hanno messo di nuovo fuori la storia, alcuni ne parlavano su Internet in Belgio. Credo per questa cosa del libro, ma non so cosa si dica di me. Alcuni hanno scritto il mio nome, come ho visto su Twitter e Google. Ma non capisco quella lingua.»

Secondo te c'è stato un disinteresse o una censura, da parte dei media del Belgio, per le chat private del ministro delle telecomunicazioni che dopo alcuni mesi è diventato il capo del governo?

«Non lo so perché qualcuno ha cancellato tutto quello che c'era prima. Ma in estate ho guardato su Internet: il mio nome c'è solo nel discorso di questo politico, in Belgio. Ma non so parlare questa lingua e non capisco molto di quello che scrivono sui social.»

In effetti nemmeno in Cina, in Iran o in Russia è semplice cancellare le informazioni una volta che sono pubblicate e si diffondono in Rete. E di sicuro non ce lo si aspetta nel civile Belgio e nell'Unione Europea, che è definita la culla della democrazia. Come protagonista inconsapevole di un intrigo politico in un altro paese europeo, quale è la tua opinione?

«Mah, è davvero strano. Anche perché ancora parlano di questa cosa. Non è successo proprio niente, ma sui social fanno sembrare: "boom!" Ma davvero non è successo... proprio nulla.»

Francesca Visentin per il “Corriere della Sera” il 20 agosto 2021. «Ehi tesoro. So che sei in Belgio il 24 novembre... Fantastico! Pensi che potremmo fissare un incontro il giorno dopo, lunedì 25?». Con questo messaggio, inviato dall'attuale primo ministro belga Alexander De Croo, 46 anni, sposato, padre di due figli, alla pornostar trentina Eveline Dellai, 28 anni, è iniziato lo scandalo che sta mettendo in imbarazzo un intero governo. E che, soprattutto, rischia di costare la poltrona proprio allo stesso De Croo, nominato premier il 20 ottobre 2020. La chat «bollente» tra il politico e la giovane stella internazionale del porno risale al periodo in cui De Croo era ministro per le telecomunicazioni. È stata svelata da Wouter Verschlden, giornalista di Newsweek , nel libro uscito nel luglio 2021 I becchini del Belgio , in cui ha narrato i retroscena della crisi politica nel Paese. Tra cui, appunto, quello che riguarda i messaggi hard tra De Croo e l'attrice italiana. A Eveline Dellai di Villamontagna (Trento), nota anche per gli spettacoli a luci rosse realizzati assieme alla sorella gemella Silvia (le «Dellai Twins»), De Croo ha inviato una lunga serie di espliciti apprezzamenti piccanti e avances tramite WhatsApp, che sono approdati poi per qualche ora su YouTube, pubblicati dal produttore belga di film hard Dennis Burka (finito poi in carcere per una vicenda di stupro). Ora è la stessa Dellai a raccontare la sua verità: «De Croo - dice in una pausa delle riprese del suo nuovo film - mi aveva scritto in occasione di un mio spettacolo in Belgio, chiedendomi di vederci. In quel momento non sapevo chi fosse e come avesse ottenuto il mio numero privato, così mi sono informata e mi hanno detto che era un politico importante. Da lì abbiamo iniziato a scriverci. Era un mio fan, voleva vedermi. Anch' io avrei voluto, ma tra i suoi impegni e i miei non siamo riusciti a organizzare. Così abbiamo chattato». Eveline, se da un lato appare turbata per la reazione che si è scatenata in Belgio, non lo è invece per il contenuto dei messaggi inviati dal primo ministro. «Da loro questo è diventato uno scandalo, ma per me è una cosa da niente - afferma -. Ricevo milioni di messaggi, da tanti uomini. Molti di loro sono politici e sono famosi, per me è normale». Anche in questo periodo chatta con personaggi noti? «No comment», ride la pornostar. Dellai insiste: «I messaggi di De Croo sono simili a migliaia di altri che mi arrivano ogni giorno. La verità è che sono un po' triste che il premier e io non siamo riusciti a vederci di persona. Non ce l'abbiamo fatta a trovare il giorno giusto... È un peccato. A me piacciono tutti gli uomini con carisma. Anzi, gli uomini di potere in particolare...». Ma perché quei messaggi espliciti sono finiti su YouTube? Che cosa ha spinto il produttore Dennis Burkas a rivelare l'affaire a luci rosse? «Forse l'ha fatto perché era arrabbiato con me - risponde la 28enne, figlia di padre trentino e madre ceca -, anzi perché era innamorato di me. Con De Croo comunque non c'è mai stata una storia d'amore; io sono troppo impegnata con il lavoro, non ho spazio per innamorarmi. Certo gli uomini non mi mancano, ma senza amore». Eveline Dellai ora vive a Praga, a settembre tornerà a Trento, dove abitano ancora i genitori. Lo scandalo De Croo potrebbe diventare la trama di un suo prossimo film? «Può darsi - ammette -. Sarebbe interessante».

Come sopravvive il Belgio, lo stato fallito di maggior successo. Dario Ronzoni il 3/7/2021 su L'Inkiesta. Un Paese caotico, disordinato, iperburocratizzato, diviso ma creativissimo. Per resistere alle storie di ordinaria surrealtà quotidiane serve ironia, distacco e una certa mentalità zen. Distacco ironico. Capacità di sentirsi a proprio agio in situazioni assurde. Consapevolezza tranquilla che tutto può accadere da un momento all’altro e stravolgere piani e aspettative, anche le più semplici e, infine, creatività burocratica, improvvisazione ed estro. È quello che l’Economist definisce “zen belga”. Ossia l’abilità dei belgi di sopravvivere al Belgio, senza farsi troppi problemi. Perché le apparenze ingannano, ammonisce il magazine britannico: lo Stato è piccolo, ma complessissimo. E sebbene sia famoso per le patatine, Magritte, e il fatto di ospitare la capitale dell’Unione Europea («il cui scopo è trasformare la storia del continente un processo noioso anziché una serie di guerre sanguinose»), dentro ha un’anima nera e, soprattutto, caotica. Nelle ultime settimane, per esempio, l’attenzione generale era stata catalizzata dal caso di Jurgen Conings, ex soldato e tiratore scelto che aveva dichiarato di voler uccidere il più importante virologo del Paese, Marc Van Rast. Dopo le sue minacce si era dato alla macchia e la ricerca, che ha coinvolto tutti gli apparati di polizia, con tanto di cani, è durata un mese. A ritrovarlo, morto, è stato un sindaco di una cittadina di periferia. Ma nel frattempo Conings, ormai ribattezzato “Rambo no-vax”, aveva fatto in tempo a diventare l’idolo delle destre complottiste, suscitando applausi e battute. Ma ci sono anche altri casi. A partire dal sabotaggio della centrale nucleare di Doel nel 2014, costato centinaia di milioni di euro, che non ha suscitato più di tante reazioni. O la scomparsa dei piani per restaurare i tunnel sotteranei di Bruxelles, mangiati dai topi (così hanno detto le autorità). Il Belgio è noto per i suoi scarsi controlli di polizia – cosa che ha permesso alle organizzazioni terroristiche islamiche di prosperare e portare a segno diversi attentati, nel Paese e in Francia. Il punto è qui: sopravvivere al Belgio, alle difficoltà imprevedibili, assurde quanto tragiche, richiede uno stato mentale particolare. Lo zen, appunto. Serve la capacità di vivere il senso del surreale, come nel caso del rapimento di Paul Vanden Boeynants nel 1989, già primo ministro del Paese, che venne liberato un mese dopo e fece una conferenza stampa in cui non si chiarì nulla dell’accaduto. Ma la conferenza stampa entrò subito in un remix che fece ballare tutti. Serve anche avere un senso dell’ironia particolare. Il virologo Van Rast, mentre montava il sostegno social da parte dei no-vax per il soldato Cunings, non si è risparmiato una visita nelle loro chat. «Volevo vedere che idee creative venissero fuori qui», ha scherzato. Necessaria, inoltre, una buona dose di pazienza. Perché il Paese, attaccato e disprezzato da tempo immemore dagli stranieri (basterebbe ricordare che Baudelaire definiva Bruxelles “città delle scimmie”), è un ammasso caotico di esperimenti politici, etnici, amministrativi e sociali. Prima di tutto, è burocratizzato all’inverosimile. Ogni ufficio è un labirinto e ogni tentativo non dà mai la stessa risposta, ma dà l’opportunità agli impiegati di avventurarsi in soluzioni creative e bizzarre (da qui si spiega il successo di “Belgian Solution”, opera dell’artista – belga – David Helbich). Il tutto in uno Stato che, scherza l’Economist, ha «una governance quantistica». È ovunque e non è da nessuna parte. Per 11 milioni di abitanti, ha un parlamento federale, uno per ciascuna delle sue tre regioni, più uno per le sue comunità etniche – francese, olandese, tedesco. Insomma, le amministrazioni si moltiplicano, dal particolare al generale, occupano la vita quotidiana di ciascuno, succhiano soldi pubblici e, in generale, riescono a confondere compiti e attribuzioni tanto che, alla fine, sembra che nessuno abbia davvero responsabilità di qualcosa. Non è un caso che per due anni e mezzo sia riuscito ad andare avanti bene anche senza un governo federale. Tutta confusione nasce dall’obiettivo, finora non raggiunto, di armonizzare la convivenza tra le diverse componenti della popolazione. I confini interni sono tantissimi e impossibili da ignorare: ogni comunità ha le sue scuole (dove si parla solo quella lingua), i suoi media, il suo stile di vita. Sarebbe più facile una secessione, dove ognuno va per la sua strada. Ma il Belgio, si è capito, non è fatto per le cose facili.

Bruxelles, l’insospettabile crocevia delle mafie europee. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 27 giugno 2021. V’è un luogo, nel cuore dell’Europa, dove attività investigative e operazioni poliziesche hanno appurato una sovrabbondanza sui generis di narco-bande, gruppi criminali e mafie provenienti da ogni parte del continente. Questo luogo, che non è immune dal fenomeno delle aree ad accesso vietato (no-go zones), è la principale porta d’accesso delle sostanze stupefacenti che vengono immesse nei mercati europei della droga, incluso quello italiano, e costituisce uno dei più fulgidi esempi di globalizzazione del crimine organizzato. Questo luogo, che può essere considerato a tutti gli effetti il crocevia delle mafie del Vecchio Continente (e non solo), è l’insospettabile Belgio.

La mafia albanese alla conquista del Belgio. Il Belgio ha scoperto di avere un problema con il crimine organizzato il 14 gennaio 1989, giorno del sequestro a scopo di estorsione dell’ex primo ministro Paul Vander Boeynants. Vane le ricerche degli investigatori: del politico non v’era traccia. Messi sotto scacco dai rapitori, tanto impavidi quanto abili nel nascondere il politico, i poliziotti belgi furono costretti a sventolare bandiera bianca, cioè a pagare un riscatto – la cui entità non è mai stata resa di pubblico dominio. I criminali, ad ogni modo, non ebbero il tempo di godersi la cifra: furono intercettati e arrestati poco dopo la liberazione dell’ex primo ministro. La loro identità avrebbe scioccato gli inquirenti: per metà belgi, tra cui il noto Patrick Haemers (uno dei sospettati nel caso irrisolto degli “assassini del Brabante”), e per metà albanesi. Oggi, a più di trent’anni dal rapimento Boeynants, i criminali albanesi non sono più la manovalanza violenta al servizio della criminalità autoctona: essi sono la criminalità autoctona. Secondo François Farcy, uno dei massimi esperti di criminalità organizzata in Belgio – che combatte dal lontano 2001 –, “da più di vent’anni vi è un insediamento permanente di criminali albanesi”, i cui “clan criminali sono diventati una vera e propria mafia, e rappresentano la criminalità organizzata più attiva e pericolosa”. Allevati dagli autoctoni, ai quali sono poi subentrati, i membri della Mafia Shqiptare detengono un potere e una struttura equiparabili a quelli delle mafie italiane: controllano il territorio, sono coinvolti in una vasta gamma di traffici illeciti – stupefacenti, prostituzione, immigrazione illegale, rapine, riciclaggio di denaro illecito, eccetera –, “hanno accesso diretto al porto di Anversa come facilitatori […] e organizzatori” e “hanno connessioni dirette con il Sud America”. Traffico internazionale di sostanze stupefacenti a parte, i mafiosi albanesi “sono anche coinvolti nell’organizzazione e nel controllo di molte piantagioni di cannabis”. Un mercato dal valore milionario, anch’esso egemonizzato dalla criminalità albanese, come mostrano e dimostrano le operazioni che “ogni settimana” conducono allo smantellamento di piantagioni clandestine di cannabis. 

L’importanza del porto di Anversa

Nei porti belgi, in sintesi, non si muove foglia che la Mafia Shqiptare non voglia. Perché tutti, dai portavoce delle mafie italiane ai rappresentanti delle narco-bande magrebine di Paesi Bassi e Francia, debbono avere il permesso e la benedizione dei colleghi albanesi per usufruire dello strategico porto di Anversa, la principale porta d’accesso della cocaina latinoamericana in Europa.

Non è dato sapere a quanto ammonti il profitto derivante alla Mafia Shqiptare dal controllo del porto di Anversa, ma i numeri e le scoperte delle operazioni di polizia degli anni recenti possono senz’altro contribuire a dare un’idea della centralità rivestita da questo sito all’interno dell’euromercato della droga:

27,6 le tonnellate di cocaina sequestrate nei primi tre mesi del 2021 – ovvero il triplo rispetto all’intero 2014, quando le autorità portuali intercettarono 8,1 tonnellate;

65,5 le tonnellate di cocaina sequestrate nel 2020 – cioè quasi un terzo di tutta la cocaina intercettata in Europa nello stesso anno (102 tonnellate), il che rende Anversa la prima e principale porta d’accesso della “bianca” nel continente;

62,1 le tonnellate di cocaina sequestrate nel 2019;

50,1 le tonnellate di cocaina sequestrate nel 2018;

142 i fascicoli investigativi per crimini connessi alla droga aperti nel 2019 – in aumento rispetto ai 120 del 2018 e ai 104 del 2017;

2 gli agenti di polizia arrestati nel 2019 per complicità con le narco-bande in relazione all’utilizzo del porto per commettere illeciti.

Il melting pot del crimine

Il panorama criminale belga assomiglia ad una Babele delle mafie popolata da bande urbane, gruppi criminali e cartelli della droga provenienti da una costellazione molto variegata di Paesi e appartenenti a innumerevoli gruppi etnici. Perché, albanesi a parte, in Belgio, cuore delle istituzioni comunitarie, sono presenti quasi tutte le mafie italiane (‘Ndrangheta, Camorra, Cosa nostra e Stidda) – coinvolte in una sequela di attività illecite, dalla droga ai furti di autovetture di lusso –, clan criminali della Bulgaria e della Nigeria – specializzati in prostituzione e rapine – ed è radicata territorialmente la cosiddetta “Mocro Mafia” – ovvero “la criminalità organizzata di origine marocchina”, che è in affari con la Mafia Shqiptare per l’acquisto regolare di una parte della cocaina che entra ad Anversa e che, forte della demografia, controlla interi quartieri.

Non meno importante, all’ombra dei palazzi di vetro degli enti europei e delle periferie controllate dai clan albanesi e magrebini, negli anni recenti si è assistito all’attecchimento del crimine organizzato ceceno. Secondo Farcy, che negli anni della lotta alle mafie di importazione ha avuto modo di affrontare diverse volte i clan provenienti dalle alture del Caucaso settentrionale, i ceceni non soltanto manifesterebbero una violenza pari e talvolta superiore a quella delle controparti albanesi e marocchine, ma costituirebbero una minaccia particolarmente sinistra per la sicurezza nazionale alla luce dei loro legami con il terrorismo islamista.

Dalla presenza di aree ad accesso vietato alle infiltrazioni del crimine organizzato nelle forze dell’ordine, Bruxelles è la prova di come, a volte, dietro il luccichio delle vetrine, in questo caso rappresentate dalle sedi futuristiche e accattivanti dei principali organismi dell’Unione Europea, si nascondano segreti indicibili e traffici illeciti dalle dimensioni solo lontanamente immaginabili.

·        Quei razzisti come gli svizzeri.

Andrea Valle per "Libero Quotidiano" il 30 novembre 2021. Si chiama operazione «1 miliardo di euro». E il numero non è buttato lì a caso, ma rappresenta la cifra che i pm di Milano Monia Di Marco ed Elio Ramondini sperano di recuperare dalle banche accusate di aver riciclato per anni il nero dei loro clienti italiani. La notizia riportata dal Fatto Economico riguarda sette istituti di credito con base in Svizzera, a pochi chilometri dal confine e che in base alla legge 231/2001 sarebbero responsabili nel favoreggiamento del riciclaggio. Il colosso Ubs e la piccola Pkb Privatebank hanno già scelto il patteggiamento versando complessivamente 120 milioni di euro all'Italia, ma evitando un processo che avrebbe potuto provocare ben altri danni di immagine. Sono invece ancora in corso gli accertamenti sulle situazioni che riguardano Hsbc, Edmond de Rotschild, Julius Baer, Bsi e Corner Banca. Nella ricostruzione di questi rapporti, la Procura di Francesco Greco si è avvalsa della miniera di informazioni ottenuta dalle dichiarazioni dell'Agenzia delle Entrate grazie alla voluntary disclosure, lo strumento che il fisco ha messo a disposizione dei contribuenti che detengono illecitamente patrimoni all'estero per regolarizzare la propria posizione fiscale. Emblematico il caso della Pkb Privatebank degli industriali piemontesi Trabaldo Togna, fondata nel 1958. Nella sostanza, non erano i clienti ad andare in filiale, ma i dipendenti dello stesso istituto (una ventina) che sollecitavano la sottoscrizione di rapporti con la banca per occultare i soldi provenienti dall'evasione fiscale. C'è un caso, in riferimento alla stressa banca, che ci fa capire quali fossero le dinamiche più consuete: il collegamento tra il trasferimento di denaro oltreconfine e la bancarotta fraudolenta di una società per esempio. Si tratta della Centralpelli Srl, azienda di produzione di pelle basata a Castelfranco di Sotto (Pisa). La società è fallita nel 2015, ma già tre anni prima i manager avevano iniziato a svuotarla. Secondo i particolari emersi, la banca ha riciclato 300mila euro della Centralpelli Srl prima del fallimento. I particolari dicono che tutto veniva spostato in Svizzera in contanti. I soldi venivano impacchettati in buste di plastica a bordo di una Mercedes 320, con il servizio di spallonaggio pagato il 2% della somma. Secondo gli inquirenti, la colpa della banca sarebbe stata quella di non aver impedito «la commissione di reati di riciclaggio di fondi di provenienza delittuosa...». Le sette banche sono state costrette ad aprire una sede in Italia. Da oggi se faranno utili pagheranno le imposte anche a Roma.

Nuove radici. Maurizio Nappa Improta su L'Inkiesta il 4 Dicembre 2021. Pane e cioccolata. Quando gli italiani erano discriminati in Svizzera (e i bambini venivano nascosti). La stragrande maggioranza dei nostri connazionali è emigrata nel paese elvetico con un permesso di tipo A che costringeva a separarsi dal resto della famiglia. L’associazione Tesoro vuole rompere il silenzio sulle tante vite rovinate dallo statuto dei lavoratori stagionali per far riconoscere all'opinione pubblica ciò che è davvero successo. Se Internet fosse esistito cinquant’anni fa, NRW avrebbe certamente raccontato dell’emigrazione italiana in Svizzera, perché la Svizzera era, e continua a essere, uno dei Paesi in cui la presenza italiana è più numerosa. La migrazione in Svizzera era regolata dalla legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri, promulgata nel 1931 e in vigore dal 1934 fino all’inizio di questo secolo. Venne stabilito un insieme di regole che condizionava la vita degli stranieri; tra queste, a seconda del Paese di origine dei migranti, erano previste delle leggi speciali, che erano state oggetto di accordo con i rispettivi governi. Si creò così, a seconda delle condizioni, una sorta di gerarchia tra gli stranieri. Continua a leggere su Nuove Radici.

Pane e cioccolata. Quando in Svizzera negli armadi c’erano più bambini che tarli. Conosciamo poco le storie degli emigrati in Svizzera, ora l'associazione Tesoro rompe il silenzio e mira a un riconoscimento dell'opinione pubblica di ciò che è stato. Maurizio Nappa Improta il 4 Dicembre 2021 su Nuove Radici. 

Se Internet fosse esistito cinquant’anni fa, NRW avrebbe certamente raccontato dell’emigrazione italiana in Svizzera, perché la Svizzera era, e continua a essere, uno dei Paesi in cui la presenza italiana è più numerosa.

La gerarchia tra gli stranieri in Svizzera

La migrazione in Svizzera era regolata dalla legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri, promulgata nel 1931 e in vigore dal 1934 fino all’inizio di questo secolo. Venne stabilito un insieme di regole che condizionava la vita degli stranieri; tra queste, a seconda del Paese di origine dei migranti, erano previste delle leggi speciali, che erano state oggetto di accordo con i rispettivi governi. Si creò così, a seconda delle condizioni, una sorta di gerarchia tra gli stranieri.

Lo statuto stagionale (permesso A) proibiva ai lavoratori in condizioni di povertà di vivere in Svizzera con la famiglia. A chi era in possesso del permesso di dimora annuale (di tipo B) il ricongiungimento familiare era garantito solo a determinate condizioni. Si otteneva una certa sicurezza solo con l’ottenimento del permesso di domicilio (di tipo C), che poteva arrivare anche dopo oltre dieci anni

L’esecuzione della legge venne affidata alla Polizia degli stranieri, che in taluni casi non mancò di mostrarsi razzista.

La separazione delle famiglie

La stragrande maggioranza dei nostri connazionali è arrivata in Svizzera con un permesso di tipo A e ne ha  subito tutte le conseguenze, prima fra tutte quella della separazione dal resto della famiglia.

Quando in famiglia entrambi i genitori lavoravano, secondo la legge era inevitabile che i figli restassero nel Paese di origine. E così molti bambini venivano cresciuti da nonni e zii, e vedevano i genitori solo per pochissimi settimane l’anno

Una di loro, Sonia Sozza ha rivelato di come considerasse i genitori come degli estranei, e di come, allo stesso tempo, si sentisse un po’ meno di una figlia per nonni e zii. I genitori che non avevano parenti che li aiutassero erano costretti a portare i figli in collegio nei paesini nei pressi della frontiera, quali ad esempio Domodossola. I bambini più fortunati ricevevano la visita dei loro genitori ogni fine settimana, ma non era così per la maggior parte di loro. C’era chi vedeva i genitori una volta al mese, e chi addirittura ogni tre mesi; tutto dipendeva da quanto lontano lavorassero i genitori, e se erano costretti a lavorare nel fine settimana.

I bambini proibiti

C’erano poi quei bambini che non avevano zii e nonni che si occupassero di loro in Italia, e nemmeno l’opportunità del collegio.

Questi bambini vivevano nascosti in casa, imparavano fin da piccoli a non fare rumore, a non affacciarsi mai alla finestra, per paura che i vicini potessero scoprirli e denunciarli alla polizia. Quando questo accadeva, la conseguenza era l’espulsione

In Italia noi ignoravamo queste storie, perché i migranti, quando rientravano per le vacanze, preferivano dimenticare i dolori e le tragedie quotidiane, e raccontare solo i successi, come per esempio la possibilità di acquistare un’automobile nuova. L’altra, ovvia, ragione,  è che non si pubblicizza una situazione di illegalità. Per quanto assurdo possa sembrare, questi bambini nascosti erano illegali, dei veri e propri “bambini probiti”. È questa l’espressione che la psicologa Marina Frigerio ha usato per intitolare il suo libro, in cui raccoglie le sue esperienze di lavoro con tanti ex bambini nascosti, nonché le storie di diversi di loro. Una delle ex bambine nascoste è Catia Porri, splendida settantenne che rimase nascosta nell’armadio di casa per 3 anni.

Ricordate la battuta di Nino Manfredi nel film Pane e cioccolata, ‘In Svizzera negli armadi ci sono più bambini che tarli?’. Era tutto vero

Da anni Catia racconta la sua storia, per far sì che tragedie come quella vissuta da lei non si ripetano più. A noi, Catia ha raccontato i viaggi verso l’ Italia con l’auto del padre, per ottenere il timbro di uscita sul passaporto, per poi rientrare subito dopo, nascosta nel bagagliaio. La clandestinità è costata a Catia, tra le altre cose,  la possibilità di frequentare le scuole.

Le pulsioni xenofobe della Svizzera

Oltre ai bambini clandestini, la Svizzera è stata il primo Paese in cui le pulsioni xenofobe hanno trovato posto in Parlamento, grazie a James Schwarzenbach, deputato dell’estrema destra che propose di espellere trecentomila migranti dal Paese, sebbene non ci fossero problemi di disoccupazione. La popolazione elvetica fu chiamata a esprimersi su questa proposta nel 1970 (il cosiddetto referendum Schwarzenbach) e ancora nel 1974. Ha raccontato quei tempi il giornalista e scrittore Concetto Vecchio nel suo libro Cacciateli!, pubblicato nel 2019 da Feltrinelli, tradotto in tedesco nel 2020 e da allora un best seller in Svizzera. Sonia Sozza ricorda, di quei tempi, che per mesi lei e la sua famiglia hanno vissuto con la valigia all’ingresso, pronti a scappare in caso di pericolo imminente.

La situazione, almeno per i cittadini europei, migliorò nel 2002, grazie alla firma degli accordi bilaterali, che prevedevano la libera circolazione dei cittadini, ma i tempi buoni non sono durati a lungo. Con l’approvazione, nel 2014, dell’iniziativa ‘Contro l’immigrazione di massa’, la possibilità di dividere le famiglie di stranieri è di nuovo prevista dalla Costituzione elvetica

L’associazione Tesoro

Per dire basta a tutto questo è nata, il 1 ottobre scorso a Zurigo, l’associazione Tesoro. Tra i fondatori, si contano diversi ex bambini nascosti. L’associazione intende rappresentare gli interessi dei membri delle famiglie che hanno subito le conseguenze dello statuto dello stagionale e del permesso annuale di soggiorno. Per Tesoro non basta che le persone direttamente coinvolte rompano il silenzio, ma è tempo che anche l’opinione pubblica sia pronta a elaborare la condizione di illegalità in cui molte famiglie sono state costrette a vivere e riconosca il contributo che le straniere e gli stranieri hanno portato allo sviluppo della Svizzera.

·        Quei razzisti come i tedeschi.

Enrica Roddolo per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2021. Il fiabesco castello di Marienburg, in Germania, al centro di una triste querelle di famiglia. Turrito e svettante fra i boschi nel cuore dell'Europa, da secoli appartiene agli Hannover, stirpe reale. E a portarne in tribunale il destino è Sua altezza reale Ernst August di Hannover che nel 1999 sposò la principessa Carolina di Monaco, da allora pure lei un'Altezza reale (anche se da molto ormai loro vite corrono su binari separati). Il principe, in quanto Hannover cugino anche della regina Elisabetta (la House of Hannover regnò a Londra dal tempo di re Giorgio I fino al regno di Vittoria), rivendica il maniero che aveva passato al primogenito Ernst August jr, tra il 2004 e il 2007. Il giovane principe si scontrò presto con la realtà di tanti proprietari di tenute secolari: i costi di restauro e manutenzione sono onerosi. Una trentina di milioni di euro sarebbe costato al principe metter mano alle proprietà ricevute dal padre. Da qui il gesto - finito tempo fa sulla stampa - di vendere (svendere) simbolicamente il maniero per 1 euro. «Un gesto simbolico» spiegò a Der Spiegel, ma tale da consentire a storiche proprietà di resistere alle bordate del tempo ed essere tramandate al pubblico dei tempi futuri. Il parlamento federale tedesco ha quindi approvato finanziamenti di 13 milioni di euro per metter mano al maniero. Ma Ernst August non ha preso bene la mossa del figlio. Così il castello delle fiabe di Marienburg è finito in tribunale. Il 25 novembre è in calendario un'udienza alla Corte regionale di Hannover. Per la verità la diatriba tra padre e figlio non è nuova: la questione era già stata sollevata davanti a una corte e «già annullata in passato», ha detto il figlio. Aggiungendo che quel che conta per lui è che «Marienburg possa essere preservato come monumento storico della Bassa Sassonia, aperto a tutti». Il maniero con le sue 135 stanze in stile neogotico costruito nella seconda metà dell'800, è solo una delle proprietà che storicamente hanno fatto capo agli Hannover. Per non parlare di opere d'arte, tesori (in parte andati all'asta negli anni Duemila per oltre 40 milioni di euro). Il padre, nella memoria presentata dai suoi avvocati rincara però che «l'ingrato figlio» non lo aiuta e che anzi avrebbe cercato di appropriarsi di dipinti e altri tesori degli Hannover, un casato la cui storia si intreccia con quella della Germania già dal medioevo. Insomma, una volta per il possesso dei castelli si cingevano assedi, ora si portano le carte in tribunale.

Il direttore della Bild licenziato dopo un’inchiesta del New York Times: «Bugie e relazioni inappropriate». Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Julian Reichelt, 41 anni, è accusato di aver avuto relazioni con colleghe: «Chi va a letto con lui», ha detto un testimone, «viene promosso». Il direttore era stato difeso dall’editore Mathias Dopfner, a capo di Axel Springer, perché «è l’unico si oppone a questo stato totalitario in stile Ddr», cioè le restrizioni anti-Covid volute da Merkel.  Terremoto con scandalo alla Axel Springer. Il principale gruppo editoriale tedesco ha licenziato con effetto immediato Julian Reichelt, 41 anni, direttore della Bild, il più grande giornale europeo. Dopo averlo difeso per mesi dall’accusa di aver avuto rapporti sessuali con diverse dipendenti del quotidiano, Springer ha mollato Reichelt nell’arco di 24 ore, con uno scarno comunicato, che rimprovera al giornalista di «non aver chiaramente separato la sfera privata e quella professionale» e di aver mentito ai dirigenti del gruppo. L’annuncio scuote il panorama dei media tedeschi e soprattutto mette in evidenza la faglia nella cultura d’azienda che ancora separa la Germania dagli Stati Uniti, a proposito della tolleranza zero nei confronti di comportamenti predatori o misogini. A far precipitare la decisione di Mathias Döpfner, presidente e amministratore delegato di Springer, che finora aveva appoggiato Reichelt con tutta la sua autorità, è stata infatti un’inchiesta del New York Times , che rivela nuovi dettagli sui suoi atteggiamenti in redazione. In particolare, il quotidiano riporta la testimonianza di una praticante, che aveva testimoniato in un’inchiesta interna condotta in marzo e ha raccontato che nel 2018 Reichelt l’aveva portata in un albergo vicino alla sede della Springer dove avevano fatto sesso. Inoltre, di fronte alle sue lamentele sul basso salario che riceveva, le aveva accordato un pagamento straordinario di 5 mila euro, raccomandandole di non dirlo a nessuno. In primavera, quando le prime accuse contro erano emerse, Springer aveva infatti ordinato un’indagine indipendente a uno studio legale. Ma sulla base dei risultati, il board della società aveva concluso che Reichelt aveva sì commesso degli errori, ma non si era reso responsabile di alcun atto perseguibile penalmente. Il direttore era stato sospeso cautelativamente per 12 giorni, ma al termine era stato reinsediato con pieni poteri al vertice del quotidiano, sia pure affiancato da una condirettrice, Alexandra Würzbach. Ora però Springer non si è più potuta nascondere. L’inchiesta del Times è puntuale e spietata nel rivelare i contenuti fin qui segreti dell’indagine interna: «Così funziona alla Bild, chi va a letto con il direttore, viene promosso», dice uno dei capiredattori ascoltati in marzo. Poche ore dopo le dimissioni di Reichelt, anche Der Spiegel ha pubblicato nuove testimonianze, che lo accusano di aver abusato della sua posizione per sedurre diverse donne della redazione. Il settimanale di Amburgo era stato il primo in marzo a descrivere Reichel come «un uomo ossessionato dal potere» che «sistematicamente promuove e seduce le donne che lavorano a Bild». Il titolo della storia era: «Scopa, promuovi, licenzia». Nel motivare la cacciata di Reichelt, Döpfner ha spiegato di non essere stato a conoscenza dei dettagli rivelati dal Times, poiché all’epoca i testimoni ascoltati dallo studio legale avevano chiesto che le loro dichiarazioni restassero segrete. «Non tollereremo alcun comportamento che non rispetti i nostri standard etici e la nostra cultura inclusiva e aperta», ha detto il Ceo. Döpfner tuttavia ha elogiato il direttore licenziato, definendo il suo lavoro «eccellente» e dicendosi dispiaciuto di non poter più tenerlo alla guida della testata di bandiera del gruppo. Nell’articolo del Times, lo stesso Döpfner non esce molto bene. L’autore cita infatti una sua frase detta al tempo dell’inchiesta di primavera a un amico, che è poi stato la fonte: «Dobbiamo essere molto cauti nell’indagine su Reichelt, perché è l’ultimo e solo giornalista in Germania che abbia il coraggio di ribellarsi contro il nuovo stato totalitario modello Ddr». Il riferimento era alle restrizioni per la pandemia, imposte dal governo di Angela Merkel, contro cui Bild si è spesso schierata. Ma da qui a paragonare la Germania alla dittatura della Ddr ce ne corre. Una delle ragioni per cui il New York Times abbia dedicato tanto lavoro giornalistico e spazio alla vicenda è sicuramente la crescente presenza di Springer sul mercato americano dei media digitali. Dopo aver investito oltre 300 milioni di euro nel 2015 per acquistare il 90% del portale Business Insider (ora ribattezzato Insider), il gruppo tedesco ha infatti sborsato 1 miliardo di euro la scorsa estate per acquistare Politico, testata prestigiosa del giornalismo di qualità che ormai compete alla pari con i grandi giornali americani nella copertura di politica interna e internazionale. Se prima la cultura d’azienda tedesca sui temi sollevati dal movimento #metoo non era oggetto di scrutinio, ora è sicuramente diverso e Springer non può più ignorarne ritardi, reticenze, tantomeno sorvolare su fatti gravi come quelli addebitati a Reichelt. L’articolo del New York Times ha fra l’altro rivelato che nei giorni scorsi un altro gruppo editoriale, Ippen Media, la cui unità investigativa aveva preparato un’inchiesta approfondita sul caso Reichelt, ha deciso venerdì scorso di non pubblicarla. La scusa ufficiale è stata di «non voler dare l’impressione di voler sfruttare commercialmente i problemi di un concorrente». La decisione ha provocato un’aperta ribellione dei giornalisti, che in una lettera all’editore hanno difeso la qualità del loro lavoro e lo hanno accusato di «violare il principio della separazione tra lavoro giornalistico indipendente e proprietà».

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2021. Con le redattrici giovani e piacenti, Julian Reichelt non aveva pace, né scrupoli. Se le portava a letto in cambio di promozioni. Minacciava di licenziarle. Dava loro dei bonus in denaro una tantum, chiedendo il silenzio. In un caso, aveva perfino forgiato un falso certificato di divorzio per superare le resistenze di una praticante che gli resisteva con la scusa che era sposato. Ma ora è finita. L'onnipotente direttore della Bild, il più grande giornale europeo, è stato cacciato con effetto immediato dalla casa editrice Axel Springer, che per mesi lo aveva difeso dalle accuse di molestie e abusi sessuali. «È come il finale di un film sulla malavita», ha commentato la Süddeutsche Zeitung . «Reichelt non ha separato chiaramente la sfera privata da quella professionale e ha mentito ai dirigenti del gruppo», dice il comunicato dell'annuncio, che scuote il panorama dei media tedeschi e mette in evidenza la faglia nella cultura d'azienda che ancora separa la Germania dagli Stati Uniti, dove la tolleranza zero nei confronti di attitudini predatorie o misogine è ormai la regola. A far precipitare la decisione di Mathias Döpfner, presidente e amministratore delegato di Springer, che finora aveva appoggiato Reichelt con tutta la forza della sua autorità, è stata infatti un'inchiesta del New York Times , che ha rivelato nuovi dettagli sui suoi atteggiamenti in redazione. In marzo, quando le prime accuse contro il direttore erano emerse, Springer aveva infatti ordinato un'indagine indipendente a uno studio legale e lo aveva sospeso cautelativamente per 12 giorni. Sulla base dei risultati, il board della società aveva concluso che Reichelt aveva sì commesso degli errori, ma non atti perseguibili penalmente. Così era stato reinsediato con pieni poteri al vertice del quotidiano, sia pure affiancato da una condirettrice, Alexandra Würzbach. Ora però Springer non si è più potuta nascondere. L'inchiesta del Times è puntuale e spietata nel rivelare i contenuti fin qui segreti dell'indagine interna: «Così funziona alla Bild , chi va a letto con il direttore, viene promosso», dice uno dei capiredattori ascoltati in marzo. Poche ore dopo le dimissioni di Reichelt, anche Der Spiegel ha pubblicato nuove testimonianze, che lo accusano di aver abusato della sua posizione per sedurre diverse donne della redazione. Il settimanale di Amburgo era stato il primo in marzo a descrivere Reichelt come «un uomo ossessionato dal potere» che «sistematicamente promuove e seduce le donne che lavorano a Bild ». Il titolo della storia era: «Scopa, promuovi, licenzia». Nel motivare la cacciata di Reichelt, Döpfner ha spiegato di non essere stato a conoscenza dei dettagli rivelati dal Times : «Non tollereremo alcun comportamento che non rispetti i nostri standard etici e la nostra cultura inclusiva e aperta», ha detto il Ceo. Döpfner, tuttavia, ha elogiato il direttore licenziato, definendo il suo lavoro «eccellente». L'articolo del Times getta però una luce critica sullo stesso Döpfner, che al tempo dell'inchiesta di marzo avrebbe detto all'avvocato difensore del giornalista: «Dobbiamo essere cauti nell'indagine su Reichelt, perché è l'ultimo e solo giornalista in Germania che abbia il coraggio di ribellarsi contro il nuovo stato totalitario modello Ddr». Il riferimento era alle restrizioni per la pandemia, imposte dal governo di Angela Merkel, contro cui Bild si è spesso schierata con toni molto aggressivi. Ieri Döpfner ha dovuto precisare che lui non pensa affatto che la Germania sia come la Ddr. Perché il New York Times abbia dedicato tanto lavoro e spazio alla vicenda è spiegabile anche con la crescente presenza di Springer sul mercato americano dei media digitali. Dopo aver investito oltre 300 milioni di euro nel 2015 per acquistare il 90% del portale Business Insider (ora ribattezzato Insider), il gruppo tedesco ha sborsato 1 miliardo di euro la scorsa estate per acquistare Politico , la testata che ormai compete alla pari con i grandi giornali americani nella copertura di politica interna e internazionale. Se prima la cultura d'azienda tedesca sui temi sollevati dal movimento #metoo non era oggetto di scrutinio, ora è sicuramente diverso e Springer non può più ignorarne ritardi, reticenze, tantomeno sorvolare su fatti gravi come quelli addebitati a Reichelt.

"Sesso coi sottoposti e bugie all'editore". Licenziato direttore della Bild Zeitung. Orlando Sacchelli il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il direttore del quotidiano tedesco Bild, Julian Reichelt, è stato allontanato dopo alcune rivelazioni su suoi presunti comportamenti inappropriati con il personale sottoposto e menzogne all'editore. Il caso era scoppiato a marzo, dopo un articolo dello Spiegel. Sette mesi dopo un'inchiesta del New York Times ha rincarato la dose. Grosso guaio nel mondo dell'informazione tedesco. Il direttore di Bild Zeitung, il più popolare tabloid diffuso in Germania, è stato licenziato dopo un'inchiesta del New York Times ("Sesso, bugie e un pagamento segreto"). Julian Reichelt, 41 anni, è accusato di aver avuto relazioni con alcune colleghe. La scorsa primavera Reichelt era stato sospeso, ma dopo poco tempo era tornato al suo posto. Ora però è calata la scure sul direttore, accusato di "non aver separato sfera privata e professionale" e soprattutto di non aver detto la verità al vertice dell’azienda. Alla guida della Bild dal 2017, Reichelt era finito la prima volta al centro delle accuse dopo un servizio del giornale tedesco Spiegel, che in un'inchiesta aveva parlato del "sistema Reichelt", rivelando che alcune collaboratrici avevano denunciato il comportamento inappropriato del giornalista. Il New York Times ha rincarato la dose a distanza di sette mesi, ricostruendo le vicende interne alla Bild. Ha parlato di una giovane praticante di 25 anni - con cui il direttore aveva una relazione - che avrebbe avuto un compito prestigioso, pur essendosi dichiarata non pronta per tale incarico. Oltre al prestigio professionale Reichelt avrebbe garantito alla giornalista un extra di oltre 5000 euro, raccomandandole di non dirlo a nessuno. Tutti questi dettagli sarebbero emersi da un'indagine interna condotta dall'editore del giornale, la Axel Springer, dopo le accuse di "abuso di potere, mobbing e sfruttamento di rapporti di dipendenza". L'editore aveva reso noto che dall'indagine non erano emerse "indicazioni circa molestie sessuali o altre coercizioni". Più tardi, però, da un'indagine condotta da un altro giornale sarebbero emersi alcuni documenti scabrosi interni alla Springer e alla Bild. L'editore Ippen Verlag poco prima dell'uscita dello scoop avrebbe fermato la pubblicazione del materiale raccolto, ufficialmente, per evitare di "danneggiare gli interessi economici" di un’azienda concorrente. Ma i giornalisti che avevano condotto l'inchiesta avevano fermamente protestato, lamentando la violazione di "tutte le regole di una cronaca indipendente". L'editore della Bild, il gruppo Axel Springer, ha reso noto che nominerà il 37enne Johannes Boie come nuovo presidente del board editoriale. 

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Da leggo.it il 19 ottobre 2021. Aveva atteggiamenti inappropriati con le colleghe praticanti che poi venivano assunte e promosse, per questo motivo è stato licenziato dall'editore il direttore del tabloid tedesco Bild, Julian Reichelt. A dare la notizia è la stessa azienda Axel Springer in una nota in cui spiega di aver esonerato dalle sue funzioni con effetto immediato l'ormai ex numero uno del giornale. La decisione è arrivata dopo alcune rivelazioni apparse sul New York Times in cui si parlava di comportamenti inappropriati del direttore con delle colleghe. Diverse donne lo hanno accusato di abusi sessuali, accuse che gli erano già costate un primo procedimento disciplinare nella primavera scorsa. La situazione sembrava essere rientrata ma dopo l'articolo del Times la decisione è stata presa. Reichelt era stato accusato di aver abusato del suo ruolo avviando relazioni con colleghe che poi avrebbero avuto favoritismi sul lavoro. Una di loro aveva anche raccontato di essere stata invitata in un albergo e pagata in cambio del suo silenzio. L'azienda ha giustificato l'allontanamento parlando di un atteggiamento non consono spiegando che il direttore non era in grado di separare le sue vicende personali da quelle lavorative.

La Baviera sul linguaggio gender. "Va salvaguardato il tedesco". Daniel Mosseri il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Il governo contro le università che impongono ai loro studenti una scrittura più neutra e inclusiva. No all'indottrinamento del linguaggio «inclusivo» e no ai poliziotti del linguaggio. Il governo regionale di Monaco di Baviera ha lanciato un avvertimento alle università e alle accademie che operano sul territorio del Libero Stato di Baviera: gli studenti che non adoperano gli asterischi o le schwa, che non declinano i nomi anche al femminile ma che insisteranno con l'uso tradizionale delle desinenze al maschile non dovranno ricevere voti più bassi. Il gendern, così si indica con neologismo tedesco la pratica di trasformare il linguaggio depurandolo dall'uso prevalente del maschile, «non deve essere rilevanti a fini degli esami», ha dichiarato lo stesso Söder a seguito di una riunione dell'esecutivo regionale. Dello stesso avviso il ministro bavarese per la Scienza, Bernd Sibler. Smentendo alcune voci circolate nei giorni scorsi secondo cui ad alcuni studenti allergici al gendern sarebbero stati assegnati dei voti più bassi, il ministro del partito cristiano sociale bavarese (Csu) di Söder ha affermato che nel Land meridionale tedesco non è stata registrata alcuna protesta o denuncia da parte di studenti ma che tuttavia «l'uso del linguaggio di genere non dovrebbe essere un criterio di valutazione». La sollecitazione dell'esecutivo, ha poi aggiunto lo stesso Söder, è di natura provvisoria e il governo di Monaco si riserva di verificare e approfondire la questione in futuro. Abituato a far notizia per i suoi modi assertivi, a meno di una settimana dalle elezioni per il rinnovo del Bundestag, Söder sposta su di se la luce dei riflettori della politica. Ma l'annuncio era nell'aria: la settimana scorsa la Conferenza delle Università bavaresi e il governo di Monaco avevano polemizzato a distanza in materia. Ad agosto una serie di università ha preparato alcune linee guida per consigliare agli studenti di non utilizzare le desinenze maschili e femminili ma al contrario di impiegare un linguaggio più neutro e inclusivo anche grazie all'uso di asterischi. A ruota gli atenei bavaresi hanno ribadito che «gli studenti sono liberi di scegliere la lingua per loro più appropriata. Nessuno può quindi essere valutato in maniera peggiore». Troppo poco per il governo di Söder, il governatore che fino alla scorsa primavera ha cercato di farsi accreditare quale candidato cancelliere di tutti i moderati. Parlando al congresso della Csu e in una serie di interviste, Söder ha etichettato le linee guide degli atenei come «indottrinamento», ricordando che il linguaggio non si impone dall'alto e che tali indicazioni finiscono poi in eccessi secondo cui non si potrà più dire «padre e madre» ma «genitore 1 e genitore 2». «Io non voglio che i miei figli mi chiamino genitore», ha affermato. Il gendern non è esclusiva delle università: molte amministrazioni prediligono l'uso di termini neutri. Così per non dire elettori ed elettrici si dirà «persone votanti» e per non dire lavoratori o lavoratrici si dirà «forza lavoro». La settimana scorsa il 96% dei delegati al congresso della Csu ha respinto «gli eccessi politicamente indottrinati e artificiali delle acrobazie linguistiche gender-moralistiche». Daniel Mosseri

Ugo Cornia per “Tutto Libri – La Stampa” il 27 settembre 2021. Mark Twain ha sempre avuto un profondo interesse per la lingua tedesca. Ha cercato, a partire da quando era giovane, di impararla, spesso come autodidatta, più saltuariamente prendendo qualche lezione. A Hannibal, la città in cui era cresciuto, c'erano molti tedeschi e Twain, già a quindici anni, per un po' andò a lezione da un calzolaio tedesco. Nonostante abbia lottato in modo irregolare e discontinuo con questa lingua per tutta la vita, non è mai riuscito veramente a impadronirsene. Il suo tedesco era stentato, parziale, e molto personale. In questa lotta pluriennale alternava stati di eccitazione, «Ho imparato il tedesco, e sono un bambino felice, ci puoi scommettere», come scrive in una lettera a Bayard Taylor, a stati di profondo scoramento, come scrive all'amico William Howells: «Al diavolo il tedesco, non riuscirò mai a impararlo». Da questo rapporto di odio, amore e frustrazione nasce La terribile lingua tedesca, pubblicato da Quodlibet, curato e tradotto da Dino Baldi. Il libro raccoglie vari testi in cui Twain si vendica di questa lingua che tanto l'ha fatto soffrire e tanto l'ha deluso a causa della sua assurdità. Una lingua in cui le eccezioni sono più delle regole, e dove ci sono quattro sconcertanti casi, partoriti per farti impazzire. Ma anche i verbi sono pensati apposta per mandarti in confusione. In primo luogo Twain si concentra sulla problematica distanza tra verbo e soggetto: «Ma quando lui, sulla strada, la (in-seta-e-raso-coperta-adesso-molto-disinvolta-secondo-la-ultima-moda-vestita) moglie del consigliere governativo incontrò etc». La citazione è tratta dal Segreto della vecchia Mamselle della signora Marlitt. Secondo Twain la situazione di chi è lì che ascolta questa frase, e aspetta che arrivi il verbo, è più o meno come quando, a bocca già spalancata, sei dal dentista, che ti ha già preso un dente con le pinze, e si mette a raccontarti una barzelletta prima di togliertelo. Ma non è questo il peggio. Il peggio sono i verbi separabili, ce ne sono migliaia, e Twain li odia; sono verbi il cui significato è dato da una preposizione accoppiata a un verbo, dislocati ancora una volta a una certa distanza, per esempio reiste ab, che vuol dire se ne andò. Come funzionano questi verbi separabili? Ecco l'esempio che Twain fa. Dice di averlo tradotto da un altro romanzo tedesco: «Fatte le valige, lui se ne, dopo aver baciato sua madre e le sorelle e aver stretto ancora una volta al petto l'adorata Gretchen, la quale, vestita in un modesto abito di mussola bianca, con un giacinto nelle ampie volute dei folti capelli castani, scendeva a fatica le scale, ancora pallida per il terrore e l'eccitazione della sera precedente, ma ansiosa di poggiare un'ultima volta la povera testa dolente sul petto di lui, che amava più della vita stessa, andò». Twain non vuole dedicare a questi verbi troppo tempo, perché gli fanno veramente perdere le staffe. Invece gli piace il fatto che in tedesco i sostantivi inizino con la maiuscola, gli sembra una buona idea, una delle poche in questa lingua, perché così è possibile riconoscerli a prima vista. Anche se il genere (maschile, femminile e neutro) poi incasina tutto perché non c'è un criterio che ne guidi l'abbinamento, bisogna impararli a memoria e c'è poca attinenza con la realtà. Twain traduce un dialogo da uno dei migliori manuali tedeschi: «Gretchen: Wilhelm, dov'è la rapa? / Wilhelm: Lei si trova in cucina. / Gretchen: E dov'è quella brava e bella fanciulla inglese? / Wilhelm: Esso è andato all'opera». Twain dice che da questo si capisce bene che i tedeschi hanno una grande considerazione per le rape e uno straordinario disprezzo per le giovani donne. Ma più che altro questi generi affibbiati ai nomi sono completamente illogici: «un albero è di sesso maschile, i suoi germogli sono di sesso femminile, le foglie sono neutre, i cavalli non hanno sesso, i cani sono maschi, i gatti femmine (gatti maschi inclusi, naturalmente)». Altra cosa che fa impazzire e credo divertire Twain sono le parole composte, che in tedesco raggiungono una particolare lunghezza, come Freundschaftsbezeigungen (dimostrazioni di amicizia). Anche qui, per fornire degli esempi, Twain traduce a suo modo, in modo da rendere evidente la follia della lingua tedesca, l'articolo di cronaca locale di un giornale di Mannheim: «Nella giornoprimadiieripocodopoleundici Notte, la inquestacittastantetaverna chiamata The Wagoner è andata in cenere. Quando il fuoco raggiunse il poggiantesullacasainfiamme Nido della Cicogna, i genitori cicogna volarono via. Ma nel momento in cui il circondatodalfuoco Nido lui stesso andò in fiamme, subito si precipitò la veloceritornante Madre-Cicogna tra le Fiamme e morì, con le Ali aperte sopra i suoi piccoli». Il libro contiene anche altri scritti: una opera teatrale, Meisterschaft / Commedia in tre atti, dove Twain si diverte a combinare e a mettere in bocca ai personaggi le frasi stereotipate prese da un metodo per imparare in fretta e senza sforzo la lingua tedesca; il racconto La signora McWilliams e il fulmine, dove, dall'errata interpretazione di un manuale tedesco, nascono situazioni irreali per difendersi dai fulmini; tre brevi discorsi: Gli orrori della lingua tedesca; Le meraviglie della lingua tedesca; e Una nuova parola tedesca. Leggendo questo libro si potrà ammirare per l'ennesima volta la totale versatilità del genio di Twain, dove qualsiasi cosa può diventare una cosa da ridere. E sempre in modo non banale.

Come si nomina il cancelliere e le tappe per formare un governo in Germania. Agi il 28 settembre 2021. In Germania il cancelliere è il capo del governo e ogni partito si presenta alle elezioni con un candidato o una candidata informale per questo ruolo. La sua elezione è descritta all'articolo 63 della Legge fondamentale (Grundgesetz) della Repubblica federale tedesca. Il voto degli elettori è per rinnovare il Bundestag, mentre non c'è elezione diretta del cancelliere anche se in questa campagna elettorale si è parlato molto dei rispettivi candidati. Il cancelliere viene eletto dal Bundestag una volta che è stata formata una coalizione di governo, cosa che può richiedere parecchio tempo. Il presidente federale propone un candidato sul quale i deputati si esprimono mediante votazione segreta senza precedente dibattito. Il cancelliere è considerato eletto se riceve la maggioranza assoluta dei voti del Parlamento. Se il proposto non viene eletto, il Bundestag può, entro quattordici giorni dalla votazione, eleggere un Cancelliere federale a maggioranza dei suoi membri. Se non si effettua una votazione entro tale termine, ha luogo immediatamente una nuova elezione, nella quale è eletto colui che ottiene il maggior numero di voti. Se l'eletto riunisce su di sè i voti della maggioranza dei membri del Bundestag, il presidente federale lo deve nominare entro sette giorni dall'elezione. Se l'eletto non raggiunge tale maggioranza, il presidente federale, entro sette giorni, deve nominarlo o sciogliere il Bundestag. Solo il Parlamento puo' pure destituire il cancelliere.  

Come è composto il Parlamento. Il Bundestag è il parlamento federale tedesco ed esprime la rappresentanza popolare della Repubblica Federale di Germania. Il Deutscher Bundestag è il massimo organo costituzionale ed è l’unico organo statale che viene eletto direttamente dal popolo. Il Parlamento non ha un numero fisso di membri. Attualmente è composto da 709 deputati eletti con un sistema misto uninominale-proporzionale: l'elettore dispone di due schede, con una sceglie un candidato nella propria circoscrizione e con l'altra un partito. Ciascuna delle due parti rappresentate sulla scheda contribuisce all'elezione di 299 deputati: la somma dovrebbe fare 598 ma nel 2017 il Bundestag si è 'gonfiato' fino a 709 membri, diventando più costoso e meno efficiente. La ripartizione dei parlamentari a livello federale è puramente proporzionale poiché i seggi sono assegnati sulla base dei voti determinati dalla seconda scheda. E' stato calcolato che il numero dei deputati, nella peggiore delle ipotesi potrebbe arrivare addirittura fino a 912 da un minimo di 672. Le ipotesi sono che stavolta potrebbero essere 750.  Le forze politiche hanno provato a raggiungere un accordo sulla riduzione dei parlamentari a 598 sulla base delle 299 circoscrizioni elettorali in cui è divisa la Germania ma un'intesa non è ancora stata trovata.

Le tappe del percorso per il governo. Il sistema elettorale tedesco non prevede la designazione di un premier da parte dei votanti: secondo la Costituzione, la nomina del cancelliere è di esclusiva competenza del Parlamento. Saranno quindi i 735 nuovi deputati a dare il loro via libera, dapprima all’incarico alla figura che sarà individuata dal presidente federale Frank-Walter Steinmeier, successivamente al governo una volta che i partiti di coalizione saranno riusciti a compilare un programma. In mancanza di un accordo, è prevista la possibilità di convocare nuove elezioni: in Germania, diversamente da altri Paesi europei, non è mai successo, ma mai prima di ora c’era stata una tale frammentazione del voto. L’ipotesi istituzionale più probabile è ora che il presidente dia l’incarico al candidato del Partito socialdemocratico, che ha ottenuto una maggioranza dei voti; se però questi fallirà nell’intento di costruire una coalizione che abbia la maggioranza dei voti in Parlamento (presumibilmente con i Verdi e i liberali dell’Fdp), allora l’incarico potrebbe essere dato al leader dei conservatori, Armin Lascher presumibilmente. Esiste poi la terza opzione di una ennesima riedizione della Grosse Koalition fra i due principali partiti: anche in questa prima fase è considerata un’ultima spiaggia, rappresenta comunque un argine contro il temutissimo rischio di nuove elezioni.

Il voto tedesco. Cosa sono lealtà e contratto di coalizione, i concetti che rendono i governi tedeschi stabili. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Le novità delle elezioni tedesche sono state ampiamente analizzate sulla stampa italiana e internazionale. Ed in effetti ci sono tante “prime volte” in quello che è successo nelle urne il 26 settembre scorso. È la prima volta che un Premier uscente (e che Premier!) non si ricandida a fine legislatura; è la prima volta che i due grandi partiti Cdu/Csu e Spd (i due “big tent parties”) non raggiungono, sommati insieme, il 50 % dei consensi nel voto di lista; è la prima volta che l’alleanza Cristiano-democratica e cristiano-sociale si colloca al di sotto del 30 per cento; è la prima volta che, sulla carta, si presentano così tante alternative per la formazione del governo: Coalizione semaforo (Spd, liberali e Verdi), Giamaica (Cdu/Csu, liberali e Verdi), Kenya (Cdu/Csu, Spd e Verdi), Grande Coalizione (Cdu e Csu), coalizione giallo-rosso-nera (Cdu/Csu, Spd e Liberali). “Benvenuti tra noi” qualcuno potrebbe dire dalle nostre parti. Mal comune, mezzo gaudio. O, rovesciando il discorso, potrebbe esser tentato di sdrammatizzare l’eterno dibattito italiano sulla legge elettorale, perché, in fondo, ormai tutto il mondo è paese e l’anelito insopprimibile al proporzionale, con i conseguenti governi di coalizione pluripartitica, in fondo non rispecchia quell’anomalia di cui tanti da noi si lamentano proponendo modelli “inadeguati” (si fa per dire) alla specificità italiana. Ovviamente il discorso è molto più complesso. Non solo perché non è affatto chiaro che cosa gli eventi politici tedeschi determineranno nel breve e nel medio periodo. E se il modello tedesco, così come descritto da Giovanni Sartori, nella sua Ingegneria costituzionale comparata, sia del tutto tramontato, come alternativa percorribile, rispetto a quello inglese o francese, per assicurare governi stabili e ben funzionanti. Certo, come ricordava Angelo Bolaffi ieri su questo giornale i fattori di instabilità sono destinati anche in Germania ad accentuarsi. Il discorso è complesso, e la comparazione con l’Italia sarebbe francamente azzardata. Anche perché la differenza, nel funzionamento dei sistemi politici, la fanno non solo le regole scritte (a cominciare dalla legge elettorale o dalle norme costituzionali sulla formazione dei governi) ma soprattutto la tradizione, la cultura istituzionale, le convenzioni. In Germania esiste un concetto chiamato Koalitionstreue (lealtà di coalizione), di cui il Koalitionsvertrag (il contratto di coalizione) è il suggello politico. La prima è totalmente estranea alle abitudini dei partiti italiani. Il secondo è stato malamente scimmiottato, con gli esiti che conosciamo. La fedeltà di coalizione ha fatto sì che, nella storia tedesca, dopo i primi anni di assestamento del sistema, le crisi di governo durante la legislatura siano state praticamente assenti (nessuna dal 1983 ad oggi). Il che vuol dire che, per quanto possa essere stato complesso, talvolta, il processo di formazione dei governi (e di sottoscrizione del contratto di coalizione) e per quanto si sia sempre trattato di governi di coalizione (bipartitica), una volta dato il via alla legislatura, da quelle parti non si è mai assistito alle guerre intestine e paralizzanti che conosciamo in Italia, con minacce (messa in atto) di crisi di governo a ripetizione. Con questo passato alle spalle, e per quanto delicata possa essere la prospettiva di coalizioni con tre partner (la possibile novità post-elettorale di oggi), difficilmente la Germania precipiterà in quel caos di instabilità permanente che caratterizza, da sempre, la politica italiana. Del resto in numeri parlano chiaro. In Germania, dal dopoguerra ad oggi ci sono stati 25 governi e 9 Cancellieri, la cui permanenza in carica (sommando i vari gabinetti presieduti) è stata mediamente di 8 anni. Tre di questi Premier, però, hanno governato complessivamente per ben 46 anni su 76 (16 anni Merkel e Kohl, 14 Adenauer). In Italia, dal 1945 ad oggi, ci sono stati 68 governi e i Presidenti del Consiglio sono stati 30 con una media di durata (sempre sommando i vari gabinetti presieduti) di 2 anni e mezzo. I tre più longevi (Berlusconi, Andreotti e De Gasperi) sono stati complessivamente in carica 22 anni su 76. Per non parlare (a proposito di lealtà politica) del transfughismo e dei cambi di casacca, che in Germania sono praticamente inesistenti. La conclusione la può trarre facilmente il lettore. Stiamo parlando di sistemi politico-istituzionali che stanno a distanza siderale tra loro, malgrado le novità del risultato elettorale di oggi. Conosco l’obiezione: in Germania c’è la sfiducia costruttiva. Ma basta conoscere un minimo della storia istituzionale di quel Paese per rendersi conto che la funzione deterrente di quello strumento è solo una piccola componente della stabilità tedesca. Tant’è che, anche in Germania, in rarissimi casi particolarmente critici, essa è stata aggirata ricorrendo alle crisi extraparlamentari. Che in Italia, come sappiamo, sono la regola. Insomma, più che farsi tentare dall’alibi della somiglianza, forse noi italiani (a cominciare dalla politica) dovremmo riflettere, e magari porre rimedio, alla maledizione che, dal 1861 ad oggi, impedisce a qualsiasi governo di durare, non solo per l’intera legislatura, ma (mediamente) più di un anno e qualcosa. Questa non si chiama “anomalia”, si chiama masochismo. Giovanni Guzzetta

Mai un Bundestag così inclusivo, eterogeneo (e turco). Emanuel Pietrobon su Inside Over l’1 ottobre 2021. Quel tribunale severo che è l’elettorato ha parlato, o meglio ha sentenziato, decretando ufficialmente la fine dell’era Merkel. L’alma mater della Germania, con ogni probabilità, continuerà a muovere le fila del gioco, lavorando con alacrità allo stabilimento di Große Koalition stabili ed efficienti, ma dovrà scendere a compromessi con maggiore frequenza rispetto al passato. Le urne, inoltre, hanno emesso un altro verdetto sul futuro della nazione tedesca, al quale, però, la grande stampa non sta dedicando il giusto spazio sebbene sia parimenti importante a quello relativo al fato del merkelismo. Questo verdetto, che va letto con la dovuta attenzione, parla del Bundestag di oggi e della Germania di domani. Parla del ruolo crescentemente importante che sta giocando, e che giocherà, la comunità turca nel mondo tedesco.

Mai un Bundestag così turco. La 20esima Dieta federale della Germania va lentamente prendendo forma e i numeri che la contraddistinguono già adesso, a pochi giorni dalla chiusura delle urne, la rendono la Dieta dei record. Mai così tanti seggi assegnati – 735 contro i 709 della precedente –, mai dei parlamentari transgenere prima di oggi – Tessa Ganserer e Nyke Slawik, elette con i Verdi – e mai, soprattutto, così tanti turchi. Nel Bundestag che si insedierà a breve, invero, entreranno diciannove parlamentari di origine turca – in aumento di circa un terzo rispetto al 2017, quando ne erano stati eletti quattordici –, i quali vestiranno quasi esclusivamente le casacche dei vincitori. Perché i diciannove, nello specifico, rappresenteranno gli interessi dei socialdemocratici (10), dei verdi (5), della sinistra (3) e dei cristiano-democratici (1). E se le trattative per la spartizione del Bundestag e degli incarichi di governo dovessero andassero a buon fine, cioè come da pronostico, uno di quei turchi, il verde Cem Ozdemir, sarebbe ritenuto papabile alla titolarità del Ministero degli Trasporti.

Una tendenza datata. I Deutsch-Türken non possono essere ignorati, perché i numeri non lo consentono – le stime parlano di una comunità di 4-7 milioni di persone –, e questo è il motivo principale per cui i partiti più lungimiranti, sin dagli anni Novanta, dedicano una parte del loro programma elettorale agli interessi e ai bisogni del secondo gruppo etnico del Paese. I numeri delle parlamentari di quest’anno sono indicativi della crescente importanza rivestita dai turchi nel panorama politico, culturale e sociale tedesco, ma non potrebbero essere compresi pienamente senza un riepilogo della lunga (e non priva di controversie) corsa degli anatolici verso il Bundestag. Tutto ebbe inizio con Sevim Çelebi-Gottschlich nel 1987, sebbene la sua esperienza, durata due anni, sia stata cancellata dai libri di storia. La Çelebi, infatti, viene (ancora oggi) ricordata per aver pronunciato un discorso in turco nel Bundestag. La provocazione, però, lungi dal suscitare l’effetto sperato, le sarebbe costata il seggio e sarebbe stata pagata dall’intera comunità turca, che non avrebbe più avuto un proprio parlamentare fino alla metà degli anni Novanta.

Non è solo una questione di seggi. A partire dal 1994, anno dell’entrata nel Bundestag della socialdemocratica Leyla Onur e del verde Ozdemir – lo stesso che oggi anela alla guida dei Trasporti –, i Deutsch-Türken non sono più usciti dal parlamento federale e, al contrario, la loro presenza è cresciuta elezione dopo elezione. Dal 2013 ad oggi, ad esempio, il numero dei parlamentari di origine turca è quasi raddoppiato, passando da undici a diciannove. In estrema sintesi, la crescita dei parlamentari Deutsch-Türken, passati da zero a diciannove in un trentennio, è una delle manifestazioni più evidenti di quel fenomeno complesso e sfaccettato che è la trasformazione etno-demografica della Germania. Una trasformazione che ha coartato i grandi partiti ad accettare l’adozione di linee politiche maggiormente orientate all’accettazione delle alterità e che nei prossimi anni, a meno di radicali inversioni di tendenza, renderà la Germania un po’ meno tedesca e un po’ più turca – con tutto ciò che questo comporterà inevitabilmente per la società, la sicurezza nazionale e la politica estera, con quest’ultima che potrà essere influenzata dalle visioni dei Deutsch-Türken su determinati temi.

Primo cancelliere socialdemocratico dopo 16 anni. Olaf Scholz eletto nuovo cancelliere, l’era Merkel si chiude con una standing ovation. Redazione su Il Riformista l'8 Dicembre 2021. Con il giuramento del socialdemocratico Olaf Scholz, 63 anni eletto oggi dal Bundestag, il Parlamento tedesco, finisce ufficialmente dopo 16 anni l’era di Angela Merkel. Ma per la prima volta i tedeschi avranno due donne alla guida degli Esteri e degli Interni. Scholz ha ricevuto l’incarico ufficialmente dal presidente Frank-Walter Steinmeier e ha prestato giuramento. Alla guida di un governo di coalizione, sostenuto da Spd (socialdemocratici), Verdi e Liberaldemocrativi, Sholtz ha ottenuto 395 voti su 707 (ne servivano 369): per succedere ad Angela Merkel, di cui è stato vice negli ultimi anni. Sulla carta, Scholz disporrà nel nuovo Parlamento di 416 voti su 736. Già venerdì si recherà a Parigi e Bruxelles, dove visiterà i quartieri generali dell’Unione europea e della Nato, riferisce una nota del governo di Berlino. A Parigi ci sarà un incontro tra Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron. “La prima visita all’estero di Scholz e’ un’espressione di legami ravvicinati ed amicizia tra Germania e Francia”, dichiarano dall’esecutivo tedesco secondo cui il confronto si concentrerà su tematiche bilaterali, internazionali ed europee. A Bruxelles poi, Scholz avrà un confronto sui preparativi del Consiglio europeo della prossima settimana e incontrerà la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Sempre nella capitale belga, il nuovo cancelliere tedesco avrà un incontro anche con il segretario generale Jens Stoltenberg

Scholz erediterà un Paese che resta, saldamente, la prima economia europea, ma che è alle prese con una durissima quarta ondata di Covid: nella sola giornata di ieri, i contagi sono stati 69.601, i morti 527, l’incidenza 427 ogni 100 mila abitanti.

Il governo delle prime volte. Scholz è il primo Cancelliere né protestante, né cattolico. E per la prima volta nella storia della Repubblica Federale due donne guideranno il ministero degli Esteri (Annalena Baerbock) e quello degli Interni (Nancy Faeser). Infine al termine della cerimonia per l’insediamento il nuovo Cancelliere non ha pronunciato “So wahr mir Gott helfe” che significa “che Dio mi aiuti” (anche Gerhard Schröder non l’aveva fatto nel 1998).

Nuovo cavallo per il nuovo cancelliere. Scholz abbandona l’Audi di Angela Merkel per viaggiare con una Mercedes S 680 Guard blindata da mezzo milione di euro.

Ex segretario generale della Spd, ex ministro del Lavoro nel primo governo Merkel, ex sindaco di Amburgo – è il nono cancelliere tedesco del dopoguerra, e il primo socialdemocratico dopo 16 anni.

Nel suo programma ci sono investimenti per portare la Germania fuori dall’era dei combustibili fossili entro il 2030 e per modernizzare tecnologicamente il Paese (che ha ancora connessioni internet e di telefonia mobile non all’altezza); la volontà di abbassare l’età per poter votare a 16 anni e di legalizzare la vendita della cannabis; il progetto di alzare a 12 euro l’ora il salario minimo (attualmente è di 9,6 euro l’ora) e di abbassare il prezzo degli affitti costruendo nuove abitazioni.

Sul piano della politica estera, invece, Scholz ha promesso continuità con l’europeismo e la fedeltà all’alleanza atlantica che hanno contraddistinto i governi di Merkel. Le cose si potrebbero complicare non poco perché nel pacchetto delle sanzioni contro Mosca che l’amministrazione americana sta mettendo a punto nel caso di un’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ci sarebbe anche il blocco del Nord Stream 2, il gasdotto russo-tedesco che passa sotto il Mar Baltico, già completato ma non ancora operativo. Il Nord Stream 2 non viene neanche menzionato nell’accordo di coalizione — a conferma che sul tema ci sono differenze al momento non superabili tra socialdemocratici, favorevoli al progetto, e Verdi, che lo hanno sempre osteggiato. Tuttavia, il programma del nuovo governo promette anche una linea meno conciliante nei confronti di Mosca.

Il profilo del (probabile) nuovo Cancelliere. Chi è Olaf Scholz, leader moderato della Spd e possibile erede della Merkel in Germania. Fabio Calcagni su Il Riformista il 27 Settembre 2021. Le trattative per la formazione del governo partiranno nei prossimi giorni ma Olaf Scholz ha già raggiunto un obiettivo che mesi fa sembrava un miraggio: il Partito Socialdemocratico tedesco (SPD) potrà "sedersi al tavolo" con la maggioranza dei voti nelle elezioni che si sono tenute domenica. I Socialdemocratici hanno infatti ottenuto una vittoria risicata nei numeri ma forte sul piano politico, dopo 16 anni di governi a guida Angela Merkel. La SPD nel conteggio provvisorio della Commissione elettorale federale ha infatti il 25,7% dei voti contro il 24,1%, dell’Unione, la federazione formata dai partiti gemelli Cdu e Csu. Più indietro i Verdi di Annalena Baerbock al 14,8%, che in campagna elettorale ha visto crollare la possibilità di diventare la nuova Cancelliera, seguiti poi dai liberali di Fdp all’11,5%, l’estrema destra AfD al 10,2%, la sinistra radicale Linke al 4,9%. Dati storici quelli emersi dalle urne tedesche: per la prima volta nel Dopoguerra i due maggiori partiti tedeschi sono entrambi sotto il 30%, mentre per i partiti conservatori Cdu-Csu è il risultato peggiore di sempre. Come ovvio dato i risultati, per governare ci sarà bisogno di una coalizione. Le opzioni più probabili sembrano essere una coalizione ‘semaforo‘ (cioè Spd, Verdi e Fdp), nel caso in cui a dare le carte sia il partito socialdemocratico, o una coalizione ‘Giamaica‘ (cioè Cdu/Csu, Verdi e Fdp), nel caso in cui a dare le carte sia Armin Laschet, erede designato della Merkel che ha dovuto incassare una sconfitta amara.

SCHOLZ EREDE DELLA MERKEL? – Visti i risultati, le maggiori possibilità di diventare ‘erede’ di Angela Merkel sono di Olaf Scholz. Membro della SPD dal 1975, Scholz ha 63 anni e dal 2018, nell’ultimo governo di ‘Grosse Koalition’, è stato ministro delle Finanze e vice cancelliere. Il suo è un profilo moderato e quasi centrista e non è un caso se durante la campagna elettorale Scholz ha spinto molto sul garantire ai tedeschi che un suo governo non sarebbe così dissimile ad quelli della Merkel, pur non perdendo voti nell’ala più di sinistra del partito. Scholz ha infatti puntato durante la campagna elettorale anche su temi tradizionalmente forti a sinistra, come l’aumento del salario minimo orario da 9,60 euro a 12 euro e l’aumento delle tasse sui redditi più alti. Nato a Osnabrück, in Bassa Sassonia, venne eletto in Parlamento nel 1998 come deputato del distretto di Altona, ad Amburgo. Quindi le dimissioni per diventare ministro dell’Interno nel governo dello stato di Amburgo per soli cinque mesi, fino alla sconfitta dei Socialdemocratici nelle elezioni cittadine, e la ricandidatura con annessa elezioni al Parlamento nel 2002. Durante il primo governo Merkel, dal 2007 al 2009, è stato ministro del Lavoro mentre dal 2011 al 2018 è stato invece sindaco di Amburgo, quando alla scadenza del mandato è diventato istro delle Finanze e vice cancelliere. Fu proprio Scholz quando era sindaco di Amburgo, nel 2013, a spingere la SPD ai colloqui con CDU-CSU per la formazione del primo governo di "Grosse Koalition" con Angela Merkel, mediazione che ebbe successo anche quattro anni dopo, nel 2017, in entrambi i casi per l’assenza di una chiara maggioranza dalle urne. Questa volta invece Scholz ha chiarito che “i cittadini vogliono che ci sia un cambiamento nel governo” ed è per questo la SPD non è intenzionata a formare un nuovo esecutivo con l’Unione. Quattro anni fa ci sono voluti ben sei medi di trattative per trovare l’accordo per una nuova ‘Grosse Koalition’. In attesa di risvolti politici dal tavolo delle trattative, Angela Merkel resterà in carica con un mandato ad interim.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

"Angela", "Silvio". Quei 20 anni tra cancellerie e Ppe.  Angelo Allegri il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dal "cucù" del vertice di Trieste alla telefonata con Erdogan, alti e bassi di una "coppia di fatto". Per 20 anni sono stati una coppia di fatto della politica europea. A volte su rive contrapposte, quando bisognava andare al dunque dalla stessa parte del fiume. Da questo punto di vista Angela Merkel e Silvio Berlusconi hanno rappresentato bene i loro due popoli, che sembrano non comprendersi mai davvero fino in fondo, ma che poi, almeno a giudicare dagli ultimi 75 anni, trovano sempre il modo di mettersi d'accordo - dalle vacanze sulla riviera romagnola alle catene del valore dell'industria globalizzata - con mutuo vantaggio per entrambe le parti in causa. La storia di Angela e Silvio è punteggiata da un'aneddotica ricca e colorita, le cui tappe sono rimaste nella memoria di molti. Dal cucù al summit italo-tedesco di Trieste del 2008, alla telefonata con Erdogan del vertice Nato di Strasburgo del 2009: Berlusconi riesce a strappare ai turchi il via libera alla nomina del danese Rasmussen a segretario generale dell'Alleanza e la Merkel assiste perplessa alla conversazione, per andarsene poi a ricevere gli altri ospiti. E ancora, le risatine della conferenza stampa di Angela e Sarkozy al Consiglio europeo di Bruxelles del 2011. Per non parlare dell'episodio più oscuro: quella intercettazione telefonica, che ormai sembra pacifico non esistere, in cui a Berlusconi viene attribuito un insulto sessista rivolto alla leader tedesca. Sono passati tanti anni eppure quella vicenda, giurano i suoi uomini, è un ricordo che addolora ancora il Cavaliere. Sull'altro piatto della bilancia ci sono i regali (ieri l'ultimo in ordine di tempo) che segnano un altro discrimine culturale: da una parte la proverbiale generosità di Berlusconi, dall'altra i severi vincoli del protocollo di Stato tedesco, che impongono procedure rigide (e di solito rispettate) se i doni ricevuti superano un determinato valore. Nel corso degli anni, da un vertice all'altro, di fronte agli occhi della Merkel è passato il meglio dell'Italia: si va dalla classica cassetta di vini di pregio al foulard di Marinella, dallo scialle in cashmere ai vetri di Murano, fino alle porcellane di Capodimonte. Sullo sfondo resta poi la politica. Negli anni del suo cancellierato la Merkel ha dovuto fare i conti con otto presidenti del Consiglio per un totale di dieci governi: Prodi, Berlusconi (per due mandati), Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte (anche lui per due volte) e oggi Draghi. Non c'è confronto numerico che meglio illustri le differenze tra i sistemi politici dei due Paesi: la stabilità tedesca alle prese con la variabilità italiana. Di fronte a tanta volatilità i tedeschi, Angela in testa, hanno sempre apprezzato in Berlusconi l'ancoraggio a quel sistema di valori cattolico-liberali cui anche la Cdu fa riferimento, e che si trovano riassunti nella comune appartenenza al Partito Popolare Europeo. Il timore di Berlino è sempre stato quello di rimanere senza punti di riferimento autorevoli con cui poter parlare la stessa lingua. Con Berlusconi non è mai successo. Ora, per dire la verità, a essere di fronte a una svolta sono proprio i tedeschi. La loro stabilità, di idee e di obiettivi, prima ancora che di persone, potrebbe presto trasformarsi in un ricordo. Una coalizione a tre come quella che va profilandosi a Berlino è un esperimento mai testato e per cui non mancano le incognite. E almeno sui tempi brevi sembra difficile che nei vertici tra i due Paesi possa riformarsi un tandem simile, per peso politico e mediatico, a quello che ha dominato i rapporti italo-tedeschi degli ultimi vent'anni. Angelo Allegri

La Merkel ci ricasca: niente mano alla von der Leyen. Francesca Galici il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Saluto bizzarro tra Angela Merkel e Ursula von der Leyen, costretta a ritrarre la mano davanti all'evidente fastidio della cancelliera. Gli ultimi giorni di Angela Merkel come cancelliera tedesca sono all'insegna di una gaffe involontaria. Quello in corso sarà l'ultimo Consiglio europeo per i leader, che in una pausa dei lavori hanno posato, distanziati e ripresi da un drone, per una foto di gruppo all'ombra della Lanterna di palazzo Europa a Bruxelles. Uno scatto storico, fortemente voluto dai presenti, per omaggiare la cancelliera tedesca al suo 107esimo Consiglio Ue in sedici anni di carriera politica. Angela Merkel ha preso molto sul serio le indicazioni contro il contagio da coronavirus e quando le si è avvicinata Ursula von der Leyen per un saluto, la cancelliera si è mostrata particolarmente titubante nello stringerle la mano, quasi spaventata. Nel momento in cui il presidente del Consiglio europeo ha allungato la mano come gesto di cortesia, Angela Merkel l'ha tirata indietro con spavento. Un gesto che non poteva passare inosservato, tanto che anche von der Leyen ha immediatamente ritratto la sua mano, cercando di capire cosa stesse succedendo. È stato solo un attimo di esitazione, una frazione di secondo che dà però la misura dell'attenzione di Angela Merkel nei confronti delle misure contro il Covid. In quei pochi istanti, Ursula von der Leyen è stata spiazzata da Angela Merkel, che a quel punto ha chiuso la mano per fare il saluto pugno-pugno che tutti abbiamo imparato a conoscere durante la pandemia, come forma più intima rispetto a quello gomito-gomito. Tuttavia, Ursula von der Leyen non sembra aver intuito le intenzioni della cancelliera, tanto che, invece di porgerle il pugno, le ha affettuosamente preso la mano tra le sue. Non è certo la prima volta che Angela Merkel inciampa in situazioni simili. Poco meno di un anno fa, infatti, una scena simile accadde con Giuseppe Conte, all'epoca ancora presidente del Consiglio italiano. In quel caso la reazione fu ben più plateale da parte di Angela Merkel che, vedendo Giuseppi avvicinarsi, fece mezzo passo indietro e costrinse il presidente del Consiglio italiano a fare lo stesso. Anche stavolta, il video è diventato virale sui social e sono tante le battute sul gesto di Angela Merkel. "Si può di nuovo stringere la mano? Merkel ha detto di no", ha scritto Jack Parrock, corrispondente da Buxelles, uno dei primi a condividere il video del siparietto tra il cancelliere e Ursula von der Leyen.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

L’oro del Reno. L’austerità di Angela Merkel. L'Inkiesta 22 Ottobre 2021. Nella settima puntata del podcast “La mia domanda ad Angela Merkel”, una meticolosa indagine giornalistica fa luce sul periodo in cui la Cancelliera si impuntò anche se i leader europei avevano solo 72 ore per evitare la crisi del debito greco e della sua alleanza con Sarkozy a Bruxelles contro Silvio Berlusconi. Ormai sappiamo tutto della vita e della carriera politica della Merkel fino a come ha reagito al crollo finanziario del 2008. In questo episodio, ci troveremo nel periodo in cui l’UE era sull’orlo di una nuova crisi a causa dell’instabilità della Grecia. Emilia ci racconterà di come la Merkel si sia impuntata anche se i leader europei avevano solo 72 ore per evitare la crisi, di come abbia dichiarato che «la Germania non può star bene se l’Europa non sta bene», della sua alleanza con Sarkozy a Bruxelles contro personaggi come Papandreou e Berlusconi.

Europeismo riluttante. Perché Merkel ci mise così tanto ad agire nella crisi del debito greco. su L'Inkiesta 15 Ottobre 2021. Nella sesta puntata del podcast “La mia domanda ad Angela Merkel”, una meticolosa indagine giornalistica fa luce sui disaccordi della Cancelliera con Sarkozy su cosa fare per le economie più fragili dell'UE. Ospiti della puntata l’ex presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e l’ex premier greco Alexis Tsipras.  Emilia ci ha già detto tutto sulla gioventù della Merkel e ha ripercorso ogni passo della sua carriera politica fino al ruolo che ha giocato nel chiudere l’accordo sul Trattato di Lisbona. Ma come scopriremo in questo episodio, questa è stata solo una delle tante sfide che Merkel ha dovuto affrontare da quando è diventata Cancelliera. Emilia ci racconterà di come Merkel si sia rivolta ai libri in prima persona di fronte alla crisi finanziaria, dei suoi disaccordi con Sarkozy su cosa fare per le economie più fragili dell’UE, e di come abbia impiegato così tanto tempo a decidere come affrontare il crollo finanziario che persino Jean Claude Juncker ne è rimasto infastidito.

Wir Schaffen das. Quando Merkel fece arrabbiare Alternative für Deutschland. L'Inkiesta il 2 novembre 2021. Nella ottava puntata de “La mia domanda ad Angela Merkel”, una meticolosa indagine giornalistica fa luce sui momenti che portarono alla decisione della Cancelliera di accogliere 1 milione di migranti siriani in Germania.

Angela Merkel e la crisi col marito Joachim Sauer, imbarazzo nell'intervista: "Non credo che lui...". Il gelo. Libero Quotidiano il 23 ottobre 2021. Un po' di commozione e tanto gelo per Angela Merkel, all'ultima uscita ufficiale a Bruxelles prima della pensione. La ormai ex cancelliera tedesca ha salutato i colleghi al Consiglio Ue, concedendosi un "bicchiere della staffa" a mezzanotte con il francese Emmanuel Macron, mentre l'ex presidente americano Barack Obama ha voluto salutarla in video-collegamento. Si chiude un'era, durata 16 anni, e forse per Angela (e l'Europa) ora arriveranno altri guai, a cominciare da quelli privati relativi al gossip sulla presunta crisi coniugale. "Quando arrivai al potere -  ricorda in una intervista alla Süddeutsche Zeitung -  non c'erano gli smartphone, Facebook era appena nato, Twitter non era ancora stato creato. Viviamo in un mondo mediatico completamente trasformato. E temo che diventi sempre più difficile trovare compromessi, che sono indispensabili in una democrazia". In Europa, la Merkel è preoccupata per la "sempre maggiore difficoltà a forgiare una posizione comune. Dobbiamo fare però di tutto per tenere insieme l'Unione". "Abbiamo superato numerose crisi - aggiunge -, grazie al rispetto e allo sforzo di individuare soluzioni comuni, ma abbiamo davanti a noi una serie di problemi gravi e non risolti". Le scorse settimane si è sparsa la voce di una crisi col marito Joachim Sauer, professore che si trasferirà a Torino. Il gossip ha sganciato la bomba su una sua "tenera amicizia" con una collega. Angela fa spallucce, ma l'imbarazzo è evidente: "Non penso che si preoccupi che io mi aggirerò troppo spesso per casa. Primo perché anche lui ha molto da fare e secondo perché non sono mai stata una che sta solo in casa".

Federica Vivarelli per il "Corriere della Sera" il 23 novembre 2021. Oltre la scienza. «Ho tanti amici italiani, soprattutto a Torino. Quando ho una conferenza all'università mi piace andare con loro a mangiare al ristorante. Ho sempre bisogno dei miei amici». Parola di Joachim Sauer. Chimico, professore ordinario all'università di Berlino, coniugato Merkel. Il marito dell'ex cancelliera tedesca da ieri pomeriggio è ufficialmente socio dell'Accademia delle Scienze di Torino. Nella storica sala dei Mappamondi, per l'inaugurazione dell'anno accademico, tutti gli occhi sono puntati su di lui. Sauer sorride, si racconta. È qui da solo, di Merkel nessuna traccia, anche se aveva dichiarato di voler seguire il marito nei suoi impegni di studio. Pare sia stato proprio Sauer a preferire la cerimonia in presenza e non da remoto. Dall'Accademia è infatti attiva la diretta YouTube, con oltre un centinaio di collegamenti. Il chimico tedesco annuncia un soggiorno prolungato nel capoluogo piemontese: «Le mie lezioni le farò qui, speriamo solo di poterle fare». Con un sorriso scandisce «presente» in perfetto italiano. A Torino è «ospite di alcuni amici» e dice che «ancora non conosco bene la città». Poi scherza sul meteo: «Perché piove sempre quando vengo qui?». Prima dell'inizio della cerimonia viene allestito per lui un piccolo ritrovo con la stampa. Si parla di studi, di vacanze. Il professore in elegante completo nero ascolta le domande in inglese e risponde esclusivamente in tedesco. Nessuno nomina la consorte. Una giornalista gli presenta un libro dal titolo: «Goodbye Merkel». Sauer lo scosta senza commentare, è percettibile il fastidio anche sotto la mascherina. Per il resto, la scienza è al centro. «Lo sviluppo dei vaccini - dice - è una grande vittoria, la dimostrazione di come reagire in tempi rapidi alle situazioni. Sono molto dispiaciuto per quella parte di popolazione che ignora la realtà per ragioni illogiche. Spero che dopo questa pandemia ci sia più attenzione alla scienza anche tra i più piccoli. Sarebbe bello se in molti si interessassero alla scienza e decidessero di studiarla, ce n'è bisogno. Come c'è bisogno di maggior ricerca sui vaccini per reagire a eventi come questo». Si inaugura così il 239° anno di attività dell'Accademia delle Scienze. Un anno che si preannuncia importante per l'ateneo torinese: assieme a Sauer, infatti, è presente anche il premio Nobel svizzero Michel Mayor. Quando li nomina si percepisce l'emozione nella voce del presidente dell'ordine Massimo Mori: «Lo scorso anno ero solo in questa sala. Nota malinconica: forse alcuni studi non hanno ricevuto la giusta attenzione in questo ultimo periodo». Per la sede di via Accademia delle Scienze 6 è usanza arricchirsi ogni anno di nuovi soci. Professori e ricercatori che possono trasmettere «la passione alle nuove generazioni».

Fondata nel 1757, per la prima volta l'Accademia conta docenti di così grande fama internazionale. Mayor ha ottenuto il Nobel nel 2019 individuando il primo pianeta extralunare, il 51 Pegasi B. Sauer è riconosciuto per i suoi studi nella chimica quantistica. A sorpresa, presente all'inaugurazione dell'anno accademico anche il sindaco Stefano Lo Russo per gli auguri: «Dopo tanti anni di assenza - conclude il presidente Mori - anche la città di Torino è finalmente presente al nostro nuovo avvio».

Letizia Tortello per "la Stampa" il 24 novembre 2021. «I vaccini sono un miracolo. Sconvolto dai negazionisti». Mentre la moglie, l'ex fisica e oggi - ancora per una manciata di settimane - cancelliera della Germania, Angela Merkel, alza i toni nei confronti dei tedeschi che non vogliono vaccinarsi, il marito, Joachim Sauer, chimico quantistico considerato uno dei 30 migliori al mondo, appena sotto il rango dei Nobel, arriva a Torino per ricevere l'investitura di membro dell'Accademia delle Scienze. Ma il pensiero è fisso a Berlino, per il «dramma» della quarta ondata che sta travolgendo il Paese e per la Scienza schiacciata dalle fake news. Lei è uno degli scienziati più riconosciuti al mondo.

Come vive questo periodo storico, in cui la Scienza, ciò che abbiamo noi umani di più certo, è continuamente messa in discussione?

«È un'esperienza sconvolgente. E anche di più, davvero eclatante e disturbante». 

Quale, Professore?

«Mi turba sommamente, più di tutto, che un terzo della popolazione tedesca, parlo per il mio popolo, non sia aperto ai successi della scienza. Non vogliono dare retta alla razionalità scientifica, non trovano l'ingresso nel mondo razionale. Mi sono sorpreso quando negli Stati Uniti sono spuntati i gruppi di Creazionisti, ma ciò che sto vivendo in Germania non è migliore, è paragonabile a quella irrazionalità».

Che pericolo corriamo se la scienza non è più autorevole?

«Probabilmente è sempre stato così. Solo che non è mai emerso chiaramente. D'altra parte abbiamo creato un vaccino in così poco tempo ed è veramente un miracolo, eppure questo grande successo su cui la scienza non scommetteva prima d'ora non ha aiutato a far crescere la fiducia. Questo è deplorevole. 

Certo, dipende sempre da come l'intera popolazione reagisce a queste scoperte. Ma anche i giornalisti e l'opinione pubblica hanno avuto un ruolo: prima si lamentavano che non c'era il vaccino, poi è comparso e hanno iniziato a lamentarsi che non c'era per tutti, e che non era sufficiente subito per tutto il Paese, o che i governi non facevano abbastanza per assicurarsi le dosi». 

Perché un terzo dei tedeschi non si vaccina?

«Una piccola parte è pigra e indolente, troppo comoda. Poi ci sono quelli che non lo fanno per ideologia, per motivi irrazionali: come se una dittatura stesse provando a scardinare il nostro libero arbitrio. E ciò che più mi lascia sotto choc è che c'è una fetta di negazionisti che ha studiato: anche accademici, medici e ricercatori di materie scientifiche rifiutano i vaccini». 

Noi italiani siamo quasi al 90% di immunizzati over 12 anni. I nostri governi sono stati più efficaci nel coinvolgere la popolazione?

«Forse dipende dal fatto che fin dall'inizio siete stati sovrastati da queste immagini così forti dei morti nelle vostre città, i governi sono riusciti a prendere col giusto tempo la popolazione, che chiedeva risposte e cure. La gente si è motivata. La Germania è poco più avanti degli Stati Uniti quanto a quota di vaccini, ma la situazione di partenza non era la stessa e questo è spiacevole: in America ci sono stati governatori di Stati che hanno negato il Covid. Ciò non è accaduto da noi, non abbiamo avuto i Bolsonaro, eppure siamo nella stessa situazione. Non so dare spiegazioni migliori, però. Ci faccio i conti tutti i giorni». 

Anche sul clima la scienza non è riuscita per lungo tempo a convincere industrie e governi. Ha qualcosa da rimproverarle? Avreste dovuto coinvolgervi di più, da scienziati, nel dibattito pubblico?

«No, gli scienziati sono già coinvolti abbastanza. Il premio Nobel per la Fisica 2021, il climatologo Klaus Hasselmann, da trent' anni fa notare in continuazione l'emergenza. Come lui molti colleghi in tutto il mondo. 

Però l'influenza della scienza sulle questioni climatiche è meno visibile che sul Covid, perché i disastri ambientali sono più lenti di un reparto di terapia intensiva che si riempie d'improvviso».

Lei è diventato membro dell'Accademia delle Scienze di Torino. Conosceva già la città? Tornerà spesso per le lezioni?

«Ho tanti amici nella vostra città, sono tutti scienziati. Ho molti ricordi legati a Torino, venni qui per la prima volta nell'88 per un convegno, poi altre dieci volte. Sono cresciuto nella Germania dell'Est e per noi l'Italia era la "terra dei limoni" oltre il Muro, che immaginavamo da lontano. Il primo albero di limoni l'ho visto con i colleghi piemontesi in Sardegna. Certo, tornerò spesso. Intanto stasera ceno in uno dei vostri ristoranti, io ho fatto gli inviti, il posto lo scelgono gli amici che se ne intendono».

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2021. «Mario Draghi per l'Italia è il premier giusto al momento giusto». Lo dice Angela Merkel, nella sua intervista di commiato alla Süddeutsche Zeitung. Legata da stima e amicizia al presidente del Consiglio sin dai tempi in cui Draghi era alla guida della Banca centrale europea, la cancelliera conferma di vedere in lui la migliore garanzia per il futuro dell'Italia in Europa: «Egli sta cercando impeccabilmente di usare i soldi del Next generation Eu in modo sensato, trasparente e responsabile verso i contribuenti». Merkel, che si appresta a lasciare il suo incarico dopo 16 anni, assicura di sentirsi serena all'idea che sia il socialdemocratico Olaf Scholz il suo successore: «Ci saranno differenze, ma posso dormire sonni tranquilli. Non ho mai avuto l'impressione che Scholz sia uno che spende facilmente i denari pubblici». Tuttavia, ammette che il prossimo cancelliere prendere la guida del Paese in un clima politico molto più arroventato e polemico: «Quando arrivai al potere non c'erano gli smartphone, Facebook era appena nato, Twitter non era ancora stato creato. Viviamo in un mondo mediatico completamente trasformato. E temo che diventi sempre più difficile trovare compromessi, che sono indispensabili in una democrazia». In generale, per Merkel, è «difficile dire se la Germania sia più divisa di 16 anni fa. Dobbiamo combattere razzismo e antisemitismo, ma vedo una grande maggioranza della popolazione che vuole la coesione della nostra società». Anche parlando dell'Europa, la cancelliera si è detta molto preoccupata dello stato delle cose, a causa della «sempre maggiore difficoltà a forgiare una posizione comune». «Dobbiamo fare però di tutto per tenere insieme l'Unione», ha aggiunto. Ieri in conferenza stampa, al termine del suo ultimo Consiglio europeo, dove le è stata tributata una standing ovation, Merkel ha anche affrontato specificamente il caso polacco: «Ciascuno sa cosa vale la Ue. I trattati erano conosciuti e tutti hanno ratificato quello di Lisbona. Malgrado ciò dev'essere possibile discutere, perché colloqui e incontri permettono di contestare ogni teoria della congiura: noi non vogliamo fare qualcosa contro alcuno Stato membro». Fedele al proprio passato, Merkel ha comunque detto di capire «benissimo», guardando la storia della Polonia, l'importanza della «questione dell'identità nazionale in un momento di libertà e di pace» per i Paesi che hanno vissuto sotto la dittatura comunista dopo la Seconda guerra mondiale. Il suo appello finale all'Europa è accorato: «Abbiamo superato numerose crisi, grazie al rispetto e allo sforzo di individuare soluzioni comuni, ma abbiamo davanti a noi una serie di problemi gravi e non risolti». Nell'intervista al quotidiano bavarese, Merkel affronta anche il tema della pandemia e della campagna di vaccinazione, che in Germania procede piuttosto lentamente. Alla domanda perché in Germania la linea verso i no vax è più morbida rispetto a Paesi come la Francia o l'Italia, la cancelliera risponde: «Io credo alla forza della ragione. E penso che dobbiamo fare di tutto per impedire la polarizzazione della società. Se poi guardo a posti come la Sassonia, dove la percentuale dei vaccinati e particolarmente bassa, allora penso che un eventuale obbligo scatenerebbe reazioni e polemiche ancora più forti». La prima cancelliera della storia tedesca parla anche delle donne: «Non siamo riusciti a entusiasmarle abbastanza per la politica. E dobbiamo lavorare perché acquistino sempre più fiducia. Perché anche quando ci sono, difficilmente succede che si battano per conquistare la guida di un partito. E questo, un partito guidato da soli uomini, nella nostra epoca non è accettabile. Ecco, io posso soltanto incoraggiare le donne a lanciarsi di più nella mischia». Merkel, la donna dei cinquanta blazer tutti uguali e tutti di colore diverso nell'armadio, ammette che più volte nella scelta della tinta, ha cercato anche di «lanciare un messaggio politico». Ma alla domanda se ne donerà qualcuno al Museo di Storia tedesca, come il cardigan di Kohl o il vestito macchiato di vernice rossa di Joschka Fischer, risponde di no: «Non do i vestiti ai musei, i blazer dismessi vanno regolarmente alla raccolta di abiti usati». Infine, la prospettiva della pensione e i rapporti col marito: «Non penso che si preoccupi che io mi aggirerò troppo spesso per casa». Perché lui non c'è spesso o perché la conosce, chiede l'intervistatore. «Entrambi. Primo perché anche lui ha molto da fare e secondo perché non sono mai stata una che sta solo in casa», è la laconica e misteriosa risposta.

Merkel, pragmatica e riluttante. E un (lungo) addio dopo 16 anni. Roberto Fabbri il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. La cancelliera costretta a restare in carica per alcuni mesi. Poi in auto il "coast to coast" con le canzoni di Springsteen. Cominciamo col dire che il lungo addio di Angela Merkel alla politica non si conclude oggi. La Cancelliera sa bene di dover rimanere in carica probabilmente per qualche mese ancora, in attesa che venga sbrogliata la ingarbugliatissima matassa del post voto e la Germania possa avere un nuovo governo guidato dal suo successore. Solo allora potrà concedersi quel desiderato viaggio in auto attraverso gli Stati Uniti, con colonna sonora di Bruce Springsteen, di cui ha parlato ai giornalisti: con questo recupero di giovanilismo della pensionata Angela si compirà così la trentennale parabola di colei che è stata definita la donna più potente del mondo, e che il suo mentore Helmut Kohl aveva etichettato forse sottovalutandone la precoce maturità che conteneva in nuce quella bella dose di cinismo che gli fu politicamente fatale come das Maedchen, «la ragazza». Altro che ragazza, la futura Cancelliera era nata adulta, e sapeva fin dal principio che il crollo del Muro le avrebbe dato un'occasione unica: quella di sfruttare le sue eccellenti qualità intellettuali e politiche per diventare all'interno della Cdu lei donna e «Ossi», cioè tedesca orientale la perfetta figura di cui aveva bisogno Kohl il Riunificatore per sfondare nella ex Ddr. E quello fu il trampolino da cui cominciò, determinata e con le idee chiarissime, orientale e occidentale allo stesso tempo (è nata ad Amburgo, tra l'altro, figlia di un pastore protestante che accettò senza problemi morali di compiere all'inverso il viaggio tra le due Germanie), la sua nuotata trionfale nel vasto mare della politica tedesca, europea e mondiale. È stato autorevolmente scritto che il pragmatismo è stato allo stesso tempo la forza e il limite di Angela Merkel. Lo pensiamo anche noi. La donna che ha scelto, arrivata a 67 anni e dopo 16 ininterrotti al potere, di non ricandidarsi alla Cancelleria era una centrista da manuale: privilegiava il dialogo e il compromesso, dava il meglio di sé nei negoziati, aveva un'abilità quasi saprofitica di pescare dai programmi degli altri partiti i temi più popolari (basti ricordare la spregiudicata scelta di rinunciare al nucleare) e di farli propri senza mai dare l'impressione di esser venuta meno ai propri principii. Pragmatica e concreta fino al camaleontismo, se occorreva. Ma è stato proprio il frequente ricorso a questo pragmatismo ad attirarle la critica più ricorrente, quella di non aver avuto un'agenda politica ben riconoscibile come propria al di là dell'adesione ai principii democratici e liberali dell'Occidente (che non è poco, in tempi di delirante autofustigazione al di qua e al di là dell'Atlantico). Di essere stata, secondo una definizione che le fu appiccicata addosso e che ebbe molta fortuna, una leader riluttante, soprattutto in ambito internazionale: il suo limite, appunto. A ben vedere, Angela Merkel ha sì evitato di attribuire fino in fondo alla Germania da lei guidata il ruolo politico di locomotiva d'Europa che nessuno era in grado di contestarle in campo economico, ma non è vero che non abbia saputo compiere scelte forti, il che vuol dire anche impopolari. La Cancelliera regolarmente accusata di navigare a vista con un occhio sempre fisso sui sondaggi d'opinione è la stessa che nel 2015 ha deciso di dare un esempio all'Europa (forse guardando anche agli interessi dell'industria tedesca, certo, ma chi al suo posto non lo avrebbe fatto?) aprendo le frontiere alla temuta ondata di profughi dalla Siria: il suo slogan in quella circostanza fu il famoso Wir schaffen das, «ce la facciamo». A dare una casa, a far studiare e lavorare un milione di stranieri che più stranieri non si può, quasi tutti musulmani tra l'altro, in un momento in cui il sanguinario terrorismo islamico era fonte di angoscia fra i tedeschi. La Merkel pagò un prezzo politico molto caro per questa scelta, regalando milioni di voti alla estrema destra xenofoba, e fu accusata di aver commesso un grave errore: ma lo fece lo stesso, e non se ne pentì mai. È la stessa che di fronte all'emergenza della pandemia di Covid ha acconsentito ad abbattere un tabù aprendo la strada a quell'erogazione di fondi comunitari che permette e permetterà in primo luogo all'Italia grazie soprattutto ai denari tedeschi di affrontare una crisi potenzialmente catastrofica. Qualcuno può anche accusarla di aver spesso predicato bene e razzolato male, soprattutto in tema di diritti umani nei confronti della Russia e della Cina: sostegno e cure ad Aleksei Navalny ma un sì convinto al gasdotto del Baltico che tanto piace a Vladimir Putin (e a Gerhard Schroeder...), belle parole per i disgraziati di Hong Kong e contratti lucrosi per le aziende tedesche con la Cina liberticida di Xi Jinping. Ma neanche la figlia di un predicatore luterano, così pragmatica poi, s'illudeva di poter cambiare il mondo dalla Cancelleria di Berlino. Roberto Fabbri 

Federico Fubini per il "Corriere della Sera" il 27 settembre 2021.  

Senatore, che interlocutore fu per lei Angela Merkel durante la crisi dell'euro?

«Appena il governo da me presieduto ottenne la fiducia, giunse una richiesta di una telefonata a tre, con Sarkozy e Merkel - racconta Mario Monti - Volevano farmi gli auguri. Merkel fu simpatica e disse: "Mario, Nicolas e io siamo contenti, anche perché tu le questioni economiche le conosci meglio di noi, forse ci puoi aiutare a trovare qualche soluzione". Da quella conversazione nacque l'incontro a tre che poi avemmo a Strasburgo, il 24 novembre 2011. Fu un primo contatto, ma prendemmo già una piccola decisione. La chiamai la dottrina del silenzio simmetrico: sarebbe stato bene che la Francia smettesse di chiedere la riduzione dei tassi e la Germania smettesse di dire no. Ci impegnammo tutti a rispettare l'indipendenza della Banca centrale europea». 

Poi però ci fu uno scontro tra lei e Merkel in pieno Consiglio europeo. Come andò?

«Fu il punto di arrivo di una pressione che durava da mesi. Era chiaro che, per essere risolta, la crisi dell'eurozona aveva bisogno di interventi a due livelli. Nei Paesi interessati, attraverso le riforme strutturali e il contenimento del disavanzo. Che nel caso dell'Italia era stato inasprito perché nella sua lettera dell'agosto del 2011 la Bce non solo aveva dettato le singole misure, ma aveva chiesto di anticipare di un anno il pareggio. Nella primavera del 2012 l'Italia aveva fatto la sua parte, tanto che Merkel e Schäuble elogiavano la nostra azione».

E qual era il secondo livello?

«Servivano interventi sulla governance dell'eurozona, che fino ad allora era embrionale e accentuava gli squilibri sui mercati. Mancava non solo qualunque nozione di bilancio comune, ma anche il ruolo di stabilizzazione della Bce. C'era un premio di rischio dovuto al carattere incompiuto dell'area euro, che pesava sui Paesi dal debito più alto». 

Merkel lo capiva?

«Secondo me, no. Diceva: "Mario, siamo convinti di quel che fai, ma i mercati hanno bisogno di tempo". Io rispondevo che il tempo non c'era. Una volta a un Consiglio europeo le dissi: "Se continuiamo così, la prossima volta tu a questo tavolo non avrai me e Grilli, ma Grillo. Era necessario che anche la politica monetaria facesse la sua parte. Invece dalla Bce venivano soprattutto messaggi restrittivi, compresa la richiesta di un fiscal compact».

È vero che da anni la Germania è il Paese europeo che fa meno riforme?

«E quelle che ha fatto, le ha fatte in larga parte sotto la pressione della Commissione. Ma alla Merkel vanno riconosciute grandi qualità. La sua grande serietà e il senso della politica come impegno, oltre alla grande volontà e capacità di impossessarsi dei contenuti che si discutono, ne fanno una personalità affidabile, in un modo credo raro tra i politici di quel livello. E se è affidabile il leader del Paese più forte, aiuta moltissimo. Quando per fare un accordo in Europa occorre che qualcuno riduca un po' le proprie richieste, sperando che in seguito altri se ne ricordino, serve un garante. Lei lo è stata moltissimo. Aggiungo, donna. La gente si fida di lei. Ha incarnato una visione politica per la quale la cosa peggiore sono le sorprese. Qualcuno ha detto che in nessun altro Paese sarebbe possibile vincere le elezioni, come ha fatto lei, con lo slogan "Niente esperimenti". È stato osservato che in Germania la politica non è un ramo dell'industria dell'entertainment , così come - aggiungo io - l'economia è ancora vista come un ramo della filosofia morale. Nella costruzione dell'edificio europeo, guai se non ci fosse un'àncora di stabilità di questo tipo. Ma non basta». 

Ma cosa successe quando voi vi scontraste?

«Ero convinto che Merkel avesse i nostri stessi obiettivi, ma sul come raggiungerli c'era un conflitto intellettuale e politico. Io pensavo che non ne saremmo usciti, se anche la moneta non avesse svolto il suo ruolo di stabilizzazione. Il momento choc per lei fu verso le sette di sera del 28 giugno 2012, alla fine del Consiglio europeo a 28. Stavamo approvando l'ennesimo "patto per la crescita". Il presidente Herman van Rompuy stava per dichiarare chiuso il Consiglio. Chiesi allora la parola e dissi: devo esprimere il veto dell'Italia perché se il Consiglio esce solo con questo annuncio e non dice niente sulla stabilizzazione degli spread, domani sarà un disastro nei mercati. Non tolgo il veto, finché ci sarà stato un risultato sulla stabilizzazione».

Che successe allora?

«Rajoy aggiunse il veto della Spagna. E François Hollande dette un colpo alla Merkel. Disse: la Francia non pone veti, ma condivido quel che ha detto Mario. Lei era spiazzata. Disse che non si poteva fare così, che doveva tornare a Berlino perché la mattina dopo aveva il voto al Bundestag sul fiscal compact. Era un giovedì sera. Le risposi pacatamente che avevamo tempo fino a tutta domenica. Lei poteva andare, l'avremmo aspettata al suo ritorno il venerdì sera. Non credo che fosse abituata ad una cortese fermezza di questo tipo. Sembrava veramente scossa. Ma per l'Italia, e per l'intera eurozona, si trattava di una questione di estrema gravità. E la Merkel aveva visto per la prima volta quel che aveva sempre temuto: un asse fra l'Italia e la Francia. Non a caso da quel giorno si è avvicinata di più a Cameron. Poi la mattina dopo, quando i siti dei giornali tedeschi dissero che quella era la prima sconfitta della Germania a Bruxelles, lei era furiosa». 

Non trova che quello slogan, «niente esperimenti», sia la grande forza e anche il tallone d'Achille della Cancelliera?

«Sì. Ho sempre pensato che le due principali forze dell'eurozona, Germania e Francia, avessero bisogno dello stimolo da parte di una Commissione audace, sostenuta da Londra e dai Paesi nordici, per non rinchiudersi in un sistema corporativo. La Germania ha la solidità e la stabilità nell'anima e questo è preziosissimo per noi italiani: abbiamo bisogno di un ordoliberalismo un po' dall'odore di naftalina, un po' antico. Loro sono il guardrail sull'autostrada dell'Europa. Poi però ci vuole il carburante. Che non può essere solo fare disavanzo per crescere. Va anche detto, peraltro, che in certe occasioni Merkel ha posto l'interesse tedesco e quello del proprio partito al di sopra dell'interesse e dei valori europei. In particolare, l'atteggiamento tollerante nei confronti di Viktor Orbán, che ha fatto molti piaceri all'industria tedesca. Merkel ha accettato il formarsi della prima autocrazia nell'Unione europea». 

È vero che fu Merkel a spingerla a candidarsi alle elezioni del 2013?

«Nell'agosto del 2012 feci una visita a Berlino e prima dell'incontro prendemmo un aperitivo sulla terrazza della cancelleria. Bevemmo acqua, mi pare. Merkel mi prese con molta umanità. "Mario, cosa pensi di fare?", mi domandò. Le chiesi come la vedesse lei. Disse: "Finora io e altri colleghi europei abbiamo pensato che tu saresti il naturale successore di Giorgio Napolitano al Quirinale. Ma ora io penso, e so che anche altri pensano, che dal punto di vista dell'Italia e dell'Europa sarebbe ancora più importante se tu potessi continuare a guidare il governo o far sì che in Parlamento si formi una maggioranza in linea con la politica di riforme che hai iniziato"».

Una Germania orfana della sua "Mutti". Roberto Fabbri il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. In "Angela e demoni" un ritratto della Merkel e del Paese che lascia. Una maestra di democrazia e di tolleranza che ha vissuto metà della sua esistenza in un regime totalitario. Una donna politica che ha sempre messo al primo posto il buonsenso, e che ha preferito seguire un percorso post ideologico e al massimo centrista piuttosto che essere identificata, seguendo le orme del suo pigmalione Helmut Kohl, come una conservatrice. Una fautrice del dialogo e del compromesso, senza mai venir meno ai propri valori personali e senza mai perdere l'autocontrollo. È questa la Angela Merkel che per sedici anni consecutivi ha guidato da Cancelliera la Germania che Kohl aveva riunificato, e quella che Daniel Mosseri racconta ai suoi lettori che sono anche i lettori del Giornale, con il quale collabora da molti anni da Berlino nel suo libro Angela e demoni appena uscito per Paesi Editori. Mosseri è tra i pochi giornalisti a non essersi tirato indietro di fronte a un compito non facile: raccontare il personaggio Merkel e la sua parabola più che trentennale a un pubblico italiano in un momento in cui la Bundeskanzlerin è ancora in carica (rischia di rimanerci per qualche mese ancora, considerata la estrema complicazione dei negoziati per formare il futuro governo tedesco) e troppo forte è ancora la sua impronta nella politica europea e mondiale per poter azzardare un giudizio storico in senso stretto. Scrivendo Angela e demoni, ci ha reso un servizio prezioso, soprattutto perché le sue pagine di agevole lettura aiutano a comprendere la complessità dell'attuale momento storico della Germania, evitando i consueti luoghi comuni sulla «locomotiva d'Europa» e mettendo invece a fuoco problemi concreti e sentiti come la questione ambientale, la sfida dell'immigrazione e della multiculturalità, i rapporti con i partner europei, la Russia di Vladimir Putin, gli Stati Uniti e la Cina. Due, dunque, i filoni principali del libro: il racconto biografico di Angela Merkel e la descrizione delle sfide che si troverà ad affrontare la Germania «orfana» della donna politica che i media tedeschi hanno soprannominato «Mutti», la mamma, per il suo stile rassicurante e la costante sensazione di responsabilità che ha sempre saputo trasmettere. Il primo filone va dalla giovinezza trascorsa nella Ddr, figlia di un pastore protestante semiallineato al regime del Muro, all'ingresso in politica quando quel regime crollò e fino ai sedici anni di cancellierato che ne fecero la «donna più potente del mondo». Il secondo spiega, anche con l'aiuto di due economisti, di un diplomatico e di una famosa femminista, come potrà diventare la Germania del dopo-Merkel, oggi così difficile da immaginare. Roberto Fabbri

Da "Ansa" il 26 settembre 2021. Il voto nell'urna come ultimo autogoal di Armin Laschet? È quello che chiede la Bild, affermando che il candidato cancelliere della Cdu-Csu corre il rischio di vedere invalidato il proprio voto. Laschet ha infatti piegato male la scheda elettorale, lasciando visibili le due croci per la Cdu, immortalate dai fotoreporter. Questo potrebbe anche risultare un problema dal punto di vista formale, dal momento che il voto nell'urna è segreto e la scheda non dovrebbe esser riconoscibile. Diverse testate riportano la notizia, fra cui Spiegel e die Welt, secondo la quale però il caso non rientrerebbe fra i criteri che invalidano il voto. L'ufficio federale elettorale chiarisce che il voto di Armin Laschet è valido. La posizione dell'ente è stata pubblicata su Twitter. "Un politico noto a livello federale ha votato secondo le attese per il suo partito. Un'influenza sulle elezioni non può esser rilevata", scrive. Laschet, che stamani ha votato ad Aquisgrana, aveva piegato male la scheda elettorale, lasciando visibili le due croci per la Cdu, immortalate dai fotoreporter. Lo scatto ha sollevato un caso, rimbalzato su diversi media tedeschi on line. 

Altro che Italia! Tempi lunghi per il nuovo Governo: "Entro dicembre". Elezioni Germania: Spd vince di un soffio, crolla Cdu. Ora le trattative, Verdi e liberali ago della bilancia. Redazione su Il Riformista il 27 Settembre 2021. Così come previsto dai sondaggi della vigilia, il partito socialdemocratico Spd guidato dell’attuale ministro delle Finanze Olaf Scholz ha vinto di un soffio le elezioni in Germania e sarà il partito di maggioranza relativa nel prossimo parlamento di Berlino (Bundestag) avendo raggiunto nelle elezioni che si sono concluse ieri il 25,7% dei voti. Secondo i dati comunicati dalla Commissione elettorale federale, la Spd ha sconfitto, con un vantaggio inferiore ai due punti percentuali, i conservatori della ex cancelliera Angela Merkel, che lascia dopo ben 16 anni da cancelliera: la Cdu-Csu guidata da Armin Laschet ha ottenuto il 24,1% dei voti segnando il peggior risultato elettorale della sua storia, quasi nove punti percentuali rispetto al 2017. Ai Verdi di Annalena Baerbock il terzo posto con il 14,8%, che non sfondano rispetto alle indicazioni della vigilia, seguiti dal partito liberale Fdp con l’11,5%.

LE DELUSIONI – I socialisti di Die Linke entrano nella camera bassa del Parlamento (Bundestag), nonostante non abbiano raggiunto la soglia del 5% richiesta, fermandosi al 4,8%, perché sono riuscita a vincere tre collegi elettorali nelle elezioni federali di domenica. Il partito di sinistra ha registrato un notevole calo rispetto alla precedente tornata elettorale del 2017 in cui aveva incassato il 9% dei vot Arretra anche l’estrema destra xenofoba di Alternativa per la Germania (AfD), che mantiene tuttavia un risultato a due cifre (secondo le proiezioni Zdf si attesterebbe al 10,5%). Quello che i partiti di tutto lo spettro politico hanno comunque chiarito durante tutto il periodo pre-elettorale è che con l’estrema destra nessuno intende allearsi. 

VERDI E LIBERALI AGO DELLA BILANCIA – Un testa a testa fino all’ultimo quello fra la Spd e il blocco conservatore Cdu/Csu che ha visto i socialdemocratici spuntarla, seppur di poco. L’Spd risorge dopo la batosta del 2017 e i conservatori sono in calo di consensi, ma entrambe le formazioni rivendicano la cancelleria e dunque l’incarico di provare a costruire una coalizione. In tutto questo Verdi e liberali della Fdp, rispettivamente terzo e quarto partito, diventano il vero ago della bilancia per capire che volto avrà il prossimo governo.

"Adesso inizia il poker del potere", titola significativamente Der Spiegel. Per la formazione del nuovo esecutivo potrebbero volerci settimane e Merkel resterà al timone finché un nuovo governo non sarà pronto a subentrare. La coalizione uscente, composta dal blocco conservatore di Merkel e dai socialdemocratici della Spd, detiene il record di tempo impiegato per formare un governo (a seguito del fallito tentativo di formare un’altra alleanza, cioè una coalizione Giamaica fra Cdu, Verdi e Fdp): le elezioni si tennero il 24 settembre del 2017 e il Bundestag elesse Merkel per il quarto mandato da cancelliera il 14 marzo del 2018, sei mesi dopo.

TEMPI LUNGHI PER IL GOVERNO –  Le trattative si preannunciano lunghe, ma tanto Scholz quanto Laschet hanno dichiarato che vorrebbero un nuovo governo “prima di Natale”. Se si dovesse andare oltre il 17 dicembre, Merkel batterebbe intanto il record di Helmut Kohl diventando la leader rimasta al potere più a lungo nel Paese.

Olaf Scholz, candidato Spd, attuale ministro delle Finanze e vice di Angela Merkel nel governo di Grosse Koalition, ha preso la parola dalla Willy Brandt Haus poco dopo la diffusione dei risultati iniziali: “I cittadini vogliono che ci sia un cambiamento nel governo e vogliono che il cancelliere si chiami Olaf Scholz”, ha detto, esprimendo entusiasmo per il “grande successo” dopo il tracollo delle precedenti elezioni federali. Poco prima il conservatore Armin Laschet era intervenuto dal quartier generale della Cdu a Berlino, Konrad Adenauer Haus, dov’era arrivata anche la cancelliera: “L’esito finale non è certo”, “faremo tutto il possibile perché si possa creare un governo sotto la guida dell’Unione”, ha detto. Riconoscendo tuttavia che “non possiamo essere soddisfatti del risultato”: se i primi numeri venissero confermati, per i conservatori si tratterebbe del peggior risultato dal secondo dopoguerra, oltre che un crollo rispetto al 2017. La ‘verde’ Annalena Baerbock, prima candidata del partito alla cancelleria, ha parlato di numeri “fantastici”, segnalando che dalle urne emerge la necessità di un “governo del clima”.

Per chiunque voglia diventare cancelliere la cosa fondamentale è ottenere il sostegno dei Verdi, che sono appunto terzo partito, e dei liberali della Fdp, il quarto. Saranno dunque gli orientamenti di questi partiti a decidere le sorti del prossimo esecutivo. Tanto che il leader Fdp, Christian Lindner, ha detto al dibattito tv post elettorale che il suo partito e i Verdi dovrebbero prima parlare fra loro.

LE IPOTESI COALIZIONI – Le opzioni più probabili sembrano essere una coalizione ‘semaforo‘ (cioè Spd, Verdi e Fdp), nel caso in cui a dare le carte sia il partito socialdemocratico, o una coalizione ‘Giamaica‘ (cioè Cdu/Csu, Verdi e Fdp), nel caso in cui a dare le carte sia Laschet. Il tutto se verrà confermato, come si ritiene adesso, che non si voglia una riedizione della GroKo. Il segretario ‘verde’ Michael Kellner ha sottolineato che resta “una chiara preferenza per una coalizione con l’Spd”. Quanto ai liberali di Christian Lindner, preferirebbero una coalizione ‘Giamaica’ con i conservatori, ma restano aperti ad altre possibilità.

Fabio Martini per "la Stampa" il 27 settembre 201. Sostiene Giulio Tremonti: «La "nuova" Germania può essere tentata dal ritorno al Patto di Stabilità e alla vecchia Bce perché, chiunque sia il Cancelliere, porrà a se stessa e ai partner europei una grande questione che da loro è il problema emergente: uno Stato sociale che si basa sulle mutue e sulle cooperative. Pagando le prestazioni con i rendimenti ottenuti sul mercato, ora si ritrovano con rendimenti a tassi zero. Ma così il Welfare tedesco rischia di entrare in crisi, finendo per chiamare in causa anche l'Italia». Giulio Tremonti, ministro dell'Economia dell'ultimo governo Berlusconi, durante la crisi finanziaria del 2011, in polemica proprio con tedeschi e francesi sostenne che all'origine di quella crisi non c'era l'Italia e che non sono state la Germania e la Francia a salvarci ma semmai sono state loro e le loro banche a salvarsi anche con i nostri soldi.

Possibile? Siamo sempre noi a salvarli?

«Loro hanno un problema emergente, del quale, per ora si parla poco e che spiega gran parte del voto tedesco. C'è un grosso problema che riguarda la struttura del Welfare. Lo Stato sociale tedesco si basa su mutue, cooperative, assicurazioni: un sistema a capitalizzazione. Non come da noi, che è a rotazione con l'Inps. Lì investono sul mercato e con i rendimenti pagano le prestazioni. Questo sistema sta crollando con i tassi zero o sotto zero. La scelta di stampare moneta dal nulla fatta nel 2012 per, dicono loro, salvare l'euro - ma in realtà per salvare le loro banche - adesso lo ripagano con gli interessi: può fargli saltare lo Stato sociale».

Una crisi di questo tipo che riflessi potrebbe avere sulla questione che tanto ci angustia del ritorno al rigore e al vecchio Patto di stabilità?

«Tassi zero in Germania vuol dire che non possono andare avanti con quel sistema e si aprirà una discussione non banale se tornare a prima: al Patto e alla prima Bce». 

E questo chiunque sia il Cancelliere?

«Secondo me si. Nel voto socialista c'è un elemento di reazione e di paura, ma nei popolari c'è senza dubbio un ritorno al vecchio mondo». 

Secondo Tremonti alla "nuova" Germania dall'Italia dobbiamo guardare con una certa preoccupazione?

«Diciamo che una frase del tipo "è il momento di dare e non di prendere" rischia nel prossimo futuro di trovare un limitato gradimento in Germania».

Allude a Draghi: ma più in generale non pensa che saranno presto insostenibili le spese a pie' di lista, a cui gli italiani si vanno assuefacendo?

«Lei legga la Costituzione all'articolo 81 secondo comma, nella parte emendata dalla riforma del 2012, dopo la lettera Bce. Il principio è quello del pareggio di bilancio e dunque il divieto del ricorso al debito salvo due ipotesi: il ciclo economico e gli eventi straordinari, che ovviamente non sono il progetto di rifare l'Italia anche grazie al nuovo debito contratto attraverso il Pnrr. Ma questo enorme debito è compatibile con la Costituzione? Quando si dice: la vendetta della storia».

Salvo sorprese finirà anche la Grande Coalizione che abbiamo mutuato soltanto noi

«Nel 2005 la Germania ha integrato una notevole novità nel modello politico: la Grande Coalizione. Non c'era in Europa un modello di questo tipo. Fu un unicum. Merkel aveva ereditato le importanti riforme del Cancelliere socialdemocratico Schroeder e la Germania veniva da una fase di notevole difficoltà: il loro Pil cresceva meno di quello italiano e il deficit cresceva più del nostro. Ma era Grosse, la loro coalizione. Ora quella coalizione non è più Grosse e la novità del dopo-voto sarà questa: la Germania esce dall'anomalia della democrazia concordata».

La cortina eterna. La divisione irrisolta tra Germania Est e Ovest si vede anche dal comportamento elettorale. Dario Ronzoni su L’Inkiesta il 24 settembre 2021. A distanza di più di 30 anni dalla caduta del Muro, le differenze tra le due parti continuano a essere sentite nella popolazione, sia a livello sociale che culturale. Un quarto dei tedeschi della ex Ddr voterà in modo radicale per Alternative für Deutschland e Die Linke. Secondo le previsioni, almeno un quarto dei tedeschi della ex Germania dell’Est voterà in modo più radicale, sia a destra (con Alternative für Deutschland) che a sinistra (Die Linke), rispetto all’ex Germania dell’Ovest. Una tendenza importante: a più di 30 anni dalla riunificazione del Paese, la divisione tra le due metà è ancora profonda, almeno a livello economico e culturale. La disoccupazione è più alta nell’Est e, a parte la notevole eccezione di Angela Merkel, sono ancora poche le posizioni di rilievo occupate dai tedeschi orientale. Gli stipendi sono più bassi e così la produttività. In molti cominciano a sentirsi gli sconfitti della storia: come aveva detto il presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier in occasione del trentennale della caduta del Muro di Berlino, «ce ne sono altri che sono sorti nel nostro Paese». L’entusiasmo iniziale, ben raccontato da Simon Kuper in questo articolo del Financial Times sulla sua esperienza in un villaggio rurale al confine, sembra svanito. Anzi, con uno sguardo retrospettivo più preciso si può dire che l’insoddisfazione fosse emersa fin da quei primi momenti. Certo, i tedeschi dell’Est erano contenti del cambio (1 a 1) dei loro marchi e alla prima occasione possibile avevano votato per la CDU, mettendo da parte i programmi socialisti. Volevano marciare verso l’unificazione a passo spedito. Nelle case comparivano beni mai visti (le banane) e l’abbondanza dell’offerta nei supermercati era vertiginosa. Al tempo stesso, quattro su cinque di loro avevano perso il lavoro, alcuni in via temporanea, altri per sempre. Per tanti i nuovi impieghi non si erano rivelati all’altezza di quelli precedenti. In generale, la nuova vita non si era rivelata all’altezza delle aspettative (assenza di delazioni a parte). I tedeschi dell’Est, caduto il muro, si erano trovati a vivere in un momento l’umiliazione del confronto: scoprivano di essere più poveri (anche quelli messi meglio), meno istruiti, vestiti peggio. Furono sommersi dai pregiudizi (che sono tuttora vivi: gli Ossis sono pigri, razzisti, comunisti e spie) e costretti a lasciare i propri Paesi per andare a lavorare nella Germania dell’Ovest. Il paradosso, a distanza di oltre 30 anni, è che i confini fisici sono spariti. Ma – per usare le parole di Steinmeier – i muri sono rimasti in piedi, soprattutto nelle teste. Mentre il confronto tra le due popolazioni ha fatto nascere una nuova identità: se nel 1991 solo il 43% dei tedeschi dell’Est diceva di sentirsi legato in maniera forte al ricordo della DDR, nel 2016 era il 63%. Tra di loro, gli elettori di AfD sono più che convinti che la vita fosse meglio prima del 1989. È il nuovo mito del passato, di matrice populista ma che poggia su uno scontento reale. I dati lo confermano: i sentimenti di ottimismo (dati pre-Covid) sono diversi e così gli orientamenti di voto. A definire il futuro della Germania, dopo l’era Merkel, saranno così i riflessi di un evento di oltre 30 anni fa.

Angie ed io. Il podcast per capire chi è davvero Angela Merkel. su L’Inkiesta l’11 settembre 2021. A pochi giorni dalle elezioni in Germania EuroPod presenta “La mia domanda ad Angela Merkel” un documentario in quattro lingue in cui la finzione si intreccia alla realtà, sulla base di una meticolosa indagine giornalistica e sul contributo di ospiti prestigiosi, tra cui François Hollande e Jean-Claude Juncker. Negli episodi precedenti, Emilia ci ha detto tutto sulla gioventù di Angela Merkel. Ora è il momento di scoprire il suo complesso rapporto con il femminismo e i suoi primi anni come ministro donna che opera in un mondo di uomini. Scopriamo anche come ha fatto sentire la sua voce a proposito della legislazione sull’aborto e come ha trasformato un incidente di sci in un’occasione per colmare le lacune nella sua conoscenza sui diritti delle donne nella Germania occidentale. Dopo aver approfondito le sue origini nell’episodio precedente, Emilia passa a indagare su cosa stesse combinando Angela tra i 20 e i 30 anni. Scopriamo come la signorina Angela Kasner è diventata la signora Angela Merkel e com’è riuscita furbamente a evitare di lavorare per la Stasi. Scopriamo dov’era quando il muro di Berlino è stato abbattuto e cosa ha deciso di fare dopo un evento così cruciale nella storia della Germania. In quest’episodio, Emilia intraprende la sua ricerca della domanda perfetta da fare ad Angela Merkel concentrandosi sulle sue origini. Scopriamo dettagli della sua vita da figlia di un pastore protestante in missione evangelica nella Germania dell’Est. Veniamo a sapere dei suoi brillanti risultati da studentessa, del suo lato nerd, di quella volta che ha sfidato le autorità della DDR leggendo un poema censurato. Capiamo insieme come possa essere vista al tempo stesso come una ragazza dell’Ovest nella Germania dell’Est, e come una ragazza dell’Est dalla prospettiva dei tedeschi dell’Ovest. A qualche giorno dalle elezioni federali in Germania, la nuova piattaforma di podcast europei EuroPod presenta la serie La mia domanda ad Angela Merkel Antoine Lheureux, il fondatore di EuroPod e produttore della serie, spiega a Linkiesta le ragioni di questo nuovo progetto: «I cittadini europei fanno fatica a dare un volto all’Europa. Ma conoscono molto bene Angela Merkel che è Cancelliera della Germania da 16 anni. Ha avuto un ruolo talmente importante nelle recenti e passate crisi dell’Ue da essere identificata dagli europei come una politica che ha dato forma al loro destino. Tuttavia, rimane relativamente sconosciuta al di fuori della Germania: in pochi sanno da dove viene o quale sia la ragione della sua longevità in politica. Ci è sembrato quindi importante sfruttare la libertà offerta dal formato podcast per offrire una serie originale su questa personalità fuori dal comune. Abbiamo prodotto un documentario in cui la finzione si intreccia alla realtà, sulla base di una meticolosa indagine giornalistica e sul contributo di ospiti prestigiosi.

Cosa rappresenta la Merkel per l’Europa e qual è la sua eredità?

Penso che sia niente di meno che la figura più importante del secolo in Europa. Il dibattito sulla sua eredità si aprirà quando lascerà effettivamente il potere e spero che la serie contribuirà ad alimentare questa discussione.  

Come avete scelto gli ospiti per la serie?

Volevamo personalità che avessero accompagnato Angela Merkel in diverse fasi della sua vita e della sua carriera politica. Vogliamo anche discutere temi attuali quali il femminismo ed il clima con i nostri ospiti. Infine, per noi era importante avere delle figure al suo stesso livello. Siamo infatti molto lieti di aver intervistato Alexis Tsipras, Jean Claude Juncker e François Hollande.

Perché la serie è disponibile in quattro lingue?

Perché troppo spesso, in Europa, il pubblico resta nazionale. Ai contenuti proposti sul mercato europeo manca una prospettiva transnazionale, che mi sembra invece necessaria per comprendere appieno un personaggio della caratura di Angela Merkel. Per il nostro podcast abbiamo creato allora un team europeo all’interno dell’agenzia Bulle Media, scritto il podcast in inglese per poi tradurlo in italiano, spagnolo e francese in modo che un dibattito potesse svolgersi in contemporanea in diversi paesi europei. Speriamo che ciò contribuisca all’emergere di un autentico spazio pubblico comune a tutti gli europei.

La mia domanda ad Angela Merkel è la serie di punta della nuova piattaforma EuroPod. Come funziona?

È molto semplice. Come Netflix o Apple TV per i film e le serie: c’è un catalogo di podcast, in diverse lingue, da cui l’utente può attingere. La vocazione di EuroPod non è insomma quella di competere con piattaforme di ascolto come Apple Podcast o Spotify. Piuttosto, si posiziona come un loro complemento. Offriamo podcast originali, e con essi anche molti bonus (inclusi i dietro le quinte della serie su Merkel). Per il momento il catalogo comprende una quindicina di serie ma speriamo di arricchire il catalogo nei prossimi mesi con diverse decine di nuovi podcast, oltre a offrire strumenti innovativi e interattivi. 

Le origini della Cancelliera Come Angela Kasner è diventata Angela Merkel.  L'Inkiesta il 20 settembre 2021. Nella seconda puntata del podcast “La mia domanda ad Angela Merkel”, una meticolosa indagine giornalistica fa luce su cosa faceva la leader della Cdu quando il muro di Berlino e come pochi mesi prima è riuscita furbamente a evitare di lavorare per la Stasi. A qualche giorno dalle elezioni federali in Germania, la nuova piattaforma di podcast europei EuroPod presenta la serie La mia domanda ad Angela Merkel Antoine Lheureux, il fondatore di EuroPod e produttore della serie, spiega a Linkiesta le ragioni di questo nuovo progetto: «Angela Merkel che è Cancelliera della Germania da 16 anni. Tuttavia, rimane relativamente sconosciuta al di fuori della Germania: in pochi sanno da dove viene o quale sia la ragione della sua longevità in politica. Ci è sembrato quindi importante sfruttare la libertà offerta dal formato podcast per offrire una serie originale su questa personalità fuori dal comune. Abbiamo prodotto un documentario in cui la finzione si intreccia alla realtà, sulla base di una meticolosa indagine giornalistica e sul contributo di ospiti prestigiosi». Dopo aver approfondito le sue origini nell’episodio precedente, Emilia passa a indagare su cosa stesse combinando Angela tra i 20 e i 30 anni. Scopriamo come la signorina Angela Kasner è diventata la signora Angela Merkel e com’è riuscita furbamente a evitare di lavorare per la Stasi. Scopriamo dov’era quando il muro di Berlino è stato abbattuto e cosa ha deciso di fare dopo un evento così cruciale nella storia della Germania.

Il complesso rapporto di Merkel col femminismo. su L’Inkiesta il 22 settembre 2021. Nella terza puntata del podcast “La mia domanda ad Angela Merkel”, una meticolosa indagine giornalistica fa luce su come la Cancelliera ha trasformato un incidente di sci in un'occasione per colmare le lacune nella sua conoscenza sui diritti delle donne nella Germania occidentale.  Negli episodi precedenti, Emilia ci ha detto tutto sulla gioventù di Angela Merkel. Ora è il momento di scoprire il suo complesso rapporto con il femminismo e i suoi primi anni come ministro donna che opera in un mondo di uomini. Scopriamo anche come ha fatto sentire la sua voce a proposito della legislazione sull’aborto e come ha trasformato un incidente di sci in un’occasione per colmare le lacune nella sua conoscenza sui diritti delle donne nella Germania occidentale.

Angela, il ministro su L’Inkiesta il 22 settembre 2021. A qualche giorno dalle elezioni federali in Germania, la nuova piattaforma di podcast europei EuroPod presenta la serie La mia domanda ad Angela Merkel Antoine Lheureux, il fondatore di EuroPod e produttore della serie, spiega a Linkiesta le ragioni di questo nuovo progetto: «Angela Merkel che è Cancelliera della Germania da 16 anni. Tuttavia, rimane relativamente sconosciuta al di fuori della Germania: in pochi sanno da dove viene o quale sia la ragione della sua longevità in politica. Ci è sembrato quindi importante sfruttare la libertà offerta dal formato podcast per offrire una serie originale su questa personalità fuori dal comune. Abbiamo prodotto un documentario in cui la finzione si intreccia alla realtà, sulla base di una meticolosa indagine giornalistica e sul contributo di ospiti prestigiosi».

La cecità della cancelliera. Angela Merkel ci lascia un’Europa inaffidabile e impotente di fronte al futuro. Carlo Panella su L’Inkiesta il 224 settembre 2021. Dal pugno di ferro con la Grecia alla crisi siriana: nei 16 anni a capo della Germania, la leader tedesca ha imposto all’Unione la prevalenza degli interessi economici e politici della sua nazione, senza mai avere una visione davvero unitaria. Qui si parla male di Angela Merkel. Non certo come kanzlerin, perché i tedeschi hanno tutte le ragioni per esserle grati per come ha difeso per 16 anni solo gli interessi della Germania, garantendo uno sviluppo economico e un’armonia interna encomiabili. Tra l’altro, violando il trattato di Maastricht con un voluminoso e formalmente proibito surplus di esportazioni, a pieno danno degli altri paesi europei, in primis dell’Italia. Si parla male, molto male, di Angela Merkel come leader europea e internazionale, ruolo che spetta obbligatoriamente a chi governa il più grande e il più potente paese del vecchio continente. L’accusa è precisa e netta: Angela Merkel, in perfetta e pessima sintonia, va detto, col suo predecessore, il socialdemocratico Gerard Schroeder, ha interrotto la lunga catena di cancellieri tedeschi portatori di strategie e sdi messaggi guida per l’Europa. Nei fatti, all’Europa, Angela Merkel ha fatto più male che bene. Non certo così Konrad Adenauer, a capo di una Germania distrutta dalla guerra e giustamente vergognosa di sé, che nei primi anni ’50 fu il fiero sostenitore, assieme a Guy Mollet e Alcide de Gasperi (e Ernesto Rossi e Altiero Spinelli) della Comunità Europea di Difesa (Ced), che comportava un governo politico unitario del Continente. Una visione alta, strategica del ruolo dell’Europa che per di più affidava la difesa della Germania, allora disarmata, ma in prima linea contro l’Urss, a un esercito europeo. Sono passati 70 anni e quel progetto si ripropone oggi con urgenza. Fallita la Ced, Adenauer fu alla testa della costruzione di un’economia europea unitaria, prima con la Ceca, la comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi col patto di Roma che fondò la Comunità Economica Europea, la Cee. Negli anni ‘60, il suo successore Ludwig Erhard, non solo fu il propugnatore e l’inventore della neoliberale “economia sociale di mercato”, che ha influenzato tutte le politiche economiche europee successive, non solo lavorò alacremente per allargare alla Gran Bretagna la Cee e contrastò su posizioni filoatlantiche la politica da grandeur militare di Charles de Gaulle, ma si schierò anche, fallendo, per la costituzione di una Forza Atomica Multilaterale proposta dagli Usa. Il cancelliere socialdemocratico Willi Brandt, già sindaco della Berlino del muro, trascinò la socialdemocrazia fuori dalle secche dell’ideologismo para-comunista e la collocò nell’ambito liberal con le tesi di Bad Godesberg, fece della sua ostpolitik il perno di una politica che trascinò tutta Europa nel segno della dura competizione, ma anche dell’appeasement col blocco sovietico e infine, schiantando in ginocchio, davanti al monumento dei caduti del ghetto di Varsavia, lui che aveva combattuto sempre, da clandestino, il nazismo, presentò il volto penitente di una nuova Germania. Il socialdemocratico Helmuth Schmidt, a metà degli anni ‘70 propose, e impose, la strategia degli “euromissili”, visione militare e politica di una Europa che assume su di sé il peso della propria difesa dalle minacce dell’Urss. Inoltre, fondò nel 1978, insieme a Giscard d’Estaing, il Sistema Monetario Europeo, prodromo indispensabile alla nascita della moneta unica, l’euro.

Il cristiano democratico Helmuth Kohl, indimenticabile nel cimitero dei caduti in Normandia mano nella mano con François Mitterrand, caduto il muro di Berlino, salvò l’Europa da una disastrosa fase di sommovimenti sociali nei paesi dell’est Europa imponendo la parità del marco federale con quello, disastrato, della fallita Germania Democratica, dopo avere unificato le due Germanie nonostante il forte parere contrario di Mitterrand, di Brandt, ma anche di Craxi e di Andreotti. Nulla, assolutamente nulla di paragonabile, quanto a visione del futuro e strategie alte continentali nei 16 anni di governo di Angela Merkel. Di fatto, la kanzlerin ha solo imposto alla Unione europea, con femminile ed elegante brutalità, la assoluta prevalenza degli interessi, innanzitutto economici, ma anche sociali e politici della Germania su quelli della Ue. Soprattutto, non ha mai enucleato una strategia, una visione unitaria dell’Unione proiettata nel futuro. Di conseguenza, ha sempre tenuto un profilo basso della Germania nei confronti di tutte le crisi che hanno sconvolto il Mediterraneo e l’Asia. Questo, quando non ha esercitato una politica che si potrebbe definire di sfruttamento neoimperiale, come nei confronti della crisi della Grecia. Invece di riconoscere che il mostruoso debito pubblico di Atene derivava in buona parte dalle dissennate e speculative politiche dei crediti operate dalle banche tedesche e dalle mirabolanti e inutili forniture militari tedesche di tanks, sommergibili e sistemi d’arma per 68 miliardi di dollari (con tangenti mostruose), Angela Merkel è stata in prima linea a pretendere il recupero dei crediti tedeschi e a imporre alla Grecia una austerity che l’ha strozzata per un decennio. Un mix di cecità politica e di crudeltà sociale indimenticabile. Si continua con la crisi siriana. Qui, assoluto silenzio, nessuna riflessione di Angela Merkel sulle conseguenze politiche disastrose per il Mediterraneo orientale della guerra civile imposta da Beshar el Assad, ma preoccupazione solo e unicamente per il milione di profughi giunti dalla Mesopotamia in Germania. La sua risposta è nota: ha imposto alla Ue di versare 5 miliardi di dollari al governo di Tayyip Erdogan perché tenesse in Turchia la massa di profughi. Ma questa è la prova della sua miopia politica: quando la stessa invasione di immigrati irregolari o di richiedenti asilo politico si è riversata sull’Italia, sulla Spagna e sulla Grecia, Merkel ha voltato le spalle e si è ben guardata dall’impegnare la Germania nella indispensabile riforma del Trattato di Dublino e men che meno nell’obbligare la Ue a investire altrettanti miliardi per fare fronte alla crisi libica e dei paesi del Maghreb. Salvini e i sovranisti esteuropei sono debitori di buona parte del loro consenso elettorale a questo suo egocentrismo grande-tedesco. Non parliamo poi del ruolo di leadership che Angela Merkel, una volta tanto, ha accettato di svolgere nella crisi ucraina. Mediatrice dopo le proteste di piazza Maidan dell’accordo tra il filorusso Viktor Janukovich e l’opposizione per un governo di unità nazionale e nuove elezioni, la sua Germania ha subito dopo approvato di fatto un colpo di Stato che ha avuto la disastrosa conseguenza di una incontrollata guerra civile nel Donbass che dura tuttora, offrendo peraltro il destro a Vladimir Putin per la annessione incontrastata della Crimea. Ancora: sempre alla ricerca esclusiva degli interessi economici e geopolitici della sola Germania, Angela Merkel ha difeso e continua a difendere il gasdotto russo-tedesco North Stream (voluto dal suo predecessore Gerard Schroeder che in premio ne è stato nominato presidente da Vladimir Putin), che passa sotto il Baltico e non via terra, volutamente penalizzando in termini economici e di sviluppo i paesi dell’est Europa che ne sono così esclusi e sempre più convinti della strategia di Visegrad. Concludiamo questa breve panoramica della cecità strategica europea di Angela Merkel ricordando il trattato commerciale tra Ue e Cina che ha imposto durante la sua presidenza della Ue nel 2020. Vantaggiosissimo per la Germania, ma non solo, questo trattato ha avuto una conseguenza politica disastrosa di cui in questi giorni tutta l’Europa paga le conseguenze. Unito alle politiche neogolliste di “terza via” della Francia nell’Indo-Pacifico, questo trattato ha infatti definitivamente convinto gli Stati Uniti della piena inaffidabilità politica dell’alleato europeo nei confronti delle sfide poste dalla Cina. Da qui la decisione dello schiaffo, meritato, alla Ue della alleanza militare nell’Indo-Pacifico degli Usa con la Gran Bretagna, premiata e giudicata affidabile proprio perché è uscita dalla Ue. L’inaffidabilità di un’Europa preoccupata solo di fare affari e ignava di fronte alle grandi sfide geopolitiche dell’immediato futuro: questo è il grave lascito sulla scena internazionale di Angela Merkel. Questo il peso sulle spalle del suo successore che verrà scelto dai tedeschi domenica prossima. Chiunque sia.

La Germania del Cancelliere inesistente. Minacce neonazi, hacker russi, sondaggi ballerini, gaffe e pronostici da fantapolitica. La campagna del dopo Merkel è una giostra impazzita. Roberto Brunelli su l'Espresso il 20 settembre 2021. Sono rimasti a bocca aperta, i Verdi di Zwickau, quando hanno visto i manifesti che degli sconosciuti avevano appeso nottetempo di fronte al loro quartier generale: «Impiccate i verdi», c’era scritto, a caratteri cubitali. E sotto un’altra scritta in una grafia che ricordava gli anni Trenta: «Votate tedesco». Autori dell’iniziativa, i militanti del piccolo partito di estrema destra Der III Weg (la terza via), considerato ai limiti del neonazismo. Altri manifesti identici sono poi apparsi a Plauen, Auerbach, Werdau e Lipsia e persino a Monaco di Baviera, dove la polizia ha provveduto immediatamente a staccarli. Le autorità della Sassonia, invece, in un primo momento sono rimaste interdette: come riferito dai giornali, un portavoce della procura di Zwickau spiegava imbarazzato che dato che «non è chiaro chi sia il destinatario del messaggio» non sarebbe evidente «una concreta situazione di minaccia». Dopo la reazione indignata di media e di gran parte del mondo politico, le autorità si sono corrette: quei manifesti indegni vanno eliminati. Che succede nella Germania di questo sfibrante e lunghissimo addio merkeliano? La notizia dei poster che inneggiano all’impiccagione arriva nel momento in cui le prospettive delle elezioni tedesche, le più sorprendenti dal dopoguerra ad oggi, sicuramente quelle dall’esito più incerto, sembrano essersi del tutto capovolte: l’unione formata da cristiano-democratici e cristiano-sociali bavaresi che da sedici anni governa il Paese nel segno di Angela Merkel è precipitata, rispetto all’inizio dell’anno, di sedici punti al 20 per cento dei consensi, laddove i socialdemocratici, che erano considerati ormai solo un’ombra dell’orgoglioso partito di massa che fu di Willy Brandt e di Helmut Schmidt, si ritrovano stupefatti ad essere le superstar della campagna elettorale, recuperando in modo spettacolare dieci punti in meno di tre settimane. Questo mentre i Verdi, già perduto lo status appena conquistato di deus ex machina degli equilibri politici tedeschi, sembrano ormai rassegnati al terzo posto. «Nessun dubbio, questa è la più strana campagna elettorale di tutti i tempi», scrive Bernd Ulrich, una delle firme più prestigiose della Zeit. «Lo si vede anche dal fatto che i sondaggi sono da mesi un ottovolante. Se non fossimo ben informati, dovremmo chiederci, a fronte dei picchi e degli abissi che si sono seguiti ad un ritmo mozzafiato: forse i tedeschi sono impazziti?». I paradossi, in effetti, non mancano: Armin Laschet, il candidato dell’unione Cdu/Csu, che in teoria avrebbe potuto intestarsi il bonus Merkel (la popolarità della cancelliera uscente è ancora altissima), sembra essere il protagonista di quello che lo Spiegel (in un immenso servizio intitolato “Uuuups!”, a significare il fragore della sua caduta) chiama «un dramma politico», che consiste nell’erosione a tempo record di «un partito di massa rimpicciolito al 20 per cento». In un capovolgimento dei ruoli, è l’avversario, il socialdemocratico Scholz, a intestarsi l’eredità dell’ex ragazza dell’est: con i ritratti fotografici in cui mima la caratteristica posa delle mani a rombo e con lo slogan «sa fare la cancelliera», il ministro alle Finanze in pratica afferma «Merkel c’est moi». Nondimeno, è sempre lo Spiegel a chiederselo, la domanda è come Scholz, «considerato finora il prototipo della noia in politica, sia riuscito a diventare una sorta di star in confronto a Laschet». L’Europa, in tutto questo, assiste stupita e preoccupata: che ne sarà della solidità della locomotiva tedesca dopo l’addio della cancelliera? Per quanto riguarda Laschet, la gaffe della risata sguaiata sui luoghi delle catastrofiche inondazioni della Renania (è da lì che che il calo di consensi è diventato precipizio) è diventata l’emblema di quello che i media tedeschi non esitano a chiamare «il disastro Cdu», partito che ormai sembra «privo di idee e di soluzioni», come dice ancora lo Spiegel: forse anche perché ormai «svuotato» della sua identità, come vanno ripetendo i commentatori della corrente conservatrice del partito, dopo tanti anni di post-ideologia merkeliana, fatta di fughe in avanti e svolte improvvise che hanno così spesso spiazzato il corpaccione dell’unione Cdu/Csu, dall’uscita dal nucleare dopo Fukushima, ai diritti civili passando, ovviamente, dalla «politica delle porte aperte» quando oltre un milione di migranti varcò i confini della Germania, nel 2015. Oggi lo spiazzamento, qualcuno dice il panico, si palesa clamorosamente in questa campagna elettorale da maionese impazzita: come quando Paul Ziemiak, il segretario generale della Cdu, arriva ad evocare una mezza apocalisse, affermando che l’arrivo di Scholz alla cancelleria finirebbe «per spaccare l’Unione europea»: cosa bizzarra da dire dell’attuale ministro alle Finanze nonché vice cancelliere nel Merkel IV. Laschet, intanto, si è fatto notare per il suo silenzio rumorosissimo, quando un noto neonazista ha deciso di sostenere la candidatura, già di per sé controversa, di Hans-Georg Maassen, l’ex capo dei servizi segreti interni tedeschi, il quale tre anni fa perse il posto proprio perché sospettato di eccessive simpatie verso il mondo dell’estrema destra. Come se non bastasse, Laschet, sempre più disperato, va all’attacco contro l’avversario Scholz affermando al congresso dei fratelli bavaresi della Csu che «l’Spd nei momenti decisivi è sempre stata dalla parte della Storia»: con l’effetto che i social media vengono invasi da tweet socialdemocratici con il “the best of” dell’Spd nel Novecento, al primo posto le immagini di Willy Brandt che si inginocchia davanti al memoriale del ghetto di Varsavia, momento culminante della Ostpolitik. «Indecenti e indegne», definisce le parole del capo Cdu la vicepresidente del Parlamento europeo, Katarina Barley. Commenta un deputato Spd: «Pessima idea quella di mettersi sinanche contro Brandt». Sì, un’atmosfera strana aleggia sulla Germania a pochi giorni dal voto. Dalla procura generale federale di Karlsruhe arriva la notizia di un’offensiva in grande stile lanciata da hacker russi con l’obiettivo di destabilizzare il voto tedesco: cyber-attacchi messi in atto da un gruppo chiamato Ghostwriter per violare gli account email di parlamentari del Bundestag e di deputati dei Laender (soprattutto cristiano-democratici e socialdemocratici). I burattinai dell’offensiva, questa la convinzione degli inquirenti, sarebbero i servizi segreti militari russi del Gru, tanto che il governo tedesco parla di «un pericolo per la sicurezza della Repubblica federale e per il processo di formazione della volontà democratica tedesca». E ancora: il network dei diritti civili Avaaz ha elaborato un dossier sulle fake news che si sono riversate in questi mesi sulla politica tedesca, dal quale emerge che «l’obiettivo principale» di quella che viene definita una «campagna di disinformazione di grandi dimensioni» è la candidata cancelliera dei Verdi, Annalena Baerbock, seguita dalla stessa Angela Merkel e poi da Laschet, ennesimo terzo. In tutta questa confusione, al Paese che vede nella stabilità il massimo totem della coesione civile e politica, oggi sembra mancare il terreno sotto i piedi, con l’addio a molte antiche certezze: «Non è automatico che la Cdu/Csu conquisti la cancelleria», è la voce dal sen sfuggita della stessa Angela Merkel, per lo sgomento dei suoi compagni di partito. E così, alla luce del panico da imminente perdita del potere (scenario creduto impensabile fino a poche settimane fa), in diversi palazzi della politica di Berlino si fanno strada gli scenari più sorprendenti. Un Sudoku da capogiro, con trame quasi all’italiana, volte ad intorpidire il frenetico entusiasmo dei socialdemocratici, ad oggi considerati i vincitori annunciati del 26 settembre. Ed ecco il più spettacolare di questi scenari: che saranno gli sconfitti a formare il governo, in barba all’Spd di Scholz. Un coup de théâtre in tre atti: primo, i negoziati post-voto si rileveranno intricatissimi, dato che, se le urne dovessero confermare i sondaggi, i partiti presenteranno risultati tutto sommato abbastanza vicini tra loro, rendendo possibili sulla carta almeno cinque diverse coalizioni di governo. Secondo, i veti incrociati tra Spd, Linke, liberali e Verdi porteranno rapidamente all’affossamento sia della cosiddetta alleanza semaforo (Spd-Verdi-Fdp, la più gettonata) sia, a maggior ragione, di una maggioranza rosso-rosso-verde (Spd-Linke-Verdi, eletta a spauracchio universale da Laschet & co). Terzo atto: a quel punto i liberali di Christian Lindner provocano quello che alle nostre latitudini chiameremmo il ribaltone, facendo pesare, forti di un consenso elettorale tra il 10 e il 13 per cento, il proprio ruolo di ago della bilancia e puntando tutto su una coalizione Giamaica (Cdu/Csu, più Verdi e Fdp, alleanza da loro stessi affossata quattro anni fa), con l’effetto di rimettere al centro dei giochi la Cdu/Csu nonostante la clamorosa sconfitta alle urne. Addirittura, giurano molti commentatori con l’aria di chi la sa lunga, da questo gioco di scatole cinesi potrebbe uscire la più clamorosa delle sorprese: con un Armin Laschet battuto nelle urne, in una ipotetica costellazione Giamaica potrebbe approdare alla cancelleria un uomo politico che non si è neanche candidato, il governatore bavarese Markus Soeder. Fantapolitica, forse. Ma tra «impiccati» in salsa nazista, fake news, hacker russi e sondaggi ottovolante le sorprese sembrano non finire mai, in questo infinito crepuscolo merkeliano.

NON PIÙ IDEOLOGIE, MA COMPETENZA. LA LEZIONE TEDESCA ALL'ITALIA CHE È GIÀ CAMBIATA E ANCORA DI PIÙ DEVE CAMBIARE. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 9 settembre 2021. In Germania le donne e gli uomini non votano per il socialismo, votano per Scholz che ritengono affidabile come la Merkel. Per la prima volta nei sondaggi non viene data la CDU-CSU come partito più votato e per la stragrande maggioranza dei tedeschi il migliore cancelliere è Scholz. Sapete perché? Perché siamo fuori del Novecento che è stato il secolo delle grandi ideologie. Siamo di fronte all’era della personalità e della capacità di esercitarla con metodo e organizzazione, perché la gente crede alle competenze non ai riferimenti ideologici. Per questo in Germania, secondo i sondaggi, i tedeschi il potere del cancellierato lo vogliono passare non a chi ha lo stesso colore della Merkel ma a chi ha le sue stesse caratteristiche. Bisogna prendere atto di un fatto. Che il sistema italiano sta cambiando dalle fondamenta. Il Paese ha bisogno di un leader all’altezza delle sfide perché la Nuova Ricostruzione non appartiene all’ordinaria amministrazione. Noi di questo abbiamo per forza bisogno. Non abbiamo bisogno di mettere sotto controllo i generali che volevano fare il colpo di Stato da Algeri a Parigi, come sostiene dottamente qualcuno, ma molto più concretamente abbiamo bisogno di chi metta sotto controllo i capi delle Regioni. Un circuito di poteri senza contropoteri che ha spappolato il Paese in tanti feudi e ha ridotto i partiti a megafoni vuoti di ogni tipo di propaganda. Il Paese è già cambiato e ancora di più deve cambiare. Non sarà più quello di prima e se vogliamo che la trasformazione avvenga in modo ordinato, non alla carlona, bisogna prendere atto della nuova situazione e stabilizzarla. Se non si mettono sotto controllo le Regioni e se non si interviene sull’organizzazione dello Stato, non faremo passi in avanti. Succederà quello che è successo nella proliferazione delle città senza le leggi urbanistiche con le case una sopra l’altra. Bisogna regolare questo sistema in modo da garantire uguaglianza nelle prestazioni sociali assegnando poteri controllati da altri poteri e tornando a fare investimenti infrastrutturali con una visione unitaria di Paese. Bisogna dare dei poteri veri al Presidente del Consiglio che non può più essere semplicemente l’espressione di una maggioranza parlamentare che passa il suo tempo a negoziare il voto con i parlamentari, ma deve avere un mandato fiduciario che può essere ovviamente messo in discussione ma non con colpi di mano. La transizione è così complessa che mai come adesso c’è bisogno di punti di riferimento. Lo shock che vivono capi e capetti dei partiti italiani, al di là di alcuni elementi folcloristici che sono solo nostri, è lo stesso che vivono capi e capetti dell’Unione CDU-CSU eredi di partito della Merkel e dei Verdi per i quali si parlava di consensi prodigiosi di fronte a una SPD che era data per morta e invece è diventata il primo partito nei sondaggi perché l’attuale ministro delle finanze, Olaf Scholz, raccoglie la fiducia della gente. Le donne e gli uomini tedeschi non votano per il socialismo, votano per Scholz. Per la prima volta nei sondaggi non viene data la CDU-CSU come partito più votato e per la stragrande maggioranza dei tedeschi il migliore cancelliere è Scholz. Sapete perché accade tutto ciò? Perché siamo fuori del Novecento che è stato il secolo delle grandi ideologie democristiana, socialista, comunista. Ora siamo di fronte all’era della personalità e della capacità di esercitarla con metodo e organizzazione, perché la gente crede alle competenze, non ai riferimenti ideologici. I tedeschi vogliono al cancellierato personalità che siano affidabili come lo è stata per loro la Merkel. Non importa per loro se è bianco, verde, giallo o rosso. Questo potere, secondo i sondaggi, i tedeschi lo vogliono passare non a chi ha lo stesso colore della Merkel, ma a chi ha le sue stesse caratteristiche. Questa è la realtà. Il Paese ha bisogno di un semestre bianco delle chiacchiere non di un dibattito ossessivo e irrispettoso su chi prenderà il posto di Mattarella a partire da Mattarella stesso. Se proprio se ne vuole parlare, lo si faccia almeno partendo dalla nuova realtà che è l’era della personalità e della capacità di esercitarla con metodo e organizzazione e ci si interroghi in quale posizione istituzionale meglio si può esprimere questa funzione. Che è di guida sostanziale del Paese e di punto di riferimento per le persone.

Articolo di "El Pais" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 17 settembre 2021. Il candidato socialdemocratico e ministro delle finanze, che è in testa nei sondaggi, si presenterà in parlamento lunedì. I conservatori – leggiamo su El Pais - stanno cogliendo l'occasione per lanciare sospetti sulla sua gestione. I sondaggi continuano a indicare che Olaf Scholz, il candidato socialdemocratico alla successione di Angela Merkel, diventerà il prossimo cancelliere. Il suo vantaggio sul conservatore Armin Laschet si è leggermente ridotto, ma rimane tra i tre e i cinque punti in media nei sondaggi. Tuttavia, quello che sembrava essere un tranquillo tratto finale della campagna sta cominciando a diventare complicato per il ministro delle finanze e vice-cancelliere. Lo scoppio dell'ennesimo scandalo finanziario in Germania si sta trasformando in una nuvola di tempesta che minaccia pioggia nel momento peggiore. Scholz dovrà comparire davanti a una commissione parlamentare lunedì prossimo per dare spiegazioni sull'ufficio antiriciclaggio che fa capo al suo ministero. Come se non bastasse, la procura ha intenzione di indagare sul suo numero due per aver mostrato in un tweet un documento segreto in difesa del suo capo. Scholz era riuscito a procedere nella campagna senza che gli fossero ricordati i due grandi scandali economici avvenuti durante il suo mandato, Cum-Ex e Wirecard. I suoi rivali non li hanno neanche menzionati nel primo dibattito elettorale. Ma la settimana scorsa, appena 17 giorni prima di un'elezione decisiva per la Germania e l'Europa, si è diffusa la notizia che la procura di Osnabrück, nel nord-ovest del paese, era entrata in due ministeri di Berlino, quello di Scholz (Finanze) e quello della Giustizia, anch'esso guidato da un socialdemocratico. I procuratori stavano cercando informazioni sulla Financial Intelligence Unit (FIU) con sede a Colonia, sulla quale hanno avviato un'indagine per presunta ostruzione della giustizia per non aver segnalato alle autorità competenti un presunto caso di riciclaggio di denaro. La FIU dipende organicamente dalle Finanze, ma è indipendente nelle sue operazioni quotidiane. Alcuni media si chiedono se la tempistica delle perquisizioni sia fortuita o politicamente motivata. Scholz stesso ha suggerito questo quando ha affermato che i procuratori, che non stanno indagando su di lui o su qualsiasi altro funzionario del ministero a Berlino, "avrebbero potuto inviare le loro richieste per iscritto". Questa frase gli è costata l'attacco più feroce di Laschet durante il secondo dibattito elettorale di domenica scorsa. Con i conservatori che affondano nei sondaggi, il loro leader è andato all'offensiva contro il favorito, dicendo che è irresponsabile mettere in discussione lo stato di diritto e dare spazio al populismo. Nel suo discorso ha insinuato che l'oggetto dell'indagine era il ministero di Scholz e che Scholz non aveva alcun controllo sui suoi subordinati. Il caso si complica di giorno in giorno perché la procura di Osnabrück, diretta da un funzionario che per anni è stato coinvolto nella politica locale con la CDU, ha ora aperto un procedimento contro Wolfgang Schmidt, stretto collaboratore di Scholz per più di 20 anni. Schmidt, noto per difendere il suo capo su ogni piattaforma possibile, compresi i social media, ha twittato qualche giorno fa degli estratti del mandato di perquisizione che autorizza i procuratori a entrare nei ministeri. Secondo l'ufficio del procuratore, questo documento non può essere divulgato pubblicamente. Rendendolo pubblico, il numero due di Scholz ha voluto contrastare un ambiguo comunicato stampa dell'ufficio del procuratore che sembrava suggerire che le indagini fossero più ampie. Il mandato di perquisizione rende esplicito che l'obiettivo era solo quello di identificare i dipendenti della FIU coinvolti nel caso. In altre parole, non c'erano sospetti contro i funzionari del ministero. Ci sono troppe domande su come si è svolto l'intero processo. Per esempio, il mandato di perquisizione è datato 10 agosto, ma i procuratori hanno aspettato un mese per eseguirlo. L'esperto costituzionale Joachim Wieland, che ha espresso i suoi dubbi alla televisione pubblica, sottolinea per esempio che il comunicato stampa che informa dell'azione non è conforme al contenuto del mandato di perquisizione: "I comunicati stampa di un'autorità sono obbligati a informare il pubblico in modo veritiero, e ciò è stato violato in questo caso", ha affermato. I conservatori, nel frattempo, stanno alimentando i dubbi nel tentativo di portare avanti l'idea che Scholz non abbia fatto abbastanza per prevenire il riciclaggio di denaro e che la sua gestione sia stata inadeguata. La commissione finanziaria del Bundestag discuterà la questione lunedì prossimo. Non si sa ancora se Scholz parteciperà di persona o in videoconferenza. Mancano sei giorni alle elezioni.

Che cos’è la Cdu, il partito di Angela Merkel. Andrea Muratore su Inside Over il 25 agosto 2021. Nel mondo politico tedesco la fase inaugurata dalla nascita della Repubblica Federale nel 1949 è stata contraddistinta dalla grande centralità assunta dall’Unione Cristiano-Democratica (Cdu), che assieme al suo “partito gemello” bavarese, l’Unione Cristiano-Sociale (Csu) ha rappresentato il perno del potere nel Paese e della costituzione materiale della Germania. 

Il partito che ha plasmato la Germania. La Cdu ha espresso cinque degli otto cancellieri che hanno governato il Paese (tre quelli socialdemocratici), guidato l’esecutivo per 52 anni su 72 di esistenza dello Stato tedesco, espresso le figure che hanno posto le basi dell’attuale governo istituzionale e degli apparati politico-economici del Paese e dell’Unione Europea. Tutti i grandi momenti decisivi della storia della Germania post-bellica hanno avuto luogo quando la Cdu era al potere. Konrad Adenauer, primo cancelliere della Germania e il suo successore Ludwig Erhard hanno posto le basi del modello di economia sociale di mercato che indirizza l’industria tedesca verso lo sviluppo funzionale alle esportazioni; Helmut Kohl si è trovato a guidare il Paese nella fase della riunificazione della Repubblica Democratica di Germania nel 1991 e dell’avvicinamento all’introduzione dell’euro, trasformata da vincolo in asset per il Paese; Angela Merkel ha gestito la fase di massimo attrito tra il modello tedesco e l’economia europea nell’era della Grande Recessione e allentato i dogmi più duri della politica del Paese dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19.

La visione ideologica della Cdu. Come ha potuto la Cdu essere così trasversale e centrale per lunghi decenni partendo dall’esperienza del popolarismo che nell’epoca post-bellica prendeva piede anche in Italia con la Dc di Alcide de Gasperi? In primo luogo, la formazione ha saputo sempre essere cristiana ma non confessionale o “clericale”: costruita da esponenti del vecchio Zentrum cattolico attivo ai tempi della Repubblica di Weimar e oppositori del nazismo, come Adenauer, la Cdu si è posta l’obiettivo di coagulare al suo interno anche i protestanti in nome di alcuni principi guida chiave. Essi comprendevano, fin dall’inizio, il conservatorismo sociale, l’ordoliberalismo in economia, lo spiccato atlantismo in politica estera, l’anticomunismo e il rifiuto del retaggio politico nazionalista che aveva condotto all’ascesa e alla disfatta del Terzo Reich. Negli anni, la Cdu costruttrice della Repubblica Federale è divenuta il partito-chiave per il progetto di “germanizzazione” delle istituzioni comunitarie nell’era Kohl prima e in quella Merkel poi, sposando diversi principi chiave del neoliberismo economico, tra cui la severa censura della spesa pubblica. Tali tendenze hanno iniziato a subire critiche interne dopo i disastrosi esiti delle politiche europee seguite alla crisi dei debiti e la stagnazione della ripresa tedesca. Nel corso degli anni si sono erosi anche la posizione socialmente conservatrice e la Cdu ha iniziato a dialogare con i partiti laici per formare coalizioni a livello locale sempre più eterogenee e aperto un profondo dibattito interno su questioni come l’ambiente, le migrazioni, i diritti civili.

Angela Merkel, una figura di sintersi. Angela Merkel è stata in un certo senso il punto di sintesi della storia di potere della Cdu. Prima cancelliera proveniente dai Lander dell’Est, ha incarnato sicuramente la riunificazione nazionale guidata dal predecessore Kohl, di cui ha seguito e amplificato le politiche in ambito economico-finanziario; leader fortemente occidentalista, ha però avviato una fase di transizione volta ad aprire moderatamente l’interesse nazionale tedesco a Russia e Cina e a far riscoprire a Berlino il pensiero strategico; pur opponendosi alle unioni omosessuali, la Merkel si è mostrata più aperta a sensibilità progressiste su temi come l’ambiente e l’accoglienza ai rifugiati. Nel corso della sua lunga leadership e era di governo iniziata nel 2005 la Cdu è andata polarizzandosi al suo interno tra un’ala più centrista ed una più conservatrice avente nella Cancelliera il suo equilibrio. Non a caso i dilemmi per il futuro, indipendentemente dall’esito del voto del 26 settembre 2021, sono numerosi: saprà Amin Laschet, successore alla guida del partito, fungere da fattore equilibrante in maniera analoga? La Cdu saprà mantenersi al potere? Chi guiderà la ripresa post-pandemica? Molto dipenderà dalla capacità del partito di tenere operativa l’Unione con i gemelli bavaresi.

Csu, i conservatori baveresi. La Csu è legata alla Cdu da un accordo di desistenza che le concede l’esclusività dell’azione in Baviera. I due partiti formano un gruppo unico al Bundestag. La Csu è espressione delle roccaforti conservatrici dello Stato Libero, polmone economico della Germania e terra caratterizzata da una chiara identità storica che spesso si sovrappone con le radici cattoliche della regione. Più volte nella sua storia la Csu si è dimostrata più conservatrice della gemella di Berlino: dal rifiuto di firmare la Legge Fondamentale nel 1949, per le critiche alla divisione del Paese in due Stati, al contrasto tra la Merkel e il ministro dell’Interno Horst Seehofer sui migranti degli scorsi anni la relazione tra i due partiti è stata collaborativa ma mai pienamente lineare. A testimonianza della specificità del caso tedesco, che ha nella Csu un esempio unico di partito formalmente regionale presente in governi con compagni strutturate, dotato di una sua linea programmatica per economia, sicurezza e politica estera che trascende il territorio di riferimento. Un esempio ulteriore di come la Cdu abbia, attraverso l’Unione, mirato sempre a ricondurre a una convergenza la grande eterogeneità interna alla Germania. Saldando in un progetto di potere visioni del mondo e del Paese fortemente diverse tra loro.

Jan Hecker, il Richelieu di Angela Merkel. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 12 settembre 2021. Dietro ogni grande statista aleggiano le ombre di abili diplomatici e strateghi lungimiranti, dei novelli cardinali Richelieu che alla luce dei riflettori del palcoscenico internazionale prediligono l’anonimato e il buio del dietro le quinte, il luogo in cui si decide la messa in scena dello spettacolo e dove avviene la scrittura dei copioni degli attori. Nel caso della Germania della contemporaneità, quella potenza castrata che la longeva Angela Merkel ha (ri)trasformato nella locomotiva d’Europa, colui che aveva suggerito all’orecchio della cancelliera negli ultimi anni rispondeva al nome di Jan Hecker. E coerentemente e conformemente al ruolo rivestito, che era quello dell’eminenza grigia, questo personaggio, per quanto influente, risultava semisconosciuto ai più. Dal 5 settembre di quest’anno, però, il suo nome è sulla bocca di tutti. Quel giorno, invero, è morto misteriosamente a Pechino, dov’era giunto da alcune settimane per guidare l’ambasciata tedesca in loco.

Origini e formazione. Jan Hecker era nato il 15 febbraio 1967 in quel di Kiel, Germania settentrionale. Sebbene al momento della morte lavorasse nell’ambiente della diplomazia, Hecker era cresciuto e si era formato nelle aule dei tribunali, studiando diritto, giurisprudenza e costituzionalismo. Il curriculum studiorum di Hecker era eloquente a proposito del suo percorso iniziale: fra il 1988 e il 1994 lo studio di scienze politiche e diritto tra Friburgo, Grenoble e Gottingen, e nel 1997 il master in legge presso l’università di Cambridge e un dottorato nella stessa materia all’università di Gottingen con una tesi su sistema costituzionale francese ed integrazione europea.

L'ascesa. Nel 1999, a due anni dal conseguimento del dottorato, avveniva l’ingresso nelle istituzioni. Era stato assunto, invero, nell’Ufficio federale per la protezione della costituzione, un’entità appartenente al Ministero degli Interni. A partire da quell’anno, pur cambiando periodicamente posizione ed ufficio, Hecker non sarebbe più uscito dalle istituzioni. Negli apparati si era costruito la fama di profondo conoscitore e custode fedele della Costituzione, una dote affiancata dall’agevolezza mostrata e dimostrata nell’ambito delle scienze politiche, scalando poco alla volta i gradoni della piramide del potere. Nel 2011 era entrato nella Corte amministrativa federale, presso la quale aveva cominciato a lavorare come giudice. Un ruolo che gli avrebbe consentito di avere visibilità, di avere a che fare con fascicoli sensibili – come la stampa, le telecomunicazioni e l’immigrazione – e, soprattutto, di avvicinarsi al cancellierato.

Il 2015 sarebbe stato l’anno della svolta. Hecker, forte dell’esperienza maturata negli anni e della credibilità acquisita nel ruolo di giudice della Corte amministrativa federale, veniva investito dell’onere-onore di coordinare la squadra speciale per la politica migratoria della Cancelleria federale. Il compito era arduo, perché trattavasi di impedire che la Germania venisse travolta e destabilizzata dalla crisi dei rifugiati in corso, ma Hecker avrebbe superato la sfida con successo. Perché fu lui a suggerire, invero, di instaurare una collaborazione tra pubblico e privato – funzionale alla ripartizione dei costi –, di attuare una politica di scrematura – utile a ridurre gli ingressi – e di siglare degli accordi per la “non partenza” con gli stati-chiave dell’Africa – corteggiati a suon di euro, cioè promesse di investimenti e prestiti a fondo perduto. La strategia, rivelatasi vincente, lo avrebbe fatto entrare nelle grazie e nel circuito della Merkel.

L'eminenza grigia della Merkel. Nel 2017, conchiusa la missione presso la squadra speciale per le politiche sui rifugiati, Hecker veniva trattenuto a Berlino. Questa volta, però, l’incarico propostogli sarebbe stato di gran lunga più prestigioso dei precedenti: consigliere per gli affari esteri della Merkel. Incarico che avrebbe accettato – subentrando all’uscente Cristoph Heusgen – e che avrebbe assunto in simultanea all’ingresso nel Dipartimento federale per le politiche sullo sviluppo, la sicurezza e l’estero. Ostile a microfoni, telecamere e riflettori, Hecker avrebbe trascorso gli anni del consiglierato viaggiando in lungo e in largo con la Merkel, mostrando una particolare predilezione per i soggiorni in Asia e riservando attenzione speciale al fascicolo turco-greco, del quale aveva capito l’importanza per la sicurezza fisica dell’intera Europa ai tempi della prima crisi dei rifugiati. Fascicolo che avrebbe gestito direttamente, recandosi in loco ogniqualvolta possibile per dialogare con le controparti greche e turche e che, poco a poco, avrebbe consacrato la Germania nel primo e principale – o meglio unico – intermediario tra le sempre-belligeranti Grecia e Turchia. La migrazione, in breve, era stata il veridico e centrale pallino di Hecker, costantemente in viaggio tra Ankara, Tripoli, Cairo e Lagos per siglare accordi sottobanco in materia di rimpatri ed esternalizzazione delle frontiere dell’Europa, ma sarebbe riduttivo ed errato circoscriverne l’importanza del ruolo alla mera sfera migratoria. Perché i consigli di Hecker, invero, avevano guidato i passi della Merkel su una grande varietà di teatri: dai Balcani occidentali alla Cina.

La morte. Né oltranzista dell’atlantismo né convinto sostenitore dell’eurasiatismo, ma solo e soltanto filotedesco, Hecker aveva giocato un ruolo determinante nel supportare la cancelliera negli anni bui della massima pressione trumpiana sul Nord Stream 2 e sulla Nuova via della seta. Due lotte che hanno visto prevalere la Germania, e che la Merkel non avrebbe mai potuto vincere senza il contributo di uomini come Hecker e Matthias Warnig. Hecker, comunque, da sempre più interessato a Pechino che a Mosca – che è e resta un affare di schroediani e affaristi dell’energia –, nel mese di agosto 2021 aveva scelto la prima quale sua destinazione di lavoro. O meglio: era stato selezionato dall’uscente Merkel per portare avanti il sogno dell’asse Berlino-Pechino in qualità di ambasciatore in loco. Era stato selezionato, in breve, per inviare a Pechino un messaggio eloquente: continuità. Non ha potuto portare a compimento la missione affidatagli. Il 5 settembre, a due settimane dall’arrivo a Pechino, la stampa tedesca ha dato notizia della sua morte. Una morte giunta come un fulmine a ciel sereno, che ha scioccato la Merkel, e sulle cui cause, al momento, vige la totale riservatezza. Una morte che, volendo correre il rischio dell’accusa di apologia del cospirazionismo, non può non destare sospetti – questo è tempo di guerra tra blocchi, una guerra tutt’altro che fredda – e che riporterà la mente di alcuni indietro di alcuni mesi, al decesso di Du Wei, il neoambasciatore cinese a Tel Aviv, anch’egli morto improvvisamente, prematuramente e misteriosamente, cioè in circostanze molto simili. La nomina di Hecker a capo dell’ambasciata tedesca in Cina era stata importantissima, dunque, perché indicativa del futuro della Germania nell’era post-Merkel. Un futuro che, se le cose dovessero andare come previsto, potrebbe continuare a sapere di merkelismo, cioè di ricerca di rivalsa, autonomia strategica e grandezza. Tre mete alle quali i fedeli dell’Erinnerungsgemeinschaft aspirano sin dalla Die Wende e che, se raggiunte, significherebbero un ritorno della Germania alla storia, questa volta non Los von Rom ma Los von Washington. Uno scenario, quella di una Germania rinata e orientata a levante, che qualcuno, forse, vorrebbe che non si materializzasse. 

Spd, chi sono i socialdemocratici tedeschi. Andrea Muratore su Inside Over il 12 settembre 2021. Parlare della Spd, il Partito Socialdemocratico di Germania, significa parlare di una fetta importante della storia politica europea dall’Ottocento ad oggi. Il più antico partito dell’Europa continentale, istituito nel 1863 e arrivato ai giorni nostri attraverso diversi cambi di denominazione, varie scissioni e due delibere che lo hanno messo fuori legge (rispettivamente nell’età bismarckiana e ai tempi di Hitler) è stato sotto diversi punti di vista il punto di riferimento e il modello culturale per buona parte della sinistra europea. Dei cui risultati più importanti e delle cui crisi è sempre stato, nella sua storia, un anticipatore

Una storia lunga e complessa. La Spd è stato il primo, organizzato partito di massa dell’Europa occidentale; il primo a organizzarsi come formazione marxista ed internazionalista ma anche il primo partito di sinistra a accettare la causa nazionale ai tempi della Grande Guerra; ha rappresentato un perno importante della Coalizione di Weimar,  risultando dal 1919 al 1930 il partito più votato in Germania; primo tra i partiti della sinistra radicale europea ha, nel 1959, col congresso di Bad Godesberg, mediato con le istituzioni civili, politiche e economiche del capitalismo renano, dell’ordoliberismo e della democrazia liberale; ha nel corso della storia della Repubblica Federale di Germania, dal 1949 ad oggi, espresso tre cancellieri, a loro modo interpreti di varie svolte. Willy Brandt, al potere dal 1969 al 1974, inaugurò la Ostpolitik e la distensione europea nell’era della Guerra Fredda; Helmut Schmidt, cancelliere dal 1974 al 1982, fece del riformismo la stella polare del partito anticipando la svolta che avrebbe avuto al governo il Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi; Gerhard Schroeder, cancelliere dal 1998 al 2005, sdoganò anche in Germania il neoliberismo come ideologia pratica seguita dalla sinistra e creò le controverse riforme Hartz del mercato del lavoro, ma seppe anche essere protagonista di un deciso riavvicinamento geoeconomico alla Russia e del rifiuto della guerra americana all’Iraq.

La parabola dei socialdemocratici. Dal marxismo all’economia di mercato dell’era globalizzata, dunque, la Spd ha attraversato l’intera galassia dello spettro politico anticipando diverse svolte avvenute nella sinistra europea. Oggi è una formazione con uno spiccato orientamento progressista, che ha interiorizzato l’ideologia ambientalista e quella femminista come ordinatori, introdotto il sistema della parità di genere nelle cariche apicali, ma che da tempo soffre per la perdita del riferimento del classico bacino elettorale operaio. La svolta inaugurata da Schroeder ha consentito alla Spd di essere presente alla guida di governi e come partner moderato della Cdu di Angela Merkel nei governi di larga coalizione inaugurati dal 2005 in avanti (con l’eccezione della parentesi 2009-2013), rendendo il partito la formazione maggiormente presente al governo del Paese nel nuovo millennio, ma a prezzo di una graduale marginalizzazione di fronte alla personalità dominante della Cancelliera e dell’obbligo di sottoscrivere un’agenda programmatica lontana anni luce dal Dna della Spd. L’impatto delle riforme Hartz in termini di precarietà, calo degli stipendi e prospettive occupazionali dei lavoratori meno tutelati del modello tedesco, la crisi dei debiti sovrani e l’austerità germanocentrica hanno colpito duramente la base di consensi della Spd, scesa bruscamente dopo il 34,2% conseguito nelle elezioni del 2005 che inaugurarono l’era Merkel per arrivare attorno al 20% al voto del 2017. Dopo anni di crisi, la Spd si affida ora al candidato cancelliere e Ministro delle Finanze Olof Scholz per rompere un’impasse elettorale e politica presentando come risultato politico la svolta imposta dalla pandemia di Covid-19 sulla governance economica e politica di Berlino: per la formazione più antica di Germania si apre una finestra di opportunità, ma cambiare il Dna di un partito non è mai operazione cui possa risultare sufficiente una singola tornata elettorale. La Spd ha da tempo passato il guado e lasciato alle spalle riferimenti ideologici e politici chiari che, anche quando sono sbiaditi, garantivano tuttavia un riferimento concreto e chiaro a chi si identificava coi suoi valori: e come essa si sono comportati, via via, tutti gli altri partiti socialdemocratici d’Europa.

Angela Merkel, l’addio: il bilancio dei suoi 16 anni da cancelliera. Milena Gabanelli e Danilo Taino su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2021. Angela Dorothea Merkel diventa cancelliera il 22 novembre 2005. Al momento il suo è il secondo cancellierato più lungo della Germania, se non si contano i 22 anni e 262 giorni di Otto von Bismarck. Per salire al numero uno, e superare i 16 anni e 26 giorni di cancellierato di Helmut Kohl, dovrebbe rimanere a capo del governo fino al 17 dicembre 2021. Non probabile, le elezioni federali, alle quali non si candida più, si terranno il 26 settembre, ma non impossibile dato che la formazione di una nuova coalizione e la nomina di un nuovo capo di governo sono sempre lunghe, e fino a quando non ci sarà l’alternativa lei resterà in carica. Eletta la prima volta nel 2005, guida un governo di «Grosse Koalition» tra la sua Cdu-Csu (cristiano-democratici) e la Spd (socialdemocratici). Alle elezioni del 2009 viene rieletta e corona l’obiettivo di governare assieme ai liberal-democratici (Fdp). Nel 2013 la Cdu-Csu raggiunge il suo miglior risultato storico, ma l’Fdp non passa lo sbarramento del 5% per entrare in parlamento: è costretta a governare di nuovo in Grande Coalizione con la Spd. Rivince nel 2017, con voti in calo, e di nuovo va a guidare una coalizione con i socialdemocratici. Per 16 anni la politica tedesca ha ruotato attorno ad Angela Merkel, più sul centrosinistra che sul centrodestra. 

Dal nucleare al rinnovabile. La cancelliera è una leader che cambia opinione quando le circostanze cambiano. Nel 2006, da poco eletta e da anni fisica quantistica, dice (rivolta alla sinistra che avrebbe voluto chiudere le centrali nucleari del Paese): «Ho sempre considerato assurdo chiudere impianti di energia nucleare tecnologicamente sicuri e che non emettono anidride carbonica». Nel 2011, dopo il disastro di Fukushima in Giappone, Merkel cambia politica: decide la chiusura a fasi di tutte le centrali entro il 2022 e dà slancio alla «Energiewende», la transizione energetica verso le fonti rinnovabili, decisa sei mesi prima del disastro giapponese. Molti critici hanno sottolineato che l’uscita da questa tecnologia ha significato ricorrere a un eccessivo utilizzo del carbone, decisamente a effetto serra. In termini di obiettivi, la Germania ha rispettato le quote di taglio di emissioni che si era data nel 2007, il 40% entro il 2022 rispetto al 1990: le ha tagliate del 40,3%. Ma senza il blocco delle produzioni causato dalla pandemia, l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto, tanto che il centro di analisi berlinese Agora Energiewende prevede che, a causa della ripresa economica, nel 2021 la quota scenderà attorno al 37%. 

La crisi finanziaria. La posizione di Merkel durante la crisi finanzia del 2008, e soprattutto quella del debito in Europa 2010-2012 (Grecia e altri), è attendista e secondo i critici anche sbagliata. È opera sua il patto franco-tedesco da cui nascono lo spread e il fiscal compact. Vanno però considerate due questioni fondamentali. Primo: Merkel è eletta dai tedeschi e a loro deve rispondere. Il che significa rispettare uno dei punti fermi della storia postbellica tedesca: la stabilità finanziaria. Il Paese aveva accettato l’euro al posto del potente marco solo dietro garanzia che la nuova moneta sarebbe stata stabile e che l’Eurozona non sarebbe stata un’unione dei trasferimenti: cioè che il bilancio di uno Stato non avrebbe finanziato il bilancio di un altro Stato. Secondo: strategie migliori non erano seriamente state avanzate da altri governi. Fatto sta che alcuni Paesi (fra cui l’Italia) non collassano perché la Bce compra ingenti quantità di titoli di stato, porta a zero i tassi d’interesse, e salva l’euro. Operazione possibile grazie alla copertura politica che Merkel garantisce a Mario Draghi consentendogli di pronunciare il famoso «Whatever it takes». 

Mosca: sanzioni e affari. Quando Vladimir Putin, nel 2014, invade la Crimea per sottrarla all’Ucraina e annetterla alla Russia – cambiamento dei confini con la forza che in Europa non si vedeva dal 1945 – la Merkel fa un capolavoro di diplomazia, ancora più apprezzabile se si considera che per la Germania e per le sue industrie la Russia è un mercato importantissimo. Merkel riesce a fare passare a Bruxelles una serie di sanzioni contro Mosca e a mantenerle in essere negli anni successivi. Ciononostante, riesce a conservare un rapporto con il non amato Putin. Infatti, non ferma il gasdotto Nord Stream 2 che porta il gas dalla Russia alla Germania per essere poi distribuito in Europa, avversato da molti governi europei e politici tedeschi. L’infrastruttura è stata voluta dai socialdemocratici, partner di coalizione della Cdu di Merkel nel governo, e affossarla vuol dire creare una crisi nella coalizione. L’ultima cosa che la cancelliera vuol fare. E così tira dritto come se si trattasse di una buona idea. In realtà il nuovo tubo (ormai terminato) penalizza i Paesi in cui finora sono passate le vecchie pipeline da Mosca, soprattutto l’Ucraina sempre sotto la minaccia di Mosca. In secondo luogo, creerà per la Ue una dipendenza ancora maggiore dal gas russo. 

La politica migratoria. «Ce la faremo» dice Angela Merkel nel 2015 quando centinaia di migliaia di rifugiati, soprattutto siriani, arrivano ai confini della Germania. Decide di non chiudere le porte senza consultarsi con i governi europei, ma se l’avesse fatto avrebbe raccolto solo dei no. L’atto di generosità, che «salva l’onore della Germania» (Wolfgang Schäeuble), non è mai diventato una politica. I tedeschi inizialmente accettano la decisione, ma l’arrivo di immigrati in massa – oltre 1 milione in poco più di un anno – spinge l’emersione della forza politica di destra di Alternative für Deutchland. Investe 87 miliardi di euro nel più vasto piano di integrazione europeo. Il risultato sul territorio: degli arrivi dal 2013 circa la metà ha trovato lavoro, anche se poi molti migranti durante la pandemia sono stati i primi a perderlo. Sul versante europeo è stata lei a contrattare personalmente con Erdogan la chiusura delle frontiere turche in cambio di sei miliardi di euro a carico della Ue. E oggi spinge Bruxelles a versarne altri cinque ad Ankara e ad alcuni altri Paesi affinché trattengano i migranti. Sugli accordi di Dublino – che prevedono la presa in carico di un immigrato da parte del Paese di primo sbarco la cancelliera si è detta favorevole a rivederli, ma la questione rimane intrattabile per le divergenze tra i 27 della Ue. 

La pandemia. Sul fronte Covid-19, Merkel si presenta ai tedeschi in veste non solo di leader politica ma anche di scienziata: spiega con chiarezza e con successo i rischi. Notevoli invece le difficoltà nella gestione del virus con la seconda e terza ondata. È fra i Paesi che hanno sacrificato meno gli studenti con la didattica a distanza. Sul versante europeo, dopo la spinta iniziale di Emmanuel Macron, Merkel ha dato il via libera decisivo al Recovery Fund, il piano finanziario da 750 miliardi per trasferire denaro europeo ai Paesi più colpiti dalla pandemia. Non solo un atto di solidarietà, ma soprattutto un salto nell’essenza stessa dell’Unione europea, con la prima parziale messa in comune del debito e con l’emissione sui mercati di titoli europei. 

Zero riforme. Nei 16 anni di cancellierato, Angela Merkel non promuove riforme significative dell’economia tedesca. Vive di rendita su quelle realizzate tra il 2003 e il 2004 nel mercato del lavoro (Hartz IV) dal cancelliere che le ha promosse: Gerhard Schröder. Riforme che hanno reso più efficiente il Paese che, all’inizio del secolo, era considerato «il malato d’Europa». Non liberalizza i trasporti, i servizi, le assicurazioni. Il settore bancario è ancora oggi fragile a causa della sua frammentazione e del rapporto strettissimo di gran parte degli istituti di credito con la politica nazionale e locale; il che rende le loro scelte spesso basate più su decisioni di questo o quel partito che sul merito di credito. In sostanza la cancelliera preferisce non avere guai in settori politicamente influenti. Il risultato è che oggi il futuro industriale della Germania, a cominciare dal settore auto – anch’esso protetto sempre da Merkel persino quando Volkswagen imbrogliò sui test delle emissioni dei suoi motori diesel –, è disorientato, sia per insufficiente capacità innovativa sia a causa dei cambiamenti geopolitici. 

Il mondo cambia, lei no. È la geopolitica il tema sul quale, forse, la Storia giudicherà Angela Merkel. Guidata dall’idea, molto condivisa dai suoi concittadini, che la Germania non può permettersi un ruolo di leadership eccessiva in Europa – a causa del passato – la cancelliera rimane aggrappata all’idea che il pianeta di commerci e scambi senza frontiere, quello che al Paese ha garantito decenni di sviluppo e prosperità, non avrà limiti. Impostazione che mantiene fino alla fine del suo mandato verso Putin e soprattutto nei confronti di Pechino. In dodici viaggi in Cina dal 2005 – l’ultimo a Wuhan nel settembre 2019 con il rischio di prendersi l’allora sconosciuto Covid-19 – Merkel porta banche e imprenditori tedeschi alla conquista (si fa per dire) del mercato cinese. Senza apparentemente mai porsi problemi di carattere strategico e geopolitico. Il risultato è una Germania che, di fronte alla prova del 26 settembre, sembra incapace di riconoscere la realtà del nuovo mondo, sempre più diviso tra democrazie e autoritarismi. A fine 2020, la cancelliera impone alla Ue la firma di un accordo commerciale con Pechino, ignorando l’invito di Biden agli alleati europei a sviluppare un approccio comune verso il gigante asiatico. Un regalo a Xi Jinping. L’accordo è poi fallito perché obiettivamente insostenibile in una fase in cui la Cina è sempre più aggressiva in economia come in diplomazia. La vicenda ha però accesso un riflettore sulla tendenza di Berlino a mettere gli interessi commerciali nazionali davanti a diritti umani, politica, geopolitica ed Europa. Tanto che è nato un nuovo termine: Merkantilismo. Il merito maggiore di Merkel: avere tenuto insieme la Ue in anni difficili. Il suo demerito: non avere riconosciuto i cambiamenti del mondo

Quel che resta. Il merito maggiore di Merkel: avere tenuto insieme la Ue in anni difficili. Il suo demerito: non avere riconosciuto i cambiamenti del mondo. Esce di scena lasciando la Germania e l’Europa senza un successore e senza una bussola per muoversi nel nuovo pericoloso disordine globale. L’uomo della Cdu-Csu, Armin Laschet, è del tutto favorevole a tenere ferma la barra della tradizionale ortodossia tedesca in economia e nel sostenere in tutti i modi il commercio delle imprese nazionali. Lo stesso vale per l’uomo della Spd, Olaf Scholz, che addirittura segue lo slogan «Sarò una buona cancelliera». Annalena Baerbock, la donna dei Verdi, è meno tenera con Cina e Russia, vuole di più per la difesa dell’ambiente, ma è improbabile che diventi cancelliera. La debolezza dei candidati non è un problema solo tedesco, ma anche europeo, data l’essenzialità della Germania nel continente.

Da lastampa.it l'8 settembre 2021. Angela Merkel saluta il Parlamento tedesco, e lo fa con un discorso programmatico, che sfida il futuro e detta l’agenda di chiunque sarà il successore. Innanzitutto sulla pandemia, e l’assoluta necessità del vaccino: «È chiaro che nessuno di noi vaccinati sia stato una cavia, né Scholz né io», ha detto la cancelliera parlando all'ultima seduta della legislatura del Bundestag. Il vicecancelliere socialdemocratico a cui si riferisce, nei giorni scorsi aveva affermato ironicamente che, visto che milioni di persone avrebbero «fatto da cavia», adesso anche gli altri potranno vaccinarsi con tranquillità. Ma Merkel si è anche schierata, quando ha iniziato a parlare del voto imminente. «Queste elezioni sono particolari, perché avvengono in un tempo difficile. E non è un dato indifferente chi governerà questo Paese», ha spiegato, esprimendo, a sorpresa, esplicitamente appoggio al candidato dell'Unione Armin Laschet, in vista delle elezioni del 26 settembre. In un lungo passaggio del suo discorso, mentre veniva contestata a voce alta da diversi parlamentari che si sono ribellati, la cancelliera ha tirato dritto ripetendo che non si possa affidare il Paese a chi «non esclude un'alleanza con la Linke». «I cittadini avranno una scelta tra pochi giorni: o un governo che accetti l'appoggio della Linke con SPD e Verdi, o almeno non lo escluda», ha detto Merkel riferendosi al partito di estrema sinistra Linke, «o un governo federale guidato dalla CDU e dalla CSU con Armin Laschet come cancelliere - un governo federale che guidi il nostro paese nel futuro con moderazione», ha aggiunto in quello che era probabilmente il suo ultimo discorso alla camera bassa del Parlamento. Di fronte ai fischi per l’appoggio a Laschet, Merkel non ha esitato: «Sto da 30 anni al Bundestag, che è il cuore della democrazia: dove, se non qui, devono essere discussi questi temi?», ha alzato la voce la cancelliera. Tornando al discorso, Merkel ha voluto sottolineare che la direzione che prenderà la Germania dopo il voto non sarà determinata solo «dalla politica estera, dalla Nato e dall'Europa, ne va anche delle decisioni economiche e fiscali che decideranno pure i nostri posti di lavoro». Ecco perché, ha affermato ancora la cancelliera, «la migliore strada è un governo guidato da Laschet: perché la misura e il centro sono esattamente quel di cui ha bisogno la Germania».

Daniel Mosseri per “il Giornale” l'8 settembre 2021. Una bastonata a sinistra, una manifestazione di sostegno al delfino Armin Laschet, l'invito a tutti i tedeschi a vaccinarsi. La sessione parlamentare di fine legislatura in Germania è di norma dedicata a una noiosa elencazione delle attività portate a termine dal governo federale. Non questa volta. Rivolta forse per l'ultima volta al Bundestag nel ruolo di cancelliera nella pienezza dei suoi poteri, Angela Merkel ha approfittato per lanciare alcuni messaggi politici diretti. Attività insolita a cui è chiamata nel tentativo di sostenere la corsa elettorale della Cdu. Il partito da lei presieduto dal 2000 a tutto il 2018 naviga in pessime acque. Lo scorso gennaio, quando il 33esimo congresso della formazione cristiano democratica scelse Laschet quale presidente, i sondaggi attribuivano al partito il 37% dei consensi. Ad aprile, quando Laschet si è imposto quale candidato cancelliere di tutto il fronte moderato (ossia Cdu e i fratelli bavaresi della Csu), la previsione era di un più mesto 27%. Una previsione non brillante ma in virtù della quale la Cdu era ancora il primo partito tedesco. Nelle ore in cui Merkel parlava al Bundestag l'ennesima doccia fredda: secondo Forsa il partito che fu di Merkel oggi vale solo il 19% dei consensi. Si tratta di una discesa costante da attribuire allo scarso carisma e alle numerose gaffe di Laschet, scelto dal congresso solo perché capace di controllare più delegati. Oggi la sua Cdu vale sei punti di meno di un partito socialdemocratico (Spd) in forte ascesa da fine luglio, grazie alla guida sicura del candidato cancelliere Olaf Scholz. Ministro delle Finanze nel governo uscente, Scholz si è fatto apprezzare per avere ben gestito i generosi ristori concessi dall'esecutivo a tutti i tedeschi: dalle grandi aziende fino alle piccole imprese individuali. Schiacciata dalla Spd e tallonata dai Verdi (17%), la Cdu arranca. «Fra pochi giorni si vota - è intervenuta Merkel - ed è un'elezione speciale: non solo perché per la prima volta dal 1949 il cancelliere uscente non si ricandida ma perché bisogna decidere in quale direzione andrà il paese. I cittadini - ha proseguito - possono scegliere fra una coalizione fra Spd e Verdi che accetti l'appoggio della Linke (il partito socialcomunista, ndr) o almeno non lo escluda oppure un governo con Cdu/Csu e Armin Laschet alla loro testa». «Sto dicendo solo la verità», ha replicato la cancelliera interrotta da una salva di fischi. È vero il contrario: nel recente «triello» televisivo con Armin Laschet e la candidata dei Verdi Annalena Baerbock, Olaf Scholz ha segnalato che l'Spd non intende allearsi con Linke. Una formazione che, fra l'altro, sostiene l'esproprio degli immobili delle grandi società immobiliari e propugna l'uscita della Germania dalla Nato. Da mesi nel paese si parla invece di un ritorno dei Liberali al governo e, numeri alla mano, la cosiddetta alleanza «semaforo» rosso-verde-gialla sembra più a portata di mano di una coalizione rosso-rosso-verde che i mercati vedono come il fumo negli occhi. Merkel ha anche bacchettato lo stesso Scholz che giorni prima aveva paragonato i primi 50 milioni di persone completamente vaccinate in Germania a «cavie». Indossando le vesti dello scienziato Merkel ha un dottorato in chimica quantistica la cancelliera ha ricordato che «nessuno di noi è mai stato o sarà mai una cavia». I vaccini sono stati testati a sufficienza e compito dei politici è invitare le persone a vaccinarsi «e non a litigare con immagini distorte di porcellini d'India». Scholz non se l'è presa e ha replicato con un pizzico di crudeltà: «Alcuni non vogliono mai sorridere e sanno solo irritarsi: li capisco, quando guardano i loro sondaggi hanno poco da ridere».

Da liberoquotidiano.it il 7 settembre 2021. La verità sul rapporto tra Angela Merkel e Mario Draghi. La cronaca dei mesi che hanno preceduto e seguito il "Whatever it takes" che l'allora presidente della Banca centrale europea pronunciò in una storica, drammatica conferenza stampa nell'estate 2012 è fatta di dichiarazioni ufficiali e telefonate private, con l'Europa e l'euro in bilico sotto la spinta della Germania e della crisi greca. E in mezzo la cancelliera tedesca, a mediare tra Berlino e Francoforte, in una posizione scomodissima. Il libro di Massimo Nava Angela Merkel descrive per filo e per segno quelle settimane di tensione nascosta fin dove possibile. Lo storico corrispondente del Corriere della Sera, come sottolinea un estratto del volume pubblicato dal sito formiche.net, non può partire proprio dalla guerra interna della leader Cdu, costretta a resistere alle pressioni dei socialdemocratici che pretendevano un tedesco alla guida delle Bce dopo il francese Trichet (il favorito era Axel Weber) prima, e agli attacchi scomposti del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble e del successore di Weber alla Bundesbank, Jens Weidmann, contrari alla politica del "bazooka" di Draghi. La Germania, in quel 2012, era di fatto sola contro tutti ma potentissima, e gli interessi delle banche tedesche nel salvataggio della Grecia facevano ovviamente sospettare a tutti il peggio. "Non ci furono accordi o compromessi preventivi", ricorda a Nava lo stesso Draghi, intervistato nel giugno 2021 quando era già arrivato a Palazzo Chigi. "La decisione fu presa in seno alla Bce, nel pieno rispetto dei trattati e del nostro mandato. Resistenze e critiche sorsero dopo, praticamente soltanto da parte tedesca, dalla Bundesbank, dal mondo politico e dall’opinione pubblica. Del resto, la Bundesbank era titolata a farlo, anche se si trovò in minoranza per tutto il periodo della mia presidenza. Ad Angela Merkel va riconosciuto di aver sempre difeso l’indipendenza della Bce e il rispetto dei trattati. E non è mai intervenuta nelle polemiche. Per la Germania, la moneta unica è un sigillo di europeismo, ma non va dimenticato – per comprendere le resistenze – quanto il Paese avesse politicamente investito nel processo, a partire dall’abbandono del marco". Particolarmente vivaci i confronti tra Draghi e "il falco" Schäuble: Lui ha un’idea di unione monetaria à la carte, da cui si possa o si debba uscire per rientrare dopo aver messo i conti a posto - è il commento dell'attuale premier italiano sul ministro tedesco -. Per questo, sosteneva l’uscita della Grecia. Gli dissi che, se voleva buttare fuori la Grecia, lo doveva fare lui, ma che non poteva chiederlo alla Bce". Il sostegno della Merkel a Draghi fu totale, anche a costo di minare le possibilità di Weidmann di sostituire SuperMario alla Bce. La stampa tedesca invece iniziò a martellare l'italiano, colpevole di "regalare soldi" agli Stati sull'orlo del fallimento. Ma il rapporto con Angela non è cambiato: "In tutti questi anni, ci siamo sentiti e confrontati spesso. Ho incontrato una straordinaria leader, autenticamente europea, intelligente, sempre preparata, gentile, sia quando si tratta di esporre le proprie idee sia quando vuole esprimere il proprio disaccordo". "Se per amicizia s’intende uscire a cena e mangiare una pizza insieme, direi di no - ironizza poi Draghi -. C’è grande rispetto e fiducia reciproca. Se ho bisogno di consultarmi, le telefono e lei fa altrettanto". 

Da lastampa.it il 6 settembre 2021. L'ambasciatore tedesco in Cina, Jan Hecker, è deceduto pochi giorni dopo essersi insediato nel suo ufficio a Pechino: lo ha annunciato nella notte il ministero degli Esteri di Berlino, senza precisarne le circostanze. «È con profonda tristezza e sgomento che abbiamo appreso della morte improvvisa dell'ambasciatore tedesco in Cina. I nostri pensieri in questo momento sono con la sua famiglia e le persone che gli erano vicine» si legge in una nota postata sul sito web del ministero. Hecker, 54 anni, era arrivato a Pechino ad agosto, dopo aver lavorato come consigliere per la politica estera della cancelliera Angela Merkel.

(ANSA il 4 agosto 2021) - Un pensionato tedesco è stato condannato a 14 mesi di carcere con la condizionale e al pagamento di una multa di 250mila euro per il possesso di armi ed equipaggiamenti militari risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, incluso un carro armato che a volte usava come spazzaneve. Lo riporta la Bbc. L'arsenale bellico era stato scoperto dalle autorità nel 2015 in un'abitazione di Heikendorf, nel nord della Germania, su segnalazione della polizia di Berlino che in precedenza aveva perquisito la casa in cerca di opere d'arte rubate dai Nazisti. Questa settimana un tribunale ha inoltre ordinato al pensionato 84enne di vendere o donare il carro armato e un cannone antiaereo ad un museo o un collezionista entro due anni. Per rimuovere il carro armato - un Panther che secondo i vicini veniva utilizzato per liberare il vialetto di casa dalla neve - era stato chiamato l'esercito.

Da corriere.it il 23 luglio 2021. La giornalista Susanna Ohlen è stata sospesa dall’emittente RTL perché, prima della diretta dalle zone alluvionate in Germania, è stata filmata mentre si strofinava del fango sui suoi vestiti e sul viso. A quanto pare, per rendere il tutto più «autentico». «Le azioni della nostra reporter contraddicono chiaramente i principi giornalistici e i nostri standard» ha detto la rete privata tedesca in una nota. Nel servizio da Bad Münstereifel, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, la giornalista raccontava la sofferenza dei residenti e spiegava di aiutarli attivamente nel lavoro di pulizia. Nel frattempo, con un post sui social, Susanna Ohlen si è scusata dell’accaduto.

Germania, la reporter tv si imbratta di fango da sola per rendere più drammatico il servizio sugli alluvionati. Giampaolo Cadalanu su La Repubblica il 24 luglio 2021. Susanna Ohlen costretta a chiedere scusa dopo che qualcuno ha filmato da una finestra i preparativi per la messa in scena. Per la pornografia del dolore, la vista di case sommerse e di esistenze spazzate via dalla piena dei fiumi non basta. Il racconto dei sopravvissuti, la loro resistenza e la disperazione, o le facce stravolte dei soccorritori stremati evidentemente non sono garanzia sufficiente di una commozione profonda, e quindi di uno share adeguato per la propria trasmissione.

La vergogna della giornalista: il gesto prima della diretta. Gerry Freda il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. La giornalista, che era stata inviata nella Renania settentrionale-Vestfalia, è stata sospesa per il suo tentativo di rendere "più autentico" il servizio. Si è abbattuta una vera e propria tempesta di polemiche ai danni della telegiornalista di un'emittente privata tedesca; la donna in questione è accusata di essersi "cosparsa apposta di fango" prima di una diretta dalle zone recentemente alluvionate del Paese. La cronista incriminata è la 39enne Susanna Ohlen, finora in servizio presso il canale privato Rtl.de. Nel dettaglio, la giornalista, questo lunedì, era stata inviata a Bad Münstereifel, nella Renania settentrionale-Vestfalia, ossia uno dei territori maggiormente funestati dalle letali alluvioni della scorsa settimana; nel proprio servizio, la Ohlen doveva raccontare, su decisione della redazione del programma Guten Morgen Deutschland, la sofferenza dei residenti, ma, sostengono i suoi detrattori, la stessa, per rendere "più autentico" il servizio, avrebbe deciso di fare finta di avere "attivamente aiutato" i residenti nel lavoro di pulizia e di essere stata a stretto contatto con le macerie melmose. Di conseguenza, lei si sarebbe messa a "sporcarsi apposta i vestiti" e, quale prova del suo tentativo di ingannare i telespettatori, vi è un video che sta impazzando sul web. La cronista è stata infatti filmata mentre, prima del collegamento, si spalma intenzionalmente del fango sulla canotta bianca e sul viso, per fingere di essere appena stata in mezzo ai detriti a prestare assistenza ai cittadini in difficoltà; dopo la pubblicazione in rete del clip, Rtl.de ha deciso di sospendere la 39enne per "comportamento non etico". Quest'ultima, dopo l'esplosione dello scandalo, ha ammesso di essersi sporcata in maniera intenzionale per fare finta di avere aiutato la popolazione alluvionata. Lei, tramite un messaggio-confessione apparso ieri sul suo profilo Facebook, ha appunto rivolto le proprie scuse ai telespettatori ingannati e ha contestualmente provato a spiegare il suo gesto: "Lunedì ho commesso un grave errore nell'area alluvionata, di fronte alle telecamere di 'Guten Morgen Deutschland'. Dopo aver già aiutato privatamente i soccorsi nella regione colpita dall'alluvione nei giorni precedenti, quella mattina mi sono vergognata, davanti agli altri aiutanti, di stare davanti alla telecamera con addosso un top pulito. Poi, senza pensarci due volte, ho spalmato fango sui miei vestiti. Da giornalista, non sarebbe mai dovuto succedere. Come persona che ha a cuore la sofferenza di tutte le persone colpite, è successo a me. Scusatemi".

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

La fine dell’era di Angela Merkel rischia di dividere di nuovo la Germania in due. Amelie Baasner su L'Espresso il 30 agosto 2021. Est e ovest si sono riunificati trent’anni fa, ma sono rimasti due mondi molto lontani, con il ricco occidente che ha occupato quasi tutti i posti di potere. E l’emergere dell’estrema destra dell’Afd un sintomo di questa spaccatura mai sanata. Il ritiro di Angela Merkel crea un vuoto difficile da riempire. Un vuoto che rischia anche di riaprire la cicatrice non del tutto guarita tra le due Germanie. Tutto dipenderà dal prossimo governo. Nel peggiore dei casi potrebbe dar via all’alienazione di una parte della popolazione e alla radicalizzazione dell’Afd nelle regioni che facevano parte della Ddr, la Repubblica Democratica Tedesca, fino al 1990. La Germania unita è un paese giovane. L’anno scorso ha festeggiato i trent’anni di riunificazione, una riunificazione economica e politica nata da un desiderio democratico profondo dei tedeschi da entrambi i lati del muro e resa possibile grazie a un atto di fede internazionale, non salutato sempre con entusiasmo. Resta celebre la frase di Andreotti: «Adoro talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei avere sempre almeno due». La sfida era di fare della Germania unita una Germania omogenea e pacifica. Dal 1989 al 1990 la vita non è cambiata molto per i tedeschi dell’ovest. Per i tedeschi dell’est invece è cambiato tutto. I nuovi Länder, Brandeburgo, Sassonia, Sassonia-Anhalt, Turingia, Meclemburgo-Pomerania Anteriore, furono aggiunti alla Germania dell’Ovest, un'amministrazione fiduciaria si è occupata della privatizzazione immediata delle ditte e nelle posizioni di potere furono messi tedeschi dell’Ovest. Per la popolazione della ex Germania Orientale, da un momento all’altro, il sistema che era stato definito “nemico di classe” dal governo comunista diventa la regola. Mentre la politica e l’economia si possono unire sulla carta, le abitudini e le mentalità differenti rimangono. Nella Germania dell’Est il cambiamento di sistema ha generato uno scetticismo rispetto alla politica. Di più: rispetto alla democrazia. Il 40 percento dei cittadini della Germania Est non va alle urne, i grandi partiti hanno il 30 percento in meno di membri rispetto alla parte occidentale del Paese. E questo viene rinforzato dai pregiudizi del resto della Germania con  la narrazione dispregiativa dell'“Ossi”, il tedesco dell’Est, che continua a trovare ospitalità sulla stampa. Poi ci sono le differenze strutturali che mostrano fino a che punto la Germania dell’Est rimane svantaggiata. I tedeschi dell’ovest dominano ancora nelle funzioni di leadership nella Germania dell’Est, nel pubblico come nel privato. Un’inchiesta della radio pubblica Mdr (Mitteldeutscher Rundfunk) dal 2021 ha rivelato che tutti i 29 segretari di stato nei Länder della Germania dell’Est provengono dall’Ovest. Dei 108 rettori universitari nei nuovi Länder soltanto due vengono dall’Est e sono solo due su 183 i membri dei comitati direttivi delle 30 ditte quotate nell'indice Dax. Secondo un'analisi della fondazione Wüstenrot, le regioni dell’Est sono le più svantaggiate in tutta la Germania, con un’aspettativa di vita più bassa, redditi inferiori, un alto livello di giovani che abbandonano la scuola senza diploma, assistenze locali poco sviluppate e così via. Fino a qualche anno fa non si parlava di queste disuguaglianze: è stata l’Afd a richiamare l’attenzione di Berlino sulla tematica. Il 25 percento dei tedeschi dell’Est danno il loro voto all'Afd, accettando posizioni spesso apertamente naziste e xenofobe. Björn Höcke, portavoce dell’Afd in Turingia e fondatore del raggruppamento fascista “Der Flügel”, è conosciuto in tutta Europa per aver paragonato il memoriale della Shoah berlinese a un memoriale della vergogna. Nella Germania dell’Est, tali aberrazioni vengono accettate. È vero che anche nella parte occidentale opinioni di questo tipo si sono fatte strada, ma nell’Est il fenomeno è più presente. L’8.8 percento dei tedeschi dell’Est (l'1.8 percento nella Germania dell’Ovest) accetterebbero una dittatura di destra. Lo dimostra un’indagine della Fondazione Heinrich Böll dell’anno scorso. La quota delle persone apertamente xenofobe rimane alta nell’Est: il 27.8 percento (il 13.7 nella Germania dell’Ovest). Quelli che pensano che gli stranieri stiano soltanto sfruttando lo stato sociale sono il 43.9 percento (il 24.5 nella Germania dell’Ovest). Preoccupa il fatto che non si tratta solo della parte più anziana della popolazione, cresciuta nel sistema comunista. Anche molti elettori più giovani, che non hanno conosciuto il muro, esprimono convinzioni xenofobe e fanno dell’Afd il loro partito. Gli elettori dell’Est potranno avere un peso decisivo nelle elezioni di settembre, comunque vengono spesso dimenticati. L’onorevole Marco Wanderwitz, nato lui stesso nella Ddr, ha dichiarato in un’intervista che una parte della popolazione deve essere considerata “persa” per la democrazia, essendo stata socializzata in un sistema dittatoriale. Un messaggio deludente e molto pericoloso. L’Spd e la Cdu, i due partiti attualmente più forti nei sondaggi, dovranno lottare per convincere i cittadini dell’Est che i loro programmi prendono atto dei loro bisogni e delle loro sensibilità. Se non ci riusciranno, andrà tutto a vantaggio dell'Afd.

Germania: chi è Olaf Scholz, il ministro socialdemocratico favorito per governare dopo Angela Merkel. L’Spd è in vertiginosa rimonta secondo i sondaggi. Merito del vice di Angela, che da ministro delle finanze ha governato la crisi. E promette una nuova stabilità. Roberto Brunelli su L'Espresso il 30 agosto 2021. Olaf Scholz in elegante bianco e nero sorride divertito verso la macchina fotografica - giacca stretta, camicia bianca e niente cravatta, come sempre – e tiene le mani in una delle pose più significative della politica tedesca: il triangolo rovesciato. Sì: la classica, iconica, posa di Angela Merkel. L’immagine che fa parte di una intervista «senza parole» del magazine della Sueddeutsche Zeitung al candidato cancelliere dei socialdemocratici, ha circolato vorticosamente sui social media in Germania, in un profluvio di interpretazioni: voleva semplicemente dire che sarà lui a prendere il posto della cancelliera? Oppure intendeva significare quanto gli mancherà l’ex «ragazza dell’est», la quale ha deciso di non candidarsi dopo ben 16 anni ininterrotti di governo? A seconda dei punti di vista, i malevoli per un verso, i fan della continuità per un altro, prevale l’interpretazione per cui l’attuale vicecancelliere è il più solido garante della stabilità, che è da sempre l’assoluto totem della politica tedesca. Stabilità che oggi pare come minimo evanescente, tanto da spiazzare germaniche previsioni, certezze, abitudini: mai si sono visti sondaggi tanto volatili, nella storia della Repubblica federale, mai si sono accavallati tanti colpi di scena in una campagna elettorale tedesca, con l’Europa a fare da spettatrice sempre più stupita. A sorpresa, nelle ultime settimane i rilevamenti fotografano una rimonta dei socialdemocratici di Scholz impensabile solo poche settimane fa, tanto da gettare nel panico gli inquilini della Konrad-Adenauer-Haus, il quartier generale della Cdu di Armin Laschet: ebbene sì, l’orgogliosa e ultracentenaria Spd, che da anni non si schiodava da un plateau di consensi intorno al 15-16 per cento, improvvisamente ha preso a superare l’unione formata da cristiano-democratici e cristiano-sociali bavaresi che guida tutti i governi tedeschi dal 2005 ad oggi. In alcuni sondaggi le due formazioni corrono appaiate, con risultati intorno al 22-23 per cento: per l’Spd, così afferma l’istituto demoscopico Forsa, sarebbe il miglior risultato dal 2006, per Cdu/Csu il peggiore da quando esistono i sondaggi. Un quadro che rappresenta una mezza apocalisse per Cdu/Csu in caduta libera (ad inizio anno, sull’onda dell’apprezzamento dei tedeschi verso la gestione merkeliana della pandemia, aveva raggiunto il 36 per cento), ma anche un’opzione-trionfo per il partito che fu di Brandt e di Schmidt. Nonché, se confermato alle urne, il capovolgimento di quello che sembrava oramai il paradigma stilizzato della crisi-standard dei progressisti ai quattro angoli del pianeta. «L’Spd è ancora viva», concede meravigliato lo Spiegel. Uno scenario considerato fantascientifico solo poco tempo fa, quando l’Spd era la Cenerentola della corsa al voto 2021, superata stabilmente anche dai Verdi, considerati più al passo dei tempi e guidati da una leader ben più giovane e fotogenica, Annalena Baerbock, intenta ad allargare la lotta per il clima ai «temi della libertà, della democrazia e della sostenibilità industriale», come la candidata alla cancelleria ama ripetere nelle interviste televisive, tanto da convincere persino alcune frange dell’élite economica tedesca. Cosa è successo? Improvvisamente il «sobrio, efficace, pragmatico e serio» Scholz, per dirla con le parole del politologo Ulrich von Alemann, svetta sul podio delle preferenze dei tedeschi tra i tre candidati alla cancelleria: il 34 per cento degli interpellati di un sondaggio dell’istituto Insa punta sul candidato socialdemocratico. Di contro Laschet, passato di gaffe in gaffe e incapace di scrollarsi di dosso l’immagine polverosa di moderato distante anni luce da un Paese profondamente sempre più inquieto, viene superato finanche dalla verde Baerbock, alla quale tuttavia è mancato il colpo d’ala necessario per ribattere alle polemiche sui presunti plagi e le correzioni al suo curriculum vitae. Così, i socialdemocratici continuano a ripeterti che loro l’avevano sempre detto che la svolta in loro favore era solo questione di tempo, sin da quando incontravano i sorrisi di sufficienza della prima fase della campagna elettorale, quando la candidatura di Scholz veniva accolta con malcelati risolini e quando il duello tra Cdu/Csu e Verdi si prendeva tutta la scena. «L’Spd riesce a monetizzare l’avvitamento su se stesso di Laschet e del mondo conservatore», ci assicura a microfoni spenti un parlamentare Spd al Bundestag. In altre parole: mentre lo scontento verso la performance di Laschet tocca i vertici della Cdu con deputati che arrivano ad evocare il bunker hitleriano di maggio ’45 per dire del clima che c’è nel partito, mentre gli analisti mettono in causa il cosiddetto «bonus Merkel» che viene meno via via che ci si avvicina all’apertura delle urne e mentre finanche Markus Soeder, capo dei cristiano-sociali bavaresi, ad evento elettorale quasi finito grida «non ho nessuna voglia di andare all’opposizione», l’inevitabile fuga di voti che ne scaturisce incontra la rassicurante figura di Olaf Scholz. Il solido vicecancelliere sempre fedele a Frau Merkel, l’efficace ministro alle Finanze perfettamente a suo agio nei grandi vertici internazionali, l’uomo che ha assicurato ai tedeschi miliardi da capogiro quando la tempesta della pandemia batteva l’onda più alta, il socialdemocratico d’altri tempi che ha governato Amburgo come borgomastro dalla mano sicura ma che oggi riesce a far approvare all’esecutivo un nuovo piano per la lotta climatica, mettendosi in scena come l’uomo in grado di coniugare «senso di responsabilità» e impegno ambientale in barba ai Verdi. Hai voglia a gridare al rischio di un pericoloso scivolamento della Germania a sinistra, come fa sgolandosi Laschet, il quale, tra un inciampo e l’altro, evoca lo spettro di un governo rosso-rosso-verde (Spd più Verdi e Linke) a cui credono in pochi. Di contro, senza battere ciglio, fino ad oggi la strategia del sessantatreenne Scholz è stata soprattutto quella di «non fare errori» (quelli dei suoi antagonisti), puntando tutto sulla sua solidità di esperto uomo di governo. In più, è stato in qualche modo capace di far dimenticare all’elettorato che la base del partito nella corsa alla sua leadership gli preferì la coppia massimalista formata da Norbert Walter-Borjans e Saskia Esken (oggi opportunamente defilata). Infine, se prevale un voto «contro Laschet» questo favorisce la Spd piuttosto che i Verdi, per la semplice ragione che oggi è nel campo socialdemocratico che sembrano concentrarsi le maggiori possibilità di battere il candidato della Cdu/Csu. Ovviamente il mese che ci separa dal voto è un’immensità in politica. Tanto che il guru dei sondaggisti tedeschi, il capo dell’istituto Forsa Manfred Guellner, non manca di allertare gli entusiasti socialdemocratici: «Molti voterebbero volentieri Scholz, ma all’ultimo tuffo finiranno per non farlo, perché non hanno gran stima della Spd, che gli rimane attaccata ai piedi». E qui pesa proprio l’esperienza nella Grosse Koalition dell’infinita traversata merkeliana: non c’è esponente socialdemocratico che non ammetta che i nipotini di Brandt hanno sempre avuto immense difficoltà ad intestarsene i meriti (quelli vanno tutti alla cancelliera), incassandone invece sistematicamente i demeriti. Dunque l’appuntamento è con la grande partita che si aprirà dopo il 26 settembre: con la cabala dei numeri che rende possibili ben quattro diverse coalizioni, se dalle urne uscirà una Cdu/Csu debole, con la Spd e i Verdi a pochi punti di distanza, sarà molto forte, dopo sedici anni di merkelismo, la tentazione di formare un governo che escluda del tutto l’unione conservatrice, complice l’apporto dei liberali dell’Fdp. Quando glielo fai notare, ai socialdemocratici risorti sull’onda dell’improvvisa «onda Scholz», gli brillano gli occhi, mentre in casa Cdu/Csu si mettono le mani nei capelli. «La casa brucia!», titola terrorizzata la Bild di fronte allo scivolamento del blocco conservatore. L’inaspettata rinascita di Scholz «ha tre motivi», scrive Ines Schwerdtner sul settimanale “Der Freitag” in un pezzo titolato “Il terzo che ride”: da una parte è una «forma di autosuggestione» che sta dando frutti, dall’altra il suo ruolo nella pandemia e la debolezza degli avversari. «Come ministro alle Finanze, con i pacchetti di salvataggio, è riuscito a modificare l’immagine di freddo tecnocrate a favore di quella dell’uomo capace di governare le crisi, idem dopo le inondazioni in Renania. Il messaggio che l’Spd intende trasmettere agli elettori: solo Scholz è il degno erede del merkelismo». Un paradosso? Forse no, in questi tempi di politica ibrida. O, se non altro, è quel che fa intendere lo stesso Olaf, con le mani giunte a triangolo rovesciato in onore di Angela Merkel, tutt’oggi la più amata dei politici tedeschi. 

Amedeo Ardenza per “Libero quotidiano” il 31 luglio 2021. Di lui si sa che è il premier regionale del più popoloso Land tedesco, che è un uomo di fiducia della cancelliera uscente Angela Merkel e che sta diventando un esperto in scuse pubbliche. Venerdì Armin Laschet, il candidato cancelliere del partito cristiano democratico tedesco (Cdu) si è scusato per aver inserito nel suo libro pubblicato nel lontano 2009 Die Aufsteigerrepublik. Zuwanderung als Chance (La Repubblica in ripresa: l'immigrazione come opportunità) parti di un testo redatto da un esperto di politiche ambientali. Laschet si è fatto cogliere con le mani nella marmellata da Martin Heidingsfelder, incallito cacciatore di plagiari tedeschi, già responsabile nel 2011 delle dimissioni dell'allora ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, trovato colpevole di aver scopiazzato la propria tesi di dottorato. Lo scorso maggio la stessa accusa ha colpito l'allora ministra della Famiglia Franziska Giffey che ha lasciato subito il governo ma spera nel frattempo di diventare la prossima sindaca di Berlino.  «Ci sono chiaramente degli errori dei quali mi assumo la responsabilità», ha scritto Laschet su Twitter aggiungendo le proprie scuse e la promessa di fra ripubblicare il libro con le citazioni al posto giusto. Se ha fatto bene a chiedere perdono, Laschet deve stare attento a non abusare della pazienza dei tedeschi. Solo lo scorso 17 luglio il premier renano si è scusato dopo essere stato inquadrato dalle telecamere a ridere durante il discorso pronunciato dal capo dello Stato, Frank-Walter Steinmeier a Erfstadt, una delle tante cittadine devastate dall'alluvione che lo scorso 15 luglio ha messo in ginocchio tre Länder occidentali. Le gaffe in serie non giovano alla popolarità: a Laschet va solo bene che la sua antagonista verde, Annalena Baerbock, è peggio di lui e nelle ultime settimane ha collezionato una serie di figuracce fra le quali l'aver abbondantemente attinto ad altri testi nella stesura del suo libro-programma Jetzt (Adesso). Nella fretta anche Baerbock ha "dimenticato" di citare le fonti. Anche lei si è scusata.

Daniel Mosseri per “il Giornale” il 31 luglio 2021. Siamo sicuri che per succedere ad Angela Merkel i partiti tedeschi abbiano messo in campi i migliori contendenti, i leader più esperti, le personalità più carismatiche? Da quando è iniziata lo scorso 20 aprile con la scesa in campo di Armin Laschet quale candidato della Cdu, la campagna elettorale è stata tutta una sfilata di figuracce e passi falsi trasversali. L'ultimo in ordine di tempo è attribuito proprio a Laschet, che è anche presidente del partito e del Land Nord Reno-Vestfalia. Il blogger Martin Heidingsfelder, meglio noto in Germania come il cacciatore dei plagiari, gli ha contestato di aver copiato alcuni passaggi del suo libro «Die Aufsteigerrepublik. Zuwanderung als Chance». («La Repubblica in ascesa: l'immigrazione come opportunità») dal testo di un esperto di politiche ambientali. Laschet non ha battuto ciglio: il libro «contiene chiaramente degli errori di cui sono responsabile», ha twittato. «Vorrei scusarmi perché la cura dei testi e l'osservanza dei diritti d'autore sono per me una questione di rispetto». Laschet ha poi promesso una revisione del libro pubblicato dodici anni fa. Forse non voleva essere da meno di Annalena Baerbock, la candidata cancelliera dei Verdi. Anche lei poche settimane fa è stata accusata di aver scopiazzato parti abbondanti del suo libro-programma «Jetzt. Wie wie unser Land ernuern» («Adesso. Come rinnoviamo il nostro paese») e anche lei, fra le scuse, ha promesso una riedizione più attenta del saggio. L'editoria, insomma, non è il forte dei candidati cancellieri, non certo di Laschet che per quello stesso testo si fece accusare già anni fa di averlo fatto scrivere ai propri collaboratori e poi di avere fatto «confusione» scaricando, da privato, la ricevuta della donazione dei proventi del libro fatta da ministro. Niente di troppo grave. Anche Baerbock ha commesso qualche erroruccio in passato dichiarando in ritardo i proventi di un pagamento ricevuto dal partito. Acqua passata.  In queste ore Annalena fa notizia perché, andando in televisione a parlare di antisemitismo e del razzismo contro i neri ha pronunciato, pur condannandone l'uso che ne era stato fatto in una scuola, la N-Wort, parola tabù tanto negli Stati Uniti quanto in Germania. «Purtroppo, nella registrazione dell'intervista, mentre descrivevo con emozione questo incidente indegno, ho citato la parola N». Forse a sua volta Annalena rincorreva Armin che giorni prima si era fatto cogliere dalle telecamere mentre ridacchiava durante l'intervento del presidente federale Frank-Walter Steinmeier in uno dei villaggi distrutti dall'alluvione che ha devastato due Länder occidentali fra il 15 e il 17 luglio. Anche qua seguirono le scuse. L'unico che potrebbe approfittare delle gaffe di Laschet e Baerbock è il candidato socialdemocratico e vicecancelliere uscente Olaf Scholz: oggi è lui il politico più gradito ai tedeschi ma purtroppo per lui l'elezione diretta del cancelliere non è prevista mentre la sua Spd arranca dopo Cdu e Verdi. Alcuni però cominciano a spazientirsi: soprattutto i cristiano sociali bavaresi (Csu), il cui leader e governatore della Baviera, Markus Söder, la scorsa primavera dovette cedere il passo al premier renano e abbandonare il sogno di diventare cancelliere. Evitando polemiche personali, la Csu in queste ore ha suonato l'allarme: se la Cdu non farà bene alle elezioni (e con Laschet non schioda da settimane dal 28%, un minimo storico), rischiamo di trovarci all'opposizione. Il candidato cancelliere è avvisato. 

Dal Corriere.it il 18 luglio 2021. Bufera sul candidato per la Cdu alla successione della cancelliera tedesca Angela Merkel, il governatore del Nord Reno-Vestafalia Armin Laschet. Durante il discorso tenuto dal presidente Frank-Walter Steinmeier a Erftstadt, una delle più colpite dalle alluvioni che hanno causato oltre 160 morti in Germania, lo si vede ridere e scherzare con alcuni politici locali: proprio mentre Steinmeier parla, con il volto serio, del disastro che ha colpito il Paese. Il video è diventato subito virale e ha scatenato rabbia e polemiche: molti hanno criticato il cinismo dell’uomo politico, tanti lo hanno dichiarato inadatto a un compito così prestigioso come la successione della Merkel. Laschet è stato costretto a scusarsi: «Mi sono comportato in modo inappropriato, sono desolato». Per Laschet non si tratta della prima gaffe: due giorni fa ha chiamato «ragazza» una giornalista che lo stava intervistando sulla tv locale WDR. I cristiano democratici restano comunque in testa nei sondaggi per le elezioni del 26 settembre.

Giampaolo Cadalanu per Repubblica il 18 luglio 2021. Fra la disperazione di chi ha perso i suoi cari e le lacrime di chi rimane senza casa dopo le inondazioni nell’ovest della Germania, c’è lo spazio per una riflessione cinica: che succederà alle elezioni di settembre? Il tema dei cambiamenti climatici è da sempre il cavallo di battaglia dei Grünen. Ma il partito ecologista attraversa un momento delicatissimo, con Annalena Baerbock, co-presidente e candidata alla Cancelleria, al centro delle polemiche per la presunta copiatura di parti del suo libro “Jetzt”, “Adesso”. Le precipitazioni eccezionali che hanno sconvolto NordReno-Westfalia e Renania-Palatinato, più che una conferma degli allarmi ecologisti, potrebbero sembrare quasi un regalo della sorte per i Verdi. Ma sarebbe un regalo elettorale maledetto, perché il maltempo ha preteso vite umane e ha causato danni immensi. E nella sede di Platz vor dem Neuen Tor hanno capito subito che il rischio era altissimo: l’idea di una strumentalizzazione avrebbe spazzato via ogni speranza per il partito. Così l’ordine di scuderia era chiaro, guai a chi si azzarda a dire: «Noi l’avevamo previsto». Robert Habeck, il filosofo che guida il partito assieme ad Annalena Baerbock e vanta un’esperienza da ministro dell’Ambiente nello Schleswig-Holstein, ha scelto di non avvicinarsi nemmeno alle zone colpite. «So per esperienza diretta che i politici in visita, quando non sono specialisti, danno solo fastidio ai soccorritori», ha detto Habeck. La Baerbock ha voluto vedere da sé i danni, ma senza pubblicizzare il viaggio e senza portare giornalisti al seguito, limitandosi a twittare che i suoi pensieri erano «con la gente che ha perso la casa». Konstantin von Notz, membro del Bundestag, si è lasciato scappare un tweet polemico, per poi cancellarlo subito. E anche la capogruppo Katrin Göring-Eckardt, dopo aver definito la catastrofe «una chiamata al realismo», è tornata al silenzio. Non è ancora il momento di incassare il credito politico conquistato in decenni di campagne contro il riscaldamento globale: verrà più avanti, suggerisce la stampa tedesca. Ma se le inondazioni in Renania potranno influire nel voto, per ora non è semplice valutare quanto e come. In realtà paradossalmente la coscienza ecologica è così radicata in Germania che potrebbe persino non costituire un vantaggio per i Verdi alle urne, perché il tema del clima non è più loro esclusiva. Lo dimostrano le dichiarazioni di Angela Merkel e del ministro per gli Interni Horst Seehofer, considerati poco entusiasti sui problemi ambientali ma ora favorevoli a interventi rapidi. Lo dimostra la decisione con cui Armin Laschet, candidato alla Cancelleria per la Cdu e ministro-presidente del NordReno-Westfalia, ha subito attribuito il disastro al clima reso folle dall’uomo. Laschet in realtà doveva rimediare alla goffaggine con cui aveva risposto sul tema in un’intervista in tv. «Non si cambia la politica per una giornata come questa», aveva detto: una frase che sicuramente lo perseguiterà nei giorni a venire, scrive Der Spiegel. Ma le gaffe del candidato cristiano-democratico sono proseguite: ieri Laschet è stato immortalato in un video mentre rideva e scherzava spensierato a Erftstadt, città colpita dal disastro, mentre il capo dello Stato parlava delle vittime dell’alluvione. Il filmato è stato diffuso online, suscitando polemiche violente. Eppure Laschet non è un politico inesperto, che sottovaluta il valore delle immagini. Nei giorni scorsi, visitando le zone delle inondazioni, indossava stivali di gomma. In Germania tutti ricordano la campagna elettorale del 2002, quando il ciclone Jeanett aveva colpito la parte est della Repubblica federale, uccidendo 12 persone. Allora Gerhard Schroeder aveva strappato la conferma alla Cancelleria presentandosi in stivali di gomma davanti alle tv e comparendo «alla guida» delle operazioni di soccorso. Conscio dell’effetto che avrebbe fatto l’accusa di approfittare della tragedia recitando lo stesso copione vincente di allora, davanti alle telecamere il candidato cristiano-democratico è tornato ai mocassini.

Andrea M. Jarach per ilfattoquotidiano.it il 21 giugno 2021. Lituania, 30 aprile. In un albergo di Rukla è in corso una festa con fiumi di alcol tra i soldati tedeschi. I militari – che prendono parte all’operazione “Enhanced Forward Presence” per la difesa del fianco orientale della Nato dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca – si lasciano andare a cori antisemiti e neonazisti, oltre che a bizzarri giochi a sfondo sessuale tra commilitoni. Non è un solo episodio: intonano una serenata per il compleanno di Hitler, ci sono insulti dei superiori a sottoposti che vengono apostrofati come “ebrei e traditori”. Vengono a mancare 569 munizioni. Il party finisce in una denuncia datata 8 giugno e ora Berlino ha deciso di ritirare un intero gruppo di fanteria d’appoggio ai mezzi corrazzati, circa 30 persone, richiamandole a Munster. Per i soldati sono all’orizzonte conseguenze penali, oltre che dimissioni immediate. Per il Ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer “la condotta non dignitosa di alcuni soldati in Lituania è uno schiaffo in faccia di tutti i militari che giorno per giorno prestano servizio per la sicurezza del Paese”. Ursula von der Leyen, che l’ha preceduta nello stesso ruolo prima di diventare presidente della Commissione europea, aveva dovuto affrontare la persistenza di una cultura legata all’esaltazione del passato in seno all’esercito. Durante il suo mandato sono state sequestrate collezioni di memorabilia nazionalsocialiste, ridotte le raccolte di canti tradizionali delle forze armate e rinominate diverse caserme. Il giro di vite era stato provocato dall’arresto del tenente Franco Albrecht, che è ora sotto processo a Francoforte: si faceva passare per rifugiato siriano con l’intento di commettere un attentato e farne cadere la responsabilità su richiedenti asilo. Le stesse forze di élite di pronto intervento dell’esercito, le KSK, hanno rischiato lo scioglimento per la sistematica sottrazione di munizioni, la concessione di contratti ad ex camerati senza rispetto delle procedure e le indulgenze per idee di estrema destra. Markus Kreitmayr, per aver concesso un’amnistia incondizionata ai soldati dopo la riconsegna di 46mila munizioni circa e due bombe a mano rubate, è stato sostituito dal colonnello di artiglieria Georg Klein, che si è distinto in Afghanistan. Prima ancora del recupero di armi, migliaia di munizioni ed esplosivo interrati nella proprietà del tenente colonnello 46enne delle KSK Philipp Sch. -poi espulso e condannato a Lipsia a due anni con la condizionale- aveva determinato comunque lo smantellamento della seconda compagnia del Kommando Spezialkräfte. Era stato trovato anche in possesso di cartoline, adesivi e riviste con motivi ispirati al Terzo Reich, fascicoli con testi di canzoni delle SS, e molte magliette della marca Thor Steinar, prediletta dai gruppi neonazisti. Già un altro ex soldato delle KSK, André Schmitt, nome in codice Hannibal, venne condannato per detenzione illegale di armi ed esplosivo; era tra i promotori dell’associazione Uniter e. V. finita nel mirino dei servizi di sicurezza nazionali del Verfassungschutz per attività nell’ambito dei training paramilitari. Uniter, che dovette spostare nel 2020 la propria sede in Svizzera, ha presentato recentemente ricorso al tribunale amministrativo di Colonia. Anche Franco Albrecht aveva un emblema di Uniter. Pure tra le forze di polizia ci sono stati problemi: lettere minatorie con la sigla NSU 2.0 con dati tratti da computer del primo distretto di Francoforte (dopo tre anni per 115 intimidazioni a 32 persone e 60 istituzioni è stato però arrestato un pregiudicato cinquantatreenne di Berlino); chat antisemite e razziste tra una cinquantina di agenti in servizio che hanno portato allo scioglimento della squadra di pronto intervento della polizia di Francoforte; persino poliziotti con simpatie nei Reichsbürger, il movimento che rifiuta la legittimità dello Stato. 

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2021. Doveva essere una cerimonia d'incoronazione. Doveva essere l'evento che consacrava Annalena Baerbock come regina dei Grünen e prima candidata ufficiale alla cancelleria nella storia del partito ambientalista tedesco. Doveva essere il botto d'inizio di una campagna elettorale, che per la prima volta in oltre quarant' anni vede i Verdi ambire credibilmente alla guida del Paese. Lo è stato, ma solo in parte. Il congresso che si chiude oggi a Berlino ha cercato piuttosto di limitare i danni di un avvio disastroso della corsa verso il voto del 26 settembre, rimettendo sui binari il treno ecologista. Un esordio segnato da incredibili errori, quasi tutti autoinflitti, di Baerbock, nonché dall'eterno richiamo della foresta, che vuole l'ala fondamentalista del partito (questa volta ringalluzzita dai giovani di Fridays for Future ) avanzare richieste massimaliste il cui effetto principale è spaventare gli elettori centristi, oggetto del desiderio del nuovo corso del partito. Va subito detto che nonostante il calo nei sondaggi registrato nelle ultime settimane, le prospettive dei Grünen rimangono promettenti. Non sono più davanti alla Cdu-Csu, com' era accaduto in maggio dopo la nomina di Baerbock a Kanzlerkandidatin , ma restano pur sempre intorno al 22% delle intenzioni di voto, contro l'8,9% delle elezioni del 2017 e con un ritardo di appena 6 punti rispetto ai conservatori. In questo senso ha ragione il co-presidente Robert Habeck, che aprendo il congresso ha definito quella in corso «la campagna elettorale della nostra vita». L'opinione prevalente di analisti e commentatori è che, comunque andrà a finire in autunno, i Grünen saranno parte della prossima coalizione di governo. Ma i dolori della giovane Baerbock, passata in un solo mese da un'approvazione del 60% a meno del 30%, rimangono. E obbligano lei e il partito a un cambio di marcia. Com' è stato possibile un simile crollo? Un misto di dilettantismo, sciatteria, vanità, sottovalutazione della sfida e, non ultimo, misoginia ha prodotto la miscela esplosiva. Prima sono stati i bonus (legittimi e correttamente denunciati al fisco) pagati dal partito a Baerbock ma comunicati in ritardo al Bundestag, come prevede il regolamento sulla trasparenza degli introiti dei deputati. Poi sono venuti gli abbellimenti o le imprecisioni scoperte nel curriculum della giovane candidata, che per esempio si è definita membro del German Marshall Fund quando invece ne è stata solo una borsista. «Sono stata sciatta», ha detto Baerbock, ammettendo gli errori e scusandosi. Troppo tardi, tuttavia, per impedire le critiche dei media tradizionali e degli avversari, ma soprattutto la canea dei social network, dove comunque già prima che emergessero le gaffe, Baerbock era stata oggetto di calunnie, tweet sessisti e fake news. Gli errori non sono stati soltanto suoi. Anche Habeck, il filosofo prestato alla politica, ha creato confusione proponendo durante una visita in Ucraina, di fornire «armi difensive» a Kiev, in contrasto con la linea ufficiale del partito, salvo poi doversi rimangiare tutto. I Verdi vogliono però ora «guardare avanti e lottare». Confermata con il sostegno di 678 delegati su 688, un'impressionante dimostrazione di unità pari al 98.5% dei voti, Baerbock ha subito cercato di rilanciare la propria immagine con un discorso combattivo e appassionato. «La nuova economia sociale di mercato dovrà essere anche ecologica», ha detto, lanciando la proposta di un «patto con l'industria tedesca», in base al quale «lo Stato rimborserà tutti i costi aggiuntivi che le aziende dovranno sostenere per rendere le proprie produzioni climaticamente neutrali». Baerbock ha anche detto che con i Grünen al governo, la chiusura delle centrali a carbone dovrà avvenire «in tempi molto più rapidi di quelli programmati finora». Il Congresso affronta anche la sfida dei fondamentalisti, che hanno proposto una valanga di emendamenti al programma elettorale. Volevano per esempio aumentare la tassa sulle emissioni di CO2 da 60 a 80 euro la tonnellata entro il 2023. La proposta è stata respinta. Un'altra richiesta è l'aumento al 48% (il programma prevede 45%) dell'aliquota massima sui redditi delle persone fisiche superiori a 100 mila euro

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 5 giugno 2021. C' è una sottotrama nella storia dell'Unione europea e di questi ultimi turbolenti dieci anni che potrebbe essere scritta raccontando il rapporto franco ma ruvido tra Mario Draghi e Wolfgang Schäuble. Negli stereotipi che facilmente inghiottono le sfumature è stato narrato come lo scontro tra la severità tedesca a guardia dell'austerity e la creatività italiana che deve trovare soluzioni fantasiose per sostenere il suo storico ed enorme debito pubblico. Oggi la sfida si ripropone con ruoli ed esiti diversi. Perché, come fanno notare fonti di Palazzo Chigi, è dentro lo stesso dibattito in Germania che vengono partorite voci contrarie alle posizioni del falco che oggi siede alla presidenza del Bundestag. Senza troppo girarci intorno, Schäuble, in un editoriale sul «Financial Times», chiede a Draghi di impegnarsi per far tornare l'Unione «a una normalità fiscale e monetaria» e per evitare «una pandemia del debito». Il tedesco, anima rigorista del partito di governo Cdu, interpreta le paure dell'Europa del Nord rispetto all' allentamento dei vincoli di bilancio scaturito dalla lotta al Covid. Ricorda i lunghi confronti con Draghi, quando uno era ministro delle Finanze in Germania (sempre di un governo di Angela Merkel, ovviamente) e l'altro presidente della Banca centrale europea, di base a Francoforte. I Paesi liberi di spendere tendono a cadere nella tentazione di incorrere in debiti, sostiene: «Ho discusso di questo azzardo morale in molte occasioni con Draghi. E siamo sempre stati d'accordo sul fatto che, data la struttura dell'unione monetaria, le politiche di sostenibilità finanziaria sono responsabilità degli Stati membri. Sono certo che rispetterà questo principio come premier italiano. È importante per l'Italia e per l'Europa intera. Diversamente avremo bisogno di un'istituzione europea con il potere di imporre il rispetto degli obblighi scaturiti dalle regole». Ufficialmente Draghi non replica. Fonti a lui vicine giurano che l'attacco di Schäuble non è stato oggetto della telefonata avvenuta ieri con la cancelliera Merkel in preparazione del G7 di Cornovaglia e del Consiglio europeo. Da Palazzo Chigi invitano a inquadrare l'iniziativa in un quadro interno alla campagna elettorale tedesca che si avvia verso le prime elezioni senza Merkel, rimandando anche a una risposta del quotidiano «Süddeutsche Zeitung». La difesa di Draghi, a firma della nota giornalista Cerstin Gammelin, è totale, anche sprezzante verso Schaeuble: «Ha appeso il titolo di convinto europeista nel guardaroba della campagna elettorale. Non si può spiegare diversamente che il presidente del Bundestag tedesco minacci il premier italiano Draghi apertamente su un giornale internazionale sul fatto che se non riporta il Paese presto sui binari del risparmio Bruxelles dovrebbe costringerlo». E ancora: «È enorme il danno che lo smaliziato politico della Cdu provoca con queste dichiarazioni motivate dalla politica interna. Si è appena instaurata di nuovo qualcosa che somiglia ad una fiducia nell' Ue grazie al Recovery Fund. Draghi come premier a Roma è una fortuna. Che nelle sue valutazioni elettorali Schäuble metta questo in discussione è irresponsabile». Ne è passato di tempo da quando i giornali tedeschi, ma erano altri, soffiavano sulla sfiducia dell'opinione pubblica nei confronti dell'Italia. Schäuble si è rifatto sotto come ai tempi in cui duellava con Draghi a un passo dal default in Grecia e durante la crisi dell'euro. Il primo - da ministro delle Finanze- l'incarnazione dello spirito dell'austerity, il secondo invece si guadagnò il soprannome di «Draghila» in prima pagina sulla «Bild» per la politica monetaria espansiva della Bce, quando caricò il bazooka del Quantitaive easing. Era solo questione di tempo perché lo scontro si riproponesse alla vigilia di un lungo dibattito sul dopo-pandemia quando l'Europa dovrà decidere che fare del Patto di Stabilità ancora sospeso causa Covid. Un dibattito che si intreccia alle complicate elezioni tedesche di settembre e che rende incerto il cammino dei cristianodemocratici, incerti se restare in competizione con i duri dell'ultradestra che tallonano la Cdu (proprio Schäuble nel 2016 disse che la politica monetaria di Draghi stava facendo un enorme favore ai nazionalisti di Afd) o se affidarsi all' idea di una nuova Europa costruita sul germe del fondo Next Generation Ue.

Giovanni Longoni per “Libero quotidiano” il 2 giugno 2021. Gerhard Schröder è famoso per quattro cose: essere stato l'ultimo socialdemocratico a rivestire la carica di cancelliere tedesco (e rischia di detenere a lungo il primato), aver varato una riforma del mercato del lavoro molto apprezzata dalla Confindustria teutonica (cosa che spiega in parte il punto precedente), essere in seguito diventato la ben remunerata voce di Putin in Europa e aver avuto cinque mogli. La vita coniugale movimentata del 77enne politico di Blomberg, in Renania, ha conosciuto ieri probabilmente il suo apogeo, quando un tribunale di Seul ha stabilito che il predecessore della Merkel dovrà versare un risarcimento pari a circa 30 milioni di won, poco più di 22mila euro, all' ex marito della sua quinta moglie, Soyeon Schröder-Kim. A riportarlo è stato il quotidiano Korean Times, citando l'agenzia di stampa Yonhap. La decisione è arrivata giovedì: il querelante, che non viene citato per nome ma si sa essere un affermato chirurgo estetico, ha accusato l'ex cancelliere federale di essere responsabile del fallimento del suo matrimonio per aver iniziato una relazione con Soyeon quando lei era ancora sposata con lui. L' uomo aveva intentato la causa nel 2018, chiedendo 100 milioni di won di risarcimento. Tuttavia la ex moglie aveva contestato questa ricostruzione sostenendo invece che il suo precedente matrimonio era già finito e che Gerhard non aveva avuto alcun ruolo in questa rottura.

MULTA PER CORNA. A un lettore occidentale la sentenza in questione non può che apparire bizzarra anche solo perché in fin dei conti a rompere il contratto di matrimonio è stata Soyeon. E che ci sia una multa per chi ti mette le corna è ancora più strano (anche se non sappiamo dire quanto sarebbe impopolare). Può aiutare a comprendere la ratio della decisione del giudice tenere presente che la Corea del Sud è ancora un Paese più conservatore della media europea e le relazioni extraconiugali erano un reato fino solamente al 2015 quando le infedeltà potevano essere punite con la reclusione. E sono ancora oggi causa di numerose azioni civili. Per sua fortuna, Gerhard non vive in Corea, altrimenti rischiava il prosciugamento dei conti bancari per l'esuberanza della sua vita sentimentale (è stato soprannominato il Signore degli anelli data la disinvoltura con cui convola a nozze e poi ci ripensa). Ecco la lista delle donne che ha portato all' altare e da cui poi ha divorziato: Eva Schubache, Anne Taschenmacher, Hiltrud Hampel, Doris Köpf. Nel 2018 è arrivata Soyeon Kim, economista di formazione e interprete di mestiere. Lei ha 53 anni, lui 77. Tra le donne di Gehrard i rapporti sono tesi. L' attuale moglie ha attaccato di recente su Instagram la precedente, Doris (57 anni, giornalista e politica Spd). Motivo del contendere, una statua che la bionda ex voleva fosse spostata da un'area comune dell'immobile in cui Doris ha lo studio e la coppia Schröder un appartamento. Soyeon ha preso male la richiesta di spostamento perché il manufatto rappresenta una "comfort woman", una delle donne coreane costrette a prostituirsi ai soldati giapponesi durante l'occupazione da parte del Paese del Sol Levante. Un simbolo delle sofferenze delle donne coreane. Ma, statua a parte, la stampa tedesca sostiene che le due donne si facciano la guerra dal 2018.

RUSSIA E FISCO. Dopo le donne l' altra passione di Gerhard sono i russi (con Doris aveva anche adottato due bambini di San Pietroburgo). È ben noto il fatto che Gazprom, l'azienda energetica controllata dal Cremlino, lo ha messo a capo del consorzio North Stream AG, che ha realizzato il gasdotto nel Baltico fra Russia e Germania e che ora si tenta di raddoppiare. E Schröder si guadagna il pane con grande impegno: ad esempio ha difeso la posizione russa sui rapporti con gli Stati ex sovietici, sul Kosovo e sulla Crimea. Anche se Gerhard difficilmente si può definire "sovranista", e lo si capisce fra l' altro dagli ottimi rapporti con Nicolas Berggruen, miliardario col pallino della scienza politica e amico di Mario Monti. Schröder è anche finito nella lista dei paperoni col conto off shore. Non si sa se il Fisco tedesco si sia mosso contro di lui, ma è certo che i 22mila euro per Soyeon sono quelli meglio spesi della sua vita.

Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica - Affari & Finanza” l'1 giugno 2021. Da settimane in Germania si dibatte ferocemente sul termine "globalismo", ossia da quando un candidato dell'ala destra della Cdu, l'ex capo dei servizi segreti interni Hans-Georg Maassen, l'ha utilizzato pubblicamente, spesso associandolo a un'altra espressione dall'origine discutibile, "great reset". La leader tedesca dei Fridays for Future, Lisa Neubauer, gli ha ricordato qualcosa che nessuno, in Italia, ricorda mai neanche a Giorgia Meloni, che utilizza il termine "globalismo" in modo piuttosto disinvolto. "Globalismo" è un termine usato dall'estrema destra internazionale per descrivere un presunto complotto internazionale ordito da fantomatiche elites per soppiantare l'ordine costituito. È la teoria, appunto, del "great reset". E dietro questa oscura trama ci sarebbero, ovviamente, gli ebrei.  La leggenda nera degli ebrei avidi e disonesti che controllerebbero il commercio e la finanza, che sfrutterebbero le loro abilità per moltiplicare soldi, ampliare il loro potere e controllare il globo, è antichissima, e riemerge in ogni epoca come un velenoso fiume carsico senza che la storia riesca mai a inghiottirla per sempre. «Se ci pungete non versiamo sangue, forse?», si infuriava Shylock nel Mercante di Venezia di William Shakespeare, evidenziando un dualismo dannoso che ha accompagnato l'Europa per due millenni, il "noi" dei cristiani" e il "loro" degli ebrei, e che continua a minare i rapporti tra due culture inscindibili che hanno formato l'Europa. Non a caso Angela Merkel parla sempre delle inseparabili "radici giudaico-cristiane" dell'Europa. Una straordinaria mostra sulla mania del risparmio tedesca, "Sparen", organizzata dal Museo della Storia tedesca di Berlino ha tuttavia messo in evidenza di recente che il dualismo "risparmio tedesco"/"debito ebreo" si era già consolidato nell'Ottocento nelle teste dei tedeschi, prima di essere sfruttato con ferocia dai nazisti per rilanciare le tesi su complotti giudaico- massonici globali. Tesi che hanno contribuito ad alimentare, durante il Reich hitleriano, lo sterminio. È proprio dal "noi" e "loro" che due economisti tedeschi sono partiti per uno studio interessante quanto inquietante. Nelle loro scelte finanziarie - hanno scoperto Raphael Max (Technische Universitaet, Monaco) e Matthias Uhl (Technische Hochschule, Ingolstadt) - i tedeschi sono influenzati tuttora da pregiudizi antisemiti. In un paper appena pubblicato, "The downside of moralizing financial markets: Anti-Semitic stereotypes in German MTurkers", i due studiosi dimostrano che se un investimento viene proposto da qualcuno con un cognome ebreo, è considerato più immorale che se viene suggerito da qualcuno con un cognome che suoni cristiano. Se una proposta di investimento arriva da Noah Blumberg, è guardato con maggiore sospetto che se viene da Peter Schmidt, Alessandro Russo o Andrew Smith (per evitare di confondere antisemitismo e razzismo, gli autori hanno condotto l'esperimento anche con cognomi britannici e italiani, continuando a registrare un pregiudizio negativo solo verso quelli ebraici). «Abbiamo scoperto - si legge nel paper - che giovani investitori tedeschi di MTurkers con posizioni politiche centriste mostrano un comportamento che rivela stereotipi antisemiti. È molto più probabile che giudichino lo stesso investimento come immorale se il cognome è percepito come ebraico. E il meccanismo che scatena questo stereotipo dovrebbe indurci a considerare il giudizio morale sugli investitori con prudenza». Peraltro, per chi segue da vicino le cronache della finanza tedesca, i risultati non dovrebbero sorprendere più di tanto. Un rapporto dell'Autorità di vigilanza Bafin sullo scandalo finanziario del secolo, quello della startup bavarese dai bilanci sistematicamente falsificati, Wirecard, sottolineò come fosse «impressionante » che molte vendite allo scoperto sul titolo venissero da Israele. Impressionante, ovvio, è solo il fatto che l'Autorità di vigilanza tedesca abbia sentito il bisogno di metterlo in evidenza. Uno degli autori del saggio, Raphael Max, ci spiega via mail che «la moralizzazione in assenza di una teoria chiara etica su cos'è un investimento anti etico può scatenare una logica da branco. Mentre la morale può indurre a una maggiore coerenza all'interno di un gruppo (ad esempio migliorando la collaborazione), può anche acuire il conflitto con un gruppo esterno». Peraltro l'economista di Monaco è convinto che non sia un fenomeno specificamente tedesco: «è altamente probabile» che il pregiudizio antisemita nella finanza «possa venire osservato anche in altri Paesi europei». Un approfondimento che l'economista intende fare in un prossimo paper. C'è però, secondo lo studioso della Technische Universitaet, una tendenza più accentuata in Germania a considerare l'economia attraverso le lenti dell'etica, come dimostra l'ossessione per "l'azzardo morale" o altre discussioni pubbliche degli ultimi anni sulle politiche monetarie della Bce e le traiettorie dei conti pubblici. «Mentre la discussione sulla lotta ai cambiamenti climatici è orientata in altri Paesi alla ricerca di una soluzione, in Germania ci si concentra maggiormente sulla responsabilità e sulla colpa dei singoli», argomenta Max. Un esempio clamoroso, sempre ispirato a cronache recenti, è il video "mia nonna è una scrofa dell'ambiente", cantato dal coro dei bambini dell'emittente pubblica Wdr che ha suscitato un'ondata di proteste. «È un fenomeno - dice Max - che Weber aveva voluto già mettere in evidenza nel 1919 con il suo saggio "La politica come professione", quando distingueva "l'etica del profitto" dall'"etica della responsabilità". Probabilmente è dovuto alla forte impronta kantiana dell'educazione etica in Germania". Mentre in Italia, conclude, «tendono a prevalere e ad avere un maggiore influsso le idee aristoteliche dell'etica della virtù».

(ANSA-AFP il 28 maggio 2021) La Germania per la prima volta ha riconosciuto oggi di aver commesso "un genocidio" contro le popolazioni degli Herero e dei Namas in Namibia durante l'era coloniale e donerà al Paese africano 1,1 miliardi di euro in aiuti allo sviluppo. "Qualificheremo ufficialmente questi eventi per quello che sono dalla prospettiva odierna: genocidio", ha detto in un comunicato il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas accogliendo con favore la conclusione di un "accordo" con la Namibia dopo più di cinque anni di difficili negoziati sugli eventi che hanno avuto luogo nel sudovest dell'Africa colonizzato dalla Germania tra il 1884 e il 1915. I coloni tedeschi hanno ucciso decine di migliaia di Hereros e Namas durante i massacri commessi tra il 1904 e il 1908, considerato da molti storici il primo genocidio del ventesimo secolo. "Alla luce della responsabilità storica e morale della Germania, chiederemo perdono alla Namibia e ai discendenti delle vittime" per le "atrocità" commesse, ha proseguito il ministro. In un "gesto di riconoscimento delle immense sofferenze inflitte alle vittime", il Paese europeo sosterrà "ricostruzione e sviluppo" in Namibia attraverso un programma finanziario di 1,1 miliardi di euro, ha aggiunto. Precisa che non si tratta di un risarcimento su base giuridica e che tale riconoscimento non apre la strada ad alcuna "richiesta legale di risarcimento". Tale somma verrà corrisposta nell'arco di 30 anni, secondo fonti vicine alle trattative, e dovrà avvantaggiare in primo luogo i discendenti di queste due popolazioni.

Da ansa.it il 28 maggio 2021. "Vengo qui a riconoscere le nostre responsabilità" sul genocidio del 1994 in Ruanda: lo ha detto il presidente francese, Emmanuel Macron, durante il discorso al Memoriale del Genocidio a Kigali. Durante il suo intervento di circa 20 minuti al Memoriale di Kigali, Macron ha detto che la Francia "non si è resa complice" ma ha fatto "per troppo tempo prevalere il silenzio sull'esame della verità". Il viaggio di Macron in Ruanda punta ad essere la "tappa finale della normalizzazione delle relazioni" con la Francia, dopo oltre 25 anni di tensioni legate al ruolo svolto da Parigi in questa immane tragedia. "Questo percorso di riconoscimento, attraverso i nostri debiti, i nostri doni, ci offre la speranza di uscire da questa notte e di camminare nuovamente insieme. Su questo cammino - ha proseguito Macron - solo coloro che hanno attraversato la notte possono, forse, perdonare, farci il dono di perdonarci". Al Memoriale di Kigali, sono seppelliti i resti di oltre 250.000 delle circa 800.000 vittime del genocidio, essenzialmente Tutsi. In precedenza, Macron ha visitato il Museo della memoria, con cartelli pedagogici, video e testimonianze, ma anche vetrine con crani, ossa e abiti stracciati, deponendo una corona di fiori. Il discorso del presidente francese sulle responsabilità della Francia nel genocidio del 1994 in Ruanda è stato un atto di "immenso coraggio", che ha "più valore delle scuse". Lo ha detto il presidente ruandese Paul Kagame in una conferenza stampa congiunta a Kigali.

Genocidio in Namibia: la Germania affronta il suo passato coloniale. Il governo tedesco chiederà scusa, ammettendo la responsabilità morale ed etica delle atrocità commesse per lo sterminio di 70 mila persone. Amélie Baasner su L'Espresso il 28 maggio 2021. Fu genocidio. Tra il 1904 e il 1908 i militari tedeschi inviati in Namibia, allora colonia dell’impero tedesco, massacrarono 70.000 persone appartenenti alle due popolazioni indigene Herero e Nama. L’intenzione era quella di far sparire una nazione intera, secondo una concezione di sterminio piuttosto comune nella Germania di allora. La Germania e la Namibia hanno finalmente trovato un accordo sul passato coloniale. Il governo tedesco chiederà scusa, ammettendo la responsabilità morale ed etica delle atrocità commesse, parlando finalmente di genocidio. È un segno politico da lungo atteso dalle popolazioni namibiane. Le origini storiche riportano all’impresa coloniale che veniva giocata in Africa all’inizio del XX secolo. Quando la Germania ha fatto la sua comparsa (ritardata) sullo scenario, si è subito distinta per la precisione, l’efficienza e la ferocia. La Conferenza di Berlino voluta da Bismarck nel 1884 aveva sancito lo schema della divisione quasi matematica dell’Africa tra le colonie europee. La Namibia di oggi faceva parte delle colonie tedesche, della cosiddetta “zona di protezione” occupata dai commercianti tedeschi. Il casus belli che ha portato all’epurazione etnica è stata l’insurrezione degli Herero del 1904 contro i coloni tedeschi. Per mettere fine agli attacchi dove all’incirca 100 coloni erano stati uccisi, l’imperatore tedesco inviò Lothar von Trotha, un militare crudele che si era già fatto notare per le sue operazioni in Cina and nell’Africa orientale. Senza attendere la conferma del governo tedesco, von Trotha fece dello sterminio degli Herero una questione personale: “Penso che la nazione degli Herero debba essere sterminata”. Così, l’11 agosto del 1904, nei pressi del monte Waterberg, ebbe inizio il massacro contro gli Herero. La guerra fu condotta con metodi disumani: i soldati di von Trotha avvelenarono i pozzi e costrinsero la popolazione a rifugiarsi nel deserto Omaheke, dove i fuggitivi furono lasciati morire di sete. Il 2 ottobre del 1904 von Trotha emise un proclama contro gli Herero dichiarando: “Gli Herero non sono più sudditi tedeschi. Hanno commesso omicidi e rapine e […] adesso non vogliono più combattere. Ogni Herero all’interno dei confini tedeschi, armato o no, con bestie o no, sarà ucciso”. La notizia dei massacri impiegò del tempo prima di raggiungere la Germania. L’imperatore decise di sospendere le azioni del generale von Trotha, nonostante questi godesse di un relativo consenso sulla questione dello sterminio delle popolazioni indigene della Namibia. Von Trotha fu costretto a fermare il massacro; i sopravvissuti furono radunati in campi di concentramento. Dormivano in 30-50 per baracca, rinchiusi come animali. La metà dei prigionieri morì di fame, a causa delle fatiche dei lavori forzati, o per le terribili condizioni igieniche. In totale fu uccisa l’80% della popolazione Herero. I Nama entrarono in guerra nel 1904 nel tentativo di sostenere gli Herero. Adottarono una tattica di guerriglia armata alla quale i militari tedeschi reagirono bruciando le colture e chiudendoli all’interno di campi di concentramento dai quali quasi nessuno usciva vivo. Morirono così 20.000 Nama. La strategia militare dei tedeschi in Namibia e le pratiche adottate nei campi di concentramento sono spesso visti come esercizi di preparazione alle violenze e alle torture inflitte agli ebrei della Shoah. Oltre al lavoro forzato, infatti, anche in Namibia si effettuarono esperimenti “scientifici” con i quali il personale medico tedesco cercava di dimostrare la superiorità della razza tedesca. La cancelliera Merkel e il governo tedesco per anni hanno rifiutato di riconoscere il genocidio. Nel 1998 l’allora presidente della Repubblica Roman Herzog aveva parlato di eventi “non accettabili ma oramai del passato”. Anche Joschka Fischer, ministro degli affari esteri, è rimasto sulla stessa linea fino al 2003. Soltanto la ministra Heidemarie Wieczorek-Zeul (Spd), nel 2004, ha chiesto formalmente scusa per le atrocità commesse dai tedeschi, scuse che poi ha dovuto ritirare per motivi principalmente legati alle eventuali ripercussioni economiche. Il fatto che la Germania di oggi abbia deciso di parlare ufficialmente di genocidio e di sostenere i sopravvissuti con 1.1 miliardi di euro mostra la volontà di affrontare finalmente uno dei capitoli più bui del proprio passato.

Finanziati 1,1 miliardi di euro. La Germania ammette di essere colpevole del genocidio in Namibia. Elisabetta Panico su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Dopo più di un secolo, la Germania ha ammesso di essere stata colpevole del genocidio in Namibia. La colonia tedesca arrivò in Africa nel 1884 e ci restò fino al 1915 fino a quando non perse la colonia durante la prima guerra mondiale. Nel 1904 fino al 1908 i tedeschi uccisero almeno 60 mila Herero e circa 10 mila Namas in quanto le tribù si ribellarono al dominio di Berlino nella colonia, allora chiamata Africa sudoccidentale tedesca. Il generale tedesco Lothar von Trotha, arrivò in Africa per sedare la ribellione e cosi ordinò lo sterminio del popolo. I sopravvissuti furono esiliati nel deserto. Alcuni di loro finirono nei campi di concentramento come quello di Shark Island, per essere usati come schiavi. Molti altri invece morirono per il freddo, la malnutrizione e la stanchezza. “Questo ci richiede di essere senza riserve e risoluti nel nominare gli eventi del periodo coloniale tedesco in quella che oggi è la Namibia, e in particolare le atrocità del periodo dal 1904 al 1908. D’ora in poi chiameremo ufficialmente questi eventi come sono di prospettiva: un genocidio” ha detto in un comunicato ufficiale il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas che è arrivato alla conclusione di un accordo con il paese africano dopo ben cinque anni di negoziazioni. Il governo tedesco ha già riconosciuto la “responsabilità morale” per le uccisioni, ma Berlino ha evitato le scuse ufficiali per scongiurare richieste di risarcimento. “Alla luce della responsabilità storica e morale della Germania, chiederemo perdono alla Namibia e ai discendenti delle vittime per le atrocità commesse” – ha proseguito il ministro Maas. La Germania finanzierà un programma di ricostruzione e sviluppo in Namibia per un valore di 1,1 miliardi di euro, gesto fatto per il “riconoscimento delle immense sofferenze inflitte alle vittime”. Il progetto avrà una durata di 30 anni e dovrà come primo luogo essere d’aiuto a tutti i discendenti delle due tribù massacrate. Giovedì, il portavoce presidenziale namibiano Alfredo Hengari ha dichiarato a Reuters che una dichiarazione congiunta che delinea l’accordo è stata fatta da inviati speciali di entrambi i paesi il 15 maggio, alla fine del “nono round” di negoziati sulla questione. Hengari ha anche detto che erano previste scuse ufficiali dalla Germania, aggiungendo che “le modalità di implementazione possono iniziare solo dopo che il presidente ha parlato con le comunità colpite”. Il capo di Herero Paramount, Vekuii Rukoro, ha detto a Reuters che l’accordo riportato è stato un “svendita”. Rukoro, che ha fatto causa senza successo alla Germania per un risarcimento negli Stati Uniti, ha detto che l’accordo non era sufficiente per le due comunità, che avevano subito “danni irreversibili” per mano delle forze coloniali tedesche. “Abbiamo un problema con quel tipo di accordo, che riteniamo costituisca una completa svendita da parte del governo namibiano”, ha detto Rukoro. 

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia

In Germania si dimette la ministra della Spd: «Ha copiato la tesi». Paolo Valentino, corrispondente da Berlino, il 20/5/2021 su Il Corriere della Sera. Franziska Giffey, titolare del ministero della Famiglia, era l’astro nascente socialdemocratico. Per il partito è un altro colpo in vista delle elezioni federali. Grandina sulla socialdemocrazia tedesca. Come se non bastassero il crollo nei sondaggi, il vuoto programmatico e l’opacità del suo candidato alla cancelleria, Olaf Scholz, un’altra tegola si abbatte sulla Spd: sospettata di plagio nella redazione della sua tesi di dottorato, si è dimessa la ministra della Famiglia, Franziska Giffey, probabilmente il volto più nuovo e promettente del partito socialdemocratico. La carriera di Giffey tuttavia non finisce qui, poiché la ministra si è detta decisa a rimanere candidata della Spd alla carica di borgomastro di Berlino nelle elezioni del 26 settembre, la stessa data di quelle federali. «Ho accettato la decisione con rispetto e rimpianto», ha detto la cancelliera Angela Merkel, che ha ringraziato Giffey «per l’ottima collaborazione nel governo». L’incarico della dimissionaria è stato affidato ad interim alla ministra della Giustizia, Christine Lambrecht, anche lei socialdemocratica. L’affaire del Doktorarbeit è iniziato nel 2019, un anno dopo la nomina a ministra di Giffey, che si era fatta onore come borgomastro di Neukölln, uno dei quartieri più problematici di Berlino. La ministra venne accusata dalla piattaforma online VroniPlag Wiki di aver usato diverse citazioni senza attribuirle nella tesi sul funzionamento dell’Europa, che nel 2010 le era valso il dottorato in Scienze politiche della Libera Università di Berlino. Due prime verifiche interne si erano risolte con un’assoluzione piena di dubbi: l’ateneo l’aveva autorizzata a tenersi il titolo ma aveva espresso un rimprovero, tenendo in vita sospetti e richieste di dimissioni. Sperando di disinnescare la polemica, Giffey aveva detto che non avrebbe più anteposto Doktor al proprio nome. Ma ora stanno per essere rivelati i risultati di una terza verifica: «Negli ultimi giorni – ha detto Giffey – ci sono state nuove discussioni sulla mia tesi. Il governo, il mio partito e l’opinione pubblica hanno diritto alla chiarezza, per questo ho chiesto alla cancelliera di sollevarmi dalle mie mansioni. Confermo che ho scritto il mio lavoro in buona fede, al meglio della mia capacità e coscienza e mi dispiace se ho commesso degli errori». Quello del plagio nei lavori accademici sembra essere il karma della politica tedesca. Per la stessa ragione, in passato si sono infatti dimessi nel 2011 un ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg, considerato un potenziale delfino di Merkel, e nel 2013 laministra dell’Educazione e fedelissima della cancelliera, Annette Schavan. Un altro deputato della Cdu, Frank Steffel, si è visto togliere il titolo di dottore nel 2017: non si è dimesso ma ha annunciato il ritiro dalla politica a fine mandato. Nel 2015 VroniPlag Wiki aveva sollevato sospetti anche sull’allora ministra della Difesa e attuale presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ma una verifica della Facoltà di Medicina dell’Università di Hannover l’aveva assolta, nonostante «lacune evidenti» nell’attribuzione delle citazioni contenute nella sua tesi. Per la Spd quello di Giffey è un altro colpo in vista delle elezioni federali. Eppure, la popolarità dell’ex ministra a Berlino è tale che potrebbe non intaccare la sua ambizione di conquistare la carica di borgomastro della capitale alla socialdemocrazia, che la tiene ininterrottamente da vent’anni.

Da "lastampa.it" il 20 maggio 2021. La ministra della Famiglia tedesca, Franziska Giffey, 43 anni (Spd) ha annunciato le sue dimissioni. Ne ha dato notizia Focus online. Secondo il portale del magazine, la ministra ha offerto il passo indietro alla cancelliera Angela Merkel, a causa delle accuse di plagio al suo dottorato di ricerca, che potrebbero costarle il titolo. In passato diversi ministri si sono ritirati per problemi analoghi. In una nota diffusa dal ministero alla Famiglia, l'esponente socialdemocratica ha pero 'ribadito che rimarrà candidata di punta per le elezioni per la carica di sindaco di Berlino alle elezioni del prossimo settembre. «La Spd berlinese cosi 'come i cittadini possono fidarsi di me: ora mi concentrerò con tutta la mia forza alla questione che mi sta piu 'a cuore: Berlino», ha spiegato ancora Giffey. Quanto ai motivi che l'hanno spinta al passo indietro, la ministra dimissionaria ha dichiarato che «negli ultimi giorni sono emerse nuove discussioni sulla mia dissertazione di dottorato dell'anno 2010». Giffey ripete quanto già detto in passato, ossia che «ministra, i membri del governo, il mio partito e la sentenza pubblica “hanno diritto ad ottenere chiarezza”», motivo per cui si è decisa alle dimissioni. Ministra della Famiglia dal marzo 2018, Giffey ha aggiunto «di essere “orgogliosa” del lavoro compiuto in tre anni al governo». 

Uski Audino per “La Stampa” il 28 marzo 2021. Il 2021 potrebbe essere un nuovo anno zero per la Germania. Dopo un inizio brillante, il Paese si ritrova all'angolo nella gestione della pandemia. Nessuno lo avrebbe immaginato, per primi i tedeschi, che sono passati in un anno dal considerarsi la locomotiva di Europa a fustigarsi come gli ultimi della classe. Berlino si scopre capitale di un Paese normale, dove anche il mito fondante dell'efficienza è costretto a fare il tagliando. «Un paese esausto», titolava Spiegel, che ora entra nel quinto mese di lockdown. «Siamo nella seconda fase della maratona della pandemia, la più difficile», ha detto il ministro della Salute Jens Spahn venerdì alla stampa. «Come in ogni fase finale ogni passo avanti è una tortura» necessaria «per non bruciare la strada percorsa». I dati sono allarmanti: le nuove infezioni nelle prossime settimane «potrebbero arrivare alle 100.000 al giorno», ha azzardato Lothar Wieler, presidente del Robert Koch Institut, mentre i posti in terapia intensiva sono per metà già occupati, prima ancora che si raggiunga il picco. «Se le persone si lasciano vaccinare» la situazione sarà controllabile, ha continuato Spahn alludendo ad un altro dei nodi che affliggono il Paese: le migliaia di dosi inutilizzate di vaccino, soprattutto AstraZeneca. Il quotidiano berlinese Tagesspiegel ha riportato i dati di Berlino da cui risulta che tra le 100-300.000 persone nella capitale tedesca non si sono presentate agli appuntamenti nei centri vaccinali. E sempre il sindaco della capitale tedesca ha annunciato di non voler tirare il «freno d'emergenza», quel meccanismo che prevede di tornare al lockdown duro al superamento della soglia-limite dei 100 nuovi contagi per 100.000 abitanti in 7 giorni (ora è 127). Commentando la resistenza del Land di Berlino, Spahn ha detto «di poter solo consigliare caldamente» di mettere in atto quanto concordato ma «il governo federale non può fare tutto da solo» e nello specifico non può obbligare un Land a mettere in atto delle misure. Il federalismo, motivo di vanto fino a poco fa, sta mostrando tutti i suoi limiti di fronte all'emergenza. A sostenere questa tesi al Bundestag giovedì è stato il capogruppo della Cdu-Csu, Ralph Brinkhaus. «Non voglio mettere in discussione il federalismo ma la responsabilità e il compito di organizzare con il federalismo non ha funzionato in questa crisi», «i procedimenti amministrativi interni che abbiamo non sono abbastanza veloci e flessibili», ha detto Brinkhaus. Intanto l'economia dà chiari segnali di affanno. Se un anno fa con orgoglio i ministri delle Finanze Olaf Scholz e dell'Economia Peter Altmaier presentavano una manovra senza precedenti di sostegno all'economia, oggi di quel trionfalismo non rimane traccia. A fine gennaio il governo ha abbassato le previsioni di crescita del Pil per l'anno in corso, dal 4,4% al 3%. Nonostante i tenui segnali di ripresa che emergono negli ultimi dati Ifo sulla fiducia delle imprese, risalita di qualche punto, è chiaro che l'annus horribilis 2020 proietta ancora la sua ombra sul 2021. Nel settore dell'auto il Vda, l'Associazione per l'industria automobilistica, non conta su una ripresa veloce. In febbraio in Germania sono state registrate 194.300 auto, il 19% in meno rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. La produzione subisce tuttora dei colli di bottiglia nell'approvvigionamento dei semiconduttori, tanto che in gennaio e febbraio sono state prodotte il 23% in meno di auto, mentre un'analoga flessione a ha colpito l'export di auto con il 19% in meno. La locomotiva che rallenta stavolta non ha una guida su cui contare. Alla vigilia delle elezioni federali di settembre l'incertezza politica regna sovrana ed è sempre più chiaro che la transizione al dopo-Merkel sarà meno facile del previsto. L'Unione dei due partiti gemelli Cdu-Csu non ha ancora deciso chi sarà il nuovo candidato-cancelliere e si intravedono in filigrana le resistenze della Cdu a cedere il testimone. Stesso dilemma nei Verdi: nessuno dei due co-leader, Annalena Baerbock e Robert Habeck, vuole rinunciare alla candidatura. A tutto questo si somma un isolamento crescente sul piano internazionale. La politica estera di Angela Merkel orientata a un'autonomia europea nei rapporti con Russia e Cina non trova il sostegno dell'amministrazione Usa. Sul gasdotto Nord Stream2, come si è visto nella recente visita del segretario di Stato a Bruxelles, gli Usa spingono la Germania verso un aut-aut. L'approvvigionamento energetico dalla Russia non è un buon affare, dice Washington. Fine delle trasmissioni. La transizione al momento è un vero salto nel buio.

Il mistero delle tre aziende che ora fa tremare la Germania. Marco Pizzorno su Inside Over il 28 marzo 2021. Nuove antologie di psy-operation scrivono pagine di geopolitica sul suolo europeo. Le discrasie tra i sistemi investigativi e quelli della comunicazione danno il benvenuto all’ennesima guerra d’intelligence che va in scena sul vecchio teatro della Guerra fredda. Lo scontro a distanza tra Stati Uniti e Russia sembra in realtà non aver mai davvero chiuso il sipario delle ostilità, ma anzi presenta al pubblico anche nuovi attori desiderosi d’interpretare il ruolo di protagonista.

L’intelligence Usa accende i motori sull’affare Navalny. Degli ultimi giorni è la notizia di France24 che accende luci sull’inquietante mistero intorno “l’affare Navalny”. I recenti avvenimenti, infatti, inerenti all’ipotesi di avvelenamento del dissidente russo, con l’agente nervino Novichok dello scorso 2 settembre, non potevano fare altro se non accendere i motori dell’intelligence americana. La lettura metodologica dell’operazione aveva tutte le caratteristiche “utili a trasmettere informazioni al pubblico per influenzarne le emozioni” e proprio questo non sembra essere sfuggito ai servizi Usa che delle guerre psicologiche già facevano scuola sin dalla prima guerra mondiale, mediante una sottosezione della propaganda nota come American Expeditionary Force. Con nota ufficiale denominata Sanzioni statunitensi e altre misure imposte alla Russia in risposta all’uso di armi chimiche, rilasciata il 2 marzo 2021, gli Usa hanno preso le contromisure e messo nel mirino Mosca accusandola di aver utilizzato un certo tipo di armamento contro i propri cittadini, in violazione della Convenzione sulle armi chimiche. Tali sanzioni sono costituite da cinque punti fondamentali che prevedono in sostanza: “La cessazione all’assistenza straniera, ai sensi della legge del 1961, fatta eccezione per quella umanitaria-urgente. “La vendita di armi”, ovvero lo stop al commercio con la Russia ai sensi dell’Arme Export Control Act. “Il finanziamento” per la vendita di armi ai sensi della legge sul controllo delle esportazioni. “La negazione del credito” da parte del governo degli Stati Uniti ed infine “il divieto sull’esportazione di beni e tecnologie sensibili alla sicurezza nazionale”.

La scoperta che fa tremare la Germania. Le indagini dei servizi segreti americani hanno portato però il Dipartimento di Stato anche a denunciare il coinvolgimento dell’intelligence russa, d’istituzioni ed alti funzionari appartenenti al GRU, all’FSB, al  GosNIIOKhT, al 33° TsNIII ed al 27° Centro Scientifico, procedendo ai sensi della sanzione numero 13382 che agisce sul blocco della proliferazione delle armi di distruzione di massa e individuano coloro che si sono impegnati o hanno tentato d’impegnarsi in attività dedita alla proliferazione di tale armamento e che ne rappresentano un rischio per la fabbricazione, acquisizione, possesso, sviluppo, trasporto, trasferimento o utilizzo. Ma dal lavoro artigiano dell’intelligence Usa è però la stessa antenna francese a riportare un particolare che inquieta la Germania. Sembrerebbe infatti che gli Stati Uniti abbiano sanzionato anche tre “misteriose aziende” tedesche “per il loro sostegno al programma di sviluppo delle armi chimiche russe” su un totale di tredici tutte tenute segrete e di recente trapelate. Come riportato dalla stessa testata, il mirino si è alzato su tre impianti-chimici: “La Riol-Chemie, ChimConnect-GmbH e Pharmcontract”. Dalle indagini è emerso che la prima produca reagenti e agenti chimici in Russia ed in paesi come Cina, India e Giappone”. La seconda, descritta invece-da Deutsche Welle, è risultata focalizzata anche sulla lavorazione di sostanze organiche, inorganiche e solventi in Russia e Kazakistan. La terza, dettagliata da Frankfurter Allgemeine Zeitung, si presenta invece, come un gruppo di società che costituisce la “principale holding chimica e farmaceutica della Russia”. Da quanto svelato sembrerebbe che le prime due aziende siano legate tra loro tramite una imprenditrice di San Pietroburgo con responsabilità gestionale sia per ChimConnect-GmbH che di Riol-Chemie dal 2007. Mentre la terza risulterebbe registrata nel 2013 a Francoforte ed addirittura “cancellata” dal registro delle imprese tedesco nell’estate del 2020. La sanzione Usa quindi ad un’azienda apparentemente “fantasma” e non più operativa ha destato non poche preoccupazioni nell’opinione pubblica. Infatti, sebbene i dubbi abbiano acceso le paure di alcuni media tedeschi, le analisi delle risorse aperte riportano in concreto non pochi affanni di quest’ultimi nel reperire notizie utili per risalire ai fatti. Proprio tutto questo mistero  non solo mette in allarme l’Europa, ma toglie il sonno agli analisti tedeschi che intanto chiedono pubblicamente: “In che misura la Germania ha contribuito senza saperlo alla fabbricazione di prodotti che avrebbero potuto essere utilizzati per lo sviluppo di armi chimiche dalla Russia?”.

 (ANSA il 25 marzo 2021) "Dividere il buono dal cattivo": è il titolo di una lunga analisi della Divina Commedia pubblicata dalla Frankfurter Rundschau che affronta l'opera di Dante Alighieri paragonandola a quella di Shakespeare, in occasione della giornata dantesca. L'autore sottolinea criticamente "il piacere di giudicare e condannare" dell'autore fiorentino. "L'amoralità di Shakespeare, la sua descrizione di ciò che è, ci sembra anni luce più moderno dello sforzo di Dante di avere un'opinione su tutto, di trascinare tutto davanti al giudizio della sua morale. Tutta questa gigantesca opera è lì solo per permettere al poeta di anticipare il Giudizio Universale, di fare il lavoro di Dio" e di dividere il buono dal cattivo, conclude il giornalista. L'autore dell'articolo, senza risparmiare sarcasmo sulla devozione italiana per Dante, fa presente che il padre della lingua italiana ha avuto diverse fonti di ispirazione per la sua Opera, dai trovatori alla tradizione araba. "Si può dire che "la prima poesia d'arte madrelingua italiana è stata scritta in provenzale". Brunetto Latini, maestro e amico di Dante, scrisse la sua enciclopedia chiamata Livre du Trésor in francese", osserva l'autore Arno Widmann. "Il poema di più di 14.000 versi vuole essere un ponte di 1300 anni con l'Eneide di Virgilio. Un'opera del genere ha bisogno di un ego enorme", prosegue l'articolo, che poi passa ad analizzare la disposizione di Dante di ricomprendere il mondo passato e presente con la lente morale dei "sommersi e salvati", una visione decisamente diversa da quella dell'autore lontano quattro secoli, William Shakespeare, a cui viene paragonato.

(ANSA il 25 marzo 2021) Non ragioniam di lor, ma guarda e passa (Inf. III, 51) Il ministro della cultura Dario Franceschini risponde così da Twitter al Frankfurter Rundschau, il giornale tedesco che oggi ha criticato Dante paragonando la sua opera a quella di Shakespeare dall'autore dell'articolo ritenuto "molto più moderno".

(ANSA il 25 marzo 2021) "Inaccettabili le parole del giornale tedesco Frankfurter Rundschau contro Dante Alighieri, simbolo nazionale e poeta universale". Lo afferma il capogruppo di FDI in commissione Cultura, Federico Mollicone "Non ci permetteremmo mai di sminuire la grandezza di Goethe, peraltro ammiratore della bellezza, dell'arte e del paesaggio italiano. I ministri Dario Franceschini e Luigi Di Maio chiedano le scuse ufficiali dai rispettivi omologhi Monika Grutters e Heiko Mass per questo oltraggio a un simbolo nazionale".

Dante nel mirino di un quotidiano tedesco: “Non ha inventato nulla”. Giampiero Casoni su Notizie.it il 25/03/2021. Nella giornata del Dantedì una testata tedesca mette in discussione grandezza ed originalità del poeta contrapponendogli Shakespeare. Nel mirino di un quotidiano tedesco stavolta non ci finisce l’Italia del crimine ma addirittura Dante, che secondo il Frankfurter Rundschau “con la sua ambizione on ha inventato nulla”. Viene voglia proprio di rigiocarla, questa semifinale di Mexico ‘70 in salsa letteraria, a leggere ciò che scrive Arno Widmann nel giorno del Dantedì. Chi è costui? Si tratta del fondatore della testata e traduttore ufficiale. Fondatore che mette alla berlina “il piacere di giudicare e condannare” del poeta fiorentino. Insomma, a suo dire Dante sarebbe stato un moralista un pò bigotto neanche lontanamente paragonabile a Shakespeare. E che i tedeschi chiamassero gli inglesi a far loro da sponda è già fatto eccezionale in sé. “L’amoralità di Shakespeare, la sua descrizione di ciò che è, ci sembra anni luce più moderno dello sforzo di Dante di avere un’opinione su tutto, di trascinare tutto davanti al giudizio della sua morale. Tutta questa gigantesca opera è lì solo per permettere al poeta di anticipare il Giudizio Universale, di fare il lavoro di Dio”.

La replica di Franceschini. Dante come setaccio stucchevole fra buono e cattivo dunque. E la replica su Twitter del ministro della Cultura Dario Franceschini è arrivata a stretto giro di posta e in sponda di citazione: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. A parere di Widmann l’Italia osanna Dante “perché ha portato la lingua alle altezze della grande letteratura. Si è costruito la lingua per la sua opera e da questa lingua è nata la lingua dei suoi lettori e poi dell’Italia”. A ben vedere una lettura quasi esatta se non fosse per i torni palesemente riduttivi, toni che riecheggiano anche quando Widmann ci imposta il ‘peccato originale’ degli studenti italiani di 60 anni fa.

Sponda a Brunetto Latini. “Si può dire che la prima poesia d’arte madrelingua italiana è stata scritta in provenzale. Brunetto Latini, maestro e amico di Dante, scrisse la sua enciclopedia chiamata Livre du Trésor in francese”. E la Commedia non sarebbe una trovata così originale, perché un mistico arabo l’avrebbe preceduta. Widmann in proposito cita a conforto della sua critica lo studioso spagnolo Asín Palacios nel 1919. E incalza sul fatto che gli studiosi italiani avrebbero sempre smentito questa lettura. Perché? “vedevano minacciata l’originalità del loro eroe. Si farebbe un’ingiustizia a Dante se si sottovalutasse la sua ambizione”.

L’amore ideale è “luterano”. Non va meglio, secondo il teutonico, per il tema dell’amore fra uomo e donna come "ascensore" spirituale, e qui il capolavoro per brandizzare il concetto: quel tema non avrebbe avuto precedenti, ma sarebbe stato sviluppato molto meglio dopo “con Lutero e la Riforma”.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

La Germania ci offende pure su Dante. Oltraggio da un giornale tedesco. E Tobias Piller applaude. Adriana De Conto giovedì 25 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Un attacco ignobile a Dante Alighieri e all’Italia arriva come una sfregio durante i festeggiamenti per il 700esimo anniversario della morte del Sommo Poeta. L’attacco arriva dalla Germania, sulle pagine del quotidiano Frankfurter Rundschau. L’Italia avrebbe ben poco da festeggiare, sottintende il fondatore della testata e traduttore Arno Widmann, affermando che il Sommo Poeta era “anni luce dietro a Shakespeare” e che poco avrebbe a che vedere con la nascita della lingua italiana. Il ministro della Cultura Dario Franceschini ha voluto replicare alle parole del quotidiano tedesco con un tweet, che cita un famoso verso dantesco tratto dall’Inferno: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Widmann irride “il piacere di giudicare e condannare” dell’autore fiorentino. “L’amoralità di Shakespeare, la sua descrizione di ciò che è, ci sembra anni luce più moderno dello sforzo di Dante di avere un’opinione su tutto; di trascinare tutto davanti al giudizio della sua morale. Tutta questa gigantesca opera è lì solo per permettere al poeta di anticipare il Giudizio Universale, di fare il lavoro di Dio”; e di dividere il buono dal cattivo. Ha a che ridire anche sull’origine della lingua italiana, affermando che noi italiani lodiamo Dante «perché ha portato la lingua alle altezze della grande letteratura: si è costruito la lingua per la sua opera e da questa lingua è nata la lingua dei suoi lettori e poi dell’Italia». Errore, scrive il tedesco, sottolineando  che questa è la versione che veniva fornita agli scolari italiani di 60 anni fa. Come poeta lirico, si legge sul giornale tedesco, l’Alighieri sarebbe stato preceduto dai trovatori di Provenza, dunque in realtà «la prima lirica in madrelingua italiana fu scritta in provenzale». Anche Brunetto Latini, maestro e amico di Dante, avrebbe scritto il suo Trésor in francese non tanto perché in quel momento era esiliato in Francia, quanto «perché sapeva che avrebbe avuto più lettori». Rilievi che hanno l’unico scopo di offendere l’Italia servendosi di Dante e banalizzando in pochi schizzi di fango questioni complesse sulle quali c’è una bibliografia sterminata. La stessa Commedia, insinua Widmann, non sarebbe affatto il frutto di un’idea  originale; ma sarebbe stata preceduta da un poema mistico arabo in cui si narra l’esperienza dell’ascesa al Cielo. Ancora: nemmeno l’amore tra uomo e donna come via di elevazione spirituale sarebbe invenzione del Sommo Poeta. Ma deriverebbe – continua Widmann – “da Lutero e dalla Riforma”. Una visione germanocentrica fuori da ogni ragionevolezza, addirittura delirante quando offende pure lo scrittore statunitense  T.S. Eliot, che in un famoso saggio del 1929 si sarebbe reso colpevole di aver accostato Dante a Shakespeare. Naturalmente su tutti i siti italiani l’articolo è stato travolto da critiche. Sono intervenuti fior di critici e rappresentanti della politica. “I ministri Dario Franceschini e Luigi Di Maio chiedano le scuse ufficiali dai rispettivi omologhi Monika Grutters e Heiko Mass per questo oltraggio”. Lo dice Federico Mollicone di FdI.”Soltanto uno ha difeso Arno Widmann: l’ineffabile Tobias Piller, il giornalista tedesco ed ex presidente della stampa estera in Italia. Da sempre antiitaliano in servizio permanente effettivo: “Non ho letto da nessuna parte né “arrivista” né “plagiatore”. Mi sembra un articolo che inquadra Dante nel suo tempo e ne spiega la grandezza ai tedeschi”. Così il corrispondente dall’Italia della ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’ ed ex presidente della stampa estera in Italia, Tobias Piller, parla all’Adnkronos dell’articolo dedicato a Dante dal quotidiano locale ‘Frankfurter Rundschau’ che sulla stampa online italiana è rimbalzato come un duro attacco al Sommo Poeta nel giorno del Dantedì. “Arno Widmann? È un personaggio di forte vis polemica. Ha sempre fatto parlare di sé per teorie volutamente provocatorie oppure, talvolta, di complotto. Volendo parlare male di Dante, gli muove contro argomenti totalmente insostenibili. La sua opinione non coincide affatto con l’opinione generale su Dante in Germania. Non rappresenta nemmeno una corrente di pensiero.” Parlando all’emittente radiofonica fiorentina Lady Radio, il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, ha praticamente smontato il provocatore.

Dante, i tedeschi non lo infangano: storia (e bugie) di un blitz inventato. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 29/3/2021. Un articolo intelligente ha scatenato l’ira di chi è abituato a fare della cultura l’occasione per un derby, allo scopo di farsi animatore della curva, perché più la tifoseria si arrabbia, più ti si stringe attorno. A nulla vale spiegare che la cultura non è né gara né derby né competizione né status symbol, perché è evidente che, in questa storia, la cultura non c’entra nulla. L’articolo in questione è dell’intellettuale tedesco Arno Widmann ed è uscito sul quotidiano Frankfurter Rundschau nel giorno più simbolico di questo settimo centenario della morte di Dante, il 25 marzo. Commenti indignati, sbigottiti, reazioni isteriche da ogni parte, su siti web, nei telegiornali, e poi prese di posizione scomposte di ministri ed ex ministri, e persino di giallisti, che si sono mobilitati contro il «tizio tedesco».

L’attacco truffa. Il motivo? Dante Alighieri sarebbe stato attaccato. E, all’apparenza si tratta quindi di un nobile motivo e potrebbe anche sembrare ottimo segno l’attività culturale che diventa dibattito, la politica che si nutre di letteratura, i telegiornali che danno finalmente spazio non residuale e notturno alla cultura. Ma è una truffa. Non c’è stato nessun attacco in quest’articolo tradotto qui, in modo che chiunque possa leggerlo e capire facilmente che non aggredisce Dante, non lo definisce plagiatore, non afferma che è anni luce dietro a Shakespeare, non dice che era un arrivista, non dichiara, infine, che gli italiani non hanno proprio niente da festeggiare. Nulla di tutto questo. L’autore dell’articolo vuole dire una cosa diversa sulla quale concorda ogni persona che abbia un minimo di reminiscenze di quello che ha studiato sui manuali di scuola: un testo letterario non nasce mai dal nulla, è come il buon vino, mantiene traccia degli umori della terra da cui è nato. L’idea del genio romantico che si sveglia una mattina e di colpo crea il capolavoro, senza aver prima letto, visto, studiato, approfondito, rimescolato, contaminato, è romantica, appunto!

Dante e l’Islam. La colpa di Widmann è di aver detto questo, che Dante non nasce dal nulla, ma nasce nel solco di diverse tradizioni, come quella della poesia provenzale, che inventa per prima la poesia in volgare. Un’operazione quella della poesia in volgare che, Widmann precisa, Dante fa lievitare. Il fatto che esistano dei precedenti, dice Widmann, non sminuisce Dante, così come non lo sminuisce il fatto che esista persino un testo arabo tra le possibili fonti d’ispirazione dantesca. A torto — ricorda Widmann — gli italiani credettero che Miguel Asìn Palacios volesse sminuire Dante, quando sostenne questo nel suo saggio, «Dante e l’Islam», pubblicato nel 1919. Palacios ipotizzava che tra i materiali che avevano ispirato Dante ci fosse il «Libro della Scala» o della ascesa di Maometto in cielo, un testo escatologico arabo, tradotto in castigliano da un medico ebreo, nel 1264. Proprio questo era del resto la cultura medievale: un ebreo che traduce dall’arabo, e un cristiano che trova la sua traduzione interessante! Nessuno però grida al tradimento della patria o di Dante, quando i nostri italianisti dicono che probabilmente tra le fonti d’ispirazione di Dante si deve considerare lo scrittore lombardo Bonvesin de la Riva, morto nel 1315, e autore di un poema in tre parti: la «scriptura negra», dove si descrivono le pene dell’Inferno, quella «rossa» dove si descrive la passione di Cristo e quella «dorata» dove si parla dei beati del cielo.

L’esempio di Bonvesin della Riva. Anche Bonvesin parla del fuoco che per lui tormenta gli avari, della puzza che ammorba i disonesti, del ghiaccio che punisce gli improbi, dei vermi che mangiano i profittatori, e anche descrive terribili demoni che tormentano i dannati e dannati che urlano, piangono, mordono, percuotono! In genere, è noto a tutti, si cita Bonvesin della Riva proprio per dire che se il tema è lo stesso, ben altra è la resa dantesca. Legioni di artisti del resto hanno rappresentato la Pietà prima di Michelangelo… L’idea di cultura, di sapere, di conoscenza che dobbiamo portare avanti non è la gara tra chi ha il poeta più grande di tutti. Non è una gara! E certe grandezze non sono neppure misurabili.

Non è una gara. Immaginare una gara tra Dante, Shakespeare, Goethe e Cervantes, coinciderebbe con la morte della letteratura. L’altra colpa di Arno è stata di ammettere che leggere Dante è maledettamente difficile, a dispetto di quanto ne dica Eliot! Difficile a scuola, per un bambino, dice Arno, studiare Dante con quei lunghi apparati di note che lo rendono ostico. Nulla con cui non concorderebbero molti studenti italiani. Leggere Shakespeare, dice Arno, è facile e piacevole, ma Dante necessita di una chiave speciale. Questo è il problema della cultura medievale, è una cultura complessa, ricca di costruzioni simboliche, decisa a viaggiare sempre e solo sul polisenso. E, sia chiaro, non sto accusando Dante di essere uno scrittore pesante e complesso, è lui stesso che nel Convivio avverte il lettore di non prenderlo mai alla lettera, di interpretare sempre la sua pagina secondo i quattro sensi della Scrittura, storico, allegorico, morale, ed escatologico.

Il paragone con Shakespeare. Arno dice (inseguendo i sentieri di Eliot) che la Commedia di Dante, così fitta di costruzioni teologiche e di tensioni morali, è permeata dal giudizio, così diversa, invece, è l’opera del laico Shakespeare, che si tiene a distanza dalle colpe dei suoi personaggi. Arno Widman è stato allievo di Theodor Adorno, ha cofondato la TAZ, lo storico giornale della sinistra di Berlino ed è stato responsabile della sezione culturale di uno dei settimanali più colti d’Europa, lo Die Zeit nonché responsabile della pagina delle opinioni della Berliner Zeitung. Non solo, Widmann ha anche tradotto Umberto Eco, Curzio Malaparte — di cui è forse il maggior conoscitore in Germania — e Victor Serge. Si poteva mai pensare che un intellettuale con il suo profilo potesse dire quelle fesserie su Dante, e in quel modo? No, che non si poteva, ma la questione qui non è Dante, la questione è che di Dante si voleva fare un uso strumentale.

Il polverone. Attaccare Widmann, o difendere Dante da Widmann, è servito come al solito a distrarre, a gettare l’osso per aizzare la zuffa, e lasciare poi che il polverone offrisse un vantaggio alla politica. In queste ore avrebbero dovuto riaprire i teatri, i cinema, i circoli di lettura. Il ministro Franceschini lo aveva promesso, a qualunque costo. Invece non è andata così. L’agonia in cui librerie, teatri, editori, vivono dovrebbe essere l’elemento centrale del dibattito politico come dovrebbe esserlo il fatto che l’Italia è terz’ultima in Europa per investimenti statali in attività culturali. Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono subito mobilitati contro l’attacco lanzichenecco di Arno! Ma è stato solo un modo per fare ammuina, per suonare il ritornello trito della patria più bella e dello scrittore più grande, per coprire il fatto che non hanno né progetti né visione per ritirare su la cultura italiana rimasta senza fondi, senza investimenti, senza piani.

Il poeta in esilio. Dante è stato un esule, infangato e diffamato per tutta la vita. Il 27 gennaio del 1302, un tribunale uscito da un governo golpista lo ha accusato di concussione e peculato, di essersi arricchito illecitamente durante i mesi della sua attività politica, come priore e come consigliere dei Cento. Mesi quelli, che invece Dante spese per combattere la corruzione e nel bloccare sistematicamente tutti i finanziamenti al corrottissimo e rapace Bonifacio VIII. Per i primi tredici anni del suo esilio, a Firenze, si è fatto di tutto per impedirgli di rientrare, escludendolo sistematicamente da ogni amnistia concesse ai fuoriusciti, perché lui — diceva il governo di Firenze — non meritava neppure la «grazia», perché peggio di chiunque altro aveva «tradito la patria fiorentina». Quando, nel 1315, fu compreso, infine, nella lista dei graziandi, non si vollero però cancellare le accuse mossegli. Dante allora non rientrò, scrisse ad un amico che: se questo era il prezzo, se il prezzo era la menzogna, allora preferiva morire nella verità dell’esilio. Difendere la verità è un buon modo per rendere omaggio a Dante. Trasformarlo, invece, in un’icona da mettere sul cappellino, così dagli spalti possiamo fare «Buuu» sugli altri giocatori è proprio il modo per riportarlo dentro a quel tipo di politica che fino all’ultimo cercò di non far vincere a Firenze.

Saviano difende i tedeschi: "Non hanno insultato Dante". Il giornalista difende l'articolo di Arno Widmann su Dante pubblicato sul Frankfurter Rundschau: parla di "assurda polemica" e accusa la stampa italiana di aver mal interpretato le parole di Widmann. Senza argomentare. Roberto Vivaldelli - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. Si potrebbe forse obiettare che le parole "arrivista" e "plagiatore" nell'oramai celebre articolo di Arno Widmann su Dante Alighieri pubblicato sul Frankfurter Rundschau non ci siano o meglio, siano state tradotte in maniera un po' rozza e semplicistica. Ma da qui a dire che nel pezzo del celebre critico letterario tedesco non ci sia uno spirito provocatorio o non vi siano punzecchiature nei confronti del Sommo poeta, ce ne passa. È ciò che prova a sostenere Roberto Saviano, provando a spiegare, sulla sua pagina Facebook, che la stampa italiana non conosce il tedesco e si è inutilmente indignata nei confronti dell'articolo scritto dall'amicone Widmann per sposare l'odio-antitedesco. "Trovo sui social un'assurda polemica su Dante che parte da un articolo pubblicato in Germania. Vi dimostrerò come anche un ottimo articolo di analisi letteraria possa essere strumentalizzato dal più becero populismo. Nessun attacco a Dante arriva dalla Germania, come suggerisce qualche giornalista e qualche politico, nessuna accusa di essere un plagiatore. Niente di tutto questo, nemmeno l'ombra. Solo l'incapacità di leggere e comprendere testi scritti" afferma Saviano.

La lezioncina (a vuoto) di Saviano. Conosco l’autore dell’articolo su Dante, Arno Widmann, da più di dieci anni, spiega Saviano, ed "è uno dei più colti e sapienti critici letterari europei. Conosce la letteratura del nostro paese come pochi. Sicuramente la conosce meglio dei politici che oggi lo attaccano. Il suo è un intelligentissimo articolo che parla dell'influenza che ebbe sulla lingua di Dante l'operazione già compiuta dai provenzali e che però lui fece lievitare, perché grazie a Dante quell'operazione non si limitò più solo all'argomento amoroso ma si allargò a tutto il resto. E dunque, sottolinea Saviano, "nessuna offesa a Dante nel suo articolo che, invece, è una dotta analisi non rivolta solo ai lettori tedeschi, ma a chiunque ami la letteratura. Arno Widmann offre spunti interessantissimi sul ruolo dell’intellettuale italiano, politicamente impegnato e chiamato a esprimersi sul mondo". Peccato che Saviano non argomenti e non spieghi dove sarebbero, a suo parere, gli errori di traduzione commessi dalla stampa italiana, limitandosi a dire di conoscere Widmann e accusando i giornalisti italiani - e alcuni politici, tra i quali Matteo Salvini, tanto per cambiare - di becero nazionalismo, cosa che agli intellettuali chic proprio non piace. La solita e noiosissima pedanteria ideologica.

La provocazione del giornale tedesco. La verità è che per provare ad affermare che il tono dell'articolo di Widmann non sia provocatorio, ci vuole un bel coraggio. Articolo legittimo, s'intende, com'è altrettanto legittima la reazione di chi ha fatto notare al critico tedesco di aver scritto delle inesattezze, se non delle vere e proprie sciocchezze. Come nota l'Agi, secondo il giornalista tedesco, la Divina Commedia è "una fabbrica di versi", nella quale "ogni volta è chiaro se fai parte dei buoni o dei cattivi", laddove l’Alighieri è mosso soprattutto "dalla voglia al giudicare e al condannare". Presunzione, fa intendere il critico tedesco, che pooi aggiunge: "Gli oltre 14 mila versi sono intesi a gettare un ponte lungo oltre 1300 anni sull’Eneide di Virgilio: una tale opera abbisogna di un ego immenso". Secondo l’autore, Dante Alighieri "in un certo senso avrebbe creato la lingua per la sua opera, e questa lingua divenne quella dei suoi lettori e poi quella dell’Italia...”, ma è semplicemente quello "che fino a 60 anni fa si raccontava ad ogni scolaro italiano, nessuno lo direbbe anche oggi". Come se son bastasse, le prime liriche in volgare furono scritte "in provenzale", certo non nell’italico idioma dantesco: in pratica, osserva sempre l'Agi, la maggiore invenzione di Dante, ossia di aver portato il volgare nell’alveo dell’arte letteraria, non è una vera invenzione. Dopodiché Widmann tira in ballo Shakespeare, che gli pare "più moderno anni luce rispetto agli sforzi di Dante di aver un’opinione su tutto, di trascinare tutto davanti alla poltrona da giudice della sua Morale. Tutta questa immensa opera serve solo per permettere al Poeta di anticipare il Giorno del Giudizio, mettere lui in pratica l’Opera di Dio e di spingere i buoni nel vasetto e i cattivi nel pozzo". Non male per un articolo che, secondo Saviano, "offre spunti interessantissimi sul ruolo dell’intellettuale italiano, politicamente impegnato e chiamato a esprimersi sul mondo".

Eike Schmidt smentisce (indirettamente) Saviano. Se c'è una persona di cultura che conosce il tedesco - da madrelingua - l'arte e la figura di Dante, quello è sicuramente Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi. Commentando l'articolo su Dante, Schmidt, intervistato dall'emittente radiofonica Lady Radio e riportato dal quotidiano La Nazione, spiega che "Arno Widmann è un personaggio di forte vis polemica, che ha sempre fatto parlare di sé per teorie volutamente provocatorie oppure, talvolta, di complotto. Volendo parlare male di Dante, gli muove contro argomenti totalmente insostenibili. La sua opinione non coincide affatto con l’opinione generale su Dante in Germania, non rappresenta nemmeno una corrente di pensiero". "Dice Widmann - prosegue il direttore e critico d'arte tedesco- che Dante abbia cercato di imitare i poeti provenzali francesi. Non è certo una grande scoperta: che egli abbia guardato ai provenzali come a un modello lo si sa da sempre, ma che si sia limitato a copiarli è altrettanto evidente che sia falso. Un’altro argomento di Windmann è che Dante abbia creato una 'contro-versione' cristiana a fronte della tradizione islamica del viaggio ultraterreno del Profeta Maometto: questo è del tutto infondato". Quindi anche Eike Schmidt ha letto o tradotto male l'articolo di Widmann, caro Saviano? Del tutto improbabile. Forse chi dovrebbe rileggersi meglio l'articolo è proprio l'autore di Gomorra.

Dante o Arno Widmann? Chi dei due è uno scrittore? Paolo Gambi il 25 marzo 2021 su Il Giornale. Un giornalista tedesco, tal Arno Widmann, nel giorno in cui in Italia si celebra Dante ha scritto sul Frankfurter Rundschau, un giornale che molti di noi sentiranno citare per la prima volta nella vita, che Dante, essenzialmente, fa schifo. Perché farebbe così schifo? Perché, secondo lui, era un moralista. Fa la morale a Dante perché Dante farebbe la morale. Lo giudica perché giudica.

Un genio. Lo considera un plagiatore. Avrebbe copiato dalla poesia provenzale, stravolgendola. E ci tiene a tirare frecciatine antipatiche alla lingua italiana. Usa come somma accusa il fatto che Dante avrebbe copiato da un autore arabo, tirando fuori una tesi del 1919.

Molto attuale. E dimentica che il tema del viaggio nell’aldilà è vecchio come la letteratura, lo sappiamo tutti, e Dante cita Virgilio e il suo canto VI dell’Eneide in modo più che esplicito.

Ma vale poi la pena rispondere? Arriva a dargli dell’egotico. Cita misteriosamente addirittura le accuse che gli vennero mosse a Firenze, con un’allusione moralistica. Avanza poi una tesi rivoluzionaria: Shakespeare era più moderno di Dante. Chissà, magari bisognerebbe fargli vedere un righello con gli eventi storici disegnati sopra e ricordargli che Shakespeare vive 300 anni dopo Dante.

E fa tutto con un ghigno antiitaliano di sottofondo. Questo Arno Widmann, che evidentemente non conosce né Dante, né tantomeno Shakespeare e scrive cose a vanvera solo perché qualcuno scriva di lui, ha raggiunto il suo obiettivo. Ora sappiamo che in Germania, in mezzo a tanta brava gente che coltiva l’amicizia con l’Italia, c’è anche questo tal Arno Widmann, che non sa nulla di Dante, di Shakespeare e probabilmente non capisce nulla di letteratura, che ci tiene a farci sapere che Dante e l’Italia gli fanno schifo. Spaghetti, pizza, mandolino.

Grazie per avercelo fatto sapere. E grazie al Frankfurter Rundschau per dare spazio a tesi così avanguardistiche. La cosa bella è che comunque, dopo questa fiammata mediatica (lo so, ci sono cascato anche io), questo tal Arno qualcosa tornerà ad essere ciò che era prima, cioè nessuno. Mentre Dante continuerà ad essere Dante. E non smetterà di far risuonare le sue parole. Fra le quali leggiamo anche “quanta ignoranza è quella che v’offende!”.

DAGONEWS il 24 marzo 2021. Il 67enne Principe Ernst di Hannover, ex marito di Carolina di Monaco, è stato condannato a 10 mesi in carcere con condizionale dalla polizia austriaca per aver ferito un agente di polizia e minacciato un altro poliziotto con una mazza da baseball. Lo scorso luglio il principe Ernst August di Hannover, cugino distante della regina Elisabetta II, era sotto l’influenza di alcol e medicinali quando ha ferito un agente di polizia in seguito ad un intervento nella sua tenuta di caccia a Gruenau, in Austria. La polizia era stata chiamata dallo stesso principe perché temeva, secondo le ricostruzioni, che un suo dipendente volesse ucciderlo. Una volta intervenuti nella tenuta, gli agenti di polizia sono stati accolti dal principe con insulti e minacce verso le loro famiglie, prima di aggredire e ferire uno degli agenti presenti. 5 giorni dopo, il principe è stato accusato di avere minacciato un altro agente con una mazza da baseball, minacciandolo di “colpirlo in testa e in faccia.” Ma non finisce qui, nel settembre dello scorso anno il principe è stato arrestato per aver minacciato alcuni suoi dipendenti alle 3 di notte. Accusato di aver rotto una finestra con un cartello stradale in una casa di proprietà della fondazione familiare, il principe ha minacciato il personale dicendo che avrebbe mandato “una banda di delinquenti” a cacciarli dalla tenuta se non se ne fossero andati per conto loro. In seguito agli eventi dell’estate del 2020, il principe rischiava tre anni in prigione, poi ridotti a 10 mesi con condizionale. In risposta alle accuse, Ernst August si è scusato per i suoi comportamenti ma si è dichiarato non colpevole dei reati a lui attribuiti; e i suoi avvocati hanno annunciato che il nobile ha iniziato un processo di cure dopo gli incidenti, avvenuti durante un “lungo periodo di isolamento ed in seguito ad un tradimento da parte del figlio”. Infatti, il principe Ernst August, a capo di una delle più grandi e antiche famiglie aristocratiche europee, è da diversi anni in un contenzioso legale con il figlio “ingrato” anch’egli chiamato Ernst August, Duca di Braunschweig e Lüneberg. Il padre accusa il figlio di aver sperperato le proprietà della famiglia in Bassa Sassonia, in particolare il castello di Marienburg. Una nota attrazione turistica tedesca, il castello venne affidato al figlio del principe a metà degli anni 2000 e poi venduto al governo tedesco nel 2018 per una cifra simbolica. Si pensa che la motivazione principale per la vendita sia stata principalmente economica, visto che il castello necessitava di ristrutturazioni il cui costo si aggirava intorno ai 23 milioni di euro. Il parlamento federale tedesco ha contribuito con circa 12 milioni di euro per la ristrutturazione, mentre circa 100 dipinti e altri cimeli da un valore complessivo di circa 7 milioni di euro sono stati donati al museo nazionale di Hannover. Negli atti giudiziari della causa il principe di Hannover accusa il figlio di aver gravemente violato i suoi diritti e interessi, essendosi impossessato indebitamente di dipinti, sculture e altri cimeli di famiglia; oltre ad essere stato tagliato fuori dagli affari di famiglia ed essere obbligato a vivere in una tenuta nella foresta austriaca di proprietà famigliare. In difesa alle accuse, il Duca di Braunschweig e Lüneberg dice che le accuse del padre sono senza fondamento ed era fiducioso che sarebbero state respinte di fronte a una giuria, sentendosi sereno riguardo qualsiasi eventuale disputa in tribunale.

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2021. C'è del marcio nella Cdu. Un'aria da fine regno sembra aleggiare sopra l'Unione cristiano-democratica, che ha già da tempo iniziato il lungo congedo da Angela Merkel, ma d'un tratto viene scossa da scandali e rivelazioni che gettano ombre sul suo futuro prossimo. Alla vigilia degli importanti voti regionali di domani nel Baden Württemberg e in Renania-Palatinato, il partito della cancelliera è in modalità d'emergenza. In una sola settimana tre dei suoi deputati al Bundestag sono stati costretti a dimettersi: Nikolas Löbel e il cristiano-sociale bavarese Georg Nußlein per aver fatto da mediatori in appalti per mascherine anti-Covid, lucrando cospicue commissioni da società private; il terzo, Mark Hauptmann, è stato accusato di lavorare come lobbista profumatamente retribuito per il governo dell'Azerbaigian. E non è tutto: secondo la Süddeutsche Zeitung almeno altri due parlamentari della Cdu-Csu sarebbero indagati per i loro rapporti d'affari con il governo di Baku. «Squallido e vergognoso», ha definito ieri il presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier, il comportamento di chi usa il proprio mandato parlamentare per trarne profitti personali, tanto più speculando sulla tragedia della pandemia. Alla Cdu-Csu viene rimproverato di essersi sempre opposta all'adozione di un registro ufficiale dei lobbisti, invece del vago codice di comportamento attualmente in vigore e puntualmente ignorato. Ma il problema va ben oltre i casi personali. Lo sa bene Armin Laschet, presidente della Cdu e probabile candidato alla cancelleria del fronte conservatore alle elezioni politiche di settembre, che ha fatto pressioni perché i deputati coinvolti nello scandalo rimettessero subito il mandato, invece di aspettare la fine della legislatura in agosto, come avevano annunciato in precedenza. A preoccupare Laschet, che è anche premier del Nord Reno-Vestfalia, è la volatilità della situazione politica fotografata dai sondaggi: in una sola settimana la Cdu-Csu ha perso 5 punti passando dal 35/36 al 30/31 per cento delle intenzioni di voto. Rispetto all'autunno, il calo è di oltre 8 punti. Già domani, dalle urne regionali, potrebbe uscire un giudizio molto severo per l'Unione cristiano-democratica. Non che nel Baden-Württemberg abbia mai avuto alcuna vera prospettiva di vincere. Il Land di Stoccarda, patria di Daimler Benz e Porsche, è infatti dominato dalla figura di Winfried Kretschmann, 72 anni, unico ministro-presidente dei Verdi in Germania, che dal 2016 governa proprio con la Cdu come junior partner. Figura amata e trasversale, con posizioni moderate che lo rendono spesso controverso fra gli stessi ambientalisti, Kretschmann ha un forte vantaggio nei sondaggi nei confronti della sua ministra dell'Istruzione e rivale, Susanne Eisenmann. L'obiettivo a questo punto per la Cdu è di limitare i danni. Diversa la situazione nella Renania-Palatinato, dove la popolare premier socialdemocratica Malu Dreyer ha recuperato tutto il ritardo dei mesi scorsi ed è ora nuovamente in testa davanti al candidato cristiano-democratico. Dreyer governa con una coalizione «semaforo» insieme a verdi e liberali, ma fino a poco tempo fa l'Unione sembrava in grado di fare il sorpasso, guidando lei una coalizione «giamaica», con il nero della Cdu al posto del rosso della Spd. Una sconfitta nel Palatinato sarebbe un grave colpo per Laschet, alla sua prima prova del fuoco da quando è stato eletto alla guida del partito. Nessuno pensa che ciò possa mettere in discussione la sua candidatura alla cancelleria, ma sarebbe per lui il modo peggiore di iniziare la lunga corsa verso le elezioni di settembre.

Francesca Sforza per “la Stampa” il 17 gennaio 2021. Ritardi nei ristori, scuole chiuse, aziende che portano i libri in tribunale, polemiche sulle vaccinazioni che vanno a rilento, un lockdown stretto che si prepara a diventare strettissimo: è la Germania di Angela Merkel. O meglio, è la Germania ai tempi del Coronavirus, dove 62 filiali di una catena di grandi magazzini molto popolare come il Kaufhof hanno chiuso e la responsabilità è stata data al management: «La pandemia non ha aiutato, ma il fallimento è dovuto a cause precedenti (sotto accusa una fusione sbagliata) - osserva l'analista economica Sabine Fritz -, la realtà è che molte imprese si erano ingrandite senza le giuste basi di mercato, ed ecco che alla prima crisi le fragilità vengono fuori». La stessa cosa vale per il marchio tedesco di moda e tessili Adler, che qualche giorno fa ha mandato a casa 3.500 dipendenti. «Non trovavo un vestito decente da Adler dal 1971 - scrive Johannes sulla pagina Fb che denunciava la chiusura - il coronavirus non c'entra». E invece c'entra, perché alcuni settori che erano floridissimi oggi sono senza speranza: 40 miliardi di euro persi nel 2020 solo per gli hotel e le strutture di ospitalità. «A me ancora non sono arrivati risarcimenti - denuncia la proprietaria di un Gasthof di Fulda al telegiornale - e poi chiedo allo Stato di darmi qualche prospettiva, perché quando anche mi arriveranno dei soldi, se le chiusure continuano e il turismo non riparte, io e la mia famiglia come vivremo?». L'ultima serie di proteste riguarda le vaccinazioni: «Ce la faremo?» ironizza la copertina di «Focus» mettendo il punto interrogativo alla celebre frase della Cancelliera pronunciata nel 2015 sulla crisi dei migranti, «Wir schaffen das» -. E nel sottotitolo si legge: «La Germania ha sviluppato il migliore vaccino, ma non riusciamo a vaccinarci rapidamente». I media parlano già di «Impfdrama», il dramma del vaccino: non c'è chiarezza sulle precedenze, sui luoghi da privilegiare, sul personale da usare, sui luoghi da riconvertire. Dal basso verso l'alto, lo scontento sta raggiungendo i piani alti della politica, in una fase in cui Angela Merkel è a fine mandato, nella Cdu si è aperta la partita del candidato alla Cancelleria e la campagna elettorale in vista di settembre è pronta a scatenarsi. Il ministro dell'economia Peter Altmaier (Cdu) già a ottobre scorso, aveva detto di voler aumentare fino al 75% i ristori entro novembre, ma la riscossione di fondi europei oltre un milione di euro si è rivelata più complessa del previsto, con conseguenti ritardi nei pagamenti già promessi e un'impennata di lamentele da parte di imprenditori e associazioni di categoria. Il ministro è stato attaccato dai socialdemocratici, e ci è voluto il moderato intervento del responsabile economico Spd Bernd Westphal per sedare lo scontro politico: «Siamo onesti, non esiste una magia per pagare gli aiuti necessari alle imprese, evitiamo di usare la pandemia per fare campagna elettorale». Le ragioni per cui la stampa e l'opinione pubblica non si accaniscono contro il governo per le conseguenze - spesso tremende - del coronavirus sono le stesse che fanno bere il caffè sotto la neve ai clienti dello Starbuck' s di Friedrichstrasse, nel cuore della capitale. Non si può sostare davanti al bancone neanche un minuto, e se qualcuno chiede di consumare velocemente pur di non congelarsi gli viene risposto che «purtroppo c'è una pandemia, quindi è pregato di uscire subito, non si fanno eccezioni». E sono anche le stesse che fanno tenere chiuse le scuole nella maggior parte dei Länder. Anton e Hanna, gemelli berlinesi di 9 anni, non vanno a scuola dal 3 dicembre e la didattica digitale consiste in un'ora di videoconferenza al giorno. Per il resto ci sono i genitori e al massimo una passeggiata al parco. Niente visite, perché si può ricevere una sola persona alla volta, niente bar o McDonald's, perché possono solo preparare cibo da asporto, ma non consentono soste, a nessuna ora del giorno. Se chiamate un taxi la mattina presto, può capitare che la centrale risponda: «Spiacente, non ho macchine». Tanto vale aspettare che passi qualcuno per strada. «Si vede che i colleghi non hanno bisogno di lavorare - dice Amid, nato a Istanbul e emigrato in Germania aprendo la porta del suo taxi, uno dei pochi in circolazione in una Berlino deserta -. Sì, qui qualcuno si lamenta per i ritardi con cui arrivano i soldi, ma intanto i soldi arrivano». C'è chi sta peggio: «In Turchia lo Stato sì e no ti dà una mascherina e poi non resta che pregare Allah...». Qui è diverso: «Ho già ricevuto tre mesi di pagamenti, e poi ho 300 euro al mese per ogni figlio, ne ho tre. I miei vicini arabi ne hanno sei. E Merkel mica vive in un palazzo d'oro come Erdogan, lo sa dove vive? In un appartamento di quattro camere. Chi si lamenta non sa quanto è fortunato a vivere qui».

 (ANSA il 16 gennaio 2021) - È Armin Laschet il nuovo presidente eletto dal congresso della Cdu in Germania. Laschet ha vinto il ballottaggio contro Friedrich Merz con 521 voti contro 466. All'elezione hanno votato 991 delegati della Cdu, collegati al Parteitag virtuale, e ci sono stati 4 astenuti. Con il risultato di oggi si afferma la linea della continuità con Angela Merkel, in un partito che ha a lungo discusso se fosse il caso di spostarsi più a destra, al seguito di Merz, promosso dall'ala più conservatrice. Ieri la cancelliera aveva espresso il suo sostegno indiretto al presidente del Nordreno-Vestfalia Laschet, auspicando che vincesse un "team". E oggi Laschet e lo stesso Jens Spahn, che ha rivolto un messaggio al Parteitag virtuale, hanno sottolineato di essere "il team" di questa importante elezione. Diversamente dal 2018, Spahn ha infatti deciso stavolta di non presentarsi alla elezione per la presidenza del partito, appoggiando il governatore.

Estratto dell’articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 16 gennaio 2021. Stasera sarà nominato il nuovo leader della Cdu. Idealmente, il candidato al dopo-Merkel. Il più grande storico del conservatorismo tedesco, Andreas Roedder, spiega come cambierebbero la Cdu, la Germania e l' Europa, con i tre candidati in corsa. Quanto a Merkel, il professore dell' Università di Magonza spiega perché la ritiene «sobria e autoritaria».

Roedder, finisce la lunghissima era Merkel, una donna che lei ha definito "sobria e autoritaria".

«Merkel ha sempre governato in opposizione ai politici testosteronici. A cominciare da Schroeder, poi con Berlusconi, Trump, Putin, Bolsonaro, Erdogan. Era l'emblema dell'opposto, un controcanto di sobrietà e razionalità. Se non fosse la cancelliera, lei neanche la noterebbe, al supermercato. Una sua grande forza è di non aver mai avuto bisogno di status symbol del potere e della ricchezza. È una politica che governa con mano ferma, che ha realizzato la politica del "basta", battezzata da Schroeder. Peraltro la definizione di "autoritaria" viene da lei».

Davvero?

«Nel 1991, Guenter Gauss, quintessenza della Bonner Republik, fa un'intervista a questa giovane e sconosciuta politica dell' est. E lo fa con un' arroganza paternalistica incredibile, oggi impensabile. Merkel, molto timida, racconta di non aver aderito ai Verdi perché i movimenti fondati sulla democrazia di base la insospettiscono. Ad un certo punto serve la sintesi, disse. Aggiungendo di ritenersi un po' autoritaria».

[…] Come sarebbe Armin Laschet come leader della Cdu?

«È una figura complessa. Al livello nazionale, si è sempre presentato come pretoriano di Angela Merkel. In Nordreno-Westfalia, però, ha ampliato la base del partito. È questa la sua forza. La caratterizzazione è la virtù migliore di Merz, l' integrazione quella di Laschet. Ed è un politico professionista, appoggiato dall' establishment». […]

Chi è Armin Laschet, il moderato eletto alla guida della Cdu. Il Dubbio il 16 gennaio 2021. Il governatore del Nord-Reno Vestfalia è considerato l’incarnazione perfetta del progressivo spostamento di vaste aree della Germania dalla socialdemocrazia al centrismo merkeliano. Quando è ad Aquisgrana, la sua città natale, Armin Laschet non manca mai di assecondare le sue due passioni meno nobili: va dal tabaccaio di fiducia per comprarsi i suoi amati sigari Buena Vista e gioca la schedina della Bundesliga, puntando sempre sulle squadre più «equilibrate» allo scopo di ridurre al massimo il rischio. È un dettaglio della sua vita privata che dice molto dei più marcati tratti politici del nuovo presidente della Cdu, appena incoronato al primo congresso interamente digitale dell’Unione Cristiana Democratica, il partito della cancelliera tedesca Angela Merkel. Con 521 voti contro i 466 ottenuti da Friedrich Merz, Laschet – governatore del Nord-Reno Vestfalia, il Land più popoloso della Repubblica federale – va a sostituire Annegret Kramp-Karrenbauer, dimissionaria da quasi un anno, mentre la scelta del candidato alla cancelleria verrà presa in primavera. Moderato, cattolico, «merkeliano», sia pur con qualche distinguo, così lo definiscono. Soprattutto un uomo del “centro”, nel senso che in Germania si usa dare a questa parola: il 59enne Laschet è l’uomo del dialogo «anche con chi non si ama» e della «coesione della società» di fronte alle sfide presenti e future, dalla pandemia del coronavirus alla digitalizzazione, dai cambiamenti climatici alle migrazioni. Così almeno ha ribadito con forza nel suo discorso di candidatura al congresso, ed è quel che commentano a caldo i giornali tedeschi. E ancora: lo considerano un fedelissimo della cancelliera. In realtà la descrizione calza solo in parte, anche se certamente Laschet tra i tre sfidanti nella corsa al vertice della Cdu è quello che dà le maggiori garanzie sul fatto che perseguirà la linea merkeliana in quanto a Europa, migranti, ambiente. «No alle divisioni, niente polarizzazioni», ha ripetuto oggi più volte l’uomo eletto a succedere ad Annegret Kramp-Karrenbauer: evidenti frecciate al suo principale antagonista, Friedrich Merz, l’iper-liberista considerato il capofila della corrente più conservatrice della Cdu. «Io non sono l’uomo della messinscena perfetta e non credo negli ’one-man-show: io sono Armin Laschet’», incalza. E c’è da credergli. Di famiglia cattolica, ministro-presidente del Nord-Reno Vestfalia dopo una vittoria che a molti non sembrò scontata (nel 2017 strappò il governo del Land alla socialdemocratica Hannelore Kraft), l’uomo è considerato l’incarnazione perfetta del progressivo spostamento di vaste aree della Germania dalla socialdemocrazia al centrismo merkeliano. Cresciuto in una famiglia cattolica come figlio di un minatore poi diventato insegnante, ha sempre voluto ricordare che i suoi studi di legge e poi le prime esperienze lavorative da giornalista per alcune emittenti televisive bavaresi non erano affatto ovvie per uno come lui: «Mio padre voleva dimostrare a me e ai miei tre fratelli che il lavoro paga e che l’ascesa sociale è possibile». Non sorprendentemente è stato nell’ambiente cattolico che ebbe i suoi primi contatti nella Cdu, ritrovandosi già a 28 anni consigliere nel comune di Aquisgrana, per diventare poi consulente scientifico dell’allora presidente del Bundestag Rita Suessmuth, e, di conseguenza, deputato e poi europarlamentare. Tornato in Nord-Reno Vestfalia, è da annotarsi il fatto che sia stato dal 2005 al 2010 ministro all’Integrazione nel governo del Land: a livello nazionale il primo con questo dicastero. «La molteplicità culturale, etnica e religiosa non deve esser percepita come una minaccia, ma come un’opportunità e una sfida», ebbe a dire nel 2009 Laschet, attirandosi le critiche delle fasce più conservatrici della Cdu. Ci tiene, il nuovo leader dei cristiano-democratici, a mostrare che il suo percorso nel mondo cattolico non è stato un accidente: da ragazzino è stato chierichetto, non ha mancato ad assumere ruoli di rilievo in parrocchia, sua moglie Susanne – sposata a 24 anni, i due hanno tre figli – l’ha conosciuta nel coro ecclesiastico. La benedizione da Papa Francesco l’ha avuta in un’udienza privata, nella quale ha colto l’occasione di invitare Bergoglio in Germania: «Il Papa ci spinge tutti quanti ad essere pronti al compromesso, in nome di soluzioni globali», ama ripetere. Dal punto di vista della linea politica, se da governatore i suoi tormentoni sono sempre stati la sicurezza interna e l’istruzione, oggi vengono molto criticate – soprattutto dai Verdi, da molti accreditati come futuri alleati di governo della Cdu – le sue posizioni contrarie all’uscita del carbone, poi modificate sotto l’inevitabile spinta merkeliana. Più limpida e netta – in questo perfettamente in linea con il credo della cancelliera – la sua opposizione a qualsiasi forma di collaborazione con l’Afd, il partito dell’ultradestra, mentre il dialogo con i Verdi è ancora tutto da costruire. La spaccatura della società, ha insistito anche al congresso, «è un veleno» alla quale la Cdu si deve contrapporre con la forza del dialogo e della coesione. C’è chi pensa che la sua debolezza (ossia il fatto di non essere proprio il prototipo del leader carismatico) in realtà sia la sua maggiore qualità: e se le chances di una sua vittoria in questi mesi di infinita campagna (il congresso è stato più volte rinviato a causa della pandemia) sono apparse a dir poco altalenanti, è vero che alle spalle Laschet ha due chiare vittorie elettorali nel suo Land e l’appoggio di buona parte dell’establishment del partito nazionale, non a caso cementato dalla sua alleanza in ticket con il ministro alla Sanità Jens Spahn, giovane e soprattutto popolarissimo. Uno dei punti dolenti negli ultimi mesi sono state invece le critiche per come ha gestito la pandemia, che all’inizio aveva colpito soprattutto la sua regione: troppo timido in quanto lockdown e misure dure, e troppo zelante nel cercare le riaperture. Tanto da scatenare l’ira di Frau Merkel, che quando parlò con durezza delle «discussioni orgiastiche sulle riaperture» intendeva chiaramente anche Laschet. Poi il governatore ha avuto modo di cambiare linea, sposando la stessa linea dura del suo collega Markus Soeder, ministro-presidente della Baviera. Com’è come non è, negli ambienti più vicini alla cancelliera molti stanno emettendo sospiri di sollievo con la vittoria di Laschet sull’iper-liberista Merz. Una spaccatura della Cdu, che in diversi hanno paventato, parrebbe scongiurata. «Le attitudini caratteriali del nuovo capo sono adatte a quest’epoca di tempesta», confessa uno dei delegati. Il perchè è presto detto: lo chiamano sovente «zio Armin», per il suo aspetto bonario, ma a Berlino molti assicurano che oltre alle apparenze si nasconda una scorza ben più dura. E ce ne vuole, per arrivare alle fatidiche elezioni del 26 settembre e per gestire il «lungo addio» di Frau Merkel dalla cancelleria.

Molto sesso, siamo tedeschi. EWA WANAT su La Repubblica il 2 dicembre 2020. Da Martin Lutero ai club sadomaso di Berlino, dal nudismo alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, alle classifiche nella arti amatorie all'epoca della Ddr: il racconto della giornalista e scrittrice polacca Ewa Wanat (Gazeta Wyborcza). Questo contenuto fa parte della newsletter Continental Breakfast, una selezione di articoli pubblicati dall'alleanza LENA (Leading European Newspaper Alliance). Berlino, estate. Il quartiere borghese di Charlottenburg. I viali sulla Sprea. I pensionati si scaldano sulle panchine. Sul prato, proprio accanto a un sentiero molto trafficato, una coppia sta copulando; il nudo sedere di lui si muove ritmicamente tra le gambe di lei. Passa un battello turistico, i passeggeri applaudono.

Lo sviluppo sessuale della Germania. In Germania il sesso nei luoghi pubblici è consentito. Tuttavia, bisogna essere discreti; per esempio non vanno mostrati i genitali. Se qualcuno va a lamentarsi dalla polizia, gli amanti rischiano fino a un anno di prigione. Molto spesso la cosa si conclude con una multa. Ma in ogni caso, la coppia sulla Sprea non ha scandalizzato nessuno. Hanno finito e poi si sono separati. Per chi viene dalla Polonia, una scena simile è piuttosto scioccante. Senza contare le decine di sex club berlinesi dove migliaia di persone si dilettano nel sesso di gruppo, i nudisti che prendono il sole in pieno centro, la parità matrimoniale per omosessuali, la prostituzione riconosciuta come regolare professione, con tanto di copertura assicurativa, diritto alla pensione e tassazione.

Perché la Germania è così libera in fatto di costumi? L’ho domandato a Laura Méritt, femminista sesso positiva, proprietaria del più antico sexy shop europeo per sole donne, cofondatrice del movimento PorYes, orientato alla promozione della pornografia femminista. Laura conduce anche seminari su vari argomenti, per esempio sul massaggio della vulva e sull’eiaculazione femminile. “Non credo che i tedeschi siano particolarmente liberi riguardo alla sessualità. Anzi, da questo punto di vista mi sembrano troppo poco queer, troppo poco gender. Pensiamo per esempio ai cliché, molto diffusi, che un maschio debba sempre essere attivo, avere un’erezione, che il sesso senza l’utilizzo del pene, senza penetrazione, sia in qualche modo peggiore, e così via. La Germania non è un paese particolarmente libero da un punto di vista sessuale, ma sicuramente sta si sta sviluppando”. Forse questa sessualità tedesca non è ancora molto queer, ma a ben guardare la rottura dei tabù sul sesso in Germania è iniziata 400 anni fa. Il teologo tedesco Martin Lutero rifiutò obbedienza alla Chiesa cattolica, dando così inizio alla Riforma del XVI secolo. Quando la Chiesa cattolica romana riteneva che il sesso fosse opera del Demonio, Lutero vi vedeva un importante elemento di unione tra l’uomo e la donna. Ovviamente, solo nel contesto del matrimonio: “Non ci può essere alcuna impurezza all’interno del matrimonio proprio per via della sua istituzione, del suo compito e della sua dignità, poiché tutto ciò è bene”, affermò. Scrisse durante un viaggio alla moglie Caterina: “Se Dio vuole, raggiungerò Wittenberg prima delle gelate invernali e vorrei unirmi a te così forte fino a schiantarti”. L’etica sessuale ecclesiastica venne di fatto capovolta con l’abolizione del celibato e l’introduzione del nuovo ruolo delle donne come mogli dei pastori. I sacerdoti riformati, come lo stesso Lutero, si sposarono, mescolarono dunque il sacro con il profano; di notte facevano sesso con le proprie mogli, di giorno celebravano la messa. Oggi alcune Chiese protestanti risultano addirittura più conservatrici della stessa Chiesa cattolica, ma molte ammettono il sacerdozio femminile e celebrano i matrimoni omosessuali. Lutero aveva comunque un lato oscuro: era profondamente convinto che le streghe andassero debellate sul rogo. Per l’avvento di un’autentica rivoluzione sessuale, la Germania – come tutto il mondo occidentale – dovette attendere il 1968. Prima ancora, tuttavia, ci furono eventi e persone a cui la rivolta del ’68 poteva fare riferimento.

L’Einstein del sesso. Negli anni Venti dello scorso secolo Berlino era considerata la città più peccaminosa d’Europa. Dopo le atrocità della Prima guerra mondiale, la gente aveva fame di vita. Ballerine seminude calcavano le scene dei teatri di rivista e dei cabaret. Le feste non di rado finivano con orge. Gay, lesbiche e trans avevano i loro club e i loro caffè. Si stima che fossero circa duecento, dunque forse più di oggi, per quanto le relazioni omosessuali maschili fossero punibili con la prigione. Qualche decennio più tardi lo scrittore Christopher Isherwood ha ricordato così quel periodo licenzioso: “A Berlino non bastava solo la volontà di fare sesso, bisognava specializzarsi. E nel caso in cui non uno non riuscisse a prendere una decisione, esisteva l’Istituto per la ricerca sessuale, dove si potevano studiare le foto degli ermafroditi, gli strumenti di tortura dei sadici, i fantasiosi disegni delle ninfomani, la biancheria intima femminile indossata dagli ufficiali sotto le uniformi e molte altre cose meravigliose. Il direttore dell’Istituto, un vecchio professore molto rispettato e animato da atteggiamento rigorosamente scientifico, sembrava un po’ deluso dal fatto che io non mostrassi alcuna particolare preferenza. Mi ha guardato con aria di rimprovero attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali, ha passato le dita tra i miei sporchi capelli biondi e alla fine ha diagnosticato il mio caso come infantilismo”. Il professore in questione, Magnus Hirschfeld, fondò il suddetto istituto nel 1919 rigettando, già cento anni fa, il modello binario della sessualità umana. Riteneva che esistessero delle fasi intermedie tra maschilità e femminilità. La sua teoria sarebbe poi stata sviluppata da Alfred Kinsey che, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, studiò la sessualità degli americani e realizzò una scala di sei punti sull’orientamento psicosessuale umano. I media americani soprannominarono Hirschfeld l’“Einstein del sesso”. Ebreo tedesco e gay, può essere considerato il padre della sessuologia mondiale. L’Istituto per la ricerca sessuale fu una delle prime istituzioni a venire liquidata da Hitler dopo la sua salita al potere. Il Terzo Reich aveva un atteggiamento molto singolare nei confronti della sessualità. La propaganda nazista arrivava a incoraggiare le relazioni extraconiugali, purché fossero “sane” e finalizzate alla procreazione di prole ariana. Nell’ambito del Reichsarbeitsdienst (RAD), il corpo ausiliario nazista istituito nel 1934, venivano promossi i contatti sessuali tra le giovani donne e i militari; i preservativi erano generosamente distribuiti tra i soldati. Ma solo nell’ambito del legittimo sesso “razziale”; i rapporti sessuali con una “razza inadeguata”, o con persone dello stesso sesso, erano severamente vietati. I gay e le persone trans furono tra i primi gruppi a finire nei campi di concentramento. Oggi, centinaia di migliaia di persone di tutto il mondo si incontrano per la parata annuale del Christopher Street Day. Durante l’ultima edizione prima della pandemia, nel 2019, proprio in occasione del centenario della fondazione dell’Istituto di Hirschfeld, oltre un milione di persone ha sfilato per le strade di Berlino. Famoso è anche il fetish Folsom Europe, il festival gay e lesbico del quartiere Schöneberg, dove abbondano i locali arcobaleno, i club e i sexy shop. A settembre le strade intorno a Nollendorfplatz si riempiono di persone seminude che indossano indumenti di pelle, latex, maschere, collari e finimenti. Omo, etero, bisex, trans, queer: a Berlino ognuno si sente a casa sua. Inclusi gli appassionati del kink, ovvero delle pratiche sessuali non convenzionali. Si può scegliere tra decine di sex club dove, oltre a ballare, è possibile fare sesso, incluso con estranei, nel corso di feste fetish tra pelle, latex, pissing. Ci sono club di scambisti, bordelli, seminari dove ci si può cimentare con le pratiche di sottomissione e dominazione. Internet è pieno di reclame su workshop sessuali tantrici, corsi di bondage o di massaggio intimo. Il club più antico di Berlino, il KitKat, è aperto a persone di tutte le età, a partire dai 18 anni. È questo forse l’aspetto più peculiare della scena sessuale di Berlino: non è soltanto animata da persone giovani, belle e atletiche, ma anche da gente di mezza età o addirittura da rappresentanti della generazione del ’68, oggi settantenni. Al KitKat vige uno specifico dress code: nel vestirsi non va trascurato l’aspetto erotico. Esporre parti del proprio corpo è cosa ben vista. L’interno del locale è un po’ datato, ricorda una discoteca degli anni Ottanta. Alcune persone ballano, altre utilizzano i numerosi angoli e anfratti per fare sesso in gruppi più o meno grandi. Volendo si può anche solo stare a guardare. Nel 2019 il proprietario dell’edificio ha disdetto il contratto d’affitto con il KitKat. Il fatto ha suscitato preoccupazione nel senato di Berlino che considera il club una delle maggiori attrazioni turistiche della capitale. Christian Goiny, un politico del partito di destra CDU (Unione Cristiano-Democratica di Germania) ha invitato la città a trovare un altro sito attraente per il benemerito club del sesso a “condizioni di locazione favorevoli e a lungo termine”. E il dipartimento della cultura del Senato ha dichiarato che “il KitKat e il Sage Club (altro locale che rischia di dover lasciare la sua sede storica) sono icone della cultura del clubbing di Berlino che vogliamo sostenere”. Oltre al KitKat, considerato ormai un classico, tra gli altri famosi sex club berlinesi vanno menzionati Insomnia, CarneBall Bizzare, Gegen, Apokalipstick, House of the Red Doors, Pornceptual, Polymotion. Senza contare il Berghain, famosissimo club techno aperto ai cercatori di nuove impressioni sessuali. Può accogliere fino a 2.000 persone. Ma prima di poter superare la selezione, devi farti le tue belle ore di coda. “All’entrata non si guarda chi è vestito come, la maggior parte delle persone si cambia o si spoglia una volta all’interno”, spiega Thomas, habitué del locale. “Nello spogliatoio ci sono molte persone nude e seminude, proprio come in uno spogliatoio in piscina, non c’è alcun imbarazzo. Inoltre non esiste un particolare dress code, per quanto a molti clienti piace il fetish. Una volta c’era una coppia sadomaso, lui era lo schiavo, lei lo tormentava in continuazione; lo faceva camminare sulle ginocchia, anche su e giù per le scale, si vedeva il dolore sul suo viso, mi faceva molta pena. Poi penso che si siano lasciati. Lui ha cominciato a venire da solo, beveva. Ha cercato di cercare una nuova dominante, si avvicinava alle ragazze, si sdraiava per terra, gli baciava le scarpe. Un altro frequentatore è un uomo che si piazza in bagno vicino agli orinatoi per tutta la serata. Quando gli piace un ragazzo, gli chiede educatamente di fargli pipì in bocca. Sta sempre lì, come un mobile. Una volta non si è più visto e tutti si chiedevano cosa gli fosse successo”.

L’obbligo matrimoniale del rapporto sessuale. Si parla di Berlino come del “Bordello d’Europa”; in città si trovano cose che non ci sono in nessuna altra parte del mondo, forse solo in Giappone (dove va per la maggiore il pornokaraoke). In un locale del quartiere Prenzlauer Berg vengono proiettati, senza audio, film porno di scarsa qualità degli anni Settanta. Il pubblico, tendenzialmente femminile, improvvisa dialoghi tra gemiti e mugolii. Dal 2006, uno dei tanti eventi culturali è Pornfilmfestival dedicato al cinema porno indipendente e alternativo dove la pornografia si intreccia con la politica, il femminismo e l’ecologia. Dal 2009, viene assegnato il premio femminista PorYes ai migliori registi di film porno pensati per il pubblico femminile. Ogni anno si svolge a Berlino la fiera erotica internazionale Venus Berlin. In un’area di oltre due ettari vengono presentati circa 250 espositori di 40 paesi. E pensare che fino al 1973 vigeva il cosiddetto Kuppelparagraph, il paragrafo per il lenocinio. Si punivano non solo i lenoni ma anche gli albergatori che affittavano una stanza a una coppia non sposata. Potevano andare incontro a conseguenze legali persino i genitori se permettevano ai propri figli adulti di dormire con i propri partners nella stessa stanza senza che fossero sposati. Nel 1968, il settimanale Der Spiegel riportava: “Il tribunale distrettuale di Passau ha condannato un muratore di 68 anni e sua moglie di 63 anni al carcere per grave lenocinio. La coppia ha permesso che il figlio quarantaduenne vivesse nella loro casa con la propria compagna e i loro quattro figli senza che fossero uniti in matrimonio”. Il matrimonio patriarcale era sacro. Nel 1966, un tribunale di Karlsruhe sentenziò: “Il matrimonio obbliga la donna ad avere rapporti sessuali nella disponibilità al sacrificio e proibisce di mostrare indifferenza o avversione”. A quei tempi, la pornografia era vietata nella Repubblica Federale Tedesca, così come la vendita e la pubblicità di prodotti contraccettivi (ad eccezione dei preservativi). Il sesso tra maschi poteva essere punito con il carcere addirittura fino al 1994; l’ultimo condannato è stato rilasciato solo nel 2004. L’aborto era completamente bandito e chi lo praticava rischiava fino a cinque anni di prigione. Il paragrafo 218 in questo ambito vige ancora oggi, per quanto in realtà sia lettera morta. Nel 1974 è stato riformato, ma non rimosso.

Orgasmatron. In una simile atmosfera, nel lontano 1962, Beate Uhse aprì il primo sexy shop del mondo nella cittadina tedesca di Flensburg. Solo nei primi dieci anni di attività venne chiamata 25 volte a comparire davanti a un giudice e contro di lei furono avviati ben 400 procedimenti penali per “favoreggiamento dell’adulterio”. Quando poi la pornografia venne legalizzata, Beate Uhse si occupò della produzione e distribuzione di film porno, ragion per cui fu scomunicata dalle femministe tedesche. Era tuttavia una ex pilota della Wehrmacht, nata nel 1919, l’anno in cui Hirschfeld fondò l’Istituto per la ricerca sessuale; non era una missionaria che lottava per la rivoluzione sessuale o l’emancipazione delle donne, ma solo una donna d’affari. Lei stessa diceva di sé: “Non sono mica Gesù, sono un’imprenditrice”. Forse la storia sessuale della Germania sarebbe stata diversa se Sigmund Freud non avesse scritto in tedesco, se avesse formulato in un’altra lingua i termini con cui descriveva la sua teoria sessuale. Freud ridefinì la sessualità umana attraverso il prisma della ricerca del piacere e non semplicemente della finalità procreativa. Sosteneva che l’intera cultura sia nata come sublimazione della pulsione sessuale e che questa pulsione sia la forza fondamentale che spinge avanti la nostra civiltà. Oltretutto era ben consapevole della rivoluzione che aveva iniziato. Scrisse a Carl Gustav Jung: “Per favore promettimi che non rinuncerai mai alla teoria sessuale. Dobbiamo farne un dogma, un bastione difensivo incrollabile contro la nera e fangosa inondazione dell’occultismo”. Il secondo scienziato di lingua tedesca che ebbe un ruolo determinante nell’influenzare la sessualità dei tedeschi di oggi fu Wilhelm Reich, uno studente di Freud. Condusse, tra l’altro, delle ricerche sulle tensioni causate dall’insoddisfazione del desiderio sessuale; il suo principale oggetto di studio in questo ambito era la masturbazione. Si occupava anche dell’educazione sessuale negli ambienti operai. Riteneva la verginità una malattia e propose di curarla attraverso i contatti sessuali, compresi quelli di gruppo. Era un personaggio controverso, per usare un eufemismo: ebbe molte fidanzate e mogli, praticò su di loro l’aborto. Pare che la sua prima compagna fosse morta proprio a causa di un intervento abortivo mal eseguito. Arrivò a molestare le sue pazienti, costringendole ad avere rapporti sessuali con lui. Dal 1935 condusse delle ricerche sull’orgasmo: i volontari venivano collegati a un oscillografo e ascoltavano racconti erotici, guardavano donne nude, si masturbavano in coppia o in gruppo. Uno di questi volontari fu il futuro cancelliere tedesco Willy Brandt. Reich è ideatore della teoria esoterica e pseudoscientifica dell’Orgone, l’energia cosmica e creativa che pervade la natura. Arrivò a costruire l’Accumulatore orgonico per catturare l’energia dal cosmo e trasferirla nel corpo umano. Questo strumento fu poi la fonte di ispirazione per l’Orgasmatron, in cui Barbarella interpretata da Jane Fonda raggiunge un orgasmo cosmico in un film, per quei tempi, rivoluzionario. Reich morì devastato dalle sue paranoie e bollato come ciarlatano in una prigione della Pennsylvania nel 1957. Dieci anni dopo, insieme ai filosofi Herbert Marcuse e Theodor Adorno, divenne uno dei guru della rivolta studentesca. Forse soprattutto per via della sua convinzione che l’oppressione sessuale sia un elemento intrinseco del capitalismo e che nella sessualità repressa vada individuata la radice di tutti i mali, inclusi il fascismo e il nazismo. Nel 1968, gli studenti tedeschi ribelli scandivano: “Leggi Reich e agisci!”. Leggevano la sua opera e proclamavano che la famiglia patriarcale non è in grado di soddisfare i bisogni sessuali, quindi è la radice di ogni male e deve scomparire.

Una medicina per il fascismo. Nel 1967, a Berlino Ovest, venne istituita la Kommune I. Doveva essere l’opposto della famiglia borghese. I suoi membri promuovevano l’amore libero. Vivevano insieme e facevano l’amore su materassi stesi per terra. Avevano rimosso la porta del bagno. Seguendo il pensiero Reich, credevano che una sessualità autenticamente libera potesse prevenire sia il fascismo che le nevrosi. Uno dei motti di questa rivoluzione era: “Chi va a letto due volte con la stessa appartiene all’establishment”. In questo slogan salta agli occhi il complemento indiretto “con la stessa”. Si trattava infatti di una rivolta di maschi eterosessuali. La rivoluzione sessuale delle donne è arrivata solo dopo e l’emancipazione delle persone LGBT+ è stata il suo ultimo atto. Almeno altrettanto famosa quanto la Kommune I era la cantina della sede della SDS (Lega tedesca degli studenti socialisti) a Francoforte sul Meno. Al primo piano si svolgevano le riunioni dei rivoluzionari e, una volta concluse, gli attivisti scendevano nel seminterrato e si lasciavano andare a orge sessuali. Nella Germania dell’Est, la situazione era diversa rispetto alla Germania Ovest. L’aborto e gli anticoncezionali erano accessibili e gratuiti, il sesso fuori dal matrimonio era legale così come i rapporti omosessuali. E dagli anni Settanta, mentre nella Germania Ovest imperversava la rivoluzione sessuale, “i tedeschi della Repubblica Democratica Tedesca avevano accesso a ciò noi potevamo solo sognarci” ha ricordato il prof. Lew-Starowicz al settimanale “Wprost” nel 2000. “Poiché il Muro di Berlino non poteva ergersi nell’etere, era possibile guardare a volontà i programmi televisivi della Germania Ovest con tanto di signorine spogliate, oppure ascoltare trasmissioni sull’amore libero piuttosto scioccanti, almeno per quei tempi. Sapevamo, e alcuni di noi lo sapevano avendolo visto con i propri occhi, che gli abitanti della Germania dell’Est erano disinibiti. Per loro non c’era alcun tabù riguardo al sesso”. Pare che in Germania sia piuttosto diffusa la convinzione che gli abitanti dell’ex-Germania orientale avessero una vita sessuale più soddisfacente. Il sessuologo Kurt Starke si arrabbia ogni volta che lo sente dire. “Nel 1988, insieme al mio collega Ulrich Clement, abbiamo confrontato il comportamento sessuale degli studenti della Germania Ovest e della Germania Est", ha raccontato al settimanale “Der Spiegel”. “Abbiamo scoperto che le studentesse della Repubblica democratica tedesca arrivavano all’orgasmo più spesso delle ragazze della Repubblica Federale. Nel 1990, il quotidiano Bild ha ritrovato questo studio e ha annunciato in prima pagina che le donne della RDT arrivano l’orgasmo più spesso! È nato così uno stereotipo ancora diffuso, ovvero che le tedesche dell’est siano meglio a letto. Ma lo scarto statistico tra le studentesse era minimo”. In ogni caso è stata sicuramente la Germania orientale a introdurre il FKK (Freikörperkultur), ovvero il naturismo, inteso come integrale stile di vita. Nella Germania dell’est, nel 1982, esistevano già 40 lidi balneari per nudisti, mentre nel 1988 erano saliti a 60. C’erano anche campeggi speciali per nudisti, con campi da pallavolo e parchi giochi per bambini. La FKK ha una lunga tradizione in Germania. Il primo club per nudisti sorse nel lontano 1898 nella regione della Ruhr. A Tiergarten, il grande parco del centro di Berlino, proprio accanto alla Colonna della Vittoria (quella sormontata dall’angelo dorato), c’è un prato dove i nudisti per tutta l’estate espongono al sole i loro corpi nudi; si trova a circa un chilometro di distanza dal palazzo Bellevue, residenza ufficiale del Presidente tedesco, a due chilometri dal Reichstag e dall’ufficio del cancelliere. Una volta c’è stato un violento acquazzone. Un giovane in abito adamitico è corso a rifugiarsi sotto a un portico, insieme a un gruppo di altre persone. Ha estratto senza fretta un asciugamano e dei vestiti dallo zaino, si è asciugato e si è rivestito. Nessuno ci ha fatto caso. Una normale scena berlinese. Nella stessa Berlino, ci sono una dozzina di laghi con selvagge spiagge sorvegliate, dove i bagnanti in costume da bagno si mescolano a quelli completamente nudi, uomini e donne, giovani e vecchi. Di fatto le classiche spiagge per nudisti non esistono più: se qualcuno ha voglia di spogliarsi completamente lo fa e basta. Sì potrebbe anche arrischiare la tesi che, in una certa misura, i tedeschi debbano il naturismo a Martin Lutero. In fondo i fondatori del movimento FKK erano per lo più protestanti. (Copyright Gazeta Wyborcza/Lena-Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Dario Prola)

* In Germania l’aborto è consentito entro i primi tre mesi di gravidanza. Dopo tale termine, è consentito nel caso in cui la gravidanza metta in pericolo la salute mentale e fisica della donna o in caso di potenziale pregiudizio per il feto. Ma se pubblicizzi l'aborto o ricorri a questa pratica senza passare dal consultorio passi i guai. C'è un grosso e acceso dibattito sulla questione.

·        Quei razzisti come gli austriaci.

Finisce l’era Kurz in Austria, a Vienna è un vero terremoto politico. Mauro Indelicato su Inside Over il 3 dicembre 2021. A Vienna c’è solo l’imbarazzo della scelta: è più importante l’addio alla politica dato da Sebastian Kurz oppure la fine prematura di Alexander Schallenberg quale capo dell’esecutivo? Nel giro di poche ore il mondo politico austriaco è stato stravolto. Nelle prime ore del mattino era arrivata la notizia della fine dell’era Kurz. L’inchiesta per corruzione che lo ha coinvolto personalmente ha causato prima la caduta del suo governo il 6 ottobre scorso e adesso il ritiro dalla politica. Nel pomeriggio invece è stato il suo successore ad annunciare un passo indietro. Schallenberg è infatti pronto a firmare le dimissioni. Cosa sta accadendo nella capitale austriaca?

La fine dell’era Kurz

Schallenberg non aveva velleità di leader di partito. Quel ruolo è stato, fino a questo giovedì, nelle mani di Kurz. Quest’ultimo è stato assoluto protagonista della politica austriaca degli ultimi anni. Dopo una carriera lampo che lo ha portato, ad appena 27 anni, a diventare ministro degli Esteri, nel 2017 ha assunto la carica di segretario dell’Ovp, il Partito Popolare. Da questo scranno la sua voce è rimbalzata in varie parti d’Europa. Specialmente quando, una volta assunta anche la carica di cancelliere, ha spostato l’Ovp verso posizioni maggiormente di destra. Una scommessa in un primo momento vinta. Il pugno duro sull’immigrazione ha portato alla vittoria delle elezioni nel 2017 e gli sono valse simpatie in quegli ambienti conservatori europei che iniziavano a strizzare l’occhio verso destra. Il cosiddetto “Ibiza gate“, uno scandalo su presunti favori politici che ha coinvolto l’allora vice cancelliere Heinz-Christian Strache, leader degli alleati del Partito delle Libertà (Fpo), ha però provocato il primo stop alla sua esperienza di capo del governo.

Kurz ha rassegnato le dimissioni ma nel gennaio 2020 è riuscito a tornare in sella. Le elezioni anticipate hanno confermato l’Ovp quale primo partito e alla fine in parlamento è riuscito ad ottenere nuova fiducia, pur con una diversa maggioranza formata adesso con i Verdi. Nel maggio 2021 sono arrivate altre grane giudiziarie. L’onda lunga dell’Ibiza gate ha coinvolto lo stesso Kurz, indagato per aver dichiarato falsa testimonianza agli inquirenti durante le fasi più calde di quell’inchiesta. Lo scorso 6 ottobre invece la procura di Vienna ha confermato l’inserimento del nome del cancelliere tra gli indagati nell’ambito di un’indagine su presunti casi di corruzione. Quel giorno stesso il leader dell’Ovp ha rassegnato le dimissioni da capo del governo. Sembrava però un’uscita di scena momentanea. Le parole di questo giovedì hanno invece ribaltato il quadro: “Non sono un criminale – ha dichiarato Kurz alla stampa annunciando l’addio alla presidenza dell’Ovp – lo dimostrerò. Ultimamente però la fiamma dell’entusiasmo si è spenta. Con il mio staff ci siamo sentiti come prede di caccia”. É finita così la carriera politica del Wunderkind, il ragazzo prodigio. Kurz ha bruciato le tappe anche del ritiro, chiudendo il suo percorso politico ad appena 35 anni.

Le dimissioni di Alexander Schallenberg

Alexander Schallenberg, sempre dell’Ovp e sempre con una maggioranza formata con i Verdi, aveva preso il posto di Kurz. A ottobre il giuramento del nuovo governo che ha subito portato in dote l’inasprimento delle misure anti Covid. Ma la fine anticipata della carriera politica di Kurz ha segnato i destini dell’esecutivo. A poche ore dalle dichiarazioni dell’oramai ex leader Ovp sono arrivate le dimissioni di Schallenberg: “Non è mia intenzione assumere la funzione di presidente federale del Partito Popolare – ha dichiarato ai giornalisti di Vienna – Sono della ferma opinione che entrambe le cariche devono coincidere nella stessa persona”. In poche parole, con la fine dell’era Kurz l’Ovp è chiamato a scegliere il suo nuovo presidente. Il quale, a sua volta, sarà chiamato a guidare quindi il nuovo governo. Niente elezioni infatti all’orizzonte, almeno per il momento. Quando il Partito Popolare si doterà di nuovi equilibri, si arriverà alla nomina di un altro esecutivo. L’Austria è quindi alla vigilia di una svolta tutta interna alla sua politica.

Elena Tebano per il corriere.it il 9 ottobre 2021. Il secondo cancellierato di Sebastian Kurz, l’enfant prodige della politica europea, finisce come il primo: per uno scandalo di corruzione. Stavolta è lo stesso capo del governo austriaco, 35 anni, a dimettersi, dopo essere stato accusato dalla procura per gli affari economici e la corruzione (WKStA) di Vienna di aver finanziato con fondi pubblici sondaggi favorevoli al suo Övp, il Partito popolare austriaco, per facilitare la sua ascesa a cancelliere quando era ancora solo ministro degli Esteri nel governo della Grande coalizione con i socialdemocratici, nel 2016. Kurz respinge le accuse: «Sono false e riuscirò a dimostrarlo», ha detto annunciando in conferenza stampa il suo passo indietro. «Mi importa più del mio Paese che della mia persona. Faccio spazio per evitare il caos e garantire la stabilità», ha aggiunto. In realtà fino all’ultimo ha provato a rimanere alla guida dell’esecutivo, come già nel 2019, quando lo scandalo investì il suo alleato di governo, il leader dell’estrema destra Heinz-Christian Strache, ripreso a Ibiza in un video-trappola mentre prometteva contratti statali in cambio di fondi illeciti al suo partito. «Le accuse sono false, ma proprio perché sono false mi danno la forza per difendermi e per andare avanti» aveva dichiarato Kurz dopo che le perquisizioni di mercoledì scorso negli uffici del suo portavoce Johannes Frischmann, del responsabile della comunicazione Gerald Fleischmann e del consigliere politico Stefan Steiner avevano fatto emergere le indagini. Una linea tenuta fino a ieri. Solo quando i Verdi, che formano la maggioranza con il Partito popolare, hanno detto che le «accuse gravose e pesanti» avrebbero messo in discussione la sua «capacità di azione» come cancelliere («dovrà passare anni a difendersi») e hanno invitato la Övp a «trovare una persona irreprensibile che possa ricoprire questo ruolo», Kurz ha capito che non avrebbe superato il voto di fiducia previsto per martedì. E ha giocato d’anticipo, proponendo che a succedergli come cancelliere sia il suo ministro degli Esteri e compagno di partito Alexander Schallenberg. Ha anche accusato i Verdi di «irresponsabilità» per «aver deciso di prendere una posizione chiara contro di me», e annunciato che rimarrà alla guida dell’Övp, diventandone capogruppo in parlamento. Intanto sono già in corso i colloqui tra le forze politiche e nell’Övp per un nuovo esecutivo. Secondo informazioni raccolte dell’agenzia di stampa austriaca Apa, i Verdi stanno prendendo in considerazione anche un’alleanza con l’estrema destra Fpö. 

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 10 ottobre 2021. Il grande Karl Kraus definì l’Austria all’inizio del Novecento, «il luogo di sperimentazione della fine del mondo». Ventidue anni e un secolo dopo, i fatti viennesi continuano a dargli ragione. Le dimissioni di Sebastian Kurz, travolto da uno scandalo dove hubris e determinazione criminale a truccare il gioco della democrazia si sorreggono vicenda, aprono molto più di una crisi politica, svelando la realtà di un sistema dove il «nuovo stile» promesso dal cancelliere era solo una sceneggiata. Era il più giovane capo di governo del mondo, Sebastian Kurz. Era il principe dal volto di porcellana venuto dal nulla, che aveva conquistato e trasfigurato una forza veneranda come la ÖVP, il partito popolare, facendone il docile strumento di un’ascesa tanto improbabile quanto irresistibile. Maestro nell’arte della seduzione retorica, flessibile e vago quanto basta per non legarsi a posizioni definitive, Kurz aveva offerto a un Paese sazio, ricco e sonnolento, il brivido del cambiamento e di una nuova frontiera politica. «Io sono una persona molto normale», mi disse quando lo intervistai nel 2020, poco dopo aver dato vita all’inedita alleanza tra popolari e verdi, che faceva dell’Austria il laboratorio politico dell’Europa. «Abbiamo messo insieme il meglio dei due mondi, che permetterà a entrambi di mantenere le più importanti promesse: noi ridurremo le tasse e continueremo la battaglia contro l’immigrazione illegale, i Verdi potranno intensificare la lotta ai cambiamenti climatici e rendere più trasparente l’Amministrazione». Una promessa, quest’ultima, che suona beffarda alla luce di quanto emerge in queste ore. Ha sempre avuto fretta Sebastian Kurz. A Vienna se lo ricordano ancora quando, nel 2009, si candidò al consiglio comunale e girava a bordo di una «Geil-o-Mobil», l’auto figa, non soltanto nel senso di cool. E in verità, il futuro cancelliere si accompagnava a diverse signore succintamente vestite, distribuendo profilattici neri, il colore del partito che lui poi avrebbe mutato in turchese. È un passato del quale non ha più parlato volentieri, da quando è iniziata la sua marcia di Radetzky verso la vetta: sottosegretario all’Integrazione a 24 anni, deputato a 26, ministro degli Esteri a 27, subito a suo agio sulla scena del mondo. I suoi viaggi a New York per l’Assemblea dell’Onu si raccontano: incontri di alto livello, interventi sulla minaccia dell’islam radicale, colloqui privati con Henry Kissinger. I modi garbati, la figura elegante, il volto fanciullesco reso luminoso dai lunghi capelli tirati indietro all’Umberta. Nel 2016, il suo primo, vero momento di gloria: bacchetta addirittura Angela Merkel, che ha accolto in Germania oltre 1 milione di rifugiati siriani, ed è decisivo nel chiudere la rotta balcanica. Ma la vera partita è interna. Disciplina, determinazione, Wille zur Macht, volontà di potere, sono le qualità che Kurz sfodera mettendo in atto un piano segreto, curato in ogni dettaglio: Operation Ballhaus Platz, dal nome della piazza dov’è la cancelleria viennese. Oggi sappiamo che quel piano aveva una parte criminale, fatta di corruzione, sondaggi truccati, falsa pubblicità. A maggio 2017 Kurz fa un’Opa ostile sulla ÖVP, mettendo fuori i vecchi cacicchi. In tre mesi seduce gli austriaci con un copione di estrema destra: no all’immigrazione, chiusura delle frontiere, espulsioni facili che i profughi che sgarrano. Nel settembre 2017, diventa per la prima volta cancelliere, alleandosi con una delle più imbarazzanti forze sovraniste d’Europa, la FPÖ di Heinz-Christian Strache. Se ne libererà con l’Ibiza-gate, una storia tra il boccaccesco e il ridicolo, tra figlie di finti oligarchi e promesse di favori. Quando nel 2019 Kurz trionfa alle nuove elezioni con oltre il 37% e sceglie i Verdi, sembra invincibile. Ma è solo un’illusione. La favola breve è finita. L’Austria ha di nuovo sperimentato la fine del mondo.

Kurz: favole e trucchi di Sebastian, il bambino prodigio che stregò Vienna. Paolo Valentino Il Corriere della Sera il 9 Ottobre 2021. Il più giovane capo di governo del mondo: lo stile seduttivo, gli incontri con Kissinger, le bacchettate alla Merkel. La sua caduta per l’Austria è molto più di una crisi politica. Il grande Karl Kraus definì l’Austria all’inizio del Novecento, «il luogo di sperimentazione della fine del mondo». Ventidue anni e un secolo dopo, i fatti viennesi continuano a dargli ragione. Le dimissioni di Sebastian Kurz, travolto da uno scandalo dove hubris e determinazione criminale a truccare il gioco della democrazia si sorreggono vicenda, aprono molto più di una crisi politica, svelando la realtà di un sistema dove il «nuovo stile» promesso dal cancelliere era solo una sceneggiata. Era il più giovane capo di governo del mondo, Sebastian Kurz. Era il principe dal volto di porcellana venuto dal nulla, che aveva conquistato e trasfigurato una forza veneranda come la ÖVP, il partito popolare, facendone il docile strumento di un’ascesa tanto improbabile quanto irresistibile. Maestro nell’arte della seduzione retorica, flessibile e vago quanto basta per non legarsi a posizioni definitive, Kurz aveva offerto a un Paese sazio, ricco e sonnolento, il brivido del cambiamento e di una nuova frontiera politica. «Io sono una persona molto normale», mi disse quando lo intervistai nel 2020, poco dopo aver dato vita all’inedita alleanza tra popolari e verdi, che faceva dell’Austria il laboratorio politico dell’Europa. «Abbiamo messo insieme il meglio dei due mondi, che permetterà a entrambi di mantenere le più importanti promesse: noi ridurremo le tasse e continueremo la battaglia contro l’immigrazione illegale, i Verdi potranno intensificare la lotta ai cambiamenti climatici e rendere più trasparente l’Amministrazione». Una promessa, quest’ultima, che suona beffarda alla luce di quanto emerge in queste ore. Ha sempre avuto fretta Sebastian Kurz. A Vienna se lo ricordano ancora quando, nel 2009, si candidò al consiglio comunale e girava a bordo di una «Geil-o-Mobil», l’auto figa, non soltanto nel senso di cool. E in verità, il futuro cancelliere si accompagnava a diverse signore succintamente vestite, distribuendo profilattici neri, il colore del partito che lui poi avrebbe mutato in turchese. È un passato del quale non ha più parlato volentieri, da quando è iniziata la sua marcia di Radetzky verso la vetta: sottosegretario all’Integrazione a 24 anni, deputato a 26, ministro degli Esteri a 27, subito a suo agio sulla scena del mondo. I suoi viaggi a New York per l’Assemblea dell’Onu si raccontano: incontri di alto livello, interventi sulla minaccia dell’islam radicale, colloqui privati con Henry Kissinger. I modi garbati, la figura elegante, il volto fanciullesco reso luminoso dai lunghi capelli tirati indietro all’Umberta. Nel 2016, il suo primo, vero momento di gloria: bacchetta addirittura Angela Merkel, che ha accolto in Germania oltre 1 milione di rifugiati siriani, ed è decisivo nel chiudere la rotta balcanica. Ma la vera partita è interna. Disciplina, determinazione, Wille zur Macht, volontà di potere, sono le qualità che Kurz sfodera mettendo in atto un piano segreto, curato in ogni dettaglio: Operation Ballhaus Platz, dal nome della piazza dov’è la cancelleria viennese. Oggi sappiano che quel piano aveva una parte criminale, fatta di corruzione, sondaggi truccati, falsa pubblicità. A maggio 2017 Kurz fa un’Opa ostile sulla ÖVP, mettendo fuori i vecchi cacicchi. In tre mesi seduce gli austriaci con un copione di estrema destra: no all’immigrazione, chiusura delle frontiere, espulsioni facili che i profughi che sgarrano. Nel settembre 2017, diventa per la prima volta cancelliere, alleandosi con una delle più imbarazzanti forze sovraniste d’Europa, la FPÖ di Heinz-Christian Strache. Se ne libererà con l’Ibiza-gate, una storia tra il boccaccesco e il ridicolo, tra figlie di finti oligarchi e promesse di favori. Quando nel 2019 Kurz trionfa alle nuove elezioni con oltre il 37% e sceglie i Verdi, sembra invincibile. Ma è solo un’illusione. La favola breve è finita. L’Austria ha di nuovo sperimentato la fine del mondo.

Austria: media, Kurz indagato per favoreggiamento corruzione. (ANSA il 6 ottobre 2021) -Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz è indagato per "favoreggiamento della corruzione". Lo scrivono i quotidiano Die Presse e Der Standard sui loro portali news. Risulterebbero indagati anche stretti collaboratori del leader del partito popolare Oevp, soprattutto dello staff stampa. L'inchiesta riguarda sondaggi pubblicati dal quotidiano "Oesterreich" e della tv privata "oe24", entrambi di proprietà della famiglia Fellner. Questi sondaggi sarebbero stati pagati dal ministero delle finanze, ma "esclusivamente per scopi partitici". Gli inquirenti vogliono anche vedere chiaro su 1,3 milioni di euro di annunci sui media dei Fellner. Perquisizioni stamattina a Vienna in Cancelleria e nella sede dell'Oevp, il partito del cancelliere Sebastian Kurz. L'interesse degli inquirenti, riferiscono i media, era rivolto soprattutto a documenti e supporti informatici di "stretti collaboratori" di Kurz. Da alcuni giorni diversi media ipotizzavano imminenti perquisizioni che non riguarderebbero però la già nota inchiesta sulle nomine della Casino Austria, ma una campagna di annunci sul quotidiano “Oesterreich”. Secondo Die Presse, l'inchiesta riguarderebbe anche l'ex ministra Sophie Karmasin e gli editori di”'Oesterreich”, Helmuth e Wolfgang Fellner. (ANSA).

Letizia Tortello per "la Stampa" il 7 ottobre 2021. Un sondaggio molto favorevole per scalare il partito, commissionato per avere buona stampa, ma pagato con fondi pubblici. E pubblicato sul tabloid «Österreich», in cambio di copiosa pubblicità. Sono queste le molle che hanno fatto scattare le perquisizioni nelle stanze del governo austriaco guidato da Sebastian Kurz, nella sua casa, nella sede dell'Övp e negli uffici e nelle abitazioni di alcuni stretti collaboratori. Il cancelliere è indagato insieme ad altre nove persone. Le accuse sono di peculato, concussione e concorso in corruzione. Nel mirino della Procura austriaca per gli affari e la corruzione (Wksta) anche i suoi strateghi della comunicazione. Una specie di House of cards in salsa viennese, che risalirebbe al 2016, quando Kurz era un giovane ministro degli Esteri di ottime speranze e puntava a conquistare e svecchiare il partito popolare, per poi candidarsi. A questo scopo, allora 30enne, avrebbe studiato il «progetto Ballhausplatz» - dal nome della piazza della cancelleria -: un piano in 61 passaggi tra cui l'incarico per un sondaggio, per preparare la sua ascesa e mettere in cattiva luce il leader dell'epoca, Reinhold Mitterlehner. Gli inquirenti sono partiti dal sequestro di telefoni cellulari di un'altra inchiesta, quella del «caso Ibiza», che nel 2019 fece cadere il governo Kurz (diventato nel 2017 cancelliere d'Austria) con l'ultradestra. In questa indagine Kurz è accusato di falsa testimonianza in merito ad una sua deposizione sullo scandalo. Ora, arriva una tegola più grossa, con il sospetto che l'ex ministro e i suoi collaboratori abbiano utilizzato fondi pubblici del ministero delle Finanze per pagare sondaggi compiacenti e pubblicità da 1,3 milioni di euro, che avrebbe garantito copertura mediatica positiva sul quotidiano austriaco. Kurz e i suoi avrebbero architettato tutto questo per scopi politici del partito, ma con soldi ministeriali, visto che ai fondi dell'Övp lui non aveva accesso. «Il 61% degli austriaci intervistati ritiene che la leadership Kurz avrebbe un'influenza positiva sul partito popolare, il 33% abbastanza positiva, solo il 6% negativa», diceva la rilevazione, costata, pare, 70 mila euro, rendicontata con fatture false e affidata a una sondaggista amica ed ex ministro della Famiglia, Sophie Karmasin, in accordo con gli editori di «Österreich», i fratelli Fellner, proprietari anche della tv Oe24 e attualmente indagati. Il patto l'avrebbe messo in piedi un intermediario, l'ex segretario generale del ministero delle Finanze, Thomas Schmid, ex ceo della holding di Stato austriaca Österreichische Industrieholding (Öbag), coinvolto a sua volta nell'inchiesta. Le perquisizioni non sono arrivate d'improvviso, anzi l'Övp negli scorsi giorni aveva convocato una conferenza stampa definita da alcuni «insolita», in cui avvisava che «non si sarebbe trovato nulla». «Contro di me accuse costruite», tuona Kurz, «estrapolati passaggi di sms, messi in un contesto sbagliato per costruirci intorno». L'opposizione dell'ultradestra e dei socialdemocratici chiede le sue dimissioni. Il partito popolare invece parla di «cellule di sinistra nella magistratura», ma in questo modo imbarazza i Verdi, partner di coalizione. Kurz resiste, ma a Vienna potrebbe aprirsi una crisi politica, che travolgerebbe per la seconda volta in quattro anni un governo guidato da lui.

Il simbolo della monarchia mitteleuropea 800entesca. La storia della Principessa Sissi, l’imperatrice asburgica che ha ispirato film e romanzi. Vito Califano su Il Riformista il 4 Giugno 2021. È diventata famosa in tutto il mondo con un soprannome, Sissi, da Sisi, che della Principessa Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach voleva essere una sorta di diminutivo. Una delle principesse più famose della storia, raccontata da decine di film, compresa una serie tv animata, e romanzi; un simbolo della nobiltà europea del XIX secolo, ma anche di un temperamento e di una personalità libere dagli stretti dettami dell’aristocrazia mitteleuropea. La sua storia è stata tramandata nel ‘900 soprattutto grazie a tre film girati negli anni cinquanta da Ernst Marischka con Romy Schneider nel ruolo della principessa: La principessa Sissi; Sissi – La giovane imperatrice; Sissi – Destino di un’imperatrice; ai quali si deve il soprannome mai avuto in vita dalla Principessa. Elisabetta nasce il 24 dicembre 1837 a Monaco, nella regione tedesca della Baviera, figlia del duca Massimiliano e della duchessa Ludovica, appartenenti a due rami secondari della famiglia reale bavarese. La sorella Elena è promessa sposa dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe d’Asburgo, che però al momento di stringere il fidanzamento, si innamora di Sissi. E’ l’estate del 1853, e nonostante le riserve sulla scelta del figlio dell’arciduchessa Sofia, madre di Francesco Giuseppe, sul carattere esuberante e anche ribelle, di Elisabetta, le nozze si celebrarono nel 1854. Sissi ha 17 anni. Diventa Imperatrice d’Austria, regina apostolica di Ungheria, regina di Boemia e di Croazia per oltre 40 anni e sopporta sempre a malapena la vita di corte. I protocolli sono rigidi e i rapporti con la suocera arciduchessa sono complicati. Sofia le impedì di occuparsi dell’educazione delle sue due figlie, Sofia e Gisella. La primogenita si ammala in un viaggio in Ungheria, nel 1857, viaggio verso il quale la suocera era fortemente contraria. La piccola Sofia, di appena due anni, si ammala e muore. Sissi cade in depressione e neanche la nascita del terzogenito Rodolfo riesce a sollevarla. Alla sua inquietudine prova a reagire con i suoi interessi: lo studio, i poeti romantici, i viaggi. La principessa visita tutti i territori degli Asburgo, anche quelli spesso in contrasto con il potere centrale che si pone con pugno di ferro. Sissi ha invece idee più liberali dei vertici degli Asburgo e convince il marito a concedere maggiore libertà alle Province. Con la sua decisiva influenza, nel 1867 Francesco Giuseppe firma l’accordo che rende l’impero d’Austria impero Austro-Ungarico, mettendo la corona ungherese alla pari di quella austriaca. Sissi trascorre i suoi ultimi anni sempre più spesso a Corfù, in Grecia e scrive poesie ispirate al romanticismo tedesco. Rodolfo, suo terzogenito, nel 1889 si toglie la vita e lei comincia a vestire di nero. Lo stesso anno, a 60 anni, la principessa resta vittima dell’attentato di un anarchico, l’italiano Luigi Licheni, un architetto, che la pugnala a Morte a Ginevra. Un solo colpo, con una lima, e uno dei simboli dell’800 europeo muore, sul Quai de Mont-Blanc. Licheni era animato da un generico odio verso l’aristocrazia. Sissi sepolta a Vienna nella Cripta imperiale. Pare che il suo soprannome – secondo studi anche recenti – vero fosse Sissi, a corte, e Lisi, in privato.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da ilgazzettino.it il 22 maggio 2021. Sono «sconvolti» i dottori della Freistadt Clinic in Austria che hanno amputato a un paziente di 82 anni la gamba sbagliata. «Un tragico errore» dovuto a «una sequenza di sventurate circostanze». All'uomo doveva essere amputata la gamba sinistra, ma gli è stata rimossa la destra. «Siamo profondamente sconvolti da quanto accaduto il 18 maggio – la nota della clinica riportata dal The Guardian –. Nonostante gli alti standard qualitativi, è stata amputata la gamba sbagliata di un paziente». Cosa è successo - Sembra che l'errore sia stato commesso poco prima dell'operazione, quando è stata segnata la gamba sbagliata da amputare. Ma il personale ospedaliero se ne è accorto solo il giorno dopo l’operazione, quando ha fatto il cambio di fasciatura programmato. «Dobbiamo capire come questo errore si sia potuto verificare. Vorrei scusarmi pubblicamente», ha dichiarato il direttore medico della clinica, durante una conferenza stampa. Al paziente, intanto, è stato offerto un aiuto psicologico. Dovrà inoltre sottoporsi all'amputazione della gamba sinistra. L'intervento «è programmato a breve», hanno detto dalla clinica.

(ANSA il 12 maggio 2021) - Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz e il suo capo di gabinetto Bernhard Bonelli risultano indagati dalla Procura anticorruzione di Vienna con l'ipotesi di reato di falsa dichiarazione. Lo riferisce il quotidiano viennese Der Standard. Gli investigatori indagano su dichiarazioni fatte da Kurz e Bonelli in una commissione d'inchiesta parlamentare in merito alla nomina del responsabile della holding di partecipazioni statali austriaca Oebag. Kurz - in una prima reazione - respinge le accuse ed esclude dimissioni. "E' diventato un metodo - afferma - creare nelle commissioni d'inchiesta un clima avvelenato e distorcere le parole".

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 13 maggio 2021. Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz è da ieri indagato dalla Procura federale per i crimini economici, sospettato di aver dichiarato il falso davanti alla Commissione parlamentare d' inchiesta sui casi di corruzione che segnarono il suo primo governo, l' alleanza tra popolari e l' estrema destra alla guida del Paese tra il 2017 e il 2019. Insieme a lui, sotto indagine è stato posto anche il suo capo di gabinetto, Bernhard Bonelli, mentre il ministro delle Finanze e fedelissimo di Kurz, Gernot Blümel, è stato iscritto nel registro degli indagati già da alcuni mesi. A motivare la mossa della Procura, è stata la denuncia di Neos, il partito liberale all' opposizione, secondo cui Kurz ha mentito ai commissari, quando ha negato di aver saputo alcunché delle nomine al vertice di società pubbliche, che sarebbero state influenzate da donazioni private ai partiti di governo, durante il biennio della coalizione ÖvP-FPÖ. In particolare, Kurz ha negato di aver partecipato direttamente alle trattative sulla nomina di un suo uomo di fiducia, Thomas Schmid, al vertice di Öbag, la potente holding di Stato che gestisce gli investimenti di tutte le aziende austriache a partecipazione pubblica. Nell' audizione, originariamente come persona informata dei fatti, Kurz ha invece opposto un «non ricordo» ad altre domande sul cosiddetto Ibizagate, lo scandalo che costò il posto all' ex vicecancelliere Heinz-Christian Strache, colto in un video nel quale prometteva appalti e contratti in cambio di favori politici e tangenti alla (falsa) figlia di un oligarca russo. In realtà, secondo Neos, esistono mail e documenti che proverebbero il ruolo decisivo del cancelliere nel cosiddetto «mercato delle nomine». Kurz ne aveva finora perfino negato l' esistenza, ma ieri la Corte costituzionale ha deciso che il capo del governo dovrà consegnare l' intero incartamento, sia pure non gli sms del suo cellulare. In un comunicato ufficiale, nel quale ha confermato la sua posizione, Kurz ha detto che non si dimetterà neanche di fronte a una formalizzazione delle accuse, poiché si tratta di una violazione minore della legge, che eventualmente toccherebbe a un giudice monocratico. Ma il danno alla sua immagine personale e alla stabilità dell' attuale coalizione popolari-Verdi, è enorme. Cambiando anche il colore del suo partito, da nero a turchese, Kurz era arrivato al potere promettendo un totale cambio di stile e sostanza nell' opaca politica austriaca. Non più una gestione «tra amici» fondata sul cosiddetto «Proporz», la tradizionale distribuzione consensuale delle risorse e dei posti pubblici tra socialdemocratici e popolari, ma una governance moderna e trasparente, fondata su competenza e merito. All' evidenza, clientelismo, scandali e inchieste scandiscono anche il cancellierato dell' uomo di porcellana. «Il rispetto delle regole e delle leggi vale per tutti», ha ammonito per la prima volta il presidente della Repubblica, Alexander Van der Bellen. Una campana che suona soprattutto per Sebastian Kurz.

Stefano Graziosi per “la Verità” il 19 febbraio 2021. È uno scandalo politico quello che si sta sempre più delineando in Austria. La settimana scorsa, una squadra di agenti anti frode ha effettuato una perquisizione nell'abitazione del ministro delle Finanze austriaco, Gernot Blümel. In un comunicato stampa, l'ufficio del procuratore per gli affari economici e la corruzione ha confermato le indagini a suo carico per sospetto di corruzione. La faccenda è abbastanza aggrovigliata. Tutto ruoterebbe attorno a Novomatic: gigante austriaco del gioco d'azzardo, che vanta circa 30.000 dipendenti in giro per il mondo e che, nel 2019, ha registrato ricavi per oltre 5 miliardi di euro. Come riferito dalla radiotelevisione nazionale austriaca (Orf), si sospetta, in particolare, che nel 2017 l'allora capo del colosso, Harald Neumann, abbia offerto una donazione a Blümel e al Partito popolare austriaco, in cambio della risoluzione di un problema con l'Italia. Nella fattispecie, ha riferito ieri il Financial Times, si sta cercando di appurare se Blümel abbia ricevuto denaro per esercitare pressioni sul governo italiano: pressioni che avrebbero dovuto far ottenere a Novomatic una riduzione d'imposta dal valore di 40 milioni di euro, in una fase, la prima metà del 2017, in cui l'azienda aveva riscontrato delle difficoltà fiscali in Italia. Era il 5 aprile di quell'anno quando, ha ricordato l'Orf, la controllata italiana ricevette una visita della polizia tributaria del nostro Paese. Gran parte dell'indagine verte attorno a un messaggio in chat con cui, il 12 luglio del 2017, Neumann aveva chiesto a Blümel di fissare un appuntamento con Sebastian Kurz. «Serve un breve appuntamento con Kurz. 1) a causa di una donazione 2) a causa del problema che abbiamo in Italia», si legge nel messaggio. Ricordiamo che all'epoca Kurz era ministro degli Esteri e Blümel già un suo stretto alleato. Tutto questo mentre in Italia, a Palazzo Chigi, sedeva Paolo Gentiloni e il ministero dell'Economia e delle Finanze era guidato da Pier Carlo Padoan: se il primo è attualmente commissario europeo agli affari economici, il secondo è diventato da poco presidente di Unicredit. I protagonisti austriaci della vicenda si dicono comunque estranei a eventuali condotte illegali. Un portavoce di Novomatic ha definito le accuse «false e non corrette», aggiungendo: «Novomatic non ha mai fatto donazioni ad alcun partito politico. Naturalmente, stiamo collaborando con le autorità in modo che queste accuse errate possano essere chiarite rapidamente». Lo stesso Blümel ha cercato di gettare acqua sul fuoco, tenendo un basso profilo. Il ministro ha evitato infatti di polemizzare con gli inquirenti, precisando di non aver mai accettato donazioni da società di gioco d'azzardo. Secondo l'Orf, l'avvocato di Neumann, Norbert Wess, avrebbe inoltre riferito: «Per quanto ricorda il mio cliente, la donazione è stata una causa di beneficenza, completamente distaccata dalla questione italiana». Sempre la radiotelevisione ha voluto sottolineare che Neumann si sia dimesso da componente del consiglio di Novomatic nel febbraio del 2020, adducendo motivazioni di natura familiare. Il dibattito politico si è fatto intanto incandescente. Secondo quanto riportato dal Kronen Zeitung, il Partito popolare austriaco - la principale forza politica della coalizione attualmente al potere - è sul piede di guerra e ha presentato un'interrogazione parlamentare al ministero della Giustizia per criticare l'azione della Procura. Per quanto non risulti al momento direttamente coinvolto, il timore dei popolari è che la faccenda possa prima o poi raggiungere il cancelliere Kurz, danneggiandolo politicamente (anche in considerazione del suo stretto legame con l'attuale ministro delle Finanze). L'opposizione è, non a caso, abbastanza critica. I socialdemocratici hanno invocato le dimissioni di Blümel, mentre su posizioni particolarmente severe si è collocato anche il Partito della libertà austriaco. Tra l'altro, proprio l'ex vicecancelliere ed ex leader del Partito della libertà austriaco, Heinz Christian Strache, sta affrontando i suoi guai a causa di Novomatic. Si è infatti ritrovato sospettato di corruzione, dopo essere riuscito a porre un suo fedelissimo ai vertici di Casinos Austria: società con partecipazioni di Stato e della stessa Novomatic. Come riportato da Bloomberg ad agosto 2019, l'intento degli inquirenti è quindi quello di stabilire se, in cambio dell'appoggio ricevuto per quella nomina, l'allora vicecancelliere avesse promesso a Novomatic aiuto in materia di licenze sulle slot machine. Il destino del colosso del gioco d'azzardo si è del resto intersecato con il cosiddetto Ibizagate. Nell'estate del 2017, l'allora vicecancelliere si incontrò a Ibiza con quella che credeva essere la nipote di un oligarca russo: Strache si mostrò particolarmente propenso a subire l'influenza di Mosca nel corso del colloquio. Colloquio che fu registrato in segreto e diffuso nel 2019, scatenando una bufera politica e costringendo il diretto interessato alle dimissioni. Ebbene, proprio in quell'incontro filmato di nascosto, Strache si era lasciato sfuggire la frase: «Novomatic paga tutti».

·        Quei razzisti come i polacchi.

«Nella Polonia antiabortista essere donne è un dramma». Ma ora arriva la condanna del Parlamento europeo. Non si fermano le proteste dopo la morte di Izabel. Ma dalle testimonianze che abbiamo raccolte il disagio è palpabile: «Piango a ogni Tg. Uomini in giacca e cravatta credono di essere i nostri padroni». Intanto arriva una relazione di condanna alla legge: «Il governo si adoperi per trattamenti sicuri, legali e gratuiti». Francesco Castagna su L'Espresso l'11 novembre 2021. Sembra una protesta silenziosa quella delle donne in memoria di Izabel, la trentenne polacca, che, ricoverata in un ospedale di Pszczyna, è morta per infezione dopo un aborto negato. Invece silenziosa non lo è affatto. Le strade di Varsavia e Cracovia, ma anche delle cittadine più piccole, si sono riempite di una folla ogni giorno più numerosa, pronta a scagliarsi contro la decisione dell’Alta Corte del 2020, poi varata dal governo sovranista di Andrej Duda il 27 gennaio del 2021, che vieta l’aborto anche in caso di malformazione del feto. Donne adulte, ragazze, ragazzi e uomini di ogni età per dire basta a queste continue restrizioni dei diritti. E’ durissimo è lo sfogo sui social. Si leggono commenti come “per favore, smettetela di uccidere le persone innocenti che vogliono solo la felicità” o anche “E ora otterranno l'assoluzione e avranno la coscienza pulita”, riferendosi al personale sanitario dell’ospedale di Pszczyna. Sotto l’hashtag “#anijednejwięcej”, che in italiano significa #nonunadipiù, si riuniscono tutte le donne della Polonia con delle candele accese alle finestre. Ma il fulmine rosso che rappresenta le proteste di “Ogólnopolski Strajk Kobiet”, il movimento che difende i diritti delle donne, è più forte di prima e più compatto e si muove già per un gran segnale di dissenso. Basta vedere le foto degli ultimi giorni per capire che la società civile di tutto il mondo ha reagito a questa violenza e al rapporto sempre più stretto che le sette fanatiche, legate alla Chiesa Cattolica polacca, hanno stretto con il governo Duda.

Luci accese nelle piazze di Berlino, Parigi, Londra, Roma con NonUnaDiMeno e tanta gente a manifestare. Non avendo confini territoriali infatti l’aborto è un diritto per il quale le donne devono lottare ovunque costantemente. Già dal 2012 si hanno notizie prima di una trentunenne indiana, Savita Halappanavar, morta a Dublino, poi di Valentina Milluzzo, morta per la stessa decisione dei medici nel 2016. “Oggi” è il caso di Izabel. Ma di quante non conosciamo il loro percorso?

In Polonia l’orientamento politico c’entra ma solo in parte e anche molte famiglie cattoliche ormai stentano a sostenere le decisioni dell’Alta Corte polacca e del governo sovranista a guida di Andrzej Duda.

A Jędrzejów, città a nord di Cracovia, vivono sia Martyna che Elzbieta, due giovani donne furiose per le decisioni prese dal governo ma al tempo stesso spaventate da un destino incerto. «Penso di essere una donna forte e coraggiosa» – ci racconta Elzbieta, femminista convinta - «ma allo stesso tempo intimidita e triste a causa della svolta degli eventi e per colpa di uomini in giacca e cravatta che vogliono controllarci, per sottometterci alla loro visione di essere i padroni di tutti. Essere una donna in Polonia è un dramma e piango ogni volta che guardo il telegiornale». Come se ormai si trattasse di un destino ineluttabile, in cui una donna nulla può davanti al divieto inappellabile dell’interruzione di gravidanza. «Penso che in Polonia ci siano ginecologi in grado di consigliare e sostenere, ma non ce ne sono abbastanza. Tutti hanno paura delle conseguenze legali, e se resti incinta dovrai semplicemente partorire, non importa se il bambino è sano o non è in grado di vivere più di due giorni, se hai soldi e condizioni per crescere un figlio, un lavoro, un compagno, se non finisci sotto un ponte. Devi partorire e il resto non è importante. Per questo non voglio diventare madre».

Le storie come quelle di Martyna e Elzbieta sono tante, troppe, donne costrette ad andare in Repubblica Ceca per poter abortire. Ragazze a cui è rimasto un trauma sia a causa del rifiuto da parte dei medici di praticare l’interruzione di gravidanza, sia per quel viaggio che ricorderanno a vita.

Ma il Parlamento europeo non è rimasto a guardare e ha votato a maggioranza una relazione dove condanna la legge che limita fortemente l’interruzione di gravidanza, condannando il Tribunale Costituzionale polacco e chiedendo al governo di Varsavia di permettere pienamente aborti legali, sicuri e gratuiti. Nella relazione i parlamentari europei hanno sollecitato inoltre gli altri paesi dell’Unione Europea a garantire un accesso transnazionale ai servizi abortivi.

In occasione della Giornata internazionale dell’aborto sicuro (28 settembre) intanto, il ministero della sanità del Belgio insieme all’associazione “Abortion without borders” hanno comunicato di voler offrire alle donne polacche bisognose di aiuto la possibilità di abortire gratuitamente, o si faranno carico delle spese se queste decidessero di interrompere la loro gravidanza in un altro paese. Al momento si tratta di un progetto pilota, una volta finite le risorse per questa iniziativa verrà valutato un importo ulteriore.

L’aborto in Polonia è quindi una questione culturale a cui la politica obbedisce ciecamente. «La scuola non ti instrada all’uso dei contraccettivi – spiega Elzbieta - non si parla mai di aborto e in alcuni casi le classi vengano separate appositamente per dividere i maschi dalle femmine. Perché invece di materie come educazione sessuale si insegnano materie come “educazione alla vita familiare”, dove non si parla nemmeno di sesso sicuro, figuriamoci di aborto».

A Varsavia, racconta Martyna, le manifestazioni si tengono ogni giorno ma il clima è molto diverso da quello di un anno fa: «Le persone sono molto più arrabbiate ma decisamente più tristi». Ma la Polonia che resiste, combatte e mette in campo ogni mezzo per contrastare le decisioni del governo di Duda c’è. «Operano grazie a raccolte e donazioni. Lo so da Internet perché fino a poco tempo fa era un argomento tabù in Polonia», afferma Elzbieta. Oltre al movimento “Strajk Kobiet” e all’opposizione parlamentare infatti esiste legalnaaborcja.pl o aborcjabezgranic.pl, due associazioni che aiutano le donne in tema di aborto e diritti, per farle sentire meno sole. Anche se Elzbieta pensa che l’unica via per resistere a questo clima sia la manifestazione di piazza: «Penso che ci sia bisogno di protestare, ma finora non abbiamo avuto alcun effetto, loro (chi ci governa) fanno ciò che vogliono. Proprio quando pensavamo che non avrebbero attraversato un altro confine, continuano a farlo. Una donna è morta a causa loro. Quindi credo che l’unico modo aspettare le elezioni del 2025 ed eleggere un nuovo governo».

Al momento ciò che emerge dalle dichiarazioni del ministro della Salute polacco, Adam Niedzelski, è che ci sarà un’indagine per accertare le cause della morte. Qualora il personale sanitario avesse agito per tutelare la vita del feto a discapito della madre i sanitari potrebbero incorrere in una sospensione dal servizio di cinque anni. La risposta da parte dell’ospedale di Pszczyna è che le pratiche sono state svolte osservando scrupolosamente la legislazione e le procedure vigenti in Polonia. Martyna non è per niente favorevole alla temporanea sospensione del personale sanitario che si è occupato di Izabel, nel senso che la trova un’operazione di facciata dove il governo si trova costretto a condannare ciò che è successo. Elzbieta evidenzia invece un altro aspetto importante “I medici sono stati sospesi dal lavoro. Credo che non siano irreprensibili, ma questa ragazza è morta perché hanno dovuto scegliere se rischiare la vita e la carriera e rimuovere il feto o aspettare che la vita della ragazza fosse in pericolo? Non auguro a nessuno questa decisione, credo che abbiano fatto il meglio che potevano. Se non fosse per questa legge, che vieta l'aborto in caso di gravi danni al feto, la ragazza sarebbe probabilmente viva».

La Polonia e la democrazia calpestata. Wlodek Goldkorn L'Espresso il 2 novembre 2021. Il Paese è diviso tra politici sovranisti che indicano Bruxelles come un nemico e la popolazione che vuol restare nella Ue. Viaggio tra gli oppositori in una società arrivata al punto di rottura. “Nozze” (“Wesele”) è un film di cui tutti parlano in Polonia e che, per due ore e un quarto, racconta una storia diversa rispetto alla narrazione dal potere nazionalista attuale. Lo ha girato Wojciech Smarzowski. Smarzowski è stato autore, tre anni, fa di un’altra opera di successo, “Kler” (il clero), in cui rappresentava sotto la forma di finzione le vicende quotidiane della Chiesa cattolica, fra voglia di arricchirsi dei vescovi, ipocrisia dei preti e via elencando. Fu uno choc per l’opinione pubblica. In “Wesele” la storia invece è la seguente. Un imprenditore di successo in provincia, allevatore di suini, ricco in apparenza ma pieno di debiti, un uomo che odia la moglie e dirige una società di calcio i cui tifosi urlano slogan antisemiti e razzisti, organizza la festa di nozze della figlia prediletta. La ragazza è incinta, e d’altronde durante il picco della pandemia una festa di nozze appunto, non si poteva fare, la carne è debole e il prete che officia è comprensivo. Ora, il padre dell’imprenditore e nonno della sposa soffre di demenza senile. Ma durante la festa la memoria si risveglia. E così veniamo a sapere che lui, prima della guerra, aveva un grande amore: una ragazza ebrea, dello stesso paesino. Attenzione: “Nozze” non è un ennesimo film sulla Shoah, ma è un racconto sulla società polacca oggi, sulla rimozione del passato e su un presente molto problematico dal punto di vista etico. Il rapporto con gli ebrei, in Polonia, è una specie di cartina di tornasole. Il vecchio signore quindi, durante l’occupazione nazista, assistette (non passivo) a un episodio in cui alcuni polacchi uccisero i vicini di casa ebrei. Li chiusero in un granaio e appiccarono il fuoco. È un carnefice? Il film suggerisce che lui seguiva l’onda, faceva quello che voleva la maggioranza. Però. Ecco, al contempo, aveva salvato la vita della ragazza che amava. Tanto che alla vigilia delle nozze gli arriva la medaglia di Giusto fra le Nazioni dello Yad Vashem, di Gerusalemme. Nella mente del nonno e sullo schermo il passato si mescola con il presente. Il vecchio si ricorda le prediche antisemite del prete negli anni Trenta, mentre il sacerdote oggi usa nella stessa chiesa parole di odio nei confronti delle persone Lgbt. Il fresco sposo, mentre la festa va avanti fa all’amore con una donna che non è sua moglie. L’allevatore usa una sua dipendente ucraina e sua amante per ordire un ricatto sessuale. Il prete a sua volta si occupa di strozzinaggio. Smarzowski da artista vuole mettere i suoi concittadini davanti allo specchio per dire: attenti, la propaganda del Pis (Diritto e giustizia) vi presenta come una nazione immacolata, vittima innocente degli altri (nazisti, sovietici), e invece abbiamo nel nostro passato e presente dei lati oscuri, dei conti non saldati. Il caso vuole che la storia di Smarzowski sia ambientata in un luogo vicino al confine con la Bielorussia. E una decina di giorni fa su “Gazeta Wyborcza” venne pubblicata una foto di bambini in una caserma delle Guardie di frontiera, destinati probabilmente a essere rimandati nella foresta, dove i migranti, spinti in Polonia dal regime di Lukashenko, rischiano di morire di freddo e stenti. L’impatto emotivo è stato enorme. Si è vista la mobilitazione di quella parte dell’opinione pubblica, circa la metà della popolazione (stando ai risultati di tutte le elezioni e sondaggi), che del potere di Jaroslaw Kaczynski, capo indiscusso del Pis, non ne può più e che spera in una rapida fine di quel regime, che secondo alcuni si sta avviando verso il tramonto. E per questo il governo polacco minaccerebbe l’uscita dall’Unione europea. Ci torneremo. Le mogli degli ex presidenti della Repubblica sono andate al confine a portare solidarietà ai profughi. È sorto un gruppo di medici che presta soccorso, e un altro di giuristi che aiutano nella richiesta di asilo. E ancora, le donne del cinema - attrici e registe - hanno preso posizione, mentre molti abitanti della zona, così come non pochi sindaci, si sono dati da fare per aiutare chi ne ha bisogno. E così là dove il potere pensava di procurarsi il facile consenso giocando su paura e xenofobia, c’è stato invece il risveglio di gente spaventata dal tentativo dalla manipolazione delle coscienze in atto. Anche qui la memoria, con tutte le enormi differenze fra oggi e il passato, ha giocato un ruolo. Basta sentire le parole dei medici soccorritori quando usano quasi gli stessi termini che adoperava, parlando del dovere di non restare indifferenti di fronte alla sofferenza altrui, Marek Edelman. Edelman era medico, uno dei comandanti della rivolta contro i nazisti del ghetto di Varsavia nel 1943, nonché attivista dei movimenti democratici del dopoguerra. Si è detto, mogli degli ex presidenti e cineaste. Esattamente un anno fa, centinaia di migliaia di donne polacche erano in piazza, per protestare contro il verdetto del Tribunale Costituzionale che inaspriva la già durissima legge che vieta l’aborto. Sembrava una rivoluzione che avrebbe per sempre cambiato il linguaggio e i termini del pubblico dibattito. Che ne è rimasto di quel movimento? Lo chiediamo ad Agnieszka Holland. Holland è regista di cinema, ha lavorato in Francia e a Hollywood, in Polonia è una celebrità, ma soprattutto è una degli intellettuali più in vista dell’opposizione: iconica la foto in cui in una piazza, da sola affronta uno schieramento di poliziotti. «Sono energie che, in apparenza, si sono disperse perché nessun obiettivo concreto è stato raggiunto», risponde. «Ma a pensarci bene, l’esperienza di quelle settimane ha cambiato il modo di vivere di milioni di persone. Niente è né sarà più come prima. I movimenti sono come i fiumi carsici». A sua volta, una delle principali teoriche del femminismo in Polonia, Elzbieta Korolczuk, aggiunge a questa analisi una considerazione: «Rivoluzione non significa presa di potere immediata. Invece è un processo lungo e articolato di cambiamento sociale e generazionale. Intanto in Polonia c’è una nuova generazione appunto di giovani che hanno altre priorità rispetto ai padri: ambiente, e soprattutto radicale uguaglianza nella vita di ogni giorno, e che rigetta il paradigma ottocentesco della legittimità dei poteri. Bisogna vedere se quel movimento riuscirà a trovare sbocchi istituzionali. Ma intanto, per tornare a un minimo di normalità, bisogna sconfiggere il Pis». E forse per paura di essere sconfitti i leader di Diritto e giustizia alzano la posta in gioco. È per questo che il premier Mateusz Morawiecki ha usato (in un’intervista al Financial Times del 25 ottobre) l’iperbole della Terza Guerra Mondiale, parlando del conflitto fra l’Unione europea e il suo governo? Risponde Holland: «Il Pis ha bisogno di un nemico. La campagna contro le persone Lgbt ha esaurito le sue potenzialità». Alcuni sindaci e amministratori locali hanno ritirato i provvedimenti come quelli di dichiarare il loro territorio “Lgbt free”. «E così», continua Holland, «ora il nemico è Bruxelles». Poi però vuole tornare sulla questione dei migranti: «Attenzione, in fondo, noi polacchi stiamo facendo un lavoro che piace a molti in Europa. In tanti, anche non sospettabili, sognano un continente fortezza, cinto da alte mura. E proprio per questo, perché lo scopo di Kaczynski e Morawiecki non è uscire dall’Ue ma trasformare l’Unione dal suo interno, Bruxelles non deve cedere». Poi dice: «Kaczynski ha già fatto un compromesso, ma con Zbigniew Ziobro». Ziobro è ministro della Giustizia e Procuratore generale. Ha poco più di cinquant’anni. È estremamente ambizioso. Non fa parte del Pis ma dirige un partitino senza il quale Kaczynski non può governare. È stato Ziobro a mettere in atto la riforma del sistema giudiziario che l’Unione europea trova incompatibile con lo Stato di diritto. Ed è lui a volere che norme dell’Unione vengano giudicate dal Tribunale costituzionale come incompatibili con la legge polacca (ne vedremo nel prossimo futuro). È impressionante sentirlo parlare delle persone Lgbt, quando spiega che a casa sua ognuno faccia come gli pare, ma lui non sarà mai d’accordo che i gay impongano ad altri la loro “ideologia”, voluta da certe forze in Europa, come già succederebbe nelle grandi città, prima di tutto a Varsavia. Si dice che sia convinto che alla Polonia convenga uscire dall’Europa. Un po’ per ideologia, un po’ perché, sebbene fuori dal Pis, domani vi potrebbe rientrare come erede del capo, con lo scopo di allargare la formazione fino alle destre radicali, cui è vicino. Guerra dei mondi insomma. E i soldi per rimpiazzare quelli dell’Europa? Li troverebbe sui mercati mondiali. Sembra una distopia. E infatti, Adam Michnik, direttore di Gazeta Wyborcza, veterano del dissenso, è convinto che siamo alla fine del potere del Pis. Una fine per implosione. Nella sua casa, con le pareti tappezzate dai libri, dice: «Nessuno qui vuole uscire dall’Unione europea. Otto polacchi su dieci vogliono restarvi. Ed è bene che a Bruxelles si sappia che quando i nostri governanti minacciano una Polexit, sono dei Pinocchi, bugiardi cui si allunga il naso e che vorrebbero in realtà legittimare una concezione di Stato simile a quella di Putin o Orbàn». Spiega: «Il Pis non ha più nessun racconto da vendere all’opinione pubblica». C’è una crisi demografica in atto, i decessi superano di gran lunga le nascite, l’inflazione cresce rapidamente, i prezzi aumentano ma non così i salari. Prosegue: «E anche l’atmosfera nel mondo, con Draghi, Biden, e la socialdemocrazia vincente in Germania, segna la crisi del populismo». Ammonisce: «Non è detto che non risorgano fra una decina di anni, avendo un’ideologia vera, come l’avevano i comunisti. Ma per ora sono in ritirata». Aggiunge: «Anche per la loro incapacità di stare al mondo, sono ridicoli». Si parla di gente arricchita grazie ai contatti personali con i capi del Pis, escono fuori registrazioni dove l’ex sindaco di un paesino, messo a guidare una grande azienda di importanza strategica, usa termini irriferibili, e trapelano, intercettati da hacker, segreti delle mail private dei ministri. Nell’aria di fine regno, nel gioco è tornato Donald Tusk, il premier del miracolo economico ed ex presidente del Consiglio europeo. «Credo», dice Michnik, «che sia rientrato perché non sopportava l’idea che una banda di incapaci stesse rovinando quello che lui ha costruito». E ora cercherà di federare le opposizioni. Non entreremo nei meandri della politica polacca con i narcisismi di capi e capetti. Tusk cerca il voto centrista, batte le piccole città dove l’avversario è forte, bacia il pane e il sale del benvenuto e si fa il segno della croce. Ma intanto, un anno fa era emerso un altro leader, il sindaco di Varsavia Rafal Trzaskowski che quasi vinse le elezioni presidenziali contro l’attuale capo di Stato, Andrzej Duda. Trzaskowski ha 49 anni, è bello, colto, sa parlare bene, e ha pure una famiglia splendida. Sembra un Kennedy polacco. Perché ha ceduto il posto del contendente di Kaczynski al 64enne Tusk? Michnik non risponde. E allora facciamo noi un’ipotesi logica. Se Tusk vince, Trzaskowski un giorno potrà essere un suo degno erede, basta collabori, nell’interesse comune e del Paese. Se, per disgrazia Tusk perde, Trzaskowski, diventa il leader dell’opposizione. Resta la domanda su quando si vota. La legislatura termina nel 2023, ma tutti a Varsavia sono convinti che si andrà alle urne nella primavera prossima. Forse è presto per dirlo, ma allo stato attuale sembra che vincerà la Polonia cui piace il messaggio dei film di Smarzowski (non necessariamente le soluzioni artistiche formali, ma questo è un altro discorso).

Da ansa.it il 28 ottobre 2021. La Corte di giustizia dell'Ue ha condannato la Polonia a pagare alla Commissione europea una penalità giornaliera da un milione di euro per non aver sospeso l'applicazione delle disposizioni nazionali relative alle competenze della camera disciplinare della Corte Suprema. Lo ha reso noto la stessa Corte. Il rispetto delle misure provvisorie ordinate il 14 luglio 2021 dalla Corte Ue, si legge in una nota, è necessario al fine di evitare un pregiudizio grave e irreparabile all'ordine giuridico dell'Unione europea nonché ai valori sui quali l'Unione è fondata, in particolare quello dello Stato di diritto. "L'Ue è una comunità di Stati sovrani governati da regole chiare. Mostrano una chiara divisione delle competenze tra Ue e Stati membri. La questione dell'organizzazione della magistratura è di competenza esclusiva degli Stati membri". Lo scrive su Twitter Piotr Muller, portavoce del premier polacco Mateusz Morawiecki commentando la sentenza odierna della Corte Ue di giustizia. "Il governo polacco - si legge ancora - ha parlato pubblicamente della necessità di introdurre modifiche in questo settore che ne garantissero l'efficace funzionamento. La via delle punizioni e dei ricatti verso il nostro Paese non è quella giusta". Il 14 febbraio 2020 è entrata in vigore in Polonia la norma che modifica la legge sull'organizzazione dei tribunali ordinari, la legge sulla Corte suprema e alcune altre leggi. Ritenendo che le vigenti disposizioni nazionali violino il diritto comunitario, la Commissione, il 1 aprile 2021, ha proposto ricorso per inadempimento dinanzi alla Corte di giustizia Ue. L'esecutivo comunitario aveva chiesto alla Corte, nell'ambito di un procedimento sommario, di condannare la Polonia ad adottare una serie di provvedimenti provvisori. Con ordinanza del 14 luglio 2021 il vicepresidente del Tribunale ha accolto tutte le richieste della Commissione fino alla pronuncia della sentenza definitiva. Considerato che la Polonia non ha ottemperato agli obblighi derivanti da tale ordinanza, la Commissione ha presentato, il 7 settembre 2021, una richiesta di condanna della Polonia al pagamento di un'ammenda giornaliera di importo tale da incoraggiare tale Stato membro a dare effetto, non appena possibile, alle misure cautelari disposte nell'ordinanza. Considerando che un cambiamento di circostanze si è verificato dopo l'emanazione dell'ordinanza del 14 luglio 2021, la Polonia ha, da parte sua, presentato una richiesta per la revoca di tale ordine. Con ordinanza del 6 ottobre 2021, il vicepresidente della Corte ha respinto la richiesta della Polonia. Con la sua ordinanza odierna, il vicepresidente della Corte ha dunque ordinato alla Polonia di pagare alla Commissione un'ammenda di 1.000.000 di euro al giorno, fino a quando tale Stato membro non adempie agli obblighi derivanti dall'ordinanza del 14 luglio 2021 o, in mancanza, fino al giorno della pronuncia della sentenza definitiva. 

Angela Mauro per huffingtonpost.it il 28 ottobre 2021. Ci siamo arrivati: la Polonia è espulsa da uno degli organismi istituzionali dell’Unione, la Rete europea dei Consiglio di giustizia (Encj), organismo di coordinamento tra le istituzioni europee e le varie magistrature nazionali. La proposta di espulsione del Consiglio giudiziario nazionale polacco, il Csm di Varsavia (Krs), è passata a scrutinio segreto con 86 voti a favore e 6 astenuti, nell’assemblea di oggi a Vilnius. La maggioranza richiesta era di 69 voti. A capo dell’Encj c’è l’italiano Filippo Donati, costituzionalista e professore all’Università di Firenze, eletto in quota M5s nel Consiglio superiore della magistratura nel 2020. “Decisione dolorosa ma inevitabile”, dice il vicepresidente del Csm italiano David Ermini. La decisione era nell’aria. Nasce da una proposta del Comitato esecutivo dell’Encj discussa nell’assemblea del 17 settembre scorso in seguito alle polemiche sui giudici polacchi, la cui indipendenza è messa a rischio dalle riforme attuate dal governo nazionalista a Varsavia, come denunciato più volte dalla Commissione Europea senza che il Consiglio Europeo abbia mai preso provvedimenti, tipo l’attuazione dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione che sospende i diritti (per esempio di voto) ai paesi che violano i principi dell’Ue. Ecco, l’espulsione per Varsavia è invece arrivata oggi da questa rete dei Csm europei, nata con una prima assemblea a Roma nel 2004. La missione della rete è di “porsi come collegamento tra le istituzioni europee, le loro politiche e le varie magistrature nazionali, per favorire l’attenzione ai principi di autonomia e di indipendenza del potere giudiziario nell’elaborazione degli strumenti normativi di cooperazione”. Da giugno 2020, a capo dell’Encj c’è l’italiano Filippo Donati, costituzionalista, professore all’Università di Firenze, membro laico del Consiglio superiore della Magistratura da luglio 2018, eletto in quota M5s. “Una decisione dolorosa ma ineluttabile”, commenta il vice presidente del Csm David Ermini, prendendo la parola all’assemblea di Vilnius e annunciando il voto favorevole a nome di Palazzo dei marescialli. “Il Consiglio nazionale della magistratura polacco non raggiunge il livello di autonomia dagli altri poteri dello Stato richiesto dalle norme statutarie dell’Encj, e pertanto non è in grado di ottemperare al dovere di salvaguardare l’indipendenza della magistratura - continua Ermini - Le riforme del sistema giudiziario polacco e del Krs costituiscono palese violazione dei principi dello stato di diritto, in quanto inequivocabilmente dirette a condizionare e comprimere l’indipendenza e l’autonomia della magistratura assoggettandola al controllo del potere esecutivo e legislativo. Qui non si tratta di interferire impropriamente sulla sovranità legislativa di un Paese o sindacare la soggezione del giudice alla legge, ma di consacrare il principio che lo stato di diritto e la separazione dei poteri sono valori fondanti delle democrazie europee e dell’Unione. E di affermare, senza esitazioni e incertezze, che l’indipendenza della giurisdizione è la pietra angolare dello stato di diritto in Europa, perché garanzia dei diritti e dell’uguaglianza dei cittadini”. Il Csm polacco “non salvaguarda l’indipendenza della Magistratura, non difende la Magistratura, né i singoli giudici rispetto a eventuali misure che minaccino di compromettere i valori fondanti di indipendenza e autonomia”, recita la nota dell’Encj. Ma la scelta di oggi, continua il comunicato, non deve essere “presa alla leggera. Per ciascuno dei Consigli presenti oggi che hanno votato a favore, questo è un atto in difesa dell’Encj e dei valori che rappresenta, come l’indipendenza della magistratura e lo Stato di diritto in Europa”. Ieri, la sentenza della Corte di giustizia europea che ha condannato la Polonia al pagamento di una multa di un milione di euro al giorno alla Commissione Ue per non aver sospeso la camera disciplinare per i giudici, anche se sono mesi che il premier Mateusz Morawiecki lo promette. Oggi l’espulsione dalla rete dei Csm europei. La tensione tra le capitali europee e Varsavia è sempre più alta, esacerbata anche dalla sentenza della Corte suprema polacca sul primato del diritto nazionale su quello europeo. È in questa situazione incandescente che la Commissione Europea dovrà prendere una decisione sui fondi del Next Generation Eu per la Polonia, ancora bloccati per violazione dello stato di diritto. “Per il piano di Recovery abbiamo concordato di avere investimenti e riforme - insiste la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen - Le riforme sono legate alle raccomandazioni specifiche per Paese. Per la Polonia prevedono l’indipendenza della magistratura. Ci dev’essere un chiaro impegno per smantellare la Camera disciplinare, riformare il regime disciplinare e riammettere i giudici licenziati in modo illegittimo. La parte delle riforme è conditio sine qua non”. Ma a Varsavia non si arrendono. “La Polonia non può e non deve pagare un solo zloty” a Bruxelles, dice il ministro della Giustizia polacco, Zbigniew Ziobro.

Il caso Polexit. Gerarchia delle fonti, quale prevale tra il diritto europeo e quello nazionale. Francesco Di Ciommo su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. L’Ue appare di nuovo in crisi di identità. La ferita aperta dalla Brexit non si è ancora rimarginata, ma intanto scoppia il caso Polonia, innescato dalla sentenza della locale Corte costituzionale del 7 ottobre. E si tratta di un caso, per certi versi, più grave per le conseguenze che può determinare nei rapporti tra Stati membri e Unione, arrivando a condizionare, per l’appunto, la stessa identità di quest’ultima. La ragione del contendere è nota. Da anni l’Europa contesta alla Polonia la violazione del diritto europeo, in particolare, in tema di indipendenza della magistratura e dei media, aborto e diritti degli omosessuali. Malgrado la ferma posizione delle istituzioni europee, la Polonia non arretra e afferma la sua legittimazione, quale Stato sovrano, a legiferare su questioni ritenute di massima importanza senza che il diritto europeo possa condizionare l’applicazione delle leggi nazionali. Da qui la sentenza del 7 ottobre con cui la Corte Costituzionale polacca, su ricorso del Governo del Primo Ministro Morawiecky, ha dichiarato, senza mezzi termini, una recente decisione della Corte di Giustizia UE «un tentativo d’interferire nel sistema giudiziario polacco che viola il principio dello stato di diritto, il principio del primato della costituzione polacca nonché il principio del mantenimento della sovranità nel processo di integrazione europea». Lo scontro sul piano politico è talmente cruento che molti osservatori ritengono che l’unica soluzione possibile, a questo punto, sia l’uscita della Polonia dall’Unione. Al netto della vicenda specifica – che oggettivamente rappresenta un caso estremo e, dunque, particolarmente eclatante – il rapporto tra fonti del diritto europeo e fonti nazionali costituisce da decenni un problema tecnico-giuridico, di grande importanza, tutt’ora aperto. Non è vero, infatti, che, per consolidato riconoscimento, il diritto europeo sia destinato a prevalere sempre, come negli ultimi giorni hanno un po’ superficialmente affermato alcuni esponenti europei e come tanti osservatori poco informati hanno dato per scontato. Anzi, almeno secondo le Corti Costituzionali dei Paesi membri, allo stato è vero esattamente il contrario. Il primato del diritto europeo non è sancito dai trattati europei e, dunque, non è mai stato oggetto di specifico accordo tra gli Stati membri. Dettaglio questo, almeno sul piano politico, non irrilevante. Ad affermare il principio è stata la Corte di Giustizia UE a partire dalle sentenze Costa c. Enel (1964) e Simmenthal (1978), alle quali hanno fatto seguito alcune sentenze di corti costituzionali nazionali. In Italia la più significativa risulta la sentenza Granital del 1984, che ha riconosciuto in capo ai giudici nazionali, nell’ambito del c.d. controllo diffuso finalizzato a rendere effettivo il primato in parola, il potere/dovere di disapplicare una fonte del diritto interno quando in contrasto con una fonte del diritto europeo. Oggi nell’ordinamento italiano il principio di primazia del diritto dell’Unione è rinvenibile nell’art. 117 della Costituzione, il quale impone allo Stato e alle Regioni di esercitare le rispettive competenze legislative nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo. Tuttavia, trattasi di una primazia relativa. Perché la stessa Costituzione, all’art. 11, offre copertura alle leggi nazionali di ratifica dei trattati UE affermando che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Dunque, l’adesione del Paese alla Ue comporta una auto-limitazione e non una rinuncia alla sovranità nazionale. La delicata questione è stata negli anni ampiamente trattata in dottrina e dalle diverse corti costituzionali dei Paesi membri, che hanno elaborato la teoria dei c.d. controlimiti. E cioè la teoria per cui il meccanismo della disapplicazione delle fonti interne da parte dei giudici nazionali non può operare quando la norma di diritto europeo risulti insanabilmente in contrasto con un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico nazionale. In tal caso, infatti, il giudice deve sollevare la questione dinnanzi alla Corte Costituzionale nazionale al fine di consentire a quest’ultima di valutare se il contrasto effettivamente sussista perché, se così fosse, andrà dichiarata l’illegittimità, per contrasto con la costituzione, della legge di adesione alla UE del Paese interessato. La Corte Costituzionale italiana ha dato un contributo molto importante sul tema. In alcuni casi, dialogando in modo anche aspro con la Corte di Giustizia UE. Come avvenuto di recente, nella nota “vicenda Taricco”, su cui val la pena spendere qualche parola. Tutto nasce da una questione pregiudiziale promossa nel 2014, innanzi alla Corte di Giustizia UE, dal Gup del Tribunale di Cuneo. In sostanza, si chiedeva ai giudici di Lussemburgo se la disciplina nazionale in materia di prescrizione per i reati di frode sull’IVA fosse compatibile con alcune norme dei Trattati europei. A fronte di tale rinvio la Corte UE adottava una decisione (8 settembre 2015, C-105/14) con cui, oltre a dichiarare non conforme ai Trattati la disciplina italiana, ribadiva il primato del diritto dell’Ue. A seguito di tale sentenza, alcuni giudici si sono adeguati e hanno disapplicato la disciplina interna. Altri, invece, hanno rilevato gli estremi per un possibile conflitto della decisione europea con alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento e, pertanto, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale circa l’art. 2 della legge n. 130 del 2008, e cioè la legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona, «nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea […] come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14». Così, in particolare, la Corte d’appello di Milano, con ordinanza 18 settembre 2015, e la Corte di Cassazione, con ordinanza 8 luglio 2016. La Corte Costituzionale, investita della questione, ha preferito non pronunciarsi subito nel merito. Così, con l’ordinanza 26 gennaio 2017 n. 24, ha rimesso una nuova questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, diretta a ottenere una rimeditazione da parte di quest’ultima della sua precedente sentenza. Nell’occasione la Consulta ha affermato che, nonostante sia sommamente improbabile che il diritto dell’Unione si ponga in contrasto con i principi fondamentali degli ordinamenti degli Stati membri, qualora ciò accada, la Corte costituzionale deve intervenire dichiarando incostituzionale in parte qua la legge nazionale di ratifica ed esecuzione dei Trattati europei. Secondo il nostro Giudice delle leggi, infatti, uno dei principi portanti dell’Unione è quello della leale cooperazione tra gli Stati membri. Il che comporta la necessità di dare rilievo alle ragioni della diversità, che devono trovare contemperamento nell’unità. Tuttavia, prosegue la Corte, «non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. […] Il primato del diritto dell’Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali.  Esso riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri». Tutto ciò significa – ancora secondo la Consulta – che l’esigenza di uniforme applicazione del diritto europeo non può spingersi fino al punto da «imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale». A fronte di questa netta presa di posizione della Corte Costituzionale italiana, la Corte di Giustizia sembra fare un mezzo passo indietro. Tanto che, con la sentenza 5 dicembre 2017, C-42/17, quest’ultima, di fatto, riconosce la categoria dei principi supremi degli ordinamenti nazionali. Tuttavia, il passo indietro è solo a metà perché nella stessa decisione i Giudici di Lussemburgo ribadiscono che la disciplina nazionale in tema di prescrizione IVA, se produce determinati effetti, va disapplicata e rimettono espressamente la valutazione circa il contrasto ai giudici ordinari, implicitamente escludendo che questi ultimi debbano nuovamente passare dalla Corte Costituzionale. Il che induce la Corte Costituzionale – nella successiva sentenza 31 maggio 2018 n. 115, che chiude la saga Taricco – a contestare tale assunto e ribadire il proprio ruolo di garante accentrato nella tutela dei diritti e dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale italiano. In definitiva, può dirsi che, come dimostrato anche dalla vicenda Taricco, nel dibattito sul rapporto tra diritto europeo e diritti nazionali un ruolo di primo piano va riconosciuto alla teoria dei controlimiti, la quale non mette in dubbio il principio del primato del diritto dell’Unione, a condizione che questo rispetti i principi supremi degli ordinamenti nazionali. Il problema è che tale teoria è professata dalle corti costituzionali dei singoli Paesi membri, ma non dall’Ue. La qual cosa, come visto, determina un conflitto ai massimi livelli, tra le massime autorità giurisdizionali interessate. La sensazione, rafforzata dal caso Polonia, è che l’Europa oggi non possa più permettersi un conflitto così aspro e di così alto livello istituzionale, né ulteriori ambiguità sul punto. Essa deve affrontare urgentemente la spinosa, ma fondamentale, questione una volta per tutte. E deve farlo con piena assunzione di responsabilità politica da parte di tutti i soggetti coinvolti, a cominciare dai Paesi membri, perché temi così cruciali per l’architettura istituzionale e la stessa identità dell’Unione non possono essere lasciati all’elaborazione giurisprudenziale. Il mondo ha bisogno di una Europa forte. L’Europa, per diventarlo, ha bisogno di trasformare una crisi evidente in un’occasione per muovere decisa verso la piena maturità. Francesco Di Ciommo

Inside Varsavia. Le intimidazioni dei sovranisti, raccontate dai magistrati polacchi. Gianluca Martucci su L'Inkiesta il 27 Ottobre 2021. Parla Dariusz Mazur, giudice della Corte regionale di Cracovia. Su di lui pendono quattro procedimenti disciplinari per aver pubblicamente criticato le scelte con cui il governo di Varsavia ha subordinato negli ultimi anni la giustizia alla politica, fino a incidere direttamente nella nomina dei giudici e nelle sentenze pronunciate nelle aule. Lo sgretolamento dell’indipendenza della giustizia in Polonia si misura soprattutto nei provvedimenti disciplinari che colpiscono i giudici. Quando criticano le scelte del ministro della giustizia o applicano le sentenze delle corti europee ritenute incostituzionali secondo la linea di governo, sentono già il richiamo della Camera disciplinare, l’organo creato nel 2018 per giudicare sulla condotta dei giudici e definita contraria al diritto europeo dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per le scarse garanzie di imparzialità. La Camera disciplinare sarà chiamata a valutare anche la condotta di Dariusz Mazur, giudice della Corte regionale di Cracovia, uno dei 45 tribunali di prima istanza in Polonia. Mazur ha quattro procedimenti disciplinari a suo carico. La sua militanza come portavoce della seconda più grande associazione dei giudici in Polonia, “Themis”, lo ha portato a denunciare apertamente l’attacco all’indipendenza della categoria nel paese messo in atto da Diritto e Giustizia (PiS), l’unico partito della storia post-comunista della Polonia che con le elezioni del 2015 ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. «Mi trovo in questa situazione – racconta il giudice – perché grazie ai pochi media indipendenti che sono rimasti in Polonia ho denunciato gli evidenti casi di corruzione nella nomina dei giudici che hanno coinvolto l’attuale ministro della Giustizia». «Un’altra volta sono stato colpevole di aver manifestato con dei poster – prosegue Mazur – perché un tribunale aveva negato alla nostra associazione il diritto a riunirci. E un’altra volta ancora perché mi sono permesso di chiedere informazioni sui componenti del Consiglio Nazionale della Magistratura che decide sulla nomina dei giudici polacchi e che è stato interamente eletto dal Parlamento, contrariamente a quanto dice la nostra Costituzione». Modificando il sistema delle nomine dei giudici costituzionali prima e stravolgendo la procedura di composizione della Corte Suprema e del Consiglio Nazionale della Magistratura poi, forte della maggioranza in Parlamento, il governo del PiS ha smantellato il sistema della giustizia, compromettendone la totale indipendenza dalla politica. Grazie a una legge del 2018 l’attuale ministro della giustizia Zbigniew Ziobro, oltre a essere deputato e leader di uno dei partiti che formano la coalizione di governo, ricopre anche il ruolo di procuratore generale. I procedimenti disciplinari sono la prima arma di intimidazione contro i giudici indipendenti e possono rappresentare l’anticamera per provvedimenti molto più seri, come quelli di natura penale o amministrativa. Queste indagini preliminari riguardano attualmente più di 100 giudici e alcuni tra loro, come nel caso di Mazur, hanno a carico più di un procedimento. «A causa di questi provvedimenti attivati solo per ragioni politiche, al mio collega Maciej Czajka è stato imposto il trasferimento dall’ufficio giudiziario penale a quello civile e questo è stato un duro e inaccettabile colpo per un giudice con più di venti anni di carriera nel campo penale come lui». Ad alcuni magistrati, invece, è stato disposto il trasferimento di sede immediato anche a centinaia di chilometri dal tribunale in cui prestavano servizio in origine. Ma la tecnica di intimidazione più meschina secondo il giudice di Cracovia è quella propagandistica. Nel mezzo della riforma della giustizia che il Governo e il Parlamento stanno realizzando passo dopo passo da sei anni, nel 2017 i giudici sono stati travolti da una campagna di denigrazione trasmessa dai media di stato. «Non era raro durante un pranzo o una cena con la famiglia assistere in televisione a campagne di propaganda che spesso e volentieri gettavano fango sulla categoria con notizie false o che distorcevano la realtà», aggiunge Mazur. Il giudice cita anche il caso di «uno spot in cui è stato messo alla berlina un ex giudice che ha rubato dei vestiti da un negozio, senza specificare che era in pensione e senza la minima sensibilità per la malattia mentale che gli era stata diagnosticata». Sui giudici si sono scagliati anche i produttori di “Kasta”, una serie televisiva di stampo populistico, anch’essa andata in onda sull’emittente pubblica. «Neanche George Orwell in uno dei suoi romanzi distopici sarebbe stato capace di immaginare una società in cui un ramo dello Stato istiga l’odio nell’opinione pubblica verso un altro apparato dello Stato», commenta Mazur. Il clima intimidatorio ha portato i giudici indipendenti a battersi nelle aule per il rispetto della legge e a radunarsi in una sorta di «resistenza giudiziaria», come l’ha definita lo stesso Mazur.  A sostenere il loro lavoro ci sono soprattutto le associazioni e le altre organizzazioni che si occupano di assistenza legale e psicologica nei procedimenti disciplinari. Una di queste è la Free Court Foundation (Fondazione “Tribunali liberi”) nata nel 2017 dall’idea di quattro avvocati, dopo l’adozione di una legge che ha disposto la sostituzione totale dei membri della Corte Suprema. «Spieghiamo alla gente che questo sistema non può reggere, perché prima o poi tutti potranno trovarsi in tribunale e avere qualcun altro che è più forte di loro, se la legge non li difende», spiega Paulina Kieszkowska-Knapik, fondatrice dell’organizzazione e avvocata impegnata nelle cause relative al diritto alla salute specializzata nell’assistenza ai clienti affetti da malattie rare a per l’ottenimento di finanziamenti pubblici per le loro cure. «Nel mio lavoro mi capita di ricevere elettori del PiS che rischiano di perdere un processo a causa dell’ingerenza della politica nella giustizia – continua l’avvocata – la gente vuole un giudice indipendente, è logico, e in quanto avvocato mi interessa che ci siano delle regole certe e di poter vincere la causa che presento in aula senza dovermi preoccupare della provenienza o dell’orientamento politico del giudice che ho di fronte». La sentenza della Corte costituzionale polacca dello scorso 7 ottobre che ha dichiarato il primato del diritto nazionale sul diritto europeo ha infiammato intanto ulteriormente la disputa tra Bruxelles e Varsavia sullo stato di diritto. Tra le possibili ritorsioni prese in considerazione per rimettere il governo di Mateusz Morawiecki nella carreggiata dei principi cardini dell’Unione, si paventa la possibilità di congelare i 57 miliardi (di cui 23 sovvenzioni e 34 in prestiti) destinati alla Polonia dal piano di ripresa post-pandemico Next Generation EU. Kieszkowska ha fiducia nelle azioni che l’Unione Europea potrebbe mettere in campo nei prossimi mesi, ma anche timore nel caso in cui dovesse tardare l’erogazione dei 57 miliardi del piano di ripresa post-pandemica assegnati alla Polonia. «Vorrei vedere questi soldi arrivare in Polonia, ma è anche una questione di dovere nei confronti delle prossime generazioni, che non devono assistere al finanziamento di uno stato pseudo-autoritario. L’Unione Europea fa bene a difendersi».

La lunga marcia della Polonia verso la secolarizzazione. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 25 giugno 2021. Il 2020 verrà ricordato dai posteri come l’anno in cui la Polonia ha scoperto di non essere (più) lo Scutum saldissimum et antemurale Christianitatis del Vecchio Continente. Perché l’insorgenza intermittente che ha caratterizzato e accompagnato quasi ogni singolo mese dell’anno passato, fra tumulti di piazza legati alla questione aborto, mobilitazioni da parte della comunità arcobaleno e attacchi cristianofobici, sembra suggerire che la Polonia sia prossima a cedere lo scettro di colonna portante del conservatorismo europeo e ad entrare a far parte del club delle nazioni secolarizzate e postcristiane.

I numeri della crisi. Il 2020 è stato un anno da dimenticare (o da ricordare?) per la Chiesa cattolica di Polonia, il potere celeste fatto istituzione che ha protetto i figli e i confini della nazione nel corso dei secoli e che ha guidato e reso possibile la Rivoluzione del 1989, sorreggendo Solidarność e producendo martiri coraggiosi come Jerzy Popiełuszko. A trentuno anni dalla vittoria della Croce nella lotta contro la Falce e il martello, la Chiesa cattolica di Polonia sta sperimentando un’emorragia di consensi senza precedenti storici, la cui andatura va di pari passo con l’implementazione dell’agenda conservatrice di PiS. I numeri della crisi del cattolicesimo polacco sono indicativi della celerità, della profondità e della drammaticità del cambio di paradigma socio-religioso in corso. Perché, in quello che pare essere un caso unico al mondo, la società polacca sta curiosamente transitando dalla religiosità all’irreligiosità senza aver attraversato un previo processo di secolarizzazione durevole e tangibile. Le cifre descrivono un momento di grande tribolazione per la Chiesa polacca, intriso di violenze, sfiducia e acredine, e possono esplicare ciò che alle parole non riesce:

I crimini d’odio anticattolico sono quadruplicati dal 2019 al 2020, passando da 72 a 280;

Quasi un polacco su due (il 46%) ha un’opinione negativa della Chiesa e meno di uno su due (il 43%) ne approva l’operato attuale (marzo 2021);

La fascia anagrafica 18–29 mostra e manifesta gli indici più elevati di avversione e disaffezione verso la Chiesa, vista negativamente dal 47%, in maniera neutra dal 44% e positivamente da un risibile 9% (novembre 2020);

Il tasso di frequenza dell’ora di religione è diminuito di un quinto fra il 2010 e il 2019, scendendo dal 93% al 70%, ma il fenomeno varia notevolmente da città a città e fra aree urbane e aree urbali – nelle scuole superiori di Cracovia e Łódź, ad esempio, soltanto uno studente su due frequentava l’ora di religione nel 2019; una percentuale che scendeva al 40% a Varsavia e Poznan;

I diplomandi dichiaratamente cattolici si sono ridotti di quasi un quinto fra il 2010 e il 2019, passando dall’81% al 63% dell’intera popolazione scolastica;

Il neonato portale Apostazja (let. “apostasia”) ha conteggiato 5.135 dichiarazioni di sbattezzo ufficiali fra novembre 2020 e giugno 2021, alle quali andrebbero affiancati gli oltre trentamila moduli di sbattezzo che gli internauti hanno scaricato dal sito nello stesso periodo.

Un futuro già segnato?

Personaggi pubblici come il politico Robert Biedron, fondatore del partito liberal-progressista Primavera (Wiosna), l’attivista transgenere Margot e il cantante Nergal, voce della controversa banda black metal dei Behemoth, sono stati gli insoliti capifila dei moti anticattolici e antigovernativi che hanno scosso la Polonia nella seconda parte del 2020. A trarre vantaggio dai disordini, però, non è stato il nuovo-ma-già-vecchio Primavera, ma Polonia 2050: un partito liberale (e anticlericale) nato all’acme dei tumulti pro-aborto e che, in brevissimo tempo, stando ai sondaggi, avrebbe superato Piattaforma Civica, divenendo la seconda forza politica del Paese. L’evolvere della situazione risulterà rivelatorio al fine della comprensione del reale significato del 2020: annus horribilis anomalo e a sé stante o preludio alla scristianizzazione (inevitabile?) della Polonia. Noi, ad ogni modo, avevamo scritto in tempi non sospetti – ossia dapprima che iniziassero i disordini e che si instaurasse un clima apertamente ostile nei confronti del cattolicesimo – che “nonostante i grandi numeri [su partecipazione alla messa domenicale e nuove ordinazioni sacerdotali], la secolarizzazione è arrivata anche in Polonia” e che “un fenomeno che sta prendendo piede in maniera preoccupante è quello degli attacchi anticattolici, che si sono intensificati in concomitanza con l’entrata ufficiale della Chiesa nella guerra del governo all’ideologia di genere”.

I fatti successivi ci hanno dato ragione, perché l’episodico è divenuto routinario, ma questo non significa che il destino della millenaria Chiesa polacca sia segnato. Perché questa istituzione, per quanto sia oggi attraversata da una grave crisi di legittimità, contrariamente alle omologhe europee, ha una storia di incredibile resistenza ai tentativi di annichilimento ed emarginazione dalla vita pubblica. Spiegato in altri termini, il destino del cattolicesimo polacco potrebbe essere differente da quello delle controparti morenti di Portogallo, Germania o Francia: a fedeli e chierici l’onere di fermare i processi di secolarizzazione e scristianizzazione.

·        Quei razzisti come i Lussemburghesi.

Leonardo Martinelli per "la Stampa" il 9 febbraio 2021. Ma il Lussemburgo è ancora un paradiso fiscale? Si pensava che ormai non lo fosse più. Uno scandalo mediatico (LuxLeaks) aveva messo in luce varie derive nel 2014, perfino accordi del Granducato con certe multinazionali, vogliose di sbocchi a prova di evasione fiscale. E così il piccolo Stato (2586 km quadrati e 614mila abitanti) aveva recepito in seguito una serie di norme anti-abusi concepite dall' Ocse. E pure una direttiva europea approvata nel 2018 che impone ai singoli Paesi di costituire un registro pubblico con l'identità dei proprietari delle società create sul posto. Ebbene, andando a spulciare quel registro i giornalisti del quotidiano Le Monde, assieme ad altri sedici media (compreso l'italiano IrpiMedia), hanno potuto effettuare una radiografia di questa cassaforte nel cuore dell'Europa: non proprio rassicurante. Sono registrate in Lussemburgo 124mila società commerciali, una ogni cinque abitanti. E di queste, 55mila sono società offshore, senza uffici, né attività o dipendenti sul posto, ma solo un recapito. In tutto detengono asset per oltre 6500 miliardi di euro. Per il 90%, la proprietà è detenuta da stranieri. Ci sono 157 nazionalità diverse. E i più numerosi sono i francesi (14.704), i belgi (10.066), i tedeschi (4638) e gli italiani (3944). Il numero delle nuove società offshore negli ultimi anni è stabile. Ecco, significa che il Lussemburgo offre ancora qualche vantaggio. Non è più l' eldorado di 10 anni fa. Ma sono esonerati fiscalmente i dividendi, le tasse di successione e le plusvalenze finanziarie. Per Le Monde il Paese resta nel Top5 dei paradisi fiscali mondiali. Non solo: analizzando il registro delle proprietà, i giornalisti si sono resi conto che la fuga nel Granducato non si limita alle multinazionali ma riguarda pure «miliardari, sportivi, artisti, responsabili politici di alto rango e perfino famiglie reali». L' inchiesta (durata un anno e segreta: nome in codice, OpenLux) già ieri ha rivelato qualche nome: si va da Tiger Woods alla famiglia Hermès, proprietaria del noto marchio, passando per la cantante Shakira, il principe ereditario dell'Arabia Saudita e Bernard Arnault, re del lusso francese. «Fondi di dubbia provenienza - precisa Le Monde - sono nascosti in Lussemburgo. È il caso di società legate alla mafia siciliana, alla 'Ndrangheta e alla mafia russa. La Lega, il partito dell'estrema destra italiana, vi ha nascosto un fondo ricercato dalle autorità del suo Paese. Elementi vicini al regime venezuelano vi hanno riciclato fondi provenienti da appalti pubblici truccati». Sono registrati pure beni immobiliari di lusso, compresa la proprietà di Angelina Jolie e Brad Pitt nel Sud della Francia (e i suoi pregevoli vigneti). Si parla di «ottimizzazione fiscale». Ma non si scivola a tratti verso l'evasione? In sua difesa, il Lussemburgo ha inviato una lunga mail a Le Monde, che si sintetizza in questa frase: «Il Granducato è oggi conforme a tutte le norme e direttive dell'Ocse e della Ue in materia di trasparenza fiscale». La Commissione Ue ha affermato che analizzerà i risultati dell'inchiesta e vedrà quali conseguenze potrebbero essere necessarie ai sensi del diritto dell'Unione.

·        Quei razzisti come gli olandesi.

Rodolfo Parietti per “il Giornale” il 17 Dicembre 2021. Alla fine, come nel capolavoro di Agatha Christie, non ne rimarrà nessuno dei nove piccoli frugali. I paladini dell'austerità dura e pura, i difensori del sacro Graal delle regole fiscali e dell'ortodossia di bilancio stanno perdendo un pezzo dopo l'altro. Non semplici pedoni sulla scacchiera su cui si giocherà la partita del Patto di stabilità, ma veri alfieri del rigore, quelli che andando di traverso sgambettavano gli avversari col debito fuori controllo. Ad arrendersi, adesso, è l'Olanda. Austerity «kapot», morta. Un salto mortale per chi, in spregio a qualsiasi principio di solidarietà, aveva osteggiato il Recovery Fund; e, ancor peggio, pretendeva di mettere il naso nei conti dei Paesi del Sud quando la pandemia, con la sua contabilità cimiteriale in continuo aggiornamento, aveva raggiunto l'acme. Ora, però, si recita il mea culpa: il nuovo governo guidato da Mark Rutte, assicura il Financial Times, promette un aumento della spesa pubblica mai visto. Cordoni della borsa aperta, come un qualsiasi Paese spendaccione del Club Med. «Durante gli ultimi 10 anni - ricorda il FT - i Paesi Bassi sono stati definiti il paese Ue leader dei frugali che si sono opposti ai budget più espansivi del blocco e a un sistema di ripartizione del rischio fiscale nell'Eurozona». E, aggiungiamo, la nazione che più di tutte spalleggiò l'allora ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, nell'opera di accanimento finanziario contro una Grecia già ridotta allo stremo. Ma i tempi cambiano, e ad Amsterdam devono essersi sentiti orfani della Germania dura e pura di una volta, quella dell'Angela Merkel capace di imporre, con impeto calvinista, il pareggio di bilancio non solo in casa sua, ma anche in quelle degli altri. Come una stampella colpita da un calcio, l'appoggio sul fronte tedesco è venuto meno: la coalizione di governo "semaforo" capeggiata da Olaf Scholz intende rimettere in moto la locomotiva d'Europa con l'aiuto di politiche espansionistiche. Perfino il liberale Christian Lindner, una volta incaricato di reggere il ministero delle Finanze, ha abiurato i propositi bellicosi che erano stati il cardine della sua campagna elettorale. Con Berlino non più austera, gli olandesi devono essersi sentiti circondati. Da Italia, Francia e Spagna che spingono per una riforma radicale del Patto di stabilità e chiedono la rottamazione del parametro del 60% nel rapporto debito-Pil; e dalla Bce ancor più decisa a mantenere lasca la politica monetaria ora che Jens Weidmann, capo della Bundesbank, ha deciso di farsi da parte. Circondati e soli. Perfino l'Austria ha svoltato in direzione di una maggiore spesa pubblica dopo aver costretto al pensionamento Sebastian Kurz, indagato per favoreggiamento della corruzione e appropriazione di fondi pubblici. Le dimissioni dell'ex enfant prodige dalla carica di Cancelliere hanno creato un effetto valanga, trascinando via l'ex titolare dell'Economia, Gernot Bluemel. Lui, all'epoca delle discussioni sul Next Generation Ue, invocava il ricorso al fondo salva-Stati Mes e a novembre all'Ecofin aveva detto che Vienna è «contraria» a «ulteriori eccezioni» nelle regole sui conti pubblici europei. Un altro piccolo frugale che ha fatto la fine degli indiani di Agatha Christie. 

Amalia d'Olanda avrà il trono. "Anche se sposerà una donna". Manila Alfano il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il primo ministro Rutte chiarisce in Parlamento e garantisce l'ok: "Non deve rinunciare alla corona". L'ipotesi che la giovane figlia diciassettenne dei reali olandesi Amalia volesse sposarsi con una donna era stato ventilato in un libro. Ieri con una risposta scritta al Parlamento, l'eterno ragazzo-premier Mark Rutte, ha messo fine al dibattito: un reale olandese potrà sposare una persona dello stesso sesso senza dover rinunciare al proprio diritto al trono. Liberi tutti, almeno in tema di cuore. Ancora una volta l'Olanda si conferma così tra i Paesi più progressisti. Questa volta, l'interrogativo riguardava principalmente le teste coronate e quello che avrebbe significato in materia di successione, e a suscitare l'interrogativo era stato un libro sull'erede al trono, intitolato Amalia, il dovere chiama, nel quale si sostiene che le leggi sembrano escludere la possibilità per i reali di nozze omosessuali, nonostante queste siano legali nel Paese dal 2001. Questo perché la monarchia è una istituzione ereditaria e un matrimonio omosessuale non avrebbe avuto figli. Il libro, diceva tra le altre cose che la regola che vietava ai membri della casa reale di sposare persone dello stesso sesso e mantenere il proprio diritto al trono era datata e un po' superata soprattutto alla luce del fatto che nei Paesi Bassi il matrimonio omosessuale è legale dal 2001. Il partito Vvd, Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia di stampo liberale conservatore voleva sapere dal primo ministro se l'erede olandese avrebbe dovuto rinunciare al trono in caso di unione gay. «Non è un problema per il governo», ha sottolineato Rutte, riferendo che la questione non riguarda Amalia in particolare e che la posizione del governo vale per ogni erede al trono sia uomo sia donna. E dunque le tre figlie di Guglielmo Alessandro dei Paesi Bassi possono stare tranquille: sono libere di innamorarsi di chi vogliono. Anche di una persona del loro stesso sesso. Amalia, è la prima figlia del re olandese, quindi un giorno sarà lei a diventare regina. Salvo, ovviamente, sua morte prematura o abdicazione: in quel caso a sedere sul trono sarà sua sorella minore Alexia, nata nel 2005, o Ariane, nata nel 2007. La principessa di Orange-Nassau fa parte della nuova generazione in cambiamento: con Vittoria di Svezia, Estelle di Svezia, Ingrid Alexandra di Norvegia, Elisabetta del Belgio e Leonor di Spagna, è una delle sei principesse che saranno chiamate a regnare in Europa. Il primo vero passaggio istituzionale, per Amalia, avverrà però già dal prossimo 7 dicembre, quando compirà 18 anni. Al raggiungimento della maggiore età, infatti, assumerà un incarico tra i consiglieri del Consiglio di Stato dei Paesi Bassi. Giovanissima, ma già molto determinata, Amalia, con una lettera pubblica indirizzata a Rutte nel giugno scorso, aveva dichiarato di voler rinunciare all'appannaggio reale. Questa sorta di «stipendio» reale le spetterebbe di diritto al compimento del 18° anno. «Voglio guadagnare quei soldi e non riceverli per diritto acquisito», ha spiegato la principessa. Che nella lunga carriera che avrà davanti a sé, sembra partire già col piede giusto. Della vita privata della figlia del re Willem-Alexander si sa poco e lei non ha fatto commenti. Ma per lei il via libera c'è. Manila Alfano

Paesi Bassi, arrestato un politico sospettato di voler uccidere il premier Rutte. La Repubblica il 28 settembre 2021. La polizia olandese ha arrestato il leader del Partito dell'Unità, Arnoud van Doorn, sospettato di essere coinvolto in un piano per uccidere il premier Mark Rutte, a cui di recente è stata rafforzata la sicurezza. Secondo quanto reso noto dal servizio di sicurezza del primo ministro, van Doorn, consigliere comunale all'Aja, è stato arrestato domenica, dopo aver "manifestato un comportamento sospetto" mentre passeggiava nella stessa area in cui si trovava Rutte. L'uomo, che negli anni scorsi aveva militato nel partito populista Pvv di Geert Wilders, e, dopo esserne uscito, si è convertito all'Islam, è stato rilasciato ieri dopo essere stato interrogato dalla polizia. Il suo legale, Anis Boumanjal, ha detto alla Bbc che non avrebbe dovuto essere arrestato dal momento che non c'era alcun reale motivo per sospettarlo. In realtà, i magistrati, confermando l'arresto, hanno reso noto che un'indagine è in corso e un portavoce della procura dell'Aja ha affermato che il sospetto è che van Doorn stesse raccogliendo informazioni "in preparazione di un tentativo di uccidere" il premier. La notizia dell'arresto è arrivata oggi, dopo che nelle scorse ore era stato rivelato il rafforzamento della sicurezza intorno a Rutte, nel timore che possa essere obiettivo di un attacco o di un rapimento da parte della criminalità organizzata.

Gaia Cesare per "il Giornale" il 28 settembre 2021. Troppo pericoloso circolare liberamente in bicicletta, come il primo ministro olandese ama fare per recarsi al lavoro all'Aja. I movimenti di Mark Rutte sono stati controllati da individui legati alla Mocro-Maffia, la criminalità organizzata di origini marocchine in Olanda. Per questo, dopo l'agguato al giornalista investigativo Peter R del Vries, morto il 15 luglio, sono state rafforzate le misure di sicurezza per il capo del governo. Agenti delle forze di élite della polizia, addestrati dal Royal and Diplomatic Security Service (Dkdb), sono già all'opera dopo che la scorsa settimana il leader olandese ha stanziato 400 milioni di euro per la lotta al crimine organizzato nel 2022-2023. Le minacce «vengono prese sul serio e c'è una reale preoccupazione», ha spiegato il quotidiano De Telegraaf, secondo cui gli agenti speciali erano al lavoro già la scorsa settimana, durante il dibattito sulla Finanziaria, nonostante il premier, abbia cercato di evitare in ogni modo una protezione troppo stretta durante i suoi dieci anni di governo. Ma il clima è fortemente cambiato negli ultimi anni in Olanda, tanto che nel 2018 la polizia avvertì: «Il Paese soddisfa molte caratteristiche di un narco-Stato». I Paesi Bassi sono diventati nel tempo la porta d'ingresso per la cocaina sudamericana in Europa, trasformandosi in uno dei principali snodi del vecchio continente, oltre che in una piazza ideale per il traffico di stupefacenti. Ogni anno nel Paese vengono sequestrati oltre 14 chili di cocaina, ma si ritiene che circa 56 chili sfuggano ai controlli. I 15 milioni di container del porto di Rotterdam, il più grande d'Europa, sono troppi per poter essere adeguatamente monitorati e le gang li utilizzavano anche come prigioni o stanze di tortura mentre i boss si dedicavano anche a un florido racket del riciclaggio di denaro. Anche per questo la violenza avanza, come ha dimostrato l'assassinio del giornalista De Vries, che aveva rifiutato la protezione. Durante il maxi processo Marengo contro 17 membri della Mocro-Maffia, tra cui il pentito del narcotraffico Nabil B, di cui il reporter era diventato portavoce, è emerso come il principale imputato Ridouan Taghi fosse considerato «uno degli uomini più pericolosi e ricercati al mondo». Una trentina di persone coinvolte, fra cui magistrati e avvocati, sono ora sotto protezione.

Cosa sappiamo della Mocro Maffia che trama per assassinare Mark Rutte. Lucio Palmisano su L’Inkiesta l’1 ottobre 2021. Un gatto malato, narcotrafficanti internazionali e un premier sotto protezione. È una storia molto poco olandese quella che proviene dai Paesi Bassi, dove da alcune settimane il primo ministro Mark Rutte è sotto protezione per alcune minacce ricevute dalla criminalità organizzata. Secondo il De Telegraaf sarebbero stati infatti notati degli “osservatori” vicino al premier olandese, un modo per controllarlo molto simile a quello usato in passato con l’avvocato Dierk Wiersum e il giornalista Peter R. de Vries, poi uccisi. Per questo il Government Information Service (RVD) ha rafforzato le misure di protezione nei confronti di Rutte, che però ha deciso di non modificare il suo stile di vita e continuare a spostarsi in bicicletta, come fanno molti politici olandesi. L’attenzione su questa vicenda è alta e anche per questo la polizia olandese ha arrestato Arnoud Van Doorn lo scorso fine settimana, rilasciandolo senza accuse il lunedì successivo. Il personaggio è certamente particolare, come dimostra la sua precedente affiliazione a PVV, il partito di estrema destra di Gert Wilders (anche lui sotto protezione per minacce come Rutte), lasciato poco prima della sua conversione all’Islam nel 2012. Il suo nuovo approdo politico è stato il Partito per l’Unità, un piccolo movimento islamico in odore di fondamentalismo che non ha ottenuto seggi nelle elezioni parlamentari di quest’anno. Sono interessanti anche i suoi trascorsi con la giustizia. Il primo è del febbraio 2014, quando Van Doorn venne condannato a 40 ore di servizio alla comunità e a una multa di 1000 euro per la divulgazione di documenti segreti alla stampa, il possesso di una pistola lanciarazzi illegale e la vendita di droghe leggere ai minori. In appello nel maggio 2015 la pena, su richiesta del pubblico ministero, è stata aumentata a ben 240 ore di servizio alla comunità, con una pena detentiva sospesa di tre mesi: troppo incredibile la scusa dell’imputato «di aver venduto le droghe leggere per catturare uno spacciatore». Nel 2018, Van Doorn è stato accusato dalla politica del PVV Willie Dille di essere il mandante del suo stupro compiuto da alcuni ragazzi marocchini. Pochi giorni dopo la donna si è tolta e Van Doorn, ha rilasciato un’intervista in cui non ha escluso lo stupro di Dille, sostenendo come «ci siano ragazzi disposti a fare una cosa del genere qualora venisse loro richiesto». I tribunali del Paese lo conoscono benissimo, come evidenzia la richiesta di appena due settimane fa del tribunale de L’Aia a 120 ore di servizi sociali per alcuni tweet contro il popolo israeliano e le indagini di quello di Amsterdam, che lo hanno individuato come colui che ha portato il Lyceum islamico Cornelius Haga sulla strada della radicalizzazione. «Mi trovavo lì perché dovevo curare il gatto malato di mia madre e poi mi sono fermato per un caffè al bar di fronte alla palestra dove si allena Mark Rutte», è stata la difesa di Van Doorn davanti alla polizia che gli ha chiesto ragione dei suoi spostamenti. Secondo il suo avvocato i servizi segreti sono andati in paranoia, individuando la persona sbagliata. Per il momento la storia si chiude qui. Dietro le minacce a Rutte c’è la mafia. Ma non una qualsiasi bensì la Mocro Maffia, la criminalità di origine marocchina specializzata nel traffico di sostanze stupefacenti in giro per l’Europa, grazie all’amicizia con i cartelli della droga colombiano e messicano che smerciano la loro roba nei porti di Anversa, Rotterdam e Algeciras, in Spagna. Al suo vertice c’è Ridouan Taghi, arrestato nel 2019 a Dubai e attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di Nieuw Vosseveld a Vught, nel sud dei Paesi Bassi, in attesa di processo con altri 16 soci. Destino simile per Saïd Razzouki, il suo braccio destro, attualmente in prigione in Colombia, a Bogotà, e in attesa di estradizione per l’Europa. Secondo l’investigatore olandese Pieter Tops ogni anno la mafia marocchina guadagna 20 miliardi di euro dal suo traffico di ecstasy e amfetamine, a cui vanno aggiunti i proventi della cocaina. Non è perciò un caso che negli ultimi dieci anni la rete della Mocro Maffia abbia superato i classici confini del BeNeLux, raggiungendo la Costa del Sol in Spagna, il Sud America e persino gli Emirati Arabi Uniti, e abbia moltiplicato per 18 il proprio giro di affari, come testimoniano le 65 tonnellate di droga sequestrate dalle autorità doganali di Anversa nel 2020, un quantitativo decisamente superiore alle appena 5 tonnellate del 2009. Una crescita esponenziale, che non poteva passare inosservata. La crescita degli affari negli ultimi dieci anni ha fatto il paio con una serie di regolamenti di conti dentro e fuori gli ambienti della criminalità organizzata. L’ultima vittima è stato il giornalista investigativo Peter de Vries, colpito alla testa mentre usciva dallo studio televisivo di RTL Boulevard lo scorso luglio. Per anni De Vries si è occupato dei casi più importanti di cronaca nera e di crimine organizzato nei Paesi Bassi. A pesare è stato soprattutto il suo ruolo di confidente e consigliere del collaboratore di giustizia Nabil Bakkali, già a suo modo causa di altri omicidi voluti personalmente da Taghi per fare terra bruciata intorno a lui.

Nel 2018, poco dopo l’annuncio della collaborazione con la giustizia di Bakkali, fu assassinato il fratello 24enne, mentre nel 2019 fu il turno del suo legale, Derk Wiersum. De Vries era coinvolto anche come consulente delle sorelle Astrid e Sonja Holleeder nel processo contro il fratello William Holleeder, criminale noto per il rapimento del magnate della birra Freddy Heineken nel 1983 e in carcere per complicità nell’omicidio di suo cognato. Sono 17 gli imputati del maxiprocesso Marengo attualmente in corso, tutti con meno di 40 anni e provenienti da famiglie marocchine o delle ex colonie olandesi: «l’organizzazione ben oliata di sicari», secondo la definizione del pm, sarebbe responsabile di nove omicidi commessi tra il 2015 e il 2018. Ai giudici l’ultima parola.  

Floriana Bulfon per “L’Espresso” il 16 agosto 2021. C’era una volta la terra idilliaca di mulini e tulipani, modello di tolleranza e benessere. Adesso li chiamano "I Paesi caduti in basso", travolti da un'ondata di droga e omicidi. L'Olanda si scopre la Narcolandia d'Occidente, dove sbarcano tonnellate di cocaina che intossicano tutta l'Europa e fanno fiorire gang sempre più violente. Un'emergenza nazionale, che mette in discussione i cardini della società olandese. «Un pitbull: se morde un caso, non lo lascia andare». Definivano così Peter R. de Vries: un ex poliziotto diventato reporter, con una fama insuperabile nell'indagare sui casi criminali. A luglio lo hanno assassinato con un'esecuzione spettacolare: cinque colpi di pistola sparati alla testa, in pieno giorno all'uscita degli studi tv di Rtl.  Due anni prima, la stessa sorte era toccata all'avvocato Derk Wiersum, crivellato davanti a moglie e figli sulla soglia di casa in un tranquillo quartiere di Amsterdam. Il segno che l'underworld olandese ormai è tracimato ovunque, con un campionario di orrori che sembra non conoscere fine. Ci sono stati regolamenti di conti nelle strade; attacchi contro le sedi dei giornali, prese di mira lanciandogli contro furgoni-ariete; sindaci messi sotto scorta e nascosti in "case protette" per salvarli dai killer. A Wouwse Plantage, un villaggio tra i boschi nel Brabante settentrionale al confine con il Belgio, sono stati scoperti container trasformati in camere di tortura: stanze insonorizzate con le poltrone da dentista trasformate in lettini della morte. Una macelleria messicana nel cuore dell'Europa: gang crudeli e spietate lasciano la testa decapitata di un giovane davanti a un locale, lanciano granate per minacciare i concorrenti e arruolano ragazzini pronti a uccidere per poche migliaia di euro. I pochi sicari identificati non avevano nessuna relazione con le vittime: lavorano per conto di agenzie che offrono servizi violenti, dalla riscossione dei crediti all'omicidio. Wiersum e De Vries, le due "vittime eccellenti", erano legati a doppio filo a Nabil Bakkali: un ex killer che nel 2017 ha deciso di collaborare con la giustizia nel più grande processo alle organizzazioni criminali nella storia olandese. Bakkali è il testimone-chiave contro Ridouan Taghi, il signore della droga ed esponente più noto della Mocro maffia ossia la nuova generazione di criminali che dagli anni Duemila ha scalato il potere. «Mocro è il modo in cui i giovani marocchini si chiamano nello slang di strada», ha spiegato Wouter Laumans che con Marijn Schrijver ha scritto il libro "Mocro maffia". «Ma non sono solo di marocchini. Si tratta di ragazzini che crescono in zone di Amsterdam dove i turisti non vanno mai». Non i canali e il museo Van Gogh, ma i palazzoni di cemento dove da mezzo secolo sono state relegati gli immigrati asiatici delle ex Indie Olandesi e i profughi della ex Jugoslavia. Non importa l'etnia, conta il desiderio di fare soldi facili. A qualunque costo. Taghi è accusato di essere il mandante di molti omicidi della guerra che si è consumata negli ultimi anni. Una battaglia per conquistare il monopolio della rotta principale della droga, che dal Sud America sbarca nei porti di Rotterdam e Anversa. Un business redditizio che non deve essere condiviso. I margini dei guadagni sono grandi e tutti sono pronti a impugnare il kalashnikov per difendere i propri interessi. I boss della Mocro hanno imparato in fretta dal confronto con i loro referenti colombiani e messicani, maestri di ferocia ma anche di tecnologia: usano solo telefonini con chat criptate, che non si possono intercettare. Ma nella primavera 2018 gli investigatori hanno aggirato l'ostacolo e sono penetrati nel server usato per le comunicazioni in codice. E così hanno scoperto che Taghi aveva intenzione di «far dormire» tutti quelli che erano legati a Bakkali. Oggi Ridouan Taghi è a processo, estradato da Dubai dove aveva trovato il suo buen retiro. L'Olanda è riuscita a convincere gli Emirati a consegnare il ricco trafficante. Mentre il nostro governo non ottiene l'arresto di Raffaele Imperiale, il boss di camorra asso del narcotraffico e del riciclaggio che proprio con Taghi scambiava messaggi criptati: il napoletano continua a godersi i grattacieli emiratini. Taghi è arrivato in Olanda con i genitori dal Marocco nel 1980. Quando ha avviato la sua prima attività, spaccio di hashish nel cortile della scuola, è stato derubato da ragazzi più forti. Ma non si è scoraggiato. Ha preso il controllo di una batteria e ha fatto il salto con la cocaina, guadagnando un sacco di soldi. Pronto a far fuori chi si metteva in mezzo, ha eliminato dalla sua strada ogni avversario. E per farlo ha schierato un esercito di giovanissimi, poveri e spesso senza alcuna istruzione. Postano sui social le foto con pacchi di soldi e droga e non hanno paura di morire né di venir arrestati. Gang sempre più fluide, un ramo tagliato ne fa germogliare altri. Al centro dell'ascesa ci sono i porti di Rotterdam e Anversa: due dei principali snodi europei per l'arrivo della cocaina in Europa. Basti pensare che le forze dell'ordine solo nel 2020 ne hanno scovato oltre 100 tonnellate. Lo scorso febbraio un'operazione congiunta tra la polizia belga e tedesca ha portato al più grande sequestro mai fatto in Europa: polvere bianca per un valore di ben 4,3 miliardi di euro, nascosta dentro latte di stucco e travi di legno provenienti da Panama. Per i narcos si tratta di un rischio calcolato: viene controllato meno del 2 per cento dei container. Le forniture sono destinate a più organizzazioni con loghi e confezioni diverse, intermediari le recuperano per poi distribuirle nel resto d'Europa e reclutatori avvicinano portuali e doganieri per corromperli. Il prezzo su piazza è rimasto lo stesso, ma la coca è sempre più pura. Ma l'Olanda non ha solo il primato nell'importazione di coca: è leader nella produzione di droghe sintetiche, con numerosi laboratori presenti sul territorio. Un settore che crea minore allarme ma garantisce percentuali di profitto più alte della cocaina, grazie alla diffusione di numeri enormi di pasticche. La somma dei due business è impressionante. Secondo uno studio dei ricercatori Pieter Tops e Jan Tromp nel 2018 l'industria della droga ha incassato quasi 20 miliardi di euro, tanto quanto la più grande catena di supermercati olandese Albert Heijn. Due anni fa c'è stata una valutazione profetica e choccante: «Abbiamo sicuramente le caratteristiche di un narco-Stato», ha dichiarato il presidente del più grande sindacato di polizia olandese. «Certo che non siamo il Messico. Non abbiamo 14.400 omicidi. Ma se si guarda alle infrastrutture, ai grandi soldi guadagnati dalla criminalità organizzata, all'economia parallela. Sì, abbiamo un narco-Stato». Il delitto De Vries adesso obbliga tutti a fare i conti con queste parole. C'è una società sconvolta per la crudeltà degli omicidi senza quartiere e analisti che si interrogano su quanto i capitali dei narcos stiano contaminando l'economia nazionale: riciclano sempre più soldi in negozi, progetti immobiliari e diamanti. Anversa è la capitale mondiale del taglio e della lavorazione dei preziosi, che possono assolvere alla duplice funzione di mezzi di pagamento della droga acquistata nel Sud America dai cartelli colombiani e di bene di investimento. La criminalità organizzata non è nuova nei Paesi Bassi. La figura più iconica è stata quella di Willem Holleeder, uno dei rapitori del magnate della birra Freddy Heineken su cui aveva indagato anche De Vries. Le forze dell'ordine si sono concentrate fino agli anni Novanta nella lotta alla vecchia guardia di rapinatori, che poi trafficavano in droga. Poi sono state mobilitate dall'emergenza terroristica, soprattutto dopo l'omicidio del regista Theo Van Gogh. E nel frattempo i giovani della Mocro Maffia si sono fatti sempre più potenti, surclassando gli storici boss locali. «In Olanda non esistono mafie che controllano un territorio, ma gruppi concorrenti che possono facilmente entrare in conflitto: non ci sono "cupole" in grado di risolvere questi conflitti», ragiona il professore di criminologia Cyrille Fijnaut. Elenca la presenza sul territorio di criminali olandesi, olandesi-marocchini, italiani, albanesi, russi, turchi, sudamericani, caraibici, per cui non conta nazionalità e origine ma solo la voglia di fare soldi. E si muovono rischiando poco: le pene per detenzione di cocaina sono tra le più basse in Europa. Nel 2010 su 400 procedimenti aperti per droga, la procuratrice Greetje Bos - più volte minacciata dai nuovi padrini - ha ottenuto soltanto sei condanne. Una percentuale dell'1,5 per cento. La stessa che nello stesso anno si registrava a Ciudad de Juárez in Messico, una delle capitali della mattanza sudamericana. Subito dopo l'omicidio dell'avvocato Wiersum, politici, magistrati e investigatori si sono riuniti per affrontare la criminalità organizzata. Hanno creato una nuova unità speciale di polizia, il Multidisciplinary intervention team, ma non è bastato per impedire l'assassinio di De Vries. Per Fijnaut è stato un errore strategico: «Un'unità così separata ha creato divisioni, non è stata la risposta giusta alla violenza delle bande sempre più organizzate. Sarebbe stato più opportuno rafforzare il sistema di indagine penale all'interno della polizia nazionale e incrementare la collaborazione con le autorità fiscali e amministrative per impedire che i boss della droga possono costruire posizioni di potere e fortune finanziarie usando la violenza e l'intimidazione e corrompendo i funzionari». E intanto tutta Europa teme il contagio olandese: «Credo che queste modalità violente ed estreme si estenderanno presto ai Paesi confinanti», avverte Eric Bisschop il vice procuratore generale del Belgio. Lì già dagli anni Novanta, con l'omicidio dell'ex vicepremier André Cools in Vallonia, sono nati nuovi modelli multietnici di criminalità e per il procuratore «è solo una questione di tempo. La difficoltà è quella di individuare il target: se le forze di polizia si concentrano sulle figure più sospette, si lascia spazio alle nuove leve di crescere fino al vertice. Per questo è bene lavorare sull'intera filiera. Negli ultimi anni c'è stato un netto miglioramento nella cooperazione internazionale, attraverso nuovi strumenti e il lavoro operativo, ad esempio, di Eurojust ma rimangono una serie di ostacoli: le grandi differenze tra i sistemi giudiziari in Europa e la mancanza di cooperazione con Paesi che sono considerati un porto franco per i criminali, con cui non è facile collaborare nelle indagini e nelle estradizioni». Già, finché i padrini potranno starsene in piscina nei grattacieli di Dubai, ordinando spedizioni di coca milionarie e ingaggiando killer per pochi euro, sarà difficile colpire la nuova rete dei traffici. E finché i tribunali europei avranno pene diverse, sarà dura smantellare la filiera. Ma quello che sta accadendo in Olanda dimostra quanto il disinteresse verso le dinamiche criminali possa mettere a rischio la tenuta di un'intera nazione.

Irene Soave per il "Corriere della Sera" il 17 giugno 2021. Il premier dei Paesi Bassi Mark Rutte, noto infatti per la sua frugalità, si è detto subito «soddisfatto del bel gesto», che è stato, ha specificato, «assolutamente spontaneo». Del resto era stato il suo governo, a ottobre scorso, a ventilare l'ipotesi di un taglio all' appannaggio personale di cui godono il re, Guglielmo Alessandro, la consorte Maxima e la loro figlia Catharina-Amalia d' Orange. Ora la principessa e futura regina, 17 anni, ha annunciato proprio in una lettera a Rutte che rinuncerà alla sua spettanza: a ottobre diventerà maggiorenne e per legge le toccherebbero circa 1,6 milioni di euro l'anno, ma si sente «a disagio» a prenderli sapendo che molti altri studenti come lei, scrive, hanno già debiti universitari. La lettera, scritta a mano e indirizzata al premier, è finita chissà come sul sito di notizie Nos. Proprio all' indomani della fine della scuola per la principessa, che ha completato i suoi studi - al Christelijk Gymnasium Sorghvliet all' Aia - con il massimo dei voti: lo ha annunciato anche sull' Instagram della famiglia reale, con un video in cui, com' è tradizione, innalza la bandiera nazionale insieme al suo zainetto, per festeggiare. «Promossa! Vorrei fare le congratulazioni a tutti gli altri studenti», ha scritto, «e augurare fortuna a chi ripete a settembre». Poi la lettera a Rutte, anche quella con un pensiero ai suoi coetanei. «Il 7 settembre divento maggiorenne», scrive, «e per legge mi spetterà un appannaggio. Mi sento a disagio a pensarci: non faccio nulla per riceverlo, e molti altri studenti vivono difficoltà ben maggiori. Particolarmente in questo periodo». La lettera continua, e la principessa racconta i suoi piani per il futuro: molto allineati a quelli di gran parte dei suoi coetanei e connazionali. Farà un «gap year» all' estero, anche se non dice dove, e lavorando cercherà «di ripagare i soldi, quasi 350 mila euro, ricevuti dai contribuenti olandesi per sostentare i suoi studi». L' appannaggio reale, per legge e per tradizione, cresce a un tasso del 5 per cento ogni anno, più o meno. Si tratta di cinque milioni di euro l'anno circa per le necessità della Casa Reale, più spettanze personali per i singoli membri. Spese che i partiti di centrosinistra - Verdi, liberali e social-laburisti - propongono ciclicamente, come un ritornello, di tagliare. «Ma la decisione della principessa è personale, e non cambierà la legge», ha chiarito Rutte. Anche perché la lettera si conclude con una postilla: la principessa non rinuncerà per sempre al suo appannaggio, ma solo «fino a che il mio ruolo di principessa di Orange mi richieda alte spese». Già da mesi, in preparazione alla fine degli studi, la principessa parla dell'anno sabbatico che verrà: «Voglio ancora imparare, ma non solo a scuola, dove sono stata volentieri per 14 anni. Ora vorrei viaggiare e scoprire il mondo». Catharina Amalia aveva detto così in tv il 27 aprile scorso, nel giorno del re; parole di spensieratezza, in un'epoca di rigore a cui si è presto adeguata.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 16 gennaio 2021. Il frugale Rutte, l'olandese con la flessibilità di un rasoio che ci avrebbe visto volentieri in ginocchio sui ceci e senza un euro, si è dimesso prima di Conte, a due mesi da elezioni che a questo punto rischia persino di perdere. All'inizio confesso di avere provato un brivido sottile ma intenso di piacere. Oltretutto la storia che ha indotto Rutte alla resa sembra perfettamente coerente con il suo autoritratto di Torquemada della contabilità: anni fa il Fisco olandese aveva contestato a ventimila famiglie povere di avere percepito il bonus-figli senza averne i requisiti, costringendole a indebitarsi per restituirlo. Poiché adesso si è appurato che avevano ragione loro, l' amministrazione ha risarcito il maltolto con gli interessi e Rutte si è caricato l'errore sulle sue spalle da Terminator, affermando che «lo Stato di diritto deve proteggere i cittadini dall' onnipotenza dei governi». È stato allora che ho pensato a come sarebbe finita da noi una faccenda del genere. E ho subito smesso di godere. Non solo lo Stato non avrebbe restituito un centesimo ai tartassati, ma il premier - qualsiasi premier, da Giuseppe ad Antonio Conte - lungi dal dimettersi avrebbe incolpato i burocrati, i magistrati, gli arbitri e gli hacker, nominando d' urgenza una commissione che avrebbe chiuso i suoi lavori in occasione del millesimo anniversario della fine della pandemia. Nel bene e nel male, temo che sui politici nostrani avesse ragione il Poeta: fatti non foste a viver come Rutte.

Francesca Basso per il “Corriere della Sera” il 16 gennaio 2021. Una cosa va detta: Mark Rutte, premier olandese in sella dal 2010 e da ieri dimissionario, non è tipo da due pesi e due misure. Ha sempre proclamato il rigore di bilancio in Europa, capofila dei Paesi «frugali», e lo ha sempre praticato in casa (il debito pubblico dell'Olanda nel 2020 è arrivato al 60% del Pil, quello dell'Italia al 160%). La sua amministrazione fiscale non è stata da meno: ha accusato di frode circa 26 mila famiglie per aver incassato i sussidi all' infanzia tra il 2013 e il 2019 e ha chiesto indietro gli aiuti, decine di migliaia di euro, lasciandole in profonda difficoltà. Ma le richieste di rimborso sono risultate illegittime, come emerso un mese fa da un'inchiesta parlamentare intitolata «Ingiustizia senza precedenti». Lo scandalo ha portato alle dimissioni il governo olandese, in piena pandemia (l'Italia non è l' unico Paese in crisi, e in Europa c'è anche l' Estonia), a due mesi dalle elezioni già in programma per il 17 marzo. Rutte ha parcheggiato la sua bicicletta ai piedi della scalinata che lo ha portato dal re Willem-Alexander, a cui ha presentato le sue dimissioni e quelle dei suoi ministri. Poco dopo in una conferenza stampa il premier ha spiegato che «lo Stato di diritto deve proteggere i suoi cittadini da un governo onnipotente e ha fallito in modo orribile». Ha promesso che le famiglie a cui è stata chiesta ingiustamente la restituzione degli assegni saranno indennizzate: «Deve essere organizzato un risarcimento economico per i genitori. Non si può sbagliare di nuovo». Riceveranno ora almeno 30 mila euro. Il premier uscente ha anche annunciato che sarà «introdotto un nuovo sistema di indennità». L'amministrazione aveva preteso i rimborsi per piccoli vizi formali come firme mancanti o timbri poco leggibili. Il fisco ha ammesso che almeno 11 mila persone sono state sottoposte a revisione per le origini etniche o la doppia nazionalità. Orlando Kadir, un avvocato che difende 600 famiglie, ha parlato di «profilazione su base etnica». Intransigente e rispettoso delle regole - durante il lockdown per due mesi non ha fatto visita in casa di riposo alla madre 96enne e ha passato con lei solo l' ultima notte prima che morisse come consentito dalle regole olandesi - il premier si è assunto la responsabilità dello scandalo anche se, ha spiegato, «non ho avuto alcun coinvolgimento diretto ma ovviamente un coinvolgimento indiretto». Motivo per cui ha detto di «poter continuare come leader del partito, ma alla fine spetterà agli elettori». Rutte ha guidato tre governi di coalizione dal 2010. Nelle elezioni del 2017 ha sconfitto il leader di estrema destra, populista e antieuropeista, Geert Wilders, mantenendo il Partito popolare per la Libertà e la Democrazia(Vvd) prima forza del Paese. L'Olanda resterà confinata in lockdown almeno fino al 9 febbraio. Il premier ieri in conferenza stampa ha rassicurato gli olandesi: il governo dimissionario «continuerà a lavorare per combattere contro il Covid-19» finché non sarà formato un nuovo esecutivo dopo le elezioni di marzo.

Il falso moralismo dei Paesi nordici pieni di scandali. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 16 gennaio 2021. È noto il complesso d’inferiorità della nostra classe dirigente verso le nazioni transalpine: nella vulgata comune, infatti, i cosiddetti “Paesi del nord” sono sinonimo di efficienza e buon governo, a differenza dei pigri e caotici Paesi latini e mediterranei (Italia inclusa). Stereotipo radicato nella storia, come spiegava qualche tempo fa Lucio Caracciolo su Limes, sin dalla diffusione delle teorie proto-ambientalistiche del barone di Montesquieu, che nel suo Spirito delle leggi (1748) fece del clima un criterio di civiltà, attribuendo ogni virtù civile ai popoli del freddo, distinti dai pigri meridionali. Secondo Montesquieu, infatti, “le istituzioni e le leggi dei vari popoli non costituiscono qualcosa di casuale e arbitrario, ma sono strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione e sicuramente anche dal clima”. Stereotipi che sono sopravvissuti ai nostri giorni. Quante volte abbiamo sentito i moralismi quasi paternalistici di alcuni illustri esponenti delle classi dirigenti dei Paesi del Nord Europa mentre si rivolgevano in maniera offensiva nei confronti del nostro Paese?

Stereotipi e pregiudizi contro l’Italia. Gli esempi sono numerosi. In una intervista rilasciata lo scorso luglio al magazine “7” del Corriere della Sera, il premier olandese Mark Rutte spiegò che “l’Olanda capisce e appoggia l’appello alla solidarietà”, per poi specificare: “Dobbiamo solidarietà ai Paesi più colpiti dalla pandemia, sapendo però che anche noi siamo stati colpiti gravemente. Ciò significa che gli Stati i quali necessitano e meritano aiuto devono anche far sì che in futuro siano capaci di affrontare da soli crisi del genere in modo resiliente”. In buona sostanza, “l’Italia deve imparare a farcela da sola”. Il giornale tedesco Die Welt, lo scorso aprile, fece arrabbiare il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio quando scrisse che la mafia italiana starebbe aspettando i soldi dell’Europa. “Dovrebbe essere chiaro che in Italia – dove la mafia è forte e sta adesso aspettando i nuovi finanziamenti a pioggia di Bruxelles – i fondi dovrebbero essere versati soltanto per il sistema sanitario e non per il sistema sociale e fiscale” osservò il giornale tedesco. E come non ricordare le parole pronunciate nel marzo dello scorso anno da Christian Jessen, famoso medico britannico, il quale spiegò che il coronavirus era “una scusa degli italiani per prolungare la loro siesta”?

Sono davvero meglio di noi? Sì, ci sono tantissime cose che nei Paesi del nord Europa funzionano meglio che da noi. In molti casi hanno un sistema welfare e dei servizi invidiabili: soprattutto, non hanno il nostro fisco opprimente e la nostra burocrazia lenta e asfissiante. Non possono, però, permettersi di farci in alcun modo la morale. Lo dimostra quello che sta accadendo nei Paesi Bassi, dove il governo del premier liberale Mark Rutte si è dimesso sull’onda dello scandalo sui bonus figli, a causa del quale 20mila famiglie sono state accusate ingiustamente di frode dal fisco. Tra il 2003 e il 2019, migliaia di genitori erano stati accusati a torto dalle autorità del Paese di aver richiesto assegni in modo fraudolento; molti di loro sono stati costretti a restituire senza motivo importanti somme di denaro andando in rovina. Che cosa avrebbe scritto la stampa olandese se fosse accaduto in Italia? La Germania non è da meno, anche se è brava a nascondere la polvere sotto il tappeto: basti pensare ai recenti scandali finanziari e ai guai di Deutsche Bank. Come scrive l’Agi, un tempo simbolo dell’affidabilità teutonica, il colosso bancario è affondato nel tentativo di competere sullo stesso terreno dei concorrenti angloamericani. Simboli, appunto, non sempre sinonimo di verità assolute.

·        Quei razzisti come gli svedesi.

Doppio record. Prima ad essere eletta; prima a dimettersi.

Svezia, per la prima volta una premier donna: ma si dimette dopo poche ore. Andrea Tarquini su La Repubblica il 24 novembre 2021. Con la nomina di Magdalena Andersson le donne governavano in metà dei Paesi europei, ma dopo il "no" del Parlamento alla sua finanziaria il suo esecutivo è entrato subito in crisi. Come previsto, Magdalena Andersson è la prima donna-premier svedese. Ma si è già dimessa. Col no del Parlamento alla sua finanziaria, la sua missione è durata poche ore. Eletta giorni fa dal partito di governo (la storica socialdemocrazia, Sap) nuova leader al posto del dimissionario da leader politico e da premier Stefan Löfvén, oggi Andersson, ministro delle Finanze uscente, era appena stata di fatto automaticamente confermata, sebbene a fatica, capo dell'esecutivo dal Riksdag, il parlamento unicamerale della prima potenza nordica. Hanno votato a favore 117 deputati, 57 si sono astenuti e 174 hanno votato contro. Cioè appena uno in meno della maggioranza di 175 sui 349 legislatori del Riksdag, il cui eventuale voto contrario boccia qualsiasi premier. Senza maggioranza contraria infatti in Svezia un governo entra in carica. Ma non è tutto: il Parlamento ha appunto respinto il suo progetto di legge finanziaria, aprendo la porta all´ipotesi di sue dimissioni, che ella stessa aveva minacciato in caso di no alla sua legge di bilancio moderata, aperta al centro e pro-economia. Magdalena Andersson non ha resistito all´elezione sofferta, alla tempesta del no alla finanziaria, alla crescente insofferenza contro di lei mostrata da centristi, conservatori e dai sovranisti Sverige Demokraterna del giovane Jimmie Andersson, in volo in ogni sondaggio in vista delle elezioni parlamentari regolari dell'autunno prossimo. Secondo fonti di Stoccolma Andersson avrebbe potuto accettare, sottoponendolo al voto di fiducia, di sottoscrivere il progetto di finanziaria alternativa proposto da liberali centro e conservatori. La sorte della governabilità svedese era dunque appesa all'incertezza, poche ore dopo le elezioni della prima premier donna nel paese ai vertici europei quanto a gender equality. Andersson si diceva decisa a governare con decisione, come sempre da quando lei, sorridente e gentile laureata all'accademia di Uppsala (la Oxford svedese) e campionessa di nuoto, si è guadagnata il soprannome di "bulldozer". È figlia unica del docente di Uppsala Goran Andersson e dell'insegnante Brigitta Andersson. Si è guadagnata un dottorato in scienze sociali a Uppsala, poi ha debuttato in politica nella gioventù socialdemocratica: 54 anni, bionda coi capelli all'altezza delle spalle, si impone anche quando contestata dice "la Svezia può fare di meglio e di piú in ogni campo, anche nell'ambiente", sfidando i colossi industriali e forestali. Il soprannome di Bulldozer le viene dalla pratica di imporre la sua linea con mano di ferro in guanto di velluto, da anni e soprattutto da quando è stata titolare delle Finanze, allineando la Svezia (che non fa parte dell´eurozona) alla posizione dura dei Frugali (Austria Olanda Finlandia) in politica monetaria, sfidando così la stessa tradizionale politica di quantitative easing e tassi negativi della Riksbank, la banca centrale, che finora ha salvato i primati di crescita ed export di tecnologie avanzate svedese nel mezzo della tragedia del covid. Poi ha studiato con successo a Harvard e nel partito e nel governo ha fatto carriera come massimo consulente economico di qualsiasi governo socialdemocratico. "Sa intimorire persino i migliori economisti e accademici e questo da noi è singolare", dicono i direttori di molti grandi media svedesi. La sua partenza è stata tutta in salita, col no del centrodestra "pulito" alla sua finanziaria e la sfida della crescente ascesa del partito populista. Che molti partiti moderati e conservatori sono pronti a "sdoganare" prima o dopo le prossime elezioni, segnando una cesura storica e la fine del modello nordico. La sua nomina aveva rafforzato ulteriormente il peso delle donne al potere in Europa portando il numero di donne numero uno in politica al 50 per cento nel vecchio continente. Molte premier e presidenti, dalla islandese Katrín Jakobsdóttir alla finlandese Sanna Marin, dalla danese Mette Frederiksen alle presidenti kosovara e greca, alle premier estone Kallas e moldava Maia Sandu, fino a madame Lagarde alla Bce e  Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea, mostrano che il "tetto di cristallo" denuncia crepe crescenti sopra i cieli dell´Unione europea.

Calo delle nascite e immigrazione, così la Svezia cambia volto. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 22 aprile 2021. Anima e volto dell’Europa di domani potrebbero essere irriconoscibili agli occhi dei contemporanei, perché il possibile e probabile portato del perdurare e dell’eventuale cristalizzazione di determinate dinamiche demografiche (crisi delle culle, invecchiamento della popolazione, moti migratori provenienti dalle terre al di là del Mediterraneo) potrebbe essere un rivolgimento etnico di natura epocale. Le annose questioni dell’invecchiamento della popolazione e dell’inverno demografico riguardano quasi ogni stato europeo, dalla Scandinavia ai Balcani, senza che demografi, sociologi e politici siano riusciti a formulare una ricetta per rallentare, fermare ed eventualmente invertire la tendenza autogenocidiale. Fa eccezione l’Ungheria di Fidesz, dove il modello della cosiddetta “demografia patriottica” sta producendo risultati tangibili, ma la consapevolezza che il successo delle politiche nataliste si misura nel lungo termine impone il mantenimento di un cauto e moderato ottimismo. Discorso differente, invece, per quel fenomeno che potrebbe essere definito ed esplicato in termini di “transizione etnica“, ovverosia la riscrittura degli storici fulcri etno-identitari di intere nazioni cagionata e risultante, oltre che dall’invecchiamento della popolazione autoctona, da massicci flussi migratori e dalla persistente discrepanza tra i tassi di fertilità di nativi e forestieri. Innumerevoli le nazioni europee interessate da questa tendenza, che, lungi dall’appartenere al reame della fantademografia, sta divenendo oggetto di crescente interesse da parte di università e centri di ricerca. V’è il caso della Francia, dove il sorpasso degli arabi sugli autoctoni potrebbe avvenire entro il 2060, di Romania, Bulgaria e Ungheria, dove le minoranze rom potrebbero diventare maggioranze attorno a metà secolo, e della Svezia, che nei prossimi quarantacinque anni potrebbe assistere ad una drammatica rivoluzione etnica.

Lo scenario del ricercatore finlandese. Kyösti Tarvainen, ricercatore finlandese con una carriera alle spalle presso l’università Aalto di Helsinki, nei giorni scorsi ha messo la firma su un’analisi demografica pubblicata sulla versione digitale del giornale svedese Folkbladet. L’analisi, che ha generato ampio dibattito sia in Scandinavia sia all’estero, concerne il futuro della Svezia, la cui composizione etnica, secondo Tarvainen, sarebbe destinata a mutare profondamente per via della mescolanza di dinamiche demografiche e migratorie a detrimento degli autoctoni. Raccogliendo, esaminando e interpretando i dati relativi ai tassi di fertilità tra svedesi etnici e abitanti di origine extraeuropea, nonché operando un raffronto con le stime dell’Istituto di Statistica della Svezia, Tarvainen è giunto alla conclusione che il 2065 potrebbe essere l’anno della svolta, ovvero della nascita di una “nuova nazione”. Quell’anno, stando alle proiezioni demografiche dell’accademico, causa immigrazione e divario tra i tassi di fertilità, è previsto il sorpasso dei residenti non-europei (7.694.000) sugli svedesi etnici (7.364.000). Lo scenario delineato da Tarvainen, per quanto stia facendo discutere, non è né ineluttabile né inconfutabile: l’autore, infatti, ritiene che suddetto punto di non ritorno possa essere raggiunto soltanto a condizione che perdurino nel tempo gli attuali ritmi immigratori – più di 80mila richieste d’asilo dal 2017 al 2020 e circa 475mila ingressi nello stesso periodo – e l’insufficiente propensione alla natalità degli autoctoni – al di sotto della fertilità sostitutiva (2,1 figli per donna) dal lontano 1992. Nel 2019, si legge ancora nella disamina di Tarvainen, l’88% degli immigrati residenti in Svezia era di origine non-europea e uno su due era di fede musulmana. Entro il 2100, invece, assumendo la bontà del modello previsionale, un abitante su due potrebbe essere musulmano: un mutamento tanto di forma quanto di sostanza.

Le paure di Tarvainen. La Svezia ha un problema con il funzionamento del proprio modello di integrazione, un tempo giudicato efficace e celebrato da più parti come un caso studio da emulare, ma che, da almeno un decennio, è entrato in una fase di grave crisi, come mostrano e dimostrano le problematiche per la sicurezza pubblica rappresentate dalla longeva e sanguinosa guerra tra bande, le periodiche rivolte nelle enclavi etniche, l’attecchimento dell’islam radicale e la proliferazione di società parallele avvolte da disoccupazione e criminalità. Dato che le previsioni di oggi potrebbero essere la realtà di domani, Tarvainen ha colto l’occasione della pubblicazione per spronare le autorità svedesi ad accettare il cambio di paradigma in corso e dotarsi degli strumenti adeguati per eteroguidarlo. Perché riduzione numerica degli svedesi “significa società parallele, con culture e stili di vita paralleli” e che “gli immigrati nolenti ad assimilarsi creeranno molti problemi alla maggioranza della popolazione”. “L’economia svedese non collasserà”, riferisce il ricercatore, citando le opinioni rassicuranti di altri ricercatori ed analisti economici, ma le ripercussioni negative sulla “fiducia e sulla coesione sociale” saranno inevitabili. Il monito è perentorio, perché le manifestazioni violente del rimescolamento etno-religioso sono già oggi visibili e palpabili: il modello svedese di integrazione va ripensato da cima a fondo, e piegato ad un orizzonte temporale di lungo periodo, pena lo sfaldamento della nazione.

·        Quei razzisti come i danesi.

Laura Zangarini per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2021. Dal 1913 una piccola statua in bronzo - 125 cm di altezza per 175 kg di peso - accoglie i viaggiatori al porto di Copenaghen. Protagonista di una delle più celebri fiabe di Hans Christian Andersen, la Sirenetta, Lille Havfrue per i danesi, è una delle attrazioni turistiche più visitate della capitale. Dal 2016 ha però una «rivale» nel porto del villaggio di Asaa, nel nord della Danimarca. Non è una replica esatta della scultura che l'artista Edvard Eriksen (1876-1959) modellò sulle fattezze di sua moglie Eline; ma per gli eredi dello scultore, la sirenetta di Asaa somiglia troppo all'originale. Per cui hanno avviato un procedimento giudiziario, chiedendo non solo un risarcimento finanziario, ma anche la rimozione della statua. «Quando ho ricevuto la mail per la prima volta, ho riso - ha riferito al New York Times, che ieri riportava la notizia, Mikael Klitgaard, il sindaco di Broenderslev, il comune che comprende Asaa -. Ho pensato che fosse uno scherzo». Klitgaard non era forse al corrente dello zelo scrupoloso con cui gli eredi Eriksen proteggono i diritti di copyright (validi però solo fino al 2029) di Lille Havfrue. Raggiunta al telefono, Alice Eriksen, nipote dell'artista, non ha voluto rilasciare commenti: «Il caso è ancora aperto», ha dichiarato. Gli avvocati delle parti stanno lavorando a una possibile negoziazione. Se il caso dovesse finire in tribunale, la disputa verterà probabilmente su quanto la sirena di Asaa assomigli a quella che il magnate della birra e filantropo Carl Jacobsen regalò alla città di Copenaghen. Nel caso Asaa perdesse la causa, dovrà pagare un risarcimento. La Sirenetta di Eriksen è in bronzo, il peso appoggiato sul braccio destro, la coda ordinatamente infilata di lato. Scolpita nel granito da un artista locale, Palle Moerk, la sirena di Asaa pesa tre tonnellate, è più carnosa, i tratti del viso sono meno delicati. Solo la postura è la stessa della quasi gemella di Copenaghen. In un'intervista, Moerk non ha nascosto che l'accusa di aver copiato Lille Havfrue non gli va giù. «Come artista - ha detto -, tutto ti ispira. E, naturalmente, avevo visto le foto della sirena a Langelinje. Ma quella di Asaa è una mia creazione». L'idea che la sua opera possa essere rimossa lo turba: «Non pensavo che distruggessimo opere d'arte in Danimarca. Queste cose le fanno i talebani».

·        Quei razzisti come i norvegesi.

Mirko Molteni per “Libero Quotidiano” il 30 novembre 2021. Dopo il danno, la beffa. A oltre dieci anni dalla strage di Utøya, il criminale norvegese Anders Behring Breivik s'è messo a scrivere dal carcere lettere folli ai parenti delle sue vittime e ai sopravvissuti, non per chiedere perdono, ma per propinare i suoi deliri. In pratica rigira il coltello nella piaga e rinnova in tante famiglie il dolore straziante dei lutti. Il caso è stato segnalato dalla televisione norvegese NRK e fa discutere il Paese scandinavo. Come noto, il 22 luglio 2011 Breivik, uccise con esplosivi e fucili un totale di 77 persone fra Oslo e l'isola di Utøya, dove si teneva un raduno giovanile della sinistra. Poiché l'associazione dei famigliari delle vittime si chiama "Gruppo di sostegno 22 luglio", Breivik s'è permesso di intitolare le lettere col prepotente proclama «Caro Gruppo di sostegno, si prega di leggere e agire». Seguono frasi sconclusionate prese dalle sue «memorie» e dal suo «manifesto politico» in cui si fa tutta un'insalata di anticattolicesimo, antislamismo, antifemminismo, antimarxismo, senza capo né coda. La presidente dell'associazione delle vittime, Lisbeth Røyneland, commenta: «È del tutto insostenibile che un assassino di massa possa inviare lettere alle sue vittime. Immagino che lo faccia per farci reagire in modo da attirare l'attenzione. Lo descrivo come una molestia. Vuol farci sapere che è lì e vuole spaventarci, in un certo senso». La signora Røyneland ha perso una figlia per mano dell'assassino e non è l'unica ad aver ricevuto le sue missive. Fra i destinatari c'è un sopravvissuto, il giovane parlamentare del Partito Laburista norvegese Torbjørn Vereide, che a Utøya si salvò per miracolo mentre Breivik sparava sulla folla. Così descrive la sua reazione alla lettera: «Ho un nodo allo stomaco. C'è qualcosa di assurdo in qualcuno che ti ha puntato un'arma contro, ha sparato e ha cercato di ucciderti, e ora ti manda una lettera. Ho sentito che il mio cuore si è fermato e che la mia giornata è diventata pesante». Intervistato da NRK, che gli chiedeva cosa ne ha fatto della lettera, Vereide ha risposto: «Ho fatto quello che era giusto. Mi sono preso un momento di tranquillità dopo averla letta, poi l'ho messa nel tritacarte. E lì sta bene, a strisce e a pezzi». Da più parti si chiede di impedire a Breivik quella che qualcuno considera «libertà d'espressione». Ma il direttore del servizio carcerario Erling Fæste ribatte: «La legge sull'esecuzione delle sentenze stabilisce che i detenuti dovrebbero essere in grado di inviare lettere a meno che ciò non possa portare a nuovi reati penali». Le molestie epistolari alle vittime non sono l'unico aspetto controverso della gestione del caso Breivik da parte dello Stato norvegese. Fin dal processo, chiusosi nel 2021, si era polemizzato sul fatto che il mostro era stato condannato a soli 21 anni, laddove nella maggior parte dei Paesi del mondo, per una strage di tali dimensioni ed efferatezza, avrebbe avuto l'ergastolo o la pena di morte. Qualche anno fa gli fu negata, ma il suo avvocato, Øystein Storrvik, è ripartito alla carica e nel gennaio 2022 i giudici dovranno decidere di nuovo se rilasciarlo. Sembra improbabile dato che lui, ancora nel decimo anniversario del massacro, non si è mai pentito. In più, da tempo fa discutere che la sua detenzione, nel carcere di massima sicurezza di Skien, circa 120 km dalla capitale Oslo, assomigli di più a un soggiorno, per quanto blindato e in isolamento, in un albergo stellato. La sua non è infatti una cella da Alcatraz, bensì una linda camera ben ammobiliata con scrivania, libreria, computer, doccia. Eppure Storrvik, che del resto difende Breivik per mestiere, interpellato da NRK sul caso delle lettere e sulla richiesta di impedirgli di spedirle, ha sostenuto che il suo assistito «è già sottoposto a condizioni estremamente rigide». 

Il presunto autore è stato fermato. Strage in Norvegia, armato di arco e frecce uccide 5 persone: non si esclude il terrorismo. Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Una strage, forse di matrice terroristica, che ha ricordato sinistramente quella di Utoya in cui Anders Behring Breivik uccise 77 persone. È quella avvenuta ieri sera in Norvegia, a Kongsberg, nel sud-est del Paese, dove un uomo armato di arco e frecce ha ucciso cinque persone, tra cui un agente in borghese, prendendo di mira i passanti in diverse zone della cittadina. L’aggressore, il cui nome sarebbe un cittadino danese di 37 anni, ma la polizia non ha confermato l’identità, è stato arrestato dopo un breve scontro con le forze dell’ordine. L’uomo aveva anche altre armi con sé e avrebbe annunciato le sue intenzioni su un suo canale Youtube: nei video lo stragista si filmava mentre si allenava al tiro con l’arco. Per fermare la strage a Kongsberg sono intervenuti polizia, cani, artificieri, anche elicotteri con infrarossi per sorvegliare il fiume che passa in città. Secondo quanto emerso finora, l’uomo avrebbe agito da solo. L’attacco è iniziato intorno alle 18:30, con l’aggressore che si è spostato in più zone della città per colpire: la polizia ha infatti reso noto che si sono state “diverse scene del crimine”. In particolare l’attacco sarebbe partito da un supermercato della Coop Extra vicino a una zona residenziale e a un dormitorio per studenti. Prima di finire arrestato l’assalitore sarebbe anche riuscito a scappare da un primo ‘faccia a faccia’ con la polizia. Durante una conferenza stampa, il capo della polizia locale Øyvind Aas ha spiegato che l’uomo che ha compiuto l’attacco si è spostato in “una vasta area” di Kongsberg, comune di circa 28 mila abitanti. Quanto al movente dell’attacco, non è chiaro: “Abbiamo molti testimoni da interrogare e al momento non possiamo dare ulteriori informazioni”, ha aggiunto ancora Øyvind Aas. “E’ naturale considerare se si tratti di un atto di terrorismo. Ma l’uomo non è stato interrogato ed è troppo presto per giungere a conclusioni”, ha riferito ancora il capo della polizia di Kongsberg. In serata la prima ministra uscente norvegese, Erna Solberg, aveva parlato dell’attacco dicendo che i messaggi che arrivano da Kongsberg “sono raccapriccianti”.

Orrore in Norvegia, trentenne danese armato di arco e frecce uccide almeno cinque persone. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2021. È successo a Kongsberg, nel sudest del Paese. Non si esclude la matrice terroristica. Si è mostrato su YouTube qualche giorno prima di entrare in azione. Maglietta e pantaloni della tuta, ha impugnato arco e frecce per esercitarsi nel tiro al bersaglio. Poi ieri, dopo il tramonto, complice l’oscurità, ha iniziato a girare per la cittadina di Kongsberg, 68 chilometri a sud ovest di Oslo, e a scoccare le sue frecce. Per uccidere, questa volta. Da solo, è partito da un supermercato Coop Extra. Poi è andato avanti fino alle 18.30, quando la polizia norvegese ha ricevuto la prima chiamata. Una freccia e un’altra ancora. Gli agenti sono entrati immediatamente in azione. In campo sono stati schierati due elicotteri e 10 autoambulanze, una squadra di artificieri, mentre ai residenti veniva ordinato di restare chiusi in casa e ai poliziotti, che di norma in Norvegia non sono armati, veniva permesso di dotarsi di pistole e fucili. Poi, le manette e il trasferimento del sospettato, un trentenne danese, nella stazione della vicina Drammen. Molto prudenti, come da consuetudine gli agenti norvegesi. «Ci sono diversi morti e feriti», ha dichiarato alla stampa Oyvind Aas, capo della polizia di Kongsberg. Ma fino a ieri sera tarda, il bilancio dei morti non era confermato mentre la tv pubblica Nrk parlava di cinque morti, così come non erano chiare le condizioni dei feriti. «Potrebbe aver usato anche una pistola e un coltello», è l’ipotesi delle tv locali. Né confermate erano le motivazioni del killer, nonostante l’arresto. Non escluso il terrorismo ma nemmeno confermato. «Il tempo ci dirà di più», è stato l’asciutto commento. Passate un paio d’ore dalla strage e già sui social media circolava il nome del killer — Rainer Winklarson — così come il fermo immagine di un video postato su YouTube nei giorni precedenti all’attacco che lo mostra mentre si esercita con l’arco e le frecce. In un’altra immagine, seduto su una sedia impugna una pistola. «L’uomo che ha compiuto l’atto è stato arrestato dalla polizia, e non c’è nessuna ricerca attiva di altre persone. Sulla base delle informazioni che abbiamo, c’è una persona dietro a tutto questo», si è limitato a dire ancora Aas. Eppure, mentre ancora sono pochi i dettagli, è già grande lo choc in tutto il Paese. Perché immediatamente torna alla memoria il massacro di Utoya di dieci anni fa, quando, l’estremista di destra Anders Behring Breivik portò a termine il suo piano terroristico, provocando in totale 77 morti e centinaia di feriti . Travestito da agente di polizia, Breivik prima fece detonare un potente esplosivo all’interno di un’automobile nei pressi dei palazzi governativi di Oslo, poi si trasferì nella non lontana isola di Utoya, dove sparò per oltre un’ora contro giovani militanti del partito Laburista, lì riuniti per un campus estivo; a perdere la vita sull’isola furono 69 persone, circa metà delle quali non ancora maggiorenni. Da allora i seguaci di Breivik sono stati molti. Nuova Zelanda, il massacro di Christchurch. Ma soprattutto l’Europa, Italia compresa, che vede sempre più giovani radicalizzarsi. E, mentre ancora si cercano indizi per ricostruire il percorso che ha portato il killer di Kongsberg ad entrare in azione, resta l’orrore per «l’episodio più grave in Norvegia dopo la strage di Utoya», come già l’hanno definito i giornali norvegesi. «È una tragedia per tutte le persone colpite», ha dichiarato il sindaco Kari Anne Sand. «Il ministro della giustizia norvegese Monica Maeland è stato informato e sta monitorando da vicino la situazione», hanno twittato invece da Oslo.

Strage in Norvegia, si indaga per terrorismo. Killer convertito all’Islam e radicalizzato. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2021. Danese, 37 anni, aveva precedenti penali ed era in cura. I servizi: era sotto osservazione ma uscito dai radar. Nel nuovo governo di centro-sinistra due ministri sopravvissuti di Utoya. Quattro donne e un uomo uccisi, tutti tra i 50 e i 70 anni, di cui un agente di polizia colpito alla schiena. All’indomani della strage di Kongsberg, costata la vita a 5 persone, iniziano ad emergere i primi dettagli. «Le vittime sono state colpite in modo del tutto casuale», ha dichiarato la procuratrice regionale Svane Mathiassen che guida le indagini. Tra le armi utilizzate, sicuramente arco e frecce ma forse anche un coltello, dettaglio che deve essere però confermato dalle autopsie. E dopo le prime indiscrezioni poi smentite, inizia a delinearsi anche parte del profilo del killer di cui i media locali hanno diffuso un nome, però non confermato dalla polizia. Il sospettato è un cittadino danese di 37 anni, Espen Andersen Brathen, convertito all’Islam e già noto alla sicurezza di Oslo in quanto radicalizzato. «Aveva dato segnali, l’anno scorso era sotto osservazione, poi è uscito dai radar», ha spiegato Ole Bredrup Saeveru della polizia. Madre danese e padre norvegese, Brathen — che comparirà in tribunale oggi e che sarà sottoposto a perizia psichiatrica — aveva già ricevuto l’anno scorso un ordine restrittivo di sei mesi dopo avere minacciato di uccidere un suo familiare. Ma Brathen era anche stato condannato per furto con scasso e acquisto di piccole quantità di hashish nel 2012. Infine, secondo diversi media norvegesi, nel 2017 aveva pubblicato un video su YouTube — ora rimosso — nel quale annunciava la sua conversione all’Islam definendosi, con toni minacciosi, «un messaggero». Su Kongsberg, cittadina a una settantina di chilometri da Oslo, intanto è calata l’angoscia. Durante l’attacco, Brathen è entrato in un negozio spaventando il personale e i clienti ma senza ferire nessuno. Poi ha fatto irruzione in una serie di abitazioni private. «Qui tutti si conoscono, teniamo la porta aperta», ha spiegato alla Bbc Fiona Helberg, testimone e residente della cittadina. Inoltre, tra la prima allerta lanciata alla polizia e l’arresto, è trascorsa oltre mezz’ora e gli agenti hanno dovuto sparare diversi colpi in aria prima che il killer si arrendesse. La paura investe la Norvegia, che tenta però di non farsi prendere dal panico o di farsi trascinare nelle polemiche. «Sembra essere un atto di terrorismo», si legge nella nota dell’agenzia della sicurezza norvegese, Pst. A fronte della prudenza, è chiaro però come il killer abbia sfruttato delle «falle» del sistema. Archi e frecce non sono classificati come armi illegali in Norvegia. È consentito acquistarli e possederli, e i proprietari non sono tenuti a registrarli, sebbene debbano essere utilizzati nei poligoni di tiro con l’arco designati. E non solo. Al momento dell’attacco, gli agenti di polizia non indossavano le armi, come prevede la normativa norvegese, ed è solo dopo un episodio violento— come successo ieri — che viene ordinato il contrario. Segni dunque che l’allerta sale, sebbene la Pst si affretti a dichiarare «non vi è finora alcuna indicazione che vi sia un cambiamento nel livello di minaccia nazionale». «Siamo inorriditi dai tragici eventi di Kongsberg», ha detto re Harald V riassumendo il sentimento generale. L’attacco di Kongsberg, il più grave dalla strage di Utoya, arriva mentre si insedia il nuovo governo di centro sinistra guidato dal leader laburista Jonas Gahr che, oltre ad aver voluto un esecutivo a maggioranza femminile, ha chiamato in squadra proprio due sopravvissuti a Utoya, Tonje Brenna, 33 anni, cui è stata affidata la Pubblica Istruzione, e di Jan Christian Vestre, 35 anni, ministro del Commercio e l’Industria. Intanto su Kongsberg volano ancora gli elicotteri. E c’è chi, tra i passanti, non si trattiene e scuote il capo: «Sembra di essere a Kabul».

L'assassino con l'arco è un convertito all'islam. Perquisite le moschee. Luigi Guelpa il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il killer è Espen Andersen Brathen, 37 anni. Nel nuovo governo 2 sopravvissuti di Utoya. Si chiama Espen Andersen Brathen, il 37enne originario della Danimarca che mercoledì sera ha fatto rivivere l'incubo di Utoya a 5 milioni di norvegesi. L'uomo, armato di arco e frecce, ha seminato il panico a Kongsberg, cittadina di 27mila abitanti a 70 chilometri a sud ovest di Oslo, tenendo per un'ora in scacco la polizia, uccidendo 5 persone (1 uomo e 4 donne) e ferendone tre (una è finita in terapia intensiva) prima di essere arrestato. Le forze dell'ordine hanno tenuto per ore nascosta l'identità dell'aggressore, giusto il tempo di far sparire dalla rete i suoi profili social; a quanto pare pieni di proclami farneticanti inneggianti all'islam più estremo. Brathen infatti aveva abbracciato il culto islamico dal 2017, radicalizzandosi nel corso degli ultimi mesi. «Non era un frequentatore abituale della nostra moschea», ha spiegato alla tv norvegese l'imam Osama Tlili. Eppure, anche se dalle prime indagini risulta che l'uomo abbia agito da solo, la radicalizzazione sarebbe avvenuta proprio in Norvegia e l'attentato dell'altra sera meditato con alcuni complici. Gli inquirenti ieri hanno iniziato a perquisire le moschee del Paese, cercando di trovare riscontri su una possibile affiliazione di Brathen con una cellula yemenita, attiva in Norvegia dal 2008. Il terrorista non era comunque estraneo alle forze dell'ordine. Due anni fa aveva minacciato il padre di morte puntandogli un coltello alla gola e per questo ricevuto un ordine restrittivo di sei mesi. Nel 2012 era inoltre finito davanti al giudice per spaccio e furti di vario genere. I vicini di casa lo descrivono come un uomo solitario e scontroso. In un'intervista al quotidiano Dagbladet, la 21enne Gudoon Hersi sostiene di aver dovuto lasciare abitazione al numero 23 di Kirkegata dopo essere stata importunata per parecchio tempo. «Mi diceva che ero una donna di malaffare e mi insultava per il colore della pelle». Il terrorista ha iniziato il suo assalto al centro commerciale Coop Extra, spostandosi poi in altre cinque zone della città. Uno dei tre feriti è un agente che era fuori servizio al momento dell'attacco, colpito alla schiena mentre stava facendo acquisti al supermercato. L'assalto, iniziato circa alle 18.15, si è concluso tre quarti d'ora dopo, quando Brathen è stato fermato dalla polizia, non prima però di ferire un agente con una freccia. La procura di Oslo non ha voluto al momento precisare se Brathen abbia ucciso le sue vittime con le frecce o con una pistola rinvenuta al momento dell'arresto. «Ci esprimeremo soltanto dopo le autopsie - ha spiegato il capo dell'intelligence di Oslo Sofie Nystrom - Gli eventi di Kongsberg appaiono al momento come un atto di terrorismo. L'inchiesta chiarirà più nel dettaglio le ragioni. Il livello di minaccia in Norvegia è ancora considerato moderato». Le autorità effettueranno una perizia psichiatrica sull'omicida, che già in giornata apparirà davanti al giudice Ann Iren Svane Mathiassen. Giovedì mattina, nel corso del primo interrogatorio al distretto di polizia, ha confessato di aver colpito in maniera casuale. Sull'onda emotiva, ieri nel nuovo esecutivo di Jonas Gahr Store, governo di coalizione a guida laburista, sono stati nominati ministri due giovani che si trovavano sull'isola di Utoya durante il massacro perpetrato nel 2011 da Breivik. Sono il 33enne ministro dell'Istruzione Tonje Brenna, e quello del Commercio e dell'Industria Jan Christian Vestre, 35 anni. Luigi Guelpa

Monica Perosino per "la Stampa" il 15 ottobre 2021. Si chiama Espen Andersen Bråthen l'uomo che mercoledì ha ucciso cinque persone con arco e frecce nella sonnolenta cittadina di Kongsberg. Una mattanza eseguita a sangue freddo da un ragazzone che ha sempre vissuto tra queste casette di legno e gli amici di una vita, che lo descrivevano «mite, gentile e per bene». Fino a quando, nella sua mente, qualcosa «si è rotto». Trentasette anni, madre danese e padre norvegese, da tempo viveva praticamente recluso in casa, senza vedere nessuno, e da almeno quattro anni si era convertito all'Islam. Il 29 maggio dell'anno scorso aveva provato a "incontrare" i genitori, a suo modo, facendo irruzione in casa con una pistola. Il risultato era stato un divieto di avvicinamento alla famiglia per le minacce di morte rivolte al padre. Non lavorava da anni, e la scorsa estate un vicino di casa preoccupato aveva chiamato la polizia perché Bråthen era solito brandire mazze, bastoni e manganelli in giardino, tutti i giorni, tranne quando faceva troppo freddo: «Era brutale, ho avuto una brutta sensazione, per questo ho chiamato la polizia», ha detto il giovane al quotidiano locale "Verdens Gang". «Era sempre solo. Dalla finestra della cucina potevo guardare nel suo appartamento. Era molto disordinato e c'era qualcosa di estremamente inquietante in quella casa». La segnalazione più preoccupante però risale già al 2017, quando il suo amico di infanzia avverte la polizia: Bråthen ha pubblicato un video in cui dichiara di essersi convertito all'Islam. Sostiene di essere «un messaggero» che porta «un avvertimento», e che «è arrivato il momento». L'amico è preoccupato, pensa che Bråthen sia malato, che debba essere curato, perché «una bomba a orologeria in grado di fare qualcosa di assolutamente terribile». Ieri la polizia ha confermato che Espen Andersen Bråthen lo conoscevano bene, ed erano in allerta «per il rischio di radicalizzazione», ma visto che nel 2021 non avevano ricevuto nessuna nuova segnalazione sul suo conto, era uscito dai radar. Intanto, la confusa dinamica dell'attacco si fa più chiara: le vittime sono 4 donne e un uomo, un agente in borghese, e sono state scelte a caso. Bråthen sarebbe prima entrato in un negozio senza ferire nessuno, poi avrebbe fatto irruzione in una serie di abitazioni private con arco, frecce e un coltello. Le vittime, tra i 50 e i 70 anni, sono state trovate parte in strada e parte all'interno delle abitazioni. Ma sui trenta minuti che hanno fatto precipitare la Norvegia nella paura, e cinque famiglie nel dolore, i dettagli non aiutano a comprendere. Il movente è «ancora da chiarire», l'attacco, potrebbe essere «terrorismo», intanto si procederà con una perizia psichiatrica. Nel Paese ancora sotto choc a prendere il testimone è toccato al neo premier , il laburista Jonas Gahr Store, che ieri ha presentato il suo governo. L'esecutivo, a maggioranza femminile, comprende due sopravvissuti della strage di Utøya, il peggior attacco terroristico mai avvenuto nel Paese.

Mauro Evangelisti per "il Messaggero" il 15 ottobre 2021. Potevano fermarlo. Espen Andersen Brathen, 37enne di origini danese convertito all'Islam, nel tardo pomeriggio di mercoledì ha ucciso cinque persone a Kongsberg, in Norvegia. Alle 18.18 viene raggiunto dalla polizia, è vicino al supermercato Coop-Extra, ha l'arco e le frecce, in molti hanno lanciato l'allarme, ma ancora non ha ammazzato nessuno. Gli agenti lo incrociano, sparano alcuni colpi di avvertimento in aria, ma Espen, un gigante con i capelli rasati, riesce a fuggire. Da quel momento, per mezz' ora, la polizia non lo trova, lui ha il tempo di uccidere con arco e frecce, ma anche con un coltello, quattro donne e un uomo, di età compresa tra i 50 e i 70 anni. Quando alle 18.47 lo arrestano è ormai tardi. Se il primo intervento degli agenti fosse stato più efficace e deciso oggi nessuno parlerebbe del danese convertito all'Islam che in Norvegia ha ucciso cinque persone scelte a caso per strada e all'interno di un'abitazione. Potevano fermarlo. Anche cinque anni fa era chiaro che Espen Andersen Brathen, con risaputi problemi psichiatrici, stava diventando pericoloso. 2017, sui social pubblica un video in cui spiega: «Mi sono convertito all'Islam, il mio è un avvertimento». Più di un amico lo vede, conosce il carattere instabile di Espen e avverte le forze dell'ordine: guardate che questa persona è pericolosa, intervenite. La polizia norvegese risponde: tranquilli, lo stiamo tenendo d'occhio. Racconta uno degli amici parlando con il quotidiano Aftenposten: «Ora è frustrante pensare che io e molti altri abbiamo saputo che era una bomba a orologeria, lo abbiamo segnalato, ma nessuno l'ha fermato». Intervistato dal giornale danese Bt un altro amico di infanzia dice: «Da bambino era molto gentile e aveva un buon carattere, ma a 17-18 anni ha iniziato ad avere problemi mentali. Anche suo nonno aveva un disturbo paranoico. Varie volte è stato ricoverato in ospedale, ma non voleva prendere le medicine. Con gli anni è divenuto sempre più violento. Improvvisamente è diventato musulmano anche se in realtà non sapeva nulla dell'Islam. Quando nel 2017 ho visto il video minaccioso, ho capito che era pericoloso e ho inviato una mail alla polizia. Loro mi hanno risposto che avevano la situazione sotto controllo». La conversione dovrebbe risalire a una decina di anni fa, anche se il video con le minacce è successivo. 

VIOLENTO Poteva essere fermato. Espen aveva spesso spaventato e insultato i vicini, anche con insulti razzisti. E aveva insospettito il presidente dell'unica moschea della città dove era andato per annunciare la sua conversione, «non lo abbiamo preso sul serio, non era credibile, ci ha detto che aveva ricevuto una rivelazione...». Espen aveva piccoli precedenti per furto con scasso e possesso di hashish, risalenti al 2012. Il 29 maggio scorso aveva minacciato i genitori, tentando di picchiare il padre, lasciò anche una pistola sul divano. Per questo il tribunale ha emesso una ordinanza che gli impediva di avvicinare i genitori per sei mesi. In Norvegia, dove proprio ieri è stato formato il nuovo governo a guida laburista, l'attacco che è costato la vita a cinque persone viene considerato di tipo terroristico o, quanto meno, non si esclude questa matrice. Il capo dell'Antiterrorismo norvegese, Arne Christian Haugstoyl, ha spiegato che ci sono centinaia di nomi per i quali arrivano segnalazioni di pericolosità come quella che riguardava Espen Brathen, «è difficile sapere chi passa dalle parole all'azione». Più volte la polizia era stata, anche di recente, nella sua casa per i comportamenti aggressivi nei confronti dei familiari e dei vicini. Espen in giardino si addestrava a combattere, usando mazze e bastoni, e mostrando di conoscere le arti marziali. In sintesi: violento, con problemi psichici, armato, autore di un video minaccioso in cui ribadiva la sua conversione all'Islam, segnalato da amici e familiari, incrociato dalla polizia subito dopo il suo primo assalto a un supermercato. Eppure, non lo hanno fermato e ha avuto il tempo per uccidere cinque persone con arco, frecce e un coltello. Tutto questo nel Paese che dieci anni prima aveva vissuto lo choc della strage di Uttaya. Ora in Norvegia resta alto il livello di attenzione: si temono emulazioni ma anche azioni di vendetta irrazionale contro cittadini di religione musulmana.

La strage di Utoya è stata l’avvio simbolico del suprematismo europeo. Donatella Di Cesare su L'Espresso il 23 luglio 2021. L’eccidio norvegese, il 22 luglio 2011, non fu il gesto isolato di un folle nazista. Breivik è sotto ogni aspetto l’esponente della Nuova Destra che va affermandosi sempre più, dall’Ungheria all’Olanda, dall’Italia alla Repubblica Ceca. I sopravvissuti ne ricordano ancora l’orgiastica danza di annientamento. Il crepitio dell’arma automatica seguiva il ritmo trionfante di mani e occhi. Nessuno doveva sfuggire. Raffiche contro ogni singhiozzo, scariche di mitra contro ogni respiro trattenuto. Annusava ovunque le tracce delle sue vittime: nel fruscio delle foglie, nell’acqua che si muoveva tingendosi di sangue. E sparava concentrato, mentre il sorriso suggellava la furia omicida. Fiero della violenza compiuta, si è consegnato alla fine spontaneamente. Più crudele è l’esecuzione e più potente è la maestà politica. Così anche in tribunale, mano tesa, riso spudorato e proclami minacciosi, questo gelido massacratore ha potuto autocelebrarsi come il sovrano dell’orrore. Anders Behring Breivik, l’assassino di Utøya, che per anni ha pianificato minuziosamente la strage, è stato riconosciuto «sano di mente e penalmente responsabile». Non è un folle, né uno psicopatico. E ogni aggettivo analogo, che lo escluda dalla ragione e dalla storia, rischia di ostacolare la riflessione su un atto efferato che investe il nostro presente. Anche l’etichetta “terrorista” è qui, più che mai, un termine vuoto. Sebbene abbia guardato agli attentati compiuti da islamisti e jihadisti, Breivik non ha ucciso a caso. Ha scelto, anzi, con precisione le sue vittime, ragazze e ragazzi appartenenti all’Auf, l’organizzazione giovanile del Partito laburista norvegese. Erano insieme, in quel campo estivo sull’isola, per confrontarsi sulle proprie esperienze e progettare una coabitazione nel segno dell’ospitalità. Le pareti della caffetteria e dei dormitori erano costellate di manifesti e scritte sui confini aperti e l’accoglienza. «Morite marxisti!», così suonava la condanna, mentre venivano freddati con un colpo alla testa. Con l’oculatezza ossessiva del complottista Breivik ha cercato i colpevoli da punire nei suoi attentati di Oslo e Utøya: non i nemici potenziali, gli immigrati, i musulmani, bensì i sottomessi, i buonisti, i traditori della patria, quelli che per stoltezza o tornaconto aprono le porte all’invasione. Sono i socialdemocratici, i “multiculturalisti”, gli “immigrazionisti”, i “marxisti culturali”, i libertari di sinistra, quelli che mirano a cancellare genere e sesso, che vogliono pregiudicare l’identità. Meritano di morire. Ecco la nuova guerra civile tra “bianchi” che si profila nel cuore dell’Europa. Breivik non è un lupo solitario né un mostro isolato. E non è neppure semplicemente un “neonazista”, se con questo s’intende la mera espressione di un passato che riaffiora e che, seppure inquietante, resta passato. Le cose stanno ben diversamente. Breivik è sotto ogni aspetto l’esponente della Nuova Destra che va affermandosi sempre più nei paesi europei, dall’Ungheria all’Olanda, dall’Italia alla Repubblica Ceca. Di qui il valore emblematico della strage di Utøya, che politicamente non chiude una stagione, ma ne apre piuttosto una nuova. Sarebbe perciò miope non considerarla come l’inaugurazione simbolica del nuovo suprematismo europeo. È in quel frangente drammatico che la questione viene infatti alla luce in tutta la sua complessità e la sua virulenza. La Norvegia da cui viene Breivik è la democrazia aperta e tollerante della parità di genere e della coscienza ecologica. Come spiegare quel massacro? L’interrogativo resta insieme al trauma profondo. Perché l’assassino non è, come si usa dire, un “quisling”, un collaboratore di Hitler, come lo fu Vidkun Quisling, capo di un governo fantoccio durante l’invasione tedesca. Figlio di un’infermiera e di un’economista, Breivik è il portato di un’educazione che lui, con toni di rimprovero, ha definito “superliberale”, cioè troppo permissiva, priva di disciplina, eccessivamente femminista, in grado di effeminarlo e di corromperne l’identità. È la Norvegia che, povera e ripiegata per secoli su se stessa, è divenuta d’un tratto il secondo paese più ricco del mondo grazie al petrolio e al gas. Un cambiamento per alcuni troppo rapido. Perché dover condividere benessere e stato sociale con i rifugiati, per di più islamici? E la “purezza” di un tempo? Il volto umanitario e benevolo ha celato e cela il fastidio verso l’altro, il microrazzismo, la politica del respingimento. Breivik è figlio di tutto ciò. Basta con la «decostruzione della cultura norvegese». Questo è il tenore del suo memoriale “2083: Una dichiarazione europea d’indipendenza”, 1508 pagine che, pur tra proclami rabbiosi e continui copia e incolla, rendono bene quella posizione politica. Il 2083, il 400° anniversario della battaglia di Vienna del 1683, quando un’alleanza cristiana respinse l’assedio turco, sarà l’anno della sconfitta definitiva dell’immigrazionismo globalista. Breivik si erge a cavaliere templare, paladino dell’Occidente puro, nemico dell’Eurabia, amico dei “cristiani sionisti”, quegli evangelici neocon, ala oltranzista dei repubblicani. Ma questo è il cristianesimo dimentico di sé e delle sue origini, mescolato a miti pagani e fondato sul rifiuto dell’altro. Così può essere riutilizzato da quella “destra degli dei” che, tra Alain de Benoist e Renaud Camus, rilancia oggi la rivoluzione conservatrice. La democrazia deve essere una etnocrazia, dove il popolo custodisce se stesso. Non si tratta di immaginarsi “al di sopra” degli altri, come facevano i nazisti, bensì di non volersi mescolare e contaminare. L’invasione tacita dell’Europa è già in atto, avallata dai globalisti, perpetrata dalle Ong. Il blocco identitario deve combattere. Il fronte è ampio e Breivik stesso menziona gli schieramenti politici, compresi quelli italiani che, a partire dalla Lega per arrivare a CasaPound, sono un modello. Certo, essere identitari e sovranisti non vuol dire innescare attentati come quello di Utøya. Ma proprio di questo si discute oggi in Europa: quanto Breivik non sia l’effetto parossistico, eppure immediato, di quella visione politica che ormai appare più diffusa e radicata della vecchia socialdemocrazia.

Gabriele Rosana per "il Messaggero" il 21 luglio 2021. "22 juli" in Norvegia è sinonimo di 11 settembre: il giorno che sconvolse uno dei Paesi in cima alla classifica globale per la qualità della vita, chiamato a fare i conti con i propri demoni. E con la più grande tragedia del secondo dopoguerra. È il primo pomeriggio del 22 luglio di 10 anni fa quando il fanatico di estrema destra Anders Behring Breivik, travestito da poliziotto, mette in atto una strage. Prima fa esplodere un'autobomba artigianale di 950 chili davanti al palazzo del governo, uccidendo otto persone e colpendo le facciate di vari ministeri e anche la redazione del principale quotidiano del Paese. Poi, mentre Oslo è ancora incredula per l'accaduto, si dirige a 40 chilometri a nord-ovest della capitale, verso il lago Tyrifjorden. È qui, sulla piccola isola di Utøya - dov' è come di consueto in corso il campo estivo della gioventù laburista - che completa il disegno criminale, due ore dopo l'inizio: apre il fuoco contro le centinaia di adolescenti presenti, ammazzandone 69, più o meno uno al minuto, prima di essere arrestato in flagranza dalla polizia. Durante il processo svelerà il movente di odio islamofobo: dirà di aver agito per punire i laburisti - all'epoca al potere con Jens Stoltenberg, oggi segretario generale della Nato -, responsabili di sostenere il multiculturalismo e di aver «aiutato i musulmani prendere il sopravvento». Il bilancio totale della giornata del terrore fu di 77 vittime: domani la Norvegia si fermerà per onorarne la memoria e per riprendere in mano una drammatica pagina della sua storia recente. Molti sopravvissuti sono rimasti segnati dalle pesanti conseguenze dell'attacco - dalle ferite da arma da fuoco alla successiva mutilazioni degli arti - e da importanti traumi. C'è chi, ad esempio, ha ancora oggi paura di nuotare perché ricorda la disperata fuga dalla furia omicida nelle acque del lago. 

IL CAMBIO DI NOME. Breivik nel frattempo ha compiuto 42 anni, ha cambiato nome in Fjotolf Hansen, ma per tanti fra i sopravvissuti resta un innominato. È il terrorista. Tredici mesi dopo l'eccidio è stato condannato a 21 anni di carcere: la pena massima prevista dalla legge norvegese, suscettibile però di estensioni ulteriori. Nella prigione di massima sicurezza di Skien, Breivik vive in regime di rigido isolamento: finora ha ricevuto solo la visita del cappellano e, prima che morisse, della madre. Ma il sistema penitenziario del Paese scandinavo non è tra i più duri al mondo, e lo stragista di Utøya trascorre le sue giornate un trilocale di oltre 30 metri quadrati con vista sull'esterno e accesso alla televisione, alla PlayStation, ma anche a palestra e computer, pur se senza connessione a Internet. 

IL RICORSO. Ciò non è bastato per evitare che Breivik facesse ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro una detenzione «inumana e degradante»; azione prontamente rigettata dai giudici di Strasburgo. Tutt' altro che pentito, Breivik continua a far parlare di sé: dopo aver esibito il saluto romano in tribunale, più di recente l'estremista avrebbe scritto di proprio pugno a decine di editori e produttori cinematografici proponendo loro i diritti di un libro o di un film sulla sua vita, dallo stesso stimati secondo ricostruzioni di stampa - per un valore attorno agli 8 milioni di euro.

FERITE APERTE. «Breivik è uno di noi», ricorda la reporter di guerra Åsne Seierstad, autrice di un bestseller sulla strage di Utøya, da cui Netflix ha tratto il film 22 luglio: in Norvegia, il processo collettivo per fare i conti con un atto terroristico alimentato dall'odio è ancora in corso. A ricordarlo ci sono le cicatrici tuttora visibili nei luoghi in cui si svolse l'attacco: il quartiere governativo che porta ancora i segni della detonazione e, soprattutto, i fori di pallottola nei muri della caffetteria in legno all'interno della quale Breivik freddò molte delle sue vittime. Il ricordo e i simboli, però, rischiano di dividere la comunità. Gli abitanti delle zone attorno al lago si sono infatti rivolti alla giustizia: non vogliono davanti alle loro case un monumento che rievochi la sofferenza di quei giorni di 10 anni fa. Il progetto prevede 77 colonne di bronzo alte tre metri, ma - dopo lo stop al cantiere - non sarà inaugurato in occasione del decennale.

Eloisa Gallinaro per ansa.it il 22 luglio 2021. Non si è pentito e non ha alcuna intenzione di farlo, anzi. I dieci anni trascorsi in carcere gli sono serviti a mettere a punto la sua idea di futuro tra derive neonaziste, studi universitari, progetti di libri e ricorsi contro il sistema carcerario norvegese. Anders Behring Breivik, il mostro che il 22 luglio 2011 massacrò a sangue freddo con armi automatiche 69 studenti in un campo estivo all'isola di Utoya e altre otto persone a Oslo, punta alla libertà condizionale attraverso una revisione legale alla quale ha diritto dopo dieci anni di prigione in base all'ordinamento vigente. Dopo essersi iscritto nel 2015 all'Università di Oslo per studiare Scienze Politiche, ovviamente dalla cella, punta alla letteratura e al cinema. E avrebbe proposto, a quanto riportano alcune fonti, a produttori ed editori un film o un libro sulla sua vita ovviamente dietro pagamento dei diritti, valutati, centesimo più centesimo meno, otto milioni di dollari. L'estremista di destra ora 42enne venne dichiarato sano di mente all'epoca del processo, nel 2012, quindi pienamente responsabile delle stragi e fu condannato a 21 anni, il massimo della pena in Norvegia, alla quale si possono aggiungere di volta in volta in caso di comprovata pericolosità pene aggiuntive di cinque anni. Ma difficilmente otterrà la libertà condizionale, anche in un sistema ultragarantista come quello di Oslo. Che sia ancora socialmente pericoloso, anzi che lo sia forse ancora di più, è abbastanza probabile. "Non ha avuto esaurimenti nervosi, non ha espresso alcun rimorso, è orgoglioso di quello che ha fatto. Semmai, stando a quanto abbiamo rilevato, è ancora più convinto delle sue posizioni di estrema destra", osservò il pubblico ministero Fredrik Sejersted nel corso di un'udienza del 2017 alla quale Breivik si presentò facendo platealmente il saluto romano e dichiarando che i principi del Mein Kampf di Adolf Hitler "sono le uniche ragioni per cui sono in vita oggi". Lo stragista aveva fatto ricorso contro lo Stato norvegese a causa delle proprie condizioni carcerarie giudicate "disumane e umilianti" nel 2016 e in prima istanza il ricorso era stato parzialmente accolto, poi rigettato in appello l'anno dopo. Ma l'icona del male che ha ispirato gli autori di tante stragi in giro per il mondo non si era dato per vinto. E aveva fatto di nuovo ricorso alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che l'aveva respinto nel giugno 2018, giudicandolo "manifestamente infondato e irricevibile". Detenuto nel carcere di massima sicurezza di Skien, Breivik è in isolamento ma vive in tre celle da dieci metri quadri l'una con vista sulla campagna, dispone di Tv, lettore dvd, Playstation, pc sia pure senza accesso a internet e palestra. Si lamenta della qualità del cibo, del caffè che gli arriva freddo e di improponibili posate di plastica. Ma il disturbo narcisistico della sua personalità sembra non avere limiti: e così ha deciso di cambiare il suo nome in Fjotulf Hansen, stravagante combinazione tra il cognome norvegese più comune e uno dei nomi propri più rari. L'odio non può "restare incontrastato": lo ha detto oggi il premier della Norvegia, Erna Solberg, durante una cerimonia di commemorazione nel 10mo anniversario della strage di Utoya. Quel giorno, il 22 luglio del 2011, l'estremista di destra Anders Behring Breivik uccise a sangue freddo 69 studenti che si trovavano in un campo estivo sull'isola di Utoya ed altre otto persone a Oslo.

·        Quei razzisti come i serbi.

Ratko Mladic, confermato l’ergastolo per «il macellaio di Bosnia. La sentenza definitiva è stata presa all’Aja dai giudici delle Nazioni Unite. Rigettato il ricorso in appello dell’ex generale serbo: è colpevole del genocidio di Srebrenica e di diversi crimini di guerra. Luca Sebastiani su La Repubblica l'8 giugno 2021. Niente assoluzione, niente rinvio, niente ripetizione del processo. Ratko Mladic è stato condannato all’ergastolo anche in appello. È questa la decisione presa oggi 8 giugno nei confronti dell’ex generale serbo o, come viene chiamato da molti, del “macellaio di Bosnia”. Una sentenza emessa dalla giuria, composta da cinque giudici e guidata da Prisca Matimba Nyambe, dell’International Residual Mechanism for Criminal Tribunals, che dal 2018 ha sostituito il posto del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (ICTY). L’accusa principale mossa a Mladic è di aver ordinato il genocidio di Srebrenica nel 1995, la più grande strage in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, dove furono giustiziati più di 8mila bosniaci musulmani (o bosgnacchi). Ma la lista dei crimini per cui era stato già condannato in primo grado, nel novembre 2017, è lunga. Mladic è stato al comando dello Stato maggiore dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia (Republika Srpska) dal 1992 al 1996, proprio nel periodo della terribile guerra in Bosnia ed Erzegovina. Sulle spalle dell’ex militare gravano le violenze commesse durante i 43 mesi dell’assedio di Sarajevo, la persecuzione di croati e musulmani, gli stermini, gli omicidi, le deportazioni, i trasferimenti forzati, gli attacchi violenti contro i civili e il rapimento di ostaggi. Dopo le accuse di quegli anni da parte dell’ICTY, cominciò la sua latitanza, durata 16 anni. Solo il 26 maggio del 2011 venne fermato nel piccolo centro di Lazarevo, a nord di Belgrado, nascosto a casa di un suo cugino e pochi giorni dopo fu estradato all’Aja. Un passaggio imprescindibile richiesto più o meno direttamente da Bruxelles, per venire incontro alle aspirazioni della Serbia di Boris Tadic di integrazione nell’Unione europea. Ci vollero sei anni e mezzo per giungere alla condanna in primo grado, con Mladic che poi ricorse in appello. Una parabola simile a quella dell’altra figura simbolo della guerra in Bosnia: il presidente dell’entità serba Radovan Karadzic, catturato a Belgrado nel 2008 dopo anni di fuga ed estradato. Anche Karadzic viene condannato per crimini di guerra nel 2017 e per essere stato il vero e proprio ideatore del genocidio e pianificatore della pulizia etnica. La società serba, al momento dell’arresto di Mladic e della sua prima condanna, si spaccò. Ancora oggi una rilevante fetta di popolazione, soprattutto nella Repubblica Srpska lo osanna, reputandolo un eroe, «un combattente per la libertà» come lo definì il figlio Darko dopo il suo arresto. A Banja Luka, capoluogo dell’entità serba, è stato esposto uno striscione in queste ore che recita: «Non riconosciamo le sentenze del Tribunale dell’Aja, tu sei l’orgoglio della Repubblica Srpska». Di tutt’altro umore l’opinione pubblica in Bosnia ed Erzegovina che ha aspettato con ottimismo la sentenza. Alla vigilia del verdetto dell’8 giugno erano emerse le speranze del suo legale, Branko Lukic: «Mi aspetto l’assoluzione o almeno la ripetizione del processo, se i giudici in appello avranno esaminato le nostre argomentazioni. Se sarà così non ho dubbi che la decisione verrà cambiata», aveva detto l’avvocato. E dello stesso parere era il figlio di Mladic, Darko, volato nei Paesi Bassi per assistere alla seduta in diretta e per avere un breve incontro con il padre. Il 51enne si era augurato «una maggiore integrità professionale dei giudici». Dall’altra parte, anche diversi familiari, madri e mogli delle vittime di Srebrenica hanno presenziato durante la fase finale del processo. L’accusa ha chiesto che Mladic fosse condannato anche per genocidio per alcune atrocità avvenute in sei zone bosniache, capi di imputazione da cui nel 2017 era uscito innocente. Ma la sentenza, arrivata con mesi di ritardo a causa delle condizioni di salute di Mladic e delle restrizioni pandemiche, ha confermato la condanna di primo grado di quattro anni fa rigettando il ricorso. L’ex militare rimarrà in carcere a vita.

Srebrenica 1995, cronaca di un massacro. Gigi Riva su La Repubblica il 21 febbraio 2020. Come si uccidono ottomila prigionieri nel minor tempo possibile? Come si organizza un genocidio? Un romanzo-documento ricostruisce la strage con atti, testimoni, versioni a confronto. Per mostrare tutta la macchina dell’orrore, minuto per minuto. Alla vigilia del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 13 luglio del 1995, il colonnello Ljubisa Beara ricevette dal generale Ratko Mladic l’ordine di ammazzare ottomila persone e di far sparire i loro corpi nel più breve tempo possibile. Uso ad obbedire ai superiori e tanto più a quel comandante così stimato, per lui la faccenda non rappresentava un problema morale semmai una questione tecnica. Già, come ammazzare gli ottomila musulmani bosniaci fatti prigionieri a Srebrenica dopo che la città era caduta nelle mani dell’esercito dei serbi di Bosnia sotto gli occhi dei caschi blu olandesi delle Nazioni Unite? La decisione era stata presa all’improvviso, senza pianificazione precedente. Dunque si trattava, con tutto lo zelo di cui era capace, di montare una efficiente macchina genocidiaria, organizzare una catena burocratica per la morte all’ingrosso, senza tralasciare alcun particolare che potesse inficiare l’operazione. Per ricavarne un encomio, magari addirittura uno scatto di carriera. Doveva risolvere diverse equazioni matematiche. Quanti autobus servono per portare ottomila e passa persone in luoghi il più possibile discosti dalle vie principali per poi eliminarli? Quanta benzina si consuma? Quanti mezzi meccanici servono per scavare fosse comuni tanto capaci, grandi in totale qualche migliaia di metri cubi? E, soprattutto, quanti assassini ingaggiati a cottimo avrebbero dovuto svolgere il lavoro, calcolando alcuni renitenti e le sostituzioni necessarie di chi poteva stancarsi nel premere senza soluzione di continuità il grilletto contro le schiene dei condannati a morte legati e inermi? Non possiamo sapere se il colonnello Beara abbia rimpianto l’efficienza nazista mentre si adoperava all’impresa nel giorno del suo compleanno, quel 14 luglio che evoca l’origine dei diritti dell’uomo, e nei due successivi, avendo a disposizione scarsi mezzi, pochi uomini, tra mille difficoltà e troppi ostacoli. Sappiamo però come ha risolto le incognite di tutte le equazioni complicate, come ha affrontato gli imprevisti e come alfine ce l’ha fatta in uno spazio di tempo da record date le circostanze. Lo sappiamo grazie all’ostinazione e alla dedizione di uno scrittore, Ivica Dikic, oggi 43 anni, croato di Erzegovina, normalmente versato nella fiction, diventato famoso nel mondo come autore della serie “Novine” in onda su Netflix. Dikic ha compreso che davanti all’enormità della carneficina doveva abbandonare la fantasia per esplorare il territorio della letteratura del vero. Si è letto centinaia di migliaia di pagine dei vari processi all’Aja, in Serbia, in Bosnia, ha rintracciato una miriade di testimoni, ha confrontato e incrociato versioni e in capo ad alcuni anni ha finalmente dato alle stampe “Beara”, pubblicato nel 2016 in Croazia e che ora esce in Italia col titolo “Metodo Srebrenica” (Bottega Errante Edizioni, 280 pagine, 17 euro) con la splendida traduzione di Silvio Ferrari. Un libro definitivo, il romanzo documentario del massacro ricostruito quasi minuto per minuto, personaggio per personaggio. Perché, oltre al colonnello, c’erano almeno altre cento persone citate con nome e cognome che a vario titolo sapevano che cosa si stava perpetrando. Beara è parola dal suono dolce, ingentilito dalle vocali. Nell’ex Jugoslavia evoca le gesta di Vladimir Beara da Spalato, un portiere-mito degli anni Cinquanta, considerato tra i massimi della storia del calcio e di cui Ljubisa era cugino. Parenti così diversi, destinati a restare nell’ immaginario collettivo, campioni l’uno nello sport, l’altro nella caccia grossa, nella colonna infame dei pulitori etnici fino alla mattanza totale, affinché non restasse vivo nessun musulmano in quell’angolo di terra aspra a ridosso del fiume Drina. Uomo di mare dapprima, ufficiale della Marina jugoslava, fedele servitore del titoismo finché il Paese è imploso. E poi portato dalle circostanze ad abbracciare l’idea granserba, nella sempiterna considerazione auto-assolutoria che non era lui a cambiare ma i tempi. Per mantenere prebende e privilegi riconosciuti ai gradi gerarchici militari, è salito sulla scialuppa di salvataggio fornitagli dal nume supremo dell’esercito dei serbi di Bosnia Ratko Mladic, conosciuto a Knin, nella Krajina croata, agli albori delle guerre balcaniche degli anni Novanta, e messo a capo della Direzione di sicurezza del comando supremo. Così è passato dalle acque dell’Adriatico ai boschi della Bosnia, mantenendo la postura dell’uomo che non è nato per discutere e avere dubbi. Ma solo per «mettere in opera con efficacia e rapidità ciò che gli è stato ordinato». Fosse anche un genocidio. Attorno a lui, in quelle ore atroci, i dubbi sorgevano persino in assassini seriali che nei quattro anni del conflitto bosniaco si erano distinti per malvagità, riducendo ciò che aveva comunque nome e sembianze di un esercito in un’accozzaglia di macellai sciolti da qualsiasi legge bellica. E avevano infierito sulla popolazione civile, non risparmiando donne e bambini, ripristinando campi di concentramento di hitleriana memoria, dando carta bianca a miliziani col diritto di saccheggio e stupro. C’erano ufficiali suoi pari, persino generali, tentennanti nel concedere i loro sottoposti quali fucilieri scelti dei plotoni d’esecuzione. Non per un rigurgito di umanità ma perché lungimiranti nel prevedere che uno sterminio su così vasta scala non sarebbe potuto passare inosservato e ci sarebbe stato un giudice, a conflitto finito, in una inevitabile nuova Norimberga. C’erano politici del partito serbo di Radovan Karadzic che non erano contrari al massacro purché fosse fatto più in là, non nel territorio su cui avevano giurisdizione. C’erano cittadini che non volevano l’odore della morte nei campi adiacenti alle loro case. Beara annotava gli inciampi, risolveva, proseguiva. Piani a, b c, d per supplire ai dinieghi. Il colonnello ridotto a lucido orchestratore della catena di montaggio che produceva cataste di corpi senza vita nonostante l’alcol, le poche ore di sonno, le arrabbiature. Nonostante una situazione precaria sul campo di battaglia. Perché il suo compito era attività collaterale che succhiava uomini e mezzi al confronto ancora in atto con l’esercito dei musulmani di Bosnia. E nonostante, infine, una spaccatura sempre più palese tra l’ala politica (Karadzic) e l’ala militare (Mladic) complici nell’orrore ma divisi, in quella fase, dall’ingordigia del potere. Ljubisa Beara è instancabile, onnipresente, implacabile. Aumenta la produzione autorizzando le mitragliatrici invece dei fucili e se qualcuno sopravvive alle raffiche è finito col colpo di grazia. Più presto, più presto incita il colonnello. Sui due piedi si decide che fare degli inciampi naturali in un’impresa così titanica. Un bambino che corre verso una fossa comune piangendo e chiamando il papà, viene graziato, forse l’unico. Non ci debbono, non ci possono essere testimoni in grado di raccontare a posteriori. Gli autisti degli autobus, dei civili, sono i supplenti dei tiratori scelti, a loro viene dato il “privilegio” di vendicarsi dei musulmani. Uno di essi chiede pietà per uno di quei ragazzi: si chiama Eldar, lo conosce bene, l’ha portato da scuola a casa per tutti gli anni delle superiori. Viene considerata un’insubordinazione da pagare a caro prezzo. Sarà lui a dover sparare a Eldar, altrimenti verrà ucciso. Obbligato, esegue, poi seppellisce la sua vittima nella tomba di famiglia accanto a suo figlio, pure lui morto in combattimento. Inseguito dai suoi mostri, scappa in Canada a Calgary dove si suiciderà. Un danno collaterale. Ljubisa Beara avrebbe voluto l’encomio di Mladic per lo sforzo più impegnativo della sua carriera militare. Naturalmente non sarà possibile. Nel 2002, a sette anni di distanza, verrà incriminato per genocidio dal tribunale dell’Aja, si costituirà nel 2004. Davanti alla Corte sosterrà che in quei giorni di luglio era a Belgrado a festeggiare il compleanno con la famiglia. Non sarà creduto e nel 2015 condannato definitivamente all’ergastolo. Morirà nel 2017, a 77 anni, nel carcere di Berlino. Nessun altro luogo sarebbe stato più indicato.

Chi era Slobodan Milošević. Giovanna Pavesi su Inside Over il 17 maggio 2021. Cupo, indecifrabile e tormentato. A lungo, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, Slobodan Milošević , l’ex presidente della Serbia e della Jugoslavia, è apparso così. Come una persona complessa, impenetrabile e con un ingombrante vissuto personale. Javier Solana, ex Segretario generale delle Nazioni Unite, lo definì “un uomo in trincea, rinchiuso in un bunker al di fuori della realtà”, “una persona dall’animo bunkerizzato” e, ancora, “un individuo difficile da trattare”. Accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è deceduto mentre si trovava in carcere, all’Aja, in attesa di essere giudicato dal Tribunale penale internazionale. Percepito come un leader contraddittorio e capace di gesti efferati, Milošević fu ritenuto l’ideatore e in parte diretto responsabile dei peggiori episodi di pulizia etnica nei confronti dei musulmani di Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo durante i conflitti balcanici degli anni Novanta. Considerato da alcuni nazionalisti serbi come un difensore della loro identità (perché tra i principali esponenti di quel sentimento politico che si stava diffondendo alla fine degli anni Ottanta), per altri fu, invece, un dittatore, un manipolatore e la persona che determinò la fine della Jugoslavia (già profondamente mutata dalla morte di Tito). Qualcuno lo paragonò ad Adolf Hitler e nonostante venisse contestato per il suo autoritarismo, riuscì a mantenere il suo potere per molto tempo.

Le origini e il suicidio dei familiari. L’ex presidente nacque il 20 agosto del 1941 a Požarevac, in Serbia, da una famiglia di origini Vasojevići,il gruppo etnico serbo più grande del Montenegro. Secondogenito di Svetozar Milošević, un catechista, e Stanislava Koljenšić, un’insegnante e membro attivissimo del Partito comunista, la sua vita fu segnata dal suicidio di entrambi i genitori e di uno zio (il padre si sparò nel 1962, mentre la madre si tolse la vita dieci anni dopo). In base a quanto ricostruito da un approfondimento di Limes, pubblicato il 10 gennaio del 2000, i due lutti influenzarono profondamente le sua futura vita pubblica. Secondo alcuni specialisti citati nell’articolo, infatti, all’origine dei suoi conflitti (interiori e politici), ovviamente insieme a fattori sociali ed economici, si sarebbero intrecciate anche le sue vicende familiari. Elemento che, in parte, spiegherebbe la sua passione “distruttiva e autodistruttiva” (perse tre guerre), chiarita dal doppio trauma. Due anni dopo il decesso del padre, si laureò in Legge all’università di Belgrado (era il 1964). Sposò Mirjana Marković, che non fu soltanto una compagna di vita, ma uno dei suoi consiglieri più decisivi.

I primi ruoli politici. L’ex presidente serbo militò prima nella Lega dei Comunisti di Jugoslavia (diventandone anche un dirigente) e poi del Partito Socialista di Serbia, di cui fu tra i fondatori. Iniziò a farsi strada politicamente alla fine degli anni Ottanta, quando con il suo lavorò si dimostrò un abile funzionario e un promettente amministratore della Repubblica Federale socialista di Jugoslavia. Nel 1984 arrivò la nomina a segretario della Federazione di Belgrado della Lega dei comunisti e, in seguito, ricoprì ruoli di rilievo all’interno del partito, anche grazie all’amicizia con Ivan Stambolić (ritenuto il suo “padrino” politico). Nel luglio del 1990 venne eletto presidente del partito che unificava la Lega dei comunisti e la Lega socialista del Popolo lavoratore di Serbia.

La rinascita del nazionalismo. Tra gli anni Ottanta e Novanta e alla luce di tutti i cambiamenti che la storia recente si era portata dietro nell’area balcanica, si registrò la rinascita del nazionalismo serbo, di cui anche Milosević si rese protagonista. Si trattava di un sentimento identitario, fatto di rivendicazioni e rifiuto del passato. Secondo gli storici, l’apice di questo fenomeno venne raggiunto il 24 settembre del 1986, quando un quotidiano di Belgrado pubblicò alcuni passaggi di un documento, redatto da un gruppo di intellettuali serbi, in cui si faceva riferimento al concetto di nazione, insistendo su una sorta di vittimismo collettivo che vedeva i serbi come discriminati dalla costituzione jugoslava. L’allora presidente Stambolić ritenne il testo troppo radicale e decise di disconoscerlo. La stessa cosa, almeno all’inizio, la fece anche Milosević che, però, nel 1987 venne inviato da Stambolić nella provincia autonoma serba del Kosovo, dove i conflitti tra serbi e albanesi determinavano il loro quotidiano. Incontrando di sua spontanea volontà i leader dei gruppi nazionalisti, Milosević sancì una pesante rottura con le politiche che, fino a quel momento, avevano costituito i rapporti della popolazione. Il 24 aprile 1987, a Pristina, pronunciò una sorta di suo manifesto, davanti a una nutrita folla di serbi del Kosovo. Riferendosi al trattamento discriminatorio che la polizia kosovara (in maggioranza composta da albanesi) avrebbe adottato nei loro confronti, Milosević disse: “Nessuno ha il diritto di picchiarvi. E nessuno lo farà mai più”. Nei mesi successivi accusò implicitamente la (sua) classe politica di non essersi spesa a sufficienza a difesa dei serbi del Kosovo e, con abilità straordinaria, porto Stambolić alle dimissioni.

La Grande Serbia di Milosević. Nel 1988 le tensioni tra la Serbia e le altre repubbliche balcaniche si fecero più sempre più accese. Sostenitore di un modello centralista, che vedeva la Serbia al vertice del potere, Milosević iniziò la sua battaglia politica personale appoggiato da gran parte dell’opinione pubblica (compresa la chiesa ortodossa e l’armata popolare jugoslava), che vedeva in lui un capo pieno di personalità, pronto a difendere quel sentimento nazionale che, a lungo, era rimasto celato. Il 28 giugno del 1989 pronunciò il “discorso di Kosovo Polje“, in occasione del 600° anniversario della sconfitta serba contro gli ottomani musulmani. L’orazione celebrativa incendiò la piazza, che quel giorno accoglieva migliaia di serbi, ed enfatizzò le intenzioni dei nazionalisti più radicali: Milosević fu, infatti, più bravo degli altri a cogliere il sentimento della “vittoria mutilata” dei serbi, diventandone praticamente il simbolo. Venne successivamente considerato “l’esecutore” del progetto della Grande Serbia, programma che vedeva Belgrado imporsi su tutto il resto.

Milosević presidente e la guerra civile. Divenne presidente dell’organo collegiale di Presidenza della Serbia dal maggio del 1989 e subito dopo, nel 1990, a pochi mesi dal crollo del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione Sovietica, divenne presidente unico (riconfermato nel 1992), in un momento particolarmente delicato per i Balcani, divisi tra aspirazioni indipendentiste e forme di odio inter-etnico, fomentate dai diversi gruppi. Nel giugno del 1991, la Slovenia, dopo un brevissimo conflitto (il primo in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale), si proclamò autonoma e così fece anche la Croazia. L’allora presidente croato, Franjo Tudman, introdusse alcune modifiche costituzionali che portarono ad atti percepiti come discriminatori nei confronti della minoranza serba e Milosević (il cui intento era quello di annettere tutti i territori dove la minoranza serba viveva) rispose alle azioni e alla cosiddetta “minaccia croata” con l’esercito federale jugoslavo e le milizie paramilitari. L’8 novembre del 1991, i soldati inviati dal leader distrussero completamente la città di Vukovar (luogo simbolo della convivenza pacifica tra serbi e croati). Dopo il referendum in Bosnia Erzegovina sull’indipendenza, nel marzo del 1992, particolarmente osteggiato dai serbo-bosniaci, scoppiò anche il conflitto in quell’area. Il leader serbo, ovviamente, appoggiò e sostenne (anche militarmente) Radovan Kardžić (successivamente accusato e condannato all’ergastolo per crimini di guerra). La pulizia etnica che ne conseguì portò all’eccidio di Srebrenica, nel luglio del 1995, dove migliaia di bosniaci di fede musulmana furono uccisi dalle milizie del generale Ratko Mladić. Il conflitto si concluse nel 1995, con gli accordi di Dayton, che sia Milosević, sia Tudman, firmarono. Al termine della guerra, migliaia di profughi serbi, provenienti dalle varie aree (Bosnia, Croazia e Kosovo), lasciarono le diverse regioni per raggiungere la Serbia.

La guerra in Kosovo e la fine (politica) di Milosević. Milosević venne eletto presidente della Repubblica federale Jugoslava (ovvero Serbia e Montenegro) nel 1996 e, dopo una serie di episodi politicamente ambigui andati avanti per molto tempo, la repressione in Kosovo (con un numero sempre più alto di morti tra gli albanesi) si fece più ancora pesante. Falliti i tentativi di mediazione per il raggiungimento di un accordo, a Rambouillet, dal marzo del 1999 la Nato bombardò la Jugoslavia, con l’operazione Allied Forced, fino al ritiro (due mesi e mezzo dopo) dei soldati serbi dalla regione. Il Kosovo passò sotto il controllo delle Nazioni Unite e quello, di fatto, fu il terzo conflitto perso da Milosević in pochi anni che, però, conservò ancora il potere. Fino a quando, ormai isolato, sia all’interno dei confini nazionali, sia all’estero, nell’ottobre del 2000 riconobbe la sconfitta politica alle urne.

L’arresto, il processo e la morte. Il 1° aprile del 2001, Milosević venne arrestato, dopo due giorni d’assedio alla sua abitazione. Fu estradato all’Aja il 28 giugno successivo e consegnato al Tribunale penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio nei conflitti della Ex Jugoslavia. Lì per rispondere ai capi d’accusa sui massacri e le torture in Croazia, il tentato genocidio in Bosnia e le violenze in Kosovo, non riconobbe mai la validità di quella corte e si appellò al diritto internazionale, ma venne ugualmente processato. Chiese che venissero ascoltati più di mille testimoni e contestò fino all’ultimo ogni accusa: per difendersi disse di aver protetto l’Europa dagli integralisti e dai terroristi islamici. Nel marzo del 2006 fu trovato senza vita nella sua cella, all’Aja, ma poco prima del suo decesso, avanzò l’ipotesi di essere stato avvelenato. Nel gennaio dello stesso anno, infatti, i medici individuarono nel suo sangue tracce di Rifampicin, un farmaco utilizzato per il trattamento di tubercolosi e lebbra, che potrebbe aver inibito l’effetto delle medicine che l’ex presidente utilizzava per i suoi problemi di salute (pressione alta e cardiopatia). Il Tribunale penale internazionale dispose un’indagine sulle cause della morte, ma l’autopsia escluse l’utilizzo di quel farmaco nei suoi ultimi giorni di vita.

Il rapporto (strettissimo) con la moglie. Soprannominata “la Lady Machbeth dei Balcani”, Marković fu per Milosević molto più di una consorte. Fidatissima confidente e suo braccio destro, la presenza della donna influenzò profondamente le sue scelte. Ex insegnante di sociologia, per il politologo Jasmin Mujanović, citato in un articolo di Euronews, fu anche un componente decisivo del regime e, come molti altri responsabili di violenze e massacri, riuscì a sfuggire alle sentenze giudiziarie (lasciò la Serbia nel 2003). Il rapporto tra lei e il marito fu sempre molto stretto tanto che, durante la detenzione, l’ex presidente aveva contatti con la donna ogni giorno, fino alla sua morte. La loro prima (e unica) separazione fisica fu nel 2001, quando Milosević venne fermato per l’arresto. Da sempre comunista, nel 1995 divenne entrò in politica come deputata al parlamento di Pozarevac e vent’anni dopo pubblicò un testo a difesa del marito, che le descrisse come “una figura politicamente dominante”. Morì il 14 agosto 2019 a causa di una lunga malattia, mentre era esiliata in Russia.

·        Quei razzisti come gli ungheresi.

Il Pride invade Budapest. Trentamila in piazza per sfidare Orbán. Raffaella Scuderi su La Repubblica il 25 luglio 2021. Nella capitale la sfilata di attivisti da tutta Europa per dire no alla norma che discrimina la comunità Lgbtq e scava un solco con Bruxelles. Il Budapest Pride, tradizionale appuntamento del movimento Lgbtq ungherese che si è ieri, quest’anno aveva una motivazione in più: dire no alla legge anti-Lgbtq del governo Orbán, approvata con lo scopo - secondo il governo - di vietare la "propaganda omosessuale" nelle scuole. La norma voluta dal premier Viktor Orbán ufficialmente "per la protezione dei minori", è stata condannata dall’Unione europea come un inaccettabile complesso di misure discriminatorie e repressive contro la comunità Lgbtq.

In migliaia al Gay Pride di Budapest. Orbán: "L'Ue ci ricatta, no ai suoi soldi". Gaia Cesare il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. In piazza anche contro le politiche del premier. Che attacca: "Non accetteremo il Recovery se vuol dire cancellare la legge". Scendono in piazza a Budapest e sono oltre diecimila per il tradizionale Gay Pride, il ventiseiesimo in Ungheria. «Non siamo più in epoca comunista, questa è l'Ue e tutti dovrebbero poter vivere liberamente» spiega Istvan, 27 anni, in marcia con il suo fidanzato. L'adunata quest'anno più che mai rappresenta un atto di resistenza della comunità Lgbtqi alle politiche anti-gay del primo ministro sovranista Viktor Orbán. Con il referendum annunciato quattro giorni fa sulla legge per la difesa dei minori, che dall'8 luglio vieta la diffusione agli under 18 di contenuti sui temi legati al mondo omosessuale, il primo ministro spera di chiamare a raccolta la maggioranza silenziosa contro la minoranza rumorosa in piazza ieri nella capitale. Il premier è imbufalito per la procedura d'infrazione aperta dall'Unione europea, secondo cui la norma è discriminatoria e viola i valori di tolleranza e libertà individuale tutelati da Bruxelles. Budapest ha due mesi di tempo per rispondere alle accuse, ma intanto la Ue ha congelato l'approvazione dei 7,2 miliardi del Recovery Fund ungherese, un modo per fare pressione sull'esecutivo di Budapest, non si ancora per quanto visto che non si riesce a trovare un accordo nemmeno sul periodo di estensione necessario a fornire i nuovi elementi di valutazione. La trattativa resta dunque aperta, probabilmente in attesa di capire cosa succederà sul fronte dei diritti. Perciò l'ultranazionalista Orbán coglie l'occasione del Gay Pride per lanciare un nuovo attacco alle istituzioni europee e difendere la chiamata alle urne con cui chiede agli ungheresi di appoggiare in maniera chiara la legge votando cinque «no». «Se Bruxelles non ci attaccasse, non ci sarebbe bisogno di un referendum», spiega Orbán, confermando che il voto è un guanto di sfida lanciato all'Unione. I toni del leader dell'estrema destra del partito Fidesz si fanno ancora più pesanti quando si parla dei soldi in attesa da Bruxelles: «Ci stanno ricattando e minacciando. Avviano procedure di infrazione, ritardano il pagamento dei fondi che meritiamo». Ma ecco l'appello agli ungheresi: «In questa situazione ci sono due opzioni: cedere o meno - spiega Orbán - Poiché si tratta dei nostri figli, si tratta del futuro dei nostri figli, non dobbiamo arrenderci», ha detto parlando alla radio di stato Kossuth Radio. Da qui la richiesta di fermare i «burocrati» di Bruxelles. «Abbiamo bisogno che ogni ungherese partecipi al referendum. Se c'è il sostegno popolare, possiamo fermare Bruxelles, proprio come con il referendum sulle quote dei migranti». Nel 2016 non si raggiunse il quorum, votò il 43,2%, ma il primo ministro sventolò il 98% di voti anti-migranti per continuare a far pressing sulla Ue contro la politica di apertura. Intanto, mentre pronuncia le solite parole di sfida alla Ue, si scopre dalla Gazzetta ufficiale ungherese che il primo ministro ha deciso: non accetterà gli aiuti del Recovery Fund se saranno subordinati all'abolizione della legge. La famiglia (intesa dal premier come l'unione di un uomo e una donna) prima di tutto. Ma soprattutto i bambini prima di ogni cosa, è il senso di ogni intervento del leader ungherese rivolto ai suoi elettori e alla pancia più tradizionale del Paese. «Secondo il mainstream occidentale e liberale spiega ancora Orbán - la vera libertà può essere raggiunta solo liberandosi della propria sessualità ma gli ungheresi non la pensano così. Gli ungheresi credono che ci siano adulti e bambini. Mentre gli adulti sono liberi di fare ciò che desiderano, entro i limiti della legge, i bambini sono una questione diversa». Gaia Cesare

David Sassoli: «Il diritto europeo prevale su quello nazionale: Ungheria e Polonia devono rispettarlo». I contrasti con i paesi dell’Est, la necessità di abolire l’unanimità nel Consiglio, i corridoi umanitari per i migranti e il piano comune di accoglienza. Parla il presidente del Parlamento Europeo. Federica Bianchi su L'Espresso il 23 luglio 2021. La pandemia non ha soltanto scosso l’Europa dai suoi dubbi esistenziali. Ne ha chiarito le priorità per il futuro, dopo quindici anni di incertezze. «Ha bloccato l’economia e rischiato di bloccare anche la democrazia perché se si fossero fermate le istituzioni non avremmo avuto gli strumenti per rispondere alla crisi», dice nel suo ufficio di Bruxelles David Sassoli, al vertice dell’Europarlamento in questi primi due anni di legislatura: «Abbiamo tutti fatto uno sforzo intenso, imprevisto e non scontato. Il primo atto della pandemia è stato quello del Parlamento europeo che ha liberato i fondi di coesione per reindirizzarli verso l’emergenza Covid-19. Poi via via abbiamo capito la profondità della crisi negli stati membri e sospeso sia le vecchie regole del patto di stabilità e crescita, inadatte ad affrontare l’emergenza, sia le regole sugli aiuti di stato, incoraggiando i 27 a spendere. Abbiamo varato nuovi strumenti come “Sure”, con la prima emissione di obbligazioni comuni, destinate a finanziare la cassa integrazione, e il Recovery fund accompagnato dal meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto».

Come ha cambiato la reazione delle istituzioni europee questa pandemia?

«Esiste una profonda differenza su come l’Europa ha affrontato questa crisi rispetto a quella di un decennio fa. Questa volta si è puntato sulla ripresa economica, su obiettivi comuni come il Green Deal, sulla condivisione del debito, e si è data importanza alla tutela dello stato di diritto, un tema molto sentito che è entrato fare parte del dibattito europeo. Durante la crisi greca, l’austerity aveva scardinato il principio della solidarietà. Il clima era diverso allora e diverso era anche solo due anni fa, quando abbiamo affrontato le elezioni con partiti e opinioni pubbliche che volevano uscire dall’Euro e dall’Europa. Oggi è tutto cambiato, gli europei vogliono restare in Europa e chiedono di affidarle più competenze, come la politica sanitaria. È il risultato dello sforzo fatto per dare protezione adeguata a questa Unione». 

Perché oggi è tanto importante il tema dello stato di diritto? A causa di Ungheria e Polonia?

«In parte sì perché fanno di tutto per non rispettare i trattati. Ma l’importanza della questione deriva anche della consapevolezza che se l’Europa perde la caratteristica di essere il luogo delle libertà non ha nessuna possibilità di avere voce sulla scena internazionale e di essere riconosciuta come l’esempio al mondo in cui democrazia, libertà e diritti sociali sono garantiti. Nei dibattiti nazionali non ci si rende conto della forza dell’Unione europea e del richiamo che esercita all’esterno». 

Dopo anni pavidi pare che sul tema dei diritti fondamentali la Commissione si stia finalmente muovendo. La pandemia ha avuto un ruolo nell’evidenziare l’urgenza del loro rispetto?

«La pandemia ha messo in evidenza il forte antagonismo tra i sistemi autoritari e quelli democratici. È in atto una lotta tra i due per determinare quale è il più efficiente, quello capace di dare risposta in caso di emergenza. L’Unione si sta dimostrando all’altezza della crisi, pur con tutti i difetti. Certo, i 14 mesi di Covid-19 ci hanno fatto capire che dovremmo avere più presenza e autorità a livello internazionale senza perdere la nostra natura di casa della democrazia».

La Corte costituzionale polacca ad agosto dirà se il diritto europeo prevale su quello polacco o meno. È un momento cruciale ora che la Corte europea ha chiesto alla Polonia di smantellare le riforme che pongono la magistratura sotto il controllo politico...

«Il diritto europeo prevale su quello nazionale e le indicazioni della Corte devono essere rispettate. La Polonia deve ritirare le nuove leggi sulla magistratura. È preoccupante che non ci sia stato nessun arretramento né ripensamento sull’introduzione delle leggi contestate. Il verdetto della Corte amplifica le critiche fatte dalle istituzioni europee, dà loro sostanza giuridica. E arriva subito prima di una nuova procedura d’infrazione contro la definizione di zone Lgbtq-free. Sul tema anche l’Ungheria è sotto osservazione. E il governo ungherese non sta certo tendendo una mano all’Europa. La questione dell’uso delle risorse dei Recovery fund dovrà essere valutata sulla base del rispetto dei diritti fondamentali, della comunità Lgbtq, della libertà di stampa, delle Ong, dell’indipendenza della magistratura».

Ci aspetta un autunno infuocato...

«Il clima è teso perché i meccanismi sanzionatori dell’Unione dovrebbero essere meglio precisati e non lo sono anche perché fino ad oggi c’è stata la volontà politica di passare sopra ogni vicenda. Adesso il clima è mutato. Parlamento e Commissione non faranno passi indietro. E se c’è la volontà politica non bisogna farne una questione burocratica. Il modo per sanzionare si troverà, partendo dalla vigilanza sull’uso dei soldi. Ad esempio, sarebbe l’ora di verificare come l’Ungheria ha speso i denari del pacchetto di Coesione della legislatura precedente, una verifica che si può fare facilmente. Dove e a chi sono finiti i soldi dei contribuenti europei destinati all’Ungheria?»

Ritiene plausibile l’ipotesi di un allontanamento dall’Unione di Polonia e Ungheria?

«Dieci anni di Orbán hanno piegato l’Ungheria. Crediamo che le opinioni pubbliche di Polonia e di Ungheria siano ancora attratte dal progetto europeo ma il problema sono i governi. Abbiamo dubbi che, forzando le garanzie costituzionali e alzando muri, stiano facendo gli interessi dei cittadini e non quelli delle classi dirigenti». 

A proposito di muri, come vede la proposta del segretario del Pd Enrico Letta di far gestire all’Europa e non all’Italia le operazioni di salvataggio in mare?

«È anche la mia proposta, quella che predico da un mese e mezzo! Con Enrico siamo in sintonia. Serve una grande operazione europea di salvataggio in mare, che includa le attività delle Ong. Un’operazione che raggiungerebbe due risultati. Non farebbe morire la gente in mare e consentirebbe all’Unione di avere una programmazione meno volontaristica per la redistribuzione dei migranti. L’Unione sarebbe obbligata a farsene carico. La questione va guardata con pragmatismo perché i movimenti di persone sono in aumento nel mondo e dobbiamo farci trovare pronti con una vera politica europea su immigrazione e asilo. Dovremmo aprire dei corridoi umanitari perché la gente deve potere entrare in Europa. Tutti e 27 i Paesi hanno bisogno di forza lavoro ed è nel nostro interesse accoglierla. L’Europa dovrebbe fissare delle quote rispetto alle necessità dei mercati del lavoro e procedere con un grande progetto di integrazione».

Il rilancio europeo sta passando anche attraverso quello italiano?

«L’Italia di Draghi è autorevole ma non è che il governo precedente abbia fatto male in Europa. Ormai sono anni che l’Italia ha peso in Europa. Il governo Conte ha fatto la trattativa sul Recovery e poi Draghi ha accresciuto ulteriormente il prestigio italiano, come è stato chiaro durante il G7 e il vertice Nato con Biden, dove le sue riflessioni sono state ascoltate con molta attenzione. Il governo ha tutta l’autorevolezza per indicare con gli altri partner la strada della nuova Europa».

Una strada che sarà meglio delineata dopo le elezioni tedesche di settembre?

«Difficile predire il risultato delle elezioni tedesche anche se è chiaro che ci sono solo due scenari possibili: una coalizione con o senza Cdu. Ma è troppo presto per dirlo, anche perché il governo non si avrà il giorno dopo le elezioni ma, visto che stilano un programma dettagliato di governo, lo avremo a fine anno».

Sotto la sua presidenza è cominciata anche la Conferenza dell’Europa. Dopo avere ascoltato i desiderata dei cittadini, potrebbe portare a dei cambiamenti nella struttura dell’Unione?

«Abbiamo già ottenuto due risultati non trascurabili. Il primo è che la Conferenza avrà una prima conclusione sotto la presidenza francese ma non finirà nella primavera 2022: potrà andare avanti per arrivare a conclusioni ambiziose per le quali c’è bisogno di tempo. Il secondo è che non esclude che si possa parlare di revisione dei Trattati, particolare importante se vogliamo cambiare le regole del gioco europeo. Alcune priorità sono chiare: aumentare il potere di iniziativa legislativa del Parlamento, che ora può solo lavorare sulle proposte della Commissione, eliminare l’unanimità di voto in sede di Consiglio europeo e una politica sanitaria europea».

Sempre che le destre europee lo permettano. Come è cambiata la dinamica della destra e della sinistra nell’Europarlamento in questo biennio?

«Abbiamo iniziato con una “maggioranza Ursula” per soli otto voti e ora abbiamo un ampio fronte europeista. Non credo che la scomposizione e ricomposizione della destra porterà a un partito della destra europea perché le varie destre non condividono gli stessi obiettivi. Noto invece che sta avvenendo un fatto non scontato, cioè che molti partiti di destra non vogliono più uscire dall’Unione ma chiedono un rafforzamento dell’Europa governativa delle nazioni. Un passo indietro per noi ma un passo avanti per loro. È una riflessione diversa da quella fatta all’epoca di Trump, che scommetteva sulle nostre divisioni per indebolirci. È una riflessione in seno all’Unione e non al di fuori». 

L'Ungheria sfida la Ue. Referendum sulla legge che discrimina i gay. Gaia Cesare il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. Il premier Orbán: "Dite No ai cinque quesiti". L'opposizione: "Boicottiamolo come nel 2016". Come fece nel 2016, per rigettare le quote di ripartizione dei migranti decise dall'Unione europea, Viktor Orbán alza l'asticella dello scontro con Bruxelles e chiama a raccolta il popolo d'Ungheria. Stavolta c'è di mezzo lo scontro con la Ue sulla legge per la «tutela dei minori» che regola le informazioni sulla comunità Lgbtqia (lesbiche, gay, bisex, trans, intersessuali, queer, asessuali). Armato del suo ultranazionalismo, marchio di fabbrica dell'esecutivo di Budapest, Orbán annuncia il referendum: «Quando la pressione contro la nostra patria è così forte, solo la volontà comune del popolo può difendere l'Ungheria». Entrata in vigore l'8 luglio, la norma rende illegale mostrare o promuovere, a scuola e nei media, contenuti che rappresentino «deviazioni dall'identità corrispondente al proprio sesso assegnato alla nascita» se i destinatari sono minori, mettendo di fatto sullo stesso piano omosessualità e pedofilia. Il provvedimento, considerato discriminatorio dalle Ue, è stato definito «una vergogna» dalla presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen tanto che Bruxelles ha aperto una procedura d'infrazione contro l'Ungheria, ha rinviato l'approvazione del Recovery Fund (7,2 miliardi) destinato a Budapest e medita l'introduzione di sanzioni dopo che l'Europarlamento ha votato una risoluzione che esorta l'Unione ad avviare un'azione legale contro il Paese, già condannato per «evidente rischio di violazione grave dei valori» europei. Governata dalla maggioranza assoluta di Fidesz, il partito nazionalista e ultraconservatore sospeso dal Ppe nel 2019 e poi uscito per sua scelta a marzo di quest'anno, l'Ungheria sovranista spaventa l'Europa ma non intende arretrare. E allora referendum sarà. Composto da cinque quesiti. Uno: «Sostieni che i minori dovrebbero frequentare le lezioni scolastiche sul tema degli orientamenti sessuali senza il consenso dei genitori?». Due: «Sostieni la promozione di trattamenti per il cambiamento di genere tra i minori?» Tre: «Sostieni che la chirurgia di riassegnazione del sesso debba essere disponibile per i minori?». Quattro: «Sostieni che i contenuti dei media che influenzano lo sviluppo sessuale dovrebbero essere presentati ai minori senza restrizioni?». Quinto e ultimo: «Sostieni che i contenuti multimediali che descrivono il cambiamento di genere debbano essere mostrati ai minori?». L'invito del premier è a votare sempre «No». «È un'iniziativa per distogliere l'attenzione dai guai del governo ungherese», attacca l'opposizione citando lo scandalo Pegasus: migliaia di politici, oppositori e giornalisti spiati anche dall'Ungheria, sulla quale la Ue ha avviato anche un'indagine per spionaggio. L'invito della minoranza è a boicottare il referendum, che vuole «mettere gli ungheresi gli uni contro gli altri» e usa i minori per «vili fini di propaganda». Nel 2016 finì male per Orbán: il referendum non raggiunse il quorum (votò il 43,2%) ma il primo ministro si convinse di aver dato comunque un segnale politico forte. Il 98% degli ungheresi che si recò alle urne disse «No», non vogliamo che la Ue «imponga a ogni paese membro quote di ripartizioni di migranti, senza consultare governo e Parlamento nazionali e sovrani magiari». Il portavoce del partito Coalizione democratica (DK), Barkóczi Balázs, è convinto che anche stavolta finirà come allora, con il referendum nullo. «Come conseguenza della sua disperazione, Orbán fa la solita cosa, inventa un'ennesima guerra con la Ue». Gaia Cesare

Si stringe il cerchio dei Paesi Ue contro Orban sulla legge anti-Lgbt. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 giugno 2021. È massima la pressione politico-mediatica contro il governo ungherese, promotore di una legge che vieta la propaganda Lgbt rivolta ai minori nelle scuole e sui media. Da una parte, come abbiamo già osservato sulle colonne di questa testata, ci sono gli europei e il calcio, sfruttato come arma politica dagli avversari del governo magiaro per fomentare e sensibilizzare l’opinione pubblica: dall’altra si muovono le cancellerie europee e l’Unione europea stessa, mentre i leader dell’Ue si trovano a Bruxelles per il consiglio europeo. “Questa legge ungherese è una vergogna. Ho incaricato i commissari responsabili di inviare una lettera per esprimere le nostre preoccupazioni legali prima che il disegno di legge entri in vigore. Discrimina chiaramente le persone in base al loro orientamento sessuale. Va contro i valori fondamentali dell’Unione europea: dignità umana, uguaglianza e rispetto dei diritti umani. Non scenderemo a compromessi su questi principi”, ha affermato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, durante la presentazione del Pnrr belga, in una presa di posizione piuttosto inusuale e inconsueta per il vertice della Commissione, che di prassi non dovrebbe intervenire nel dibattito interno dei Paesi membri dell’Ue. Nella giornata di ieri, come riporta l’agenzia LaPresse, il presidente ungherese, Janos Ader, ha firmato la tanto discussa legge anti-Lgbt. Secondo Ader, la legge non contiene alcuna disposizione che determini come deve vivere una persona maggiorenne e non lede il diritto al rispetto della vita privata, determinato dalla Costituzione. Come spiega l’Huffpost, la normativa, presentata la scorsa settimana da Fidesz, mira principalmente a combattere la pedofilia, ma include anche emendamenti che vietano altre forme di rappresentazione di orientamento sessuale oltre all’eterosessualità, nei programmi di educazione sessuale nelle scuole, nei film e nelle pubblicità rivolte agli under 18. Di fatto, Con la nuova legge sarà possibile vietare o censurare libri per ragazzi che parlano apertamente di omosessualità e non sarà permessa la diffusione di campagne pubblicitarie pro-Lgbt rivolte ai minori. I Paesi Ue la vedono come una forma di discriminazione, a differenza di Budapest. Secondo la Cancelliera tedesca Angela Merkel, la legge approvata dal Parlamento ungherese che mira a impedire la “promozione” dell’omosessualità e della comunità Lgbt è “sbagliata”. “La legge ungherese è una vergogna. Userò tutti i poteri che abbiamo per bloccarla e garantire i diritti dei cittadini. Brava Von der Leyen. Questa è l’Unione Europea che vogliamo” ha osservato su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta. “L’Italia – ha sottolineato il presidente del Consiglio, Mario Draghi – ha sottoscritto con altri 16 Paesi europei una dichiarazione comune in cui si esprime preoccupazione sugli articoli di legge in Ungheria che discriminano in base all’orientamento sessuale”. I Paesi firmatari (al momento) sono: Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Lettonia, Italia, Grecia, Austria e Cipro. Nella dichiarazione, gli stati Ue esprimono “profonda preoccupazione per l’adozione da parte del Parlamento ungherese di emendamenti che discriminano le persone Lgbtiq e violano il diritto alla libertà di espressione con il pretesto di proteggere i bambini”. Contro la legge del governo magiaro si è mosso anche David Sassoli che, come riporta Italpress, ha scritto alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, chiedendo alla Commissione di adempiere agli obblighi previsti dai trattati dell’Ue per garantire il rispetto dello stato di diritto in tutti gli Stati membri. “Come indicato dalla nostra risoluzione del 10 giugno 2021, ho scritto alla Presidente della Commissione, a nome del Parlamento europeo e sulla base dell’articolo 265 del TFUE, per invitare la Commissione ad adempiere ai suoi obblighi di custode dei trattati e a garantire la piena e immediata applicazione del regolamento relativo alla condizionalità sul rispetto dello Stato di diritto”, ha ricordato Sassoli in apertura della sessione plenaria del Parlamento europeo a Bruxelles. Contro il governo ungherese si è espresso anche il Partito popolare europeo, attraverso le parole di capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, Manfred Weber: “L’Europa è sinonimo di libertà e tolleranza. Costituiscono la base del nostro stile di vita e del nostro successo. Per proteggerlo non c’è posto per leggi che vanno contro le libertà fondamentali delle persone. Supportiamo pienamente la presidente von der Leyen per sostenere fermamente questi valori e le nostre leggi ovunque in Europa”. Mentre i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si riuniscono oggi da Bruxelles per un Consiglio europeo che avrà come temi centrali i flussi migratori, la ripresa economica e le relazioni esterne, con particolare attenzione ai rapporti con la Turchia e la Russia, Budapest replica alle dichiarazioni di Ursula von der Leyen, definendole senza mezzi termini “una vergogna”. Affermazioni vergognose perché basate su “accuse false”. La legge oggetto del contendere “protegge i diritti dei bambini, garantisce i diritti dei genitori e non si applica ai diritti di orientamento sessuale di coloro che hanno più di 18 anni”, ragione per la quale non è discriminatoria, sottolinea in una nota il governo magiaro. Per l’opinionista statunitense Rod Dreher, prestigiosa firma della rivista the American Conservative, von der Leyen avrebbe spudoratamente mentito nella sua offensiva contro Budapest. La presidente della Commissione Ue, nota Dreher, “derubrica la legge come contraria a un’Unione europea dove sei libero di essere chi vuoi essere e dove sei libero di amare chi vuoi. Ma la legge ungherese non vieta l’omosessualità o l’essere transgender”. Al contrario, vieta la propaganda Lgbt rivolta ai minori. “Von Der Leyen afferma che difendere la Blue’s Clues Pride Parade e Drag Queen Story Hour è una questione di “diritti umani fondamentali” – ma non il diritto dei genitori a proteggere i propri figli da queste parate. Che il presidente della Commissione europea scelga di inquadrare il conflitto in questo modo la dice lunga su come la burocrazia europea consideri la famiglia tradizionale”. Da Bruxelles, il premier magiaro Viktor Orban è intervenuto per difendere la legge da poco approvata dal parlamento di Budapest. Sotto il comunismo in Ungheria l’omosessualità era punita per legge, e “io sono un combattente per la libertà, ho difeso i diritti degli omosessuali” ha spiegato, come riportato dall’agenzia Adnkronos. Le leggi approvate dal Parlamento ungherese “non riguardano l’omosessualità”, bensì “la difesa dei diritti dei bambini e dei genitori”. Rispondendo alle domande sulle norme riguardanti i contenuti per i minori dei pochi cronisti ammessi ai doorstep del Consiglio Europeo a Bruxelles., Orban ha poi aggiunto che “è sempre meglio prima leggere e poi parlare – continua Orban -. Le leggi riguardano il modo in cui i genitori vogliono educare i figli”. La legge ungherese sui contenuti destinati ai minorenni “non è nell’agenda” del Consiglio Europeo, osserva, ma “sono a disposizione di chiunque” voglia chiarimenti. In ogni caso, precisa, “la legge è fatta e funziona”.

L’ultimatum dei Paesi membri contro l’Ungheria. Diritti gay, Draghi stoppa Orban: “Ritiri la legge”. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Giugno 2021. A Bruxelles una ventina di paesi dell’Unione hanno dato l’ultimatum a Viktor Orban perché ritiri quella legge che vieta di parlare di genere, identità sessuale e omosessualità nelle scuole fino a 18 anni di età. In Italia si apre il Tavolo per trovare una sintesi parlamentare sul ddl Zan, contro l’omotransfobia, con Salvini nei panni del “mediatore”, Alessandro Zan, il deputato Pd che della legge è l’ideatore, che lo avverte: «giù le mani dalla mia legge, volete solo svuotarla» e il segretario dem Letta che chiarisce: «La legge non si tocca». Fino a mercoledì primo luglio, giorno di convocazione del Tavolo con i capigruppo al Senato, si andrà avanti così. Lavorando a una mediazione che a oggi non sembra possibile. Poi ci sarà la conta in aula. Come se non bastasse Giorgia Meloni, presidente del gruppo conservatore Ecr, in missione a Bruxelles scatta selfie con Orban e si schiera col presidente ungherese: «Chi critica quella legge non l’ha letta». Facendo come minimo andare di traverso la giornata a Salvini che con Orban è in trattativa per farci un gruppo parlamentare europeo e in Italia a questo punto non può più “perdere” la battaglia sul ddl Zan. Per non parlare della Uefa che in pieno campionato europeo ha avviato un’indagine sulla partita Ungheria-Germania dove tifosi ungheresi avrebbero fatto cori e alzato il dito medio contro la Germania, “paladina dell’omosessualità”. Il premier Draghi pensava, sperava, di essersela cavata con “l’Italia è uno stato laico e il Parlamento sovrano” per tornare così a occuparsi di quello che preferisce, Pnrr, riforme, ripresa economica e dossier immigrazione. Nella conferenza stampa di fine Consiglio europeo neppure nomina il caso diritti lgbt, lo strappo dell’Ungheria e la lettera del Vaticano che martedì scorso ha scatenato il dibattito anche in Italia. Nel comunicato finale dell’EuCo la questione non è neppure citata perché non era all’ordine del giorno. Ma è sempre così, i dossier scomodi tenuti fuori dalla porta hanno la prerogativa di saper rientrare sempre dalla finestra. E nonostante pandemia («il virus non è sconfitto, la varianti sono aggressive ed è necessario accelerare sulle vaccinazioni»), Russia (il vertice con Putin resta congelato) e immigrazione («il dossier è tornato in agenda dopo tre anni, i ricollocamenti non erano l’obiettivo del vertice che invece si è concentrato sugli interventi europei nei paesi africani di partenza e transito»), tutte notizie di cui Draghi rivendica gli aspetti “utili e positivi, è il dossier diritti quello che tiene banco nella due giorni al Palazzo Europa, sede del Consiglio Europeo. E nelle dichiarazioni post Consiglio. Con Orban si sfiora la rottura. Macron, Merkel, Rutte, Kurz, lo stessa von der Leyen, il presidente Sassoli e Michel, tutti i principali leader europei usano toni ultimativi. «La questione dei valori è fondamentale per l’Europa», dice Macron. «C’è un aumento dell’illiberalismo nelle società che si sono battute contro il comunismo e che oggi sono attirate da modelli politici che sono contrari ai nostri valori» ha aggiunto denunciando “due blocchi europei”, quello dei paesi dell’Ovest e dei paesi dell’Est. Macron non vuole usare l’articolo 50 (recesso unilaterale di un paese dall’Unione, ndr) però invoca “procedure efficaci per isolare queste derive”. Che sono simili a quelle dei paesi di Visegrad contrari agli accordi sui flussi migratori. Il premier austriaco Kurz dice che “tocca alla Commissione Ue agire”. Draghi ha ricordato che l’articolo 2 del Trattato Ue – quello relativo ai diritti umani – è legato alla storia di oppressione dei diritti umani vissuta in Europa. «Il Trattato, sottoscritto anche dall’Ungheria, è lo stesso che nomina la Commissione guardiana del trattato stesso» ha detto rivolto a Orban. Spetta quindi alla Commissione «stabilire se l’Ungheria viola o no il Trattato». Angela Merkel, al suo ultimo consiglio Ue con pieni poteri (in ottobre si vota in Germania), non ricorda di «aver mai avuto in tanti anni una discussione di questa profondità e certamente non armoniosa. Con l’Ungheria restano problemi molto seri che vanno affrontati». Ursula von der Leyen congela al momento la faccenda denunciando «grande preoccupazione per una legge, quella ungherese, che viola i principi fondamentali dell’Unione». Tra Rutte e Orban si è arrivati quasi “alle mani” sui social. «Vattene», ha detto l’olandese… «Porta più rispetto agli ungheresi», ha replicato l’ungherese. Quello sui diritti è un incendio che va bloccato in fretta. Potrebbe diventare alibi per atti di odio e intolleranza come si sono visti negli stadi di Euro2020 con una Uefa impreparata a gestire questi fenomeni che pure sono frequenti negli stadi ormai da anni. In Italia è cominciata la conta su chi al Senato il prossimo 6 luglio potrebbe votare la calendarizzazione della legge così com’è a partire dal 13 luglio. Le posizioni non si avvicinano. Il Pd con Italia viva, 5 Stelle (chi, come e quanti ad oggi nessuno lo può dire), Leu sembrano granitici: la Nota diplomatica della Santa Sede ha accelerato l’iter del ddl Zan che la Lega tiene impantanato in commissione Giustizia da novembre scorso con l’alibi di 170 audizioni, l’equivalente di una tonnellata di cemento. Tutto il centrodestra chiede invece di correggere il testo Zan con le indicazioni arrivate dalla Santa Sede. «Importante è punire i violenti, la strada l’ha indicata la Santa Sede, ma togliamo dal tavolo il gender nelle scuole e i reati d’opinione. Ho scritto a Letta ma avrà molto da fare e non mi risponde». S’è fatto sentire anche Berlusconi che, a ridosso del semestre bianco, annusa aria di pretesto per disturbare il manovratore, cioè Draghi. «Abbiamo un governo di emergenza – ha detto il Cavaliere – che deve andare avanti per il tempo necessario per uscire dalla crisi sanitaria ed economica e realizzare grandi riforme come quella del fisco, della burocrazia e della giustizia. Non certo per occuparsi di argomenti divisivi come il ddl Zan». Il cui torto principale, par di capire, è di introdurre (articolo 1) i concerti di sesso, genere, identità di genere e orientamento sessuale. Concetti “non nella nostra disponibilità” ha scritto la Santa Sede.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Assedio a Orban per una legge che non parla di omofobia ma di pedofilia. Meloni: quanti l’hanno letta? Adele Sirocchi sabato 26 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Viktor Orban, l’Europa è in pressing contro il premier ungherese per la legge che vieta la propaganda gender ai minori. Orban non cede di un millimetro ma intanto la retorica anti-Ungheria si fa sempre più asfissiante e va dalle tirate d’orecchio di Ursula von der Leyen al documento dei 17 paesi in difesa dei diritti sconfinando nei campi di calcio tinti di arcobaleno.

La legge parla di minori e non dell’omosessualità. Orban intanto replica attaccando: «L’omosessualità non c’entra con questa legge. Si parla dei minori e dei loro genitori, tutto qui». Con lui si è schierato l’omologo sloveno Janez Jansa. E Judit Varga, ministro ungherese della Giustizia, si infuria: «L’orientamento sessuale e l’identità di genere rientrano pienamente nelle tutele della Costituzione ungherese». E sostiene che nel suo Paese «tutti sono liberi di esprimere la loro identità sessuale come ritengono». In pratica si attacca una legge di cui nessuno vuole conoscere il contenuto. Un appunto che anche Giorgia Meloni fa proprio. Ieri ha dichiarato in proposito: “Io la legge l’ho letta e le cose sono distanti da come vengono raccontate. La legge è scritta con toni che non mi piacciono. Ma è una legge che vieta la propaganda gender nelle scuole da parte di organizzazioni che non appartengono al sistema di istruzione ungherese”.

Cosa contiene la legge ungherese. Oggi solo Libero e la Verità si preoccupano di informare i lettori su cosa contiene la contestata legge ungherese, il cui titolo è «Sull’adozione di misure più severe contro i pedofili e sulla modifica di alcune leggi per la protezione dei bambini». Il primo titolo – scrive la Verità – prevede un emendamento alla legge sulla protezione dei bambini e l’amministrazione della tutela. Il nuovo articolo recita: «Per garantire la realizzazione degli obiettivi stabiliti nella presente legge e l’attuazione dei diritti dei minori, è vietato rendere accessibile alle persone che non hanno raggiunto l’età di 18 anni un contenuto pornografico o che rappresenta la sessualità in modo gratuito o che diffonde o ritrae la divergenza dall’identità corrispondente al sesso alla nascita, il cambiamento di sesso o l’omosessualità».

Le norme e i divieti della legge di Orban. Il terzo titolo – scrive ancora La Verità – riguarda la modificazione della legge sulla pubblicità. La nuova norma recita: «È vietato rendere accessibile alle persone che non hanno raggiunto l’età di 18 anni la pubblicità che ritrae la sessualità in modo gratuito o che diffonda o ritragga la divergenza dall’autoidentità corrispondente al sesso alla nascita, il cambiamento di sesso o l’omosessualità». Vi è poi il titolo 5, che prevede una stretta sui programmi classificati come «non adatti a un pubblico di età inferiore ai 18 anni», cioè quelli in cui elemento centrale è «la violenza, la diffusione o la rappresentazione della divergenza dall’identità personale corrispondente al sesso alla nascita, del cambiamento di sesso o dell’omosessualità o la rappresentazione diretta, semplicistica o gratuita della sessualità». In pratica, la legge censura i contenuti che ritiene impropri e legati a tutta la sfera della sessualità e non solo a quella dell’orientamento sessuale Lgbt. Si può discutere se sia opportuno “proteggere” i minori in questo modo ma non è certo corretto presentarla come una normativa anti-gay.

·        Quei razzisti come i rumeni.

Nicolae Ceausescu, il figliol prodigo della Grande Romania. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 16 agosto 2021. La dura legge delle dittature è sempiterna e universale: terminano frequentemente in un bagno di sangue e producono sempre un legato di divisione nazionale e frammentazione sociale. Quel lascito può comportare e significare il perdurare di sentimenti ambivalenti di amore-odio nella società nei confronti del passato dittatoriale, nonché l’emergere progressivo di peculiari forme di nostalgia in occasione di crisi economiche, turbolenze politiche ed epidemie di panico sociale. La nostalgia per le dittature è un fenomeno comune a diverse realtà dello spazio postcomunista e postsovietico – dalla Russia che va sperimentando la curiosa riabilitazione dal basso di Stalin alla Serbia che guarda con crescente risentimento alla disgregazione della Iugoslavia, passando per l’Ostalgie degli abitanti della fu Germania Est – e che da diversi anni ha attratto l’attenzione di politologi e sociologi interessati alla comprensione delle dinamiche nel defunto Secondo Mondo. Tra i Paesi maggiormente interessati dal fenomeno della nostalgia dell’era comunista va annoverata la Terra dei Santi (Țară sfinților), ovvero la Romania. Perché qui, culla di condottieri del calibro di Decebalo, Dracula, Ștefan cel Mare e Alexandru Ioan Cuza, negli anni recenti è andato aumentando il revisionismo popolare nei confronti della rivoluzione del 1989, culminata con la fucilazione del dittatore Nicolae Ceaușescu e della sua consorte Elena. Capire chi è stato il Conducător e perché i rumeni ne rimpiangano a gran voce la dipartita prematura – l’ultimo sondaggio, datato 2018, parla di due persone su tre con un’opinione positiva su di lui – può risultare utile a saziare la fame di conoscenza degli indagatori più curiosi della psicologia delle masse.

Le origini. Nicolae Ceaușescu nasce nel piccolo villaggio di Scornicești il 26 gennaio 1918 e viene ricordato come il simbolo della Romania rurale, della Romania profonda. Perché Ceaușescu era, invero, il membro di una famiglia numerosa – era il terzo di nove figli – e di origini più che umili – i genitori erano dei contadini –, indi un uomo del popolo. Insofferente verso l’ordine costituito sin dalla gioventù, Ceaușescu avrebbe abbracciato la causa comunista nel periodo interguerra e pagato con la privazione della libertà la partecipazione a marce di protesta, scioperi e comizi illegali. Nemico giurato di aristocratici e fascisti, il futuro dittatore trascorre la Seconda guerra mondiale tra carceri e campi di concentramento, come conseguenza della militanza politica, riuscendo a superare indenne la dura detenzione. Terminata la guerra e divenuta la Romania un satellite dell’Unione Sovietica, l’agitatore di piazze, nominato segretario dell’organizzazione giovanile del Partito Comunista nell’immediato post-scarcerazione, viene dapprima messo a capo del ministero dell’Agricoltura e dipoi alla vicedirezione del ministero delle Forze Armate. Dei ruoli di rilievo, che Ceaușescu avrebbe ricoperto nonostante l’inesperienza, perché entrato nelle grazie dell’allora segretario del Partito Comunista, Gheorghe Gheorghiu-Dej, conosciuto nel lager di Târgu-Jiu.

La mina vagante del blocco sovietico. Nel 1965, alla morte dell’amico e compagno Gheorghiu-Dej, Ceaușescu viene eletto primo segretario del Partito Comunista. La Romania, di lì a poco, sarebbe divenuta ufficialmente una repubblica socialista e Ceaușescu il suo Conducător. Le cose, però, non sarebbero andate come preventivato dal Cremlino. Perché il contadino divenuto capo di Stato, pur essendo un comunista della prima ora, nonché uno zelota con il culto di Carlo Marx avente in odio Cristianità e Capitalismo, era e restava soprattutto un figlio della Muntenia, nato e cresciuto con il mito della România mare (let. Grande Romania). L’Unione Sovietica avrebbe compreso rapidamente il pericolo rappresentato dal fenomeno Ceaușescu, cominciando a temere per una Iugoslavia due e a lavorare occultamente per un cambio ai vertici della piramide comunista rumena. Contrario alla dottrina della sovranità limitata, il capo di Stato della Romania avrebbe rifiutato di partecipare all’operazione Cecoslovacchia e cessato di prendere parte agli incontri del patto di Varsavia, allargando progressivamente i margini di quell’autonomia strategica apparentemente concessa dal Cremlino. Cecoslovacchia a parte, Ceaușescu si sarebbe distinto dal resto del Secondo Mondo per una serie di politiche estere coraggiose e controcorrente, tra le quali il mantenimento in essere di relazioni diplomatiche con Israele, la prosecuzione dei rapporti bilaterali con il Cile dopo l’ascesa di Augusto Pinochet, lo stabilimento di un partenariato con la Comunità Europea nel 1974 – una prima storica per una nazione comunista – e la partecipazione alle Olimpiadi di Los Angeles. Nonostante il distanziamento dalla casa sovietica in materia di relazioni internazionali, Ceaușescu non avrebbe alterato nulla a livello di architettura interna del regime politico: lotta senza quartiere alla Chiesa ortodossa, censura dell’informazione, repressione delle libertà personali, consolidamento di uno stato poliziesco affidato alla temibile Securitate e nazionalizzazione delle masse. Perché l’obiettivo dell’incompreso Ceaușescu, lungi dall’essere l’occidentalizzazione della Romania, era la sua desatellizzazione dall’orbita sovietica in conformità con l’anelito di innalzarla al rango di potenza regionale totalmente autonoma da entrambi i blocchi.

La lunga marcia verso la fine. Le contraddizioni dell’impossibile equilibrismo di Ceaușescu sarebbero emerse con forza nel corso degli anni Ottanta, ovvero con l’entrata del mondo comunista in una fase di stagnazione, da Mosca a Varsavia. E la piccola Bucarest, guidata da uno statista tanto ambizioso politicamente quanto impreparato economicamente, sarebbe uscita distrutta da quell’inverno di stasi suicida. Costantemente impegnato ad amicarsi le élite politiche e i circoli intellettuali dell’opulenta Europa occidentale, in particolare di Francia e Regno Unito, Ceaușescu avrebbe gradualmente e fatalmente perduto il senso dell’orientamento e il contatto con la realtà, risultando completamente cieco dinanzi al depauperamento della popolazione causato dalla stagnazione economica e dal crescente scarseggiare dei beni. Con in mano una nazione indebitata con gli istituti di credito occidentali per via della concessione di maxi-prestiti male utilizzati e delle opere faraoniche utili soltanto a saziare il suo ego smisurato – come la celeberrima Casa del Popolo (Casa Poporului) – e ad affrontare improbabili guerre – la zigzagante Transfăgărășan fu costruita perché il presidente rumeno era convinto che fosse alle porte un’invasione sovietica dalla Moldavia, ragion per cui lasciò in stato di sotto-infrastrutturalizzazione la Romania nordorientale –, il Conducător si sarebbe ritrovato ad affrontare una rivoluzione ai primordi del 1989. Isolato dallo stesso Partito – evento spartiacque sarebbe stata la Lettera dei Sei, un vero e proprio ultimatum lanciato dai colleghi esasperati dalla sua patologica derealizzazione –, abbandonato da quell’Occidente al quale si era rivolto per emancipare Bucarest dal soggiogamento sovietico – le “radio della Cia”, cioè Voice of America e Radio Europa Libera, avrebbero giocato un ruolo fondamentale nell’aiutare i dimostranti ad aggirare la sorveglianza della Securitate – e divenuto il simbolo di una rivoluzione tradita agli occhi della popolazione, Ceaușescu avrebbe rapidamente perso il controllo della situazione. Catturato nel corso di una rocambolesca fuga in compagnia della fedele moglie, il presidente rumeno fu condannato alla fucilazione da un tribunale militare improvvisato. L’esecuzione dei due coniugi sarebbe avvenuta simbolicamente il giorno di Natale, il 25 dicembre, consacrando l’entrata della Romania in una nuova era e consegnando Ceaușescu alla storia.

Capire la Ceaușescu-mania. La storia sembra aver dato ragione a quei pochi scettici che quel lontano Natale del 1989 si opposero alla condanna a morte del presidente e di sua moglie, ritenendo che il processo fosse stato una farsa e che delle menti raffinatissime fossero dietro all’escalation di violenze, alle morti sospette e ai massacri indiscriminati dei dimostranti. Quel 25 dicembre, si sussurravano tra loro i più diffidenti, non avrebbe avuto luogo una rivoluzione genuina, ma un colpo di Stato sotto copertura concepito dalla Securitate e dal Partito Comunista, entrambi in combutta con la decadente ma vendicativa Unione Sovietica. E i fatti successivi, di nuovo, sembrano avergli dato ragione: Indagini ufficiali hanno confutato la teoria secondo cui l’allora ministro della difesa Vasile Minea, morto nei giorni febbrili della fuga dei Ceaușescu, sarebbe stato assassinato su ordine del dittatore. La sua dipartita prematura contribuì in maniera determinante in sede di processo, ma autopsie e testimonianze hanno smentito gli accusatori del defunto presidente: non fu omicidio, ma suicidio. Con il tempo hanno trovato fondamento e riscontro i rapporti di tutti quegli addetti alla sicurezza che all’epoca della rivoluzione denunciarono la presenza di disturbatori ed agenti provocatori tra i manifestanti – si vedano, a questo proposito, le testimonianze dei colonnelli Filip Teodorescu e Dumitru Burlan. I registi della destituzione di Ceaușescu, che di lì a breve avrebbero costituito il Fronte di Salvezza Nazionale e assunto il controllo totale della vita politico-economica della nazione, negli anni successivi alla rivoluzione sono divenuti a loro volta vittime di processi e scandali relativi al ruolo giocato nei massacri di civili – in principio imputati al dittatore – e alle connessioni con il Kgb. Tra i più celebri rivoluzionari travolti dagli eventi figura Ion Iliescu, il padre della transizione democratica, che i cospirazionisti ritenevano un agente del Kgb da prima che emergessero prove a suo carico. Un dittatore incolto, brutale e con il vizio del nepotismo, dunque, ma anche terribilmente ingenuo, inverosimilmente onesto – il famoso “tesoro nascosto” non è mai stato ritrovato – e votato alla traslazione in realtà di quel sogno senza tempo che è la România mare; queste le ragioni alla base della sua riabilitazione post-mortem. Una riabilitazione, quella di Ceaușescu, che è genuina, dal basso – anche perché l’apologia di quell’epoca è vietata e punita severamente per legge – e apparentemente irrefrenabile – perché i sondaggi dipingono una crescente nostalgia verso il dittatore, che, oggi, risulta apprezzato da due rumeni su tre. Una riabilitazione che, forse, sta avendo luogo perché considerato più ingenuo che colpevole, forse perché la corruzione è divenuta un problema endemico nella Romania contemporanea o forse perché, nonostante le debolezze, i crimini e le brutalità, la sua figura sta venendo crescentemente inquadrata e interpretata all’interno di quel contesto intriso di violenze, misteri e complotti che fu la Guerra fredda.

·        Quei razzisti come i bulgari.

Disinfettante dagli elicotteri nei ghetti Rom: «Qui si muore anche senza il Covid, ci è rimasta solo la miseria». Sono centinaia di migliaia, discriminati anche per la pandemia. Senza assistenza medica né mascherine. E ora non si fidano delle vaccinazioni. Floriana Bulfon su L'Espresso il 03 agosto 2021. Un rombo, gli occhi che puntano su e all’improvviso dal cielo cade una nuvola. Avvolge i tetti di lamiere, impregna le strade che si fanno fango, penetra dentro alle narici. Una pioggia di disinfettante si appiccica sulle persone. In Bulgaria i Rom sono centinaia di migliaia, tra il 5 e il 10 per cento della popolazione, ma vivono isolati nella povertà, relegati oltre i confini dei diritti e così durante la pandemia le autorità hanno persino deciso di sanificare il loro ghetto con gli elicotteri, senza distinguere tra oggetti e esseri umani. Una misura voluta per contenere il contagio e che rievoca le immagini dell’ingegneria dello sterminio nazista. «Ogni ricordo ne nasconde un altro, ogni croce un’altra, ogni urlo un urlo precedente», recita un verso di Mariella Mehr, la poetessa di etnia nomade Jenisch, vittima da bambina del programma eugenetico promosso dall’associazione svizzera Pro-Juventute. Violenze e persecuzioni per divorare un popolo considerato non “conforme alla norma”. Gli ultimi tra gli ultimi che oggi il virus sta spingendo ancor più nell’ombra. Siamo nell’Unione europea, ma qui il diritto alla salute non esiste. «Qui non entra nemmeno l’ambulanza e si muore anche senza il Covid-19 perché ci è rimasta solo la miseria». Dimitrov ha cinquant’anni e la rabbia che esplode da un corpo contorto dalla fatica. Accanto a lui un bambino nudo sprofonda ad ogni passo tra pile di legno e rifiuti. Alle porte di Sliven, una cittadina con i viali e le aiuole curate resa famosa dalle battaglie degli Haiduts contro i turchi ottomani, basta oltrepassare il tunnel della ferrovia per immergersi nell’inferno. Nel campo di Nadejda vivono segregate oltre 20mila persone. La situazione sanitaria era disastrosa già da prima, con la morte infantile di cinque volte superiore rispetto alla media nazionale, ma ora è catastrofica. Le stratificazioni di baracche e casupole tirate su con quel che si ha rendono il distanziamento impossibile; in tanti hanno perso lavori saltuari senza ricevere alcun ristoro per i lockdown e nel frattempo si sono consumate nuove discriminazioni che hanno reso ancor più fragile la fiducia. «Non credo ai dottori e agli ospedali», taglia corto Nadia.  Li ha visti una sola volta, quando l’hanno portata per partorire «messa nella stanza con altre donne Rom perché non ci vogliono con gli altri, non è concesso mescolarci. Dobbiamo stare qui senza farci vedere», chiarisce. Nadia ha poco più di vent’anni e il suo terrore ora sono i vaccini. Dopo quello che ha subìto non crede sia sicuro farselo iniettare e convincerla non è semplice. Hristo Petrov Nilolov, il rappresentante della comunità Rom di Samokov e mediatore per le politiche sanitarie presso il ministero della Sanità bulgaro, ogni giorno attraversa i quartieri del suo popolo parlando di vaccinazione, ma si scontra contro muri di disperazione: «Molti rifiutano. Sono spaventati. Credono che il sistema sanitario li voglia uccidere. Questo è il risultato di politiche senza una strategia per l’integrazione. Hanno puntato il dito contro di noi accusandoci di diffondere le malattie, di essere un vettore di contagio». In un Paese che li ha sempre trattati come cittadini di rango inferiore, la sfiducia è speculare alla propaganda di politici come il leader del Fronte nazionale per la salvezza della Bulgaria, Valeri Simeonov, che li ha definiti «umanoidi selvaggi», mentre il vice primo ministro per l’ordine pubblico e ministro della Difesa Krasimir Karakachanov li bolla come «zingari non socializzati» che, come scrive il New York Times, tanto ricorda la definizione di «zingari asociali» coniata dai regimi degli anni Trenta. «Come si fa a vivere così?», chiede Nadia ora che si sta consumando l’ultimo esempio di una lunga storia di discriminazione. Se ne sta stretta nella sua baracca tra la stufa a legna e le vecchie bambole ormai senza capelli e vestiti.  Anche oggi dal rubinetto non esce acqua per lavarsi e così con le taniche è costretta a inerpicarsi lungo un sentiero tra le lamiere. La figlia di pochi anni la segue poggiando i piedi scalzi tra pietre e rovi. Nadia un tempo faceva le pulizie part-time, un lavoro in nero, ma poi con la pandemia l’hanno rinchiusa dentro al campo e tutto è andato perso. «La polizia ci ha impedito persino di uscire come se fossimo noi a portare il virus. L’ennesima persecuzione del nostro popolo», racconta Emil Mihailov, sessantenne nato e cresciuto a Fakulteto, un ghetto nella parte ovest della capitale dove sono ammassati in 45mila. Serrati qui con la ciminiera della centrale elettrica che spande fumo e i palazzi del potere di Sofia lontani. Qui le mascherine e i disinfettanti non sono mai arrivati. «Li abbiamo comprati con i soldi spediti dalla comunità Rom nel mondo», sostiene Emil. Jonathan Lee, il portavoce del Centro europeo per i diritti dei Rom (European Roma Rights Centre) la definisce «la tempesta perfetta perché le misure di restrizione per il Covid-19 hanno esacerbato il livello di razzismo istituzionale che era già diffuso: alle consuete violazioni dei diritti umani riservate ai Rom si sono sommate quelle relative all’epidemia. Quando sono stati identificati i primi contagi nella comunità, interi quartieri sono stati messi in quarantena, presidiati dai check point dei militari, hanno persino usato un drone per misurare la temperatura dei residenti e spruzzato disinfettante dal cielo». Lo stigma e la disumanizzazione. «Nessun altro quartiere è stato trattato in questo modo», sottolinea Miglena Mihaylova del movimento Roma Standing Conference- «Non hanno bloccato o “sanificato” con gli elicotteri altre comunità. Hanno introdotto divisioni inutili e dannose suggerendo che noi siamo un pericolo per il resto della società in quanto vettori esclusivi del virus». Il diverso presentato come untore. Gettandolo in una povertà ancora maggiore. La crisi economica ha messo la comunità in una situazione insostenibile, i giovani cercano di emigrare all’estero. Come Vasil che vorrebbe «andare in Italia, a Roma, dai parenti, perché forse lì non ci discriminano e posso lavorare». Ma tra le lamiere più in là irrompe una voce: «Italiana? Borgo Mezzanone, ancora aspetto che mi paghi…». Aasen Plamenov Arvel vive in sei metri quadri insieme alla moglie Ratka, tre figli e la suocera malata. Una casetta di mattoni recuperati, il tetto di amianto e il bagno fuori. Un solo letto e gli altri per terra, ma ha messo la carta da parati con i fiorellini e appeso la foto del matrimonio anche se tutto s’è intriso di muffa. Sogni svaniti come quel lavoro nelle campagne italiane.  Aasen come tanti è partito da qui per raccogliere pomodori a tre euro l’ora. Con il pulmino e un viaggio di ore, da ghetto a ghetto: «Cento euro per dormire insieme agli altri, cibo a parte. E chi ti porta che prende i soldi: 300 euro per il viaggio. Ratka invece è rimasta a casa perché se non sei “disponibile” con il padrone rischi di perdere il posto», racconta. Quel padrone che non ha pagato Aasen per il suo lavoro e alla fine lui è tornato indietro, poi è piombata la pandemia e si è ritrovato chiuso qui, dietro a un muro così alto da oscurarlo dalla vista. Qui dove internet continua a non funzionare e seguire le lezioni a distanza per molti studenti, spesso privi di computer, è stato impossibile. «Mi sento isolato dal resto del mondo solo perché sono Rom», rivela Kevin a dieci anni. Eppure i Rom, in Bulgaria come in altri Paesi europei, «hanno una popolazione demografica più giovane della media, un grande potenziale che i governi nazionali potrebbero utilizzare per la crescita e lo sviluppo delle loro società e dei loro paesi», ragiona Miglena Mihaylova. Invece Kevin e i suoi coetanei si ritrovano tagliati fuori, intrappolati nella miseria. «Già prima era difficile farcela, con il virus sta diventando impossibile», spiega  Alexander, il figlio di Emil, che lavora nella municipalizzata che si occupa di rifiuti. «Io ho studiato, mi sono diplomato ma ci ho messo anni per provare di essere un buon impiegato, molto più tempo dei miei colleghi per farmi dare degli incarichi di fiducia. Tutti erano preoccupati che rubassi qualcosa». E intanto, come ha svelato di recente un’inchiesta della sezione bulgara di Radio Free Europe/Radio Liberty, quando ci sono le elezioni i loro voti vengono estorti in cambio della promessa di un allaccio alla rete elettrica o idrica. A Fakulteta c’è il fornaio, un piccolo supermercato costruito dentro una casetta sbilenca: «Tutto fatto da noi», tengono a precisare con un orgoglio disperato. E ogni tanto appare un portone d’oro, inferiate, leoni e capitelli. Il più imponente, un vero e proprio castello, appartiene alla famiglia di Kiril Kirov detto “Kiro Yaponetza” perché dicono che assomiglia a un giapponese, ma lui non si fa mai vedere. Ha la fama dell’intoccabile e immortale. Hanno provato anche a sparargli in testa, ma si è salvato. È stato arrestato per possesso illegale di armi e riciclaggio ma senza condanne definitive e il traffico di droga rimane solo un sospetto. Ufficialmente possiede un’azienda di costruzioni e qui tra il fango ha eretto anche la villa a due piani dove si celebrano battesimi e matrimoni. Una magione le cui mura bianche campeggiano in mezzo al fango. Più in là una delle tante chiese evangeliche.  «Qui non crediamo al coronavirus, crediamo in Gesù», dice un ragazzo. Qui dove l’acqua corrente è un lusso a qualche metro dalle vetrine dei caffè e dagli hotel a cinque stelle. Qui dove restano gli ultimi d’Europa. 

Abusi su bambini, condannata la Bulgaria: «Ignorate le segnalazioni dei giudici italiani». Secondo la Corte europea dei Diritti dell'Uomo Sofia non ha indagato. E risulta centrale il ruolo dell'associazione milanese Aibi nel creare «un'atmosfera di conflitto» che non ha favorito l'inchiesta. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 04 febbraio 2021. Le denunce di abusi trasmesse dalla magistratura italiana non andavano subito archiviate. Le agghiaccianti testimonianze di tre bambini, che avevano sofferto violenze sessuali atroci insieme con altri coetanei in un orfanotrofio bulgaro, erano credibili e circostanziate. I piccoli avevano cominciato a confidarsi con gli psicologi incaricati dalla famiglia adottiva, dopo la loro adozione in Italia conclusa nel 2012 con l'intermediazione dell'associazione “Aibi – Amici dei bambini” di Milano. E avevano poi confermato le loro parole davanti al pubblico ministero di una Procura per i minorenni che, seguendo le procedure internazionali, aveva trasmesso gli atti a Sofia. Il fascicolo giudiziario raccontava di bimbi violentati anche da adulti, che in alcune occasioni avrebbero filmato le aggressioni. Per questo il 2 febbraio la Grande Camera della Corte europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato la Bulgaria, accogliendo l'impugnazione contro una prima decisione della Corte che aveva respinto il ricorso dei genitori adottivi. Secondo la maggioranza dei giudici, le autorità di Sofia «che non si sono avvalse delle indagini disponibili e dei meccanismi di cooperazione internazionale, non hanno assunto tutti i provvedimenti ragionevoli per far luce sul caso e non hanno svolto un'analisi completa e attenta delle prove consegnate loro. Le omissioni osservate», spiega una nota della Corte europea, «sono apparse sufficientemente gravi per ritenere che l'inchiesta svolta non sia stata efficace secondo le finalità dell'articolo 3 della Convenzione, interpretato alla luce delle altre disposizioni internazionali e in particolare della Convenzione di Lanzarote».

TRATTAMENTI INUMANI E DEGRADANTI. La Bulgaria, secondo la Grande Camera, ha quindi violato la Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo, che all'articolo 3 sancisce che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Tanto più se si tratta di minori che all'epoca avevano meno di dieci anni. Lo Stato bulgaro dovrà quindi risarcire entro tre mesi con una somma complessiva di trentaseimila euro i tre bambini, assistiti dall'avvocato Francesco Mauceri. I giudici, anche per la mancanza di indagini approfondite, non sostengono che le violenze denunciate siano effettivamente avvenute e che quindi vi sia stata una violazione della parte sostanziale dell'articolo 3. Stabiliscono invece che la Bulgaria ha violato la parte procedurale che avrebbe dovuto accertare l'eventuale violazione sostanziale dello stesso articolo. Un principio che riguarda gli Stati, ai quali però non deve sottrarsi la piena collaborazione delle associazioni di intermediazione che, nelle adozioni internazionali, operano su autorizzazione e in rappresentanza dei rispettivi governi.

LA TEORIA DETTATA DA MILANO. Tra le novantotto pagine delle motivazioni , il giudizio non appellabile della Grande Camera dedica interi paragrafi alla condotta dell'associazione Aibi-Amici dei bambini, che ha sede a San Giuliano Milanese ed è sostenuta da famosi testimonial del mondo della politica, dello spettacolo e dello sport. «La conclusione della Grande Camera», annotano in un parere congiunto i giudici Turković, Pinto de Albuquerque, Bošnjak e l'italiano Raffaele Sabato, «potrebbe essere integrata, secondo il nostro punto di vista, dalla considerazione che il ragionamento adottato dalle autorità giudiziarie bulgare e dall'Agenzia di Stato per la protezione dell'infanzia ha sostanzialmente ribadito la teoria anticipata dall'associazione che aveva agito come intermediaria per l'adozione». «I rappresentanti di quell'associazione», spiegano i giudici riferendosi ad Aibi, «quando i genitori adottivi si sono rivolti a loro dopo la prima rivelazione degli abusi, hanno cominciato a esprimere l'opinione che i genitori non fossero idonei ad adottare i bambini, sulla base del loro comportamento durante un incontro organizzato dall'associazione il 2 ottobre 2012. La Corte non ha potuto accertare se la relazione su questa riunione tra il personale dell'associazione, i genitori e i bambini fosse autentica, dato che... i ricorrenti hanno prodotto un rapporto di polizia che attesta che tre rappresentanti dell'associazione avevano dovuto fornire prova della loro firma, e riconosce che la relazione riporta tre firme diverse, tutte scritte dalla stessa mano».

LA RELAZIONE RITOCCATA. «Inoltre», osservano i giudici della Grande Camera, «la relazione apparentemente mostrava discrepanze nel testo, sotto forma di aggiunte e cancellature, che la Corte non è stata in grado di verificare. Indipendentemente dal fatto che le autorità bulgare sapessero fin dall'inizio di questa presunta falsificazione, ci appare evidente che la contraffazione del documento è stata discussa dai ricorrenti innanzi la Grande Camera senza che il governo rispondesse sul punto. Questa circostanza, insieme con il fatto che l'associazione ha incontrato i rappresentanti delle varie autorità coinvolte... e ha redatto un rapporto molto critico sul resoconto dei genitori adottivi, trasmettendolo poi al Tribunale per i minorenni... testimonia il ruolo centrale svolto dall'associazione nel creare un'atmosfera di conflitto che non ha favorito l'avvio di indagini efficaci». «La Corte» proseguono i giudici nella sentenza, facendo sempre riferimento ad Aibi, «si è inoltre rammaricata del fatto che l'associazione che ha agito da intermediaria dell'adozione nei confronti delle autorità dello Stato convenuto, aveva inviato alla Corte una nota in cui esprimeva l'opinione che i genitori erano inadatti come genitori adottivi perché – secondo l'opinione dell'associazione – avevano innescato un processo di denuncia su abusi che non esistevano, con lo scopo di denigrare la procedura che aveva portato all'adozione. Il contenuto di questa decisione, a nostro parere, rafforza l'idea che le rivelazioni dei minori fossero credibili, e [quindi] l'approccio dell'associazione è stato ufficialmente respinto».

NON ERA SESSUALITA' PRECOCE. L'orfanotrofio degli orrori era stato raccontato in un'inchiesta de L'Espresso e successivamente chiuso. L'associazione Aibi, che opera su autorizzazione del governo italiano, non ha risposto alla nostra richiesta di un commento. «Un'ultima osservazione», concludono i giudici della Grande Camera, «deve essere fatta, a nostro avviso, in merito alla considerazione che gli eventi fossero un “semplice” fenomeno di sessualità precoce, dovuto al fatto che i bambini vivono insieme in un orfanotrofio. Secondo questo punto di vista, di conseguenza non c'era nessuna necessità di indagare, poiché soltanto i minori erano responsabili per i contatti sessuali e nessuna responsabilità penale sarebbe imputabile a loro. In primo luogo, notiamo ancora una volta che questa era la teoria sostenuta dall'associazione che ha operato come intermediaria nell'adozione», evidenziano i giudici della Grande Camera della Corte di Strasburgo, riferendosi sempre ad Aibi: «In secondo luogo, ci sono state segnalazioni, anche nelle prime rivelazioni, di contatti sessuali violenti avviati da minori. A questo proposito, dobbiamo sottolineare che anche importanti norme internazionali considerano la violenza inflitta da coetanei come violenza contro i minori e che in questi casi la responsabilità penale non è dei bambini violenti, ma di coloro che hanno il compito di sorvegliarli e di prendersi cura di loro».

IL RAPPORTO DI POLIZIA. La procura e il tribunale per i minorenni che avevano ritenuto credibile la denuncia dei tre bambini, hanno inoltre stabilito la piena idoneità dei genitori adottivi che, secondo la Corte di Strasburgo, Aibi aveva definito inadatti. Ma come è accaduto in Bulgaria, la magistratura italiana che si occupa del comportamento degli adulti ha archiviato tutte le numerose denunce presentate negli anni contro l'associazione milanese, per presunte irregolarità nelle procedure di adozione. È finito in archivio lo stesso rapporto di polizia che a Roma attestava le «tre firme diverse, tutte scritte dalla stessa mano»: compaiono in fondo alla relazione consegnata alla magistratura minorile dai vertici di Aibi, che in quel momento agivano davanti all'autorità giudiziaria nelle loro funzioni di ente autorizzato dal governo italiano. Questa l'insolita motivazione con cui un pubblico ministero ordinario ha chiesto e ottenuto l'archiviazione: «Resta da considerare la firma falsa apposta sulla relazione prodotta da Aibi al Tribunale per i minorenni […]. L'unico reato configurabile in tal senso, trattandosi di un atto di parte, è la falsità in scrittura privata non più prevista dalla legge come reato».

·        Quei razzisti come gli inglesi.

Inglesi e padani. Quello che sono e quello che appaiono.

Oggi 12 luglio 2021. All’indomani dello spettacolo indegno del razzismo inglese contro gli italiani, ma ancor più grave, contro i loro neri che hanno sbagliato i rigori.

I tifosi inglesi hanno dileggiato l’inno e la bandiera italiana e picchiato gli italiani allo stadio.

I giocatori hanno rifiutato la medaglia ed i reali hanno rifiutato di premiare gli avversari.

Gli arroganti se ne fottono se gli altri del Regno Unito tifavano contro di loro.

Così era in tutta Europa.

Essere Razzisti significa essere coglioni (cafoni ignoranti).

La mia constatazione: gli italiani ed in special modo i meridionali nel ‘900 erano poveri, ignoranti e cafoni. E ci stava sopportare le angherie.

La mia domanda è: nel 2021 cosa costringe la gente italiana e meridionale scolarizzata ed emancipata ad essere sfruttata e votata ad arricchire dei coglioni?

Per poi diventare come loro?

Return Home- tornate a casa. Create ricchezza nel vostro paese. Lì, al nord o all'estero, sarete sempre dei profughi.

Hanno solo i media che li esaltano e per questo si decantano. Ma la loro natura la si conosce quando perdono: non sanno perdere, perché si sentono superiori. Peccato che non lo sono. Forse nel ‘900. Non nel 2021.

Ricordate: da loro si va solo per lavorare e non per visitare. Per questo sono cattivi.

Da noi si viene (forse in troppi) per vivere bene e conoscere la bellezza che loro non hanno. Per questo siamo buoni.

Il "Mezzouomo" che ha sconfitto l'Inghilterra. Lorenzo Vita il 25 Dicembre 2021 su Il Giornale. Senza una gamba, un braccio e un occhio, Blas de Lezo è stato uno dei più grandi marinai della storia spagnola. E a Cartagena de las Indias inflisse una sconfitta durissima alla flotta britannica. La sua storia inizia a Pasaja, un villaggio della provincia basca di Gipuzkoa, quella che in spagnolo è nota come Guipúzcoa. Un'insenatura sull'oceano, una comunità di pescatori e marinai, impegnato da quasi due secoli nel commercio con quelle che erano chiamate le Indie. Ed è qui, fra la salsedine, le storie di mare e quelle avventure raccontate nelle osterie basche da chi magari faceva fortuna con il contrabbando tra Francia e Spagna, che il 3 febbraio 1689 nasceva un uomo che avrebbe impresso il suo nome nella storia della Armada spagnola. E siccome il 3 febbraio si festeggiava, allora come oggi, San Biagio, i suoi genitori decisero di chiamarlo come il santo, o meglio Blas, Blas de Lezo y Olavarrieta. Un nome che per i nemici del regno di Spagna divenne presto sinonimo di sconfitta, o di morte.

Una vita votata al mare

La sua vita fu costellata di battaglie. Non un semplice comandante, ma un uomo che aveva fatto della guerra in mare la sua stessa esistenza. Tra le onde del Mediterraneo e dell'Oceano, sopra le tavole di legno dei suoi galeoni, Blas del Lezo sacrificò tutto, fino al suo stesso corpo. Un corpo che divenne presto talmente martirizzato da diventare l'immagine perfetta della carriera militare di quel basco, e che, parte dopo parte, venne persa dall'ammiraglio tra palle di canone e schegge volate via da navi e fortezze.

La prima grande battaglia combattuta da Blas fu quella di Vélez-Malaga, nel 1704. La più grande battaglia navale della guerra di successione spagnola. La flotta ispano-francese affrontava una squadra composta di navi inglesi e olandesi al largo della Spagna, non lontani da Gibilterra. La battaglia fu vinta in modo abbastanza incerto dalle marine di Francia e Spagna, ma Blas subì la prima terrificante perdita. Una palla di cannone gli strappò una gamba, costringendolo a una amputazione senza alcun tipo di anestesia all'altezza del ginocchio. Un dolore che però non era riuscito a piegare il futuro ammiraglio, a tal punto che gli stessi francesi, sorpresi dal suo coraggio, decisero di premiarlo, così come fece il re di Spagna.

La carriera di Blas de Lezo a quel punto diventò quella di un uomo di mare che a molti lettori potrebbe ricordare il capitano Achab di Moby Dick, il romanzo di Herman Melville. Come Achab, anche Blas inseguì e combatté (per ordine di Sua Maestà) chi gli aveva strappato una gamba. Ma invece di una terribile balena bianca, questo nemico aveva le fattezze ben più complesse e articolate della Marina inglese. Un impero che sarà sempre il vero nemico dell'uomo arrivato da Pasaja.

La caccia agli inglesi di Blas de Lezo

Da quella battaglia di Velez-Malaga, la sua vita fu una continua caccia agli inglesi, dal Mediterraneo alle coste dell'America Latina, e contro tutti i nemici della corona di Spagna. Combatté da Genova a Barcellona, da Palermo a Maiorca, da Orano, sulle coste algerine, fino al Perù (dove sposò Josefa Mónica Pacheco Bustios) e Cuba, dove era stato mandato per liberare i Mari del Sud dall'incubo dei pirati. Non vi era un luogo dell'universo ispanico in cui Blas de Lezo non aveva avuto modo di combattere, di dimostrare le sue qualità strategiche e le sue doti da marinaio e combattente.

La vita a quel punto divenne presto quella di una leggenda vivente. La sua figura - di uomo senza una gamba, poi senza avambraccio destro e infine senza un occhio, il sinistro, probabilmente perso nel Pacifico contro un comandante francese - trasformò quel nome in un essere quasi mitologico. Iniziarono presto a chiamarlo con soprannomi che oggi definiremmo certamente non "politically correct", da "Gamba di legno" a "Mezzouomo". Nomignoli che possono ritenersi feroci e offensivi, ma che a quel tempo servirono ad ammantare l'ammiraglio Blas de Lezo di un'essenza più romanzesca che reale. Nessuno poteva credere che un uomo così fosse in grado di combattere. Eppure la leggenda iniziò presto ad anticipare anche l'arrivo dello stesso comandante, spesso con una fama anche ben superiore rispetto alle reali - pur sorprendenti - qualità del personaggio. In tanti, tra gli storici, cercano oggi da un lato di recuperare una figura per molti decenni quasi dimenticata, dall'altro di depurarla da episodi non confermati o storie che nei secoli si sono sedimentate a tal punto da creare una vera e propria "vulgata" sul comandante basco.

Cartagena de las Indias

Una vita che terminò in battaglia, in quella che probabilmente è ricordata come la sua più grande operazione bellica: la vittoria contro gli inglesi nell'assedio di Cartagena de las Indias, oggi in Colombia. A quell'epoca, la guerra commerciale tra Impero britannico e spagnolo coinvolgeva tutti i mari dei Caraibi. Corsari e flotte regolari si scontravano regolarmente, e al commercio legale si univa il contrabbando e la guerra per catturare più navi possibili al nemico. A scatenare definitivamente le ire di Londra fu un episodio in particolare, che coinvolse un certo Robert Jenckins, mercante e contrabbandiere britannico. La nave spagnola La Isabela, al comando di Juan de León Fandiño, catturò l'imbarcazione rivale e si decise per tagliare un orecchio all'inglese. Si racconta che il comandante spagnolo, guardando il sanguinante Jenckins, gli disse: "Vai a dire al tuo re che gli farò lo stesso se osa fare lo stesso". La leggenda narra che Jenckins andò davvero a Londra presentando il suo orecchio al parlamento britannico. Ma al netto di questa eventualità, quello che è certo è che la corona inglese inviò la sua flotta per colpire vari porti spagnoli dell'America.

Nel 1741 le squadre britanniche arrivarono anche a Cartagena de las Indias, al comando dell'ammiraglio Edward Vernon, che per un curioso caso della storia combatté contro Blas nella battaglia di Malaga. Vernon aveva con sé 186 navi e 30mila soldati. Lezo, insieme al viceré Sebastián de Eslava (figura spesso mitizzata, al contrario, come antagonista) poteva contare solo su poco più di 3500 soldati, tra cui centinaia di nativi poco equipaggiati, e su sei navi. Tutto sembrava far presagire una vittoria schiacciante delle forze inglesi, e invece Lezo mise in atto una serie di tattiche che annientarono gran parte del vantaggio britannico e che vennero accettate - pur suo malgrado - dal viceré e comandante in capo della roccaforte. L'ammiraglio, rafforzato il forte di San Felipe, decise di distruggere alcune navi per impedire il passaggio della flotta avversaria e per evitare che gli inglesi ne prendessero possesso. I passaggi lasciati liberi al nemico per assediare la roccaforte erano in aree acquitrinose infestate dalle zanzare, con la malaria che in pochi giorni iniziò a mietere le loro prime vittime. Si dice anche che Lezo utilizzò falsi informatori per dare notizie sbagliate a Vernon. Il forte, difeso da un fossato ampliato per evitare che potesse essere preso dall'esterno, divenne presto un baluardo fatto di cannoni e uomini armati di machete e fucili. E mentre gli spagnoli continuavano a martellare le navi inglesi, gli uomini che provavano a assediare la fortezza morivano per malattia o ferite.

Leggende e "damnatio"

La grande vittoria di Cartagena, arrivata con l'abbandono dell'ultima nave di Londra il 20 maggio 1741, fu anche l'ultima battaglia dell'ammiraglio. Durante le prime settimane dell'assedio, infatti, una scheggia di legno si infilò nella carne di Blas de Lezo, provocandogli la cancrena e una malattia che lo condusse alla morte dopo pochi mesi. Mai ricompensato per quella vittoria, che prolungò di qualche decennio il dominio ispanico sui Caraibi, fu così costretto a subire quasi una damnatio memoriae dai suoi nemici a corte. Le sue spoglie, come scrive il quotidiano spagnolo Abc, dovrebbero riposare nel convento di Santo Domingo de Cartagena de Indias, ma per molto tempo non si è saputo nemmeno dove fossero. Nei secoli, su quella battaglia sono sorte alcune leggende. C'è addirittura chi raccontava che in Inghilterra fosse stato vietato il solo parlare di quello scontro, mentre altri raccontavano la leggenda di una serie di monete commemorative fatte coniare prima che Vernon informasse sul risultato dell'assedio. Leggende che hanno continuato per secoli a unirsi alla storia, vera e spesso dimenticata, di un basco che difese ovunque la corona spagnola. Un uomo votato al mare e che ha trovato la sua fine ma anche la sua eternità, nell'eterna lotta contro il suo nemico di sempre.

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta tra cuore e testa. Ho scritto un libro: "L'onda turca"

Per Boris 7 figli (e 7 feste a inguaiarlo). Gaia Cesare il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Si allarga lo scandalo dei party di Natale in lockdown. Il primo ministro nella bufera. E siamo a quota 7. Che è il numero dei figli di Boris Johnson dopo la nascita ieri di una bimba, secondogenita del primo ministro inglese e della moglie Carrie Symonds. Ma è anche il numero delle feste di Natale che, a distanza di un anno dal loro presunto svolgimento, rischiano di inguaiare il primo ministro. Il punto è che i party di fine 2020 sarebbero avvenuti mentre il Paese era in lockdown e gli incontri al chiuso vietati. Johnson ha negato fino a mercoledì, in Parlamento, che si siano persino svolti, riferendo le rassicurazioni del suo staff. Ma a uno di questi eventi Boris potrebbe aver partecipato, circostanza che aggiungerebbe benzina al fuoco dell'indignazione contro il governo e il suo capo. Nel giorno in cui il premier ha festeggiato l'arrivo di una baby-Johnson, sorella di Wilfred (1 anno), ed erede del premier insieme ad altri 5 figli (4 dalla moglie Marina, un altro da una relazione extraconiugale) contro il primo ministro è partito un fuoco di fila, sintetizzato dalla copertina del Sun, che lo ha rappresentato come il Grinch, sotto il titolo: «Fate come dico, non come faccio io a Natale». Il riferimento è alle nuove restrizioni anti-Covid e al passaggio al piano B da lunedì, a causa della variante Omicron che mette fine alla linea del «liberi tutti». Scotland Yard ha archiviato per ora, per mancanza di prove, l'inchiesta sul presunto party del 18 dicembre, che ha portato alle dimissioni della portavoce del governo, Allegra Stratton. Ma l'indagine interna in mano al segretario di Gabinetto Simon Case rischia di allargarsi certamente a un'altra e fino a 7 feste. Nel partito e nel Paese cresce lo sdegno e avanzano le richieste di dimissioni. Il deputato tory Philip Hollobone parla di «comportamento totalmente inappropriato, possibilmente criminale». Con Omicron che imperversa e la previsione che il Regno Unito arriverà a un milione di casi entro un mese, Boris rischia la decapitazione. Dalla ristrutturazione di Downing Street, per la quale ieri i Tory sono stati multati, allo scandalo del doppio lavoro dell'ex deputato Owen Paterson, fino alle feste di Natale e al Covid, troppe mezze verità e qualche bugia potrebbero essere fatali al premier. Boris annuncia: trascorrerò più tempo in famiglia ma non prenderò la paternità. Urge tenere al caldo la poltrona. Gaia Cesare

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” il 12 dicembre 2021. Boris Johnson si è concesso il congedo paternità, ma mentre il premier si gode assieme alla moglie Carrie e al piccolo Wilfred l'arrivo della figlia nata giovedì, i problemi per il partito conservatore continuano: la nuova crisi, d'immagine, più che altro, visto che il diretto interessato ha ormai cessato di essere un deputato, riguarda Andrew Griffiths, dimessosi nel 2018 per aver mandato a diverse donne messaggi violenti ed espliciti. Circa duemila sms di natura sessuale, stando a quanto è emerso in tribunale. Grazie alle pressioni di due giornalisti, che per un anno si sono battuti per vie legali affinché si potessero conoscere gli intimi dettagli della causa, si apprende ora che Griffiths violentò ripetutamente la moglie nell'arco di un matrimonio brutale durante il quale arrivò a spingerla a terra durante la gravidanza. Vittima per diversi anni di un uomo possessivo e feroce, Kate Griffiths si è ricostruita una vita. Non solo ha divorziato: quando l'ex marito ha cercato di ricandidarsi in parlamento, è scesa in campo contro di lui. Il partito conservatore ha scelto lei e la signora ha, di fatto, rimpiazzato il marito a Westminster per il seggio di Burton upon Trent, nello Staffordshire. Considerando i precedenti dell'uomo, la donna gli ha quindi limitato l'accesso al figlio. La questione sarebbe morta lì, forse, se Griffiths non avesse fatto ricorso ai tribunali per ottenere di vedere il bambino più spesso. Kate Griffiths ha quindi optato di rinunciare all'anonimato cui hanno diritto le vittime di abusi sessuali e chiesto che i trascorsi del marito fossero resi pubblici. Una decisione coraggiosa, che in tanti hanno accolto con ammirazione: come Rosie Duffield, deputata laburista, lei stessa vittima di violenza domestica. «È una donna incredibilmente forte, non ho parole», ha detto. Anche la giudice preposta al caso ha voluto rendere omaggio alla deputata, sottolineando che «non è l'unica donna a essersi innamorata di un uomo e ad aver sopportato trattamenti umilianti e mortificanti. Mi sembra che Andrew Griffiths non abbia mai neanche preso in considerazione che la moglie non volesse prestarsi» alle sue attività sessuali. Griffiths, ha aggiunto, «è un uomo che tuttora non sembra riconoscere che il suo comportamento corrisponde ad abuso». Era solito violentare la moglie mentre dormiva, picchiarla, stringerle il collo con le mani, definirla agli amici «grassa e pigra». Se Kate Griffiths ha deciso, per il momento, di non denunciare l'ex marito alla polizia, è più che probabile che per l'ex deputato si profilino ulteriori guai giudiziari. Charlotte Proudman, l'avvocata che ha difeso la signora Griffiths, ha messo a fuoco alcuni punti cruciali della vicenda con un articolo sul Guardian: Kate non ha lasciato prima il marito perché lui le ha fatto pensare che nessuno le avrebbe creduto. Lui era un deputato, lei una casalinga. Il partito conservatore, inoltre, ha chiuso un occhio. Lo ha sospeso, per poi richiamarlo in servizio quando c'è stato bisogno dei voti in parlamento. Successivamente l'inchiesta interna lo ha assolto completamente di ogni misfatto. 

Cristina Marconi per “il Messaggero” il 16 luglio 2018. Quanto può ancora peggiorare l' estate di Theresa May, premier britannica alle prese con una strenua difesa della sua proposta di soft Brexit contro gli attacchi del fronte euroscettico dei Tories? La domanda se l' è posta The Guardian e effettivamente la situazione, a parte il fatto che per ora la May è ancora in sella, continua a peggiorare. La polvere sollevata dal passaggio del presidente statunitense Donald Trump nel Regno Unito non ha ancora finito di posarsi e già la premier se l' è dovuta vedere con un nuovo problema, ossia il fatto che il suo ex capo di gabinetto e ministro per le piccole imprese, Andrew Griffiths, di 47 anni, abbia dovuto fare un passo indietro per aver mandato duemila messaggi estremamente espliciti a due ragazze della sua circoscrizione, portando il numero di dimissioni nel governo a quattro nel giro di una settimana. Griffiths si è scusato, ma i precedenti degli scandali sessuali di Westminster dove ministri sono stati costretti a dimettersi per aver messo una mano sul ginocchio di una donna rende la sua posizione indifendibile. Tuttavia l'attenzione della May e' tutta sulla Brexit, su cui Trump le avrebbe dato un consiglio molto singolare, da lei disatteso con grande delusione dell'inquilino della Casa Bianca. «Mi disse che avrei dovuto fare causa all' Unione europea. Non andare al negoziato, ma fargli causa», ha riferito la premier durante uno dei programmi politici della domenica mattina, con quella che a tutti è apparsa come una piccola vendetta per il trattamento ricevuto sull' intervista al Sun in cui Trump ha criticato la May e elogiato l'ex ministro degli Esteri Boris Johnson. Il quale, a una sola settimana dalle dimissioni, sta per riprendere il suo lavoro di editorialista del Daily Telegraph, quotidiano conservatore dalle cui pagine potrà continuare ad essere una spina nel fianco per la premier, la quale deve vedersela con critiche da destra e da sinistra sulla sua piattaforma Brexit: da una parte perché renderebbe il Regno Unito uno «stato vassallo» della Ue, costretto a seguirne le regole senza poter decidere niente, dall' altra perché seppur morbido, rappresenta comunque una forma di Brexit. 

LA DIFESA

E proprio su quest' ultimo punto la May ha voluto insistere con i suoi detrattori: «Il mio messaggio al paese questo fine settimana è semplice: non dobbiamo perdere di vista il premio finale. Se non lo facciamo rischiamo che non ci sia nessuna Brexit e basta». Con i sondaggi che danno un vantaggio notevole, di 4 punti, al Labour rispetto ai Tories, e una miracolosa rinascita di Ukip, all' 8% dopo che era praticamente scomparso, la May sa di avere un argomento forte dalla sua parte tra i conservatori, ossia che una sfida alla sua leadership aprirebbe le porte a Jeremy Corbyn, il quale deve vedersela con una base sempre più contraria alla Brexit, visto che gli «hard Brexiteers» fanno molto rumore, ma non hanno una maggioranza. Prima o poi la posizione del partito potrebbe farsi più esplicita in materia di Europa, riaprendo i giochi. L' ex commissario europeo e esponente del New Labour Peter Mandelson ha definito la Brexit nei termini della May una «umiliazione nazionale», ma la premier ha fatto presente come sia l' unico compromesso possibile per tenere insieme tutte le esigenze emerse dal voto del 2016. Perché lei è debole per ragioni strutturali, non per mancanze personali, e questo lo sanno tutti.

L'ultima battaglia in giubba rossa. Davide Bartoccini il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. La giubba rossa dei soldati britannici ha una storia antica quanto il regno che ha difeso nei campi di battaglia più remoti dei cinque continenti. Venne indossata l'ultima volta contro di dervisci del Madhi. C’era una vecchia canzone, “Over the Hills and Far Away”. Non quella composta da Robert Plant, ma un’altra, che veniva cantata dai soldati inglesi in marcia negli angoli più remoti dell’impero, come quelli immaginati ne “L’uomo che volle farsi re” o nei racconti di Kipling. Diceva “..il re comanda e noi obbediamo”, la cantavano e ricantavano lunghe file di giubbe rosse, per secoli, fin da quando i primi Tommy Atkins, come vengono chiamati in gergo i soldati di sua maestà, decisero di arruolarsi e partire per difendere le corona e tutti i suoi possedimenti.

Dalla Guerra dei Trent’anni - quando il Regno non era ancora “unito” - alle Guerre boere, quando l’Impero britannico lambiva ormai tutti e cinque i continenti e la Union Jack sventolava dal Canada a Singapore, passando per Afghanistan e India, i soldati britannici hanno sempre combattuto con quella loro giubba rossa indosso. Un’uniforme voluta per la prima volta da Oliver Cromwell per il suo New Model Army nel 1645 sul campo della battaglia di Naseby, durante la guerra civile. E sebbene già nel XV secolo gli irlandesi avessero coniato il termine “giubbe rosse”, o “tonache rosse”, riferendosi ai soldati di Elisabetta I, che usavano portare mantelli di colore scarlatto, fu quella la prima volta in senso "ufficiale".

Divenuta d’ordinanza per tutti i tommies, da allora la giubba rossa si rese nota in tutto il mondo per l’efficienza letale del suo esercito. Non a caso l’espansione dell’Impero britannico resterà un primato imbattuto. Modificata nel corso dei secoli, tra la guerra d'Indipendenza americana e la guerre napoleoniche, fino alla celebre battaglia di Balaclava combattuta durante la guerra di Crimea nel 1854: quando la leggendaria "Sottile linea rossa" lungo cui si erano schierati gli effettivi del 93° reggimento di fanteria, i Sutherland Highlanders, fermò sul campo la carica a cavallo del 12° ussari russo. Il 93°, un reggimento di soldati scozzesi, indossava il kilt (ovviamente privo di biancheria come da tradizione, ndr) sotto la giubba scarlatta. Ed è rimasta in auge almeno fino alla battaglia di Gennis, combattuta in Sudan contro i guerrieri del Madhi nel penultimo giorno del dicembre 1885.

Quella sofferta vittoria fu invero l’ultima occasione in cui i soldati di Sua maestà vestirono la giubba rossa in battaglia. Questo poiché era comune la credenza tra gli ufficiali dai lunghi baffi d'ordinanza, che “le uniformi rosse apparissero più formidabili agli occhi dei dervisci”, e quindi incutessero loro più timore. Lo stesso era accaduto durante la battaglia di Kirbekan nel febbraio di quello stesso anno, quando ai soldati dei reggimenti South Staffordshire e Black Watch venne ordinato di rinunciare all’uniforme color kaki per vestire la vistosa giubba rossa sotto i loro caschi di sughero modello Wolseley.

Già nella prima metà del XIX secolo appariva ormai chiaro su ogni fronte come la guerra e le tattiche che ormai la dominavano, si fosse evoluta ad un livello tanto dinamico quanto letale, da rendere stendardi, insegne, sciabole luccicanti e formazioni che avanzavano in uniformi inconciliabili con ogni concetto di "mimetistmo" quasi si trattasse di una marcia in parata, come un'antica follia che non poteva portare a nessun altro risultato se non quello di fornire all’avversario un facile bersaglio. Le vecchie manovre erano ormai superate, e con esse lo erano anche quelle gloriose uniformi dai colori vistosi che avevano attraversato mille campi di battaglia.

Le formazioni che ormai combattevano armate di fucili a ripetizione estremamente precisi, e che spesso tendevano imboscate in conflitti che facevano conoscenza con sempre più diffuse azioni di guerriglia, tramutarono le “formidabili” giubbe scarlatte in bersagli individuabili da grande distanza. Ciò si era reso evidente già durante la Prima guerra boera, combattuta nel Transvaal tra il 1880 e il 1881 dagli irregolari boeri, o Afrikaners, che inflissero pesanti perdite agli inglesi.

Da allora infinite variazioni del colore kaki, che venivano già impiegante da tempo nei contingenti coloniali di stanza nelle Indie britanniche e nell'Estremo oriente, sostituirono, ovunque e per sempre, le vecchie giubbe rosse. Relegate alle parate, alle serate di gala, e in servizio alle sole Coldstream Guard dell’omonimo reggimento - il più antico d'Inghilterra insieme a quello di cavalleria dei Blues and Royals, anch’esso creato ai tempi di Cromwell. Stiamo ovviamente parlando delle sentinelle che si avvicendano con il loro passo marziale e il loro vistoso e ingombrante colbacco d’orso di fronte a Buckingham Palace. A perenne guardia di Sua maestà.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Dagotraduzione dal Guardian il 3 dicembre 2021. La polizia scozzese ha pagato 1 milione di sterline di risarcimento alla famiglia di una donna morta dopo essere stata lasciata per tre giorni nella sua auto in seguito a un incidente sull’autostrada M9. La polizia è stata ritenuta responsabile della morte di Lamara Bell, 25 anni, per non aver dato seguito all’allarme di un agricoltore, che nel 2015 aveva telefonato per segnalare un’auto incidentata sulla corsia d’emergenza. Quando, tre giorni dopo, la polizia è finalmente arrivata sulla scena grazie a una seconda chiamata da parte di un passante, hanno trovato Bell in condizioni critiche e, accanto a lei, il suo compagno, John Yuill, 28 anni, morto. Trasportata in ospedale, è morta quattro giorni dopo, lasciando orfani due bambini di 5 e 10 anni. Secondo il quotidiano Record i figli, ora affidati alle cure dei nonni, riceveranno 500.000 sterline ciascuno. La polizia ha ammesso che il suo sistema di gestione delle chiamate ha fallito e «ha contribuito materialmente» alla sua morte, e si è scusata senza riserve. È stata dichiarata colpevole a settembre di responsabilità penale aziendale. L'avvocato della famiglia, David Nellaney di Digby Brown, ha accolto con favore il pagamento del risarcimento da parte della polizia scozzese, ma ha criticato il suo operato per non aver risolto il caso in una fase molto precedente.«La famiglia Bell ha sopportato cose che pochissime persone potrebbero mai comprendere, ma la pazienza, la resilienza e la compassione che hanno mostrato in ogni momento non possono essere sottovalutate», ha detto. «È un peccato che la polizia scozzese non abbia ammesso i suoi fallimenti prima perché avrebbe potuto risparmiare loro inutili sofferenze, ma almeno ora abbiamo una conclusione e i Bells possono giustamente concentrarsi su se stessi e sui tempi a venire». Per la famiglia Bell l'accordo è la fine di «sei anni di domande senza risposta, riconoscimento della colpa e giustizia». Hanno aggiunto: «Il nostro dolore e la nostra perdita non si fermeranno solo perché i procedimenti legali sono finiti, ma c'è almeno un senso di pace che arriva con la loro conclusione. Ma quella pace è fugace perché alla fine siamo ancora senza Lamara». «Noi siamo senza una figlia e una sorella e i suoi figli sono senza una madre – un tale risultato non può, e non dovrebbe mai, rimanere inascoltato in una società giusta e siamo felici di aver finalmente raggiunto ciò che cercavamo». Il vice capo della polizia, Fiona Taylor, ha dichiarato: «La morte di Lamara Bell e John Yuill è stata una tragedia e i nostri pensieri rimangono con i loro figli, le famiglie e gli amici».

Droga a Westminster, trovate tracce di cocaina in 11 bagni dei deputati: in arrivo «legge-stangata». Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. La politica britannica ha raggiunto livelli allucinanti: nel senso che a Westminster la cocaina scorre a fiumi, e stanno pensando di introdurre i cani anti-droga all’interno del palazzo del Parlamento. A sollevare il velo su quello che è un segreto di Pulcinella è il Sunday Times, che racconta come in un recente controllo siano state trovare tracce di stupefacenti in 11 dei 12 posti testati, alcuni dei quali accessibili solo con un pass parlamentare. La droga è bipartisan: cocaina è stata individuata nei bagni vicino all’ufficio di Boris Johnson e della ministra degli Interni, ma anche in quelli in prossimità delle stanze del governo-ombra laburista. Si racconta di un deputato che sniffava davanti a tutti a una festa, alla presenza di giornalisti; e in un altro caso un membro dello staff è entrato la sera tardi nell’ufficio di un parlamentare e lo ha sorpreso a farsi una pista sulla scrivania.

«C’è una cultura della cocaina in Parlamento – ha raccontato al Sunday Times un veterano di Westminster -. Alcuni si fanno continuamente, altri assaggiamo ogni tanto. Alcuni sono nomi noti, altri sono giovani deputati ambiziosi o funzionari: pensano di essere intoccabili». Addirittura, un ex deputato avrebbe assunto in passato il suo pusher come membro del suo staff, in modo da pagarlo regolarmente. «Ciò che è un segreto aperto a Westminster è la cultura della droga – ha raccontato un consigliere speciale -. Tutti sanno in quale ufficio andare per trovare una canna». Non è raro imbattersi in funzionari che si aggirano strafatti per i corridoi, col lo sguardo a palla: «Semplicemente ti giri dall’altra parte o guardi il soffitto», ammette il consigliere.

Va considerato che sono ben 19 mila le persone in possesso di un pass parlamentare e che possono accedere a Westminster senza controlli, anche se sono soltanto 3 mila quelli che sono entrati con regolarità dall’inizio della pandemia. Nel corso di un anno due spacciatori sono stati arrestati attorno al Parlamento, mentre 13 persone sono state fermate per possesso di droghe: in totale, 17 crimini legati agli stupefacenti sono stati investigati dentro o attorno agli edifici parlamentari.

Lo Speaker della Camera, Sir Lindsay Hoyle, ha promesso un’indagine e la prossima settimana una Commissione si occuperà del caso. «Non c’è posto nella nostra società per le droghe e certamente non nel nostro Parlamento – ha detto la ministra degli Interni, Priti Patel -. Quelli che hanno il privilegio di lavorare al cuore della nostra democrazia e che sono coinvolti nell’uso o nella distribuzione di droghe sono del tutto sconnessi dal dolore e dalla sofferenza che alimentano attraverso il traffico di stupefacenti». Johnson si prepara a lanciare una stretta contro i consumatori di droga benestanti, per cambiare la percezione che le persone privilegiate possano violare la legge senza conseguenze: e potrebbe decidere di «dare un esempio» cominciando proprio da qualche personaggio di alto profilo.

La pena massima per il possesso di cocaina, in Inghilterra, è di sette anni di prigione. Il sindacato che rappresenta lo staff parlamentare ha però provato a mettere la questione nel suo contesto: «Una cultura lavorativa fatta di orari lunghissimi e scadenze ravvicinate può creare una pressione avvertita come ingestibile: è necessario rendere disponibile un sostegno per quanti sono finiti nella droga e continuare a migliorare le condizioni di lavoro».

Trovate tracce dello stupefacente in 11 posti. Droga a fiumi a Westminster, nel Parlamento inglese una "cultura della cocaina": pusher come portaborse. Andrea Lagatta su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. Scorrono fiumi di cocaina a Westminster, la vivace sede del parlamento inglese. A riportare l’indiscrezione che infiammerà certamente la politica britannica è il Sunday Times. Secondo il quotidiano inglese, la presenza e l’uso dello stupefacente tra i parlamentari ha sfiorato livelli altissimi, tanto da valutare l’introduzione di cani anti-droga all’interno del palazzo del Parlamento. L’allarme è scattato a seguito di un recente controllo, per cui sono stati riscontrati tracce di stupefacenti in 11 dei 12 posti testati, alcuni dei quali accessibili solo con un pass parlamentare. La cocaina è stata individuata ovunque: nei bagni vicino all’ufficio di Boris Johnson e della ministra dell’Interno, ma anche in quelli in prossimità delle stanze del partito laburista. Il Sunday Times racconta che chi fa uso di cocaina non lo nasconde: molto parlamentari sono stati sorpresi, in momenti conviviali e persino davanti ai giornalisti, oppure nel proprio ufficio, a sniffare la polvere bianca. Ma la droga arriva facilmente in parlamento. In passato, infatti, un ex deputato avrebbe assunto il suo pusher come membro dello staff, così da pagarlo regolarmente, senza far emergere alcun atto illegale. Alla testata inglese un veterano di Westminster ha raccontato dell’esistenza della cultura della cocaina in Parlamento: “Alcuni si fanno continuamente, altri assaggiamo ogni tanto. Alcuni sono nomi noti, altri sono giovani deputati ambiziosi o funzionari: pensano di essere intoccabili”. E ancora: “Ciò che è un segreto aperto a Westminster è la cultura della droga – ha raccontato un consigliere speciale -. Tutti sanno in quale ufficio andare per trovare una canna”. Lo Speaker della Camera, Sir Lindsay Hoyle, ha promesso un’indagine e la prossima settimana una Commissione si occuperà del caso. E, lanciando un monito a chiunque porti cocaina o altre sostanze illegali in Parlamento, lo speaker ha affermato di considerare la questione come una priorità e di voler vedere “la piena ed efficace applicazione della legge” con sanzioni gravi per coloro che trasgrediscono le regole. “Non c’è posto nella nostra società per le droghe e certamente non nel nostro Parlamento”, ha detto la ministra dell’Interno, Priti Patel, facendo riferimento alla massima pena detentiva di sette anni per il possesso di cocaina. “Quelli che hanno il privilegio di lavorare al cuore della nostra democrazia e che sono coinvolti nell’uso o nella distribuzione di droghe sono del tutto sconnessi dal dolore e dalla sofferenza che alimentano attraverso il traffico di stupefacenti”. Andrea Lagatta

Paola De Carolis per il "Corriere della Sera" il 17 Novembre 2021. Il volto subdolo del razzismo è comparso ieri di fronte alla Commissione parlamentare per la cultura, i media e lo sport, rilanciando in Gran Bretagna un dibattito sulla discriminazione e gli abusi verso le minoranze. Partendo dal mondo del cricket ha toccato varie sfere della vita pubblica. Interrompendo spesso la sua testimonianza per sopprimere le lacrime, Azeem Rafiq, 30 anni, ex giocatore dello Yorkshire County Cricket Club, ha dipinto un ambiente in cui è normale per un pachistano essere targato «paki» - un termine oggi inaccettabile al punto che i giornali inglesi preferiscono scrivere «p-word» - ed essere sottoposto a provocazioni a fiume: «Se vedevamo un uomo con la barba mi dicevano, guarda, tuo padre, se passavamo davanti a un corner shop mi chiedevano se i miei zii ci lavoravano dentro». Un trattamento «disumano» non solo dai compagni, ma anche dai dirigenti della squadra, che è continuato persino quando Rafiq ha subito la morte del figlio. È l'intero mondo del cricket - ha precisato il giocatore ai deputati, visibilmente scossi - a essere «istituzionalmente razzista», se un campione della nazionale come Gary Ballance può permettersi di chiamare tutti i colleghi neri o asiatici «Kevin» e dare al suo cane lo stesso nome per il pelo nero.  Un ambiente dove tutti vedono e nessuno dice nulla, anche quando un ragazzo musulmano di 15 anni viene immobilizzato per terra e costretto a bere vino. Non è una sorpresa, allora, che nel cricket i giocatori britannici di origine asiatica siano diminuiti del 40%, ha precisato Rafiq. «Da genitore mi chiedo: chi farebbe giocare i figli in un ambiente così?». In un Paese dove c'è una crescente sensibilità sul trattamento delle minoranze, le frasi del giocatore hanno portato diversi personaggi a lamentare che le sue esperienze rimangono ancora troppo comuni. «Non credo che in Gran Bretagna ci sia una sola persona di colore che non ha provato le sue stesse sensazioni», ha sottolineato sui social Krishnan Guru-Murthy, giornalista di punta di Channel 4. Per Charlene White, presentatrice di Itv, le parole di Rafiq riflettono «l'esperienza quotidiana delle minoranze etniche in tutto il Paese», mentre dal premier Boris Johnson al sindaco di Londra Sadiq Khan, diversi politici hanno lodato il giocatore per aver trovato la forza di parlare . 

Punto di non ritorno. Cos’è l’articolo 16 che potrebbe far ricominciare il caos Brexit. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 10 novembre 2021. Il governo inglese ha minacciato più volte di annullare il protocollo firmato con l’Ue che lascia al momento l'Irlanda del Nord all’interno del mercato unico europeo. Londra vuole riscrivere gli accordi commerciali, ma Bruxelles potrebbe addirittura annullare tutto quanto concordato finora. L’Articolo 16 è il punto di non ritorno. Attivarlo, come il Regno Unito pare intenzionato a fare dopo mesi di stallo sull’Irlanda del Nord, significa sospendere gli accordi seguiti alla Brexit e, di fatto, entrare nel terreno di un «no deal» che sembrava scongiurato grazie a trattative pluriennali, eppure non è mai stato così reale. Londra ha minacciato di ricorrere alla norma più volte, con la speranza di fare tabula rasa e rinegoziare gli accordi. La notizia è che oggi è l’Unione europea quella pronta a far saltare il tavolo. Negli anni, Bruxelles si è distinta per la calma olimpica con cui – a parte qualche ramanzina, rimasta confinata nelle dichiarazioni – ha disinnescato l’ostruzionismo inglese. Ha difeso la sua linea con coerenza, senza lasciarsi coinvolgere nello psicodramma che montava oltremanica. Cambiavano i governi, ma non la fermezza della commissione nel rispondergli: alla fine, a ritrattare sono (quasi) sempre stati gli isolani. Se alla fine un compromesso s’è trovato, buona parte del merito va ascritto alla perseveranza europea.

I flussi commerciali tra l’Ulster, le sei contee sotto sovranità britannica ma rimaste all’interno del mercato comunitario, e la madrepatria sono stati salvati dalla paralisi dei controlli doganali grazie alle tregue concesse dall’Ue, mentre Londra chiedeva una moratoria permanente. A ottobre, Bruxelles ha cercato di sanare la crisi con una serie di concessioni, che sarebbe più corretto chiamare correttivi. Su tutti, lo snellimento delle ispezioni sui generi alimentari (emblematico il caso delle salsicce) scambiati tra le due sponde del mare d’Irlanda. Nonostante le aperture, l’esecutivo britannico respinge il ruolo di garante degli accordi che attualmente spetta alla Corte europea di Giustizia.

Venerdì a Londra si (ri)vedranno le controparti, rappresentate da Lord Frost e dal vicepresidente della commissione Maros Sefcovic. Londra pare sempre più determinata a innescare l’Articolo 16, una mossa che farebbe naufragare i colloqui. Dowing Street vorrebbe riscrivere le condizioni sull’Irlanda del Nord, ma l’Ue potrebbe reagire congelando anche il resto del patto di recesso, come ha confermato il ministro degli Esteri irlandese al Financial Times.  

«Credo che il Regno Unito stia chiedendo deliberatamente ciò che non può ottenere», ha detto Simon Coveney. Una posizione simile a quella scandita dal premier di Dublino, Micheál Martin: «Invocare l’Articolo 16 sarebbe irresponsabile – ha detto –. Avrebbe implicazioni più profonde sul rapporto tra Gran Bretagna e Unione europea». Dello stesso parere è anche un ex primo ministro britannico, per di più conservatore, come John Major. «Sarebbe una stupidata colossale», ha commentato.  

Ma cos’è questo famigerato «Articolo 16»? Appartiene a un accordo speciale, centrato sull’Irlanda del Nord, all’interno di quelli per la Brexit. L’intesa è stata raggiunta nell’ottobre 2019 e da allora è ribattezzata «il protocollo» dalla stampa e dagli addetti ai lavori. Mirava a sventare il ritorno a un confine rigido, o hard border, tra le due Irlande, istituendone uno di fatto in mezzo al mare, perché l’Ulster è rimasta parte del mercato unico. Ciò ha posto le basi perché scattassero quei controlli doganali che l’allora candidato Boris Johnson aveva escluso categoricamente nella campagna elettorale del 2019.

L’autodifesa dei conservatori è che l’Ue stia applicando «troppo rigidamente» quel testo, da declinare invece con flessibilità. Frost ha proposto un sistema alternativo, senza barriere doganali, purché le merci siano conformi agli standard europei oppure a quelli britannici, che però sono spesso diversi. Attualmente, occorre aderire a quelli comunitari: un punto su cui Bruxelles non sembra disposta a cedere, ma nella sua ultima offerta ha previsto condizioni che eviterebbero l’80% dei controlli e, soprattutto, dimezzerebbero la mole di burocrazia necessaria all’import-export. 

Un passo in avanti. Secondo un sondaggio dell’università di Belfast, infatti, la maggior parte della popolazione locale ha accolto con favore (il 52%, meglio del 42% rilevato a giugno) il progetto. Che però non ha soddisfatto il governo centrale. Così sul tavolo resta l’Articolo 16 del protocollo. Prevede misure di «salvaguardia» che possono essere adottate in via unilaterale da uno dei due blocchi qualora si presentassero «seri» problemi o una distrazione degli scambi mercantili. In particolare, si parla di «difficoltà economiche, sociali o ambientali» di carattere persistente. In queste fattispecie, si possono sospendere parti dell’accordo. 

Il punto è che non ci sono linee guida né chiarezza su cosa si intenda per «gravi criticità». L’interpretazione è soggettiva, tanto che Downing Street lo scorso giugno ha ritenuto ormai raggiunte queste condizioni, pur decidendo di congelare (almeno per il momento) l’attivazione dell’articolo. Per questa «opzione nucleare» serve un mese di notifica formale, tranne per «circostanze eccezionali». Di nuovo, in una saga dove le due controparti non sono andate d’accordo su nulla, «eccezionali» per chi? 

Anche qualora si arrivasse a questo scenario limite, però, la sospensione temporanea di stralci del protocollo, almeno in teoria, non dovrebbe pregiudicarne l’ossatura. Tradotto: metterne in pausa una parte, in questo caso quella (ampia) sul commercio, non dovrebbe intaccare il resto degli accordi. Si prescrivono, tra l’altro, confronti costanti e una revisione ogni tre mesi, nella quale decidere se ritornare allo status quo o mantenere in vigore le limitazioni. Se ricorresse allo strumento, il Regno Unito vorrebbe convincere l’Ue a una soluzione più morbida sulla regione. 

A sua volta, Bruxelles potrebbe rispondere in modo da controbilanciare l’impugnazione. Nel quadro evocato dal ministro degli Esteri irlandese, decadrebbe l’intero patto di recesso con Londra. Ma più probabilmente la commissione resterebbe ancorata al criterio della proporzionalità, con una reazione misurata e circoscritta. Una via possibile è quella dei ricorsi legali; una estrema passerebbe da sanzioni contro i prodotti inglesi, verso una «guerra delle tariffe» che viene periodicamente evocata dagli analisti, anche se prima si dovrebbe tentare l’arbitrato internazionale. 

Solo qualora queste ipotesi si rivelassero a fondo cieco, potrebbe venire scardinato l’accordo quadro, perché rinnegato su impulso di uno dei due contraenti. Anche in questo caso, però, ci sono dei tempi tecnici non indifferenti: un anno di preavviso, per la precisione, oppure nove mesi qualora a cadere fossero solo la parte commerciale. Ma in un arco di tempo così vasto, la storia della Brexit lo insegna, potrebbe succedere di tutto. 

Da ansa.it il 12 novembre 2021. Il premier britannico Boris Johnson negli ultimi 14 anni, in cui è stato fra l'altro deputato e sindaco di Londra, ha guadagnato, in attività legali e dichiarate più di 4 milioni di sterline (4,7 milioni di euro). E' quanto si legge in un articolo pubblicato dal Financial Times, che sottolinea come nei giorni scorsi il leader conservatore abbia ricordato ai suoi parlamentari di dedicarsi "soprattutto ai propri elettori”. Lo ha fatto nel pieno dello scandalo malcostume ('sleaze') che ha colpito il suo partito proprio per i secondi lavori 'd'oro' fatti da diversi parlamentari Tory e che ha portato alle dimissioni da deputato dell'ex ministro Owen Paterson e all'avvio di accertamenti da parte dell'organismo disciplinare di Westminster per l'ex Attorney General, Sir Geoffrey Cox. I profitti 'extra' di Johnson riguardano più che altro il suo periodo precedente all'arrivo al n.10 di Downing Street nel 2019: i milioni provengono dalla sua attività di scrittore, di giornalista ed editorialista per il Daily Telegraph e per una serie di discorsi tenuti a conferenze. I problemi per il partito di governo non si esauriscono qui. Il sindacato dei funzionari pubblici, la union Fda, ha avviato una azione legale contro il presunto insabbiamento di un anno fa attribuito al governo Johnson sulle accuse di bullismo contro il personale rivolte alla ministra degli Interni, Priti Patel. L''assoluzione' di fatto imposta dal premier era arrivata in contrasto stridente con le conclusioni di un rapporto indipendente interno, e aveva indotto alle dimissioni immediate dal Civil Service sir Alex Allan, consigliere e arbitro degli standard di comportamento ministeriali.

Erica Orsini per "il Giornale" l'8 novembre 2021. Sul governo conservatore britannico piovono accuse dì corruzione e a farne le spese è proprio il suo leader Boris Johnson. Mentre l'esecutivo preme sull'acceleratore del terzo vaccino di rinforzo per evitare di dover imporre nuove restrizioni proprio nel periodo natalizio, un'ondata trasversale di sdegno sta attraversando il Parlamento a causa delle azioni recenti portate avanti da BoJo e compagnia. Il maldestro tentativo (conclusosi con l'ennesima marcia indietro) di proteggere il deputato Owen Paterson da accuse di lobbismo e di conflitto d'interessi per conto di due aziende di cui era prezzolato consulente, ha aperto una voragine di critiche non solo da parte delle forze d'opposizione. Molti membri conservatori, tra cui l'autorevole ex premier John Major, hanno ritenuto un inaccettabile e vergognoso attacco al sistema democratico la volontà - neppure tanto nascosta - di nascondere la polvere sotto il tappeto votando una riforma della commissione indipendente per gli standard di condotta parlamentare che di fatto la svuoterebbe di ogni efficacia. Ma il caso Paterson non è grave soltanto per la scorrettezza delle azioni compiute dal deputato, delle quali non sarebbe dì certo difficile trovare esempi avvenuti negli ultimi decenni. È grave perché va a toccare la protezione della salute durante la pandemia. Sempre l'Observer spiega che Paterson era pagato più di 8mila sterline al mese per un contratto dì 16 ore dì consulenza dalla Randox Laboratories. L'azienda si era già assicurata due contratti per 480 milioni dì sterline per i tamponi anti-Covid lo scorso anno senza dover partecipare ad alcuna gara pubblica. La compagnia ha negato ogni coinvolgimento diretto di Paterson che però il 9 aprile 2020 aveva avuto una riunione telefonica congiunta con Randox e l'allora ministro della salute Lord Bethell. «Ci vuole una bella faccia dì bronzo a concedere un contratto a una società che aveva già dovuto ritirare 750mila kit dì tamponi non sicuri e non era riuscita a fornire quelli promessi alle case dì cura», ha detto sabato il numero due dei laburisti Angela Rayner. Agli inglesi non piace affatto sentirsi presi in giro quindi, dopo la bagarre scoppiata a Westminster, l'ultimo sondaggio dì opinione per l'Observer ha rivelato che i consensi dell'opinione pubblica nei confronti del partito dì maggioranza sono precipitati. In particolare, quelli del premier hanno toccato il minimo storico passando da 20 a 16 punti. E siccome le disgrazie arrivano tutte insieme, ieri un'inchiesta del Sunday Times e dì Open Democracy ha rivelato che ai facoltosi supporter del partito di governo sembrano essere stati garantiti dei posti alla Camera dei Lord, nel caso siano disposti ad assumersi temporaneamente il ruolo di tesoriere e di incrementare le loro donazioni fino a 3 milioni di sterline. Negli ultimi vent'anni, spiega il Times, a tutti e 16 tesorieri era stato offerto un seggio alla Camera dei Lord. La solita storia delle onorificenze in cambio dì donazioni, devono aver pensato in molti, è uno scandalo di cui poi ci si dimentica. Quello che forse gli elettori non dimenticheranno è la differenza che passa tra «vendere» un semplice «cavalierato» delle Guardie della Regina e garantire invece un posto alla Camera, inquinando di fatto il corretto svolgimento del processo legislativo dì ogni riforma. Chi l'ha fatto ne era consapevole, ora lo sa anche la gente.

Alessandra Rizzo per La Stampa l'8 novembre 2021. «Fallimento morale». «Enorme ipocrisia». Tra le guglie della prestigiosa e quasi millenaria Università di Oxford si respira aria di bufera: l’ateneo tempio dell’istruzione britannica ha accettato donazioni per milioni di sterline da parte della famiglia Mosley, il cui patriarca è stato negli Anni 30 il leader del movimento fascista nel Paese. Secondo lo scoop del Daily Telegraph, l’università ha ricevuto oltre sei milioni di sterline (circa sette milioni di euro) da un ente di beneficenza della famiglia. Inoltre il college di St Peter’s, dove ha studiato tra gli altri Ken Loach, il regista campione delle cause socialiste e della classe operaia, ha accettato soldi dalla famiglia per oltre cinque milioni di sterline. I fondi sono arrivati dall’ente di beneficenza dove è confluita l’eredità di Oswald Mosley al figlio Max Mosley, controverso patron della Formula Uno morto nel maggio scorso. Per Oxford è solo l’ultima polemica, dopo quelle legate alla statua di Cecil Rhodes, figura centrale del colonialismo in Africa, e alle richieste degli studenti di aggiornare i corsi di studio per riflettere una maggiore varietà di vedute. Ma se in quei casi le accuse erano di cedere o meno al «politically correct» nell’ambito delle «culture wars» che stanno animando le istituzioni accademiche e non solo di tutto il mondo, questa volta lo scandalo ha un sapore diverso. La famiglia Mosley è tra le più conosciute, e notorie, del Paese. Negli Anni 30, Oswald ha guidato il movimento fascista in Gran Bretagna, violento contro gli oppositori e antisemita. Era in rapporti amichevoli con Mussolini e Göbbels, il ministro della propaganda nazista. È a casa di Goebbels che si è celebrato il suo secondo matrimonio, con Hitler ospite d’onore. Era considerato una tale minaccia che le autorità temevano che, in caso di invasione nazista, potesse essere installato come capo di un regime fantoccio filo-tedesco. Durante la guerra fu internato e dopo il conflitto ha tentato di riformare il movimento sotto un altro nome, causa sostenuta negli Anni 50 e 60 dal figlio Max Mosley, poi diventato famoso per la Formula Uno (e per essere finito sulle pagine di un tabloid in atteggiamento compromettente). Il figlio di Max, Alexander Mosley, morto per overdose di eroina nel 2009, è stato un alunno del St Peter’s College, ed è in suo nome che le donazioni sono state fatte, una al fine di istituire un fondo di biofisica e una per costruire nuove sistemazioni studentesche nel collegio. Anche un altro college di Oxford ha confermato di aver ricevuto una donazione, sebbene più modesta. La notizia ha scatenato polemiche. «Prendono soldi da un fondo istituito da fascisti provati e conosciuti», ha detto Lawrence Goldman, professore ad Oxford. «C’è stato un totale fallimento morale» e «un’enorme ipocrisia». Per Lord Mann, consulente del governo per l’antisemitismo, «qualunque cosa glorifichi il nome Mosley è un problema» ed è «assurdo dare credibilità a una famiglia attivamente fascista». Lo storico Robert Lynman ha invitato gli studenti a mobilitarsi e cominciare una campagna simile a quella lanciata per la rimozione della statua di Rhodes. Intanto lo scandalo si è allargato a due atenei di Londra. L’Università di Oxford si è difesa affermando che i fondi sono per una buona causa. E riaffermando l’impegno contro razzismo e discriminazioni. La donazione, come tutte le donazioni, ha passato «un processo solido e indipendente che prende in considerazione questioni legali, etiche e di reputazione», ha detto Oxford. Per il St Peter’s College, la nuova sistemazione trasformerà la vita degli studenti nel campus «per le generazioni a venire». E il nome dei nuovi alloggi, che dovevano inizialmente essere intitolati ad Alexander Mosley, sarà ora scelto attraverso una consultazione interna che coinvolgerà gli studenti. 

Dal corriere.it il 15 ottobre 2021. David Amess, parlamentare conservatore britannico, è stato accoltellato «ripetutamente» mentre stava incontrando gli elettori della sua circoscrizione in una chiesa nell’Essex, la Belfairs Methodist Church di Leigh-on-Sea. Secondo le prime notizie, rilanciate dall’agenzia Reuters, il parlamentare sarebbe stato accoltellato da un uomo che è entrato all’incontro e lo ha attaccato. Amess si trova in questo momento sottoposto a cure mediche sul luogo dell’accoltellamento. Le sue condizioni non sono al momento note. «È ancora all’interno della chiesa, non ci fanno entrare per vederlo. Sembra una situazione molto seria», ha detto il rappresentante dei Tories John Lamb. L’accoltellatore è stato arrestato, e la Polizia ha affermato di «non essere alla ricerca di altri sospetti». L’area intorno alla chiesa è stata circondata dalle forze dell’ordine. Amess, 69 anni, era stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 1983. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, il parlamentare sul suo sito indica tra i suoi interessi «il benessere degli animali e le tematiche pro-life». Nel 2010 il parlamentare del Labour Stephen Times era sopravvissuto a un accoltellamento avvenuto durante un incontro con i suoi elettori. Nel 2016 Jo Cox, sempre del Labour, fu uccisa a pochi giorni dal referendum sulla Brexit.

Chiara Bruschi per “Il Messaggero” il 29 ottobre 2021. Salahudeen Hussain, 16 anni e musulmano, è il cadetto più giovane dei Royal Marine, il corpo di fanteria di marina delle forze armate britanniche, ad aver completato la marcia soprannominata Fan Dance. Si tratta di un'impresa molto complessa che mette a dura prova dal punto di vista fisico e mentale i giovani che ambiscono alla carriera militare: 24 chilometri a piedi sulla catena montuosa del Brecon Beacons, in Galles, con in spalla pesi da 16 chilogrammi, armi comprese. Solitamente si svolge alla fine della prima settimana ed è utilizzata per identificare chi, tra gli aspiranti candidati, ha la stoffa per completare il difficile percorso di selezione. Originario di Sheffield, cittadina al nord dell'Inghilterra, Sal ha percorso la durissima marcia quando di anni ne aveva ancora 15 e dopo essersi allenato duramente durante il Ramadan, senza mangiare né bere. La sua motivazione è stata più forte della fame, della sete e della fatica. Il giovane cadetto ha infatti deciso di entrare a fare parte dei Royal Marine per superare un momento difficile nella sua vita personale causato da diversi episodi di bullismo che gli avevano fatto perdere fiducia in se stesso. È stato il padre a proporgli questa alternativa ma Sal, che non aveva davanti a sé esempi o modelli cui guardare, inizialmente si è sentito spaesato. «Sono stato vittima di bullismo ed è stato molto pesante ha raccontato e non era un bel periodo. Ero molto in difficoltà ma mio padre ha trovato informazioni sui cadetti e mi ha parlato di questa possibilità». Un progetto che inizialmente Sal aveva scartato con decisione: «Non volevo andare, odiavo l'idea. Era troppo fuori dalla mia confort zone. Poi però ci siamo seduti uno di fronte all'altro e (mio padre, ndr) mi ha detto che ero libero di decidere, così ho scelto di andare», ha raccontato aggiungendo la speranza che la sua storia possa essere di ispirazione per altri coetanei. Oggi la definisce «la miglior decisione mai presa», in grado di «aprirgli enormi opportunità». In compagnia del padre, Sal è poi andato all'Imperial War Museum. All'ultimo piano ha trovato uno spazio dedicato a chi ha ricevuto la Victoria Cross la più alta onorificenza militare assegnata per il valore di fronte al nemico ai membri delle forze armate del Commonwealth e di alcuni territori dell'ex Impero britannico - e in questo elenco di sono anche soldati musulmani. «È qualcosa di cui non si parla mai - ha raccontato alla stampa britannica -. Sono spesso assenti dai libri di storia e dalle materie di studio a scuola». Un esempio? Fazal Din, del British Indian Army, ucciso in battaglia nel 1945, durante la Seconda guerra mondiale, quando un ufficiale giapponese lo ha trafitto nel petto con una spada mentre ispezionavano un bunker. Sal è rimasto affascinato dalla sua incredibile storia: «Fazal è riuscito a togliere la spada dal proprio petto, ha ucciso il suo nemico e guidato la carica verso tanti altri bunker. Ha compilato il suo rapporto e poi, purtroppo, è morto». «Conosco molti giovani musulmani in questo paese che si sentono lontani dal mondo militare ha spiegato al Times -. Se invece tutti sapessero la storia di questi loro antenati avrebbero più voglia di unirsi e non si sentirebbero impossibilitati a farlo». Il Ministro della Difesa cerca da anni di aumentare il numero dei musulmani nelle file dell'esercito, così come quello delle altre minoranze, per renderlo più rappresentativo della società. Uno sforzo che sembra tuttavia lontano da un risultato concreto: sono 670 su 149.230, ovvero lo 0,4% stando ai dati dello scorso luglio, mentre nella popolazione i musulmani che hanno dichiarato la propria religione sono il 5%.

Sir David Amess è stato ucciso «per terrorismo»: chi è il killer. Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2021. La polizia che indaga sulla morte del parlamentare conservatore David Amess parla di «una matrice potenziale legata all’estremismo islamico»: l’uomo arrestato, 25 anni, è un cittadino britannico di origini somale. L’indagine sulla morte di Sir David Amess, il parlamentare conservatore britannico ucciso venerdì 15 ottobre, a coltellate, mentre incontrava i suoi elettori in una chiesa metodista di Leigh-on-Sea, nell’Essex, è nelle mani delle forze antiterrorismo di Londra. Secondo quanto rivelato dalla Metropolitan Police in una nota emessa nelle prime ore di sabato, quello contro Amess è stato un attentato terroristico, e «le prime risultanze dell’indagine hanno rivelato una matrice potenzialmente legata all’estremismo islamico». L’uomo arrestato per l’omicidio è un 25enne che, secondo quanto rivelato da SkyNews e riportato dalle agenzie di stampa internazionali, sarebbe un cittadino britannico di origini somale. L’identità dell’arrestato non è al momento nota. Secondo quanto rivelato da alcune fonti al Guardian, l’uomo sarebbe stato in qualche misura già noto alle forze dell’ordine: il suo nome potrebbe essere nel database del Prevent scheme, il programma che raccoglie informazioni su soggetti considerati a rischio di radicalizzazione. La polizia britannica non sta dando la caccia a possibili complici del 25enne, ma nella mattinata di sabato sono state effettuate perquisizioni in due abitazioni a Londra. L’arma con cui Amess — 69 anni, cattolico, sposato e con 5 figli, parlamentare dal 1983, volto familiare della politica britannica nonostante non avesse mai avuto ruoli di governo, sostenitore della Brexit e dei diritti degli animali, antiabortista — è stato ucciso era stata recuperata subito dopo l’accoltellamento, che si è svolto in pochi secondi attorno al mezzogiorno di venerdì. Sir David si stava intrattenendo con i concittadini quando il killer è stato visto entrare di corsa nella chiesa, brandendo un coltello: l’uomo si è avventato contro di lui e lo ha colpito più volte. Inutili, benché immediati, i soccorsi: Amess è spirato prima che potesse essere trasportato in ospedale.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 18 ottobre 2021. Non si è trattato di un gesto folle scattato all'ultimo momento: l'assassinio di David Amess, il deputato conservatore ucciso venerdì a coltellate in una chiesa dell'Essex, è stato pianificato con almeno una settimana di anticipo. Infatti l'attentatore, il 25enne britannico di origine somala Ali Harbi Ali, si era prenotato per tempo per partecipare all'incontro con gli elettori organizzato dal politico nella sua circoscrizione di Leigh-on-Sea. E Ali ha preso un treno da Londra, dove abitava, per raggiungere il suo obiettivo. L'omicida, si è scoperto, è il figlio di un ex consigliere per la comunicazione del primo ministro della Somalia: «Sono traumatizzato - ha detto il padre al Sunday Times - ma tutto ciò non ha nulla a che fare col mio lavoro per il governo somalo». Ali viveva a Londra col padre nel quartiere benestante di Kentish Town, in una strada alberata fatta di case vittoriane che valgono anche due milioni e mezzo di euro: a poca distanza abita il leader laburista Keir Starmer, che è anche il deputato locale, e tra gli altri vicini c'è l'ex direttore del Guardian Alan Rusbridger e prima ci viveva pure la defunta ministra laburista Tessa Jowell, moglie dell'ex avvocato di Berlusconi. Insomma, l'epicentro londinese della sinistra intellettual-chic. Prima di trasferirsi lì da adolescente con la famiglia, Ali era cresciuto a Croydon, un sobborgo a sud di Londra, dove aveva frequentato la locale scuola anglicana. Pare anche avesse lavorato per il servizio sanitario. Gli investigatori ritengono che il killer sia un «lupo solitario» che si è radicalizzato da solo, probabilmente durante i lunghi mesi del lockdown, e che non abbia agito in complicità con altri. La polizia britannica è convinta che durante la pandemia molti soggetti vulnerabili, confinati nelle mura di casa, siano diventati facile preda della propaganda online. Tuttavia Ali, in passato, era già stato indirizzato al programma governativo volontario di prevenzione dell'estremismo noto come «Prevent»: l'anno scorso sono state 6 mila le persone raccomandate per «Prevent», di solito dopo che hanno postato commenti incendiari sul web. Ali non era comunque nel radar dei servizi segreti, che monitora attivamente oltre 3 mila persone in Gran Bretagna che si teme possano preparare attentati. Ma il suo gesto è stato qualificato ufficialmente come atto terroristico e la polizia ha scoperto «una potenziale motivazione legata all'estremismo islamico»: e c'è chi sospetta che Amess possa essere stato scelto come bersaglio per la sua proclamata fede cattolica. Ora gli investigatori passeranno al setaccio telefoni e computer del giovane Ali, oltre che esaminare eventuali viaggi all'estero. Anche se negli ultimi anni l'Isis ha ispirato (e rivendicato) attacchi ai quattro angoli del mondo, i servizi di intelligence ritengono che al momento le «filiali» di Al Qaeda in Africa - tra cui la Somalia - siano la maggiore fonte di reclutamento per aspiranti terroristi sul suolo britannico.

Deputato ucciso in chiesa da un somalo di 25 anni. Indaga l'antiterrorismo. Erica Orsini il 16 ottobre 2021 su Il Giornale. Londra. Il suo omicida l'ha colpito decine di volte prima di lasciarlo a terra in fin di vita. Sir David Amess, parlamentare eletto tra le file dei Conservatori nel collegio elettorale di Southend West, era impegnato in uno dei tanti incontri con i cittadini nella cittadina di Leigh-on-Sea, in Essex, quando un uomo ha iniziato a colpirlo con un pugnale. Gli agenti sono stati chiamati nella Chiesa Metodista dove si teneva la riunione poco dopo mezzogiorno. I paramedici dell'ambulanza arrivata nello stesso momento hanno tentato di fare il possibile per salvarlo, ma il parlamentare è morto prima ancora che si potesse trasportarlo all'ospedale. Al momento si sa che il presunto omicida è un uomo di 25 anni, somalo, arrestato immediatamente dopo l'arrivo della polizia, che ha anche recuperato l'arma del delitto. Ecco perché la guida dell'indagine, pur avvenendo in collaborazione con gli uomini della sede locale, è passata adesso all'anti-terrorismo. Secondo fonti ben informate del quotidiano Independent dietro l'omicidio c'è l'ipotesi di una matrice islamista. Al momento non è stato escluso alcun movente né che l'azione possa essere stata dettata da problemi psichiatrici dell'accoltellatore. Anthony Finch, un testimone sentito dai giornalisti televisivi di Sky News, ha raccontato che stava lavorando nell'edificio adiacente quando ha sentito una signora particolarmente turbata chiamare al telefono qualcuno e dire: «Dovete venire, presto. È ancora qui». Poi Finch ha visto arrivare degli agenti armati, un elicottero della polizia e un’aeroambulanza. La notizia ha lasciato una città sotto choc e il mondo politico fortemente turbato. Ieri, le bandiere del Parlamento e di Downing Street sono state abbassate a mezz'asta. Sir David aveva 69 anni e lascia una moglie e cinque figli. Nato a Londra, nel quartiere di Plaistow, prima di entrare in politica aveva lavorato come consulente nel settore del reclutamento di personale. Era un politico di lungo corso, con una carriera di 38 anni alle spalle, iniziata a Basildon nel 1983, prima di venir eletto rappresentante dei Tories per il Southend West nel 1997. Allevato nella fede cattolica, politicamente era noto come un conservatore sociale e un fervido anti-abortista. Si era a lungo impegnato nella difesa dei diritti degli animali e a favore della messa al bando della caccia. Era anche un promotore della Brexit e, sebbene non sia mai diventato ministro, faceva parte di numerose commissioni ministeriali, inclusa quella della Sanità e dell'Assistenza Sociale e quella degli Affari. «I nostri cuori sono pieni di sgomento e tristezza - ha detto ieri il premier Boris Johnson - Sir David era una delle persone migliori del mondo della politica. Oggi perdiamo un ottimo servitore del popolo, un amico e un amato collega». Secondo il leader laburista Sir Keir Starmer «aveva un profondo senso del servizio pubblico ed era rispettato e amato da ogni parte politica all'interno del Parlamento». «Oggi è un giorno particolarmente cupo, soprattutto perché ci siamo già passati - ha dichiarato Starmer, alludendo all'omicidio della collega di partito Jo Cox, avvenuto cinque anni fa in circostanze molto simili. Anche per questo si è riaperto il dibattito sulla sicurezza dei membri del Parlamento, che dispongono di una protezione adeguata a Westminster, mentre rimangono totalmente scoperti quando operano nei loro collegi elettorali.

L'omicidio che scuote l'Inghilterra. Chi era David Amess, il deputato inglese ucciso in chiesa a coltellate. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Il primo ministro inglese Boris Johnson lo ha ricordato come “una delle persone più gentili e cordiali in politica”, un uomo “che credeva con passione in questo Paese e nel suo futuro”. Era questo, per il numero uno di Downing Street, il deputato conservatore David Amess, il 69enne ucciso oggi mentre era all’interno di una chiesa metodista di Leigh-on-Sea, nell’Essex, sud-est dell’Inghilterra. Amess, veterano della politica e del Parlamento, era diventato deputato nel lontano 1983 e rappresentava il collegio elettorale di Southend West dal 1997. Pur non avendo mai avuto ruoli di governo, Amess è stato protagonista della campagna pro Brexit e autore di campagne anti-aborto e animaliste. Sposato e padre di cinque figli, David Amess è stato ucciso mentre era impegnato in un incontro con i suoi elettori, una cosiddetta “constituency surgery”. Ad accoltellarlo a morte è stato un 25enne, che secondo alcuni media britannici sarebbe di origini somale. Nelle indagini sull’omicidio è coinvolta anche la polizia antiterrorismo, anche se l’inchiesta al momento continua ad essere condotta dalle forze di polizia dell’Essex: una prassi, quella del coinvolgimento dell’antiterrorismo, almeno fino a quando non emergerà un movente estraneo a fatti di terrorismo. Le sue posizioni politiche erano vicine all’ala più radicale dei Tory: tra i più ferventi sostenitori della Brexit, la sua fede cattolica lo aveva spinto su posizioni anti abortiste e contro ogni estensione dei diritti nei confronti di gay, lesbiche e trans, tanto da scontrarsi su questo con la maggiore delle cinque figlie, l’attrice Katie. Amess aveva anche espresso posizioni favorevoli al ripristino della pena capitale, mentre era forte il suo impegno in favore di campagne animaliste. La morte di Amess arriva a soli cinque anni da quella di Jo Cox, deputata laburista uccisa nel 2016. L’esponente del Labour venne uccisa il 15 giugno di cinque anni da Thomas Miar, arrestato dalla polizia poco dopo l’omicidio: Cox venne aggredita in strada al termine di un incontro elettorale, col 52enne estremista che le sparò e la ferì ripetutamente con un coltello. L’omicidio del deputato conservatore ha anche riaperto il dibattito in Inghilterra sulla protezione in favore dei parlamentari. La ministra degli Affari interni britannica Priti Patel ha detto che fornirà un aggiornamento sulla questione della sicurezza dei membri del governo del Regno Unito e dei suoi parlamentari. In un post su Twitter, unendosi al cordoglio dei politici per la morte di Amess, Patel ha aggiunto: “Mi stanno arrivando domande sulla sicurezza dei nostri rappresentanti di governo e provvederò a dare al più presto le dovute risposte”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il silenzio su Sir Amess e il solito doppiopesismo dei commentatori. Francesco Boezi il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Pochissimi interventi sulla morte di Sir David Amess. I grandi opinion maker restano in silenzio, ma in altri casi non è stato così. Perché? L'uccisione di Sir David Amess ha prodotto un quantum d'inchiostro giornalistico rivedibile. Si direbbe una forma di silenzio. Sull' omicidio di Jo Cox, ai tempi, sono invece intervenuti tutti. Sono episodi simili, ma fanno notizia in modo diverso. E pure in questo caso, purtroppo, il pregiudizio sembra riguardare l'appartenenza politica di questo o di quell'esponente, oltre che la narrativa maggioritaria presente sui media del Belpaese. Sir David Ammess era solo un conservatore, quindi il fatto che sia stato trucidato può passare con scioltezza in secondo piano. Non era accaduto, e non sarebbe potuto accadere, per la morte di Jo Cox, cui è stato giustamente dedicato uno spazio importante dei commenti dell'epoca. Certo però che queste forme di doppiopesismo possono infastidire e soprattutto lasciano pensare. Un po' perché le aggressioni omicide sono aggressioni omicide e basta ed andrebbero trattate al netto del segno politico che possono caratterizzarle. E un po' perché la notizia di un politico morto "per matrice terroristica legata al terrorismo islamico" - come riportato dalle agenzie - peraltro all'interno di un contesto che riguarda una chiesa, non dovrebbe trasformarsi in un trafiletto o in una registrazione redazionale di passaggio. Un fenomeno - questo - che non può essere accettato da chi intravede dilagare il "due pesi e due misure" come regola fissa nel nostro Paese. Su Sir David Amess, ne siamo abbastanza certi, non si esprimeranno i grandi costruttori dell'opinione nazionale né assisteremo a speciali televisivi e ad iniziative simili. In fin dei conti, a morire, è stato solo un conservatore. E qualche battuta tra un silenzio ed un altro basta e avanza. Se la grande stampa se ne dimentica o quasi, ci pensa la base a rimettere a posto le cose: "Mentre #sindacati e @EnricoLetta perdono tempo a parlare di #Fascismo, l'omicidio di #SirDavidAmess ci ricorda che il nemico principale delle democrazie occidentali resta l'Islam che si espande nel Pianeta con ferocia e mire di conquista", ha scritto un utente su Twitter. Uno che non sarà Roberto Saviano, per citare qualche opinionista di grido, ma che ci tiene comunque a dire la sua. Un altro parla di cittadinanza consegnata agli islamici e della necessità di buttare la chiave. Non saranno pensieri profondi, e saranno magari conditi da qualche errore interpretativo e da qualche semplificazione, ma sono tra le poche voci italiane che si leggono in relazione a questa vicenda sulla piattaforma dei cinguettii. La stessa su cui i commentatori tendono a divampare, tracciando le rotte delle priorità politiche peraltro. Eppure, di elementi per un vero e proprio choc occidentale, ce ne sarebbero: la matrice ed il contesto, appunto. Per non parlare dell'attacco sferrato nei confronti di un esponente che rappresentava un'istituzione. Oriana Fallaci sì: lei sarebbe, con ogni probabilità, intervenuta in modo deciso sull'episodio tragico, scuotendo la coscienza italiana e pure quella occidentale. Ricordando a tutti quali e quanti pericoli derivino da un'integrazione che non presenta più filtri. Ma la Fallaci non c'è più e dobbiamo procedere con molta più umiltà a segnalare quanto possa essere pericoloso un accoltellamento raccontato in sordina. La Gran Bretagna non è poi così distante e questa è una di quelle circostanze in cui dovremmo essere tutti chiamati a raccolta per una riflessione condivisa. Ma a dominare, in Italia, se non è il silenzio è qualcosa che gli somiglia molto: Sir David Amess è morto accoltellato da un terrorista e a pochi sembra interessare per davvero.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione int

Chi è il somalo che ha ucciso Amess Ritorna la paura dei lupi solitari. Affari Italiani il 17 ottobre 2021. Si chiama Ali Harbi Ali, l'uomo arrestato per l'uccisione di Sir David Amess, il deputato conservatore ucciso venerdì mentre incontrava i suoi elettori in una chiesa, la Belfairs Methodist Church a Leigh-on-Sea, vicino a Southend. Gli inquirenti potranno trattenerlo per interrogarlo fino al 22 ottobre ai sensi del Terrorism Act. Si tratta di un 25enne britannico di origine somale il cui padre, secondo il Daily Mail, è un ex membro del governo somalo. Ali avrebbe vissuto nel passato nel collegio elettorale di Sir David, Southend West, nell'Essex, ma più di recente si sarebbe trasferito a Londra, in un quartiere residenziale, dove le case costano fino a 2 milioni di sterline. Il 25enne era noto all'antiterrorismo, inserito alcuni anni fa in Prevent, il programma de-radicalizzazione del governo. Per gli inquirenti si tratta di un 'lupo solitario': ha agito da solo magari ispirato dai jihadisti di al-Shabaab, il gruppo terroristico nato da una costola di al-Qaeda e che opera tra Somalia e Kenya. Si sta anche valutando se possa essersi radicalizzato online durante il lockdown. Le moschee della località inglese di Southend, che era rappresentata da Amess, hanno definito il suo omicidio  un'"atrocità indifendibile".  In una nota congiunta, i leader religiosi hanno denunciato l'aggressione "brutale e senza senso", ricordando che il parlamentare 69enne era un "grande amico della comunità musulmana". I firmatari hanno raccontato che Amess, cattolico praticante, usava partecipare a eventi come matrimoni, aperture di moschee, persino il lancio del primo gruppo scout musulmano della cittadina; ed era "un pilastro" della comunità locale. "L'omicidio di 'Sir' David è un'atrocità indifendibile, commessa all'interno di un tempio, e noi la condanniamo nei termini più duri possibili", si legge nella nota. "Questo atto è stato commesso in nome dell'odio cieco e vogliamo che l'autore sia assicurato alla giustizia".    Intanto nel Ragno Unito il lutto per l'omicidio riunisce maggioranza e opposizione. Il primo ministro Boris Johnson e il leader dell’opposizione laburista, Kier Starmer, sono arrivati insieme sul luogo del delitto. Seguiti a poca distanza del ministro dell’Interno Priti Patel, hanno deposto dei fiori e osservato, uno di fianco all’altro, un minuto di silenzio. Nel Paese inoltre il dibattito sulla sicurezza dei parlamentari è all’ordine del giorno. Se da una parte ci si interroga sull’opportunità di continuare a esercitare, in questo clima, la cosiddetta attività di constituency surgery, e cioè i periodici incontri faccia a faccia con i cittadini del proprio collegio elettorale, dall’altra sono in tanti i parlamentari che desiderano portarla avanti. Ad esempio, Robert Largan e Alec Shelbrooke, deputati conservatori, hanno entrambi incontrato i loro elettori. Quest’ultimo ha twittato: “Non possiamo lasciare che eventi come questo riducano la profonda relazione che abbiamo con i nostri elettori. È una relazione veramente importante e desidero che i miei concittadini, che mi abbiano votato o meno, possano avvicinarmi per le strade, nei pub, al supermercato o in una delle mie surgery”.

Se l'ammazzato è conservatore allora vale meno. Una vita è sempre una vita e contro il terrorismo non si accettano compromessi. Gian Micalessin su Il Giornale il 17 ottobre 2021. Una vita è sempre una vita e contro il terrorismo non si accettano compromessi. Belle parole. Anzi, principi immortali. Peccato che nei notiziari televisivi e sulle pagine dei giornali anche vita e morte, al pari di indifferenza e indignazione, finiscano poi con l'adeguarsi al metro del politicamente corretto. Così, quando a finire ammazzata dalla pistola e dal coltello di un fanatico nazionalista inglese è stata la deputata laburista Jo Cox, caustica avversaria della no-Brexit e coraggiosa esponente del pensiero progressista inglese, lo sdegno ha subito coinvolto e sconvolto, i media di tutto il mondo. E, nel giro di qualche ora, quel delitto è diventato apertura obbligata per telegiornali e quotidiani. Quando, invece, il terrorismo è tornato a metter piede in Gran Bretagna colpendo un autorevole deputato conservatore e cattolico ammazzato nell'alveo, già di per sé simbolico e sacrilego, di una chiesa, il mondo mediatico è sembrato tentennare. Come se alla prova dei fatti il corpo straziato di un conservatore di destra non valesse quanto quello di una donna laburista e di sinistra. Così, fino a quando alla notizia dell'uccisione di Sir David Amess non si è aggiunta la certezza di una connotazione terroristica tutto è sembrato restare sotto tono, quasi ignorabile. O, perlomeno, ridimensionabile. Come se, in base a principi e valori correnti, la vita di un politico fastidiosamente conservatore, vetustamente religioso e troppo sollecito nel difendere gli animali anziché i migranti, fosse ideologicamente meno rilevante, umanamente meno significativa e giornalisticamente meno importante. Per restituire dignità a quella morte, indignazione al sangue versato sul sagrato e peso alla notizia c'è voluta l'aggravante del terrorismo. La mano assassina era quella di un integralista islamico di origini somale, radicalizzato, ma pare non ancora attenzionato da Scotland Yard. Però nel mondo largamente «liberal» dei media anche esecrazione e condanna hanno i loro tempi. Sono immediate e quasi istintive se l'assassino, spinto da trumpiane pulsioni, affonda il coltello urlando «England first». Vanno valutate, soppesate ed elaborate, sforzandosi di non offendere l'islam, quando l'assassino ulula «Allah è grande». Ma attenzione, l'indignazione a comando, sensibile solo alle luci verdi del politicamente corretto, è assai pericolosa. Soprattutto quando si applica alle vittime di un terrorismo che non fa distinzioni e considera eliminabili tutti gli «infedeli» colpevoli di non credere alla predicazione di Maometto. Anche perché, come tende volentieri a dimenticare chi teme di offendere il mondo musulmano, le vittime preferite del «politicamente corretto» islamista, di moda non solo nell'Emirato talebano, ma anche in tanti Paesi islamici, restano le donne, gli omosessuali e le minoranze etniche e religiose. 

Stefano Piazza per "la Verità" il 19 ottobre 2021. L'indagine sulla morte di sir David Amess, il parlamentare conservatore britannico ucciso venerdì 15 ottobre con 17 coltellate mentre incontrava i suoi elettori in una chiesa metodista di Leigh-on-Sea, nell'Essex, è ora di competenza dell'antiterrorismo di Londra. L'uomo arrestato per l'omicidio è Ali Harbi Ali, un venticinquenne britannico di origine somala arrivato con la famiglia nel Regno Unito dalla Somalia negli anni Novanta, già noto alle autorità come persona radicalizzata e da tempo inserito nella lista Prevent violent extremism che ha «lo scopo di impedire che le persone diventino terroristi o sostengano il terrorismo». L'uomo è figlio di Harbi Ali Kullane, un ex portavoce del primo ministro della Somalia che divide il suo tempo tra Londra e Nairobi, il quale ha confermato che suo figlio era sotto custodia della polizia dopo l'accoltellamento e si è detto «traumatizzato dall'arresto». Ali Harbi Ali è cresciuto con la famiglia in un quartiere lussuoso fatto di case a tre piani che costano in media 2 milioni di sterline e dove i vicini sono una serie di personaggi noti della televisione britannica. Allo stato attuale la polizia inglese avrebbe escluso l'intervento di eventuali complici, anche se nella giornata di sabato 16 ottobre sono state perquisite tre case a Londra, mentre l'arma con la quale è stato ucciso sir David Amess, 69 anni, parlamentare dal 1983, già segretario onorario dei Conservative friends of Israel dal 1998 e descritto come un sostenitore della comunità ebraica britannica, è stata recuperata nella chiesa accanto a Ali Harbi Ali. Il giovane, invece di darsi alla fuga dopo l'attacco pianificato da una settimana, si è seduto e ha aspettato con calma l'arrivo della polizia. Il ministro degli Interni, Priti Patel, dopo l'assassinio ha chiesto a tutte le forze di polizia di rivedere le disposizioni di sicurezza per i parlamentari «con effetto immediato». Difficile però proteggersi dalla furia degli islamisti, specie quando agiscono da soli in un Paese dove l'islam radicale dilaga ormai da decenni e dove spuntano di continuo moschee e associazioni che finiscono sotto il controllo della Fratellanza musulmana e di molte altre sigle estremiste, tra le quali c'è anche la pericolosissima setta dei Deobandi. Di quest' ultima fanno parte anche i talebani afghani, che in Inghilterra controllano almeno 738 delle 1.600 moschee presenti. I musulmani nel Regno Unito sono ormai più di tre milioni secondo la rilevazione del 2020 dell'Office for national dtatistics (Ons). La maggioranza dei musulmani britannici è pacifica e religiosamente osservante e la comunità cresce continuamente di numero anche grazie alle conversioni, che sono triplicate negli ultimi dieci anni, raggiungendo quota 100.000, con una media di 5.200 all'anno (dati 2019). La città che da tempo registra il maggior numero di conversioni alla religione maomettana è Londra, dove ogni anno 1.400 persone scelgono l'islam. Per capire le ragioni di questa esplosione occorre osservare l'andamento demografico: il censimento 2011 ha rivelato che l'età media dei musulmani è di 25 anni, mentre quella dei cristiani è di 45. Come spiegarlo? Semplice: i musulmani fanno più figli, molti più dei cristiani. Va inoltre aggiunto che la politica d'immigrazione e d'integrazione britannica negli ultimi anni ha favorito un vero e proprio boom degli arrivi dai Paesi musulmani, in particolare dal Pakistan. È evidente che, se questo trend dovesse essere mantenuto, tra meno di dieci anni la maggioranza dei cittadini britannici sarà di fede musulmana, e di questi l'80% sarà nato da immigrati. Già oggi i fedeli musulmani sono più numerosi degli anglicani: ogni settimana la preghiera islamica del venerdì riunisce quasi un milione di musulmani, mentre, secondo le più recenti statistiche della Chiesa d'Inghilterra, sarebbero solo 938.000 gli anglicani che partecipano alla messa domenicale. Le moschee a Londra sono più di cento e sono in continuo aumento le richieste per costruirne di nuove. Chi le finanzia? Arabia Saudita e Qatar. Come la Moschea centrale, che è stata costruita con finanziamenti diretti della famiglia reale saudita. L'Inghilterra però si è accorta solo dopo molto tempo di dover fare i conti anche con l'estremismo islamico salafita, cresciuto grazie a predicatori del male come Anjem Choudary, avvocato di origine pakistana e allievo prediletto dell'ex predicatore della moschea di Finsbury Park, Abu Hamza Al Masri, che sconta negli Usa due ergastoli e altri 100 anni per nove capi di terrorismo, senza possibilità di libertà condizionale. Choudary, fondatore di quasi tutti i gruppi islamisti inglesi tra i i quali Al-Muhajiroun e Islam4Uk, ha organizzato per decenni manifestazioni di protesta che avevano come fine ultimo la richiesta di imporre la sharia nel Paese. Inoltre ha incoraggiato e ha dato supporto ai giovani che volevano partire per la Siria e l'Iraq, ed esulta pubblicamente a ogni attentato, giustificando le stragi dell'11 settembre 2001 fino a quelle di Londra del 2005 e altre ancora. Oggi, dopo l'ennesimo soggiorno in carcere (è uscito nel 2019), si è fatto più cauto a livello mediatico ma non ha certo rinunciato alle sue idee. Con lui sono cresciute figure come Mizanur Rahman, Yasser Al-Sirri, Abu Haleema alias Shakil Chapra, Mohammed Shamsuddin, Abu Qatada Al-Filastini, Omar Bakri Muhammad, Abdullah El-Faisal e molti altri.L'intelligence britannica attualmente sta monitorando più 30.000 persone, delle quali circa 3.500 sono ritenute essere estremisti islamici pronti a compiere attacchi nel Regno Unito. L'Mi5, il servizio interno, stima che più di 800 cittadini britannici sono andati a combattere nel «Siraq»: molti di loro sono diventati star della propaganda islamista. Ma l'intelligence non si fornisce le cifre di coloro che sono rientrati. A proposito di numeri: dei trentamila che rappresentano una minaccia terroristica per lo Stato, oltre il 10% sarebbe pronto all'atto di forza. A fomentarli di continuo sono centinaia di «predicatori del male» liberi di spargere l'odio nelle strade della Gran Bretagna, sul Web, nelle tv e radio islamiche e nelle carceri, dove i casi di radicalizzazione non si contano più, così come gli attentati sventati. L'emblema del fallimento inglese però è rappresentato dalle «Sharia Court», le Corti islamiche che ammontano ormai a un centinaio nel Paese. Le principali si trovano a Londra, Birmingham, Bradford, Manchester e Nuneaton. Mentre sono già iniziati i lavori per istituirne di nuove a Leeds, Luton, Blackburn, Stoke e Glasgow. Fino a poco tempo fa queste Corti erano un mistero per gli stessi britannici; solo nel 2013 la Bbc (con un documentario dal titolo The secrets of Sharia courts) ha rivelato al grande pubblico l'esistenza di questo sistema legale parallelo al quale fanno riferimento sempre più musulmani britannici e, cosa ancora più sorprendente, anche cittadini britannici che ritengono la sharia un sistema giuridico sbrigativo ed efficace. Il primo tribunale islamico in Gran Bretagna fu creato nel 1982 a Leyton (est di Londra) con il nome di Consiglio della sharia islamica. Tutto si svolge nella riservatezza più totale. Le Corti analizzano e giudicano molte materie, tra le quali la poligamia, il ripudio della moglie (talaq), l'eredità, l'affidamento dei bambini e molti altri aspetti della vita di un musulmano. Si attivano anche nel caso di matrimoni misti, atto ritenuto gravissimo a meno che non vi sia un'immediata conversione all'islam del coniuge appartenente a un'altra religione. Intervengono e legiferano anche su questioni inerenti temi in cui le donne sono gravemente discriminate. A sovraintendere il lavoro dei tribunali della sharia è Suhaib Hasan, decano e segretario generale delle Corti islamiche britanniche, nonché membro del Cerf (Consiglio europeo della fatwa e della ricerca) diretto dal religioso Yusuf Qaradawi, membro dei Fratelli musulmani al quale in passato le autorità britanniche hanno negato il permesso di entrare nel Paese. Nel suo statuto, il Cerf sancisce che la sharia non può essere emendata per conformarsi all'evoluzione dei valori e dei comportamenti.La denominazione macchiettistica «Londonistan» è riduttiva rispetto alla realtà di certi quartieri della capitale, così come a quella di molte altre città britanniche dove è forte la presenza dell'islam radicale. In alcune zone si trovano cartelli o adesivi sui lampioni che mettono in guardia chi entra: «Stai entrando in un'area controllata dalla sharia». Simili segnali allarmanti si trovano a Liverpool, Manchester, Leeds, Birmingham, Derby, Bradford, Dewsbury, Leicester, Luton e Sheffield. Senza dimenticare Waltham Forest, a Nord di Londra, e Tower Hamlets, nella parte più orientale della capitale britannica. Si tratta d'intere aeree nelle quali il martellante lavoro dei predicatori salafiti con la loro dawaa al jihad, ovvero «chiamata al combattimento», ha fatto breccia. Essendo quartieri finiti sotto il controllo della sharia, guai ad attraversarli senza velo e vestiti castigatissimi se si è donne. E guai agli uomini sorpresi con bottiglia di birra o sigaretta in mano: si rischia di esser circondati dalla «sharia police» che, tra insulti e minacce, farà passare ai malcapitati un brutto quarto d'ora. Ma è il multiculturalismo bellezza.

Il parlamentare ucciso da un terrorista islamico "Ora tutelate i politici". Erica Orsini Il Giornale il 17 ottobre 2021. Londra. Un vero gentleman inglese, cortese con chiunque, e uno dei più grandi difensori dei diritti degli animali. Così viene descritto il deputato conservatore David Amess, il parlamentare britannico ucciso venerdì da un uomo in quello che viene considerato da Scotland Yard un attacco terroristico riconducibile all'estremismo islamico. L'aggressione è avvenuta a Southend-on-Sea, un piccolo paese dell'Essex, nella costituente di Southend West che Amess ha rappresentato in Parlamento dal 1983 fino alla sua morte. Il deputato stava incontrando i cittadini quando è stato ripetutamente pugnalato da un cittadino britannico di origini somale, che l'ha lasciato agonizzante a terra ed è stato arrestato subito dopo dalla polizia senza opporre resistenza. Il ragazzo, la cui identità non è ancora stata resa nota, si trova attualmente in custodia e, secondo quanto rivelava ieri il Guardian, gli inquirenti avrebbero deciso di collegare il suo gesto all'estremismo islamico da alcune dichiarazioni che avrebbe fatto mentre lo stavano portando via. Si sta vagliando ogni movente possibile del terribile atto. La polizia non sta cercando nessun altro complice, anche se ieri ha perquisito due abitazioni private a Londra e al momento non sono pervenute reazioni significative da parte del mondo jihadista. Non sembra neppure che il nome dell'uomo fosse inserito nella lista delle persone i cui movimenti vengono costantemente monitorati dalla polizia in quanto a rischio di radicalizzazione. Al vaglio anche le condizioni di salute mentale in quanto una delle ipotesi più accreditate rimane quella del cane sciolto, con un disagio mentale pregresso. Ieri sul luogo dell'incidente si sono recati il Premier Britannico Johnson, il ministro degli Interni Piri Patel, il leader laburista Sir Keir Starmer e la Speaker della Camera Sir Lindsay Hoyle. Patel, che era amica personale di Amess, ha richiesto alle forze dell'ordine una revisione immediata di tutte le misure di sicurezza annunciando che altre verranno attivate «per consentire ai parlamentari di svolgere il proprio lavoro». Su questo punto, l'omicidio di Amess, avvenuto a cinque anni da quello della collega laburista Jo Cox, che venne ammazzata a Londra a colpi di machete in una situazione identica, ha riaperto un dibattito molto sentito. «Nei prossimi giorni dovremo parlare in Parlamento di quali misure di protezione debbano essere prese», ha dichiarato ieri la Speaker Hyole, ma non sarà così semplice. Soprattutto nei piccoli paesi come Southend-on-Sea, i politici preferiscono avere un contatto diretto con i cittadini, non filtrato da controlli di polizia che possano scoraggiare le relazioni tra politica e gente comune. Così, mentre da una parte alcuni come l'ex ministro conservatore Tobias Elwood raccomandano ai colleghi di limitarsi a contatti via Zoom, altri sono determinati a continuare a lavorare come ha sempre fatto lo stesso Amess, rimanendo a fianco di chi rappresenta in Parlamento. Ieri una folla si è recata a deporre dei fiori, a raccontare episodi, ad abbracciarsi, davanti alla Chiesa Metodista di Belfairs dove David è stato ucciso. «Lui piaceva a tutti, indipendentemente dal colore politico», ha raccontato al Guardian Robert, un abitante dell'area - era estremamente presente nella comunità, un uomo caritatevole e attento che si sforzava di essere sempre presente ai nostri incontri». Per anni, Amess ha portato avanti le sue campagne locali, come quella sulla promozione a città del collegio elettorale di Southend-on-Sea, una battaglia che probabilmente vincerà adesso, da morto. E mentre tutti si stringono solidali attorno alla moglie e ai suoi cinque figli, il livello di allerta nel Paese riguardo a eventuali possibili attentati rimane, per ora, invariato.

Crolla la fiducia in Scotland Yard dopo il delitto di Sarah Everard. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2021. In bilico la capo della polizia Cressida Dick. L’ex poliziotto condannato per l’omicidio era un noto maniaco sessuale, tanto da essere soprannominato «lo stupratore» dai suoi colleghi. C’è del marcio a Scotland Yard. La polizia più famosa del mondo è sotto accusa dopo che sono emersi particolari agghiaccianti nel corso del processo a Wayne Couzens, l’ex agente condannato mercoledì all’ergastolo per lo stupro e l’uccisione, lo scorso marzo a Londra, della giovane Sarah Everard . E ormai da più parti si levano voci che chiedono le dimissioni immediate di Cressida Dick, la donna che è a capo della polizia londinese. Si è scoperto che Couzens aveva fermato per strada Sarah e le aveva mostrato il tesserino di poliziotto, dicendole che doveva arrestarla per violazione delle regole sul lockdown: l’aveva quindi ammanettata a condotta nella sua auto, dove l’aveva violentata e strangolata. Sono circostanze che hanno pesantemente intaccato la credibilità della polizia, che ha però reagito maldestramente, suggerendo alle donne che d’ora in poi abbiano dubbi sul comportamento di un agente di «fermare un autobus» e scappare via: un consiglio che è stato bollato come a dir poco risibile. Ma c’è di molto peggio. Couzens era un noto maniaco sessuale, tanto da essere soprannominato dai suoi stessi colleghi «lo stupratore». Tutti sapevano che faceva uso di droghe e che era un amante della pornografia estrema e che sei anni fa era stato sospettato di atti osceni. Addirittura, tre giorni prima dell’uccisione di Sarah, l’agente si era dato all’esibizionismo in un MacDonald: identificato grazie alla targa della macchina, non era stato arrestato. Ma Couzens non era il solo a indulgere in comportamenti abbietti: al processo è venuto fuori che ci sono altri cinque agenti al momento sotto inchiesta perché scambiavano con lui messaggi osceni e misogini su WhatsApp. Questo vuol dire che ci sono state innumerevoli occasioni in cui l’agente deviato avrebbe potuto essere fermato in tempo: ma tutto è stato lasciato passare sotto silenzio, fino alla sera fatale del delitto Everard. Ed è una consapevolezza che va ad aggiungersi al dolore indicibile dei genitori della giovane. La stessa responsabile di Scotland Yard, Cressida Dick, ha ammesso che il caso ha profondamente danneggiato «il prezioso legame di fiducia» che esiste tra la polizia e il pubblico. Un rapporto che si era già incrinato gravemente quando, sempre a marzo, gli agenti avevano pesantemente caricato le donne che partecipavano a una veglia in memoria di Sarah, perché «colpevoli» di violare il lockdown. E ieri sera alla televisione erano molte le voci femminili che ammettevano di non potersi più affidare con serenità agli agenti. Una frattura tanto più grave se si considera che in Inghilterra la polizia non è vista come il braccio repressivo dello Stato, ma come un organo a difesa del pubblico: «cittadini in uniforme», li definiscono, che sono parte integrante della comunità. Ma la stessa ministra dell’Interno, Priti Patel, ha detto giovedì sera che ora «ci sono delle gravi questioni cui Scotland Yard deve dare risposta». E una delle deputate laburiste più in vista, Harriet Harman, ex sottosegretaria alla Giustizia, ha chiesto a Cressida Dick di dimettersi «in modo che le donne possano avere di nuovo fiducia nella polizia». Ieri sera è intervenuto lo stesso primo ministro, Boris Johnson, che ha chiesto alla gente di continuare a credere nell’operato degli agenti, ma ha aggiunto che le autorità «andranno giù duro» nei confronti dei poliziotti colpevoli di comportamenti sbagliati. E ha annunciato che il governo dovrà andare a fondo per capire «cosa diavolo è successo» nel caso Couzens. Johnson ha ammesso che ci sono problemi «nel modo in cui trattiamo le denunce per stupro, violenza domestica e violenza sessuale»: «È un incubo per le donne coinvolte e dobbiamo risolverlo». Una delle soluzioni, a suo dire, è reclutare più donne: ma è evidente che per Scotland Yard la strada resta tutta in salita.

Il "generale fantasma" incubo degli inglesi. Andrea Muratore il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Paul von Lettow-Vorbeck seppe condurre una guerriglia personale senza sconfitte nel cuore dell'Africa durante la Prima Guerra Mondiale. Le truppe di Lettow-Vorbeck in azione contro i portoghesi nel 1917 in una rappresentazione della stampa tedesca dell'epoca. Lontano dai campi insanguinati e devastati della Francia e delle Fiandre, nel pieno della Grande Guerra, nel cuore dell'Africa dominata delle potenze europee andò in scena un duello romantico, un piccolo "grande gioco" condotto tra le foreste e le pianure dell'Africa orientale tedesca. Pochi anni prima del compimento del suicidio dell'Europa, cristallizzando fuori dal tempo la rivalità tra le potenze nell'ultimo continente oggetto dell'assalto coloniale, una forza mobile tedesca composta sia da militari del Reich guglielmino che da locali arruolati nel territorio dell'odierna Tanzania condusse per l'intero arco del primo conflitto mondiale una guerriglia intensa contro le truppe britanniche che avevano invaso gli avamposti germanici. Alla guida di questa armata che seppe arrivare all'11 novembre 1918, giorno della resa della Germania, senza sconfitte vi era un estroso ufficiale prussiano, Paul von Lettow-Vorbeck, nato nel 1870 da una famiglia della Pomerania dalla lunga tradizione militare, con alle spalle una carriera di servizio che lo aveva portato a partecipare nel 1900 alla spedizione contro i Boxer in Cina, nel 1904 alla controguerriglia in Namibia e, negli anni successivi, al presidio del Camerun tedesco. Giunto al comando delle forze di presidio dell'Africa orientale tedesca, le Schutztruppe, nei mesi precedenti lo scoppio della Grande Guerra, Lettow-Vorbeck, promosso al rango di generale, assemblò un'armata ibrida formata da soldati del territorio metropolitano e ascari locali. Con questi uomini, il generale seppe costruire un rapporto fiduciario grazie alla conoscenza della cultura locale, della lingua e delle tradizioni di popoli, trattati non come sottomessi ma come compartecipi del controllo tedesco del territorio. Si può tracciare un filo diretto tra l'austero generale prussiano e due figure che hanno saputo sublimare l'arte della guerriglia nella prima metà del Novecento: Lawrence d'Arabia, che sul fronte opposto promosse la rivolta araba contro l'Impero Ottomano, e Amedeo Guillet, che durante la campagna britannica nell'Africa orientale italiana nel secondo conflitto mondiale impegnò le forze britanniche alla testa di un gruppo di bande armate indigene. Lettow-Vorbeck, prima di Lawrence e Guillet, seppe creare il modus vivendi ideale per far convivere europei e locali, esponenti di civiltà diverse, militari con diverse professionalità e formare un esercito coeso che operava secondo i canoni della più avanzata guerriglia. Un'armata al cui interno ogni barriera era caduta. "Siamo tutti africani" disse Lettow-Vorbeck ai suoi uomini dopo l'inizio dell'offensiva britannica e terrestre delle truppe britanniche il 2 novembre 1914, che portò il generale alla decisione di resistere e portare sul terreno la sua conoscenza del terreno e la sua abilità militare contro l'Impero britannico. Da allora, per oltre quattro anni, Lettow-Vorbeck fu la spina nel fianco degli inglesi e dei loro alleati belgi e portoghesi che accerchiavano l'Africa orientale tedesca nella regione dei Grandi Laghi. Nell'agosto 1914, allo scoppio delle ostilità, Lettow-Vorbeck si trovò alla guida di un esercito che aveva raggiunto una forza di circa 11.000 ascari, principalmente di etnia rugaruga, e 3.000 europei. L'obiettivo strategico della sua azione non era concordata con i vertici militari di Berlino o con il governo della colonia, che anzi spingeva per la neutralità: si trattava, semplicemente, di inchiodare nelle remote terre africane il maggior numero possibile di truppe dell'Intesa, imponendo a britannici e alleati un costo notevole per la sua conquista e il suo controllo. Dal punto di vista dei tedeschi, per quattro anni la manovra di Lettow-Vorbeck fu un brillante successo. Lo storico militare Edwin Palmer Hoyt ha definito come "la più grande azione di guerriglia di sempre" la manovra con cui Lettow-Vorbeck e i suoi uomini seppero bloccare le armate nemiche. Incursioni in villaggi remoti, attacchi a presidi isolati condotti contro le truppe entrate nella colonia, attentati a treni e ferrovie, raid contro reparti isolati si susseguirono a lungo. Lettow-Vorbeck adottava la tattica del mordi e fuggi, si coordinò con la guerra di corsa portata avanti dalle poche navi tedesche rimaste sul Lago Tanganica e nei fiumi affluenti, recuperò l'equipaggio e i preziosi cannoni da 105 mm dell'incrociatore leggero Konigsberger affondato dai britannici sul fiume Rufigi nel 1915, rifiutò lo scontro campale salvo attaccare le punte delle avanzate nemiche quando il terreno si faceva favorevole. A Tabora, nel marzo 1916, il generale britannico e futuro premier sudafricano Jean Smuts subì una dura sconfitta. A Mahiwa, nel sud della colonia, nonostante la caduta della capitale Dar es Salam, Lettow-Vorbeck si ripeté travolgendo i britannici e gli alleati nigeriani. Nel 1917 attraversò il confine col Mozambico portoghese, travolse la guarnigione lusitana a Ngomano e risolse i problemi di rifornimento per il resto della guerra. La roccaforte principale dell'armata afro-tedesca restava l'inespugnabile catena di montagne di Uluguru, nell'Est dell'attuale Tanzania, ricoperte di foreste equatoriali piovose e inospitali. Smunts, che aveva provato a mettere in difficoltà il generale tedesco puntando a soffocarne le linee di rifornimento, non aiutò certamente a conquistare alla causa di Sua Maestà la popolazione locale. Lettow-Vorbeck tornò nel settembre 1918 nelle sue terre di partenza dopo un raid nella Rhodesia del Nord e tenne alta la bandiera di guerra della Germania fino al novembre successivo. Nemmeno la capitolazione germanica sul fronte occidentale bastò a fermare le sue gesta: il 13 novembre 1918, due giorni dopo l'armistizio di Compiegne, Lettow-Vorbeck entrò a Kasama, nell'attuale Zambia, rifiutando l'idea di una caduta del Reich guglielmino. Solo un paio di settimane dopo il generale pomerano avrebbe consegnato ai britannici le armi ufficializzando una resa dopo una guerra condotta senza sconfitte sul campo e dopo aver inchiodato decine di migliaia di britannici e alleati in un fronte secondario. Lettow-Vorbeck era diventato per i suoi ascari il "Leone", il comandante che alcuni dichiaravano di voler seguire fino "in capo al mondo", l'uomo che creò un'armata multinazionale in un'area ferita dal colonialismo, il protagonista di un'epopea personale e militare che avrebbe fatto scuola. Non a caso, dopo l'ascesa del regime nazista in Germania, Lettow-Vorbeck non ebbe dubbi a rifiutare il suo appoggio a un governo che negava gli ideali in nome dei quali aveva marciato per le terre equatoriali. Non c'era legame tra quella nuova patria e la sua idea di fedeltà a una bandiera e onore militare da estendere a chiunque avrebbe scelto di combattere per la Germania. Indipendentemente dalle sue origini. Come Guillet in Eritrea, dopo il secondo conflitto mondiale poté incontrare gli ascari che avevano combattuto nelle sue fila, ricevendo l'onore delle armi e confermando quanto scritto dallo storico Charles Miller: "Nessun militare bianco dell'era coloniale ha ricevuto dagli africani tanta stima non solo come comandante ma anche come uomo". A testimonianza della capacità profonda che la guerra ha di creare non solo devastazioni e lutti, ma anche valori e insegnamenti profondi la storia di von Lettow-Vorbeck resta una delle imprese più incredibili del secolo più tragico della storia umana.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia 

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 18 settembre 2021. Misura per misura: il governo di Boris Johnson ha annunciato, in nome della Brexit, l'abbandono del sistema decimale in chili e grammi per i prodotti in vendita, imposto vent' anni fa dall'Unione europea, e il ritorno alle tradizionali pounds e ounces inglesi, ossia libbre e once, conosciute anche come «misure imperiali». È una promessa che il premier conservatore aveva fatto appena si era insediato a Downing Street: «Ripristineremo quell'antica libertà - aveva detto -. La gente capisce cos' è una libbra di mele: ci sarà un'era di generosità e tolleranza verso le misure tradizionali». In realtà, è un sollievo soprattutto per le generazioni più anziane, abituate da sempre a ragionare in quel modo (mia moglie, inglese, non ha mai capito cos' è esattamente un chilo): per i più giovani, cresciuti col sistema europeo, sarà un po' più difficile raccapezzarsi. Per capirci, una libbra equivale a 450 grammi, ma è composta di 16 once, che dunque equivalgono ciascuna a circa 28 grammi: se un pollo pesa 6 libbre e 10 once, è un vero rebus. È una confusione tuttavia che vale il gioco della Brexit, in nome della quale il governo Johnson ha annunciato un gran falò dei regolamenti europei: tornerà anche lo stemma con la corona reale sui boccali di birra, introdotto nel lontano 1699 per stabilire dove deve arrivare una pinta e sostituito nel 2006 dal marchio CE (conformità europea). Il ripristino delle misure imperiali è una vittoria postuma per Steve Thoburn, il fruttivendolo passato alla storia come «il martire della metrica», che vent' anni fa venne condannato a sei mesi di carcere (con la condizionale) per aver venduto un casco di banane in libbre invece che in grammi: in base alle direttive europee, era infatti illegale contravvenire al sistema decimale. Già allora Johnson, che era direttore dello Spectator , il settimanale conservatore, aveva tuonato contro la «mostruosità» di «costringere i britannici a usare le misure di Napoleone». Ma in realtà il governo britannico sembra voler applicare la Brexit soltanto quando gli conviene: ha infatti sospeso l'introduzione dei controlli doganali sulle merci in arrivo dall'Europa, nel timore di trovarsi con i supermercati vuoti. Già da settimane in Gran Bretagna ci sono difficoltà di approvvigionamento a causa delle nuove norme sugli spostamenti, che hanno messo in crisi le catene logistiche: tanto che si teme che possa addirittura «saltare» il Natale. Mettere in atto pure i controlli doganali avrebbe fatto precipitare la situazione: e dunque, in barba alla retorica sul «riprendere il controllo», Londra ha deciso di far finta che la Brexit in questo caso non sia avvenuta. Allora il ritorno alle «misure imperiali» appare soprattutto come una mossa populista, una decisione di facciata per dare al pubblico l'impressione di fare sul serio: ma quando poi la Brexit rischia di «mordere», torna comodo ignorarla e andare avanti come se niente fosse.

Le spie del Regno Unito: come funziona l’intelligence di Londra. Andrea Muratore su Inside Over il 22 settembre 2021. Finita l’epopea dell’impero britannico, conclusasi la storia del domino sui mari della flotta di Sua Maestà, incerte le prospettive sulla “Global Britain” per l’era post-Brexit, il Regno Unito è oggigiorno mantenuto nel ruolo di potenza di taglia internazionale da pochi fattori strategici. Se da un lato uno è sicuramente il possesso di un arsenale nucleare strutturato e rodato, dall’altro non si può non mettere tra i comparti di eccellenza di Londra lo strutturato apparato di intelligence capace di una notevole proiezione su scala globale.

Le spie di Sua Maestà. Inglese è, non a caso, James Bond, l’agente segreto per antonomasia. E non è secondaria, nella storia di 007, la natura di ex agente dell’intelligence di Ian Fleming, il suo creatore. Nella Seconda guerra mondiale, durante la quale Fleming prestò servizio, l’intelligence fu la vera e propria arma segreta delle forze armate britanniche. Le intercettazioni del gruppo di Bletchley Park sul codice Enigma, che permisero di rompere la segretezza dei cifrari tedeschi, contribuì a diversi successi in Africa e nel Mediterraneo; le attività del Special Operations Executive (Soe) sostennero le resistenze norvegesi, olandesi, francesi, italiane, jugoslave e greche e consentirono diverse azioni di disturbo e sviamento della macchina militare del Terzo Reich. La Seconda guerra mondiale creò il mito delle spie britanniche ma spinse anche il governo di Winston Churchill e, dopo di lui, il successore Clement Attlee a portare a una razionalizzazione di un apparato che, tra varie strutture, vantava oltre mezzo secolo di storia e una vasta complessità. Il Grande Gioco raccontato da Peter Hopkirk nell’omonimo saggio, il confronto tra spie russe e britanniche per inserirsi nelle strategiche aree dell’Asia Centrale, a metà XIX secolo pose a Londra e allo stato maggiore imperiale il dilemma della strutturazione di apparati di raccolta informazioni capaci di evitare di dipendere dalle gesta di singoli “solisti”. Il War Office intento a coordinare l’esercito britannico istituì il suo comparto intelligence nel 1873, creando il Directorate of Military Intelligence (Dmi) che per la ricerca informativa in campo militare avrebbe operato fino al 1964. Parimenti, l’Ammiragliato a capo della Royal Navy creò nel 1882 il Foreign Intelligence Committee e nel 1887 il Naval Intelligence Department. La guerra alla Germania nazista prima e la Guerra Fredda poi crearono la necessità di una strutturazione chiara e univoca del governo dei servizi britannici, spingendo dal 1939 in avanti Downing Street ad approfondirne l’evoluzione e a garantire di fatto un crescente potere di coordinamento a una struttura di raccordo, il Joint Intelligence Committee, da allora in avanti centrale nel regolare un apparato sempre più complesso. Ad oggi, il comparto intelligence britannico conta dieci diverse agenzie suddivise in quattro branche, coordinate dal Jic e affidate in ultima istanza all’autorità del Primo ministro, che nel suo governo ha al suo fianco proprio il direttore dell’intelligence nazionale. La divisione dell’intelligence britannica è su due livelli: i servizi di Sua Maestà possono essere classificati o per attività funzionali o per area di competenza. La distinzione interno/estero divide in particolare le operatività di otto diverse agenzie.

Le agenzie interne ed estere. Sul fronte dell’intelligence domestica si trovano un’ampia e articolata gamma di strutture aventi come compito attività che esulano dal cerchio stretto delle attività di un servizio. Il National Fraud Intelligence Bureau si occupa di attività di contrasto al crimine finanziario; il National Ballistics Intelligence Service di monitoraggio di eventuali armi da fuoco illegali e la National Crime Agency svolge indagini e raccolte informative sulle reti criminali nel loro complesso. Ai vertici della piramide interna dei servizi britannici vi sono gli uffici per il contrasto all’estremismo (National Domestic Extremism and Disorder Intelligence Unit) e al terrorismo (Office for Security and Counter-Terrorism) e, in cima, il Security Service per eccellenza, il celebre MI5. Il MI5 è il principale servizio interno e opera nella direzione dell’attività anti-terrorismo, nella prevenzione dei rischi al sistema-Paese e del controspionaggio in campo militare, economico, tecnologico, industriale. Fondato come Secret Service Bureau nel 1909 ha il suo equivalente estero nel Military Intelligence Section 6 (MI6), che assieme alla Defense Intelligence rappresenta il perno dell’attività del Regno Unito fuori dai confini nazionali. MI6 lavora esclusivamente con informazioni straniere e, quindi, oltre i confini britannici. La legge britannica autorizza l’MI6 a eseguire operazioni solo fuori dai confini territoriali britannici.

Gchq: l'agenzia della tecnologia di frontiera. Completa l’architettura una struttura fondata sull’operatività in ambito tecnologico e informativo che rappresenta il prototipo di una moderna struttura di signal intelligence. Il General Communication Head Quarter (Gchq) istituito nel 1946 è da allora l’erede dell’apparato di “Ultra” che a Bletchley Park violò le chiavi delle comunicazioni naziste. Il Gchq è la chiave di volta della più strutturata alleanza d’intelligence a cui il Regno Unito appartiene, il complesso sistema Five Eyes che unisce Londra a Usa, Nuova Zelanda, Australia e Canada creando un vero e proprio sodalizio dell’Anglosfera in ambito di scambio di informazioni privilegiate, alleanze in termini di contrasto a minacce comune, prevenzione di offensive ibride. Il Gchq ha da tempo e in futuro avrà sempre più rilevanza mano a mano che si strutturerà la volontà di Londra di fare del cyber e del mondo tech la nuova frontiera per i suoi apparati militari e securitari. I nuovi 007 di Sua Maestà si occuperanno sempre di più di cybersicurezza, hackeraggi, offensive coperte, intrusioni informatiche: l’intelligence evolve e prepara la conquista  delle nuove frontiere proprio nel Paese che ne ha brevettato la sua versione moderna e modernizzato le linee guida operative.

Da ilmessaggero.it l'8 settembre 2021. Non cessa di scioccare il ritrovamento di 80 scheletri con le mani legate avvenuto a inizio del 2020 a Buckingham, città a 110 chilometri da Londra, in Gran Bretagna. Oggi la questione è stata risollevata da un consigliere comunale locale, che ha chiesto chiarimenti in merito alla scoperta. I corpi sono tornati alla luce durante i lavori di edificazione di una casa di riposo. Secondo i primi studi pare che i corpi siano rimasti interrati nel giardino di un casolare, lo West End Farm, vicino a Brackley Road, nella cittadina inglese, per secoli. Gli operai erano a lavoro per la costruzione di una casa di riposo quando sono stati interrotti dal macabro ritrovamento di ossa. 

La richiesta di chiarimenti. La notizia ha lasciato sconcertati tutti i residenti di Buckingham. E anche un locale consigliere comunale ha chiesto chiarimenti sull'accaduto. Robin Stuchbury ha richiesto in aula una relazione provvisoria: «Come sapete, un gran numero di corpi sono stati scoperti durante gli scavi alla West End Farm, in Brackley Road a Buckingham.Ottanta scheletri con le mani legate dietro la schiena. Vorrei quindi che il responsabile di gabinetto per la pianificazione e l'urbanistica redigesse un rapporto con le analisi di base fatte fino ad adesso per chiarificare ciò che ralmente è accaduto a questi uomini e a queste donne, e quando è accaduto». Quindi il consigliere comunale ha fatto cenno ai problemi finanziari che hanno rallentato i processi studio in questi mesi. «So che alcune analisi sono state interrotte a causa di problemi finanziari che hanno rigurdato il Network Archaeology, ma quale azione può intraprendere il Consiglio per risolvere la situazione?», si è chiesto il consigliere concludendo l'intervento. Per lo storico Ed Grimsdale, intervistato dalla Bbc, quello di inizio 2020 a Buckingham potrebbe trattarsi di «uno dei più grandi ritrovamenti di sempre di questo genere». «Potrebbero essere essere stati prigionieri giustiziati», ha concluso.

La guerra del Partenone. Stenio Solinas il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. Un libro ricostruisce il viaggio rocambolesco dei fregi verso l'Inghilterra. Fu un atto politico. La verità più brutale gliela gettò in faccia Lord Byron: «Senza naso porta a casa blocchi senza naso per mostrare quel che ha fatto il tempo e quel che ha fatto la malattia». L'oggetto di questa invettiva si chiamava Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, e un ritratto di poco precedente la sua mutilazione ci mostra un aitante trentenne in abito militare, negligentemente appoggiato sulla propria sciabola, come fosse un bastone da passeggio, lo sguardo fiero di chi guarda lontano. È appena diventato ambasciatore d'Inghilterra a Costantinopoli, sogna la carriera politico-diplomatica che quella nomina comporterà, accarezza l'idea di metterla «al servizio dell'arte»: schedare, disegnare, ricopiare, riprodurre ciò che giace dimenticato in un Oriente che nella sua dimensione ottomana ha dentro di sé l'Occidente più classico, Atene, ovvero l'Acropoli, ovvero la Grecia, il Partenone, ovvero i suoi fregi, ovvero i suoi marmi. Ciò che verrà fuori da quel duplice sogno sarà il più grande saccheggio nella storia dell'arte che però, come una nemesi, s'abbatte sulla vita dello stesso saccheggiatore: non farà carriera, il suo matrimonio così come il suo patrimonio andranno in pezzi, una maschera gli coprirà per sempre il volto: gli è stata amputata la punta del naso, l'asma sofferta fin da bambino che l'Oriente ha trasformato in vesciche, perdite di sangue, salassi e corrosive ingestioni di mercurio. Lord Elgin è soltanto uno dei protagonisti del bel libro di Marta Boneschi Il naufragio del Mentor (Luiss, 268 pagine, 19 euro), una cavalcata vertiginosa nel cuore ottocentesco del Vecchio continente i cui battiti arrivano però fino a quello di oggi, identità nazionali e patrimonio culturale, egemonie e appropriazioni, musei a cielo aperto e musei come simbolo di potenza. Il sottotitolo del libro, «I marmi del Partenone e la guerra per il dominio dell'Europa», indica come la posta in gioco non riguardi tanto la storia dell'arte, quanto ciò che le ruota intorno, la sua universalità e insieme il fare parte di singole narrazioni, singoli Stati, singole nazioni. Facciamo un passo indietro, meglio, un passo di lato all'interno del saggio della Boneschi: che cos'è la Grecia nel momento in cui Lord Elgin si accinge a depredarla convincendosi che sia il modo migliore di salvarla? In quegli stessi anni una risposta ce la dà Chateaubriand che, in vista del suo Itinerario da Parigi a Gerusalemme, la percorre cercando un'eco di ciò che è stata e non trovando altro che rovine risuonanti a vuoto, aggravate da una miseria che fa venir voglia di scappare: «Ebbene, ho visto la Grecia! Ho visitato Sparta, Argo, Micene, Corinto, Atene; bei nomi, ahimè, e nient'altro. Sempre più mi rendo conto che più si avanza nella vita, più si perde qualche illusione. Non guardate la Grecia, se non in Omero. È più sicuro». Per uno che «avrebbe voluto morire con Leonida, e vivere con Pericle» si tratta di una delusione esistenziale. A Eleusi l'idea della devastazione del Tempo, della storia come relitto e/o come naufragio, del sentimento del Tempo che cerca di sopravvivere al Tempo stesso, è da lui resa con un artificio magistrale: la poesia dei grandi nomi scomparsi, della civiltà e delle rovine nasce dalla magia di una scena semplice, di un mercante di catrame che ignora il nome del re persiano che vide lì la sua sconfitta e addirittura quello antico del villaggio dove pure abita, una spiaggia deserta, un mare abbandonato dalle triremi di Temistocle e dove il rollio silenzioso di una barca da pesca fa capire che la gloria non abita più lì. La Grecia, insomma è, come puntualizza Marta Boneschi, «una terra derelitta divisa fra l'impero ottomano e vari potentati locali, agli albori della coscienza nazionale e impossibilitata a difendere i propri tesori». Icasticamente, uno storico come Gibbon ha racchiuso in un proverbio quella che allora è opinione di molti, se non di tutti: «Cattivo come un turco di Negroponte, come un ebreo di Salonicco, come un greco di Atene», tre identità diverse e però sullo stesso suolo. Lord Elgin dunque va situato all'interno di un'epoca in cui «si rafforza la convinzione che sia virtuoso salvare quelle reliquie di un tempo glorioso, ora abbandonate ai barbari, per traslocarle a casa propria». Si respira nell'aria una febbre antiquaria e del resto i primi musei nazionali sono nati da non più di mezzo secolo: il British Museum apre i battenti nel 1759, seguito dall'Ermitage di Pietroburgo e poi dal Louvre di Parigi L'appropriarsi dell'antica bellezza classica equivale, per i governi nazionali che li hanno voluti, a dichiararsi eredi di una civiltà illustre. Ciò non toglie che nella spoliazione di Lord Elgin ci sia qualcosa di più della semplice febbre di rovine dei singoli collezionisti antiquari; e qualcosa di meno di chi si dà da fare per arricchire la propria nazione con un patrimonio altrui. È una sorta di hybris, di frenesia, di delirio di onnipotenza: decine di casse, migliaia di reperti, interi pezzi di architettura e di scultura smantellati e scalpellati. Anche qui, il solito Chateaubriand darà il giudizio più lucido: «È vero che i francesi hanno prelevato dall'Italia le sue statue e i suoi quadri, ma non hanno mutilato templi per divellere bassorilievi, essi hanno soltanto seguito l'esempio dei romani che spogliarono la Grecia dei capolavori e della statuaria». E ancora: «Lord Elgin ha voluto togliere i bassorilievi dal fregio: per poterlo fare, gli operai turchi hanno prima spezzato l'architrave e atterrato i capitelli; poi, invece di estrarre le metope dai loro alloggiamenti, i barbari hanno trovato più agevole frantumare la cornice». Un merito Elgin però lo ha, mentre le sue navi come il Mentor affondano con le loro casse piene di reperti, poi fortunosamente recuperati, mentre altre navi di sua Maestà britannica si prestano malvolentieri a trasformarsi in carghi per far arrivare sana e salva in patria la sua collezione. È in quegli anni che, come un'inconscia reazione a quel saccheggio, l'antico lamento per una Grecia schiava e sottomessa si trasforma nel nuovo grido di battaglia per una Grecia libera e indipendente, che «la causa greca» diviene la causa per eccellenza della meglio gioventù europea, la causa che comprende e sublima le rivendicazioni libertarie e nazionali che la Santa Alleanza della restaurazione post-napoleonica si illude di reprimere. Il poeta che meglio la incarna è Byron, quel Lord Byron da cui siamo partiti e con cui terminiamo. La Grecia sarà per lui la liberazione dal mito di sé stesso, dal rischio di contemplare soltanto la propria decadenza. È Byron a fare, come nota Marta Boneschi, «della spoliazione del Partenone una giusta causa dell'umanità». Nel pugno di anni che separano l'ultimo carico di Lord Elgin dal byroniano Pellegrinaggio del giovane Harold c'è il passaggio di un'epoca: «Le meraviglie dell'antichità classica sono sublimi, ma lì dove sono, nel loro contesto autentico. Le opere d'arte del passato costituiscono una parte integrante dell'identità dei greci e la loro nazione si costruisce anche grazie alla memoria del passato». Stenio Solinas

Dagospia il 7 agosto 2021. Riceviamo e pubblichiamo: “L’arte resa muta dall’autorità” scriveva Shakespeare nel sonetto 66. Parole che oggi, nell’era di internet e della democrazia digitale, potrebbero sembrare distanti anni luce dall’era del Bardo. Eppure un subdolo, sinistro e agguerrito atto di censura è avvenuto proprio su Wikipedia, la “madre” della libera informazione, enciclopedia democratica, sulla quale, invece, gravano ombre Orwelliane. Insomma Wikipedia non è più quella di una volta, signora mia! Lo scorso giugno infatti, una schiera di amministratori Inglesi, ha cancellato e censurato una pagina dedicata alla connessione tra Shakespeare e l’umanista, traduttore e lessicografo Anglo-Italiano John Florio. La questione della paternità delle opere di Shakespeare va avanti da diversi secoli. Queste teorie sono approfondite in una pagina Wikipedia: Shakespeare Authorship Question, che il giorno 20 Giugno 2021 ha avuto un nuovo candidato: il grande umanista Anglo-Italiano John Florio, contemporaneo di Shakespeare, creativo linguista, inventore di proverbi e composti, attivo nel teatro e straordinario traduttore. Ci si è sempre domandati: come faceva il Bardo a conoscere così bene la lingua Italiana, i luoghi Italiani citati nelle sue opere e gli autori Italiani dai quali ha preso in prestito le trame (lette in Italiano) per le sue opere? Gli studiosi dicevano che John Florio fungeva da amico, tutore, traduttore e costante aiuto di Shakespeare. Ma questo può bastare per spiegare le tante, troppe connessioni che vi sono tra i due autori? Perché i due scrivevano anche allo stesso modo, creavano le stesse parole, gli stessi proverbi e composti Inglesi. Ma la pagina Wikipedia di John Florio ha avuto brevissima vita: dopo averlo definito “The Monster”, amministratori e redattori Inglesi in poche ore hanno completamente cancellato tutti i paragrafi che spiegavano le tantissime similitudini e connessioni tra Shakespeare e John Florio, parola dopo parola, fino a lanciare la richiesta di eliminazione totale della pagina. I motivi? “Informazioni poco rilevanti”, “Fonti vecchie”: queste sono state le banalissime e imbarazzanti scuse utilizzate per cancellare, indisturbati, oltre ventimila parole e dodici paragrafi, terrorizzati che le informazioni potessero essere lette pubblicamente dal mondo intero e girare indisturbate sull’enciclopedia “democratica”. Ma non è finita qui, perché la pagina originale è stata successivamente sostituita da un’altra che contiene informazioni non solo poco veritiere, ma che mirano soprattutto a distorcere e a minimizzare l’enorme importanza di Florio nelle opere del Bardo. Un esempio è la oramai famosa infondata bufala che gira su vari siti internet, e che rimane invece indisturbata (chissà perché), su Wikipedia: la “Crollalanza”, basata su tesi false, inesistenti, che ha cancellato così, in pochi minuti, centinaia di fonti a testi accademici e pubblicazioni dei più noti studiosi Shakespeariani. E qui si evince tutta l’ipocrisia degli amministratori Inglesi, che spalleggiati dai sostenitori degli altri candidati, hanno trattato John Florio diversamente dagli altri “puro sangue” Inglesi: mentre nelle altre pagine dei candidati è stato permesso di inserire studi comparativi sulle similarità stilistiche di altri autori con lo stile di Shakespeare, per la pagina di John Florio non è stato concesso di inserire i numerosi proverbi coniati da Florio nelle sue opere e poi utilizzati successivamente nelle opere di William Shakespeare. Perché questa censura a senso unico, con il chiaro intento di inserire nella pagina Wikipedia solo una grande bufala basata su notizie infondate, e riducendo la pagina di John Florio ad un articolo clickbait di seconda mano per meri sfuggenti e non informati appassionati di teorie cospirazioniste? In un sito che si prefigge di diffondere l’informazione libera e, soprattutto, che deve necessariamente contenere fonti solide e tesi valide? Wikipedia ha completamente offuscato e coperto tutti i dettagli che riguardano la vera relazione tra i due autori. Da questa censura e l’impossibilità di avere alcun dibattito o replica dagli amministratori Inglesi, si evince l’enorme potenziale di Wikipedia e l’inquietante pericolo derivante da un uso distorto del sito, nel quale sono coinvolti agenti che indirizzano l’informazione a proprio piacimento e a discapito della libera informazione. La grande similitudine in termini di stile, parole, proverbi che c’è tra John Florio e Shakespeare è impressionante, ma i lettori di Wikipedia questo non lo sanno, e non possono saperlo. Eppure hanno il diritto di poter leggere queste informazioni liberamente e di giudicare da sé chi è il candidato più attendibile alle opere Shakespeariane, non avere delle informazioni distorte, censurate da amministratori che non vogliono far trapelare la verità. Perché John Florio deve essere reso muto dall’autorità? La risposta forse c’è: sono e l’enorme mole di informazioni e similitudini tra i due autori che lo porterebbe ad essere considerato un candidato più pericoloso rispetto ad altri, e le sue origini straniere danneggerebbero il simbolo universale dell’identità Inglese. Con questa censura, Wikipedia e la questione della paternità delle opere Shakespeariane è stata definitivamente smascherata: vanno bene tutti, purché non ci sia “The Monster.” La grande istituzione culturale globale non è più attendibile!

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 30 luglio 2021. Perdere il proprio animale da compagnia è un duro colpo in qualsiasi momento ma durante il lockdown, a causa della solitudine che per mesi ha messo a repentaglio la salute mentale di molti, lo è molto di più. A maggior ragione se la separazione avviene a causa di un furto. 2,355 sono stati i cani rubati nel 2020 nel Regno Unito, un aumento del 7% rispetto al 2019 e negli ultimi tre mesi ben 508 amici a quattro zampe sono stati sottratti ai loro padroni. Stando ai numeri resi pubblici nelle scorse ore da Kennel Club, il club cinofilo più antico al mondo, solo un caso su 50 si conclude con un colpevole.

L'INIZIATIVA. Per fronteggiare il fenomeno il Governo Johnson ha creato una task force dedicata a investigare su questi reati, puniti dalla legge con un massimo di sette anni di carcere. Un deterrente che secondo Bill Lambert del Kennel Club funziona poco. L'esperto ha chiesto una maggiore «serietà» nel perseguire queste denunce che, lamenta, spesso vengono paragonate dalle forze dell'ordine a furti di beni come un cellulare o un computer, quando invece la sottrazione di un cane ha conseguenze devastanti per l'animale e il suo padrone: «Ci lascia a bocca aperta ha detto al Times - vedere che il 98% dei casi non si conclude con un'incriminazione e che nella maggioranza dei casi non c'è nemmeno un sospetto identificato». La situazione è peggiorata durante la pandemia, con un aumento delle richieste di animali da compagnia che ha portato alla crescita vertiginosa dei prezzi e, purtroppo, anche dei furti. Secondo l'associazione di beneficenza DogsTrust il costo di alcune razze è salito addirittura dell'89%, mentre le ricerche su Google di frasi simili a comprare un cane sono aumentate del 166% tra marzo e agosto dello scorso anno. «Gli animali da compagnia sono parte della famiglia - ha detto il ministro dell'ambiente George Eustice e i proprietari non dovrebbero vivere nella paura. Per questo abbiamo istituito una task force che ci aiuti a capire meglio il fenomeno e bloccare i criminali coinvolti». Sull'argomento si è espressa anche la ministra dell'Interno Priti Patel che ha definito «deplorevole» l'atteggiamento di chi trae profitto da questo crimine così «crudele».

LE FORZE IN CAMPO. Per combattere questi reati la ministra ha annunciato l'aumento di 20mila poliziotti nelle strade. Non solo. Con lei si sono schierati anche 1.700 piloti di droni amatoriali, che hanno già ottenuto importanti successi nel ritrovamento di cani scomparsi. Le forze dell'ordine hanno già dato consigli ai proprietari: evitare di lasciare il proprio animale incustodito in un luogo pubblico, modificare il percorso che si segue durante le passeggiate col proprio cane, controllare sempre i lucchetti alle porte e ai cancelli dei propri giardini. Anche pubblicare le foto dei propri animali sui social può attirare l'attenzione di esperti malintenzionati e per questo gli esperti hanno consigliato di postare togliendo informazioni inerenti al luogo dello scatto. Non da ultimo, poiché il furto dei cani alimenta il mercato clandestino, la polizia ha sottolineato l'importanza di accertarsi della provenienza legale dell'animale nel momento dell'acquisto. Non sempre però dietro la sparizione del proprio amico a quattro zampe c'è un'organizzazione criminale.

CONTROLLI DAL CIELO. E Graham Burton, 66 anni, fotografo in pensione e pilota di droni di Pontypridd vicino a Cardiff, lo sa bene. Con la sua associazione di volontari Drone SAR for Lost Dogs ha ricongiunto ben 2mila cani ai loro padroni. La sua squadra è formata da 1700 esperti numero in continua crescita - pronti a entrare in azione non appena viene segnalata una sparizione. L'idea, ha raccontato al quotidiano britannico, gli è venuta quando una signora anziana che aveva perso il suo Labrador si è rivolta a un pilota di drone per ritrovarlo, al costo salatissimo di 600 sterline al giorno (circa 700 euro). Indignato per la cifra si è messo alla ricerca del cane con altri due amici e i loro droni e insieme hanno ritrovato l'animale, gratuitamente. Il drone si è rivelato subito uno strumento ideale poiché la prospettiva dall'alto permette di avere un colpo d'occhio su un'area molto vasta in tempi rapidi. A volte, ha spiegato Burton al quotidiano britannico, basta qualche minuto per concludere la ricerca ma in altre occasioni servono giorni interi. Una fatica ripagata nel momento del ritrovamento. È «incredibile», ha raccontato, l'emozione che si prova nel vedere l'abbraccio tra un animale che si era smarrito e il suo padrone.

Chiara Bruschi per "Il Messaggero" il 26 luglio 2021. Due terzi delle donne facenti parte delle forze armate britanniche hanno subito violenza sessuale, bullismo e molestie. Ovvero il 58% di quelle in servizio, percentuale che sale al 64% se si contano anche coloro che hanno lasciato la divisa. E l'esercito, dove a occupare le posizioni di potere sono principalmente gli uomini, ha fatto di tutto per non assicurare i responsabili alla giustizia, sminuire i reclami e le denunce delle vittime e nascondere l'accaduto. È il risultato sconvolgente del rapporto redatto dal Comitato sulle donne nelle forze armate, guidato dalla veterana Sarah Atherton membro del partito conservatore e parlamentare nella House of Commons. Quattromila le testimoni ascoltate durante l'inchiesta, alcune delle quali già in congedo. «Le storie che abbiamo raccolto dipingono un quadro difficile per le donne. Quando la vittima viene violentata nell'ambito militare spesso si trova a dover vivere e lavorare con il suo aguzzino, nella paura che raccontare l'accaduto possa rovinare per sempre la sua carriera», ha detto la deputata. Tra gli esempi «scioccanti», ci sono anche stupri di gruppo e richieste sessuali in cambio di promozione o avanzi di carriera. Alcune vittime hanno raccontato di essere state bullizzate per aver rifiutato le avances degli uomini. Altre hanno assistito alle aggressioni di gruppo subite dalle amiche ma si sono dette troppo spaventate per parlare. E per le soldatesse impegnate nelle zone di guerra l'ambiente diventa ancora più pericoloso. Rebecca è una delle soldatesse violentate che ha lasciato l'esercito, scrive la Bbc. Quando ha denunciato l'accaduto lo ha fatto non solo per ottenere giustizia ma anche per cambiare un sistema corrotto: «È un club di uomini e sai di essere in minoranza. Dicono che sei stata aggredita perché hai bevuto troppo. Dicono: questo è quello che sei e noi non ti crediamo». Sta continuando la sua battaglia con l'aiuto di una charity, il Centre for Military Justice, diretto da Emma Norton. Secondo quest'ultima chi ha il coraggio di formalizzare un reclamo va incontro alla fine della sua carriera e deve fare i conti con un cambiamento radicale nella propria vita. Sophia è stata un ufficiale della Royal Navy fino al 2017. È stata molestata e poi aggredita sessualmente dal suo capo ma i suoi tentativi di denuncia sono stati inutili, è stato come «andare contro un muro. L'esercito è un club per soli uomini», ha precisato, aggiungendo che un simile reclamo avvenuto sotto i loro occhi avrebbe rappresentato una «cattiva pubblicità per loro e per le loro carriere». Ha lasciato la marina militare e ha portato il suo aggressore in un tribunale civile. Una strada che il comitato responsabile dell'inchiesta ha inserito nelle conclusioni del rapporto, diretto al Ministero della Difesa. Togliere i casi di violenza e molestie sessuali dai tribunali militari e trasferirli in quelli civili dove la giustizia sembra essere molto più equa è infatti una delle soluzioni proposte: le condanne nell'ambito militare sono dalle 4 alle 6 volte inferiori rispetto al giudice civile. Insieme a questa raccomandazione, il comitato ha avanzato altre due richieste: che venga istituita un'autorità responsabile di gestire le accuse di bullismo, molestie e discriminazioni; e che alle donne vengano fornite uniformi e attrezzatura adeguate alla loro corporatura. Nel rapporto è infatti emerso che molte militari sono state mandate in combattimento con visiere e protezioni della misura sbagliata. Dettagli non da poco dal punto di vista della sicurezza e che avrebbe potuto costare loro la vita. Una grave mancanza, lamentano, che dimostra come il Ministero della Difesa non abbia ancora compiuto i passi necessari per migliorare l'accesso delle donne alla carriera militare. «Le soldatesse non stanno avendo giustizia. Ora ci è chiaro che i casi di violenza sessuale non possono essere giudicati dalla corte marziale - ha precisato la Atherton - Abbiamo ascoltato testimonianze di come gli ufficiali in alto grado abbiano nascosto le violenze e soprattutto i reclami per proteggere la loro stessa reputazione e carriera. Ci sono sicuramente anche altri ufficiali che vogliono fare la cosa giusta ma è evidente che il personale femminile è stato fortemente deluso da tutta la catena di comando». Uno scandalo che ricorda il MeToo del mondo del cinema. Con molte meno paillettes, ugualmente sconcertante. 

Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 13 agosto 2021. La scuola difficile che batte quella privata, esclusiva molto costosa, che è nota per la qualità del suo insegnamento. È quanto avvenuto a Londra, ora che l'anno scolastico si è concluso e gli studenti si preparano per l'università. Cinquantacinque alunni di una scuola pubblica dell'East London hanno ottenuto i punteggi massimi che permetteranno loro di accedere alle prestigiose università di Oxford e Cambdrige, contro i 48 della costosa ed elitaria Eton. Un brutto risultato per la scuola di Windsor che lo scorso anno aveva invece visto diplomarsi col massimo dei voti 69 dei suoi studenti.

STUDENTI DISAGIATI La maggior parte degli alunni della Brampton Manor Academy di Newham, quartiere complicato a est di Londra, proviene da situazioni economiche e sociali di disagio. Molti di essi hanno diritto a diverse forme assistenziali come i pranzi gratuiti. Altri saranno i primi in famiglia a frequentare l'università. Molti altri ancora invece appartengono a minoranze etniche. Al contrario Eton è la scuola maschile più esclusiva dell'Inghilterra. Qui, dove la retta è salatissima (45mila sterline l'anno) si entra dopo un difficile test di ingresso ed è il luogo in cui hanno studiato molti dei primi ministri incluso Boris Johnson, e dove per tradizione studiano anche i giovani membri della famiglia reale. William e Harry, per esempio, hanno frequentato proprio questo istituto. Nyat Aron-Yohannes della Brampton Manor Academy non sta in sé dalla gioia. Studierà a Oxford filosofia, politica ed economia, ha raccontato all'Evening Standard. «Durante il lockdown abbiamo dovuto perseverare nel nostro impegno ha raccontato riferendosi alle lezioni a distanza perché non c'erano i professori o altri compagni di classe a spronarci a dare il meglio. Abbiamo dovuto trovare la forza altrove e ora sono molto grata che gli sforzi siano stati ripagati. Sono la prima della mia famiglia che studierà a Oxford e mio padre mi ha sempre detto che avrei potuto farcela. Le sue parole sono state di grande motivazione».

TRE A+ IN PAGELLA Kenny Ikeji, di Dagenham ha ottenuto tre A+ che gli permetteranno di frequentare informatica ad Harvard. «Sono felicissimo e vedere la gioia negli occhi degli altri è una grande soddisfazione. Durante questi ultimi due anni di studio eravamo tutti molto stressati ma un giorno come questo ripaga di tutti gli sforzi. Molti di noi andranno a Oxford e Cambridge e non sono sorpreso perché ho visto quanto si lavora in questa scuola». Anche Ade Olugboji, ha ottenuto i voti necessari per permettergli di entrare nella facoltà di matematica e filosofia di Oxford. «Brampton ha una filosofia di lavoro molto duro. Iniziamo a studiare alle 3 del mattino e continuavo fino alle 6 di sera». Un'atmosfera contagiosa: «Quando tutti attorno a te stanno studiando e vedi i tuoi amici migliorare sempre i loro voti anche tu vuoi fare lo stesso», raccontano al quotidiano britannico. Un ruolo fondamentale è quello giocato dagli insegnanti che cercano sempre di tirare fuori il meglio dai ragazzi senza forzarli. Susan Hope, sogna di diventare psicologa e inizialmente non voleva nemmeno fare domanda per Cambdridge perché temeva di essere rifiutata. «Poi mi sono chiesta: se gli altri riescono, perché io no?». «Se provieni da queste zone non vedi molte persone andare all'università raccontano gli studenti - ma se ti dai una possibilità e lavori sodo puoi raggiungere ogni risultato. Questo è quello che si insegna alla Brampton».

Dagotraduzione da Vice.com il 19 luglio 2021. Non è un segreto che Oxford ospiti alcune delle persone più privilegiate del paese, con scuole private che ogni anno spingono il maggior numero di ragazzi possibile nel processo di candidatura di Oxbridge. Il che fa la differenza, perché per alcuni gruppi, essere nei circoli interni del sistema scolastico privato ti porta in luoghi a cui nessun altro può accedere. Durante il mio secondo anno a Oxford, una mia amica della scuola privata ha ricevuto un ambito invito al ballo di Piers Gaveston - conosciuto dagli studenti come il "Piers Gav" - incastonato tra le lettere nella sua casella come un biglietto d'oro Wonka. Come studente di stato della Cornovaglia, non ne avevo mai sentito parlare. Ma per tutti gli studenti delle scuole private, aveva chiaramente uno status quasi mitico. Avvolto nel mistero, il Piers Gav è un party top secret e apparentemente molto dissoluto. Pochi sono gli invitati, e ancora meno sono quelli coinvolti nella sua organizzazione. Ma negli ultimi anni è stato oggetto di intense speculazioni sui tabloid. Hugh Grant e Nigella Lawson sono stati entrambi fotografati, ed è stato durante il Piers Gav che David Cameron avrebbe scopato la bocca di un maiale morto. Secondo Megan, che è andata al Piers Gav alcune volte mentre era a Oxford, «tutti devono firmare un accordo di non divulgazione» prima di partecipare. I partecipanti alla festa prescelti, vestiti succintamente in lingerie, accessori bondage e costumi, vengono portati via in un pullman oscurato in un gazebo fuori città e i loro telefoni vengono confiscati per mantenere la totale segretezza. Jasmine ricorda di essere stata invitata da un'amica un'estate. «Il tema era 'medievale', quindi indossavo biancheria intima di pizzo nera sotto un vestito da spiaggia argentato che sembrava una cotta di maglia», dice. «Abbiamo incontrato il nostro contatto in un punto di ritrovo in città, poi siamo partiti per un campo in mezzo al nulla». Jasmine ricorda che le feste erano piene di droga. «C'erano alcune tende: una in cui si ballava, un’altra, lounge, in cui le persone si sedevano e si rilassavano, alcune tende per il sesso e una tenda con un palco in cui le persone si drogavano apertamente», dice. «C'è ogni [tipo di] alcol sotto il sole al bar, e c'è uno spacciatore che fornisce qualsiasi droga tu possa desiderare». I balli di Piers Gav non capitano solo occasionalmente. Ce ne sono alcuni ogni anno: uno in primavera, uno in estate e uno a Natale. Lanciati dai membri della società Piers Gaveston, un club privato con radici nell'élite aristocratica britannica, vanno avanti da quasi 50 anni. Si dice che l'omonimo del club, lo stesso Piers Gaveston, sia stato l'amante di re Edoardo II nel XIV secolo. Solo i membri della società Piers Gaveston possono distribuire inviti e vengono eletti dai membri attuali o precedenti. Il "cerchio interno" del club invita 12 persone, che poi invitano ciascuna 25 persone in più. Nessuno conosce i criteri per la scelta degli ospiti, ma gli invitati sono solitamente amici intimi dei membri. Come tutte le feste, il Piers Gav è un'occasione per le persone di pomiciare e scatenarsi. Secondo Jasmine, è essenzialmente una festa del sesso . «C'erano persone che facevano sesso dappertutto, sia nelle tende che fuori nel campo, ma era un po' buio, quindi non si vedeva molto», ricorda. «Una ragazza stava facendo una cosa a tre con due ragazzi nel mezzo di una delle tende. Anche se non mi piaceva molto fare quel genere di cose in pubblico, non mi importava il sesso che accadeva intorno a noi. C'era un'atmosfera rilassata». Felicity una volta è andata con il suo ragazzo. Mi racconta che spesso i balli di Natale si tengono in un'enorme casa signorile, invece delle solite tende. «Questa coppia è venuta da noi e ci ha chiesto se volevamo andare in un'altra stanza per fare un quartetto. Abbiamo educatamente rifiutato e siamo andati per la nostra strada», dice ridendo. «Uno dei miei amici mi ha detto in seguito che, mentre si stava facendo fare un pompino in una delle cabine del sesso, ha guardato dall'altra parte della stanza e ha incrociato gli occhi di suo cugino, anche lui a metà del sesso». Beth, un'altra partecipante, dice di aver trascorso la maggior parte del suo tempo a Oxford sentendosi alienata. Anche il suo tempo al Piers Gav non è stato particolarmente piacevole. È andata con la sua «fidanzata di allora e il membro del comitato che ci aveva invitato», dice. «Li ho persi per un po', e quando sono entrata nella tenda principale ho visto la mia ragazza scendere sull'altra ragazza sul palco, di fronte a una folla esultante. Ero davvero sconvolta da quello che ha fatto la mia ragazza, ma non ero sicura di aver reagito in modo eccessivo e se fosse una cosa normale in feste come queste». Anche se il Piers Gav va avanti ancora oggi, si tratta di una reliquia del passato di Oxford. È l'Oxford dei college maschili e il Bullingdon Club. Ero terrorizzato quando sono arrivato; nervoso che tutti sarebbero mini Boris e Blairs. In realtà, la maggior parte dei miei compagni di università aveva sentito solo voci sul Piers Gav, figuriamoci se avevamo partecipato. La vera attrazione di Piers Gav è il mito sexy, il mistero e l'idea di un potente «cerchio interno». In un'università piena di ragazzi che hanno passato tutta la vita a sentirsi dire che sono speciali, è un modo per afferrare la superiorità e continuare a sentirsi parte dell'élite. Devi essere importante: sei stato invitato a una festa di cui l'intera università spettegola, dopotutto. Nelle sue ossa, non è niente di speciale, solo un gruppo di ragazzini eleganti che si drogano. Ricorda sempre: puoi indossare nient'altro che nastro adesivo, scopare con uno sconosciuto e fare un sacco di coca cola letteralmente in qualsiasi momento durante il resto della tua vita, purché trovi il seminterrato giusto. Non devi nemmeno essere andato a Eton prima.

Da video.corriere.it il 12 luglio 2021. Leonardo Bonucci festeggia la vittoria dell’Italia agli Europei e subito dopo il trionfo si lascia andare e rivolgendosi ai tifosi inglesi presenti a Wembley urla la frase: «Ne dovete mangiare ancora di pastasciutta». «È un sogno che si avvera, un grande gruppo, abbiamo iniziato a crederci dalla Sardegna. Mano a mano abbiamo acquisito sicurezza. Stasera siamo diventati leggenda - ha poi spiegato Bonucci ai microfoni della Rai - . Stiamo vedendo 58mila persone che se ne vanno via....è una grande nazionale l’Inghilterra. I tifosi ci sono rimasti male ma l’Italia gli ha dato una lezione. Quello che succedeva intorno quando abbiamo fatto il riscaldamento era solo contorno, ci siamo detti questo mentre ci fischiavano».

Dal "Corriere della Sera" il 12 luglio 2021. Bufera social sull'astronauta italiano dell'Esa Luca Parmitano che, al gol di Shaw, si è fatto prendere dall'entusiasmo sui social: «Che gol! Ben fatto Inghilterra». Alle risposte più o meno piccate dei tifosi su Twitter («La prossima volta nello spazio ti ci lasciamo», uno dei tanti commenti), Parmitano ha replicato: «Per info: ovvio che tifo Italia. Ma lo sport deve essere rispetto per l'avversario. E lo spettacolo è da entrambe le parti. Adesso tocca agli Azzurri continuare a giocare!». Una spiegazione che non ha convinto del tutto il popolo dei social. 

Vittorio Sabadin per "la Stampa" il 12 luglio 2021. L'Inghilterra ha perso, ma niente paura: nessuno come gli inglesi sa trasformare le sconfitte in vittorie. Nonostante l'amarezza e la pioggia, la gente ha affollato le strade di Londra fino a notte fonda, e molti hanno facilmente annegato nella birra la delusione. Toccherà oggi al premier Boris Johnson rappresentare con parole adeguate il cordoglio della nazione: lo farà con moderazione e senza rancori, com' è nello stile britannico. Però, questa è la vera Brexit. Johnson aveva già messo le mani avanti nel messaggio inviato all' allenatore Gareth Southgate prima della partita. «Avete comunque fatto la storia», aveva scritto, «e sollevato lo spirito dell'intero Paese. Non stiamo solo pregando o sperando: crediamo in voi e nella vostra incredibile squadra». Anche questa sconfitta diventerà dunque una vittoria, com' è quasi sempre stato nella storia inglese. La giornata di ieri ha rappresentato una catarsi collettiva, è stata la festa della libertà ritrovata e del totale rifiuto di ogni restrizione, com' è avvenuto fin dal mattino con la folla che si è radunata a King' s Cross, in Leicester Square, davanti allo stadio di Wembley e davanti a ogni pub, con i soliti hooligans mai sazi di birra e devastazioni. Mentre in Italia i tifosi riempivano la notte di feste e di grida, anche gli inglesi avevano buone ragioni per concedersi comunque una notte liberatoria: il Covid li ha massacrati più di quanto abbia fatto in altri Paesi e comunque essere arrivati alla finale è un buon risultato, visto che da 55 anni non accadeva più. Certo sarebbe stato bello dare uno schiaffone all' Europa battendo anche l'Italia, dopo che francesi e tedeschi, quelli che volevano insegnare loro come si fa a vivere, se ne erano già tornati a casa. Sarebbe stato bello salire sul tetto dell'Europa, in una posizione che agli inglesi è sempre piaciuta, perché consente di guardare tutti dall' alto in basso. Charles Dickens, in Racconto di due città, scriveva che ogni inglese è convinto di poter avere la meglio su qualunque straniero che incontra. È una convinzione più profonda di quello che si crede. E comunque, se talvolta si perde, si può sempre trasformare la sconfitta in una vittoria, come successe per Gordon a Khartum o per i 600 di Balaclava, eroi celebrati ancora oggi. Ma questa vittoria per gli inglesi sarebbe stata importante anche perché, se la loro squadra non è la migliore di tutte sul campo, lo è certamente sul piano etico, grazie all' impegno dei suoi giocatori contro le diseguaglianze, il razzismo, le incomprensioni e le divisioni. Sterling, Rashford, Kane non sono giocatori come gli altri, che pensano solo all' ingaggio e a come fare stare in garage la nuova Lamborghini tra le due Ferrari. I tifosi non li adorano solo perché giocano bene, ma anche per il loro impegno in cause che li riguardano. Se avessero vinto l'Europeo, avrebbero dato ancora più visibilità e spazio ai temi che sostengono in prima persona, sarebbero stati più ascoltati, avrebbero rappresentato meglio le istanze della società multietnica inglese. Ma vanno ringraziati e applauditi comunque. Il premier Boris Johnson sperava di utilizzare la vittoria per rafforzare ancora di più la sua posizione. Oggi confermerà il 19 luglio come la data di fine delle restrizioni per il Covid, il giorno della libertà. Ma la libertà gli inglesi se la sono già ripresa ieri da soli, e non torneranno indietro. Avrebbe voluto anche proclamare una nuova festa nazionale a ricordo imperituro dell'impresa, ma dovrà rinunciare. Dirà che essere arrivati in finale è una grande cosa, che la squadra è superiore alle altre nel suo impegno etico e che di questo l'Inghilterra deve essere fiera. La lunga notte della partita e della ritrovata libertà è stata così frenetica e interminabile che le scuole hanno autorizzato gli studenti ad arrivare un po' più tardi in aula. Anche negli uffici ci saranno parecchie assenze, ma tutti chiuderanno un occhio. Si è calcolato che solo nel giorno della partita siano stati consumati 3,5 milioni di litri di birra e che 3,4 miliardi di sterline siano stati spesi in feste, bevande, oggetti ricordo, merchandise e tv a grande schermo. Anche un pallone può fare ripartire l'economia, riportando la fiducia tra la gente. La regina Elisabetta ha seguito l'incontro in tv, in compagnia di qualche vecchio amico. La vittoria inglese sarebbe stata una delle poche cose positive di un anno davvero terribile, ma va bene anche così. Prima dell'incontro aveva mandato un messaggio di auguri alla squadra e preparato due onorificenze per l'allenatore Gareth Southgate: l'Ordine della Giarrettiera in caso di vittoria, o l'Ordine di Comandante dell'Impero Britannico (Cbe) in caso di sconfitta. Southgate non sarà dunque baronetto come Alfred Ramsey, l'ultimo allenatore dell'Inghilterra ad avere vinto un titolo importante: la Coppa del Mondo del 1966, quando la maggior parte dei tifosi di oggi non era neppure nata. Allora in campo nessun giocatore aveva la barba, e a Wimbledon vinceva Billie-Jean King, che doveva nascondere di essere lesbica. Al governo c' era Harold Wilson, che mai avrebbe indossato una maglia con il numero 10 sulla schiena, come ha fatto Johnson. La squadra sconfitta si chiamava Germania «Ovest» e il guardalinee che convalidò uno dei gol decisivi era Tofik Bakhramov, un sovietico che parlava solo il russo. Era tempo, come dice la canzone della nazionale inglese, che il football tornasse a casa, ma sarà per un'altra volta. La nazionale inglese, come ultimo gesto, durante la premiazione si è tolta la medaglia del secondo posto. Come dire: questa sconfitta non la accettiamo. 

L’Italia ha vinto, l’Inghilterra ha perso due volte.   Rec News il 12 Luglio 2021. Quelli bravi la davano per sconfitta, e invece la Nazionale si è ripresa dopo 53 anni quello che era suo. Gli Azzurri di Mancini portano a casa gli Europei: non è solo un trofeo, ma una vittoria colma di un’umanità che ad altri manca uelli bravi la davano per sconfitta, e invece la Nazionale italiana si è ripresa dopo 53 anni quello che era suo. L’Italia di Mancini porta a casa gli Europei: non è solo un trofeo, ma una vittoria morale ed umana. Per il Tricolore da stanotte si scende in piazza insieme, uniti e sorridenti. Niente mascherine, distanziamenti, fobie. Si esulta e si gioisce, semplicemente e umanamente, dopo aver assistito dal vivo, dai maxi-schermi o da casa alle prodezze degli Azzurri e al ritorno agli stadi gremiti di gente. Perché il calcio senza i tifosi e senza un momento che tradisca il nostro essere fatti di carne non è nulla, ma è mero calciomercato e prese di posizione politiche. Così il desiderio di rivalsa di Bonucci, le lacrime di Bernardeschi e le stampelle esultanti di Spinazzola hanno fatto dimenticare in un colpo solo le inginocchiature, le simbologie e i motti fanatici stampati sulle fasce dei capitani e ripetute a mò di mantra nelle pubblicità, oltre che i tentativi di strumentalizzare in tutti i modi la competizione. Ovviamente, la Rai non ha perso l’occasione per propinare la valletta di colore e la cronista della nazionale femminile, così come la UEFA ha pensato bene di far portare la coppa a un ragazzo di colore. Il cortocircuito è palese, la caduta di stile anche: anziché far passare l’idea di integrazione, è stato riesumato il vecchio e per fortuna superato concetto di servilismo etnico, con il “nero” maggiordomo e la “nera” dama di compagnia. Poi però si censura Via Col Vento. Succede anche questo, a voler essere troppo politicamente (e ipocritamente) “corretti”. Perché, ovviamente, scardinare quelli che alcuni considerano consuetudini superate non può significare instillarne di altre, altrettanto confuse e di visione limitata. Il calcio non è questo, ma è coinvolgimento. Eppure gli stadi chiusi per mesi, le rimostranze dei giornalisti sportivi e la tv pubblica che si fa monopolista diventando Host Broadcasting raccontano un’altra storia. Calcio (e sport) è anche accettare la sconfitta consapevoli del fatto che l’avversario questa volta è stato migliore, lavorando per eguagliarlo al prossimo giro. Non è calcio e non è sport l’assenza totale di fair play dimostrata dai tifosi e dai calciatori inglesi, con i primi che hanno fischiato anche l’Inno di Mameli e sono scappati dallo stadio a partita conclusa per evitare i festeggiamenti. Che dire dei secondi, allergici alle strette di mano e alle medaglie del secondo posto, quasi si ritenessero invincibili. Così, l’Italia “umana” ha vinto, l’Inghilterra ha perso due volte.  

Il Razzismo degli Inglesi. Euro 2020, alta tensione a Wembley: tifosi inglesi provano a entrare senza biglietto, guerriglia con la polizia. Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. Alta tensione a Wembley, quando un gruppo di tifosi inglesi ha provato a fare irruzione allo stadio, sfondando il cordone di sicurezza schierato all’ingresso dello stadio. È da stamattina che gli inglesi sono decisamente su di giri, e non c’entra solo il fiume di alcool consumato: i sudditi di Sua Maestà sentono di avere in tasca la vittoria di Euro 2020, prima ancora di disputare la finalissima con l’Italia. D’altronde i padroni di casa partono col favore dei pronostici, ma allo stesso tempo va ricordato che hanno vinto un solo Mondiale 53 anni fa e mai un Europeo: gli azzurri hanno ben altra storia alle spalle e non si faranno intimorire da questo clima. A circa due ore dal calcio d’inizio si è registrato però un episodio di alta tensione: i tifosi inglesi hanno invaso le strade tra cori, fumogeni e anche qualche rissa, però un gruppo si è spinto addirittura oltre, cercando di fare irruzione nello stadio. Le forze di polizia hanno fatto gran fatica a domare questo gruppo di tifosi, ma alla fine è stato impedito loro di raggiungere l’intento folle che si erano prefissi. A Wembley ci saranno circa 70mila spettatori, nonostante la variante Delta abbia determinato un importante aumento dei contagi: sono arrivati a circa 40mila al giorno. La maggior parte delle persone ammesse allo stadio saranno tifosi inglesi: oltre 60mila. 

Gli inglesi rosicano: il gesto con la medaglia. Antonio Prisco il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Non poteva sfuggire l'atteggiamento dei giocatori inglesi al momento della premiazione dopo la sconfitta ai rigori contro l'Italia. Uno dopo l'altro si sfilano via la medaglia dal collo dopo averle ricevute dal presidente della Uefa Aleksander Ceferin. Lo hanno fatto i giocatori inglesi, durante la premiazione dopo la finale degli Europei 2020, Inghilterra-Italia. Una delusione troppo grande, per i i calciatori dell'Inghilterra, che avevano cullato a lungo il sogno di conquistare l'Europeo davanti al proprio pubblico nello storico stadio di Wembley. Il gol del terzino del Manchester United, Luke Shaw si dimostra soltanto illusorio. Gli Azzurri con un grande secondo tempo recuperano lo svantaggio grazie ad un gol di Leonardo Bonucci. Si decide tutto alla lotteria dei calci di rigore, che si dimostra emozionante come non mai. All'errore iniziale di Belotti, segue il palo di Rashford. L'Italia segna prima con Bonucci poi con Bernardeschi. Poi spreca un incredibile match point con Jorginho ma gli inglesi non segnano più e l'ultimo errore di Saka, respinto da Donnarumma, regala all'Italia la vittoria finale. Un epilogo crudele, evidentemente troppo difficile da accettare per i calciatori inglesi, che hanno mostrato tutta la loro delusione al momento della premiazione. Al momento di ricevere la medaglia del secondo posto dal presidente della Uefa, Aleksander Ceferin hanno preferito sfilarsi il riconoscimento dal collo. Un gesto innanzitutto anti-sportivo, uno dei tanti visti nella giornata di ieri, che non rende onore al merito dei vincitori e che soprattutto non rende merito agli inglesi stessi. I ragazzi di Southgate sono stati protagonista di un grande Europeo e dovrebbero essere fieri del loro cammino. Del tutto diverso invece quanto accaduto nei giorni scorsi in Coppa America. Tutti i componenti del Perù hanno tenuto al collo la medaglia del quarto posto nel corso della premiazione della ''finalina'' vinta dalla Colombia per 3-2. Questa sì che è una bellissima lezione di sportività.

La delusione degli inglesi. Il ct inglese Gareth Southgate, parla dopo la sconfitta contro l'Italia: "Hanno dato tutto in questa gara e in tutto il torneo. Sono una squadra che hanno dato alla Nazione grandi emozione. Siamo devastati da come è andata, è difficile trovare parole adesso ma abbiamo dato tutto. Chi ha sbagliato i rigori? Li abbiamo provati in allenamento, è una mia decisione, i rigori si segnano o sbagliano. Abbiamo tirato coi migliori rigoristi in campo". Gli fa eco dopo poco Harry Kane, raggiunto dai microfoni della Bbc: "Non avremmo potuto fare di più. Perdere ai rigori è la sensazione peggiore del mondo, ma abbiamo fatto un gran torneo e dobbiamo uscirne a testa alta. Farà male per un po', ma siamo sulla strada giusta".

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Finale euro 2020, tifosi inglesi sputano sulla bandiera italiana. Valentina Mericio l'11/07/2021 su Notizie.it. Il clima della finale inglese non è preceduto da buoni auspici. Alcuni tifosi inglesi hanno sputato e calpestato la bandiera italiana. Il clima di questa finalissima di euro 2020 non si è aperto sotto i buoni auspici. A poche ore dalla grande sfida alcuni tifosi inglesi in condizioni visibilmente alterate hanno sputato e arrecato oltraggio al tricolore. Il tutto grottescamente accompagnato da salti, calpestii e urla. Non certamente un comportamento segnato dal fairplay quello di parte della tifoseria di casa che ha dimostrato in questo modo un chiaro poco rispetto verso la tifoseria italiana. Sempre nelle ore che hanno preceduto la partita, nei pressi del Wembley Stadium si sono scatenati una serie di scontri. Nel frattempo le strade si stanno gradualmente riempiendo di sporcizia, bicchieri e rifiuti. Stando a quanto riportano alcuni media non si tratterebbe di un caso isolato. Una donna danese residente nella capitale inglese da circa 15 anni ha denunciato una situazione simile durante la semifinale contro la Danimarca. La donna infatti in quell’occasione aveva messo in guardia gli italiani dicendosi preoccupata per quello che sarebbe potuto accadere. “Mentre tornavamo indietro a piedi a fine partita, gli inglesi hanno iniziato a insultarci”, ha raccontato. “Ci dicevano di tornare a casa nostra e hanno cercato di strapparmi di mano la bandiera della Danimarca. Siccome ho resistito al tentativo, hanno iniziato a tirarmi anche i capelli. Non mi sembrava vero che stesse accadendo: è stato terrificante”, le parole di Jeannette Jorgensen. A raccontare un episodio analogo anche Sigrun Matthiesen Campbell che al sito Danese DR ha parlato di come anche i suoi figli fossero terrorizzati per la situazione che si era venuta a creare i quella occasione: “I miei figli, di 14 e 11 anni, non hanno osato mostrare le loro magliette e cappellini della Danimarca perché erano terrorizzati dagli inglesi. All’ingresso allo stadio ci hanno sputato addosso e ci hanno insultati”. Nel frattempo anche la piazza di Leicester Square è diventata scenario di scontri con tanto di lancio di bottiglie e lattine. Nelle immagini diffuse sul web si osserva chiaramente come le strade siano diventate stracolme di rifiuti gettati per terra.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 luglio 2021. Domenica sera l'anarchia è scesa su Wembley. E io ero al centro del caos che si è sviluppato prima della partita.  L'atmosfera intorno allo stadio era stata abbastanza minacciosa, ma più mi avvicinavo all'ingresso in campo, più la situazione diventava pericolosa. Stavo per consegnare il mio biglietto quando dietro di me ho sentito una presenza. Uno tra i delinquenti radunati intorno ai tornelli ha scansato mio suocero 70enne, con me per quella che credevamo uno delle più belle serate calcistiche della nostra mano, per buttarsi dentro, senza biglietto. Mi sono girato e ci siamo scambiati parole brusche. Se ne è andato e, per fortuna, siamo stati dentro. Altri non sono stati così fortunati. Ho visto un tifoso pagante scansionare il suo biglietto e poi essere schiacciato contro il tornello di metallo da uno degli esagitati. Il fan ha coraggiosamente rifiutato di entrare insieme al suo passeggero indesiderato. Ma purtroppo, quando ha cercato di entrare di nuovo, gli è stato negato l’accesso: il suo biglietto era stato già scansionato. Disperato, si è diretto a un ingresso per disabili a spiegare l’incidente e, per sua fortuna, gli hanno creduto. Mentre ci avvicinavano allo stadio, i segnali di pericolo erano tutti lì: traffico fermo; alcol che volava ovunque, insieme a bottiglie e lattine; vetro frantumato come colonna sonora della serata. Senza anello d'acciaio, senza controlli sui biglietti, coloro che non avevano pagato per il privilegio potevano avvicinarsi così tanto allo stadio da poterlo toccare e provare ad abbatterne le porte. Il pandemonio regnava in fondo ai gradini iconici dove il primo checkpoint rischiava di essere travolto. Il distanziamento sociale è andato fuori dalla finestra mentre migliaia di persone si stringevano l'una contro l'altra, spingendosi per una posizione. Si può solo immaginare la ricaduta del Covid. L'ingresso verso cui stavamo andando era stato costretto a chiudere ma molti stavano saltando oltre il cancello d'acciaio e correndo verso i tornelli. Ho pregato uno steward di farci entrare, indicando l'età di mio suocero. Altri non sono stati così fortunati. Ci è stato chiesto di mostrare il nostro passaporto e i biglietti Covid. Amici hanno detto che non sono stati controllati. Tornati ai tornelli, gruppi di predoni stavano sfacciatamente tentando di farsi strada mentre ci avvicinavamo. Una volta finito, ho chiesto a uno steward chiaramente in preda al panico perché non c'era la polizia nella zona. Ha alzato le spalle e mi ha detto che il personale si sentiva deluso. Quelli con i giubbotti fluorescenti si sono rifiutati di uscire da dietro la sicurezza dei cancelli e affrontare la folla itinerante. Era simile a una scena di una prigione in cui i detenuti si sono ribellati e le guardie hanno perso il controllo. Gli invasori premevano il viso contro la rete incontrastati e urlavano: «Ti do 50 sterline per farmi entrare». Nel nostro settore, il 102, i tifosi avevano pagato 812 sterline per un biglietto: tifosi normali per i quali giustificare quella cifra sarebbe stata una grande sfida. Non sorprende che alcuni abbiano preso in mano la situazione. Il video condiviso online dal Gate C10 ha mostrato che quando una porta è stata forzata, alcuni hanno tirato pugni e hanno cercato di inciampare su coloro che erano entrati. Ancora una volta, non un ufficiale di polizia in vista. «Fai il tuo fottuto lavoro!» ha urlato uno spettatore a uno steward. Ci siamo diretti ai nostri posti, grati di essere lontani dalla carneficina. Ma in pochi minuti c’è stata un'ondata giù per i gradini al nostro fianco. Un gruppo sfacciato di circa 50 persone era riuscito a violare la sottile linea di difesa, aveva superato di corsa un assistente solitario e si era diretto verso varie parti dello stadio. Molti erano aggressivi. Alcuni con i biglietti avevano troppa paura per andare ai loro posti e affrontare gli intrusi. Ancora una volta, non un ufficiale di polizia in vista. Dopo il crepacuore dei calci di rigore persi, fuori c’era l’inferno. Wembley Way, una scena di devastazione.

Trasporto inesistente. Altro caos Covid a Wembley Park, dove abbiamo dovuto schivare tre poliziotti armati, con le loro armi automatiche sguainate, che inseguivano un uomo che alla fine è stato investito da un'auto. Tre ore dopo, dopo due viaggi in autobus e una richiesta di Uber, siamo tornati al nostro hotel a Richmond chiedendoci cosa ci fosse successo. Stamattina mi è stato detto che a Wembley c'erano 300 agenti di polizia, una cifra che alla fine era salita a 450. Ho chiamato un alto ufficiale della polizia calcistica di un'altra forza e ho chiesto se era abbastanza. Ha riso. «Se ci fossero state 60.000 persone, sì», ha detto. Le stime prudenti erano a nord di 100.000. L'ufficiale credeva che andasse inviata il doppio – e potenzialmente anche il triplo – rispetto ai poliziotti presenti. Adesso bisogna porsi domande serie. Perché non c'era un anello d'acciaio? Perché quelli senza biglietto hanno potuto radunarsi dalle 11 all'ombra dell'arco di Wembley? Perché al più grande evento sportivo degli ultimi anni è stato permesso di trasformarsi in un free-for-all senza legge? Perché i segnali di allarme della semifinale non sono stati ascoltati? Resta da vedere cosa questo significhi per la finale di Champions League 2024, o per la candidatura congiunta di Regno Unito e Irlanda alla Coppa del Mondo 2030. Quello che è indubbio è che questo è stato un giorno triste per il calcio inglese, reso ancora più sconvolgente dalla straziante perdita sul campo.

Testo di Geoff Andrews, *Senior Lecturer in Politics alla Open University e manager di Philosophy Football FC, pubblicato da "La Stampa" il 13 luglio 2021. Traduzione di Carla Reschia. Le bottiglie rotte, i rifiuti, gli ubriachi e le risse erano immagini già da tempo associate alla squadra inglese (e occasionalmente ricollegabili alla sbornia del venerdì sera delle città più vivaci della Gran Bretagna). Tuttavia, i fischi alla nazionale italiana, gli attacchi ai tifosi e il disprezzo per la medaglia da secondi classificati (in un campionato dove l'Inghilterra aveva giocato bene, arrivando alla sua prima finale dopo 55 anni), possono avere rappresentato uno choc per gli italiani che ammirano ancora il fair play inglese. È anche un'immagine in contrasto con quella coltivata dal manager inglese Gareth Southgate. Quest' uomo modesto e mite, a volte paragonato a un insegnante di geografia, ha instillato nella sua squadra un forte cameratismo, una maggiore consapevolezza tattica e ha combattuto il culto dell'ego che aveva afflitto la squadra in passato. La sua squadra rifletteva la diversità dell'Inghilterra multiculturale. Cosa non del tutto comune, alcuni dei suoi giovani giocatori avevano imparato a giocare nella Bundesliga e nella Liga ed erano più aperti alla cultura europea. Si sono inginocchiati e hanno tenuto testa ai razzisti (che purtroppo sono tornati nelle ultime ore a bullizzare i giocatori di colore dell'Inghilterra). Ma il compito di Southgate era davvero gravoso. Questa è un'Inghilterra al centro di un regno molto disunito. Le divisioni seguite alla Brexit continuano a definirne la politica e la cultura (compreso il calcio). Ciò ha portato un maggiore sostegno all'indipendenza della Scozia (che ha votato contro la Brexit) e del Galles (che ha votato a favore). Molti scozzesi e gallesi hanno sostenuto l'Italia sulla base del fatto che Boris Johnson (come Silvio Berlusconi in Italia) avrebbe sfruttato una vittoria per ragioni politiche. Allo stesso tempo, l'Inghilterra ha faticato a contenere l'ultima variante del Covid-19. La decisione di Boris Johnson di allentare le restrizioni alla fine di questo mese è stata controversa e condannata da alcuni medici e politici. Anche la vista dei tifosi inglesi che corrono per strada a Wembley e nello stadio deve essere interpretata in quel contesto. Una libertà senza regole né restrizioni e che non ha riguardo per la sicurezza. È stato imprudente. Per molti, l'Inghilterra di Southgate è stata un esempio di un altro Paese, di ciò che l'Inghilterra potrebbe aspirare ad essere. Molti politici, a sinistra come a destra, hanno sfruttato la situazione. Un membro conservatore del Parlamento ha rifiutato di sostenere la squadra se avesse continuato a «mettersi in ginocchio», mentre altri hanno esagerato le dichiarazioni alla stampa di Gareth Southgate per sottintendere che stesse attaccando il governo. Eppure la vera forza della lettera «Cara Inghilterra» indirizzata da Southgate alla nazione, e composta prima della partita d'inizio contro la Croazia, consisteva nell'appello al di là di ogni divario politico. Era un riconoscimento del sacrificio e dell'eroismo dei medici e degli infermieri durante la pandemia, della «fragilità della vita» e dell'orgoglio di rappresentare il suo Paese. Al di là del contesto abbracciava i valori patriottici e offriva una visione - o forse uno sguardo - di un Paese più unito. Nel merito, suggeriva un'Inghilterra diversa. Finiti i lanci lunghi e l'immutabile formazione 4-4-2, dove individui di talento erano costretti a prestazioni inadatte. C'è stata invece più enfasi sulla tattica, con Southgate che ha cambiato la squadra per adattarsi all'avversario. Kalvin Phillips e Declan Rice, i due centrocampisti difensivi (posizione a lungo trascurata dall'Inghilterra), sono diventati più importanti. Qualcuno ha anche azzardato che i giocatori inglesi «si tuffassero». Un importante giornalista sportivo ha sostenuto che vincendo facili rigori morbidi, fossero diventati «scafati» come gli italiani. La sconfitta dell'Inghilterra è stata persino attribuita alla squadra che è diventata troppo italiana, ovvero è rimasta troppo bassa e ha giocato a catenaccio. Nella sua conferenza stampa post-partita Gareth Southgate appariva esausto. Come gli italiani capiscono meglio di chiunque altro, il calcio ha la capacità di riflettere valori, divisioni, speranze e aspirazioni che vanno oltre il gioco. Questo non è mai stato così evidente come nel caso della nazionale inglese nell'era post-Brexit di una pandemia. Southgate ha fatto del suo meglio. Non è bastato, alla fine, per vincere il torneo o per unire il Paese. Il suo desiderio dichiarato (in «Cara Inghilterra») che «ogni partita, indipendentemente dall'avversario, abbia il potenziale per creare da qualche parte un ricordo indimenticabile per un tifoso inglese», nella finale non è stato realizzato. Il dopo partita ha mostrato il volto arrabbiato e amaro della vecchia Inghilterra. Il futuro del Regno Unito ha bisogno di un'Inghilterra più saggia e più forte per sopravvivere. Forse più di qualsiasi figura politica nel Regno Unito, per qualche settimana estiva, ha ispirato a molti una nuova idea di nazione. 

DA repubblica.it il 13 luglio 2021. Chiusura totale o parziale dello stadio per le prossime partite della nazionale. Dopo la multa rimediata in semifinale, la Federazione inglese rischia una punizione severa per le violenze da parte dei propri tifosi. L'Uefa ha aperto una inchiesta sugli scontri dei tifosi inglesi in occasione della finale di Euro 2020 e sul tentativo di almeno un centinaio di persone di entrare allo stadio di Wembley senza biglietto. La Federcalcio inglese è stata accusata di una serie lunghissima di incidenti da parte dei suoi tifosi prima e durante la sconfitta contro l'Italia ai calci di rigore. Le accuse riguardano i fischi dell'inno nazionale italiano, l'invasione di campo di un tifoso, il lancio di oggetti in campo e l'accensione di fuochi d'artificio. Ma soprattutto lo sfondamento delle barriere di alcuni checkpoint: esterni allo stadio o ai varchi di accesso. Prima della partita contro l'Italia, un gruppo di tifosi inglesi senza biglietto ha sfondato le barriere di sicurezza e i tornelli per entrare a vedere la finale dell'Inghilterra, la prima in un grande torneo dopo 55 anni. La partecipazione ufficiale è stata di circa 67.000 spettatori sui 90.000 posti dello stadio, una limitazione che era stata posta per garantire il distanziamento vista la pandemia di COVID-19. La FA inglese è già stata multata di 30.000 euro per gli incidenti provocati dai suoi tifosi dopo la semifinale contro la Danimarca sempre a Wembley la scorsa settimana, compresi i fischi dell'inno danese.

DA tuttosport.it il 13 luglio 2021. Che la Ferrari esultasse più della Mercedes in queste ultime stagioni è capitato ben raramente. Una delle poche volte fa riferimento a ieri sera, seppur non per merito della stessa scuderia di Maranello. Un botta e risposta divertente è andato in scena sui social, precisamente su Twitter, tra il team tedesco, ma con sede a Brackley, e la Rossa che ha ovviamente festeggiato il successo dell'Italia di Roberto Mancini a Euro 2020, con la vittoria ai rigori ai danni dell'Inghilterra. 

"Sta arrivando a Roma, anzi..." "It’s coming Rome or it’s coming home, what do you think?", recitava il tweet della Mercedes prima della finale, come a stuzzicare anche la Ferrari a dare una risposta sul pronostico. La risposta è arrivata, ma solamente a fine partita con tutta la gioia della scuderia di Maranello: “Sta arrivando a Roma. Anzi, è appena arrivata!”, la replica oltre la mezzanotte. Chi è causa del suo male pianga se stesso, è il caso di dire. A iniziare lo sfottò social era stata proprio la Mercedes, postando ieri su Twitter un video in cui attaccava lo stemma dei Leoni vicino a quello del Cavallino di uno dei camion del paddock. Gesto poco scaramantico che non ha decisamente portato bene alla squadra di Southgate. E chissà che questo risultato non possa portare fortuna a Leclerc e Sainz nel prossimo weekend di gara a Silverstone.

Da napolitoday.it il 12 luglio 2021. Maurizio De Giovanni non le manda a dire, e sui social punta il dito contro gli inglesi dopo la finale di Euro 2020 vinta ieri dall'Italia. "Principe, principessa e principino che scappano per non premiare i vincitori – spiega lo scrittore innanzitutto attaccando la famiglia reale – Giocatori che si tolgono sprezzanti le medaglie dal collo prima ancora di scendere dal palco. Centinaia di vigliacchi che aspettano i tifosi italiani all’uscita per aggredirli, col favore degli addetti alla sicurezza". Dopo il quadro, l'affondo: "È allora che avete perso, non sul campo. Sapete che c’è? Ben usciti, signori. Voi e il vostro simpatico giullare pazzo dai capelli ignobili – conclude con uno sfottò su Boris Johnson e sottolineando la Brexit – Non sentiremo la vostra mancanza". Dello stesso tenore anche il commento di un altro scrittore partenopeo, Angelo Forgione. Gli inglesi, scrive Forgione, "lo stile lo imparassero da Luis Enrique e da Guardiola. Sfilarsi immediatamente le medaglie dei finalisti, come se puzzassero, è un gesto di una volgarità enorme. E poi i tifosi inglesi, che la loro frustrazione l'hanno sfogata picchiando gli italiani ai varchi dello stadio".

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. Wembley, la nostra notte. Restano alcune scene. Tutte viste da vicino. Nella prima ci sono i tifosi inglesi che, a migliaia, ubriachi, barcollanti, certi mezzi nudi e davvero osceni nei gesti, vagano dentro il quartiere addirittura cinque ore prima l'inizio della partita. Una bolgia minacciosa. Con bottiglie vuote e lattine di birra ancora piene lanciate in aria. Mischioni furibondi (parecchi - sghignazzando - si gonfiano di botte tra di loro, boh). Violentissimi tornei di stampo medievale organizzati con i carrelli di un supermercato. Alberghi assediati.

Transenne rovesciate. Bagni chimici distrutti. Tricolori incendiati e calpestati (e, di lì a poco, pure i fischi all'Inno di Mameli). Si entra allo stadio camminando muro muro, i cocci di vetro per tappeto. Dentro, i reali in ghingheri. Molto sorridenti, all'inizio. Kate, come sempre chicchissima. William con il solito sguardo buono. In mezzo, il principino George (la creatura combinata così: i capelli biondi lisci pettinati con il riporto a destra, giacca blu e cravatta regimental, vestito bello e pronto per una prima comunione, più che per andare ad assistere alla finale di un torneo). Costante, sul palco d'onore, almeno fino ai tempi supplementari, colpisce poi una certa malcelata euforia. La meravigliosa sobrietà del nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e - tutt' intorno - quel miscuglio di occhiate e smorfie ammiccanti, come se qualcosa di grandioso fosse imminente. Del resto, per giorni, tutti i principali mezzi di informazione britannici - evitando accuratamente di citare gli avversari, cioè gli Azzurri, cioè l'Italia - hanno annunciato la sicura vittoria del campionato d'Europa, la conquista della coppa, non a caso ricreata con una gigantesca struttura gonfiabile, fatta sfilare sul terreno di gioco nella pacchianissima cerimonia di apertura. Boris Johnson, che dopo aver portato il suo Paese fuori dall'Europa, vorrebbe rientrarci con un trionfo non solo calcistico, annusando un probabile bagno di popolarità, ha addirittura tappezzato Downing Street con centinaia di bandiere britanniche. Insomma, sì, è chiaro: pensano di averci cucinato. Per essere esplicito, quel gran simpaticone di Gary Lineker, ex calciatore britannico, ora commentatore Bbc , posta su Twitter un piatto di pasta all'amatriciana, confondendo i rigatoni con le penne. Già questo sembra un bel picco di banale cattivo gusto. Poi, sul prato, i calciatori inglesi riescono però a esibirsi in qualcosa di assolutamente peggiore. Avendo perso, come impone il cerimoniale, sono premiati per primi, con la medaglia dei secondi. Ma dopo pochi passi, dopo aver sfilato davanti alle autorità dell'Uefa (Aleksander Ceferin appare sinceramente dispiaciuto), ecco che se la sfilano, la medaglia, ecco quello che la mette nei calzoncini, quell'altro che se la guarda con aria sprezzante, e scuote la testa. Che elegantoni. E la sportività? E il famoso british style ? Sparito. Restano, forti, solo i filmati, ormai virali nel web, dei tifosi italiani pestati negli androni dello stadio, all'uscita. Li aspettano in branco e gli si avventato addosso, davanti all'indifferenza di steward e poliziotti. Pugni e calci, e sputi, e sangue. All'aeroporto di Heathrow, all'imbarco per il volo 0203 dell'Alitalia con destinazione Roma, un giovane ingegnere mostra il labbro spaccato, un livido sullo zigomo, graffi sul costato. Ma non si lamenta. Cosa è successo? Sorride: «Niente, due de' passaggio» (geniale citazione di Mario Brega, nel film Borotalco di Carlo Verdone).

Da liberoquotidiano.it il 17 luglio 2021. Brutta disavventura per il padre del difensore dell’Inghilterra, Harry Maguire, prima della finalissima degli Europei contro l’Italia. L’uomo, 56 anni, si è trovato coinvolto suo malgrado nei tafferugli alimentati dai tifosi inglesi all’ingresso dello stadio di Wembley e ha riportato una sospetta frattura alle costole. "L’incidente è avvenuto quando centinaia di tifosi inglesi senza biglietto hanno sfondato le barriere di sicurezza per entrare allo stadio di Wembley", rivela il Fatto quotidiano. Lo stesso giocatore ne ha parlato al Sun. "Mio papà non ha cercato cure mediche perché non è uno che fa grandi storie ed è è andato avanti nonostante stia lottando con il dolore alle costole”, ha spiegato il capitano del Manchester United, dichiarandosi contento che i suoi figli non siano andati alla partita, viste le conseguenze di quello che è successo. "Lo hanno lasciato a terra a lottare con il respiro a causa delle sue costole rotte, ma non è uno che fa grandi storie ed è andato avanti – ha spiegato Maguire -. Papà mi supporterà sempre e continuerà a seguire le mie partite, ma sarà un po’ più consapevole di ciò che accade intorno. Le cose sarebbero potute andare molto peggio, ma dobbiamo assicurarci che non accada di nuovo”, ha spiegato ancora il difensore della Nazionale, Harry Maguire che durante la finalissima persa contro l'Italia ha realizzato uno dei due rigori messi a segno dalla Nazionale dei Tre Leoni.

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 13 luglio 2021. Spavaldi prima del match, volti annichiliti alla fine. Può sintetizzarsi così la storia della finale vissuta dagli inglesi, che alla fine si sono anche tolti dal collo la medaglia d'argento. «Football's coming home», celebre ritornello che significa il calcio sta per tornare a casa, ha imperversato per settimane durante Euro 2020. Cantato per le strade, urlato dai finestrini delle auto addobbate con le bandiere con la croce di San Giorgio. La vittoria era nell'aria, secondo i sudditi di Sua Maestà, e la si poteva respirare ovunque. La delusione è stata quindi ancor più dolorosa quando un gioco di parole ideato dagli italiani diffuso nell'ultima settimana è diventato realtà. Nella sera della semifinale contro la Spagna e soprattutto nella finale contro la stessa Inghilterra, infatti, i tifosi del tricolore hanno ironizzato sulla frase The Football is coming home sostituendo semplicemente la H di home con la R di Rome. Un'allusione al fatto che la vittoria sarebbe andata proprio agli Azzurri. A 55 anni dall'ultima coppa tutte le circostanze sembravano favorevoli a una vittoria e gli inglesi sono stati a lungo convinti che questa fosse la volta buona: un girone particolarmente fortunato, una squadra determinata e un allenatore, Gareth Southgate desideroso di riscatto, la possibilità di giocare in casa quasi tutte le partite nel tempio del calcio, Wembley, e l'opportunità di scendere in campo per sfidare la finalista sotto la spinta di uno stadio gremito, per la maggior parte, di tifosi inglesi.

LA REGINA «Ho mandato i miei auguri con la speranza che la storia non registri solo il vostro successo ma anche lo spirito, l'impegno e l'orgoglio che ha caratterizzato la vostra impresa», aveva twittato alla vigilia del match la regina Elisabetta citando quel giorno in cui, 55 anni fa, consegnava la coppa del Mondo a Bobby Moore. E se la squadra fosse riuscita a espugnare la squadra di Roberto Mancini per l'allenatore Gareth Southgate era già pronto un titolo nobiliare di baronetto. Al quale tuttavia ora dovrà rinunciare, con amarezza, soprattutto perché la sconfitta è arrivata a causa della maledizione dei rigori. Lo stesso Southgate, infatti, aveva infranto il sogno dei tifosi inglesi alla semifinale del 26 giugno 1996 tenutasi a Wembley tra Inghilterra e Germania. Un'altra partita persa ai rigori proprio a causa di un suo tiro parato da Kopke. Boris Johnson, che ha difeso dai tentativi dell'Europa di Mario Draghi di spostare la finale altrove, aveva condiviso una foto con indosso la divisa della Nazionale e aveva lodato i calciatori così: «Questa squadra ha già fatto la storia e ha elevato lo spirito della Nazione. Stanotte potranno alzare anche la coppa. In rappresentanza dell'intera Nazione, buona fortuna. E portatela a casa». «Questo risultato con cui si è concluso Euro 2020 ci ha spezzato il cuore ha twittato il primo ministro - ma Gareth Southgate e la sua Inghilterra hanno giocato da eroi. Hanno reso la nostra Nazione orgogliosa e meritano tutta la nostra considerazione». Anche il principe William ha lodato la loro impresa: «Cuore a pezzi, ma testa alta. Siete arrivati tutti così lontano, ma purtroppo questa volta non è stata la nostra giornata. Potete tenere la testa alta ed essere orgogliosi di voi stessi. So che c'è altro in arrivo». Lo stesso principe, come Boris Johnson, ha invece condannato il vergognoso razzismo da parte dei tifosi inglesi nei confronti dei calciatori di colore della squadra che hanno fallito i calci di rigore decisivi. L'Inghilterra ora guarda al futuro, ai Mondiali del 2022 quando ripartirà il ritornello e la speranza che il calcio, ancora una volta, possa tornare a casa.

L'ultima follia inglese: "Campioni? Senza giocatori neri…". Marco Gentile il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. The Economist sgancia la bomba contro l'Italia: "L'aspetto più sorprendente della squadra azzurra è che è l'unica tra le concorrenti che non include un solo giocatore di colore". In Inghilterra, qualcuno o molti, non hanno ancora accettato di aver perso meritatamente la finale di Euro 2020 contro l'Italia di Roberto Mancini ma ora si sta arrivando al delirio. Dopo i vari tentativi di far rigiocare la finale per non si sa quale motivo con petizioni sui social, ecco l'affondo di The Economist secondo cui la nostra nazionale non sarebbe in realtà campione. L'assurda motivazione? Il fatto di non aver alcun giocatore di colore nella rosa dei 26 scelti dal commissario tecnico Mancini.

Delirio inglese. Secondo i il quotidiano, infatti, "l'aspetto più sorprendente della squadra italiana è che è l'unica tra le concorrenti che non include un solo giocatore di colore". Per questa assurda ragione, dunque, la vittoria dell'Italia non sarebbe considerata valida. The Economist continua affermando: "Circa 5 milioni di persone che parlano italiano come lingua dominante continuano a essere considerate straniere. La grande notte del calcio europeo non è stata un grande momento per il multiculturalismo". Ovviamente questo tweet ha scatenato l'ilarità sui social network con molti tifosi italiani ma anche tanti inglesi che hanno ironizzato su questo assurdo argomento anche perché all'interno della rosa dei 26 giocatori scelti da Mancini erano presenti ben tre oriundi: Emerson Palmieri, Rafael Toloi e Jorginho (tutti e tre italiani di origine brasiliana). Non solo, perché Moise Kean è stato vicinissimo alla convocazione ed essendo un classe 2000 con un futuro si spera per lui radioso davanti a sè ci saranno ancora tante chance per essere convocato. Prima di lui anche Mario Balotelli che è stato per diversi anni nel giro della nazionale. La cosa sorprendente, però, è come The Economist abbia tirato fuori un argomento del tutto privo di senso, privo di fondamento. Un commissario tecnico, infatti, è libero di convocare chi vuole per europei e mondiali e di certo non dirama delle convocazioni guardando il colore della pelle del giocatore stesso. Questa ennesima caduta di stile dimostra come Oltremanica qualcuno non abbia ancora digerito la sconfitta meritata e invece di meditare sugli errori commessi da Southgate e i suoi ragazzi si punta il dito sugli azzurri che stanno invece ancora festeggiando a distanza di 5 giorni dalla conquista di Euro 2020.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambi..

“Italia del calcio è razzista”. Dopo l’Economist, il New York Times. Una storia ridicola. Leopoldo Gasbarro il 17 Luglio 2021 su Nicolaporro.it e su Il Giornale. Ieri The Economist, oggi è The New York Times a dipingere l’Italia come un covo di serpi razziste. E come The Economist anche The New York Times guarda al mondo del calcio come la fucina di questo presunto movimento. L’Italia, insomma, secondo il mondo anglosassone, che usa scuse impossibili da accettare, sarebbe la depositaria sportiva di un coacervo di pessimi comportamenti anti razziali. Insomma, se una rondine non fa primavera, due testate anglosassoni invece possono trasformare una nazionale, come quella italiana, appena vincitrice dell’Europeo in un viatico per sottolineare quanto l’Italia sia, a loro modo di vedere, assurdo se mi consentite, un Paese razzista. Nell’articolo a firma di Alan Burdik è riportato lo studio di tre docenti che asserirebbero (docenti economisti non hanno niente di meglio e di più importante da studiare, soprattutto in questo periodo?) che i giocatori di colore che partecipano al campionato italiano di serie A sarebbero riusciti a giocar meglio durante la stagione appena conclusasi, perché con gli stadi vuoti causa Covid, non avrebbero subito le solite pressioni negative e razziali provenienti dagli spalti dei nostri stadi. In Italia e non solo – scrive Burdik nel suo articolo- anche i giocatori di colore di livello mondiale sono stati sottoposti a cori ed epiteti razzisti. Burdik parla persino di lanci in campo di banane. Poi racconta la storia, intervistandolo, del professor Paolo Falco, economista del lavoro presso l’Università di Copenhagen. “A dicembre – racconta il New York Times, lui e due colleghi, Mauro Caselli e Gianpiero Mattera, economisti rispettivamente dell’Università di Trento, in Italia, e dell’OCSE a Parigi, hanno pubblicato uno dei primi studi che cercano di misurare l’impatto dei cori dei tifosi sul gioco e sui calciatori. Io invece mi chiedo: ma nessuno controlla mai dove finiscano i soldi dei contribuenti? Pensate, in piena Pandemia, con il Mondo sottosopra, tre economisti che avrebbero potuto dedicare le loro energie a studi utili al Mondo a cui appartengono, quello economico, appunto, hanno misurato, invece, cosa??? Hanno misurato le prestazioni di circa 500 giocatori di Serie A nella prima metà della stagione 2019-2020 , prima della pandemia di Covid-19, quando gli stadi erano pieni e rumorosi con quelle delle partite della seconda fase del campionato, quando, proprio a causa della pandemia, le partite sono state giocate negli stadi vuoti. I loro risultati evidenzierebbero che: un sottogruppo di giocatori, e uno solo, ha giocato notevolmente meglio in assenza di folla. “Troviamo che i giocatori africani, che sono più comunemente presi di mira dalle molestie razziali, sperimentano un significativo miglioramento delle prestazioni quando i tifosi non sono più allo stadio”, hanno scritto gli autori. L’articolo racconta come Falco ha avuto l’idea di studiare il fenomeno: “Stavo guardando una partita di calcio dopo l’inizio del Lockdown – racconta Paolo Falco al The NewYork Times – e sono rimasto colpito da quanto fosse diversa l’esperienza che stavo vivendo, anche in TV, semplicemente non sentendo tutti i rumori e tutti i canti che di solito fanno da sottofondo a una partita di calcio. Così ho iniziato a chiedermi: gli effetti del “silenzio da stadio” sono uguali per tutti i giocatori? Così abbiamo scoperto che, in effetti, i giocatori sono colpiti in modo diverso. Quelli che sono più soggetti ad abusi  sembrano sperimentare un miglioramento delle loro prestazioni rispetto al momento in cui non hanno più questa pressione su di loro. Abbiamo scoperto che i giocatori africani hanno ottenuto prestazioni migliori del 3% nella seconda parte della stagione rispetto alla prima, insomma, nella seconda parte della stagione sono stati più produttivi”. Mi chiedo. Ma vi sembra normale che è un giornale così autorevole come il The New York Times pubblichi uno studio che sembra davvero privo di ogni fondamento logico e che grazie a questo studio parli dell’Italia come di un paese razzista? Perché lo studio non ha valutato le prestazioni dei giocatori meno coraggiosi, quelli che ogni volta che giocano in trasferta subiscono l’effetto stadio delle tifoserie avversarie sparendo dal campo? E di quelli che hanno paura del cosiddetto “rumore degli stadi” a prescindere dalla loro appartenenza etnica e del colore della loro pelle? Forse l’unica cosa sensata, scritta nell’articolo è questa: il documento di lavoro dei tre docenti è in attesa di pubblicazione su una rivista Peer-Reviewed. La Peer Review è una valutazione di un lavoro presentato per la pubblicazione, effettuata da parte di esperti del settore di cui tratta la pubblicazione stessa. Il Peer Review è un importante strumento per garantire la qualità delle pubblicazioni scientifiche e viene effettuata da tutte le riviste scientifiche di alto livello.  Insomma non sarebbe stato meglio attendere una valutazione più professionale dello studio? Per il New York time non sarebbe stato meglio aspettare che qualcuno di autorevole desse valore a questo studio? L’unico appunto vero è che forse dall’altra parte dell’Oceano, o dall’altra parte della Manica, ancora non hanno ingoiato la pillola: l’Italia è campione d’Europa, e da fastidio ed allora sembra che si voglia a tutti i costi trovare il modo di “SPORCARNE IL SUCCESSO”.

L’Italia ha dato dimostrazione di stile, di coraggio, di capacità uniche, di ecletticità ed autorevolezza. Sarà un caso che negli ultimi importanti mondiali giocati all’estero, l’Italia che fosse di Bearzot o di Mancini abbia vinto in Argentina con l’Argentina, in Germania con la Germania in Inghilterra con  l’Inghilterra? Un dato è certo: saremo piccoli, rappresenteremo il 2,5% della superficie terrestre, ma siamo unici, unici al mondo in tanti campi, anche nello sport, soprattutto nel calcio. “Tutto il resto è noia” come canterebbe Franco Califano. 

Dagotraduzione da Bloomberg il 16 luglio 2021. L’ondata di razzismo che si è diffusa online contro i calciatori inglesi di colore ha fatto emergere le carenze dei social media sull’uso degli emoji. Dopo la finale dell’Europeo tra Italia e Inghilterra, i tre giocatori che hanno sbagliato i calci di rigore, Marcus Rashford, Jadon Sancho e Bukayo Saka, sono stati sommersi di messaggi su Twitter, Facebook e Instagram con emoji di scimmie e banane. Ieri su Twitter Saka ha ringraziato i fan per il supporto, ma ha anche accusato le aziende tecnologiche di non essere state in grado di fermare gli abusi. «Per le piattaforme di social media Instagram, Twitter e Facebook, non voglio che nessun bambino o adulto debba ricevere i messaggi odiosi e offensivi che io, Marcus e Jadon abbiamo ricevuto questa settimana», ha detto. «Ho capito immediatamente il tipo di odio che stavo per ricevere e la triste realtà è che le vostre potenti piattaforme non stanno facendo abbastanza per fermare questi messaggi». L'abuso digitale non è un fenomeno nuovo. L'Associazione dei calciatori professionisti e la società di scienza dei dati Signify hanno analizzato i tweet inviati nel 2020 ad alcuni giocatori e hanno scoperto che quelli esplicitamente offensivi erano più di 3.000, e tra questi il 29% erano post razzisti con emoji. «Gli algoritmi di Twitter non intercettano efficacemente i post razzisti che vengono inviati utilizzando gli emoji», ha rilevato lo studio. «Si tratta di una svista lampante». Ma nonostante il problema sia di vecchia data, l'abuso tramite emoji è proseguito. Lunedì è stata pubblicata un’analisi più recente, che ha bollato come potenzialmente offensivi 2.000 tweet pubblicati durante gli Europei. Anche se i post sono stati cancellati, Twitter non ha sospeso in modo permanente gli account. Facebook Inc., Twitter e Google, proprietaria di YouTube, hanno impiegato anni a sviluppare algoritmi per rilevare i discorsi offensivi in modo da rimuoverli prontamente. Ma gli esperti sostengono sul linguaggio delle emoji è stato fatto uno sforzo minore, lasciando aperta una porta. Per i social «puoi inviare un'emoji scimmia a qualcuno, ma se lo chiami scimmia vieni bandito. È la contraddizione», ha detto Vyvyan Evans, un esperto di linguistica che ha scritto un libro sull'argomento. «Finora gli sforzi, insufficienti, si sono concentrati sugli emoji di polizia». I portavoce di Twitter e Facebook hanno affermato che le società hanno rimosso i post e disabilitato gli account della finale di domenica. Twitter ha affermato che la rete è stata proattiva e ha rimosso più di 1.000 tweet e sospeso account in modo permanente nelle ore successive alla partita. «Usare emoji, come quelli di scimmie o banane, per abusare razzialmente di qualcuno è completamente contro le nostre regole», ha affermato un portavoce della società di Facebook. «Utilizziamo la tecnologia per aiutarci a rivedere e rimuovere i contenuti dannosi, ma sappiamo che questi sistemi non sono perfetti e lavoriamo costantemente per migliorare». I leader del Regno Unito hanno condannato i discorsi di odio. Boris Johnson ha avvisato i dirigenti delle società: devono reprimere questi abusi.

Inghilterra-Italia non è finita: arriva la decisione della Uefa. Antonio Prisco il 3 Agosto 2021 su Il Giornale. La Federcalcio inglese ancora sotto accusa. La Uefa ha aperto un procedimento disciplinare dopo le indagini su quanto accaduto nella notte di Wembley. La Uefa ha aperto un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese per "mancanza di ordine e disciplina da parte dei suoi tifosi". Lo comunica lo stesso organismo europeo attraverso un comunicato ufficiale. Gli strascichi dopo la finale degli Europei 2020, Inghilterra-Italia non sono ancora terminati. D'altronde sono stati troppi gli episodi spiacevoli, che hanno avuto come protagonista la parte peggiore del tifo inglese. Proprio per questo appena dopo l'ultimo atto di Wembley, la Uefa aveva subito aperto ufficialmente un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese (FA - Football association) per fare chiarezza circa quanto avvenuto, prima e dopo la finale dell'Europeo. L'indagine era stata successiva a quella, costata già 30mila euro alla FA per il comportamento scorretto durante la semifinale che la Nazionale dei Tre Leoni aveva vinto contro la Danimarca. In quell'occasione, la Uefa ha sanzionato il laser puntato su Kasper Schmeichel al momento del rigore di Harry Kane che decise la sfida. In quest'ultimo caso i capi d'accusa però sono molti di più. Entrando nel dettaglio, l'Organo di Controllo, Etica e Disciplina della Uefa (Cedb) ha voluto chiarire i fatti che hanno portato agli incidenti causati dal supporter inglesi: tra l'irruzione senza biglietto allo stadio, ai comportamenti poco corretti durante il match con l'Italia. Nel comunicato, la Uefa aveva sottolineato infatti come tra i capi di accusa rientrino anche l'invasione di campo, il lancio di oggetti contro i sostenitori italiani, i fischi durante l'esecuzione dell'inno nazionale e l'utilizzo improprio di fuochi d'artificio. Dopo la necessaria fase istruttoria, sugli eventi che videro coinvolti i tifosi all'interno e nei pressi dello stadio durante la finale di Euro2020, la Uefa ha aperto un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese per una potenziale violazione dell’Articolo 16(2)(h) del Regolamento. Nello specifico il procedimento disciplinare contro la FA riguarda una potenziale violazione dell'articolo 16 delle regole disciplinari della Uefa in merito alla sicurezza in occasione delle partite per "mancanza di ordine e disciplina da parte dei suoi tifosi". Insomma la finale di Euro 2020 tra Italia e Inghilterra, vinta dagli Azzurri di Mancini ai calci di rigore è ancora lontana dall'essere terminata.

Il comunicato. "A seguito di un’indagine condotta da un Ispettore di Etica e Disciplina Uefa sugli eventi che hanno coinvolto i tifosi avvenuti all'interno e intorno allo stadio durante la finale di UEFA EURO 2020 tra le Nazionali di Italia e Inghilterra, giocata l’11 luglio allo stadio di Wembley, Londra, è stato aperto un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese per una potenziale violazione dell’Articolo 16(2)(h) del Regolamento Disciplinare Uefa per mancanza di ordine o disciplina da parte dei suoi tifosi. Ulteriori informazioni in merito saranno rese disponibili a tempo debito".

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Agli inglesi brucia ancora: ora boicottano i ristoranti italiani. Francesca Galici il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Agli inglesi non va giù la vittoria italiana a Wembley e così a farne le spese sono i ristoranti dei nostri connazionali in Inghilterra. Gli inglesi che boicottano i ristoranti italiani dopo la sconfitta a Wembley sono quasi peggio dei francesi che non hanno accettato quella dei Maneskin all'Eurofestival. Nel regno di Elisabetta II non sembra che la sconfitta al Campionato europeo di calcio possa essere accettata, per lo meno non a breve. Gli inglesi erano troppo sicuri di vincere, di riportare la coppa a Londra. Il coro "It's coming home", diventato un tormentone tra i sudditi della Regina è il principale sfottò degli italiani che, in faccia ai 70mila inglesi di Wembley e al mondo intero, hanno urlato che no, la coppa non sarebbe rimasta a Londra ma sarebbe andata a Roma. La sconfitta di Wembley brucia troppo agli inglesi, per la seconda volta fermati a un passo dall'alzare la coppa, come quando fu la Germania nel 1996 a prendersi la coppa per portarla a Berlino. Sempre ai rigori e sempre a Wembley. Gli inglesi hanno dimostrato di non essere superstiziosi, è vero, ma il risultato è stato quello che sappiamo. Quindi, non sarebbe il caso di cambiare stadio se mai in un prossimo futuro l'Inghilterra dovesse avere l'occasione di giocare una finale in casa? Al di là di questo, la vittoria degli Azzurri ha causato un terremoto economico per i nostri connazionali in Inghilterra, perché dall'11 luglio i ristoranti italiani sono pressoché deserti. E non sono pochi, soprattutto a Londra. Stando alle ultime stime di TheFork Uk, pare che il trionfo di Wembley abbia causato un calo del 55% nelle prenotazioni. Un contraccolpo non da poco per un'economia che stava cercando di ripartire dopo i lockdown e che stava riscuotendo i favori degli inglesi ancor più che in passato. La cucina italiana tradizionale a Londra ultimamente era stata trasformata in cucina regionale: ristoranti siciliani, calabresi, laziali e campani, solo per citare alcuni dei più diffusi, stanno pian piano sostituendo quelli generici di matrice tricolore, con riscontri molto positivi. Al boicottaggio dei ristoranti italiani in Inghilterra, ma non nel resto del Regno Unito, si accompagna una riduzione delle prenotazioni degli inglesi per i viaggi in Italia, soprattutto a Roma. Il coro "It's coming Rome" non dev'essere piaciuto ai sudditi di Elisabetta II. È un peccato, perché Leonardo Bonucci a fine partita a Wembley aveva dato un buon suggerimento agli inglesi nel caso in cui volessero riprovarci, un giorno, a portare la coppa a Londra. "Ne dovete mangiare ancora di pastasciutta", ha urlato il campione azzurro. Ma forse preferiscono mangiare fish and chips e ammirare la coppa a casa nostra. D'altronde, Roma è stupenda.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Da ilgiorno.it il 15 luglio 2021. “Ne dovete mangiare ancora di pastasciutta”. Le parole di Leo Bonucci rivolte ai tifosi inglesi al termine della finalissima di Wembely riecheggiano ancora più forti dopo un’analisi di mercato della Coldiretti: sulla base di dati Istat, gli acquisti di pasta dei cittadini britannici sono crollati del 25% nel 2021, con quantitativi che non sono mai stati così bassi negli ultimi cinque anni. Una carenza alimentare che forse, secondo la Coldiretti, ha pesato sulle performance sportive della squadra inglese che non ha potuto contare sulle qualità nutrizionali della dieta mediterranea. In questo senso non è un caso che l’Italia campione d’Europa sia il paese con il maggior consumo di pasta, 23 kg a persona, ma in buona posizione si attesta anche l’Argentina, campione della Coppa America, con 8,7 kg. La pasta, però, non è l’unico prodotto made in Italy che, dopo la Brexit e le relative limitazioni imposte, ha registrato un forte rallentamento. Il calo è quantificabile intorno al 10,5% e in controtendenza rispetto alle esportazioni verso il resto del mondo che hanno segnato un +19,8% nel primo quadrimestre del 2021. A pesare sull’export alimentare nazionale in Uk sono infatti le difficoltà burocratiche ed amministrative legate all’uscita degli inglesi dell’Unione Europea, in particolare le procedure doganali e l’aumento dei costi di trasporto dovuti a ritardi e maggiori controlli. In crisi anche altre eccellenze italiane come vino (Prosecco su tutti), derivati del pomodoro, formaggi (Grana Padano e Parmigiano Reggiano in particolare), salumi e olio d’oliva che mettono a rischio i 3,4 miliardi di esportazione annua oltremanica. Ma “l’effetto Wembley” non si limita al settore agroalimentare. Infatti nei due giorni successivi alla finale persa dall’Inghilterra, c’è stato un boom di disdette ricevute dagli alberghi di Roma (intorno al 40% del totale dei turisti Uk). Gli inglesi che avevano prenotato un soggiorno nella capitale, hanno preferito rinunciare alla vacanza, un po’ per l’obbligo di quarantena di cinque giorni imposto dal ministro Speranza per provare ad arginare la variante Delta, un po’ per paura degli sfottò. Tutto questo, a conferma della scarsa sportività dei connazionali della Regina, dimostrata dai fischi all'inno di Mameli e dalle medaglie tolte subito dal collo. Da it’s coming home a they aren’t coming to Rome, a quanto pare, il passo è molto breve.

Salvatore Riggio per corriere.it il 16 luglio 2021. Non si sono ancora rassegnati e non si rassegneranno mai. La sconfitta, per loro inattesa, contro l’Italia a Wembley, nella patria del calcio, non è andata giù agli inglesi, che ancora rosicano per quell’ennesima maledizione ai rigori. Come quella di 25 anni fa negli Europei organizzati in casa nel 1996, finiti con il k.o. dagli 11 metri contro la Germania. E sempre a Wembley. Il Corriere ha creato uno speciale sugli Europei 2021 con partite, squadre, protagonisti e risultati in tempo reale. Passano gli anni, ma certe cose restano sempre. E allora ora gli inglesi iniziano a prendersela con la cucina italica. Dati alla mano, dopo la finale di domenica 11 luglio, le prenotazioni nei ristoranti italiani presenti nel Regno Unito sono crollate del 55%. La notizia la riporta «TheFork UK», leader nella prenotazione di ristoranti. Niente pastasciutta (ignorando l’invito di Bonucci a fine match), pizza, focaccia e tante altre nostre prelibatezze. Al momento, i sudditi di Sua Maestà preferiscono il famoso «fish and chips». Certo, conoscendo la nostra cucina, difficilmente Oltremanica continueranno questo tipo di protesta. Più facile, e qui davvero non si arrendono, continuare la petizione per rigiocare la finalissima. È stata lanciata all’indomani del trionfo dell’Italia a Wembley e ora vola verso le 150mila firme e non accenna a fermarsi: «Il match non è stato corretto – hanno spiegato i promotori dell’iniziativa, sottolineando soprattutto l’episodio della mancata espulsione di Chiellini per il fallo su Saka al 95’ .– La rivincita dovrebbe avere luogo con un arbitro non di parte». Insomma, da quelle parti il coraggio per una richiesta simile non manca proprio: «Stiamo lavorando per inviare il maggior numero di email ad agenzie e persone che saranno in grado di aiutarci. Continuate a condividere e commentare, a firmare, a fare tutto il possibile. Facciamo del nostro meglio per dare al nostro paese una giusta possibilità». Con un’iniziativa in più rispetto a qualche giorno fa. Quello di una raccolta fondi con l’obiettivo di «comprare una coppa personalizzata da inviare alla squadra». Insomma, l’idea è quella di regalare una copia del trofeo alla Nazionale del c.t. Gareth Southgate. Ma in questo caso, forse, sarà meglio allenarsi dagli 11 metri, viste le tante sconfitte dal dischetto. Come suggerisce, tra l’altro, qualche tifoso dei Tre Leoni, riconoscendo la forza degli azzurri di Roberto Mancini.

Elena Stancanelli per "la Stampa" il 13 luglio 2021. Partiamo dall'alto. Subito sotto Dio per la precisione: la famiglia reale inglese. Il loro compito politico è dare l'esempio, indicare comportamenti corretti, essere guardati. Sono il simbolico per eccellenza, e di simboli si è parlato molto in questi europei di calcio. Inginocchiarsi o rimanere in piedi prima della partita ha creato intorcinamenti ideologici nei poveri calciatori e nella Federazione calcio. Dilemma morale che è stato risolto adeguandosi a quello che facevano gli avversari. È un criterio come un altro, inutile giudicare. E comunque il simbolico chiede il simbolo, non le sue motivazioni. Per questa ragione la famiglia reale ha commesso il primo degli errori di fair play lasciandosi sorprendere, alla fine della partita, nell'atteggiamento dolente di chi sembrava stesse presenziando a un funerale. William, Kate e il principino George stretti in un abbraccio, i volti scuri, affranti. Per quel paio di persone al mondo che non sapessero dove si trovavano, sembravano testimoniare lo strazio davanti a una morte. E invece erano allo stadio di Wembley, a guardare una partita di calcio. Importante, importantissima, ma sempre una partita di calcio. La regina non avrebbe mai fatto un errore simile. Né avrebbe permesso che il piccolo George fosse fotografato mentre ride come un pazzo dopo il primo goal dell'Inghilterra. È solo un bambino, si è detto. No, è l'erede al trono e a lui è concesso tutto tranne la naturalezza. O meglio: la sua naturalezza non può essere concessa alle telecamere, ed Elisabetta lo sa bene. Spiace per lui, ma, come tutti noi, vive nel reame del simbolico. Facesse quello che vuole quando è lontano dalla nostra vista, ma allo stadio deve comportarsi come ci si aspetta che si comportino le persone sportive. I suoi avi erano più fortunati, non c'era internet, non c'erano i social, non c'erano neanche i telefonini. Ci si poteva nascondere ed essere bambini anche in casa Windsor. Così come si poteva essere calciatori e non avere nessuna idea di un movimento nato nella comunità afroamericana, contro la violenza della polizia americana, dopo la morte di un cittadino americano, George Floyd. Quel tempo è finito, ma il problema del simbolico è che mentre ti arrovelli se sia il caso di inginocchiarti o no, ti dimentichi di quello che stai facendo, cioè che sei un calciatore e devi almeno seguire le regole elementari del tuo stare in campo. Calciare un pallone e comportarti con sportività, perché quello che stai facendo è praticare uno sport, non combattere una guerra che lascia sul campo morti e feriti davanti ai quali la famiglia reale deve mostrare cordoglio. Dunque subito sotto la Corona, nella scala dell'esemplarità, c'erano ieri sera allo stadio di Wembley, i calciatori. I quali durante la partita si sono comportati nella media del calcio: qualche tuffo, qualche fallo, qualche recriminazione. Né più né meno della squadra italiana. Poi, durante la premiazione hanno sbracato. Qualche volta si vince e qualche volta si perde e quando si perde bisogna farlo con classe. Soprattutto perché quei giocatori che uno dopo l'altro si sfilavano dal collo la medaglia del secondo classificato - cupi, offesi di essere stati sconfitti sul proprio campo - in quel momento rappresentavano la loro nazione, e non un club o l'altro. Nazione che infatti, in parte, ha reagito secondo le indicazioni ricevute. Abbiamo perso la guerra, non è giusto, non potremmo mai accettarlo e dunque spacchiamo tutto. Queste sono le indicazioni simboliche che i tifosi hanno visto. I quali - questo non è uno sport per signorine, direbbe Nanni Moretti - erano reduci dall'aver fischiato l'inno nazionale italiano, l'uscita dal campo di Chiesa azzoppato in uno scontro, e soprattutto i poveri Marcus Rashford, Bukayo Saka e Jadon Sancho che non hanno segnato i loro rigori. Tre calciatori neri, sfortunatamente. Per cui l'aggressione si è trasformata in un linciaggio razziale. È orribile, ma prima di tutto ridicolo. Così i reali inglesi e i calciatori si sono dovuti schierare, tentando di arginare questa pazzesca e insensata ondata di razzismo. Hanno rilasciato dichiarazioni, chiesto razionalità, calma, ribadendo che si tratta soltanto di una partita di calcio. Forse è un po' tardi. Per essere chiari: se vuoi dare l'idea che si tratta soltanto di un gioco, devi fare quello che ha fatto l'allenatore della Spagna, Luis Enrique. Ridere, abbracciare gli avversari, alleggerire la tensione. Non il giorno dopo, ma subito, appena finita la partita. La partita, non la guerra.

Euro 2020, "William voleva ma Kate Middleton ha detto no". George prima di Inghilterra-Italia, il dramma in questa foto. Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Prima di Inghilterra-Italia ci è scappato quasi il litigio in famiglia (reale). Tutta colpa del principino George: l'erede al trono britannico ha chiesto a mamma e papà, i Duchi di Cambridge, di poter indossare l'amata maglietta bianca della Nazionale dei Tre leoni. Stando alle indiscrezioni trapelate sui tabloid inglesi, papà William avrebbe acconsentito. D'altronde, l'animo da tifoso (il figlio di Carlo e Diana è fan sfegatato dell'Aston Villa, una passione che ha tramandato al rampollo) a volte prevale anche sull'etichetta. Mamma Kate Middleton però avrebbe protestato con forza, e avrebbe vinto. Così George, emozionato ma un po' troppo "imbalsamato" nel su completino in giacca e cravatta, ha assistito dal palco reale di Wembley alla tanto attesa finalissima di Euro 2020 contro gli azzurri, senza poter sfoggiare la maglietta di Harry Kane e compagni. La serata, iniziata alla grande con il bel gol di Shaw dopo appena 3 minuti, si è trasformata in incubo prima con il pareggio di Bonucci nella ripresa e poi nell'agonia dei calci di rigore, con le parate decisive di Gigio Donnarumma. Papà William, come i sudditi inglesi, ormai ci sono abituati: da Euro 1996 in avanti, dal dischetto è sempre sciagura per la Nazionale della Regina Elisabetta. Per George, invece, la prima delusione che, immaginiamo, non dimenticherà mai. Commentando la finale di Wimbledon tra Novak Djokovic e Matteo Berrettini per la Bbc, è stata l’ex campionessa di tennis Marion Bartoli a rivelare il dettaglio su George: "Ieri pomeriggio ho preso un tè con la duchessa e mi ha detto che George stasera a Wembley vuole indossare la maglietta della nazionale. In famiglia c’è stata molta discussione, William è d’accordo, Kate non è così entusiasta, quindi vedremo". Dietro il "no" secco di Kate, al di là dell'eleganza formale che si impone a un principino erede al trono, anche una questione di molto più seria attualità: mentre l'Inghilterra sognava il trionfo, il resto del Regno Unito (si fa per dire), dalla Scozia all'Irlanda, gufava selvaggiamente. George schierato apertamente per l'Inghilterra, a discapito degli altri territori che un giorno governerà. avrebbe potuto rappresentare un precedente imbarazzante. Ancora più di un rigore sbagliato.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 luglio 2021. Dopo la gioia iniziale, la disperazione. L’umore dell’Inghilterra si è rispecchiato in quello del principe George ieri sera a Wembley. Il piccolo reale, 7 anni, ha assistito alla finale tra Inghilterra e Italia seduto tra i suoi genitori, il principe William e Kate. La serata non poteva cominciare meglio per il piccolo principe, autorizzato a partecipare alla finale. Così, vestito in giacca, camicia e cravatta a righe, ha raggiunto i genitori a Wembley. L’ex campionessa di tennis Marion Bartoli ha rivelato che in realtà George avrebbe desiderato indossare la maglia dell’Inghilterra, e William era d’accordo, ma Kate «non ne era entusiasta». La gioia è esplosa dopo il gol di Shaw: George ha gridato e alzato le braccia al cielo, poi ha abbracciato la madre. Ma a fine gara il piccolo aveva ormai l’aria triste, sua madre si copriva il volto con le mani per non guardare i rigori, e il padre, il principe William, posava se le sue mani sulle sue spalle in segno di conforto.

Nessun saluto, poi la fuga: cosa è successo tra William e Mattarella. Francesca Rossi il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Il mancato saluto al presidente Mattarella, la fuga dallo stadio per non assistere alla premiazione della squadra italiana, questa volta il principe William avrebbe infranto tutte le regole del protocollo. La partita tra Inghilterra e Italia ha tirato fuori il peggio degli inglesi. L’aplomb britannico è morto lo scorso 11 luglio, portandosi dietro il senso di civiltà. Vale la pena fermarsi un momento a riflettere sul rigurgito razzista e antitaliano dimostrato da alcuni inglesi, sul presunto, mancato saluto di William al presidente Mattarella, sull’incredibile fuga dei Cambridge dallo stadio, pur di non subire “l’onta della premiazione allo straniero”, su quelle medaglie messe e tolte in un gesto di stizza dai calciatori inglesi, sulla “caccia all’italiano” scatenatasi durante il match. Cosa è successo all’Inghilterra? All’improvviso era irriconoscibile e selvaggia. In fondo non si trattava di vincere o perdere una guerra, ma gli inglesi sembrano aver ricevuto un colpo al loro onore.

William e l'Inghilterra credevano di avere la vittoria in mano. L’Inghilterra era certa di vincere gli Europei di calcio. Così convinta da dimenticare non solo la sportività, ma addirittura le regole di comportamento civile. Purtroppo neanche i duchi di Cambridge avrebbero dato il buon esempio. Pare che William, Kate e George abbiano abbandonato lo stadio prima della premiazione dell’Italia, gesto deprecabile. Sì, William si è poi scagliato (con ritardo) contro gli insulti razzisti destinati ai giocatori inglesi che hanno fallito i rigori, ma si è “dimenticato” che anche gli italiani in Inghilterra, la notte dell’11 luglio 2021, hanno ricevuto vergognose invettive discriminatorie e addirittura agguati di stampo criminale dagli hooligans. Una triste caduta di stile in mondovisione che nessuno si aspettava da un’intera nazione famosa per il suo savoir-faire come l’Inghilterra. Il principe, in quanto presidente onorario della Federcalcio inglese, avrebbe anche dovuto redarguire i giocatori britannici che, senza alcuna sportività, hanno tolto le medaglie che erano state loro assegnate dopo il match. Li ha chiamati “eroi”, ma forse bisognerebbe dare il giusto peso alle parole (e alle partite).

William non ha salutato il presidente Mattarella? Nessuno può mettere Sergio Mattarella in un angolo (per dirla con Dirty Dancing). Scherzi a parte, in queste ore sta facendo discutere un altro presunto gesto inqualificabile del principe William. Il duca non solo sarebbe letteralmente fuggito dallo stadio dopo la vittoria dell’Italia contro l’Inghilterra, per non partecipare alla premiazione della nostra Nazionale, ma addirittura se ne sarebbe andato senza nemmeno stringere la mano al presidente della Repubblica Mattarella, seduto a pochi metri da lui. Lo avrebbe ignorato per tutta la partita. Possibile? La vicenda è diventata un giallo italo-inglese. Secondo un'altra ipotesi, invece, al termine del match William avrebbe provato a raggiungere il presidente italiano, ma sarebbe stato bloccato da Gianni Infantino, presidente della Fifa, per motivi di precauzione legati al Covid. Ci sarebbe anche un filmato che lo proverebbe. In realtà, però, non si vede granché. Possiamo solo osservare William che parla con un uomo e poi se ne va, ma ciò non prova nulla né contro né a favore del principe. In un primo momento, tra l'altro, era trapelata la voce secondo cui William sarebbe stato bloccato da Raffaele Trombetta, ambasciatore italiano a Londra. Ricostruzione, questa, smentita dalla Farnesina, che ha chiarito: "Circola da alcune ore sui siti web di diversi organi di stampa nazionali un video che ritrae i momenti successivi al termine della partita finale dei Campionati Europei di calcio 2020 a Wembley e fa riferimento all'Ambasciatore d'Italia nel Regno Unito. Si precisa a beneficio di tutti gli organi di stampa interessati che quel documento video non ritrae l'Ambasciatore Raffaele Trombetta ma un componente della delegazione della Fifa". Tuttavia, se pure fosse questa la dinamica con cui si sono svolti i fatti, William non sarebbe "assolto". Forte del peso del suo ruolo, il duca avrebbe dovuto tentare comunque di raggiungere Sergio Mattarella, magari mantenendo le distanze sociali (e ricordiamo che entrambi sono vaccinati). Una simile (presunta) maleducazione non è solo uno strappo al protocollo, ma anche una figuraccia internazionale.

Il principe George vuole andare allo stadio. Quando gli esperti hanno visto Baby George a Wembley con i genitori, in occasione della partita Inghilterra-Germania e poi per la finale Inghilterra Italia, sono rimasti un po’ sorpresi. William e Kate tengono molto alla privacy dei figli e non li espongono ai media se non è strettamente necessario. Per le partite, però, sarebbe stata fatta un’eccezione a causa delle insistenti richieste di Baby George. Scrive il Daily Mail: “Alla vigilia del match contro la Germania il piccolo George ha implorato i genitori affinché lo portassero allo stadio”. E pare che lo stesso sia accaduto per il match di domenica 11 luglio. Se, poi, vi ha stupito anche l’outfit elegantissimo del bimbo, sappiate che c’è un mistero in merito. Sempre il Mail rivela: “[George] ha voluto pure un vestito uguale a quello di suo padre” . Può darsi che ciò sia vero per quel che riguarda la partita Inghilterra-Germania. Ma per quel che riguarda il look sfoggiato dal bambino per la finale contro l’Italia l’ex campionessa di tennis Marion Bartoli ha un’altra versione dei fatti. Bartoli ha riferito che per la finale di Wembley George avrebbe voluto indossare la maglia della sua nazionale, ma Kate glielo avrebbe impedito. E pare non siano indiscrezioni. Sarebbe stata la stessa duchessa di Cambridge, durante un tè, a raccontare l’aneddoto all’ex tennista. Forse il principe George non ha ereditato dal padre il senso dell’eleganza, ma di sicuro ha preso la passione per il calcio. Tale padre, tale figlio. 

Francesca Rossi. Sono nata a Roma, ma vivo a Latina. Sono laureata e specializzata in Lingue e Civiltà Orientali a La Sapienza di Roma (curriculum di lingua e letteratura araba). Ho vissuto in Egitto per approfondire lo studio della lingua araba. Per la casa editrice Genesis Publishing ho pubblicato due romanzi, "Livia e Laura", sull'assassinio della Baronessa di Carini e "Toussaint. Inganno a Mosca", la storia di una principessa araba detective. Ho un blog che affronta temi politici e culturali del mondo arabo su HuffingtonPost. Sono appassionata di archeologia, astron 

Euro 2020, la vergognosa fuga del principe William da Wembley: sfregio all'Italia, ecco chi sono gli inglesi. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Maurizio De Giovanni non le manda a dire, e sui social punta il dito contro gli inglesi dopo la finale di Euro 2020 vinta ieri dall'Italia. "Principe, principessa e principino che scappano per non premiare i vincitori – spiega lo scrittore innanzitutto attaccando la famiglia reale – Giocatori che si tolgono sprezzanti le medaglie dal collo prima ancora di scendere dal palco. Centinaia di vigliacchi che aspettano i tifosi italiani all’uscita per aggredirli, col favore degli addetti alla sicurezza", scrive l'autore de I Bastardi di Pizzofalcone. Poi  l'affondo: "È allora che avete perso, non sul campo. Sapete che c’è? Ben usciti, signori. Voi e il vostro simpatico giullare pazzo dai capelli ignobili – conclude con uno sfottò su Boris Johnson e sottolineando la Brexit – Non sentiremo la vostra mancanza". Dello stesso tenore anche il commento di un altro scrittore partenopeo, Angelo Forgione. Gli inglesi, scrive Forgione, "lo stile lo imparassero da Luis Enrique e da Guardiola. Sfilarsi immediatamente le medaglie dei finalisti, come se puzzassero, è un gesto di una volgarità enorme. E poi i tifosi inglesi, che la loro frustrazione l'hanno sfogata picchiando gli italiani ai varchi dello stadio". Insomma una vera figuraccia in eurovisione. Anche il comportamento dei calciatori inglesi che alla cerimonia si sono tolti la medaglia dal collo assegnata alla squadra sconfitta non ha lasciato indifferenti i tanti tifosi che si sono riversati poi sui social per criticare questo atteggiamento che è sembrato irrispettoso.

Da liberoquotidiano.it il 14 luglio 2021. Il principe William non è riuscito a salutare Sergio Mattarella. Quanto accaduto nello stadio di Wembley dopo la vittoria dell'Italia agli Europei ha indignato parecchio, se non fosse che a giorni di distanza spunta un video che mostrerebbe gli attimi sotto accusa. Dopo la parata di Gigio Donnarumma e la sconfitta dell'Inghilterra, il capo dello Stato si lascia andare all'esultanza. E con lui anche chi gli sta intorno. È in quel momento che il principe erede al trono ha tentato di salutare il presidente della Repubblica, venendo però fermato prima. Rispetto alle prime indiscrezioni il Quirinale smentisce che sia stato l'ambasciatore italiano a Londra, Raffaele Trombetta, a chiedere al marito di Kate Middleton di allontanarsi. Nel video infatti si vede Gianni Infantino, presidente della FIFA, recarsi da William che a quel punto gira i tacchi e se ne va. Un tentativo tutto inglese per screditare l'Italia? Chissà. Certo è che la fuga della famiglia Reale ha destato parecchie critiche. Tra queste quella di Maurizio De Giovanni, l'autore de I Bastardi di Pizzofalcone: "Principe, principessa e principino che scappano per non premiare i vincitori. Giocatori che si tolgono sprezzanti le medaglie dal collo prima ancora di scendere dal palco. Centinaia di vigliacchi che aspettano i tifosi italiani all’uscita per aggredirli, col favore degli addetti alla sicurezza". E ancora: "Allora che avete perso, non sul campo. Sapete che c’è? Ben usciti, signori. Voi e il vostro simpatico giullare pazzo dai capelli ignobili". Molti come lui hanno notato alquanto strana l'uscita "in velocità" del principe e consorte. Anche se, visti i tafferugli andati in scena fuori dallo stadio, la motivazione più plausibile è quella di una ragione di sicurezza.

La figuraccia di William con Mattarella (e l'Italia). Francesca Rossi il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. A Wembley per la finale Inghilterra-Italia il principe William ha fallito miseramente nel suo ruolo di futuro re d’Inghilterra. Inghilterra inqualificabile. Non stiamo parlando di selezioni e classifiche per il prossimo Mondiale di calcio, ma di un comportamento deplorevole tenuto, durante e dopo la finale Inghilterra-Italia dello scorso 11 luglio, non solo da una nazione tra le più importanti al mondo, ma addirittura da un rappresentante delle sue istituzioni, il principe William. Ovvero dal futuro, giovane re che mai avremmo pensato potesse inanellare una serie di errori grossolani e deprecabili. Fa male ammetterlo, ma il duca di Cambridge, incredibilmente, ha gettato alle ortiche le più elementari regole dell’educazione e del protocollo, oltre che secoli di gloriosa storia inglese. C’è da sperare che il figlio di Lady Diana, donna sempre molto attenta al prossimo, riesca a realizzare la portata delle sue sorprendenti gaffe.

Una spocchia tutta inglese. Ripercorriamo i fatti avvenuti prima, durante e dopo la finale degli Europei a Wembley. L’Inghilterra sentiva di avere la vittoria in pugno. Ne era talmente certa che qualche incauto tifoso si è fatto addirittura tatuare la coppa prima del match. Per giorni gli inglesi davano gli italiani per perdenti e umiliati, benché, per dirla tutta, da un punto di vista tecnico tra le due squadre non vi fosse questa grande differenza. L’Inghilterra, forse un po’ troppo abituata a vincere dentro e fuori dai campi da gioco a qualunque costo (la Storia insegna), non è riuscita a concepire un finale alternativo assolutamente possibile. Una certa superbia mista a spocchia incontrollata con una spruzzata di immotivato senso di superiorità ha fatto il resto. Qui entra in gioco il principe William. Forse un po’ troppo galvanizzato da una presunta imbattibilità della sua Nazionale avrebbe compiuto, secondo quanto riportato dai giornali, tre azioni disgraziate: avrebbe abbandonato lo stadio in fretta furia con Kate e George, pur di non presenziare alla proclamazione dei vincitori italiani. Non avrebbe salutato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non avrebbe battuto ciglio quando al nostro presidente sarebbe stata assegnata una postazione non in linea con il suo rango di capo dello Stato e ospite in un altro Paese. Un'altra versione dei fatti sostiene che il principe William, a fine partita, abbia tentato di avvicinarsi al presidente italiano e in effetti esiste un filmato in merito che, però, non chiarisce la dinamica dei fatti. Il duca sarebbe stato bloccato da un delegato della FIFA, prima di raggiungere Mattarella, a causa delle norme anti-Covid. Però c'è da segnalare che entrambi sono vaccinati, l’evento è stato pianificato (come già accaduto per altri incontri tra rappresentanti di Stati diversi durante il periodo di pandemia) e che il duca aveva l'autorità per tentare di imporsi su questa decisione. Tra l'altro il principe William e Sergio Mattarella non erano neanche così distanti l’uno dall’altro. Dov'è la verità? Ci sono parecchie zone d'ombra su questo evento. Il principe William rappresenta il casato regnante britannico. Pertanto se decide di andare allo stadio per assistere a una finale che coinvolge la Nazionale inglese, la sua visita non può che essere ufficiale e, di conseguenza, rispettare tutti i crismi dell’evento pubblico. Ciò significa che il principe William, in quanto “padrone di casa”, avrebbe dovuto scendere dagli spalti e congratularsi con tutti i giocatori e gli allenatori di entrambi gli schieramenti e assistere alla premiazione. Per dirla in parole povere, doveva fare il suo dovere e tenersi la rosicata per sé. “Never complain, never explain”.

Inghilterra razzista? L’Inghilterra ha aspettato per 55 anni di alzare la coppa degli Europei. Non è accaduto, ma sono cose che capitano. Certo, l’allenatore inglese Gareth Southgate ci ha rimesso il titolo di baronetto, ma nella vita c’è di peggio. Invece è sembrato di trovarsi di fronte a una nazione incattivita, che pretendeva la vittoria come fosse un diritto divino. Ciò che è successo lo scorso 11 luglio non dovrebbe essere sottovalutato, anche perché coinvolge persino un futuro leader, il principe William e addirittura il sempre spettinato primo Ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “Questa squadra ha già fatto la storia e ha elevato lo spirito della Nazione. Stanotte potranno alzare anche la coppa. In rappresentanza della Nazione, buona fortuna. E portatela a casa”. Eppure la vittoria inglese non era scolpita sulla pietra. Tuttavia perfino le istituzioni si sono sentite investite di una sacra missione in stile Giovanna D’Arco. Il principe William, poi, ha giustamente difeso dalle accuse razziste i calciatori linciati per aver sbagliato i rigori, ma ha precisato che l’intero team è composto da “eroi” . Non sarà un tantino esagerato? Era una partita, benché gli inglesi, per parafrasare Churchill, l'abbiano persa quasi si fosse trattato di una guerra. Ridimensioniamo. Forse il duca si è fatto prendere la mano, tralasciando tutti gli insulti ricevuti dagli italiani durante il match e gli atti violenti e criminali perpetrati dagli hooligans ai danni dei nostri connazionali. Alla fine rimane una domanda: perché è accaduto tutto questo? La bella Inghilterra trasformata in una megera, una parte del suo popolo, famoso per l’aplomb, stravolto da una rabbia animalesca. Figuraccia mondiale. Cosa ha da dire Kensington Palace?

Francesca Rossi. Sono nata a Roma, ma vivo a Latina. Sono laureata e specializzata in Lingue e Civiltà Orientali a La Sapienza di Roma (curriculum di lingua e letteratura araba). Ho vissuto in Egitto per approfondire lo studio della lingua araba. Per la casa editrice Genesis Publishing ho pubblicato due romanzi, "Livia e Laura", sull'assassinio della Baronessa di Carini e "Toussaint. Inganno a Mosca", la storia di una principessa araba detective. Ho un blog che affronta temi politici e culturali del mondo arabo su HuffingtonPost. Sono appassionata di archeologia, astronomia e dinastie reali nel mondo.

“Arbitro di parte”, accusano da Londra. Petizione per rigiocare la finale con l’Italia, i tifosi inglesi non ci stanno: “Trascinati come schiavi”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 12 Luglio 2021. L’Europeo delle parate di Gigio Donnarumma ai rigori, del gol da fantascienza di Patrik Schick, ma anche delle petizioni online. Strano da dirsi, ma la competizione termina domenica sera allo stadio di Wembley col trionfo degli Azzurri del ct Roberto Mancini sarà ricordata anche per il lancio di ben tre petizioni sul web per rigiocare alcuni match. L’ultima in ordine di tempo è quella promossa su Change.org da alcuni tifosi di Sua Maestà, reduci dalla devastante sconfitta interna. Troppa l’amarezza da sopportare per chi da settimane ormai andava ripetendo “Football it’s coming home”, così dopo la lotteria dei rigori che ha premiato Donnarumma e compagni è nata una petizione per chiedere di rigiocare la finale. La motivazione? La finale, secondo i promotori della petizione, “non è stata affatto corretta. L’Italia ha ricevuto un solo cartellino giallo per aver trascinato i giocatori dell’Inghilterra come se fossero schiavi. Dopo tutte quelle spinte, gli strattonamenti e quei colpi non regolati come ha potuto vincere l’Italia?”, è la recriminazione postando come immagine il fallo del capitano azzurro Giorgio Chiellini su Saka, involato in rete sul finire del secondo tempo. Italia che invece “avrebbe dovuto ricevere un cartellino rosso per il suo gioco e la rivincita dovrebbe avvenire con un arbitro non di parte. Non è stato affatto giusto”, si lamentano i tifosi inglesi. Una petizione che, ovviamente, non verrà presa in considerazione dai vertici della UEFA. Ma non è l’unica, come dicevamo. I primi a pensare a questo tipo di protesta erano stati i tifosi francesi, che avevano chiesto di rigiocare l’ottavo di finale contro la Svizzera, perso clamorosamente ai rigori: il motivo sarebbe una irregolarità nel rigore decisivo parato dal portiere elvetico Sommer, che secondo i firmatari non avrebbe avuto almeno un piede sulla riga di porta come da regolamento, allegando un fermo immagine. Peccato che Var e immagini ufficiali abbiano stabilito direttamente sul campo l’esatto opposto. Così nei giorni successivi una seconda petizione, questa volta a firma dei tifosi del Belgio, sconfitti dall’Italia ai quarti. Più che una petizione, in realtà, si tratta di una provocazione nei confronti proprio dei tifosi francesi: “Rigiocare il quarto contro l’Italia per perderlo di nuovo. Abbiamo perso contro i più forti, l’obiettivo è dimostrare quanto fossero davvero più forti”, si legge infatti nelle motivazioni.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Enrico Chillé per leggo.it il 31 luglio 2021. Euro 2020, it's (not) coming home e agli inglesi brucia ancora aver perso la finale in casa. Solo che, in alcuni casi, gli strascichi di Italia-Inghilterra possono essere esilaranti e coinvolgere, addirittura, l'ambasciata italiana a Londra. Lo dimostra una lettera ricevuta e poi pubblicata su Twitter da Alessandro Motta, vicecapo della missione diplomatica italiana nel Regno Unito. Il contenuto della lettera è una serie incredibile di insulti e recriminazioni per il risultato della finale dell'Europeo. «F******i, sporchi bastardi, quella partita è stata f********e truccata, voi c******i avete vinto con la violenza, l'inganno e l'intimidazione; voi s*****i non sapete fare un gioco corretto, noi abbiamo perso con onore e voi f*****i p*******i non sapete neanche il significato di questa parola» - si legge nel testo - «Siete solo un mucchio di f*****i teppisti, ecco cos'è la vostra f*****a squadra, non sono in grado neanche di mettere piede in un campo di calcio... F*****o loro e f*****o voi!». Il diplomatico italiano, spiazzato ma tutto sommato divertito, ha pubblicato una foto della lettera ricevuta, ironizzando non poco (con tanto di risata finale) sul tifoso che l'ha scritta e inviata in ambasciata: «Il fair play è un concetto conosciuto in tutto il mondo, che trova le sue origini nello sport moderno della Gran Bretagna...». Non mancano i commenti ironici, come quello di un utente scozzese: «Be', quella lettera sicuramente non è stata spedita dalla Scozia». Ma anche risposte molto stizzite, come quella di un tifoso inglese che ha commentato: «Ma almeno non abbiamo cacciato i giocatori italiani nel nostro campionato, come avete fatto voi nel 2002». Il riferimento è al sudcoreano Ahn Jung-hwan, che militava nel Perugia e si vide rescindere il contratto dopo aver eliminato l'Italia ai Mondiali in patria. A quel commento ha replicato un tifoso italiano: «Voi invece avete fatto insulti razzisti ai vostri giocatori neri, decisamente meglio!».

Scorretti e antisportivi. Se Sua Maestà perde anche nello stile. Tony Damascelli il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Scontri fuori e dentro il campo. La squadra non rende onore agli azzurri. La fuga dei reali. Correggere Winston Churchill, please: «Gli inglesi perdono le partite di calcio come fossero guerre, perdono le guerre come fossero partite di calcio». Li abbiamo visti in azione, i cari sudditi, mentre bruciavano le bandiere italiane, li abbiamo visti mentre distruggevano le transenne e attaccavano la polizia a cavallo, li abbiamo sentiti mentre fischiavano l'inno di Mameli, li abbiamo ascoltati mentre berciavano contro i calciatori di colore, colpevoli di avere sbagliato i rigori finali. È il popolo maleodorante dei pub, è la ciurma facilmente riconoscibile, nessun ragazzo di colore tra gli hooligans, bianca e rosea la pelle di questa razza violenta, gonfia di birra, di repressione e di ignoranza. Li abbiamo visti i calciatori della nazionale inginocchiarsi in memoria dell'americano Floyd ma, dopo un contrasto di gioco, rifiutare la stretta di mano dell'avversario. Ipocriti e screanzati. Li abbiamo visti mentre ci deridevano, loro ex maestri di fair play e oggi cascatori di lusso, provocatori di censo. Li abbiamo visti mentre sfilavano sul podio per ritirare la medaglia d'argento e, un secondo dopo, se la toglievano dal collo, con disprezzo massimo di quell'onorificenza (lo stesso hanno fatto i brasiliani sconfitti dagli argentini nella finale della copa America). Abbiamo visto la famigliola Windsor, il principe duca, la duchessa e l'erede George, svignarsela al momento delle premiazioni. Eppure lui, William è il presidente della Football Association ma che gli fosse venuto in mente di scendere dal trono e di omaggiare i vincitori?, oh my God (impegnato, questo, a salvare la nonna). Abbiamo visto David Beckham, Kate Moss and Tom Cruise, ghignare al gol di Shaw, come a dire «elementare Watson») e poi nascondersi nel canneto della tribuna autorità, nel ruolo di comparse silenziose. Abbiamo visto il premier Boris Johnson (che sta al calcio come Beppe Grillo alla tragedia greca), indossare la giacca sulla maglietta dei tre leoni e mantenere il comportamento istituzionale però tra strilli volgari dei suoi compatrioti, per poi svegliarsi dalla sbornia chiassosa e reagire con parole dure contro il razzismo, così anche il principe di cui sopra che si è detto disgustato dai cori. Ma né Boris, né William si sono degnati di pronunciare una sola parola sui fischi a Mameli e nemmeno hanno provato vergogna per le bandiere date alle fiamme e l'assalto nelle strade attorno a Wembley. È l'Inghilterra che continua a vivere sulla sua isola, è il Paese fiero di essere uscito dall'Europa e che si merita di stare lontano dallo stesso continente, non perché ci sia di mezzo la Manica ma proprio per il modo inurbano di vivere, di agire e di pensare. L'impero non è più al centro del mondo, resistono i Windsor, rischiando spesso di finire in caricatura, come memorabilia da collezionisti o personaggi da cartoon. L'attesa di questa finale è stata il simbolo di un popolo che ritiene ancora di essere superiore al resto del mondo, considerato un'enorme colonia che usa, per l'appunto, l'inglese come koiné e lingua universale. Hanno pensato che l'Unione Europea fosse come il Commonwealth, hanno rifiutato l'euro, hanno conservato la guida a destra, non hanno modificato lo stampo di fabbrica che il football illustra al meglio, saccenti e razzisti, quarantatré anni dopo l'esordio in nazionale del primo ragazzo nero, Viv Anderson. La forma sopra la sostanza, i riti di corte, i cani di Elisabetta II, il the alle cinque, la sbronza alle sette, le elezioni al giovedì, la paga al venerdì, Wembley abbattuto e ricostruito. Se hanno voglia di vedere e toccare la coppa dei campioni d'Europa, li aspettiamo a Roma. Necessaria la quarantena e l'ovvio pagamento del biglietto di ingresso. Oh yes. Tony Damascelli

Gli inglesi antisportivi? Giusto così, i moralisti lascino in pace il calcio! Hanno fatto benissimo i calciatori inglesi a togliersi dal collo quell’inutile pizza di fango. Quando perdi una partita così nel tuo giardino di casa dopo che l’hai aspettata per cinquantacinque anni, vorresti solo mettere la testa sotto il cuscino e dimenticarti di tutto.  Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 12 luglio 2021. Hanno fatto benissimo i calciatori inglesi a togliersi dal collo quell’inutile pizza di fango. Quando perdi una partita così nel tuo giardino di casa dopo che l’hai aspettata per cinquantacinque anni, vorresti solo mettere la testa sotto il cuscino e dimenticarti di tutto. Altro che celebrare gli avversari sfoggiando sorrisi di plastica davanti al mondo che si gode la tua ennesima capitolazione. Quella patetica medaglietta di consolazione è una gratuita crudeltà, il marchio beffardo della sconfitta che, per i sudditi di sua maestà sembra un eterno ritorno; come se avessero inventato il pallone al solo scopo di destinarlo ad altro e ad altri, costretti a vederlo rotolare su e giù per il mondo senza mai che torni a casa.È una frustrazione unica e domenica sera la potevi vedere benissimo la nuvoletta immaginaria con i «fuck you!» che volteggiava sopra i volti sfranti dei vari, Shaw, Mountt, Foden, Grealish. In fondo la disfatta è l’unica cosa che gli resta, che se la vivano come vogliono, tanto i cocci sono i loro. «È un gesto bruttissimo, che non avremmo mai voluto vedere» ha esclamato durante la premiazione dell’Europeo l’improvvisata coppia di commentatori da sacrestia della Rai Bizzotto-Serra, più indignata dal comportamento dei nostri avversari che contenta per la vittoria finale della squadra di Mancini. E con loro la quasi totalità dei commentatori sportivi e non, tutti a spiegare quanto sono brutti, sporchi e cattivi questi inglesi, quanta mancanza di fair play nel loro rifiuto, quanta somma maleducazione, alcuni evocano sanzioni, multe e retrocessioni per manifesta antisportività. Altri invece ci ammorbano con i soliti, scontatissimi riferimenti alla Brexit e alla giusta vendetta che ha colpito la perfida Albione. C’è persino chi paragona la cafonaggine inglese all’eleganza del tennista Matteo Berrettini che aveva accettato con serenità il vassoio riservato al finalista sconfitto di Wimbledon, dimenticando che tra il tennis e il pallone ci sono differenze ontologiche e che lo stesso Wimbledon si disputa in un clima da Inghilterra vittoriana in cui i giocatori si devono tutti vestire di bianco e i poliziotti in tribuna controllano che i tifosi facciano silenzio. Questo coretto ipocrita e moralista è conforme alla retorica farlocca dell’Uefa e della Fifa che da anni provano a vendere il calcio come un teatrino edificante di “valori” dove i suoi interpreti sono asettici testimonial di messaggi positivi da “trasmettere ai giovani”. Proprio la stessa Uefa che fece giocare la finale di Coppa dei Campioni dell’85 nel fatiscente stadio Heysel con decine di tifosi juventini morti sugli spalti o che non fermò la giostra nemmeno dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. La stessa Fifa che ha assegnato i prossimi Mondiali al Qatar, ammaliata dai fiumi di petroldollari degli emiri, e pazienza se nei cantieri degli stadi i migranti asiatici muoiono come mosche lavorando in condizioni di autentica schiavitù (almeno 6500 le vittime). E pazienza se il Qatar è quello un tempo si sarebbe detto “Stato canaglia” con le sue reti tentacolari di finanziamento al terrorismo jihadista.

Quel che conta è sorridere ai fotografi, magari inginocchiarsi prima del fischio di inizio per “combattere il razzismo” oppure mettersi al collo una medaglietta. Insomma, vendere un mondo che non c’è, una realtà parallela confezionata come uno spot pubblicitario in cui tutti sono buoni, uniti e rispettosi, in cui tutti rendono onore al nemico e si felicitano con lui. E se qualcosa interviene a sporcare il quadretto? Semplice: basta nasconderla. Come è accaduto nel secondo tempo della finale di Wembley con l’invasione di campo di un tifoso inglese rigorosamente oscurata dalle telecamere internazionali. La policy che impone di censurare quelle immagini (riprese da migliaia di smartphone e in pochi minuti diventate virali sul web) è la rappresentazione plastica di un mondo del calcio completamente scollato dalla realtà, governato da tromboni e baroni che ogni giorno mandano in onda il loro Truman show con la sola, ossessiva idea di generare profitti. Ma chi conosce e ama il calcio sa che la realtà è ben diversa, che mica siamo alle Olimpiadi dove l’importante è partecipare, che non esiste nessuna medaglia d’argento da incorniciare in salotto, che arrivare secondi dopo aver annusato la gloria ti può far impazzire di rabbia. Il calcio è una cosa ben poco sportiva che genera passioni a volte malsane e rivalità esasperate e in fondo questo è il suo bello, il suo elemento irriducibile alla propaganda di chi vorrebbe trasformarlo in una specie di giochi senza frontiere. Quel che conta non è il rispetto, non è la lealtà, ma la competizione: la sconfitta è sempre una ferita bruciante, mentre la vittoria porta con sé il gusto ferino dell’umiliazione altrui. È una metafora catartica della guerra, un carnevale dello spirito in cui far correre libere le nostre pulsioni primordiali. Italiani contro inglesi, francesi contro tedeschi, argentini contro brasiliani, e ancora milanesi contro romani, parigini contro marsigliesi, Liverpool contro Manchester, Barcellona contro Madrid, derby infuocati, cartellini rossi, polemiche che si trascinano per giorni, mesi e anni, ma anche partite truccate, sudditanze psicologiche, insulti grossolani. Il calcio non è solo un bel gol, pressing e tiki-taka, catenaccio e “giochismo”, esso risplende anche nella testata di Zidane sul petto di Materazzi, nello sputo di Totti all’urticante Paulsen, sono le corna di Cassano all’arbitro Rossetti, la corsa inferocita di Carletto Mazzone sotto la curva dei tifosi atalantini, è la mano de Dios di Maradona a Città del Messico (sempre agli inglesi tocca, poveretti), è il sublime colpo di karate di Eric Cantona che manda al tappetto il tifoso razzista che lo stava insultando: «È stato il momento più bello della mia carriera», confessò poi il fantasista francese. Come dargli torto.

Il rovescio della medaglia. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13/7/2021. Che l’inglese medio assomigliasse poco a Sherlock Holmes e moltissimo al cugino attaccabrighe di Harry Potter è una certezza che i fischi all’inno di Mameli hanno simpaticamente confermato. (Per tacere delle frasacce razziste indirizzate sui social agli imberbi rigoristi accalappiati dalle manone di Donnarumma). Ma quando abbiamo visto quasi tutti i calciatori sfilarsi platealmente dal collo la medaglia d’argento appena ricevuta, è stato come se secoli di letteratura sulla sportività britannica fossero andati in frantumi. Uno pensa alla frase di Kipling che troneggia negli spogliatoi di Wimbledon: «Se saprai trattare la Vittoria e la Sconfitta, questi due impostori, allo stesso modo… sarai un Uomo». Evidentemente di Uomini in quella squadra ce n’erano pochini. Ovvio che perdere ai rigori, e per giunta in casa, faccia girare le scatole. Ma il capriccio infantile di togliersi la medaglia è una mancanza di rispetto nei confronti di chi te l’ha data, degli avversari e, in fondo, di te stesso. Meriterebbe una lunga squalifica, non foss’altro che per l’esempio offerto ai bambini di mezzo mondo. Lo si può in parte giustificare quando si tratta della reazione impulsiva a un’ingiustizia: un arbitraggio scandaloso, una sconfitta immeritata. Al termine di una sfida dal verdetto cristallino è solo l’atto di arroganza compiuto da gente che si vanta continuamente (e ormai pateticamente) di avere inventato il football, ma ha dimenticato che anche fair play è una espressione inglese.

Da leggo.it il 12 luglio 2021. Violenza inaudita. Senza senso. Assurda. La rabbia dei tifosi inglesi si tramuta in follia: gli hoolingan inglesi hanno dato vita ad una vera e propria caccia all'italiano fuori dallo stadio di Wembley. Come dimostrano le immagini di questo video, alcuni di loro si sono posizionati davanti all'uscita dello stadio di Wembley dove erano sistemati i tifosi italiani, e hanno iniziato a colpire i nostri connazionali che avevano bandiere tricolore o sciarpe azzurre. Un tifoso azzurro è stato sgambettato e poi preso a calci mentre era per terra, davanti ad alcuni steward che - impotenti - guardavano le scene di violenza barbara senza muovere un dito.

Da open.online il 12 luglio 2021. Ci sono stati già alcune decine di fermi tra i tifosi dell’Inghilterra, accusati di aver assaltato lo stadio prima e dopo la finale di Euro 2020 vinta dagli Azzurri sulla selezione di casa. La polizia di Londra ha confermato che ci sono stati anche attacchi mirati a italiani. Già durante tutto l’arco della giornata si erano seguiti diversi episodi di scontri in città che avevano portato complessivamente a oltre 40 arresti in 24 ore. Tuttavia, la delusione dei tifosi dei Tre Leoni è sfociata anche in scontri con gli agenti di polizia e le forze dell’ordine, come precisato dalla stessa Metropolitan Police, incrementata di personale per controllare il deflusso dei tifosi dal quartiere. Problemi si sono registrati anche prima dell’inizio del match, sia nei pub della città che davanti lo stadio, con il tentativo di sfondamento di alcuni gruppi che, sprovvisti di biglietto di ingresso, hanno fatto irruzione nell’impianto.

Euro 2020, gli inglesi sconfitti aprono la caccia agli italiani: "Calci e sgambetti", tifosi azzurri ridotti così. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. La sconfitta da parte dell'Inghilterra nella giornata dell'11 luglio e in occasione degli Europei contro l'Italia non è andata giù agli inglesi. Circolano sul web filmati da brividi, in cui si vedono i tifosi che a Wembley danno letteralmente la caccia agli italiani. Gli hoolingans inglesi atteso la nostra tifoseria davanti all'uscita dello stadio, dove erano sistemati i tifosi italiani, e hanno iniziato a colpire i nostri connazionali che avevano bandiere tricolore o sciarpe azzurre. A un tifoso azzurro è stato addirittura fatto uno sgambetto e poi preso a calci mentre era per terra, davanti ad alcuni steward che - impotenti - guardavano le scene. A prendere provvedimenti è stata poi la polizia inglese che ha arrestato 45 persone per aver provocato scontri con altri tifosi e con la polizia nei pressi dello stadio. Gli agenti sono rimasti a presidiare la zona per aiutare i tifosi a tornare a casa senza incidenti. Una situazione che le forze dell'ordine avevano previsto, tanto che prima della finalissima già centinaia di agenti erano schierati per evitare il peggio. La tensione era dunque già altissima, figuriamoci dopo la vittoria degli Azzurri ai rigori. Inghilterra e Italia si sono infatti sfidate fino all'ultimo secondo, salvo poi la parata clamorosa del nostro Donnarumma. 

Vergogna inglese: agguato ai tifosi all’interno di Wembley. Sui Social insulti razziali ai rigoristi neri. Penelope Corrado lunedì 12 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. E’ di 49 persone arrestate e 19 poliziotti feriti il bilancio degli incidenti e dei disordini a Londra nell’ambito di una serie di operazione condotte in occasione della finale Italia-Inghilterra a Wembley ieri sera. Lo ha reso noto la polizia metropolitana. Le 49 persone fermate sono state arrestate per “una serie di reati”, mentre, “purtroppo, 19 dei nostro agenti sono stati feriti nel confronto con la folla e questo è totalmente inaccettabile”. La polizia ha allo stesso tempo ringraziato “le decine di migliaia di fan che si sono comportate in modo responsabile”. Sui Social circolano anche immagini impressionanti di aggressioni ai tifosi all’interno dello stadio di Wembley. Il tutto sotto gli occhi degli steward, che lasciano che le aggressioni avvengano senza muovere un dito. Molti riportano il video come una aggressione ai tifosi azzurri. Secondo i media locali, invece, l’agguato sarebbe avvenuto prima della partita nei confronti dei tifosi che cercano di entrare nello stadio all’ingresso senza biglietto. In ogni caso, immagini molto violente che sconcertano. Infatti, le misure di sicurezza annunciate vanno in contraddizione con quanto poi effettivamente accaduto. Londra, in queste ore, si interroga anche sulla questione razziale. La Federazione di calcio inglese si è detta “disgustata” per gli insulti razzisti sui social nei confronti dei tre giocatori di colore della nazionale che hanno sbagliato i rigori nella finale contro l’Italia, Marcus Rashford, Jadon Sancho e Bukayo Saka. “Siamo disgustati di vedere che membri del nostro team, che hanno dato tutto, sono stati sottoposti ad aggressione discriminatorie sul web dopo il match di ieri sera – ha scritto la Fa sul suo account twitter – I giocatori hanno il nostro sostegno”. In un comunicato, la Federazione ha poi ribadito “la condanna di ogni forma di discriminazione” e si è detta “preoccupata per il razzismo diffuso sui social contro alcuni giocatori inglesi: noi diciamo nel modo più chiaro che chiunque sia dietro questi comportamenti così ripugnanti non è il benvenuto tra i fan di questa squadra”. E sul tema è intervenuto in prima persona il premier Boris Johnson. Gli inglesi che hanno coperto di “insulti razzisti sui social media” i tre giocatori della nazionale britannica che hanno sbagliato i rigori contro l’Italia dovrebbero “vergognarsi di se stessi”. A dirlo è stato il premier britannico, spiegando che i calciatori dell’Inghilterra “meritano di essere trattati da eroi”, e che gli insulti sono invece “spaventosi abusi”.

(ANSA il 12 luglio 2021) - Gli insulti razzisti contro i calciatori dell'Inghilterra "sono imperdonabili". Lo ha detto il ct inglese Gareth Southgate, all'indomani della finale di Euro 2020 persa contro l'Italia. "Mi è stato detto che alcuni di questi insulti arrivano dall'estero, ma altri vengono dal nostro Paese, che deve essere solo orgoglioso di questi ragazzi", ha aggiunto Southgate in una conferenza stampa.

 (ANSA il 12 luglio 2021) - Anche il principe William, secondo in linea di successione alla corona britannica e presidente d'onore della Federcalcio inglese, si unisce - dopo il premier Boris Johnson - alla denuncia degli insulti razzisti contro i calciatori dell'Inghilterra che hanno sbagliato i rigori decisivi con l'Italia nella finale di Euro2020. "Sono nauseato", scrive William, "è totalmente inaccettabile che alcuni giocatori debbano questi simili comportamenti abominevoli". Questi episodi di razzismo - conclude dal suo profilo ufficiale reale di Kensington Palace - "devono finire ora e tutti coloro che ne sono responsabili devono risponderne".

 (ANSA il 12 luglio 2021) - "La Uefa condanna con forza i disgustanti insulti razzisti rivolti a diversi calciatori dell'Inghilterra sui social media dopo la finale dell'Europeo, per i quali non c'è spazio nel calcio né nella società. Sosteniamo la richiesta dei giocatori e della Federazione inglese per punizioni dure il più possibile". È quanto afferma la Uefa sul proprio profilo Twitter.

Da liberoquotidiano.it il 12 luglio 2021. A cosa è servito inginocchiarsi prima dell'inizio delle partite degli Europei in nome del Black lives matter se poi gli stessi inglesi insultano i propri giocatori di colore colpevoli di aver sbagliato i rigori? "Questa squadra inglese merita di essere lodata come eroi, non insultata razzialmente sui social media. I responsabili di questi terrificanti insulti dovrebbero vergognarsi di sé stessi", ha tuonato su Twitter il premier britannico, Boris Johnson, dopo la rabbia social con insulti razzisti esplosa nei confronti di Rashford, Sancho e Saka, i tre calciatori inglesi che hanno fallito i rigori decisivi nella finale di ieri sera 11 luglio contro l'Italia. Il rigore di Marcus Rashford ha colpito il palo e i tiri dal dischetto di Bukayo Saka e Jadon Sancho sono stati parati da Donnarumma. Il diciannovenne Saka ha sbagliato il rigore decisivo, che ha dato il titolo all'Italia e ha negato all'Inghilterra il suo primo grande trofeo internazionale di calcio dai Mondiali del 1966. Tutti e tre i giocatori hanno subito iniziato a ricevere insulti razzisti sui social media.  La Federcalcio inglese ha rilasciato una dichiarazione dicendo di essere "sconvolta" dal "comportamento disgustoso" di chi lancia in rete questi messaggi. La polizia di Londra ha condannato l'abuso "inaccettabile", aggiungendo che indagherà sui post sui social media "offensivi e razzisti". Condanna durissima anche da parte del principe William: "Sono nauseato dagli insulti razzisti rivolti ai giocatori dell'Inghilterra dopo la partita di ieri sera", scrive su Twitter. "È assolutamente inaccettabile che i giocatori debbano sopportare questo comportamento abominevole. Deve fermarsi ora e tutti coloro che sono coinvolti dovrebbero risponderne". Il sindaco di Londra Sadiq Khan ha invitato le società di social media a fare di più per perseguire i trasgressori responsabili. "Non c'è assolutamente posto per il razzismo nel calcio o altrove", ha scritto in un post su Twitter. "I responsabili del disgustoso abuso online che abbiamo visto devono essere ritenuti responsabili - e le società di social media devono agire immediatamente per rimuovere e prevenire questo odio". 

(ANSA il 12 luglio 2021) Il primo ministro britannico Boris Johnson ha denunciato oggi gli "insulti razzisti" nei confronti dei giocatori inglesi dopo la sconfitta contro l'Italia nella finale europea di eri a Wembley. I giocatori della nazionale inglese "meritano di essere trattati da eroi", non coperti da "insulti razzisti sui social media", ha twittato il leader conservatore sottolineando che i "responsabili di questi spaventosi abusi dovrebbero vergognarsi di se stessi". 

Dagonews il 12 luglio 2021. La delusione degli inglesi è tutta sulla prime pagine dei quotidiani in edicola stamattina. L’Inghilterra ha mancato quello che sarebbe potuto diventare il primo titolo dopo il Mondiale del 1966, quando aveva alzato la Coppa del Mondo proprio a Wembley sconfiggendo la Germania Ovest per 4-2. Il Daily Mail apre con un laconico «It all ends in tears», The Independent si accoda con «Tears for heroes» e il Daily Mirror riassume la partita di ieri con un «Heartbreak». Il Daily Telegraph spinge sull'orgoglio nazionale: "Lions did us proud". La nazionale italiana può contare invece sul sostegno dei giornali sportivi di Francia e Spagna. L’Equipe ha in copertina una foto degli azzurri trionfanti e un solo titolo «Invincibles», As invece dopo il noto «Porca miseria» titola «Bravissima!». E anche il quotidiano scozzese, che ieri aveva affidato le sue speranze a un Mancini-Braveheart, apre con: "It's coming Rome". 

Il libro di Victoria Ocampo. Vita, opere e miracoli di Lawrence: sulle orme del colonnello britannico. Eraldo Affinati su Il Riformista il 17 Luglio 2021. Torna con 338171 T.E., il piccolo libro che Victoria Ocampo, scrittrice argentina di esclusive passioni letterarie, dedicò nel 1942 a Thomas Edward Lawrence, per la prima volta tradotto in italiano da Fausto Savoldi (Edizioni Settecolori, prefazione di Fabrizio Bagatti, 16 euro), il grande colonnello inglese, la cui vita fu come un romanzo, secondo la perfetta diagnosi dell’autrice da lui magneticante attratta: «Egli possedeva quel "gift of language", quel dono del linguaggio che spesso perverte coloro che lo possiedono fino a diventare non uno strumento indispensabile, ma un fine a se stesso». In Lawrence non era così: «Il pensiero e l’azione impegnati fianco a fianco, lo stile nella materia scritta e nella materia vissuta, lo stile nella scelta degli atti come nella scelta delle parola», coi rischi connessi, compreso l’estetismo di facciata col quale Thomas Edward è stato spesso confuso e frainteso, pagati tutti a caro prezzo. Ricordiamo in sintesi il suo tragico destino. Nacque a Tremadoc, in Galles, nel 1888, fra quattro fratelli. Studiò a Oxford: lingue classiche, civiltà antiche. Divenne archeologo e si recò in Siria per seguire degli scavi sull’Eufrate. Imparò l’arabo e, al ritorno, si offrì al governo inglese che lo utilizzò come ufficiale dei servizi segreti durante la Prima guerra mondiale. Al Cairo prese contatti con l’emiro Feisal, il futuro sovrano del nuovo vagheggiato Stato arabo, e organizzò le tribù indigene guidando una temeraria guerriglia contro i turchi che lo rese famoso. Fece saltare viadotti, nodi ferroviari. Conquistò sul campo l’incrollabile fiducia dei combattenti che per lui sarebbero stati pronti a gettarsi nel fuoco ottomano. Fu imprigionato subendo indicibili violenze. A Damasco, dopo la fine del conflitto, l’emiro Feisal fu rassicurato dal maresciallo Allenby, comandante in capo delle forze inglesi in Medio Oriente, che gli arabi avrebbero ottenuto quanto desideravano. Pareva l’annuncio dell’agognato trionfo, la realizzazione di un sogno, ma il leggendario comandante, pur fra brindisi e salamelecchi, fiutò storto. Il deserto lo aveva cambiato. Non era più il romantico ragazzo innamorato dei castelli costruiti dai crociati in Terra Santa. Tutti lo consideravano un eroe che in realtà divenne davvero tale soltanto dopo aver sperimentato sulla propria pelle gli intrighi di Downing Street. Alla conferenza di Versailles il tradimento venne presentato in pompa magna a lui e ai suoi antichi compagni. La ragion di Stato calpestò il sentimento di un intero popolo. La vittoria si trasformò nella più cocente delle sconfitte. Thomas Edward Lawrence, stupefatto e allibito, si dimise dall’alto grado che ricopriva, rinunciò alla lucrosa pensione militare che gli spettava e si ritirò a vita privata dedicandosi alla composizione dei Sette pilastri della saggezza (citazione dal libro dei Proverbi compreso nel Vecchio Testamento), il resoconto delle sue avventure, forse l’unico vero grande romanzo epico del Novecento, sotto forma diaristica, pubblicato in tre redazioni sempre più ampie (1926, 1927, 1936). A rileggerlo oggi provoca l’impressione di un gioiello di vecchia dama: il pur scenografico film di David Lean, girato nel 1962 con Peter O’Toole nel ruolo di protagonista, è una lontana approssimazione rispetto all’opera originaria da cui è tratto. Il titolo del prezioso studio di Victoria Ocampo fa invece riferimento alla seconda parte dell’esistenza di Lawrence, non meno intrigante e misteriosa: 338171 era infatti il suo numero di riconoscimento alla Raf. Nel 1922 l’ex colonnello aveva trentaquattro anni e si sentiva un angelo caduto. Il più profondo desiderio che lo animava corrispondeva alla volontà, spesso dichiarata, di espiare un’antica colpa, legata alla drammatica coscienza della propria incompiutezza. Come scrisse Albert Camus nel Mito di Sisifo (1942): «Cominciare a pensare è cominciare a essere minati». Poche righe dopo: «Noi prendiamo l’abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare. Nella corsa che ci precipita ogni giorno un po’ più verso la morte, il corpo conserva questo irreparabile vantaggio». Nel capitolo autobiografico dei Sette pilastri della saggezza, il CIII, che Ocampo giustamente definisce “la chiave del libro”, Lawrence aveva confessato: «Assoggettarsi agli ordini altrui consente di risparmiare la sofferenza dei propri pensieri, e di tenere in serbo carattere e volontà, conducendo senza dolore all’oblio dell’agire… Nella volontaria schiavitù stava l’orgoglio profondo del mio spirito malato, e nel dolore sofferto per gli altri il mio maggior premio». Sembra la prefigurazione di ciò che avvenne qualche anno dopo quando l’antico condottiero decise di arruolarsi nell’aviazione inglese come semplice aviere. Al deposito di Uxbridge un sergente alzò gli occhi su quell’uomo esile e smunto chiedendogli l’identità. E lui rispose: John Hume Ross. Dopo qualche mese, scoperto, venne espulso. Non si perse d’animo. Ritentò con le truppe corazzate sotto il nome di T.E. Shaw e poi ancora nei reparti marinai dell’Aeronautica. Da questa seconda decisiva esperienza militare nacque The mint (zecca, matrice – uscito postumo per Garzanti nel 1955 come L’aviere Ross, storica traduzione di Agostino Lombardi, quindi riproposto da Adelphi più di quarant’anni dopo con il titolo Lo stampo, versione di F. Bovoli), altro libro capitale del Novecento: settanta capitoletti di tre, quattro pagine sulla vita di caserma. Ogni parola è un sasso che non si può masticare, non si può mandar giù come se niente fosse. Ecco, infine, cosa restava del colonnello d’Arabia: «Gli avieri non possiedono nulla, hanno pochi legami, poche cure quotidiane. Per me, il dovere ora ordina soltanto lo splendore di questi cinque bottoni che ho davanti». Fu sempre estremo, anche quando nel 1935, a quarantasette anni, salì in motocicletta (una Brough Superior oggi visibile dietro una teca all’Imperial War Museum di Londra) e scivolò mortalmente a Cloud Hill, in una bella giornata di maggio. Eraldo Affinati 

RAZZISMO. Bambini immigrati in scuole per “subnormali”: dopo sessant’anni finalmente Londra si vergogna. Arrivarono a migliaia nel dopoguerra dalla Giamaica e dai Caraibi. E furono inseriti in squallidi istituti per minori con disabilità mentali. Come rivela un documentario della Bbc. Luciana Grosso su L'Espresso il 5 luglio 2021. Questa storia è una storia inglese, ma comincia molto lontano dall’Inghilterra. Comincia nel 1944, nel mar dei Caraibi, quando un uragano tocca terra tra Grenada e Giamaica, distrugge tutto quello che incontra, fa più di 100 morti e toglie, a quelli rimasti vivi, tutto quel che era loro rimasto: niente più barche per pescare, niente più banani, niente più campi, niente più case. Niente di niente. Rimasti senza più nulla, in tanti, a migliaia, decisero di partire da quelle isole che all’epoca erano ancora colonie inglesi e si chiamavano Indie Occidentali, e fare rotta verso la Gran Bretagna, l’isola che, per quanto sconosciuta, era di fatto la loro madrepatria. Londra, poi, a quell’epoca, era assetata di manodopera che serviva per affrontare la rinascita del dopoguerra e dunque accoglieva a braccia aperte chiunque bussasse alle sue porte, tanto che nel 1948 concesse la cittadinanza e il diritto di ingresso e residenza nel Regno Unito a chiunque volesse trasferirvisi. Così, dalle Indie Occidentali, arrivarono in pochi anni a centinaia di migliaia. Erano parte di quella che poi sarebbe stata ribattezzata generazione Windrush, dal nome della nave che sbarcò le prime centinaia di giamaicani a Liverpool. Gli arrivi andarono avanti per anni, a tal punto che si stima che i giamaicani nel Regno Unito, che erano poche decine alla fine della Guerra e 15mila nel 1951, diventarono 172mila nel 1961 e 304mila nel 1971. Man mano che i nuovi inglesi si insediavano nel Regno Unito, trovarono da un lato condizioni di vita molto deludenti, lavori pesantissimi e case in quartieri-ghetto poverissimi e abbandonati come Brixton, nella periferia di Londra; dall’altro, però, toccavano con mano il fatto che un futuro, per quanto in salita, era possibile. Così, con il tempo, in moltissimi, alla fine degli anni Cinquanta presero a far arrivare a Londra i loro figli; bambini nati in Giamaica e lasciati, piccolissimi, con nonni o zii, mentre i loro genitori andavano a cercar fortuna nel Vecchio Continente pieno di nuove promesse. Appena arrivati, per legge, i bambini furono iscritti a scuola. Non era una cosa da poco. I genitori di quei bambini erano braccianti caraibici della prima metà dello scorso secolo e forse una scuola non l’avevano mai vista e se lo avevano fatto, era stato solo per il minimo indispensabile. Lo stesso valeva per i loro nonni. E quanto ai loro bisnonni, probabilmente facevano ancora su e giù per l’Atlantico con le navi negriere, quindi figuriamoci. I bambini giamaicani e caraibici arrivati a Londra dopo gli anni Cinquanta, probabilmente furono i primi delle loro famiglie a infilare un grembiulino, a prendere una penna in mano, sedersi composti in un banco, orgoglio dei loro poverissimi genitori che, rimasti senza più neppure una patria, osavano fantasticare, per i loro figli, un futuro pieno di tutto. Quasi subito però le cose presero una brutta piega. I neo scolari e neo inglesi, infatti, erano bambini difficili. Per molte ragioni, psicologiche, culturali, sociali e linguistiche, stentavano a inserirsi. Del resto fino a pochi mesi prima passavano le giornate tra spiagge e palme e non avevano idea delle regole sociali di una città come Londra. Inoltre, molti di loro dovevano elaborare un lutto difficile, perché erano stati portati via ai nonni o agli zii che, da sempre, erano gli unici genitori che avessero visto e conosciuto, e che sapevano che non avrebbero rivisto mai più. Per giunta poi, anche se la lingua ufficiale del loro Paese di provenienza era l’inglese, quel che parlavano e conoscevano era un patois molto diverso da quel che usavano i loro compagni e insegnanti. Così, l’inserimento a scuola di quei primi scolari stranieri fu catastrofico. Ai bambini venivano dati libri che non erano in grado di leggere, o fatte domande alle quali, per quanto fossero facili, non erano in grado di rispondere (per esempio: «Cos’è il Big Ben?»). Così, quei bambini (più maschi che femmine) che stentavano a impararae a leggere e scrivere, che non capivano perché accidenti dovessero stare seduti al banco, che riuscivano male in tutti i test scritti in una lingua per loro incomprensibile furono definiti - ed è una definizione letterale - «educativamente subnormali» e «inadatti all’apprendimento». Il termine «educativamente subnormale» deriva dall’Education Act del 1944 ed è stato usato per definire coloro che si pensava avessero capacità intellettive limitate.  Se un bambino, come accadde in centinaia di casi (impossibile dire con precisione quanti), stentava a scuola, veniva ritenuto “subnormale” e trasferito nelle scuole Esn, scuole speciali in cui agli alunni non veniva insegnato assolutamente nulla, nella convinzione che tanto non avrebbero imparato né capito. In queste scuole, va detto, finivano anche i bambini bianchi, ma in proporzione di gran lunga inferiore rispetto a quella di bambini caraibici o asiatici. I risultati delle scuole Esn sono stati, e sono ancora, molto gravi, perché chi usciva di lì non solo non aveva imparato niente, ma si ritrovava anche con l’autostima a pezzi. «Ho trascorso dieci anni lì, e quando me ne sono andato a 16 anni, non riuscivo nemmeno a trovare un lavoro perché non potevo scrivere o compilare una domanda di lavoro», ha raccontato per esempio Noel Gordon, che oggi ha cinquant’anni ma da bambino fu spedito, contro il parere dei suoi genitori, in una di queste “scuole speciali”. Gordon ha raccontato di recente la sua storia nel documentario della Bbc “Subnormal: a British Scandal” e quel che colpisce di più del suo racconto è la totale nequizia degli insegnanti e dell’intero sistema; la convinzione che se qualcuno non riusciva, subito e bene, nelle faccende scolastiche, era qualcuno per il quale non valeva la pena perdere tempo. «Lasciare la scuola senza qualifiche è una cosa, ma lasciare la scuola pensando di essere stupido è un gioco completamente diverso. Ti fa perdere la fiducia in te stesso», continua Gordon nel video. Secondo il ritratto del documentario di Bbc, le scuole Esn non avevano nessun tipo di programma da seguire, nessuna attività da svolgere, nessuna competenza da sviluppare; non prevedevano qualifiche o esami, non rilasciavano nessun tipo di titolo. In quelle aule, racconta il documentario diretto da Lyttanya Shannon, i bambini non facevano niente, perché ritenuti incapaci di comprendere qualsiasi, anche minima, istruzione. E soprattutto veniva ribadito loro, a ogni occasione, che non erano come gli altri, che non avrebbero mai potuto avere una vita normale perché, semplicemente, erano stupidi. Il problema delle scuole Esn, del loro intrinseco razzismo, dei loro esiziali effetti sull’autostima e la considerazione di se stessi e delle loro azioni su quelli che, prima o poi, sarebbero diventati adulti, ci mise lungo tempo ad emergere. Per varie ragioni in molti non vedevano il problema.

Non le autorità bianche, che anzi, pensavano che le scuole Esn fossero una soluzione e non un problema; non i genitori dei bambini che, spesso a loro volta senza istruzione e molto intimoriti dall’autorità, per lo più, facevano quello che veniva detto loro di fare o si illudevano che la definizione di “scuola speciale” corrispondesse a una scuola migliore delle altre, non a una rampa di lancio per l’inattività completa. Il primo a parlare esplicitamente della faccenda fu, nel 1971, Bernard Coard, un’insegnante inglese originario di Grenada che lavorava proprio in una scuola Esn e che scrisse un libro dal titolo molto esplicito: “Come i bambini delle Indie Occidentali sono stati resi subnormali dal sistema scolastico inglese”. Il libro ebbe una grande eco e suscitò non poco scandalo e sconcerto, anche nella borghesia inglese bianca. Soprattutto, però, aiutò i genitori di quei bambini che erano stati etichettati come “stupidi” a comprendere con chiarezza quello che sospettavano da tempo ma non osavano o non sapevano dire: ossia che i loro bambini erano intelligenti come gli altri e forse, quelli stupidi, erano gli insegnanti. La pubblicazione del libro fu una scossa enorme per la storia dell’integrazione razziale nel Regno Unito. Pochi mesi dopo nacquero il Black Education Movement e il Black Parents Movement, due gruppi che non solo presero a fare pressione per l’integrazione delle minoranze etniche (e dunque dei loro stessi figli) nelle scuole regolari del Regno, ma che, in attesa di una riforma del sistema, fecero per conto loro e avviarono le “scuole del sabato”, ossia scuole vere, gestite da insegnanti volontari che, nei fine settimana, insegnavano ai bambini delle scuole Esn quel che la scuola ufficiale si rifiutava di insegnare loro: grammatica, matematica, storia. Ma soprattutto fiducia, autostima, possibilità. Probabilmente, se la generazione dei figli dei primi immigrati caraibici non è andata completamente perduta, buona parte del merito è di quelle scuole fatte in casa. Se tra gli adulti di oggi che sono stati bambini “subnormali” e “inadatti all’apprendimento”, ci sono avvocati, medici, insegnanti e persone che sono riuscite a costruirsi una vita normale con un lavoro, una famiglia e degli amici, gran parte del merito è di quelle scuole fatte in casa. Anche decenni dopo, tutti i sopravvissuti a quelle scuole, pensate per escluderli dalla società invece che per farceli entrare, raccontano la stessa cosa: «La convinzione di essere stupido non passa mai».

Caterina Soffici per “La Stampa” il 5 luglio 2021. Fino a poco tempo fa ero una groupie dello scrittore inglese Samuel Johnson e del suo celeberrimo detto secondo cui «quando un uomo è stanco di Londra è stanco della vita». Ho vissuto a Londra gli ultimi dieci anni. Passavo molti mesi in Italia, facevo su e giù, come diciamo noi espatriati, dove il giù è quello geografico e fisico della penisola. Adesso, soprattutto per via della Brexit, il su - leggi l'isola nordica detta Gran Bretagna - mi ha stufato. Non sono la sola italiana a essere stufa, complice anche la pandemia, la difficoltà degli spostamenti e la sensazione di clausura dell'isola (e che isola, quella dove quando c'è nebbia sulla Manica pensano che ad essere isolato sia il continente). Che fare? È una domanda che serpeggia da un po' nella comunità degli italiani. Alcuni amici sono già tornati a vivere in Italia, altri ci stanno pensando, altri bofonchiano. Adesso l'aforisma di Samuel Johnson non è più una dichiarazione, ma una domanda: sarà vero che chi è stanco di Londra è stanco della vita? Chi lo sa. Intanto ho stilato una mia personalissima lista delle «Cinque buone ragioni per essere stanchi di Londra» (sarà anche su The Good List, ideato e condotto dallo scrittore Paolo Roversi su Roger-podcast.com, la nuova serie in rete dal 5 luglio). Si parte dalla posizione numero cinque e si risale fino al motivo numero uno, il più importante.

 5). Il tempo.

 Certa di essere smentita dai meteorologi, posso affermare che dopo Brexit anche il cielo è più plumbeo e la pioggia più fastidiosa. Sì, ci siamo ridotti a parlare del tempo, la cosa più British che ci sia. Con la differenza che gli inglesi il cattivo tempo d'estate non lo notano neppure, mentre per noi italiani è motivo di sconforto e disperazione. Dopo lunga permanenza sull'isola, ho la certezza che in Inghilterra esistano solo tre stagioni: l'autunno, l'interminabile inverno e una prova di primavera. L'estate inglese arriva solo per scherzo: appare il sole, fa un po' caldo e tutto ciò dura un paio di settimane, quando va bene.

4). Il gelato (ovvero, la mancanza di).

Ne esistono nominalmente vari tipi. Il più diffuso è un composto definito Ice Cream, ma che sta al gelato italiano come la pizza con l'ananas sta alla vera margherita. È una spuma gonfia e dolcissima (zucchero e aria per gonfiarla costano poco) che non ha mai visto né latte né uova né tantomeno frutta fresca, solo polveri. Anche i colori sono sospetti e virano dal verdolino pisello (sarebbe il pistacchio), al verde deciso (menta) all'azzurro (gusto sospetto che non ha un vero nome) al rosa della fragola senza passare mai dal giallo della crema. Cioccolato non pervenuto, in genere è gusto Oreo, ovvero un biscotto al sapore di cioccolata. E pensare che i primi immigrati italiani, quelli che sbarcavano nel secolo scorso a Clerkenwell e a Little Italy, erano famosi non solo a Londra ma anche in Galles e Scozia per i loro carretti da gelatai. Adesso qualche buon gelataio italiano si trova ancora, ma sono mosche rare e un cono da due gusti costa quanto un tampone molecolare.

3). I pacchi.

Il famoso «pacco da giù» con il provolone, la marmellata della zia, le melanzane sott' olio del nonno e il pezzo di parmigiano non arriva più. O meglio, arriva dopo aver stazionato minimo dieci giorni in dogana e con il pagamento di tasse la cui entità ancora ai più non è chiara. Si paga anche sugli effetti personali, sopra un certo valore dichiarato al momento della spedizione. Difficile quantificare se le melanzane del nonno valgano più o meno della marmellata della zia, ma comunque Brexit sta mettendo a dura prova anche la gloriosa Royal Mail, quel servizio famoso per la puntualità e l'efficienza, dove dalle cassette rosse con lo stemma della regina la posta viene prelevata due volte al giorno. 

2). Il rischio Singapore (ovvero il fenomeno Harrods).

La Londra multiculturale, metà di aspiranti musicisti, di creativi di ogni razza e qualità, di giovani in cerca dell'esperienza all'estero, quel melting pot che ha reso la capitale inglese un luogo di attrazione inimitabile, è fortemente minacciata dal sistema di ingresso a punti, necessario anche per trovare il classico lavoretto con cui mantenersi mentre si inseguono i propri sogni. Arrivano invece sempre più numerosi nababbi da ogni angolo del pianeta, principalmente asiatici e cinesi, carichi di soldi e di velleità immobiliari. I prezzi delle case, già esorbitanti prima di Brexit, sono cresciuti ancora. I grandi magazzini Harrods, dove il turista italiano si avventurava per curiosità e spaventato dai costi comprava al massimo una sciarpa per il nonno (quello delle melanzane sott' olio) o la scatoletta di thé da portare alla zia (quella della marmellata) è la nuova meta dei nuovi ricchi. E il numero di Ferrari e Lamborghini dorate e tempestate di brillantini che i giovani rampolli arabi amano tenere in mostra davanti all'Hotel Dorchester in Park Lane è aumentato. Pessimo segnale.

1). La caccia alla volpe.

In quanto tale era già un'aberrazione e infatti è in disuso, ma con l'intera coreografia di cavalieri in giacca rossa e tuba, i corni e le mute di cani rappresenta la cifra dell'eccentricità britannica che prima di Brexit ci piaceva osservare divertiti, come gli stravaganti cappellini delle signore alle corse di cavalli ad Ascot, gli stivali da campagna, i pudding, il thé con gli scones, le divise e le medaglie della Royal Family, i club per soli uomini, le uniformi delle scuole e tutte le tradizioni a cui i britannici sono attaccati in maniera morbosa. Come sono particolari questi inglesi, ci dicevamo. Ecco, adesso no. Non mi divertono più. Non li considero più come innocue eccentricità ma come il sottile substrato del nazionalismo che ha portato gli inglesi a scegliere la Brexit e di isolarsi dal continente dietro la cortina di nebbia della Manica.

Davide Zamberlan per "il Giornale"  il 28 giugno 2021. Una fermata d'autobus nel Kent, una cinquantina di pagine dimenticate a terra, mezze d'acqua caduta copiosa in una novembrina estate inglese. Una persona si china a esaminarle, scorre veloce alcuni fogli, lo stupore eccitato di quando legge «Top secret Solo per occhi inglesi». Non ha l'aura di un romanzo di le Carrè, si avvicina di più all'incipit di una banale storia di spionaggio. È quanto accaduto qualche giorno fa nel sud del Regno Unito, dove il protagonista dell'azione ha poi chiamato la BBC per rendere pubblici e mettere al sicuro la risma di documenti smarrita da un funzionario del Ministero della Difesa britannico. La notizia, pubblicata ieri dall'emittente pubblica inglese che ha mantenuto segreta l'identità del ritrovatore, è stata mediaticamente soffocata dalle vicende fedifraghe dell'oramai ex ministro della Sanità Hancock. Ma le informazioni contenute nelle carte dimenticate sono molto interessanti e di rilievo per almeno due dei principali teatri della politica estera inglese e del mondo occidentale. Innanzitutto in relazione ai rapporti con la Russia, dove emerge che l'incidente di qualche giorno fa nelle acque prospicienti la penisola di Crimea non è stata un'incauta mossa della marina inglese ma un calcolato azzardo di Londra. Lo scorso mercoledì l'HMS Defender, nave da guerra della Royal Navy salpata da Odessa, sta navigando verso Batumi, in Georgia. La rotta che percorre la porta a lambire le coste della Crimea, occupata e annessa da Mosca dal 2014 nonostante la contrarietà di gran parte della comunità internazionale. Entrata in quelle che la Russia considera come acque territoriali, l'HMS Defender viene intercettata da 2 navi guardia costiera russe e una ventina di caccia da combattimento, secondo il racconto di un giornalista della BBC a bordo. Le contrastanti versioni anglo-russe sui colpi d'avvertimento lanciati dagli inseguitori e le bombe sganciate dagli aerei russi sulla rotta della Defender non contestano la sostanza dell'accaduto: la nave della Royal Navy era all'interno delle acque territoriali della Crimea, a qualsiasi stato questa appartenga. Alla più cauta rotta in mare aperto, descritta nei documenti come sicura e professionale, il ministero della difesa britannico ha preferito seguire la rotta più breve lungo la costa, che fornisce l'opportunità di impegnarsi con il governo ucraino in quelle che il Regno Unito riconosce come acque territoriali ucraine. Un'azione di sostegno a Kiev e alle sue rivendicazioni sulla sovranità dell'area per consegnare un messaggio a Mosca e scatenarne la reazione. Ma un messaggio forse anche per l'UE, dove Parigi e Berlino stanno spingendo per riaprire un dialogo diplomatico con Mosca con una proposta di summit bloccata dall'intervento di Polonia e Paesi baltici (come non ha minacciosamente mancato di sottolineare il Cremlino). La seconda rivelazione dei documenti smarriti riguarda il futuro del contingente in Afghanistan, dopo il prossimo ritiro delle truppe Nato. La proposta, top secret, per il ministro della difesa Wallace riguarda il mantenimento di truppe speciali inglesi a Kabul. La richiesta arriva da Washington, gli obiettivi non rivelati, il rischio per l'incolumità dei soldati molto alto vista la sicurezza del Paese in progressivo, continuo deterioramento e destinata probabilmente a peggiorare con l'addio delle forze della coalizione a guida americana. Una decisione dalle implicazioni politiche esplosive, dovesse la forza inglese soffrire perdite.

Luigi Ippolito per corriere.it il 17 giugno 2021. Acque agitate nel mondo della televisione britannica. Lo scorso weekend ha debuttato GB News, un nuovo canale di notizie di destra che ha l’obiettivo dichiarato di sfidare il politicamente corretto imperante e il monopolio della Bbc: ma, sotto la pressione degli attivisti online, molte grandi aziende, da Vodafone a Ikea a Nivea, hanno già ritirato la pubblicità, in quello che appare come un vero e proprio boicottaggio. La polemica infuria. È intervenuto il ministro della Cultura, Oliver Dowden, secondo il quale «uno dei pilastri delle nostre libertà sono i nostri media robusti, liberi e diversificati: e GB News è un’aggiunta benvenuta a quella diversità. I marchi possono fare pubblicità dove vogliono, ma sarebbe preoccupante se soccombessero ai gruppi di pressione». E il Times in un editoriale di stamattina ha bollato come «sinistro e stupido» il boicottaggio pubblicitario. Il lancio di GbNews è avvenuto tra grandi fanfare: e al debutto ha attirato più spettatori di Bbc News (parliamo del canale di notizie dell’emittente pubblica, non dei canali generalisti). L’arrivo della nuova tv è stato letto come il segno di una «americanizzazione» dei media britannici, ossia come una tendenza a dividersi su linee politiche partigiane, tanto che il nuovo canale è stato paragonato a Fox News, la tv di destra Usa che ha agito come il megafono di Trump. GB News vuole essere un’alternativa a una Bbc «troppo metropolitana e privilegiata»: la tv pubblica infatti viene spesso accusata di essere dominata da una intellighenzia liberal lontana dal Paese reale, di essere stata ostile alla Brexit e di perseguire un’agenda troppo politicamente corretta. E per questo negli ultimi tempi la Bbc si è trovata sotto attacco da parte del governo di Boris Johnson, che la percepisce come ostile. Ora la sfida arriva anche dall’etere. GB News è guidata da transfughi della Bbc, che non trovavano modo di esprimere le loro idee conservatrici sulla tv pubblica: ma intanto la nuova rete si è già attirata centinaia di reclami presso l’Organismo di Vigilanza, dopo che uno dei conduttori si è lanciato in un lungo monologo anti-lockdown. Quindi è partita la campagna online di «Stop Funding Hate» (Basta finanziare l’odio), un gruppo di attivisti di sinistra che ha convinto i grandi inserzionisti a tenersi alla larga da GB News. «Questo è il peggior tipo di cancel culture (cultura della cancellazione) — ha reagito il presidente conservatore della Commissione Media e Cultura del Parlamento, Julian Knight —. GB News sta portando una prospettiva di cui c’è molto bisogno nel nostro panorama dei media. I marchi che stanno ritirando la pubblicità sono francamente codardi e devono capire che la Gran Bretagna è un Paese conservatore e rimarrà così per il prevedibile futuro». Questo scontro è l’ultimo capitolo delle cosiddette «guerre culturali» che stanno squassando la Gran Bretagna: una battaglia che si combatte sui temi del razzismo, dell’eredità del passato coloniale e sulle identità di genere e che vede in campo una sinistra fatta di giovani attivisti online cui si contrappone un governo conservatore ben felice di ingaggiare il confronto. Johnson e i suoi sfruttano, quando non aizzano, la polemica perché sanno bene che la maggioranza dell’opinione pubblica trova aliene le istanze più estreme del politicamente corretto, mentre i laburisti sono in difficoltà a contenere le frange più militanti. Ora l’arrivo di GBNews getta un altro tizzone nel braciere.

Gb News, la tv di destra mollata dagli sponsor (perché fa troppi ascolti). Tony Damascelli il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. Il nuovo canale, presto pure radio, batte Sky. La rivolta dei marchi politicamente corretti. Forse ha ragione lady Meghan, c'è del marcio in Inghilterra, una sottile forma di razzismo ma stavolta non c'entra il colore della pelle e nemmeno le voci volgari dei cortigiani di Buckingham o altre dimore nobiliari. Stavolta c'è di mezzo la libertà di pensiero, politico innanzitutto. È nata una nuova emittente televisiva, tra poco anche radiofonica, la testata riassume il programma: GB News. Il 13 giugno scorso, alle otto di sera, Andrew Neil, imprenditore giornalista scozzese presidente del network, ha dato inizio all'avventura: «Siamo orgogliosi di essere britannici, l'indizio è nella nostra insegna». Gran Bretagna, dunque, con tutti gli annessi che i cittadini e/o sudditi dell'isola si portano appresso. Ma i centoventi giornalisti, raccolti soprattutto dal gruppo Murdoch e da Bbc, assunti in mesi due per lanciare l'emittente, devono fare i conti con il boicottaggio allestito dai gentiluomini di Stop Funding Hate (tradotto sarebbe Smettila di finanziare l'odio), un raffinato social di sinistra che ha chiesto a varie aziende di interrompere la pubblicità sul nuovo canale perché questo è indirizzato su obiettivi contrari al comune sentire, sul famoso politically correct, anzi punta a dividere il Paese, a contestare il governo. In breve la colpa di GB News è di essere fuori registro, di non rispettare i nuovi comandamenti, di non stare bene a chi la pensa in modo diverso, riassunto: quelli di Stop Funding Hate professano l'undicesimo comandamento: evitate il loro odio, scegliete il nostro che è molto più elegante, democratico e intelligente. E così molte ditte, da Vodafone a Ikea, da Nivea a Pinterest, da Kapparsberg Brewery a Specsavers, impaurite da un ritorno di immagine negativo, si sono ritirate annunciando la cancellazione dei contratti, non tutti sottoscritti, ma alcuni raggiunti con accordo verbale. I capi di GB News si sono svegliati con la scrivania piena di denunce per la trasmissione Tonight Live, condotta da Dan Wootton che ha attaccato il governo per le politiche sul Covid-19. Per la cronaca, l'emittente ha subito battuto, in ascolti, Bbc e Sky e questo ha fatto sbandare i benpensanti (di che cosa non si sa). Per fortuna il ministro della cultura, Oliver Dowden, ha reagito contro il tentativo di censura: «Uno dei pilastri delle nostre libertà sono i nostri media robusti, liberi e diversificati: e GB News è un'aggiunta benvenuta a quella diversità. I marchi possono fare pubblicità dove vogliono, ma sarebbe preoccupante se soccombessero ai gruppi di pressione». A proposito di marchi, Ikea si è giustificata sostenendo che i propri valori umanistici non sono in linea con quelli dell'emittente e il Times ha ricordato all'azienda svedese la multa di 860mila sterline ricevuta dalla succursale francese accusata di spionaggio del personale. Rispetto alle iene nostrane, sull'isola di Elisabetta II siamo alle formiche che si incazzano. Informo distratti e superficiali che Stop Funding Hate ha buoni compagni, nel senso vero, perché si allinea a Cctv, la televisione di stato cinese, che ha invitato al boicottaggio il popolo comunista degli articoli di H&M «non comprate», sconsigli per gli acquisti. Per ossimoro trattasi di democrazia dittatoriale, secondo usi e costumi di chi parla di libertà ma non rispetta quella degli altri. I geni di SFH non hanno capito che la loro agitazione è stata la migliore pubblicità per GB News. In onda. Tony Damascelli

Da huffingtonpost.it il 2 giugno 2021. Certamente ricorderete Christian Jessen, il presentatore tv, medico e comico inglese, 44 anni, che all’inizio della pandemia disse che secondo lui, il lockdown e il “restate in casa” a causa del Covid in Italia erano “scuse per continuare a fare la siesta” e non lavorare. Dichiarazioni che scatenarono proteste in tutta Italia. Ora Jessen dice di “essere in bancarotta”: guai anche stavolta causati da improvvide dichiarazioni che però hanno avuto conseguenze ancora più serie. Scrive Repubblica: Questo perché un giudice britannico, in una causa civile tra Jessen e la prima ministra nordirlandese uscente, Arlene Foster, ha dato ragione a quest’ultima: non è vero che Foster avesse una relazione extraconiugale, come aveva sostenuto in pubblico Jessen, in un’altra sua controversa e criticata uscita. Così, ora Jessen deve risarcire con 125mila sterline (circa 150mila euro) la ex leader del partito unionista nordirlandese. Ma c’è un problema: “Sono soldi che non ho. Vi chiedo dunque di aiutarmi a pagare questo debito”, ha scritto il presentatore sui social. Jessen ha aperto un crowdfunding su GoFundMe.

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2021. Una rete se non proprio segreta almeno non apertamente conosciuta di finanziatori d'élite, che in cambio di 250.000 sterline l'anno - circa 290.000 euro - hanno la possibilità di parlare regolarmente con il primo ministro Boris Johnson o il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e di portare all'attenzione dei due le proprie priorità. Sarebbero questi i termini dell'Advisory Board, un gruppo che, stando alla ricostruzione del Financial Times, non figura nelle carte ufficiali del partito conservatore e che sarebbe gestito in modo diretto ed esclusivo da Ben Elliot, lanciato imprenditore britannico, co-presidente dei Tories e nipote per parte di madre di Camilla, duchessa di Cornovaglia, a sua volta moglie dell'erede al trono Carlo. Stando allo scoop del quotidiano, Johnson ha affidato a Elliot, ex allievo del collegio di Eton come il premier e parte dello stesso giro sociale, la gestione della raccolta fondi del partito con alcuni obiettivi: finanziare la campagna elettorale che ha permesso a Johnson di realizzare la Brexit - ovvero le elezioni del dicembre 2019, in cui Johnson allargò la sua maggioranza - e di ripristinare le sorti economiche dei Tories, che con Theresa May avevano raccolto meno favore tra i donatori. Compiti che Elliot ha assunto con determinazione applicandosi con modi insistenti e bruschi non dissimili, stando a chi ha parlato con il Financial Times, da quelli di un ufficiale giudiziario. «Una pacca sulla spalla, una telefonata, parole forti, tipo ci devi quei soldi, ce li hai promessi…». Se Downing Street ha fornito per ora risposte vaghe sull'esistenza dell'Advisory Board - se esiste è stato creato prima dell'arrivo di Johnson e non è una struttura formale - il Financial Times ha fatto le sue ricerche e ha trovato otto finanziatori che nell'anno 2020 hanno fornito al partito la stessa cifra, ovvero 250.000 sterline esatte. Una coincidenza? Anche se per ora non c'è alcuna prova che i membri di questo club d'élite abbiano influenzato il premier o il cancelliere dello Scacchiere è inevitabile che l'accesso a personaggi di punta del governo e la possibilità di parlare apertamente con loro porti a lungo andare qualche vantaggio. Chi fa parte della squadra? Banchieri, imprenditori, dirigenti che grazie a Elliot hanno la possibilità di incontrare non solo politici ma anche reali e celebrità. Il nipote di Camilla è infatti il fondatore di Quintessentially, la società di concierge per vip cui si rivolgono personaggi come Jennifer Lopez e Madonna per soddisfare capricci all'apparenza impossibili. Elliot conosce tutti, sa dove sono i soldi e non si fa problemi a chiedere ai facoltosi clienti del suo gruppo di finanziare anche il partito conservatore, come ha raccontato al Financial Times l'imprenditore Mohamed Amersi, che dopo una cena con il principe Carlo organizzata dal nipote di Camilla è stato inserito nel giro dei donatori al partito. Se Elliot è riuscito in poco tempo a riempire le casse dei Tories - avrebbe contribuito alla raccolta di circa 50 milioni di sterline dal 2019 ad oggi - le consulenze fornite al primo ministro sulle sue finanze private non sono sempre azzeccate, come insegna il caso della ristrutturazione dell'appartamento di Downing Street che Johnson ha dovuto alla fine in parte spesare di tasca propria. Con il divorzio, i sei figli e la neomoglie Carrie, BoJo, come viene chiamato, fatica a vivere con lo stipendio da premier, 157.000 sterline lorde l'anno.

Da corriere.it il 30 maggio 2021. Matrimonio segreto - e a sorpresa - per Boris Johnson, che ieri ha sposato nella cattedrale cattolica di Westminster la sua fidanzata Carrie Symonds: e questo appena una settimana dopo che erano stati spediti i pre-inviti per una festa fissata al 30 luglio del... 2022. Ma è chiaro ora che quello sarà il grande party, quando si suppone saranno superate tutte le restrizioni dovute al Covid: mentre adesso Carrie è riuscita a diventare subito la first lady a pieno titolo. Lei e Boris erano la prima coppia non sposata a Downing Street: e Johnson è il secondo premier a convolare a nozze durante il mandato, dopo Lord Liverpool nel 1822. Carrie è cattolica: la cerimonia, con 30 invitati come da restrizioni, si è svolta nella cattedrale di Westminster (non va confusa con la più nota Abbazia), dove nel 2020 era stato battezzato il loro figlio Wilfred. Per Johnson si tratta del terzo matrimonio.

La sposa ha 33 anni, lo sposo 56. Chi è la moglie di Boris Johnson, Carrie Symonds: le foto dell’abito noleggiato per il matrimonio segreto. Elisabetta Panico su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Sabato si sono sposati con un matrimonio religioso ma del tutto segreto Boris Johnson e Carrie Symonds. I due si sono fidanzati sull’isola di Mustique alla fine del 2019 e hanno avuto un figlio, Wilfred, nell’aprile 2020, poche settimane dopo che il primo ministro ha lasciato l’ospedale dopo essere stato curato per Covid in terapia intensiva. Secondo quanto riferito, la cerimonia è stata eseguita dal parroco Daniel Humphreys, che ha battezzato il figlio Wilfred l’anno scorso. La celebrazione del matrimonio rende Johnson il primo primo ministro a sposarsi in carica da quando Lord Liverpool sposò Mary Chester nel 1822. La giovane first lady è la figlia di Matthew, del co-fondatore del giornale britannico The Independent e all’inizio della sua carriera si occupava della comunicazione del partito conservatore. Durante questi anni ha conosciuto il primo ministro Johnson. Ha lasciato il posto di lavoro per dirigere un’iniziativa ecologista di Bloomberg nel 2018. Carrie Symonds ha 33 anni ed è la terza signora Johnson. Ha studiato in una delle scuole più prestigiose femminili della capitale inglese, laureata in Storia e Teatro a Warwick. I rumors inglesi danno la colpa alla giovane donna della fine del matrimonio tra Johnson e Marina Wheeler. I due divorziano dopo 25 anni di matrimonio e quattro figli. Proprio per il “precoce matrimonio” si sono sollevate molte domande su come il primo ministro britannico sia riuscito a risposarsi a distanza di pochi anni con un rito cattolico ma secondo quanto riferito, ciò è consentito quando i precedenti matrimoni delle persone sono stati condotti al di fuori della chiesa cattolica romana. La neo “first lady” ha indossato per il suo giorno un abito da sposa noleggiato. Il vestito di seta avorio sul sito My Wardrobe HQ ha un prezzo di 45 sterline al giorno. Lo stile che la sposa ha voluto avere è boho chic che ha unito a dettagli etnici che fanno pensare a una donna greca di altri tempi. Inoltre Carrie ha confermato ai giornali inglesi che vuole prendere il cognome del marito quindi sarà a tutti gli effetti la nuova signora Johnson. Diversi politici si sono congratulati con la coppia, tra cui il ministro degli Interni Priti Patel, il segretario alla salute Matt Hancock, il ministro dei vaccini Nadhim Zahawi e il segretario del lavoro e delle pensioni Therese Coffey.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia

Luigi Ippolito per corriere.it il 30 maggio 2021. La Principessa Pazza. Lady Macbeth. Carrie Bolena. Gliene hanno dette di tutti colori, a Carrie Symonds. Ma adesso la donna più potente della Gran Bretagna ha portato a casa il trofeo più ambito: la mano del primo ministro, Boris Johnson, sposato ieri nella cattedrale cattolica di Westminster, a Londra. Carrie non è una first lady qualunque: a 33 anni è una consumata operatrice politica, con una sua agenda personale e una influenza decisiva sul governo. Non a caso a soli 29 anni, dopo aver studiato in una delle più prestigiose scuole private femminili di Londra ed essersi laureata in Storia e Teatro all’Università di Warwick, era già diventata direttrice delle comunicazioni del partito conservatore: ed è in quella veste che aveva conosciuto Boris, di 23 anni più anziano di lei, col quale ha presto intrecciato una relazione. Ed è stato a causa di Carrie che alla fine Johnson, un collezionista di amanti, si è visto cacciato di casa dalla moglie Marina, stanca di essere tradita. L’amante di turno è stata così promossa a compagna ufficiale (i due hanno un figlio: Wilfred Lawrie Nicholas Johnson) e quando Boris è diventato primo ministro, Carrie si è installata assieme a lui a Downing Street. L’impatto è stato immediato: la giovane fidanzata ha rifatto il look a Johnson, lo ha messo a dieta e gli ha imposto una vita più regolata. Ma soprattutto Carrie ha fatto sentire il suo peso sul piano politico: alla fine dell’anno scorso, con un golpe di palazzo, ha estromesso tutta la vecchia guardia dei consiglieri di Johnson, guidati dal «Rasputin» Dominic Cummings, e li ha rimpiazzati con amici e alleati. Cummings, però, le ha giurato vendetta: e ha cominciato a cannoneggiare Carrie a mezzo stampa. È così che sui giornali sono uscite le indiscrezioni sulle malefatte del cagnolino di lei, Dilyn, ma soprattutto le rivelazioni sulla stravagante e faraonica ristrutturazione dell’appartamento privato di Downing Street: fortemente voluta da Carrie e pagata dai donatori del partito conservatore. Per i suoi detrattori, la neo-moglie di Johnson ha fin troppo potere: il problema, dicono, è che qualunque decisione viene presa di giorno a livello di consiglio dei ministri, la sera rischia poi di essere disfatta da Carrie, che è in grado di far cambiare idea a Boris. Il quale viene tempestato di messaggini dalla compagna anche durante le riunioni più delicate. Per i suoi fan, Carrie è invece vittima di attacchi sessisti da parte di vecchi parrucconi che non sopportano l’idea di una giovane donna in grado di far valere le sue opinioni. E lei non è certo una che si tira indietro: a 19 anni era stata fra le vittime di John Worboys, un famigerato tassista condannato nel 2009 come stupratore seriale; e Carrie aveva rinunciato all’anonimato per testimoniare contro di lui. Più in generale, il problema è che in Gran Bretagna, a differenza che negli Stati Uniti, non esiste un ruolo codificato di First Lady: e se finora le mogli — o i mariti — dei premier tenevano un profilo basso, Carrie ha fatto irruzione sulla scena come un uragano. Lei è una ecologista convinta e si deve anche alla sua influenza se il governo Johnson ha abbracciato la rivoluzione verde. Ma è per tutti questi motivi che alcuni hanno chiesto che le venga assegnato un incarico ufficiale, in modo da codificare la sua presenza alla guida del Paese. Per il momento, però, è riuscita a stringere in mano il certificato di matrimonio.

Gaia Cesare per "il Giornale" il 13 maggio 2021. Fresco di vittoria elettorale alle amministrative del 6 maggio e con il vento in poppa per essersi distinto a livello internazionale nella campagna vaccinale anti-Covid, Boris Johnson veste ora i panni del guerriero impegnato in una campagna tanto simbolica quanto cruciale, quella per la libertà di espressione. Noto per le sue uscite poco ortodosse e controcorrente, l' irriverente premier inglese ha deciso che il free speech va difeso nelle università britanniche e sui social network, anche quando sconfina nella scorrettezza politica, e che è il momento di impegnarsi concretamente contro la cancel culture, quel pensiero dilagante che ha generato la crociata per l' abbattimento di decine di statue di figure storiche e punta a rimuovere pezzi di storia e personaggi del passato, giudicandoli senza considerare le circostanze socio-storico-culturali in cui certe idee e quei personaggi si sono sviluppati. Ecco che tra i circa trenta disegni di legge annunciati martedì nel Discorso della Regina, in cui Sua Maestà legge il programma del governo per l' anno in corso, sono spuntate due proposte normative, approdate in Parlamento già ieri, con la solita efficienza british. La prima prevede un obbligo legale per le università e per la prima volta anche per le Students' Unions - le organizzazioni che rappresentano gli studenti nei college e nelle università e spesso organizzano dibattiti su temi di interesse e di attualità - di proteggere la libertà d' espressione, pena il rischio di essere trascinate in tribunale se a qualche studente, oratore o accademico venisse messo il bavaglio, al punto da poter consentire a chi è stato censurato di chiedere un risarcimento. Il ministro dell' Istruzione Gavin Williamson ha definito l' Higher Education (Freedom of Speech) Bill un disegno di legge «storico», «una pietra miliare» per contrastare «gli effetti agghiaccianti della censura nei campus» su studenti, personale e relatori «che non si sentono liberi di poter dire la loro». Chi viola gli obblighi, rischierà multe e sanzioni. Per dimostrare la bontà dell' approccio governativo, il ministro dell' esecutivo Johnson cita il caso delle 500 sterline di costi che il Bristol Middle East Forum ha dovuto affrontare per garantire la sicurezza dell' ambasciatore israeliano invitato a parlare a un evento. E poi la lettera di oltre un centinaio di accademici, che hanno lanciato un attacco pubblico a Nigel Biggar solo perché il docente di Oxford ha osato dire che gli inglesi possono sentirsi «orgogliosi» dell' Impero tanto quanto possono vergognarsene. Come prevedibile, la linea Johnson è già sotto attacco, accusata di «aggiungere complessità alla governance universitaria» e nuovi requisiti di conformità. Rischia di insistere sull' ovvio - è l' obiezione - visto che le università sono già tenute a proteggere la libertà di parola e le libertà accademiche. Ma il governo tira dritto. E con un altro disegno di legge vuole affrontare la questione anche sui social network. Facebook e Twitter - è l' intenzione - dovranno fornire agli utenti strumenti per ricorrere contro la rimozione dei propri messaggi. Ma la battaglia sul web, ben più ampia, è appena cominciata.

Luigi Ippolito per corriere.it il 28 ottobre 2021. La Francia ha sequestrato ieri sera un peschereccio inglese, accusato di aver violato le acque territoriali in prossimità del porto di Le Havre, sulla costa della Manica. È una inaspettata escalation della disputa sui diritti di pesca, che da mesi oppone il governo francese e quello britannico: dopo la Brexit, i pescatori bretoni e normanni devono ottenere un permesso ad hoc per operare nelle acque britanniche, in particolare quelle attorno alle Isole del Canale di fonte alle coste francesi. Ma Parigi lamenta che i britannici stiano accordando licenze col contagocce, mettendo a rischio l’industria della pesca francese. Da qui l’ultimatum: se entro il 2 novembre non otterrà abbastanza permessi, la Francia minaccia di negare alle barche inglesi l’accesso ai propri porti, nonché di rallentare tutto il traffico merci fra le due sponde della Manica, mettendo in atto rigorosi controlli sui camion e sugli standard doganali e sanitari dei beni in arrivo da Londra. In pratica, una guerra commerciale a tutto campo: che rischia di non fermarsi qui, perché la mossa successiva dei francesi potrebbe essere addirittura il blocco delle forniture energetiche alla Gran Bretagna. Insomma, un embargo in piena regola come non si vedeva dalle guerre napoleoniche. «Finora abbiamo cercato il dialogo – ha detto il ministro francese per l’Europa, Clement Baune – ma abbiamo ottenuto solo metà delle licenze di pesca: non è abbastanza e non è accettabile. Così adesso dobbiamo usare il linguaggio della forza, perché è l’unica cosa che il governo britannico capisce». Ma Boris Johnson non ha intenzione di restare a guardare. «Le minacce della Francia sono deludenti e sproporzionate – ha detto un portavoce di Downing Street – e non è ciò che ci aspetteremmo da uno stretto alleato e partner»: quindi incontreranno «una appropriata e calibrata risposta». In altre parole, una rappresaglia. Le relazioni franco-britanniche sono così discese a un minimo storico: e a Londra si accusa il presidente francese Emmanuel Macron di non aver mai digerito la Brexit e di volerla far pagare ai britannici. Oltretutto, la primavera prossima Macron si gioca la rielezione: e una «guerra» con la perfida Albione, in quest’ottica, fa sicuramente gioco. Parigi, in questa disputa con Londra, spera nella solidarietà europea: ma da Bruxelles e dalle altre capitali traspare un certo imbarazzo, soprattutto nel momento in cui la Ue è impegnata in un delicato negoziato con la Gran Bretagna a proposito dello status dell’Irlanda del Nord. In questa fase, una «battaglia navale» non aiuta. Ma è evidente che sia Parigi che Londra hanno un interesse politico a mostrare la faccia dura: le acque della Manica si prospettano per un po’ ancora agitate.

La "guerra della pesca" tra Gran Bretagna e Francia: gli effetti della Brexit. Il Quotidiano del Sud il 6 maggio 2021. Pochi mesi dopo la conclusione dell’accordo post-Brexit, la situazione è improvvisamente diventata tesa tra Londra e Parigi sulla questione dell’accesso dei pescatori francesi alle acque britanniche nel Canale della Manica. Teatro dell’escalation, che ha visto i due Paesi inviare rispettivamente due navi militari a pattugliare la zona, è l’isola di Jersey, a una ventina di chilometri dalla Normandia e dipendenza della Corona britannica: davanti al porto principale dell’isola, Saint-Hélier, si è ammassata una ‘flotta’ di una ottantina di pescherecci francesi che hanno bloccato la circolazione, per protesta contro quello che ritengono “l’illegale” nuovo sistema di licenze applicato da Jersey e che limita i loro diritti, stabiliti nell’ambito del faticoso accordo sulla pesca post-Brexit; un tema che era stato già esplosivo durante i lunghi negoziati tra Londra e Bruxelles. rappresentanze governative si incontreranno con i leader dei pescatori a bordo del peschereccio Norman Le Brocq. Il ministro capo dell’isola, incaricato delle relezioni estere, Ian Gorst, ha segnalato l’intenzione di “ascoltare le inquietudini dei pescatori quanto ai diritti di pesca. L’accordo – entrato in vigore lo scorso 1° gennaio – prevede un periodo di transizione fino all’estate del 2026, quando i pescatori europei rinunceranno al 25% del pescato nelle acque britanniche, l’equivalente di 650 milioni di euro all’anno. L’intesa prevede poi una rinegoziazione annuale. Fino al 2026, i pescatori Ue mantengono l’accesso garantito alle aree tra le 6 e le 12 miglia nautiche al largo della costa britannica, zona nota per l’abbondanza di pesce e per la tranquillità della navigazione. Tuttavia, devono richiedere nuove licenze. Governo e pescatori francesi, ora, sostengono che Londra si stia allontanando dall’accordo post-Brexit, inasprendo le condizioni per l’ingresso dei pescatori Ue nelle acque britanniche e a cui per la prima volta la settimana scorsa sono stati ristretti i giorni di accesso autorizzato. Le imbarcazioni europee, inoltre, per ottenere la licenza devono ora dimostrare alle autorità britanniche che già pescavano in quella zona nel periodo tra il 2012 e il 2016. Cosa non difficile per le grandi navi dotate dei necessari sistemi di monitoraggio, ma impossibile per pescherecci di piccole dimensioni. Il governo del Jersey ha assicurato di aver “concesso licenze di pesca in conformità con l’accordo commerciale” post-Brexit, ma la Commissione europea non è dello stesso avviso. L’esecutivo Ue ha detto di aver ricevuto “il 30 aprile una notifica dalle autorità del Regno Unito sulla concessione di 41 licenze ai pescherecci Ue”, ma che “sono state decise ulteriori condizioni”, ha spiegato la portavoce della Commissione europea, Vivian Loonela, che ha accusato Londra di “non rispettare” le disposizioni dell’intesa. Mentre i pescatori francesi protestavano lanciando fumogeni e cantando cori contro gli inglesi, la ministra del Mare di Parigi, Annick Girardin, ha chiesto a Londra di revocare le restrizioni e Bruxelles ha invitato “alla moderazione e alla calma”. Oggi comunque, per tentare di disinnescare la tensione, il governo e le rappresentanze governative di Jersey si incontreranno con i leader dei pescatori a bordo del peschereccio Norman Le Brocq. Il segretario di Stato francese agli Affari europei, Clement Beaune, ha avvertito che le “manovre” britanniche al largo di Jersey, “non intimidiranno” Parigi. Ha poi assicurato che “la nostra volontà è non alimentare tensioni ma avere un’applicazione rapida e completa dell’accordo” post-Brexit. La Francia, ha fatto sapere un portavoce dell’Eliseo, monitora “da vicino” la situazione che “è al momento ritiene calma”. Secondo fonti citate da SkyNews, è l’atteggiamento dei britannici ad aver esacerbato le tensioni. Per molti, la mossa del premier Boris Johnson, di alzare i toni inviando ieri due navi da guerra “in sostegno” a Jersey e “in via precauzionale”, è stata progettata in chiave elettorale: oggi, nel Regno Unito, sono in corso importanti consultazioni locali, le prime dall’inizio della pandemia, che misureranno la fiducia nel governo Tory. I pescatori di Jersey, citati da media britannici filo-conservatori, hanno definito la protesta dei pescatori francesi “un’invasione”, mentre il Daily Mail definisce la crisi in corso “la nostra nuova Trafalgare”, in riferimento alla celebre battaglia navale che, nel 1805, mise la parola fine sul tentativo di Napoleone di invadere l’Inghilterra.

DAGONOTA il 7 maggio 2021. Secondo il Daily Mail ieri sera i pescatori francesi hanno minacciato di bloccare Calais. Olivier Lepretre, presidente del comitato per la pesca della Francia settentrionale, ha detto che è possibile una nuova protesta «entro pochi giorni» e che i pescherecci da traino della Normandia potrebbero svolgere un'azione simile nel porto di Cherbourg. Secondo Lepetre, gli eurocrati della Commissione europea devono «muovere il culo» e approntare le ritorsioni previste dalla Brexit.

Alessandra Rizzo per “la Stampa” il 7 maggio 2021. «Ho appena fatto rifornimento di carburante alla barca. Siamo pronti a rimettere in scena la Battaglia di Trafalgar». Forse era inevitabile che si finisse per scomodare Napoleone in questi giorni in cui ricorrono i duecento anni dalla sua morte. Ma le parole del pescatore francese Jean-Claude La Vaullée a bordo della sua barca suonano comunque surreali. In palio non c'è il dominio dei mari, ma al più quello dei pesci della Manica. Per difendere i diritti della pesca nel nuovo regime post-Brexit, decine di barche francesi hanno occupato le acque del porto principale dell'isola di Jersey, a 20 chilometri dalla Normandia. Londra ha inviato due navi da guerra della Royal Navy a «monitorare la situazione», e Parigi per non essere da meno ha fatto lo stesso. La tensione nel Canale della Manica ha il sapore di una scaramuccia tra due Paesi ex potenti ed ex nemici. Per un pescatore francese che invoca la rivincita di Trafalgar c'è un suddito di Sua Maestà mascherato da soldato ottocentesco che dalle mura del castello carica il suo moschetto e spara a salve verso le imbarcazioni, lontanissime, del nemico gallico (scenetta immediatamente diventata virale, simbolo involontariamente comico della Brexit per alcuni; rappresentazione dello spirito indomabile britannico per altri). Per il Primo Ministro Boris Johnson, la disputa è stata l'occasione per mostrare i muscoli proprio nel giorno in cui milioni di cittadini britannici vanno alle urne in una serie di elezioni amministrative e politiche viste come un test importante della sua premiership. Ma nonostante gli aspetti più farseschi, con i tabloid inglesi andati a nozze nell'evocare battaglie navali del glorioso passato imperiale, la questione dei diritti della pesca è motivo di tensione ricorrente tra Londra e Parigi, mette a rischio il sostentamento di comunità costiere che dipendono dall'accesso a quelle acque, ed ha rappresentato uno dei nodi più ostici nei negoziati seguiti alla Brexit. Non a caso, la "guerra delle capesante", come è stata ribattezzata, riesplode periodicamente. Le tensioni nel canale della Manica covavano da settimane, ma sono esplose in pieno nei giorni scorsi, quando i pescherecci francesi hanno accusato le autorità locali di aver imposto nuovi e gravosi requisiti per consentire loro di pescare nelle acque intorno all'isola. Mercoledì i francesi hanno minacciato di bloccare la fornitura elettrica all'isola, alimentata da cavi sottomarini, come ritorsione. «Siamo pronti a usare le misure necessarie. L'Europa, la Francia - abbiamo i mezzi», ha giurato il ministro francese per gli affari marittimi, Annick Girardin. «Mi dispiacerebbe arrivare a tanto, ma se necessario lo faremo». Poi ieri mattina una sessantina di imbarcazioni francesi si sono piazzate di fronte a St Helier, capitale e porto principale dell'isola, minacciando di bloccare lo scalo. La piccola flotta si è allontanata nel pomeriggio, ma non senza momenti di tensione e parole grosse. «È un'invasione», ha detto un pescatore locale, Josh Dearing, al Daily Mail. «È stato davvero uno spettacolo impressionante. Stamattina ho guardato dalla riva ed è stato come vedere un mare di luci rosse e fumogeni. I francesi sono così, mica scherzano. Bloccano i loro di porti, figuriamoci se ci pensano due volte prima di fare lo stesso a noi». I pescatori francesi, sostenuti dal governo, accusano i britannici di aver violato il trattato faticosamente negoziato dopo la Brexit. Per la Commissione Ue i termini dell'accordo commerciale non sono stati rispettati. Johnson, in una telefonata con autorità locali di Jersey, ha assicurato il suo «sostegno inequivocabile». Ma in serata, ha ordinato alle due navi di rientrare. «La situazione per ora è risolta», ha detto. Ma per quanto? I colloqui tra gli esponenti del governo locale e rappresentanti dei pescatori hanno per ora smorzato le tensioni; secondo il ministro degli Esteri di Jersey, Ian Gorst, i colloqui continueranno per permettere alle parti di «iniziare ad affrontare nel dettaglio le questioni tecniche» aperte relative all'applicazione degli accordi. Ma i francesi rientrati a casa in serata, esausti e bagnati fradici, sono scettici. Un'associazione di pescatori della Normandia ha parlato di impasse, e ha avvisato: «O la questione viene risolta, o ci saranno ritorsioni». E Parigi ha ribadito che userà tutto il suo peso per proteggere le comunità di pescatori. La guerra delle capesante non è ancora terminata.

Il prossimo scontro tra Londra e Parigi sarà sui migranti.  Antonella Zangaro su Inside Over il 14 maggio 2021. Sulle coste inglesi riprendono gli sbarchi dei migranti in arrivo dalla Francia e Londra corre ai ripari. Dopo il fisiologico rallentamento dovuto all’inverno, con il miglioramento delle condizioni meteo Dover ha già visto triplicare quello che era stato il numero degli arrivi registrati nella prima parte del 2020. Se da gennaio nel Regno Unito è già stata sfondata quota 2600, a maggio rischia di superare ogni record. A confermarlo le 636 persone sbarcate nei primi 12 giorni e il picco di quasi 200 registrato nella sola giornata dell’11. Certo, letti in Italia questi numeri fanno quasi sorridere, ma per il Paese che con la Brexit ha promesso di serrare i suoi confini e ha deciso di tagliare i ponti con l’Europa per essere libero di dettare le sue regole, soprattutto quando si parla di immigrazione, questi numeri sono intollerabili e pericolosi. La risposta di Boris Johnson non si farà attendere e non sarà morbida e già lascia presagire l’arrivo di nuovi scontri con l’Unione Europea e soprattutto con il suo avamposto: la Francia.

Il fenomeno migratorio lungo la Manica. Una traversata di 21 miglia separa Dover da Calais: onde alte, mare forte e spesso tanta nebbia. I trafficanti di uomini si sono ingegnati, la pandemia e i ripetuti lockdown hanno chiuso la tratta ai camion sui quali gli immigrati venivano ammassati e nascosti, lo stesso dicasi per la via aerea. È rimasto solo il passaggio via mare, così, le piccole imbarcazioni sono diventate il mezzo più agevole oltre che il meno sicuro. Si sono ingegnati i trafficanti di esseri umani e hanno capito che quando le barchette sono lanciate in mare in massa, anche una trentina contemporaneamente, si riesce a creare confusione tra i grandi guardacoste e in questo modo per molti aumentano le possibilità di passare in barba ai controlli. La strategia è ormai collaudata dalle parti del Canale della Manica e ad oggi ha comportato un aumento esponenziale della vendita di barche di piccole dimensioni. Un passaggio a bordo verso il sogno delle bianche scogliere inglesi può costare anche solo 500 sterline quando si viaggia ad alto rischio. Sì, perché quelle lanciate in avanti per fare massa sono anche le esche per le forze dell’ordine che a quel punto, distratte, lascerebbero libero il passaggio alle imbarcazioni più grandi e più sicure dove un posto costa molto di più e può arrivare fino a 5.000 sterline, hanno spiegato alcune fonti anonime riportate dal Times. Sul fronte interno, la NCA (National Crime Agency) ha appena diramato un’informativa rivolta alle compagnie marittime invitate a fare massima attenzione a chi si mostra interessato all’acquisto di piccole imbarcazioni perché chi vuole usarle per trasportare i migranti è facilmente riconoscibile e va segnalato. Il primo indicatore è la richiesta, inviata on line, di un’unica transazione utile per acquistare l’imbarcazione e molto equipaggiamento, in particolare i giubbotti di salvataggio che spesso vengono ordinati ripetutamente dallo stesso account. Il secondo segnale è l’assoluto disinteresse rispetto alle condizioni in cui versano la barca e le altre dotazioni da comprare, così come i chiari indizi che fanno capire che chi acquista non sarà poi l’utilizzatore finale. Infine, questo tipo di cliente normalmente ha molta fretta di concludere l’affare, non vuole fornire un indirizzo per la consegna e cerca di andare a recuperare tutto di persona. Miles Bonfeld, capo dell’NCA, ha invitato a denunciare i casi sospetti mentre il ministero degli Interni, Home Office, si prepara a  correre ai ripari sul fronte esterno con qualsiasi mezzo.

La nuova legge sull’immigrazione. Nell’intero 2020 sono stati 8.420 gli sbarchi e ad oggi, siamo già a più di un quarto rispetto a quella cifra. Il governo deve intervenire perché il Primo Ministro non può permettersi errori su quello che è stato uno dei pilastri della Brexit. Così Boris Johnson ha chiesto alla titolare degli Interni, Priti Patel, di usare le maniere forti. Da qui è nata la grande riforma della legge sull’immigrazione e sul diritto d’asilo che già nel nome, Sovereign Borders Bill (Legge sulla Sovranità dei Confini), promette di accontentare le ambizioni sovraniste del popolo anti-Ue e anti stranieri. Secondo alcuni analisti, a dare un’accelerazione ai tentativi di raggiungere al più presto le coste inglesi sarebbe stato proprio  l’annuncio di questa riforma sulla quale, tra l’altro, il governo inglese intende investire 1,3 miliardi di sterline contro il miliardo speso tra il 2019 e il 2020.  Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sono decaduti anche i vincoli sanciti dagli accordi di Dublino e dovrà quindi essere sottoscritta una nuova intesa in materia, proprio a partire dal Sovereign Borders Bill. Ma l’impresa non sarà facile perché Bruxelles ha già fatto capire di non avere la minima intenzione di avvallare i principi stabiliti dal piano scritto a Westminster. L’aspetto senza dubbio più controverso di questa riforma è rappresentato dall’aumento dei poteri di respingimento che gli inglesi vogliono esercitare. Lo scorso marzo, Patel ha divulgato alcuni punti chiave dell’impianto ideologico del Bill spiegando che: i migranti che arriveranno nel Regno Unito illegalmente non avranno più il diritto di stabilircisi permanentemente anche se in possesso di richiesta di asilo. Ancora, chi non potrà essere rispedito in un paese giudicato sicuro, potrà godere dello status di protezione per 30 mesi, ma con limitazioni nei benefici e nei ricongiungimenti familiari. Nuovi centri di accoglienza verranno destinati ad ospitare chi resta in attesa di risposta alla richiesta di asilo (per la quale difficilmente si riuscirà a fare appello in caso di respingimento), mentre saranno rinforzate le azioni per definire l’età di chi si dichiara minorenne, spesso non essendolo. L’impianto giuridico per processare le richieste sarà snellito mentre sono aumentate le pene per gli scafisti e i criminali coinvolti nella tratta (anche carcere a vita) e per gli stranieri che, una volta estradati, tenteranno il ritorno in Gran Bretagna (fino a 5 anni). Fin qui la materia è oggetto di valutazione anche da parte di organi internazionali (come vedremo a breve), ma il punto che colpisce dritto diretto l’Europa è quello che chiarisce che, a chi arriverà illegalmente dopo aver lasciato un paese considerato “sicuro” –  la Francia in primis (ndr) – verrà negato l’accesso al sistema di richiesta di asilo e quindi verrà respinto. Sì, perché la chiara intenzione di Johnson è quella di restituire al mittente i migranti che, partiti dalle democratiche coste francesi, potevano tranquillamente restare là. Ma siamo sicuri che la Francia starà a guardare riprendendosi indietro chi aveva già lasciato le sue acque territoriali? Nell’ultimo accordo bilaterale siglato tra le parti lo scorso novembre non se ne faceva menzione. Di più, dopo questo annuncio, nessun paese europeo ha mostrato il benché minimo interesse a sottoscrivere intese di questo tipo mentre le Nazioni Unite, come detto, hanno già ampiamente criticato la legge. L’Unhcr a breve pubblicherà la sua opinione legale sui contenuti della riforma lasciando trapelare dalle pagine del Guardian di aver ravvisato gli estremi per la violazione dei diritti sanciti dai trattati internazionali. In particolare si guarda alla convenzione firmata nel 1951 che obbliga i Paesi di approdo a proteggere i rifugiati che arrivano sul loro territorio. L’organo internazionale ha anche ribadito di essersi offerto di fornire al Regno Unito un supporto nella redazione della riforma, ma di non aver ancora ricevuto alcuna risposta. Come nel suo stile, Boris Johnson e i suoi tirano dritto e di recente hanno usato anche il discorso scritto per la Regina e proclamato all’apertura dei lavori del parlamento sul trono nella Camera dei Lords, per ribadire l’intenzione a procedere. Per voce di Sua Maestà, il governo ha confermato l’intenzione di stabilire “un sistema per l’immigrazione giudicato più equo e che rafforzerà i confini disincentivando l’azione dei criminali che organizzano pericolosi viaggi illegali”. L’idea è quella di creare una differenza tra chi entra legalmente e chi lo farà illegalmente con l’obiettivo di fermare le partenze clandestine e favorirne il respingimento. Anche questa volta BoJo non ha dubbi: la riforma che negherà il diritto di asilo a chi arriva in Gran Bretagna da Paesi “sicuri” come la Francia si farà.

Le tensioni con la Francia. Il 62% delle richieste di asilo arrivate nel 2019 partivano da ingressi illegali rappresentando un aumento del 21% rispetto a quelle dell’anno precedente in un crescendo costante. Sono stati 2500 i migranti fermati dai francesi quest’anno. Non abbastanza per Boris Johnson, consapevole del forte impatto del fenomeno migratorio sull’opinione pubblica. Ma la decisione di fare di più non sarà un passaggio indolore perché questo atto aprirà ad una sfida contro l’Ue e in maniera più diretta contro la Francia e il mare tornerà a rappresentare il terreno dello scontro tra i due eterni rivali. Ad avvalorare questa tesi, le tensioni che si sono generate la scorsa estate quando gli sbarchi erano ripresi copiosi e i due stati affacciati sulla Manica si erano confrontati duramente in un reciproco scambio di accuse. Si trattava di negligenza secondo Londra, ma era chiaro che la posta in gioco era più alta.  Da sempre le relazioni tra Francia e Gran Bretagna si fanno tese quando si tratta della legge del mare, che sia per l’accesso ai pescatori, e abbiamo visto com’è andata di recente, oppure quando si tratta di pattugliamenti per bloccare le rotte degli scafisti.

Gli accordi bilaterali siglati negli anni hanno portato gli inglesi a sborsare cifre importanti per far fronte alle richieste dei francesi che lamentano di dover pattugliare oltre 300 chilometri di coste. Dal 2014 le negoziazioni tra i due stati sono costate più di 100 milioni a Westminster e dopo le tensioni dello scorso agosto la Francia, in Novembre, ha strappato un rinnovo. 28 milioni di sterline versati nelle sue casse per rinforzare i controlli e fermare tutti i tentatavi di approdo sulle coste inglesi. Ma per Boris Johnson questo non è sufficiente e dopo aver creato l’hub per l’Operazione Altair, il centro di comando di Dover per gli interventi e il controllo via mare e aria che coinvolge polizia, forze di frontiera e sorveglianza con i droni, ora punta tutto sul Sovereign Borders Bill.

I limiti del piano respingimenti. L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sicuramente la rende più libera di legiferare sulla materia, ma finché non saranno siglati nuovi accordi, rimandare indietro alla casella precedente i migranti giunti sulle sue coste è di fatto vietato.  L’uscita dall’Ue implica anche la fine della validità degli accordi di Dublino sui migranti, perciò non esiste alcuna ragione per cui la Francia dovrebbe accettare i respingimenti a suo danno. Eppure Johnson è convinto di poter agire in questa direzione rivendicando così la tanto promessa sovranità nazionale e con ogni ragionevole certezza, sarà di nuovo Parigi a sostenere un prevedibile braccio di ferro considerando che, anche la partita sull’accesso dei pescatori nelle acque inglesi non è affatto conclusa. Di più, a Londra sono convinti che i francesi stiano usando il ritardo nella stipula dell’accordo con l’Ue in materia di servizi finanziari per tenere il punto sulla questione della pesca. Stando a quanto riportato dal blog Conservative Home, ci sarebbe un chiaro legame tra la mancata ratifica dell’intesa e le tensioni legate all’accesso dei pescherecci europei nelle acque britanniche a Jersey. In tutta risposta, l’Europa accuserebbe la Gran Bretagna di non rispettare gli impegni presi per la gestione del post-Brexit sottolineando che molte questioni sarebbero ancora sospese e troppe altre ancora aperte. Se le cose stanno così, è assai prevedibile immaginare che la questione migratoria e il Sovereign Borders Bill rientreranno di diritto nell’elenco delle materie usate per forzare la mano durante le trattative e questo accadrà molto presto.

Dagotraduzione dal The Guardian il 3 magio 2021. Nelle ultime due settimane, le notizie arrivate da Westminster sembravano uscite da una commedia sulla Francia pre-rivoluzionaria o sulla Russia zarista del 1916. In alcune parti del paese, il tasso di disoccupazione ha toccato punte del 15%. Quasi 6 milioni di persone beneficiano oggi del Universal Credit (il sussidio erogato mensilmente a chi ha redditi bassi o inesistenti). Eppure sui media non passa giorno senza che non si discuta dei soldi e del gusto del primo ministro a cui, secondo quanto riferito, non bastano 150.000 sterline l'anno per cavarsela. Come per gli sforzi di lobbying di David Cameron, questa è una storia sul privilegio e sulla spudoratezza e insensibilità che ne deriva. È incentrato sulla rinascita di un archeotipo che ha portato solo guai: lo scolaro ambizioso, vertiginosamente fiducioso, convinto del suo destino ma privo di qualsiasi proposito razionale, che, una volta raggiunto il potere, diventa secondario. Recentemente ho letto "One of Them", il libro di memorie sull'educazione a Eton di Musa Okwonga, scrittore nero britannico. Oltre ad osservare come le questioni di privilegio si intersecano con quelle di razza, spiega in modo eloquente come il tempo trascorso a Eton serva a rafforzare il tipo di atteggiamenti e attributi che Cameron e Johnson incarnano alla perfezione. Eton ha a lungo fornito potenti lezioni sull'elitarismo e sul modo in cui funziona. Ricorda Okwonga che i prefetti non vengono nominati dal personale o eletti dai ragazzi del proprio anno, ma «scelti dai prefetti degli anni precedenti». Con il risultato che a contare socialmente sono 20 studenti, gli altri sono irrilevanti. Ad essere coltivato, soprattutto, è un atteggiamento di disinteresse. «Lo sforzo visibile è deriso. Il trucco è arrivare, ma senza mostrare gli sforzi». La battaglia si combatte sul prestigio, perché, come spiega Okwonga, «basta guadagnare prestigio per ottenere popolarità personale». Come sembra dimostrare l'ascesa solitaria di Boris Johnson verso la vetta. Il trucco non è frequentare le discoteche, ma assicurarsi potere e influenza per acquisire amici e ammiratori. Intanto, regole, convenzioni e coerenza possono essere messe da parte. «La spudoratezza è il superpotere di una certa sezione delle classi alte inglesi», scrive Okwonga. «Non imparano la sfrontatezza a Eton, ma è qui che la perfezionano». Nel caso di Cameron, la mentalità di Eton è emersa nella sua crudele ricerca dell'austerità per fini politici, e nelle promesse poi tutte disattese. Johnson, al contrario, coglie ogni opportunità  per ridurre la politica all'assurdo, e quindi rende il vuoto sotto di lui ancora più lampante. La Brexit, non dimentichiamolo, è il risultato diretto del predominio degli ultimi giorni della politica da parte di persone istruite in privato. Inoltre, poiché quel dominio simboleggia un misto molto inglese di nostalgia, deferenza e incoscienza, è parte del motivo per cui il Regno Unito si sta ora separando; in effetti, il fatto che Johnson sia stato così folle riguardo agli accordi in Irlanda del Nord è un vivido caso di studio sui rischi di affidare questioni di estrema fragilità a persone la cui mancanza di serietà di base non è solo tossica, ma estremamente pericolosa. Parte della malattia inglese è la nostra disponibilità ad attribuire i nostri disastri nazionali a questioni di carattere personale. Ma la vanità degli uomini eleganti e la loro abitudine di trascinarci nella catastrofe hanno radici molto più profonde. Si concentrano su un antico sistema che addestra una ristretta casta di persone a gestire i nostri affari, ma garantisce anche che non abbiano quasi nessuno degli attributi effettivamente richiesti. Se questo paese deve entrare tardivamente nel 21 ° secolo, questo è ciò che dovremo finalmente affrontare: una grande torre di fallimenti che, per usare una parola molto attuale, sono veramente istituzionali.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 31 marzo 2021. Le vie del deserto sembrano particolarmente trafficate. Specialmente quelle che conducono sotto la tenda del principe Mohammed bin Salman, l'uomo forte dell'Arabia saudita - e mandante diretto, secondo la stessa Cia, dell'assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Sono soprattutto gli ex primi ministri europei che non sembrano avere particolari esitazioni a stringere la mano insanguinata di MBS (sigla con cui è conosciuto il principe). Del nostro Matteo Renzi sapevamo già, così come delle sue lodi al «rinascimento saudita» (per maggiori informazioni, chiedere alla vedova Khashoggi); ma adesso si scopre che a godere dell'ospitalità di Bin Salman, addirittura in campeggio fra le dune, è stato pure l'ex premier britannico David Cameron, volato lì in qualità di lobbista della Greensill Capital, la discussa società finanziaria di cui era diventato consulente dopo aver lasciato Downing Street. Il viaggio, ha raccontato il Financial Times , sarebbe avvenuto all'inzio del 2020, subito prima dello scoppio della pandemia. Ma Cameron era andato a Riad già nell'ottobre del 2019, per partecipare alla cosiddetta «Davos del deserto»: una visita che era avvenuta un anno dopo l'omicidio Khashoggi e che già Amnesty International aveva criticato perché poteva «essere interpretata come una dimostrazione di supporto per il regime saudita» nonostante «gli spaventosi precedenti in tema di diritti umani». Considerazioni che evidentemente non hanno impedito a Cameron (e dopo di lui a Renzi) di fraternizzare col despota mediorientale. D'altra parte, gli ex premier sono di bocca buona: il loro modello sembra essere Tony Blair, che dopo aver lasciato la politica attiva ha fatto da consulente ai peggiori regimi, da quello egiziano di Al-Sisi a quelli dei satrapi centro-asiatici. Ma come si sa, pecunia non olet : e Cameron dall'attività di lobbista per la Greensill Capital, esercitata tanto con i sauditi che col governo di Londra, si apprestava a incassare 60 milioni di sterline. La finanziaria però è crollata per le sue dubbie pratiche d'affari e ora a Londra si reclama a gran voce che Cameron risponda a parecchie domande.

Francesca Sforza per "La Stampa" il 15 aprile 2021. Delle volte è tutta una questione di stile. Perché non è vero che sono solo di sinistra i leader che dopo aver chiuso con la grande politica si sono dati al grande business. Ma certo hanno fatto tanto più rumore. In quanti ricordano, ad esempio, che l'ex premier britannico conservatore John Major guadagnò milioni entrando - al termine del suo mandato - nel fondo di Private Equity Carlyle? Molto più difficile da dimenticare l'ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che, dismessi i panni del socialdemocratico tutto d'un pezzo, ha fatto il suo ingresso prima nel consiglio di amministrazione del colosso petrolifero di Stato russo Rosneft e oggi siede in quello del controverso gasdotto NordStream2, contrastato dagli Stati Uniti e maggior ragione di attrito tra la Germania e l'attuale amministrazione Biden. Di recente in patria gli è stato ricordato il suo passato di leader libertario e di sinistra da una sua ex sodale dei Verdi: «Come può continuare a occupare quel posto di fronte a quanto avvenuto all'oppositore di Putin, Alexiej Navalny?». In linea con la politica di comunicazione del Cremlino, la deputata Göring-Eckardt non ha ricevuto risposta dall'ex cancelliere. «Deve essere una questione legata al materialismo storico - ha osservato qualche tempo fa, non senza una certa ironia, un ex laburista oggi professore alla London School of Economics, Meghnad Desay -: Tony Blair ha sempre invidiato quanti soldi aveva raccolto Bill Clinton una volta finita la sua presidenza». E se ricordare che il materialismo storico non va confuso con interessi materiali finalizzati al proprio tornaconto potrebbe suonare come una sofisticheria fuori luogo, distinguere fra una Fondazione benefica e una partecipazione alla realizzazione di un gasdotto in Azerbaijan è senz'altro di più immediata comprensione: uno è Clinton, l'altro è Blair. Subito dopo aver lasciato la politica nel 2007 il teorico della terza Via, dei mercati che andavano mano nella mano con la difesa dello stato sociale, è prima diventato inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente e poi, attraverso la Tony Blair Associates, ha allargato il suo raggio di consulente a varie altre entità sociali (dal clima all'Africa) fino ad approdare al consorzio guidato da British petroleum per l'esportazione di gas in Europa dall'Azerbaijan (incidentalmente presieduto da Ilham Aliev, figlio del presidente precedente Haidar Aliev ed eletto all'ultima tornata con l'87% dei voti). Meno affascinato dalle autocrazie dell'Est è sembrato essere José Manuel Barroso, anche lui socialdemocratico di estrazione, e passato alla storia europea come strenuo difensore delle politiche di austerità che tanto amaramente colpirono la Grecia. Tra le ragioni del mostruoso disavanzo greco ci furono anche strumenti finanziari derivati sottratti alla contabilità pubblica dai governi dei primi anni duemila con il tacito assenso dei vertici di Goldman Sachs, lo stesso istituto presso cui Barroso divenne advisor appena terminato il suo incarico come presidente della Commissione Europea (dopo aver rispettato il periodo di 18 mesi previsto per l'assunzione di qualsiasi nuovo incarico). «Traditore un giorno, traditore sempre», strillò in prima pagina il quotidiano francese Libération. «Niente di illegale - osservò più pacatamente il presidente Hollande - ma certo così poco opportuno». E di opportunità si è tornato a parlare anche in Italia, di recente, dopo le incursioni del senatore Matteo Renzi per intervenire sul Rinascimento economico in Arabia Saudita con lo sceicco Mohammed Bin Salman. Di nuovo, niente di illegale, e nel suo caso non vale neanche l'amarissima considerazione rivolta agli altri della lista da Mark Blyth, economista della Brown University: «Si trovano adesso nello stesso luogo - l'incrocio opaco di aziende che mescolano energia e danaro - in cui si troverebbero se non avessero mai governato». Per Renzi appunto non vale, perché non ha governato abbastanza.

Alessandra Rizzo per "la Stampa" il 15 aprile 2021. «È il prossimo scandalo pronto a scoppiare. Sto parlando del lobbismo», diceva David Cameron una decina d' anni fa in un video che da giorni impazza su Twitter. «Sappiamo tutti come funziona: un pranzo, un po' di ospitalità, una parola sussurrata all' orecchio». L' ex premier aveva ragione, ma non poteva immaginare che sarebbe stato proprio lui, novello lobbista, a finire al centro dello scandalo. Adesso deve affrontare un' inchiesta ordinata dal suo eterno amico-nemico, l' attuale primo ministro Boris Johnson. Downing Street assicura che l' unico obiettivo è la trasparenza, mentre in molti sospettano un colpo basso di Johnson per danneggiare il rivale di una vita. Ma lo scandalo si sta allargando, e rischia di travolgere altri Tory e creare imbarazzo al primo ministro stesso. Al centro della vicenda c' è la Greensill Capital, una società finanziaria anglo-australiana oggi fallita di cui Cameron è stato consulente per i rapporti con il governo. E così Cameron, dimessosi da primo ministro dopo aver perso il referendum sulla Brexit nel 2016 e arruolato dalla Greensill nel 2018, si è dato da fare per garantire all' azienda un trattamento favorevole: un drink con Matt Hancock, il ministro della Salute; messaggi sul telefonino di Rishi Sunak, il ministro del Tesoro; contatti con sottosegretari vari. Per il Times, il primo a rivelare lo scandalo, Cameron avrebbe confidato ad amici di poter guadagnare fino a 60 milioni di sterline grazie alle sue azioni. Ha anche accompagnato il fondatore Lex Greensill in Arabia Saudita per incontrare il principe ereditario Mohammed Bin Salman, incontro avvenuto circa un anno dopo l' assassinio del giornalista dissidente Jamal Khasshoggi. L' ex premier ha ammesso che, nei suoi contatti con il governo, avrebbe dovuto usare solo «canali di comunicazioni formali così da non lasciare spazio a fraintendimenti». Ma ha negato ogni illecito, sottolineando di aver rispettato l' intervallo di due anni previsto dalla legge prima che ex ministri o funzionari pubblici possano intercedere presso il governo per conto di un' azienda privata. A Johnson non è bastato. Il primo ministro ha ordinato un' inchiesta «seria e indipendente» che si concluderà a giugno. Per gli osservatori, Johnson è ben felice di mettere all' angolo David Cameron dopo aver passato anni nella sua ombra (un' ombra certo ingombrante): prima a Oxford, dove Cameron ha ottenuto migliori risultati accademici; poi nel partito conservatore (all' epoca all' opposizione) dove Cameron, due anni più giovane di Boris, è diventato segretario nel 2005; infine a Downing Street, dove Cameron si è insediato nel 2010, quando Johnson era sindaco di Londra. Vite parallele in cui Johnson, più brillante e carismatico ma meno disciplinato, è finito spesso in seconda fila, ma sempre col fiato sul collo del rivale. Poi ci ha pensato la Brexit, Johnson per il divorzio, Cameron contro, a cementare la frattura e rovesciare i ruoli. Johnson corre però il rischio che il partito, spesso accusato di fare favori ad amici potenti, finisca invischiato in uno scandalo già definito il più grave nelle istituzioni britanniche da vent' anni a questa parte. Nei giorni scorsi un' altra rivelazione: un alto funzionario pubblico lavorava anche come consulente part-time della Greensill. Il Labour vorrebbe un' inchiesta più ampia (richiesta per ora respinta), e accusa Johnson di puntare il dito contro Cameron solo per distogliere l' attenzione dalle accuse di favoritismo rivolte al governo durante pandemia. Il segretario Keir Starmer azzarda un paragone con gli scandali degli Anni 90 sotto John Major, ripetendo una parola, «sleaze» (sporcizia, immoralità), che riporta alla mente quel periodo. «Clientelismo e sporcizia - dice - sono tornati nel cuore del partito conservatore».

Articolo di Rafael Ramos Bala per "la Vanguardia" pubblicato da "la Stampa" il 6 maggio 2021. Sulla via principale di Bala, cittadina di duemila abitanti nel Nordovest del Galles e uno degli ingressi al Parco Nazionale di Snowdonia, c' è una "estelada" la bandiera degli indipendentisti catalani. Più della britannica Union Jack, di cui non si vede l'ombra, la bandiera di gran lunga più presente è quella con il drago su fondo bianco e rosso, in una regione dove l'80% della popolazione parla gaelico e la stragrande maggioranza è favorevole all' indipendenza. Il movimento per l'indipendenza ha fatto molta strada negli ultimi vent' anni. Da aspirazione vista come eccentrica, marginale e irrealistica chiesta dal 10% degli abitanti, secondo un sondaggio del canale televisivo ITV di pochi giorni fa è passata a essere sostenuta dal 39% degli elettori, più o meno la stessa percentuale della Scozia poco prima del referendum del 2014. Non ancora abbastanza per vincere, ma sufficiente a spaventare Londra. Soprattutto perché il 60% dei giovani tra i 18 ei 24 anni vuole rompere i ponti. In un Paese dove la politica da tempo immemorabile è dominata dai laburisti (Aneurin Bevan, il creatore del welfare britannico, era gallese), le elezioni regionali di oggi potrebbero rappresentare un punto di svolta. I laburisti rimarranno sicuramente la forza più votata, ma l'avanzata dei conservatori e del nazionalista Plaid Cymru (PC) potrebbe rendere inevitabile un governo di coalizione. Un patto con i Tories è impensabile, ma non con gli indipendentisti, che chiederebbero in cambio un referendum sulla secessione. Il PC, che aspira ad aumentare i 10 deputati (su un totale di 60) che ha alla Senned (il Parlamento), è passato dal sostenere l'autonomia alla difesa di un nazionalismo patriottico benigno e inclusivo come quello dello SNP scozzese che fa appello a numerosi segmenti della popolazione. Compresi i laburisti che per metà sono a favore dell'indipendenza. «Dobbiamo reinventarci come nazione - afferma Adam Price, leader di Plaid Cymru -. Storicamente, siamo stati una nazione invisibile di tre milioni di persone, più povera e più piccola della Scozia, irrilevante, periferica e trascurata, la cui economia è stata distrutta da Margaret Thatcher negli Anni '80, piena di comunità postindustriali depresse, dove un terzo dei bambini vivono al di sotto della soglia di povertà, ci sono banchi alimentari e code agli ospedali. L' Inghilterra ci ha annessi nel XIII secolo ed è tempo di porre fine a ottocento anni di relazioni coloniali». Le origini del movimento indipendentista gallese risalgono al 1965, quando Westminster, nonostante le proteste, decise di sommergere la pittoresca cittadina di Capel Celyn per costruire, con i mattoni delle sue case, le pietre della sua chiesa, il calcare e l'argilla delle sue fattorie condannate, una diga che fornisce acqua alla città di Liverpool, a settanta chilometri di distanza. È stata la migliore prova di come i governi inglesi fossero disposti a sacrificare gli interessi del Galles. Ancora oggi lo slogan «Cofiwch Dryweryn» («Ricordate Treweryn») campeggia su poster, adesivi sulle auto, cartelli alle finestre e graffiti. Tuttavia, si trattava di un movimento minoritario. Nel 1979 i gallesi rifiutarono l'autonomia con un ampio margine, per approvarla diciotto anni dopo con un margine minimo (50,22%). La gestione della pandemia ha aperto un nuovo mondo nella politica del paese del drago. La gente si è resa conto che il controllo dei propri affari, della salute, dell'istruzione e dell'agricoltura, è importante. E la stragrande maggioranza sostiene l'atteggiamento più restrittivo delle sue autorità (confinamento, chiusura di pub e scuole) contro il populismo libertario di Boris Johnson. Per mesi i cartelli con la scritta «Benvenuti in Galles» sono stati sostituiti da quelli con la scritta «Vietato l'ingresso in Galles». «Le cose non torneranno mai come prima», dice il primo ministro laburista Mark Drakeford, 65 anni, un ex consigliere per la salute e le politiche sociali. Il Regno Unito ha bisogno di un nuovo assetto costituzionale. L' unica soluzione è il "confederalismo", un'associazione volontaria delle quattro nazioni, con il potere, i mezzi e il controllo distribuiti in modo equo, invece che concentrati in Inghilterra». È un concetto che l'ex primo ministro Gordon Brown approva, ma l'antitesi delle intenzioni di Johnson, sostenitore di un centralismo giacobino che non vuole ampliare i poteri autonomi, bensì tagliarli (dopo la Brexit, Westminster si è avocato i poteri lasciati da Bruxelles, invece di darli alle nazioni). Mentre la Scozia gode di un proprio sistema legale, chiese, scuole e università, le istituzioni gallesi sono state assorbite dall' Inghilterra. «Storicamente, i nostri vicini hanno rubato la nostra ricchezza, preso la nostra energia eolica, usandoci come una sorta di parco giochi. La Thatcher ha chiuso le miniere e da allora ci sono rimasti solo agricoltura, allevamento e turismo, e un'economia di bassi salari, senza posti di lavoro per le vecchie classi lavoratrici, dipendente per l'80% dal settore dei servizi - lamenta l'economista Calvian Blanchford -. A differenza degli scozzesi, non abbiamo petrolio. Londra pensa che siamo troppo poveri, troppo piccoli e troppo stupidi per essere indipendenti. Sbaglia». I sovranisti gallesi credono di aver imparato la lezione della Scozia (il cui referendum è stato sconfitto dal 55-45% sette anni fa), e non pongono il dibattito in termini filosofici, ma sui dettagli. La domanda è come si finanzierebbe un paese la cui spesa totale è di 35 miliardi di euro all' anno, ma che riceve solo 20 miliardi di tasse, con il deficit sovvenzionato dall' Inghilterra in base alla cosiddetta formula di Barnett, che calcola il contributo dello Stato centrale alle autonomie. «Vogliamo un nuovo Stato più libero, più democratico, più equo e più progressista, in cui l'indipendenza non sia incompatibile con il mantenimento dell'identità inglese da parte di coloro che lo desiderano», spiega Adam Price, leader di Playd Cymru. Il suo discorso ha sempre più seguaci a Snowdonia e nelle zone rurali dell'Ovest e del Nord del Paese, ma non è così nel Sud e nell' Est, nelle valli minerarie di Rhondda, nelle principali città e nel poroso confine con l'Inghilterra (molti inglesi lavorano dall'altra parte ma hanno le loro case e votano in Galles perché la qualità della vita è migliore e tutto costa meno). A Dwyfor Meirionydd, una delle zone più povere, con uno stipendio medio annuo di 25 mila euro pro capite, il 60% delle abitazioni sono seconde case e si vendono per oltre 400 mila euro. Le strade e le ferrovie non sono tracciate da Nord a Sud ma da Ovest a Est, sempre rivolte verso Liverpool. Una delle città più inglesi è Wrexham (65.000 abitanti), ex roccaforte laburista che alle ultime elezioni generali è passata per la prima volta dal 1935 ai conservatori, affascinata dalla Brexit e dal populismo johnsoniano, ma dove ora è nato un centro per la diffusione della lingua gaelica (parlata solo dal 20% dei gallesi). «La gente vive in uno stato di perenne malcontento», dice Carrie Harper, candidata per Plaid Cymru. Prima era contro Bruxelles e pensava che andarsene sarebbe stata la panacea. Adesso è con Cardiff e Westminster, perché non è cambiato nulla. La soluzione è l'indipendenza». «Nessun potere coloniale è generoso. Se siamo poveri, è proprio perché non siamo indipendenti», afferma Adam Price.

Torna l'incubo Scozia e Irlanda. Il Regno è di nuovo a rischio. Violenze a Belfast, aria di indipendenza a Edimburgo. A Glasgow il tributo a Filippo interrotto dai petardi. Gaia Cesare - Lun, 12/04/2021 - su Il Giornale. A Londra i fiori e la commozione. A Glasgow i petardi e il ritorno della pazzia idea dell'indipendenza. A Belfast le molotov e il terrore che i Troubles ricomincino a insanguinare le strade. Mentre l'Inghilterra si stringe attorno alla Regina per la perdita del principe Filippo, il resto del Regno respira tutto un altro clima. Non solo la guerriglia urbana e l'odio settario riaccesi dalla Brexit in Irlanda del Nord, dove gli unionisti protestanti non digeriscono i controlli in mare che hanno di fatto ripristinato un confine tra la Gran Bretagna e l'isola. L'incubo secessione in Scozia potrebbe tornare a tormentare il primo ministro Boris Johnson e Sua Maestà. Sabato a Glasgow, prima che il Celtic umiliasse il Livingston con un 6-0 sul campo da calcio, la memoria del principe Filippo è stata sbeffeggiata dall'esplosione di una serie di petardi che hanno interrotto i due minuti di silenzio in suo onore. Una doppia umiliazione per il marito di Elisabetta II, che si fregiava del titolo di principe di Edimburgo e con la Scozia aveva un forte legame. Qui aveva frequentato la Gordonstoun School che lo aveva forgiato e alla quale aveva anche mandato il figlio e futuro re, Carlo. Imbarazzo e stupore fra i giocatori in campo, la polizia sta indagando ma il timore è che si tratti di un'azione anti-inglese, a 24 giorni dal voto in cui la Scozia sceglierà il nuovo Parlamento che potrebbe dare una nuova accelerata alla richiesta di indipendenza da Londra. Il 6 maggio gli scozzesi sono chiamati a rinnovare il Parlamento di Holyrood, nato con la devolution del 1998 che il premier Johnson considera «il peggior errore» di Tony Blair. Da tempo i sondaggi dicono che lo Scottish National Party (Snp) della first minister Nicola Sturgeon potrebbe riconquistare la maggioranza assoluta, tornando a spingere, da una posizione di maggiore forza, per ottenere da Londra un secondo referendum. Gli scozzesi sono tornati a cullare l'idea dell'indipendenza da quando l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea è diventata realtà. Ma a scombinare i piani dei nazionalisti dello Snp - al potere da 14 anni - è arrivato l'ex leader del partito, l'uomo che fece il miracolo di strappare a Londra il referendum per l'indipendenza nel 2014, perso poi con il 55% dei No. Alex Salmond, 66 anni, capo del governo di Scozia dal 2007 al 2014, ha deciso di fondare un nuovo partito Alba e tornare a giocare la partita. Di mezzo c'è una faida con l'ex pupilla Sturgeon, che Salmond accusa di «leadership fallimentare» e a cui non perdona - così dice - di aver contribuito alla sua persecuzione politica. Prosciolto nel marzo 2020 da 13 accuse di violenza sessuale e tentato stupro ai danni di nove dipendenti e collaboratrici dello Snp, Salmond resta convinto che l'ex allieva e attuale capo del governo scozzese abbia contribuito a metterlo nei guai per allontanarlo dalla vita pubblica. Ecco spiegata la sua discesa in campo, mista al pallino della secessione. Salmond potrebbe togliere allo Snp l'opportunità di una maggioranza assoluta, che la Sturgeon è pronta a sventolare in faccia al premier Johnson per spingere sull'indipendenza. Ma potrebbe anche regalare alla causa una super-maggioranza, con la quale tornare all'attacco sulla secessione. Per Boris sarebbe un nuovo dilemma - concedere o no il voto - e non è detto che rifiuti, come fatto finora. Forte del successo nella campagna vaccinale anti-Covid, il premier potrebbe raccogliere il guanto di sfida. E aprire le danze per un secondo referendum. Un'altra tegola per la Regina, paladina dell'unità del Regno.

Perché in Irlanda del Nord è tornato lo spettro dei Troubles. Andrea Massardo su Inside Over il 9 aprile 2021. Tra tutti i territori del Regno Unito quello che per il momento ha risentito di più della Brexit è stata l’Irlanda del Nord. Una terra ancora fortemente spaccata – coi cattolici (discendenti della popolazione irlandese originaria dell’isola) da un lato e i protestanti (discendente, invece, dai coloni britannici) dall’altro – nella quale ha avuto luogo per decenni una guerra civile a bassa intensità. Una tensione che gli Accordi del Venerdì Santo hanno a malapena tenuto a bada. Un conflitto interno che, proprio con l’attuazione ultima della Brexit, potrebbe nuovamente accendersi, come evidenziato dagli episodi di violenza verificatisi a cavallo della Pasqua nella capitale Belfast e nella città simbolo di Londonderry (chiamata semplicemente Derry dai cattolici, che non vogliono sentire la parola “Londra” accostata al suo nome).

Tornano le violenze contro la polizia. Dallo scorso fine settimana le due città sono state teatro di scontri tra le forze unioniste e la polizia locale, in uno scenario di guerriglia che ha visto gli agenti bersaglio di bombe molotov e molteplici veicoli incendiati. Un clima di guerra urbana, dunque, che in Irlanda del Nord non si respirava da tempo. Gli episodi, iniziati proprio nel giorno del Venerdì Santo, sono stati definiti dalla polizia nordirlandese come una serie di attacchi orchestrati.  Tra i partecipanti era presente anche un’importante percentuale di giovani affiliati ai gruppi paramilitari unionisti. Particolare, questo, decisamente preoccupante per il governo britannico e l’amministrazione nordirlandese, in quanto dimostra molto bene come anche tra le giovani generazioni il conflitto sociale sia ancora ampiamente sentito. E, soprattutto, in uno scenario che conferma quelli che erano i timori delle autorità: i gruppi paramilitari di unionisti e Ira siano ancora operativi e pronti all’azione.

Martin e Biden uniti nella condanna. Le nuove violenze cittadine che hanno interessato il Nord Irlanda hanno sin da subito attirato l’attenzione internazionale, con il taoisech irlandese Michael Martin e il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden che hanno condannato gli episodi verificatisi nel Paese. I due hanno anche espresso la propria disponibilità alla collaborazione con Londra per evitare che una nuova escalation di tensioni rischi di condannare la regione ad una nuova stagione segnata dal conflitto civile. “L’unica via per uscire dalla crisi è quella di affrontare la questione con mezzi pacifici e democratici” sono state infatti le parole di Martin. Uno scenario auspicabile che, però, è storicamente difficile da portare avanti nella regione, soprattutto in virtù della distanza tra le posizioni indipendentiste e quelle lealiste. Posizioni che, in ultima battuta, la Brexit non ha fatto altro che accrescere, “allontanando” i cattolici da Dublino e “sbarrando” i rapporti con Londra per i protestanti a causa della dogana nel Mare d’Irlanda.

Johnson alla prova irlandese. Benché il governo di Boris Johnson sia segnato in modo preminente sia dalla gestione economica della Brexit sia dalla pandemia di coronavirus, sotto il piano interno il successo o il fallimento della gestione della “questione irlandese” sarà una discriminante nella valutazione del suo operato. Dopo quasi ventitré anni di tregua, il leader conservatore è il primo capo di governo chiamato nuovamente a gestire un acuirsi della crisi sociale dell’Ulster, in uno scenario complicato dalle altre criticità che in questo momento stanno attanagliando il Paese. La situazione non è infatti semplice e necessita di essere affrontata nel più rapido dei tempi possibili. Sotto il piano commerciale, infatti, è necessario porre uno sbarramento doganale tra il Regno Unito e l’Europa al fine di rispettare gli accordi commerciali con Bruxelles. Porre però tale confine sul territorio irlandese significherebbe riaccendere la rabbia cattolica, mentre porlo tra Belfast e Londra, invece, significherebbe indispettire (come avvenuto) le compagini unioniste, le quali hanno già letto la soluzione portata avanti da Londra come un “tradimento” delle promesse della campagna elettorale. E in uno scenario sociale dove la pazienza della popolazione è stata logorata anche dalle restrizioni dettate dalla pandemia, la gestione dei rapporti con il popolo è infine divenuta ancora più difficile, aprendo la strada a scenari di scontri anche per le prossime settimane. Benché al momento Londra non abbia ancora preso una decisione netta, chiaramente presto o tardi sarà obbligata a mettere in atto i controlli volti a garantire il rispetto degli accordi commerciali stipulati con Bruxelles. E in quel momento, si giungerà anche alla resa dei conti con la popolazione nordirlandese, sempre più logorata da una telenovela iniziata sin dal referendum sull’uscita del Regno dall’Unione europea. In uno scenario che, purtroppo, potrebbe vedere nuovamente l’Irlanda (a un secolo di distanza dalla nascita a Dublino dello Stato libero d’Irlanda) teatro di uno scontro che ha segnato la sua storia sin dalla sua prima occupazione.

Alessandra Rizzo per “la Stampa” il 22 marzo 2021. Un documento riservato di cui è entrato in possesso l'«Observer», il domenicale del Guardian, getta una pesantissima ombra sulla polizia metropolitana di Londra (Met) travolta da centinaia di denunce e segnalazioni per abusi sessuali e comportamenti impropri da parte di agenti contro donne che avrebbero dovuto proteggere, comprese alcune vittime di stupri. A far rumore è una pioggia di fascicoli declassificati che aumentano la pressione sul Met e indirettamente sul governo, già nel mirino dell' opinione pubblica dopo i maltrattamenti alle donne durante la veglia di sabato 13 marzo per il femminicidio di Sarah Everard, la donna di 33 anni rapita il 3 marzo e uccisa a Londra mentre tornava a casa. Per la sua scomparsa è stato proprio arrestato un agente del Met, Wayne Couzens, già accusato da un' altra donna, di atti osceni in un fast food eppure regolarmente al suo posto come agente della sicurezza a Westminster. I numeri scoperti dall' Observer sono impietosi: tra il 2012 e il 2018 sono state 594 le segnalazioni di reati e comportamenti impropri da parte di quegli stessi agenti che dovrebbero vigilare contro la violenza di genere. Di queste 119 sono state accolte e 63 hanno portato a licenziamento, pensionamento o dimissioni. Ma, come ha notato Nazir Afzal, ex procuratore capo della corona per il nord-ovest dell' Inghilterra, «i procedimenti disciplinari non possono sostituire i procedimenti giudiziari». I dettagli sono agghiaccianti e l' elenco di violenze apre seri interrogativi sul Met. Tra i casi quello di un poliziotto che avrebbe avuto rapporti sessuali con una vittima di stupro. La donna aveva accusato l'agente di avere «approfittato della sua vulnerabilità» e di avere «fatto sesso con lei in due occasioni»: l' ufficiale è stato successivamente licenziato. Un altro agente è stato costretto a lasciare il Met con l' accusa di avere una «relazione sessuale con una residente di un rifugio per donne», un centro che accoglie le vittime delle violenze domestiche. Ma c' è anche un poliziotto, che poi si è dimesso, accusato di aver violentato le donne che aveva incontrato in una discoteca. Dossier delicato, perché la settimana scorsa Downing Street ha svelato un piano di protezione per le donne che prevede la presenza di agenti in borghese nei nightclub, e che ha suscitato derisione e proteste da parte dei movimenti femministi che chiedono chi, a questo punto, protegga le donne dalla polizia. Non mancano i casi di abusi domestici nella vita privata come quello del poliziotto, poi licenziato, che «ha violentato sua moglie numerose volte in otto anni di matrimonio». C'è anche chi ha caricato immagini oscene di bambini sul proprio telefonino e chi ha inviato post sull' app di messaggistica Kik nei quali confessa il suo desiderio di «violentare le donne nella foto e farle violentare da altri. Le immagini - scrive l' Observer - sembrano essere quelle di sua figlia e sua nipote».

Enrico Franceschini per "la Repubblica" il 15 marzo 2021. C'era una volta Scotland Yard: basta la parola a evocare il corpo di polizia più famoso del mondo. Il primo a usare metodi di investigazione scientifica. Un simbolo dell'understatement inglese: i suoi " bobbies " con il buffo elmetto mantenevano l'ordine disarmati. E una forza efficace nella prevenzione del terrorismo: a dispetto dei numerosi attentati degli ultimi anni, sono stati molti di più quelli prevenuti. Eppure, la Metropolitan Police, questo il nome ufficiale, è sotto accusa come raramente nella sua storia: per il rapimento e l'omicidio di Sarah Everard da parte di un poliziotto, una settimana fa; e per la reazione «sproporzionata, inaccettabile, scioccante», secondo tutti i partiti, alla veglia funebre organizzata sabato da centinaia di donne per commemorarla e «riprendersi le strade» dalla violenza maschile. Una manifestazione proibita per le norme sul distanziamento sociale ma pacifica, che le forze di sicurezza hanno affrontato caricando, picchiando, arrestando indiscriminatamente. La prima nel mirino delle accuse è Cressida Dick, capo di Scotland Yard e per amara ironia prima donna a occupare il prestigioso incarico. «Milioni di donne hanno perso fiducia in lei, dovrebbe andarsene», dice il liberaldemocratico Ed Davies. «I chiarimenti forniti finora non sono sufficienti», gli fa eco Priti Patel, ministra degli Interni e alta esponente conservatrice. «Abbiamo visto scene inquietanti» afferma Keir Starmer, leader del Labour. «Mi avevano garantito che la veglia sarebbe stata controllata con sensibilità », rincara la dose Sadiq Khan, sindaco laburista della capitale. «Non è stato così. Ho chiesto al capo della polizia di venire a farmi rapporto. Non sono soddisfatto della sua spiegazione». Come chi scrive ha scoperto intervistandola qualche anno fa, Cressida Dick ha un carattere di ferro: altrimenti, minuta come uno scricciolo e omosessuale, non sarebbe arrivata a un posto così importante. «Difendo l'operato della polizia e non intendo dimettermi», ha infatti reagito. Fu già coinvolta in un brutto episodio nel 2005, quando agenti ai suoi ordini, il giorno dopo gli attentati di quattro kamikaze islamici nei treni della Tube, uccisero per errore un giovane brasiliano innocente, scambiandolo per un terrorista: ma venne assolta. Al di là delle richieste di dimissioni, la risposta agli ultimi due imbarazzanti incidenti va cercata lontano: bisogna tornare al 2010, quando dopo un lungo governo laburista vennero al potere i conservatori, prima con David Cameron, poi con Theresa May e Boris Johnson, rispondendo alla crisi finanziaria globale del 2008 con una politica di austerità. Nella scure dei tagli alla spesa pubblica finì pure la polizia: a livello nazionale il numero di agenti è calato del 15 per cento e di ausiliari del 40, colpendo soprattutto Scotland Yard, la forza più grande del Regno Unito. A Londra sono sparite le ronde di quartiere. E il risultato si vede nelle statistiche: nell'ultimo decennio i reati in città sono passati da 77 a 101 ogni mille abitanti, il crimine è cresciuto cinque volte più che nel resto del Paese, nell'ultimo anno gli omicidi sono aumentati del 23 per cento, lo spaccio di droga del 22, furti e rapine del 15, con 20 mila abusi sessuali contro le donne e 16 mila accoltellamenti, 43 al gi orno. Un tempo relativamente sicura, Londra è diventata pericolosa come o più di New York. La soluzione? «Più soldi alla polizia e più biblioteche, centri sociali, educazione al rispetto delle donne», scrive il Guardian . Elementare Watson, direbbe Sherlock Holmes.

Cristina Marconi per "Il Messaggero" il 15 marzo 2021. C'era bisogno di ammanettare e fermare con violenza i partecipanti alla veglia pacifica in memoria di Sarah Everard a Clapham Common, il parco accanto al quale è passata nella sua ultima passeggiata prima di essere rapita e uccisa da un poliziotto fuori servizio a inizio marzo? Dame Cressida Dick, primo capo donna della Metropolitan Police, ritiene che gli agenti abbiano agito in modo giusto per via delle norme anti-Covid e ha respinto i numerosi appelli a dimettersi, ma le immagini violente della manifestazione di sabato sera sono un pugno nello stomaco per tutte le persone, soprattutto donne, che sono andate a porgere un fiore, ad accendere una candela o a fare un discorso ad alta voce per la giovane concittadina morta. E sia la ministra dell'Interno Priti Patel che il sindaco di Londra Sadiq Khan hanno chiesto di vederci chiaro nella gestione di un evento che non aveva motivo di trasformarsi in caos, anche se Patel, che ha definito le immagini disturbanti, avrebbe confermato la sua fiducia a Dame Cressida. «Come sapete, sono la prima donna capo della Met, e forse sono ancora più sconvolta (per la sorte di Sarah, ndr) per via di questo», ha spiegato Dick, aggiungendo: «Quello che è successo mi rende più determinata, e non meno, a guidare la mia organizzazione». Sadiq Khan si è detto «non soddisfatto dalle spiegazioni ricevute». Con centinaia di manifestanti furibonde fuori da Scotland Yard, Dick ha spiegato di essere determinata a rendere le strade di Londra più sicure, ma le attiviste contro la violenza domestica sono determinate a non accettare nulla che somigli alle soluzioni del passato e soprattutto parta da una colpevolizzazione della vittima. Alla veglia, la principale di quelle che si sono tenute pacificamente in molti luoghi della città e del paese, è comparsa anche Kate Middleton, giunta in forma privata a deporre un mazzo di fiori gialli per la Everard e tra i pochissimi senza mascherina. Kensington Palace ha fatto sapere che la duchessa ha voluto essere presente anche «perché ricorda cosa si prova a camminare sole nella notte a Londra», riferendosi ai tempi precedenti al fidanzamento con William. A Clapham Common, a sud di Londra, c'erano circa 1500 persone, in una giornata in cui ci sono stati molti assembramenti in una Londra ancora ufficialmente in lockdown e dove ad esempio i banchi di Camden Market erano tutti aperti e decisamente molto affollati senza che nessuno dicesse niente. «Cosa dobbiamo fare ora? Una manifestazione più grande!» ha commentato Patsy Stevenson, studentessa di Fisica al Royal Holloway diventata, con la sua chioma rosso fiammeggiante tenuta al suolo da un poliziotto, il simbolo di un movimento che chiede che dal dolore e dalla rabbia per l'omicidio di Sarah emerga un cambiamento concreto e che ieri si è nuovamente riunito davanti al Parlamento. Patsy ha raccontato di essersi ritrovata circondata da dieci agenti sebbene sia esile e piccola di statura e di aver dovuto pagare 200 sterline di multa. Esempio dei metodi brutali usati per disperdere la manifestazione le immagini mostrano donne ammanettate, strattonate mentre venivano gridati slogan come «arrestate i vostri!» e «vergogna!», una sanguinante dopo essersi presa una gomitata in faccia organizzata inizialmente da un movimento che si chiama Reclaim our streets, ossia Riprendiamoci le strade, che però dopo che alla veglia non era stata data l'autorizzazione aveva chiesto ufficialmente di trasformare la protesta in un evento virtuale e di accendere una candela davanti alla porta di casa alle 9,30 di sera, come avvenuto anche a Downing Street. La compagna del premier Boris Johnson, Carrie Symonds, è anche lei particolarmente sensibile al tema, essendo stata vittima in passato di un tassista londinese, John Worboys, che negli anni ha drogato e abusato di un numero impressionante di donne - 12 confermate, ma si pensa siano almeno un centinaio prima di essere fermato. Intanto ieri mattina l'agente accusato dell'omicidio della trentatreenne Sarah, Wayne Couzens, è comparso per la prima volta in tribunale, con una tuta grigia e una ferita sulla fronte che si sarebbe procurato da solo in cella. Mentre il giudice gli leggeva le accuse di rapimento e omicidio, l'uomo ha guardato il soffitto e a un certo punto avrebbe sbadigliato. Il processo inizia il 16 marzo.

Kate Middleton a Clapham Common. Omicidio Sarah Everard, polizia reprime veglia: agente due volte in ospedale dopo l’arresto. Redazione su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Non si placano le polemiche e le tensioni sulla Metropolitan Police di Londra, sotto pressione perché renda conto dell’intervento alla veglia di sabato sera in ricordo di Sarah Everard, la 33enne dirigente marketing scomparsa lo scorso 3 marzo mentre tornava a casa dopo aver visto un amico e del cui rapimento e assassinio è accusato un poliziotto. Immagini “sconcertanti”, le ha definite la ministra dell’Interno Priti Patel, che sull’operato della Met ha chiesto un rapporto completo. Una risposta “né adeguata né proporzionata” per il sindaco di Londra, Sadiq Khan, che ha detto di non aver ricevuto chiarimenti esaustivi dalla polizia e chiederà quindi indagini ulteriori. Quattro le persone arrestate alla veglia a Clapham Common, in cui centinaia di persone, in maggioranza ragazze e donne, si sono radunate per ricordare la 33enne rapita e sequestrata nelle strade di Londra. Attorno a una distesa di fiori e messaggi di dolore, con appelli contro la violenza di genere, hanno acceso in silenzio centinaia di torce. La veglia non era autorizzata e la polizia è intervenuta, accolta dal grido “Vergogna!” quando ha tentato di far allontanare le partecipanti in nome delle misure anticontagio. Vari video hanno mostrato gli agenti che strattonavano le presenti, le immobilizzavano a terra, ammanettandole e portandole via. Al lutto e alla rabbia per l’assassinio si è aggiunta l’accusa di azione sproporzionata delle forze dell’ordine. La vice commissaria di polizia Helen Ball ha difeso gli agenti, affermando che la folla costituiva un concreto rischio di trasmissione del virus. Ma da varie parti politiche si alzano richieste di dimissioni di Cressid Dick, direttrice di Scotland Yard. Gli agenti sono stati accolti con disprezzo dalle presenti alla veglia, visto che il presunto assassino di Everard è il 48enne Wayne Couzens, agente della stessa Metropolitan Police, rimasto in servizio nella sorveglianza armata delle ambasciate a dispetto di almeno due denunce recenti per atti osceni. L’uomo è in carcere e vi resterà almeno fino a martedì 16 marzo, quando è prevista una nuova udienza; è accusato di sequestro di persona e omicidio. Da quando è in carcere, è stato portato due volte al pronto soccorso per ferite alla testa che si sarebbe procurato da solo. Sarah Everard è scomparsa la sera del 3 marzo, mentre camminava nel sud di Londra e rincasava a Brixton. È stata trovata morta nove giorni dopo (12 marzo), a circa 78 chilometri dall’ultimo luogo nel quale era stata vista la donna, in una zona boschiva nella contea del Kent non distante dalla casa in cui l’agente Couzens viveva con moglie e figlie. Il corpo si trovava in una borsa per lavori edili e l’identificazione è stata effettuata tramite impronte dentali. Nello stesso orario in cui Sarah tornava verso casa, Couzens smontava dopo un turno di guardia all’ambasciata americana. Nessun elemento avrebbe legato le due persone se non fosse stato per una serie di immagini catturate da varie telecamera di sicurezza montante agli angoli delle strade, sui citofoni di case e sugli autobus, che hanno mostrato l’auto di Couzens nella zona in cui la 33enne aveva dato segni di vita l’ultima volta. L’auto è stata seguita, telecamera dopo telecamera, fino al paesino del Kent dove abita l’agente, entrato nella Metropolitan Police nel 2018. Nei giorni successivi alla scomparsa di Sarah, i colleghi di Couzens hanno riferito di aver notato in lui segni di stress. Poi, martedì scorso, è scattato l’arresto. Il caso ha riacceso il dibattito sulla sicurezza delle donne e sulla violenza di genere, dando il via al movimento "Reclaim These Streets", riprendiamoci le strade, per affermare il diritto delle donne di vivere in sicurezza negli spazi pubblici. Khan, annunciando la richiesta di ulteriori indagini, ha aggiunto: “Capisco pienamente il motivo per cui donne, ragazze e persone loro alleate hanno voluto una veglia per ricordare Sarah e tutte le donne soggette a violenza o uccise per mano di uomini, rivendicando gli spazi pubblici dove vengono fatte sentire non al sicuro”.

Alla veglia per Sarah Everard, la donna uccisa (da un poliziotto) mentre rincasava, la polizia ha voluto dimostrare che le donne sbagliano a sentirsi insicure: loro, per proteggerle, ci sono sempre (la foto di Patsy Stevenson, 33 anni, alta 1,58, ha fatto il giro del mondo) — Irene Soave (@irene_soave) March 14, 2021

Tra quante chiedono la fine della violenza contro le donne, anche Kate Middleton, duchessa di Cambridge, che sabato pomeriggio ha posato dei fiori al memoriale per Sarah. “Ricorda bene che cosa voglia dire camminare di notte nelle strade di Londra”, ha detto un portavoce.

Londra, tutti chiedono le dimissioni di Cressida Dick, capo di Scotland Yard. Enrico Franceschini su La Repubblica il 14 marzo 2021. Anche Kate Middleton alla protesta contro la violenza sulle donne: “So cosa prova una donna quando rientra a casa da sola la sera”. La polizia sempre più sul banco degli imputati. E’ questo il verdetto del mondo politico, dei giornali inglesi e dell’opinione pubblica, dopo due fatti che hanno scioccato la Gran Bretagna: una settimana fa il rapimento e l’assassinio di una giovane donna, Sarah Everard, da parte di un poliziotto delle forze di élite addette alla protezione del governo e delle ambasciate; seguito, ieri sera, dalla eccessiva reazione delle forze dell’ordine alla veglia funebre, non autorizzata a causa delle restrizioni imposte dal Covid, indetta per commemorare la morte di Sarah e “riprendere le strade” dalla violenza maschile, con centinaia di donne arrestate, malmenate e caricate dagli agenti in un parco di Londra. Praticamente tutti i partiti chiedono oggi le dimissioni di Cressida Dick, il capo di Scotland Yard, per amara ironia la prima donna alla guida della Metropolitan Police londinese, oltre che rappresentante di una diversificazione degli uomini e delle donne in divisa in quanto lesbica. “Ha perso la fiducia di milioni di donne in tutto il Regno Unito e dovrebbe andarsene”, afferma il leader liberaldemocratico Ed Davies. “Le immagini degli incidenti di sabato sera nella capitale sono preoccupanti, ci aspettiamo un completo rapporto da Scotland Yard per spiegare come è accaduta una cosa simile”, dice senza mezzi termini la ministra degli Interni e alto esponente conservatore Priti Patel. “Scene inaccettabili”, le fa eco il sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan, aggiungendo che si aspetta “una urgente spiegazione” da Cressida Dick: “La polizia ha la responsabilità di fare rispettare le leggi sul distanziamento sociale necessarie per la pandemia, ma dalle foto che abbiamo visto è chiaro che la reazione delle forze dell’ordine non è stata appropriata né proporzionata”. Sullo stesso tono Keir Starmer, leader del Labour: “Le scene che abbiamo visto a Clapham Common”, il parco sul cui limitare Sarah era stata inquadrata per l’ultima volta da una telecamera a circuito chiuso e dove si è svolta la veglia funebre, “sono profondamente inquietanti. Le donne venute a commemorarla avrebbero dovuto poterlo fare in modo pacifico. Condivido la loro rabbia per la maniera in cui sono state trattate. Questo non era il metodo giusto per garantire l’ordine e la sicurezza durante una protesta simile”. La deputata dei Tories Caroline Nokies, che presiede la commissione Donne e Eguaglianza della camera dei Comuni per conto della maggioranza di governo di Boris Johnson, concorda: “Sono veramente scioccata. In questo paese l’ordine viene fatto rispettare con il consenso, non calpestando l’omaggio a una donna assassinata e gettando a terra altre donne. La polizia ha gravemente sbagliato”. Sebbene la sua collega laburista Jesse Philips dica che “Cressida Dick può dare le dimissioni o restare, ma questo non basterà a risolvere il problema degli abusi contro le donne”, sembra difficile che la capa di Scotland Yard, già coinvolta in passato in un’altra vicenda controversa (quando poliziotti ai suoi ordini uccisero per errore un giovane brasiliano innocente in metrò, scambiandolo per un terrorista islamico, all’indomani degli attentati dei kamikaze a Londra nel 2005), possa mantenere il suo posto. Il vicecapo di Scotland Yard, un’altra donna, Helen Ball, prova a difendere l’operato degli agenti sostenendo che centinaia di donne erano le une vicine alle altre e rappresentavano una minaccia di contagio di Covid: “Non volevamo agire con la forza, ma siamo stati costretti per proteggere la sicurezza della gente, era la cosa responsabile da fare”. Un comunicato di Sisters Uncut, una delle organizzazioni che hanno organizzato la veglia, dà tuttavia una diversa versione del comportamento degli agenti: “Poliziotti maschi hanno aspettato che calasse il sole per cominciare a strattonare e ammanettare le donne venute alla manifestazione”. Qualche ora prima, dopo che un giudice dell’Alta Corte aveva proibito l’evento con la motivazione del lockdown, un’altra associazione promotrice della protesta, Reclaim These Street, lo aveva cancellato, accusando tuttavia la forza pubblica di essersi rifiutata di dialogare per trovare la maniera di commemorare Sarah senza mettere a rischio la salute dei cittadini, per esempio concordando la necessaria distanza sociale. In alternativa, l’associazione ha invitato donne e uomini ad accendere una candela sulla porta di casa, come ha fatto anche il primo ministro Johnson sul portone di Downing Street. Ma centinaia di donne si sono lo stesso recate spontaneamente a Clapham Junction per esprimere cordoglio per Sarah e per protestare contro le violenze contro le donne. Le norme contro il coronavirus, del resto, non vietano di uscire di casa per una passeggiata e ognuna di loro poteva pretendere di essere andata nel parco da sola o con un’amica – il limite per gli assembramenti è infatti di due persone. E nel parco, poco prima che al calare del tramonto scoppiassero gli incidenti, c’è andata anche Kate Middleton, la duchessa di Cambridge, moglie del principe William, secondo in linea per il trono, depositando – senza mascherina sul volto – un mazzo di fiori in memoria di Sarah. “Anch’io so”, ha dichiarato Kate, “cosa prova una donna quando rientra a casa da sola la sera”.   

Luigi ippolito per il "Corriere della Sera" il 3 magio 2021. «Sostanzialmente, Boris non può permettersi di fare il primo ministro»: perché è troppo povero. Il fendente anonimo lo ha menato al Sunday Times un consigliere di Downing Street: e così il domenicale inglese ha provato a fare i conti in tasca a Johnson, scoprendo che il capo del governo britannico è sul lastrico, continuamente assillato da problemi finanziari che lo espongono a pressioni di ogni tipo. All'origine della storia c'è lo scandalo della ristrutturazione dell'appartamento privato a Downing Street, dove Boris abita con la fidanzata, Carrie Symonds: il conto da 58 mila sterline sarebbe stato pagato, almeno all'inizio, dai finanziatori del partito conservatore. Johnson non ha dichiarato - come avrebbe dovuto fare - questa elargizione: il che ha fatto scattare diverse inchieste che potrebbero addirittura condurre alla sua incriminazione. Molto si è ironizzato sul restyling della residenza del premier, fortemente voluta dalla fidanzata: lei ha scelto costosi arredamenti di una designer alla moda, perché apparentemente orripilata dai mobili «da grande magazzino» lasciati indietro da Theresa May. Un gusto eccessivo e barocco che le è valso l'epiteto di «Carrie Antonietta» e che è sfociato in un conto totale che si sussurra fosse da 200 mila sterline (circa 250 mila euro): e che è stato presentato al misero Boris solo a cose fatte. Certo, a prima vita potrebbe sembrare bizzarro che un premier britannico sia di fatto al verde, soprattutto se si considera lo stipendio ufficiale da 157 mila sterline l'anno, che sono circa 185 mila euro. Ma già questo ha rappresentato un salasso per Johnson, rispetto ai suoi introiti precedenti: come opinionista del Telegraph guadagnava oltre 300 mila euro, cui si sommavano gli emolumenti per libri e discorsi. In totale, prima di assumere la leadership del Paese, Boris portava a casa oltre mezzo milione l'anno. Adesso, quello stipendio da premier al netto dell'imposta sui redditi fa 95 mila sterline (circa 110 mila euro). Ma poi ci sono da pagare almeno diecimila euro di tasse sull'appartamento di Downing Street: e inoltre Johnson deve coprire di tasca sua i pasti personali e anche le spese per gli ospiti, se riceve qualcuno privatamente nelle residenze ufficiali. Ma è soprattutto la sua disordinata vita privata a pesare sui conti di Boris. Il divorzio dalla ex moglie Marina, abbandonata per Carrie, è stato particolarmente costoso; poi ci sono gli svariati figli da mantenere, cioè i sei ufficiali (quattro da Marina, uno da un'amante e uno da Carrie) e chissà quanti altri ufficiosi. Johnson infine ha acceso un mutuo da oltre un milione e mezzo di euro per acquistare una casa assieme a Carrie nel sud di Londra e deve provvedere alle spese del suo cottage nell’Oxfordshire. Insomma, non c'è da scialare. Ed è per questo che Boris avrebbe chiesto ai generosi finanziatori del partito conservatore di ripianare la cassa: incluso accollarsi i costi della baby-sitter per il suo ultimo figlio, Wilfred, che ha appena compiuto un anno, e quelli per il suo personal trainer, che lo ha aiutato a smaltire i chili di troppo. Ma come ha detto un donatore anonimo, «non mi va bene che si mi si chieda di pagare per pulire il sedere del bebè del primo ministro»: perché a Londra una baby-sitter costa quasi 2500 euro al mese (e un personal trainer 200 euro all'ora). Per far quadrare i conti, Boris avrebbe anche chiesto un prestito in banca: ma neppure questo è stato dichiarato. E il problema non è soltanto di trasparenza, che pure è dovuta per legge: un primo ministro in bancarotta può essere soggetto a pressioni ogni tipo, se non a ricatti, oltre che essere distratto dai suoi compiti. Nell'ultima settimana le vicende della caotica vita di Johnson hanno riempito i giornali inglesi e i laburisti sono partiti all'attacco, gridando allo scandalo e alla corruzione. Molti sostengono che l'opinione pubblica non ci faccia molto caso, perché si dà per scontato che Boris sia un personaggio per niente irreprensibile. Ma in realtà l'elettorato comincia a prendere nota: gli ultimi sondaggi danno i laburisti appena un punto sotto i conservatori, che prima godevano invece di un largo vantaggio. E questo a pochi giorni da una importante tornata di elezioni amministrative: se gli scandali dovessero pesare sul voto, per Johnson, già sotto assedio sul fronte interno, si aprirebbe una fase molto delicata.

Alessandra Rizzo per la Stampa il 7 marzo 2021. Dopo la ristrutturazione, costosissima, dell' appartamento di Downing Street, arriva quella della sala stampa, rinnovata sul modello Casa Bianca. Costo: oltre due milioni e mezzo di sterline. Le spese esorbitanti di Boris Johnson stanno scatenando polemiche in Gran Bretagna, tanto più che arrivano nel mezzo della crisi economica da Covid: l' aumento di un misero 1% agli stipendi del personale sanitario impegnato in prima linea contro la pandemia ha provocato critiche feroci; gli aiuti umanitari ai Paesi in guerra stanno per essere tagliati; e persino la Regina deve rinunciare agli aerei di stato. «Priorità distorte», accusa Angela Rayner dell' opposizione laburista. «Johnson trova milioni per soddisfare la sua vanità mentre va a mettere le mani del tasche del personale sanitario». Johnson da tempo intende tenere un punto stampa quotidiano davanti alle telecamere sullo stile dei briefing del portavoce del presidente Usa. Ha assunto un' ex giornalista esperta di comunicazione per essere il volto del governo, con uno stipendio, pare, di 100 mila sterline l' anno. E ha, appunto, rifatto la sala stampa: tra elettricità, banda larga, illuminazione e quant' altro, il conto, in un edificio storico tutelato, è arrivato a due milioni e seicento mila sterline, circa tre milioni di euro. «Queste spese sono nell' interesse pubblico, i nuovi briefing ripresi dalle telecamere serviranno ad aumentare la trasparenza», si è difeso il governo. Ma l' opposizione non ci sta. «Dovrebbe vergognarsi», dice la Lib Dem Daisy Cooper, che accusa il primo ministro di essersi fatto «uno scintillante studio televisivo nuovo». La notizia arriva a ridosso delle polemiche sul rinnovo della residenza ufficiale del primo ministro voluta dalla fidanzata Carrie Symonds, che, stando alle cronache, avrebbe gusti alquanto dispendiosi e si sarebbe affidata ad una interior designer di lusso, sbarazzandosi del decor più sobrio della precedente inquilina Theresa May. Il restyling potrebbe costare addirittura 200 mila sterline, stando al Daily Mail. Secondo il quotidiano, Johnson avrebbe pensato di istituire un ente di beneficienza con lo scopo di preservare gli appartamenti di Downing Street: in pratica dare il conto a qualcuno dei ricchi benefattori del Partito Conservatore. Notizia finora non smentita. Rinnovare l' appartamento è consuetudine per i primi ministri entranti, e in altri tempi le indiscrezioni sui lavori di casa sarebbero relegate nelle pagine delle riviste di gossip, ma questi sono tempi tutt' altro che normali. Il governo spenderà complessivamente 352 miliardi di sterline per far fronte alla pandemia. In attesa di aumentare le tasse, tira la cinghia dove può. Ha già abolito il ministero per lo Sviluppo Internazionale e adesso, secondo il «Times», intende tagliare gli aiuti umanitari nelle zone di conflitto, tra cui Libia e Siria, di circa due terzi. I quattro aerei in uso alla famiglia reale sarebbero in procinto di essere ritirati per via di tagli previsti al ministero della Difesa.

Andrea Bonanni per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 17 febbraio 2021. A gennaio la Borsa di Amsterdam ha superato quella di Londra come volume di transazioni. In media, nel corso del mese, la piazza olandese ha registrato scambi per 9,2 miliardi di euro al giorno, contro gli 8,6 della City. «Sospetto che questo segni un cambiamento permanente nello spostamento degli scambi dalla Gran Bretagna verso la Ue», ha spiegato Steven Maijoor, responsabile dell' Esma, l' agenzia europea per i mercati finanziari. La perdita del primato, un tempo incontestato, di Londra come piazza finanziaria europea si accompagna ad altri fenomeni. Anche il mercato degli swaps in euro sta lasciando la Gran Bretagna per migrare verso le piazze europee e americane: rispetto a luglio, la quota trattata dalla City è passata da poco meno del quaranta per cento del totale a poco più del dieci. «Nonostante abbiamo fornito tutta la documentazione, la Ue non ci ha ancora concesso lo stato di equivalenza sui servizi finanziari. Ciò ha comportato che un certo numero di azioni che prima erano trattate nel Regno Unito si siano spostate verso le piazze europee su suggerimento del regolatore Ue. Ma noi pensiamo che la frammentazione dei mercati azionari non sia nell' interesse di nessuno», ha dichiarato il portavoce del premier Boris Johnson. Di tutt' altro avviso il commissario europeo ai servizi finanziari, Mairead McGuinness. Bruxelles continua a sostenere che la Ue non intende concedere l' equivalenza della City con le sue piazze finanziare fino a che non avrà garanzie che la regolamentazione britannica non intenda discostarsi da quella europea. Garanzia che gli inglesi non vogliono dare. Del resto, il conto della Brexit diventa più salato di giorno in giorno. Secondo un sondaggio, la metà degli esportatori britannici lamentano difficoltà ad adattarsi alle nuove regole in vigore per vendere i loro prodotti sul territorio europeo. Nel gennaio di quest' anno le merci transitate nei porti inglesi sono calate del 68 per cento rispetto all' anno precedente. Certo, anche l' epidemia gioca un ruolo in questo crollo, ma l' effetto Brexit è innegabile. Lo conferma il fatto che, nelle previsioni economiche pubblicate la settimana scorsa, il commissario Paolo Gentiloni ha indicato che l' uscita del Regno Unito taglierà il Pil europeo dello 0,5 per cento, mentre quello britannico subirà una ben più pesante riduzione del 2,2 per cento.

L'economia nel Regno Unito. Brexit e Covid: l’anno nero del Regno Unito. Vittorio Ferla su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. L’economia del Regno Unito ha subito nel 2020 il suo più grande crollo in più di tre secoli, con il Pil in calo di quasi il 10%. Colpa di Covid-19, ovviamente, che ha bruciato la crescita degli ultimi 7 anni. Una sorta di gioco dell’oca che riporta il paese ai livelli del 2013. Il crollo del 9,9% del Pil del Regno Unito ha superato il crollo del 9,7% subito durante la Grande Depressione del 1929. Tuttavia, c’è anche qualche motivo di speranza: secondo l’Office for National Statistics, proprio negli ultimi mesi del 2020 si stima un aumento dell’1% del Pil. «L’economia ha subito un grave shock a causa della pandemia, avvertita dai Paesi di tutto il mondo», ha detto il ministro delle finanze britannico Rishi Sunak. In più, l’interruzione degli scambi tra l’Ue e il Regno Unito, con il definitivo passaggio alla Brexit del 1° gennaio, comincia a pesare sulle attività commerciali. Gli esportatori britannici faticano a portare i loro prodotti in Europa a causa di ritardi alle frontiere e ostacoli nei nuovi sistemi doganali. Le aziende che vendono prodotti alimentari freschi hanno dovuto buttare i loro prodotti. I nuovi accordi commerciali aggiungeranno costi aggiuntivi alle società britanniche, che dipendono dall’Europa per gran parte delle loro importazioni ed esportazioni. La Financial Conduct Authority ha rilevato che quasi il 40% degli adulti britannici ha sofferto finanziariamente a causa della pandemia, con i lavoratori più giovani, i neri e i lavoratori autonomi tra i più colpiti. A fronte di questa difficoltà legate alla Brexit, resta però centrale il ruolo di Londra nelle transazioni offshore (il cosiddetto sistema dell’eurodollaro): ogni mese affari per un valore di trilioni di sterline attraversano la City, anche se solo una piccola parte delle attività economiche reali si svolge effettivamente all’interno dei confini del paese. Secondo l’ultima indagine della Banca d’Inghilterra, il fatturato medio giornaliero in valuta estera ha raggiunto i 3,6 trilioni di dollari nell’aprile 2019. Il commercio di derivati – contratti utilizzati dalle aziende per proteggersi dai movimenti di mercato – valeva 3,7 trilioni di dollari nello stesso periodo. Aiutata dalla politica di deregolamentazione del governo conservatore sotto Margaret Thatcher negli anni ’80, la “City” ha attirato le grandi banche dagli Stati Uniti. Oggi, secondo l’agenzia di lobby The City Uk, i servizi finanziari e i settori correlati danno lavoro a più di 2,3 milioni di persone in tutta la Gran Bretagna. Ma i lavori meglio pagati si trovano nella City: nell’aprile del 2019 il londinese medio ha guadagnato 736,50 sterline a settimana, ovvero 150 sterline in più rispetto alla media nazionale dei cittadini britannici. La diseguaglianza con il resto del paese è forte. Tuttavia, secondo la City of London Corporation, l’ente di governo della City, il settore dei servizi finanziari del Regno Unito contribuisce con 75,6 miliardi di sterline di tasse all’anno alla ricchezza nazionale. La City gioca dunque un ruolo vitale nella ripresa economica del Regno Unito durante la pandemia. Catherine McGuinness, policy chair della City of London Corporation, avverte: «Il Regno Unito continua a guidare il mondo quando si tratta di servizi finanziari e professionali, ma ora non è il momento di riposare sugli allori». Nei prossimi sarà vitale investire in infrastrutture e competenze in tutto il paese.

Erica Orsini per Il Giornale il 28 aprile 2021. Una ristrutturazione forse illegale, le frasi scioccanti sui morti per Covid, quel sì preventivo al pasticcio della Super Lega. Boris Johnson non è neppure riuscito a godersi il successo della campagna vaccinale che già deve far fronte a una serie di accuse lanciate dal suo ex spin doctor, il diabolico Dominic Cummings. L'artefice della Brexit, messo elegantemente alla porta durante la pandemia dallo stesso premier, è uno che pianifica le sue vendette nei minimi dettagli per poi colpire al cuore quando meno te l'aspetti. E di sicuro, il primo ministro non si aspettava questa pugnalata proprio adesso che le cose per lui andavano a gonfie vele. Dopo aver trasformato il risultato della campagna vaccinale nel primo successo della Brexit, BoJo aveva assistito gongolante alla ripresa dell'economia e al rialzo della sterlina. I sondaggi davano i Conservatori avanti di 10 punti nei confronti dell'opposizione proprio alla vigilia delle elezioni amministrative del 6 maggio in cui già si preannunciavano altri trionfi. Questo fino a due giorni fa, quando Cummings, con una sventagliata di accuse sul suo blog personale e sulla stampa, è riuscito a rimescolare le carte, riducendo della metà il vantaggio dei conservatori e causando un clamoroso danno d'immagine al suo ex amico e boss BoJo. Cummings, che l'ex premier David Cameron già definì «uno psicopatico in carriera», promette altre rivelazioni tutte documentate da rapporti segreti, registrazioni, email compromettenti. E c'è da credergli poiché nessuno più di lui era a conoscenza degli affari e dei segreti di Downing Street. Il primo che ha fatto emergere è la stata la storia della ristrutturazione dell'appartamento del primo ministro, fortemente voluta dalla moglie Carrie Symonds con la quale Cummings non ha mai intrattenuto buoni rapporti. Secondo le notizie rivelate dalla stampa, le altissime spese di ristrutturazione sarebbero state pagate dal Partito conservatore e se così fosse Johnson avrebbe violato le regole del codice di condotta e la legge elettorale. Cummings ha negato di aver fornito quest'informazione alla stampa, ma poi dal suo blog ha rivelato che il premier aveva smesso di parlare della faccenda con lui nel momento in cui gli aveva detto che il piano poteva essere «immorale, stupido e forse illegale». Un portavoce di Johnson ha replicato che ogni cosa è stata fatta seguendo le regole, ma la dichiarazione non ha convinto l'opposizione, che ieri ha accusato Johnson di aver mentito chiedendo l'apertura di un'inchiesta interna sul caso. Il clamore sulla vicenda non si era ancora sopito che il Daily Mail pubblicava un'indiscrezione ancora più pesante su una frase che Johnson avrebbe detto prima del secondo lockdown. «Un'altra chiusura? Preferisco vedere accatastarsi migliaia di corpi». La frase sarebbe stata pronunciata durante un'animata discussione a Downing Street prima della sofferta decisione di chiudere tutte le attività produttive tra novembre e dicembre. La notizia - dietro la quale si sospetta ci sia sempre lo zampino di Cummings - è stata poi ripresa dalla Bbc e da Itv ed è stata immediatamente smentita dal portavoce di Johnson, ma ormai il danno era fatto. A difenderlo in Parlamento anche il ministro Michael Gove, sospettato però di essere un doppiogiochista vista la sua ben nota vicinanza proprio a Cummings. La ciliegina sulla torta dei veleni l'hanno aggiunta il Guardian e il Times sostenendo che il premier sarebbe stato favorevole alla Super Lega, sebbene pubblicamente si sia fatto passare come uno strenuo oppositore del progetto. Secondo i giornali infatti BoJo sapeva del piano e aveva dato il suo assenso per poi tornare precipitosamente sui suoi passi quando l'opinione pubblica era insorta. Anche su questo i laburisti hanno chiesto dei chiarimenti e potrebbero essere proprio loro a beneficiare di più della vendetta di Cummings contro il Primo Ministro. L'esito delle elezioni, dato per scontato fino a qualche giorno fa, potrebbe riservare delle sorprese.

Cristina Marconi per "Il Messaggero" il 29 aprile 2021. Le ristrutturazioni costano sempre un po' più del previsto, ma quella di Downing Street, per l'inquilino Boris Johnson, sta avendo un prezzo, sia economico che politico, molto superiore alle aspettative. Dopo giorni di polemiche e rivelazioni su cui pesa l'ombra lunga dell'ex spin doctor Dominic Cummings, la mente dietro alla Brexit e alla straordinaria vittoria elettorale di un premier di cui conosce ogni debolezza, la commissione elettorale ha deciso di aprire un'inchiesta per capire come siano stati finanziati i lavori nell'appartamento del premier e della sua compagna Carrie Symonds, che ha voluto dare alla residenza un tocco contemporaneo con carte da parati lavorate in oro e la mano dell'arredatrice Lulu Lytle, amata dal principe Carlo e da Mick Jagger. Il conto, che qualcuno stima da 200mila sterline, è stato pagato, ma il problema è capire se Johnson, a corto di contanti, abbia usato 58mila sterline di fondi del partito come anticipo, visto che è cosa nota che il premier, che guadagna 150mila sterline all'anno, ha dovuto ridimensionare il suo stile di vita rispetto a quando poteva sommare alle entrate della politica la sua attività molto ben remunerata da editorialista e non doveva mantenere (almeno) cinque figli e due ex mogli. Cummings, arcinemico di Carrie che ne avrebbe decretato l'uscita dalle grazie di Boris, ha suggerito l'esistenza di un piano «antietico, folle e probabilmente illegale» per far pagare i lavori ai finanziatori del partito conservatore, come era emerso già qualche tempo fa quando era circolata l'idea di un trust per il restauro di Downing Street. Secondo la commissione elettorale, che vigila sull'utilizzo dei finanziamenti ai partiti, «potrebbero esserci state delle violazioni» anche se Boris, durante un accesissimo Question Time ai Comuni, ha risposto alle accuse del leader laburista Keir Starmer di non aver infranto nessuna «regola o legge» e di aver pagato di tasca sua. «Ho coperto io tutti i costi», ha tuonato, anche se l'utilizzo ossessivo dei verbi al presente da parte sua e dei suoi ministri getta un'ombra su quello che è successo in passato. Ad ogni modo collaborerà con l'inchiesta. Da quando Cummings si è riaffacciato nella vita politica britannica, a un anno dalla sua gita a Barnard Castle in pieno durissimo lockdown, per Johnson sono iniziati i guai: oltre alla faccenda della ristrutturazione del Number 11, appartamento più grande rispetto al Number 10 destinato ai primi ministri e per questo preferito da molti da Tony Blair in poi, ci sono alcune fonti che riportano che Boris, a ottobre, pur di evitare un altro lockdown, avrebbe detto: «Che i cadaveri si impilino a migliaia uno sull’altro!». Una frase da Nerone che sta riportando l'attenzione sulla gestione caotica della pandemia, prima del brillante successo della campagna vaccinale. Non solo: a pochi giorni da un voto importante, il rischio che i Tories perdano le conquiste fatte nelle zone tradizionalmente laburiste a nord del paese grazie alla Brexit è considerevole. La storia di Downing Street è dipinta dai suoi detrattori come un progetto faraonico portato avanti in un periodo di immensa difficoltà per molte persone da una Maria Antonietta così lontana dalla sensibilità popolare da aver voluto liberarsi «dall'incubo dei mobili di John Lewis», grande magazzino molto amato dalla classe media, scelti dalla spartana Theresa May, che al momento di insediarsi è rimasta ben al di sotto delle 30mila sterline concesse a ogni nuovo premier per aggiustare la residenza in base alle proprie esigenze. Gli scandali per favoritismi concessi agli imprenditori vicini a Johnson come il re degli aspirapolveri Dyson o al suo predecessore David Cameron si sprecano e ora bisognerà aspettare il voto del 6 maggio a Hartlepool, al di là del Muro Rosso, per capire se i problemi di Boris sono usciti dalla bolla di Westminster e sono arrivati alle orecchie dell'elettorato.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. La scena più esilarante è quella che vede Boris che tenta di ritrovare i calzini al termine di un convegno amoroso con la sua amante: alla fine non li recupera e se ne va senza calze a quello che doveva essere l'appuntamento più importante della sua giornata, ossia l'inaugurazione dei Giochi Paralimpici, che lo vede assiso fra la sua (povera) consorte Marina e la principessa Anna. È una delle rivelazioni fatte dalla donna d'affari americana Jennifer Arcuri in una confessione-fiume al Sunday Mirror: che lei fosse stata legata all'attuale primo ministro britannico si sapeva, ma ora per la prima volta racconta che si è trattato di una relazione andata avanti per quattro anni, dal 2012 al 2016. E i dettagli piccanti abbondano. I due si erano conosciuti quando Jennifer, oggi 35enne, era ancora una studentessa: ma ciò non aveva dissuaso l'allora sindaco di Londra dal farne la sua amante. Boris non provava neppure a nascondere l'affaire: la portava in bar e ristoranti di Londra, la baciava e abbracciava in pubblico, ostentando una totale noncuranza. Stando al racconto di lei, quando si incontravano lui «non riusciva a tenere le mani a posto»: anche se, da persona colta qual è, oltre a fare sesso amava recitare con lei sonetti di Shakespeare. Boris le mandava messaggi osé in continuazione sul telefonino: e Jennifer gli aveva assegnato il nome in codice di «Alessandro il Grande» (infatti il suo primo nome non è Boris, ma Alexander). Ma non è tutto: in più di un'occasione la donna ha spedito a Boris sue foto in topless (che lei definisce «artistiche»). D'altra parte, va ricordato che Jennifer, nell'appartamento di Londra nel quale si incontravano, aveva come raffinato pezzo d'arredamento un palo da pole dance. La relazione fra i due era già venuta a galla alla fine del 2019: e sul capo di Boris pende tutt'ora un'inchiesta, perché da sindaco di Londra aveva fatto avere alla sua amante, che era diventata un'imprenditrice nel settore delle nuove tecnologie, dei lucrosi contratti. Oltre a essersela portata dietro in diversi viaggi ufficiali a spese dei contribuenti. Ma che effetto avranno queste rivelazioni? Probabilmente nessuno: perché a Boris sul piano personale - e non solo - è stato già perdonato tutto. Che sia un adultero seriale è un dato acquisito: Marina, la moglie per 25 anni, lo aveva buttato più volte fuori di casa a motivo delle sue infedeltà. La cacciata definitiva, che ha portato al divorzio, è stata la relazione con Carrie Symonds, ora insediata a Downing Street come first girlfriend: ma Carrie è stata probabilmente solo l'amante di turno che si è trovata al posto giusto al momento giusto. Per non parlare dei figli disseminati in giro. Ufficialmente sono sei: quattro da Marina, una da una consulente d'arte (un'altra amante) e l'ultimo avuto da Carrie. Ma chissà quanti altri portano la zazzera bionda di Boris. Importa tutto questo? In un certo modo sì: perché alla guida di un grande Paese come la Gran Bretagna c'è un mentitore seriale, un gran casinista che non è mai riuscito a mettere ordine nella sua vita. E il carattere, per un politico, è importante. Anche se bisogna riconoscergli la visione e la leadership che gli hanno consentito di portare a termine la Brexit, stravincere le elezioni e ora mettere la sua nazione sulla strada che la sta portando fuori dalla pandemia. Chi è dunque alla fine Boris Johnson? Tutto sommato, forse, un cialtrone di genio.

Londra, il gatto Larry e i suoi dieci anni record a Downig Street. Notizie.it il 15/02/2021. Londra, il gatto Larry festeggia ben 10 anni di onorato servizio a Downing Street battendo perfino Churchill, primo ministro per nove anni. Londra festeggia i primi dieci anni del gatto Larry, acchiappa-topi ufficiale del governo di Sua Maestà che per l’occasione ha “scritto” un  corsivo sul Daily Mail dove descrive i modi diversi in cui si è legato a David Cameron, Theresa May e  Boris Johnson. “Sono qui per ricordare a tutti voi un anniversario molto speciale, i miei dieci anni in carica, al servizio di questo paese al meglio delle mie capacità. Il mio nome è Larry the Cat, ma la maggior parte di voi mi conoscerà con il mio titolo ufficiale: Chief Mouser To The Cabinet Office”. Comincia così “il corsivo” del famoso gatto “ufficiale” di Downing Street sul Daily Mail in occasione dei suoi dieci anni di onorato servizio.  Il giornale inglese del resto ha solo riportato quello che davvero il simpatico felino potrebbe raccontare se potesse parlare. Anzi, probabilmente non basterebbe un libro per descrivere tutto quello che ha potuto vedere e ascoltare tra le mura della residenza del primo ministro britannico. L’ acchiappa-topi ufficiale del governo di Sua Maestà è seguitissimo su twitter dove ha un profilo tutto suo (anche se non ufficiale). Un fotografo ufficiale ma anche giornalisti, turisti e cittadini hanno riempito i social con foto e video delle sue imprese feline. “Durante la mia permanenza qui, ho servito lealmente tre primi ministri: David Cameron, Theresa May e Boris Johnson. Mi sono legato a tutti loro, in modi molto diversi. Ad esempio, non c’è un angolo di questo edificio in cui non mi sia seduto e mi sia curato amorevolmente per ore, proprio come David. Un cuscino del divano o uno strofinaccio che non ho strappato per rabbia e frustrazione, proprio come Theresa. E non c’è una sedia comoda dove non mi sia sdraiato e dormito molti pomeriggi, proprio come Boris. Durante il mio turno di servizio nei corridoi del potere ho visto tutto, ho sentito tutto, ho annusato tutto” continua a raccontare Larry sul Daily Mail. Un “mandato” lunghissimo, addirittura più lungo di quello di Winston Churchill che fu primo ministro per nove anni.  

Vera Monti. Classe 1971, nata a Roma, lavora come inviata e redattrice presso ArtsLife.

Cecilia Mussi per "corriere.it" il 16 febbraio 2021. «Sarò chiaro: non sono pronto alla pensione». Così Larry the Cat, l’acchiappa topi ufficiale di Sua Maestà e star dei social da quando, il 15 febbraio 2011, è stato portato al 10 di Downing Street, ha festeggiato i suoi primi 10 anni di permanenza nella residenza del Prime Minister inglese. Una ricorrenza celebrata, ovviamente, su l suo omonimo account Twitter, che oggi conta oltre 445 mila follower . Nella bio del profilo si legge: «Capo acchiappa topi dell’ufficio del Cabinetto per un decennio (e oltre). Tigrato, 14 anni, in carica più a lungo di ogni politico inglese». Per l’occasione, è stato creato anche un hashtag personalizzato #larryversary utilizzato da utenti di tutto il mondo per fare gli auguri a Larry.

I suoi compiti ufficiali. Larry svolge diverse mansioni, come «accogliere gli ospiti, aiutare nelle ispezioni di sicurezza e testare il mobilio antico per la qualità dei sonnellini», spiega il sito di Downing Street. La sua attività principale, però, consiste nel «trovare una soluzione alla presenza dei topi nella residenza» (per questo si auto-definisce l'acchiappa topi ufficiale di Sua Maestà). Il gatto viene nutrito grazie a delle donazioni che pagano il suo cibo e, negli anni, ha dato prova più volte del suo prezioso contributo: il 22 aprile 2011 le cronache inglesi ricordano - addirittura - il suo primo topo catturato. A fine 2020 , poi, era stato protagonista di una caccia al piccione proprio davanti «a casa». Con la fine del mandato di David Cameron si pensava che sarebbe stato sostituito, invece è stato poi confermato anche con i suoi successori Theresa May e Boris Johnson.

Gli incontri con i politici e con i «colleghi». Anche se il suo primo padrone Cameron ha dichiarato che Larry è sempre stato «un po' nervoso» con gli umani, l'incontro con l'ex presidente Usa Barack Obama nel 2011 ha fatto eccezione. In una foto si vede infatti il gatto che si fa docilmente accarezzare da Obama di fronte a Cameron. Nel 2019 Larry è ancora protagonista di un altro scatto social ripreso dai giornali di tutto il mondo: la foto lo ritrae accucciato davanti a una finestra di Downing Street mentre Theresa May e il marito posano insieme al l'ex presidente americano Donald Trump e la moglie Melania. Larry in 10 anni di onorata carriera ha intrattenuto anche delle strette relazioni con il «vicino»Palmerston, il gatto bianco e nero ospite del ministero degli Esteri, che dallo scorso anno, però, è andato in pensione.

I ringraziamenti social: dai fotografi alle forze dell'ordine. Nella giornata di lunedì 15 febbraio sono stati migliaia i tweet arrivati al profilo di Larry. E il felino ha voluto fare molti ringraziamenti ufficiali: a partire dai suoi diversi padroni «Bisogna ricordarsi che io vivo per sempre, i politici alloggiano da me finché non vengono licenziati», ha scritto in un tweet. Il gatto ha ringraziato anche le forze dell'ordine, degli «eroi che sono sempre lì per la mia sicurezza e di quella degli altri residenti», i fotografi che in questi anni lo hanno immortalato e, non ultimo, Battersea, il centro dove Larry ha vissuto prima di arrivare a Downing Street.

Dario Di Vico per corriere.it il 5 febbraio 2021. In attesa di vedere se qualche editore deciderà di tradurlo in italiano, il libro scritto dall’ex direttore del Financial Times, Lionel Barber, The Powerful and the Damned (che potremmo tradurre liberamente con I maledetti potenti) merita una certa considerazione anche Oltremanica. È la prima volta che un big dell’informazione racconta dei suoi incontri con i potenti della Terra e della finanza e ne riferisce le battute più succose e, dettaglio non secondario, non pubblicate a tempo debito. Barber è stato a capo del giornale della City dal 2005 al 2020, ha gestito eventi epocali come la crisi finanziaria globale, l’ascesa della Cina, il boom delle tech company e la Brexit. Sul piano interno Barber ha anche guidato la fase di transizione con la vendita del giornale dal gruppo Pearson ai giapponesi della Nikkei.

I consigli per trattare con i politici. Quindici anni di seguito alla direzione di un quotidiano non sono pochi, in più quella di Barber è giustamente considerata una storia di successo per come, tra i pochi in Europa, ha traghettato il giornale nel mondo digitale e quindi è tutto sommato facile immaginare che il suo libro diventi un volume da comodino per direttori in carica o aspiranti tali. Anche perché Barber elargisce indirettamente molti consigli su come relazionarsi con i propri editori, comporre la propria squadra di firme e dispensare/negare l’endorsement ai politici. Il tutto però con leggerezza, senza nascondere gli errori e soprattutto senza mai la presunzione di fingersi un economista.

Le persone, chiave per raccontare un’epoca. Più che le onnipresenti slide il racconto di Barber privilegia le persone, che diventano la chiave per inquadrare le trasformazioni del suo tempo. Così non fa mistero di aver amato Tony Blair e di temere Jeremy Corbyn ma ha il dubbio di esagerare nelle critiche preconcette di un laburista classico come Gordon Brown e di essere considerato troppo vicino a David Cameron, solo perché ne condivide la cultura politica. E non è dunque un caso che alla fine il retroscena più pepato, quasi una vendetta postuma, veda come protagonista il premier che non intuì i rischi del referendum sulla Brexit e quindi non seppe capire gli inglesi. È quasi uno sketch: Barber consiglia a Cameron di allentare le restrizioni sui visti d’ingresso allo scopo di migliorare le relazioni con l’India e il suo interlocutore, gelido, gli risponde: «Non abbiamo bisogno di importare altri tassisti». Maledetti potenti.

Il fardello dell'uomo Churchill. Una vita a caccia di grandezza. Andrew Roberts ricostruisce, anche con fonti inedite, l'esistenza del politico che salvò la Gran Bretagna. Francesco Perfetti, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Quando, nel gennaio 1927, sir Winston Churchill, che si trovava in Italia in visita privata insieme alla moglie Clementine e ai figli Sarah e Randolph, ebbe l'opportunità di incontrare Benito Mussolini, rilasciò alla stampa una dichiarazione che in seguito gli venne rimproverata, da molti connazionali, come sconveniente. Disse che il fascismo aveva «reso un servizio al mondo intero» e precisò: «se fossi un italiano, di certo sarei stato al vostro fianco con tutto il cuore fin dall'inizio alla fine della lotta trionfante contro gli appetiti e le passioni bestiali del leninismo». Ma aggiunse una battuta che tanto biografi dimenticano di citare e che, a ben vedere, ridimensiona l'apprezzamento per il fascismo: «In Inghilterra non abbiamo dovuto affrontare questo pericolo nella stessa maniera micidiale. Noi abbiamo un nostro modo di fare le cose». Churchill, peraltro, in occasione della crisi di Corfù del 1923, si era espresso in termini assai negativi nei confronti di Mussolini arrivando a definirlo «un maiale» per come l'Italia aveva gestito quella crisi che, a suo parere, avrebbe dovuto essere risolta in maniera completamente diversa senza far ricorso alle armi e affidandosi alla Società delle Nazioni. Poi il giudizio sul capo del fascismo era cambiato al punto che, in taluni ambienti, si cominciò a parlare di una «amicizia» fra i due e della esistenza di un carteggio politico scottante. All'inizio degli anni cinquanta Indro Montanelli, che si trovava in Costa azzurra nella villa di Lord Beaverbrook, ebbe occasione di incontrare Churchill, che era anch'egli ospite del grande editore e politico inglese, e affrontò con lui il tema del rapporto con il Duce. Ebbe la conferma che per il Mussolini d'anteguerra, Churchill aveva avuto davvero «simpatia sia pure corredata da un certo disprezzo» per l'Italia e gli italiani e raccontò che «di Piazzale Loreto parlava con un miscuglio di rabbia e di pietà». A proposito del mutamento di giudizio di Churchill nei confronti di Mussolini, lo storico inglese Andrew Roberts nel suo recente e monumentale lavoro intitolato Churchill. La biografia (Utet, pagg. 1406, Euro 46), dopo aver osservato che «sarebbe stato meglio per la sua reputazione» se avesse mantenuto la sua iniziale opinione negativa riguardo al dittatore italiano, spiega che egli, poco alla volta, cominciò a considerare il dittatore italiano «un baluardo contro il comunismo, di cui temeva la diffusione in Occidente nell'Europa del dopoguerra». Nel 1927, in effetti, quando ebbe luogo il primo incontro fra i due, Mussolini era all'apice del suo successo: aveva superato la crisi del delitto Matteotti, si era liberato delle opposizioni e stava consolidando la costruzione del regime. La frase di Churchill deve essere contestualizzata in questa situazione: non già, quindi, un elogio a quel tipo di regime ma piuttosto la presa di coscienza che il fascismo era riuscito a sconfiggere il comunismo sia pure con mezzi che gli inglesi non avrebbero utilizzato. Sotto un certo profilo, dunque, le parole dello statista britannico, che all'epoca era Cancelliere dello Scacchiere, ne dimostrano la spregiudicatezza e il pragmatismo che caratterizzarono la sua azione politica. La bella e simpatetica biografia che Roberts ha dedicato a Winston Churchill è, per molti aspetti, definitiva perché ne tratteggia in maniera mirabile la sfaccettata personalità senza tacerne i lati più discutibili e problematici e senza nasconderne taluni errori politici. Rispetto alla accurata e gigantesca biografia «ufficiale» di Martin Gilbert completata nel 1988 e a quella dell'americano William Manchester le due più significative di una immensa bibliografia l'opera di Roberts si caratterizza per l'utilizzazione di materiali e documenti inediti, a cominciare dai diari privati del re Giorgio VI messi a disposizione dell'autore dalla regina Elisabetta II. Essa ripercorre l'intera vita di Churchill, rampollo di una antica e nobile famiglia, dalla nascita nel 1874 nella principesca dimora del Blenheim Palace fino alla morte, avvenuta nel 1965 nella sua casa londinese, e lo fa con efficace verve narrativa e con rigore storico. Versatile ed eccentrico, Churchill era di bell'aspetto, alto e con gli occhi di un colore azzurro e d'uno sguardo intenso che aveva colpito la futura moglie Clementine quand'ebbe occasione di conoscerlo nel corso di una cena. Aveva avuto, in gioventù, una bella capigliatura dal colore biondo rossiccio che, con l'andar del tempo, si era diradata fino a fargli assumere l'aspetto che tutti conoscono: un volto rotondo, stempiato, con la fronte alta, pensoso e fermo ma sottilmente ironico. Dotato di autoironia e di senso dell'umorismo, uomo di profonda cultura umanistica, storica e letteraria, Churchill ebbe sempre di sé, sin dalla più tenera età, un'altissima considerazione al limite dell'egocentrismo. A sedici anni, per esempio, disse a un amico che avrebbe salvato la Gran Bretagna da una invasione straniera. Il suo patriottismo, l'amore per la Gran Bretagna cioè, era radicato profondamente in lui e si nutriva di un conservatorismo profondo e istintivo, retaggio di quella figura paterna alla quale Roberts (a differenza di molti altri biografi) attribuisce una grande importanza. Churchill, in fondo, fu sempre un conservatore di vecchio stampo alla Disraeli, anche quando si trovò a militare nelle file dei liberali. Credeva nel «destino» imperiale e nella grandezza «civilizzatrice» del suo Paese con quegli stessi sentimenti che avevano ispirato un grande scrittore a lui molto caro, Rudyard Kipling, a parlare del «fardello dell'uomo bianco». Di qui, probabilmente, certe sue affermazioni e posizioni che, anche recentemente e in ossequio al politicamente corretto, sono state bollate come «razziste» dimenticando che esse dovrebbero essere contestualizzate con il sentire dell'epoca e non giudicate anacronisticamente in base alle convinzioni di oggi. La sua vita incrociò i grandi avvenimenti dell'ultimo scorcio del secolo XIX e della prima metà del XX: la lotta di Cuba contro la Spagna, le rivolte in India e nel Sudan, la Guerra anglo-boera, il Primo conflitto mondiale e via dicendo. Il titolo originale della biografia di Roberts, Walking with Destiny (Camminando con il destino) rispecchia, sotto un cero profilo, il senso della vita di Churchill, che troverà il suo culmine nel 1940 nella nomina a primo ministro per guidare la lotta contro i nazisti. L'opposizione di Churchill al totalitarismo nazista non ammetteva cedimenti. Lo conferma una sua battuta: «Non odio nessuno, eccetto Hitler». Del resto di fronte alla politica di appeasement di Chamberlain culminata con gli accordi di Monaco era stato lapidario: «Poteva scegliere tra la guerra e il disonore. Ha scelto il disonore e avrò comunque la guerra». Ma accanto all' antinazismo c'era, in Churchill, una altrettanto forte avversione nei confronti del comunismo sovietico al punto che, una volta, egli disse che il buon Dio doveva esistere davvero perché «l'inferno per Lenin e Trotsky era indispensabile». Non è un caso che la «guerra fredda» ebbe simbolicamente inizio col discorso di Fulton del 5 marzo 1946 col quale Churchill denunciando la «Cortina di ferro» calata sul continente europeo da Stettino a Trieste decretava, in certo senso, la fine della grande alleanza di guerra fra democrazie occidentali e Urss in chiave antihitleriana. Che Churchill abbia compiuto errori o fatto scelte discutibili è comprensibile. Roberts, per esempio, osserva che egli sbagliò durante la crisi dell'abdicazione di Edoardo VIII, mentre altri studiosi (a cominciare da Enrico Serra) gli hanno rimproverato la pretesa di imporre all'Italia la resa incondizionata. Ma, al netto di tutto ciò, rimane il fatto che sir Winton Churchill è un gigante che ha salvato la civiltà occidentale e contribuito alla rinascita e al rinnovamento del conservatorismo. col trascorrere del tempo, ci si rende sempre più conto che, per usare le parole di Henry Kissinger, «i suoi giudizi sulle tendenze della storia erano sempre perspicaci e spesso profondi». Il che non è davvero poco.

Sergio Romano per il “Corriere della Sera” il 3 gennaio 2021. Il nazionalismo scozzese esiste nella sua forma più moderna dalla fine della Grande guerra quando un presidente degli Stati Uniti di origine scozzese (Woodrow Wilson) e la scomparsa di tre grandi imperi (austro-ungarico, russo e ottomano) risvegliarono i sentimenti identitari di molti popoli, più o meno oppressi da una maggiore potenza. Da allora la Scozia potè contare sulla simpatia di molte personalità pubbliche fra cui, sino alla sua recente scomparsa, Sean Connery, l'interprete di James Bond in una serie cinematografica di grande successo. Ma i legami con l'Inghilterra restavano molto forti. Ogni gruppo etnico delle Isole Britanniche (il terzo, dopo inglesi e scozzesi, è quello dei gallesi) ha la propria storia nazionale; ma tutti sono stati lungamente uniti da un comune sentimento di orgoglio. Insieme hanno costruito l'Impero britannico, insieme hanno vinto due grandi guerre mondiali e insieme, nelle intenzioni dei loro europeisti, avrebbero dato un prezioso contributo alla costruzione di una nuova Europa. Quando nel settembre del 2014 fu chiesto agli scozzesi di votare sulla loro indipendenza dalla Gran Bretagna, il «no» vinse con il 55,30%. Ma Brexit ha completamente modificato il quadro. Uscendo dalla Ue, Londra rinuncia a portare con sé nell'Europa di Bruxelles il prezioso patrimonio storico del Regno Unito. Diventa un piccolo Stato dell'Europa settentrionale, una sorta di pensionato della Grande politica mondiale e molto più simile ai regni scandinavi (Danimarca, Norvegia e Svezia) di quanto possa assomigliare ai più ambiziosi Stati dell'Europa continentale. Una parte consistente della Scozia non vuole condividere questo destino e il prossimo referendum sarà probabilmente alquanto diverso da quello che lo ha preceduto sullo stesso tema. Anche l'Italia, più di venti anni fa, ha vissuto una vicenda che ha qualche affinità con quella anglo-scozzese. Il 15 settembre 1996 Umberto Bossi, leader della Lega, pronunciò a Venezia un discorso con cui proclamava la secessione della Padania dalla Repubblica italiana. I confini del nuovo Stato erano molto imprecisi, ma Bossi fece del suo meglio per inventare una patria padana e persino un culto in cui i fedeli avrebbero celebrato le loro cerimonie nelle acque del Po. Il progetto piacque per breve tempo a qualche secessionista anti-meridionale, ma ebbe l'effetto di suscitare forti preoccupazioni nei ceti sociali che avevano manifestato qualche simpatia per la Lega nella sua fase iniziale. La borghesia commerciale e industriale del Nord capì che la scissione avrebbe pregiudicato i suoi rapporti con l'Europa centr0-settentrionale e l'avrebbe privata di quello che sarebbe divenuto, qualche anno dopo, il «mercato unico». Da quel momento la Padania divenne nella storia nazionale italiana un aneddoto a piè di pagina. Il referendum scozzese, invece, potrebbe celebrare il ritorno sulla carta geografica di un vecchio Stato europeo.

Tiziana Prezzo per tg24.sky.it il 27 gennaio 2021. Gaia Servadio è tante cose, ma è soprattutto un vulcano di idee e di energia. A dispetto dell’età e di un anno pesantissimo, segnato dalla pandemia che nel Regno Unito, diventato ormai tantissimi anni fa il suo Paese di adozione, ha già causato la morte di oltre 100mila persone. E’ scrittrice, giornalista, saggista e pittrice, insignita del titolo di Cavaliere Ufficiale della Repubblica dal presidente Sandro Pertini e dal 2013 Commendatore al merito della Repubblica Italiana.  Una vita intensissima, la sua, fatta di incontri e amicizie con scrittori, artisti, intellettuali di fama mondiale. E con un ex genero che è ora primo ministro del Regno Unito: Boris Johnson.

Le umiliazioni delle leggi razziali. Il Giorno della memoria coincide per lei con l’uscita del suo ultimo romanzo, “Giudei”, edito da Bompiani. Quanto c’è di autobiografico per lei, ebrea, nata in Italia nell’anno delle leggi razziali?

«Molto. Io sono in quell’ormai piccolo gruppo di persone ancora vive che ha vissuto sulla propria pelle le storie che racconta…. Ho vissuto quella caccia all’uomo - anche se con la capacità di comprensione di una bambina - e soprattutto l’umiliazione, che si traduceva in tante forme di discriminazione, che faceva sì che mi intimassero di dire che avevo un altro cognome…. E mi sono sentita a lungo diversa, anche dopo la guerra, perché la propaganda è sopravvissuta al regime. Crescendo ho capito che era importante dire certe cose.. cose che in realtà non vorremmo dire neanche a noi stessi. Non è stato facile. La verità è sempre molto sgradita».

Che cosa rappresenta per lei il giorno della memoria?

«Una consolazione: è importante che le persone capiscano la contemporaneità. Ma mi spaventa anche che il mondo non riesca a imparare dai propri errori… Noi siamo tutti dei cretini, sa? Guardi cosa facciamo, ad esempio, all’ambiente. E poi mi spaventa e mi fa arrabbiare un certo buonismo di facciata che si manifesta soprattutto in giorni come appunto quello della memoria».

Le complicità della famiglia reale inglese. Lei ha dichiarato “aver avuto i Savoia è stato una disgrazia”. Anche la famiglia reale inglese ha in qualche misura legato se stessa alla Germania nazista…

«Moltissimo!!! Diciamolo pure che la reputazione della famiglia reale è stata salvata da Winston Churchill. Il re (Edorardo VIII, ndr) era nazista e omosessuale, e la sua amante, Wallis Simpson, una spia nazista. Per non parlare di altri imbarazzanti componenti della famiglia, come lord Mountbatten… Diciamo che le cose sono migliorate dal principe Carlo in avanti».

Quanto è forte l’antisemitismo nel Regno Unito? Ritiene giuste le accuse che sono state mosse all’ex leader del partito laburista Jeremy Corbyn?

«Non credo che questo sia un Paese antisemita, sa? Il Regno Unito non è la Francia, ad esempio. E’ vero però che esiste una sorta di “invidia economica” e soprattutto è vero che c’è un gruppo significativo di antisemiti nel partito laburista e nell’estrema sinistra. Corbyn è un “antisemita passivo”: non avrebbe mandato le persone a morire, ma avrebbe guardato dall’altra parte».

Il mio amico Roth e il suo disprezzo per Johnson. E’ vero che il suo caro amico Philip Roth, il celebre scrittore americano, riteneva il suo ex genero, Boris Johnson, antisemita, e avrebbe cercato con lei di “boicottare” le nozze di sua figlia Allegra?

«No, un antisemita no, ma ridicolo sì. Un buffone. Philip era un uomo magnifico con i piedi ben piantati a terra, Boris è l’esatto opposto. Non è cattivo, ma inaffidabile. Roth riteneva soprattutto uno spreco che mia figlia sposasse uno così: bella… studentessa di Oxford. E lì che lei incontrò Boris.  Perfino il rettore dell’università mi disse: “Guarda che Johnson vale pochissimo!”. E io: “Lo so benissimo!” Philip le aveva trovato un lavoro per un deputato democratico, ma lei rifiutò e poco dopo sposò l’uomo di cui era innamorata. Non la trattò mai male, ma per me mio genero è sempre stato l’esatto opposto di quello che una madre può desiderare per la propria figlia».

A proposito del premier. Questo Paese ha superato i 100 mila morti per Covid. Come giudica la gestione della pandemia da parte di Johnson?

«Mah… sa. Cominciamo col dire che il sistema sanitario così come è ora è una “bella” eredità che ha lasciato il premier Tony Blair. L’Nhs è caotico, sprecone. Non le dico le mail che ricevo per sondare  il mio grado di soddisfazione per il servizio ricevuto! Io manco rispondo… Johnson è un degno rappresentante di un mondo a pezzi».

Un premier a fine corsa. Ciononostante i sondaggi dicono che il partito laburista non è riuscito a indebolire i conservatori. Cosa fa stare questo Paese ancora con Johnson?

«Innanzitutto la debolezza del partito laburista, che è spaccato al suo interno. Keir Starmer è una brava persona, perbene, e per questo non infierisce come potrebbe. Ma io comunque non credo ai sondaggi.  Anche il partito conservatore è molto diviso. Per me Johnson è arrivato a fine corsa. Si andasse a votare  ora secondo me non verrebbe eletto. E il suo governo è fatto da incompetenti, che sono lì perché “brexisti”».

Il neoeletto presidente americano Joe Biden aveva definito l’anno scorso il suo ex genero un “clone fisico e psicologico di Trump”. Condivide la definizione?

«Boris si è sempre sentito molto americano. E’ pure nato in America.  Ricordiamoci per favore che Donald Trump, Nigel Farage (il promotore del referendum sulla Brexit) e Johnson sono sempre andati a braccetto. La vera differenza tra Trump e Johnson è che il primo è pazzo è molto più pericoloso del secondo. Di Johnson ci libereremo presto, di Trump non sono così convinta».

Un bugiardo incallito. Lei mi ha detto che “la verità è rara e preziosa” e che per quanto scomoda viene sempre a galla”. Johnson ai britannici dice la verità?

No! Ma quando mai! Non sa neanche dove stia di casa la verità!»

So che si sta riprendendo dal Covid-19. Lei ha detto: “Finire qui in ospedale è come andare all’obitorio”. Perché?

«A parte quello che le ho già detto prima… io il Covid l’ho preso in ospedale, mentre mi trovavo ricoverata per altra ragione…  Quello della sanità inglese è un mondo fatto di omertà. Diversi medici me lo hanno detto»

Da "corriere.it" il 27 gennaio 2021. «Boris non mi è mai piaciuto. Con Allegra si erano conosciuti a Oxford. Quando hanno deciso di sposarsi ho fatto di tutto per dissuadere mia figlia. Non mi piaceva che fosse di destra, ma soprattutto non mi piaceva il carattere. Per lui la verità non esiste. Per fortuna lui e Allegra non hanno avuto figli. Poi lei si è resa conto di quanto si fosse sbagliata». Gaia Servadio viene intervistata sul numero di F in edicola per parlare, alla vigilia del Giorno della Memoria, del suo nuovo romanzo «Giudei», dove si intrecciano le vicende di due famiglie ebree devastate dalle leggi razziali, e che è ispirato alla sua stessa storia, tra l’infanzia in fuga dalla persecuzione antisemita e una nonna morta a Auschwitz. Ma l’82enne scrittrice, giornalista e pittrice finisce per raccontare anche la seconda straordinaria parte della sua vita quando, giovanissima giornalista iscritta al partito comunista, incontrò William Mostyn-Owen, storico dell’arte amante dell’Italia, ricco possidente, proprietario di due castelli. «L’ho sposato - dice a F - e sono entrata, senza saperlo, in un altro mondo. Il castello, la cuoca, il maggiordomo… Avevo poco più di 20 anni. Non ero consapevole. Non immaginavo». Da quel matrimonio sono nati due maschi e una femmina, Allegra appunto, che dal 1987 al 1993 è stata sposata a Boris Johnson. A causa del legame con il Pci, racconta ancora Servadio, la sua casa londinese fu un punto di riferimento per i leader di partito: «Per loro organizzavo incontri con la stampa, con i politici. Ero la loro “entratura” nel mondo della sinistra inglese. Sono passati tutti da casa mia, anche Enrico Berlinguer. Con Giorgio Napolitano è nata una bella amicizia».