Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2021
IL TERRITORIO
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL TERRITORIO
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Trentino Alto Adige.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Friuli Venezia Giulia.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Veneto.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Lombardia.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Piemonte.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Liguria.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)
Succede in Emilia Romagna.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Toscana.
SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sardegna.
SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede nelle Marche.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede nel Lazio.
SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Molise.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Napoli.
SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Bari.
Hanno fatto cessare La Gazzetta del Mezzogiorno.
SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Foggia.
SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Taranto.
La guerra all’ex Ilva.
Succede ad Avetrana.
Succede a Manduria.
SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Lecce.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Basilicata.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Calabria.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sicilia.
IL TERRITORIO
PRIMA PARTE
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Trentino Alto Adige.
Parole di confine. Cosa vuol dire studiare latino a Bolzano. Maddalena Fingerle su L'Inkiesta il 20 agosto 2021. Il protagonista di “Lingua madre” (Italo Svevo edizioni) si muove in una città dominata da un falso bilinguismo, dove i monumenti fascisti vengono contestualizzati ma le loro scritte continuano a rivelare il razzismo rivolto ai popoli germanici. Qui, solo le frasi di Hannah Arendt mantengono un senso. Ora che sono un liceale tutti i miei parenti sono molto orgogliosi della mia scelta. Io invece sono molto deluso perché mi hanno imbrogliato: non è mica vero che si leggono i classici, al liceo classico. Non si legge mai niente fino in fondo, al liceo classico, e non si legge mai niente per davvero, al liceo classico. Che cosa ci sarà da essere molto orgogliosi io proprio non lo capisco. Però sono felice di essere un liceale perché ora posso andare in giro per la città e capire o provare a capire o almeno a far finta di capire le frasi in latino sui monumenti fascisti. Mi accorgo che in piazza Adriano gli accenti sono tutti sbagliati e mancano gli spiriti. Qui si parla sempre tanto dei monumenti perché sono appunto fascisti e ai tedeschi danno fastidio. A me danno fastidio gli spiriti sbagliati in greco, ma di quelli non si parla mai. Ma non danno fastidio solo ai tedeschi, i monumenti fascisti, danno fastidio anche agli italiani, ad alcuni se non altro, un po’, a volte, forse. A me per esempio dà fastidio quando mettono la scritta luminosa di Hannah Arendt per contestualizzare e mi sporcano tutte le parole del la frase, mi sento male. A Bolzano funziona così: a Bolzano si contestualizza, si contestualizza sempre tutto e si contestualizza in continuazione e si sporca tutto: si spendono tantissimi soldi, a Bolzano, per contestualizzare e per sporcare le parole. Per esempio ci fu un referendum per cambiare il nome di una piazza, perché vittoria è più offensivo di pace, ma non ce l’hanno fatta a cambiarlo e alla fine è rimasta piazza della Vittoria. Piazza della Vittoria è nella parte italiana della città, lì c’è un monumento monumentale che è stato contestualizzato: infatti ora c’è un museo. Hic patriae fines siste signa hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus. Così c’è scritto sul monumento alla Vittoria. Io che faccio il liceo classico dovrei capire al volo, ma non capisco ancora bene e forse non voglio capire e chiedo alla professoressa di latino che cosa voglia dire esattamente e lei, che è una piena di botulino e non ha più mimica facciale, mi dice che significa che da qui noi italiani educammo gli altri con la lingua, le leggi e le arti. Lo dice come se ci credesse, in quello che sta dicendo, e il tono che ha mi spaventa. Da qui inizia la parte italiana, con viale Venezia, corso Italia e via Roma, che a me piace tanto perché per un istante mi sembra di essere davvero in Italia e poi mi accorgo che non c’è niente di bello nell’essere in Italia e torno in me. Il mio problema è che l’architettura razionalista non mi dispiace affatto, con quelle linee pulite, essenziali, tutto lineare e al tempo stesso tondo, sì, a Bolzano è pieno di cose dritte e di cose tonde, edifici squadrati, facciate delle case tonde, balconi tondi. Ma a Bolzano non lo puoi mica dire che ti piace l’architettura razionalista perché sennò passi per fascista, per quello che dice: Siamo in Italia, eh! Il tipico bolzanino italiano la formula siamo in Italia, eh! ce l’ha nel cuore, nella testa, sulla lingua. Non vuole imparare il tedesco perché: Siamo in Italia, eh! Non vuole i nomi in tedesco perché: Siamo in Italia, eh! Non vuole che il cameriere si rivolga a lui parlando dialetto perché: Siamo in Italia, eh! A me, se devo essere sincero, piacciono anche le statue di Wildt del monumento alla Vittoria, perché sono pulite e levigate e hanno gli occhi vuoti come papà. Ci rimango malissimo quando leggo che per ottenere quell’effetto le lucidava con stracci imbevuti di pipì. Ci rimango male perché è la mia idea di pulito, quel marmo lì, e ora sa di pipì. Il pulito sa di pipì e io quasi impazzisco. A Bolzano non posso nemmeno dire che mi piace Wildt, perché sennò passo per fascista. Comunque non è che mi dia fastidio la scritta di Hannah Arendt in piazza Tribunale, non di per sé almeno, per carità, mi dà fastidio perché me l’hanno sporcata appiccicandola a Mussolini. Mussolini adesso è contestualizzato, è depotenziato. Tanto qui non la capisce nessuno, questa frase, e io non ci provo neanche a spiegarla, non mi va di sentire le lamentele e le prediche di mia madre che non mi fa leggere Kant. Per fortuna c’è una preside sveglia che la spiega al posto mio. Nessuno ha il diritto di obbedire. Era una frase bellissima: nessuno ha il diritto di obbedire.
Da “Lingua madre”, di Maddalena Fingerle, Italo Svevo edizioni, 2021, pagine 200, euro 16
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Friuli Venezia Giulia.
Iniziò facendo il garzone del papà che consegnava il latte. Chi è Roberto Dipiazza, “el botegher” sindaco di Trieste per la quarta volta. Elena Del Mastro su Il Riformista il 18 Ottobre 2021. “Ringrazio tutti i cittadini di Trieste con tanto affetto per questa nuova meravigliosa emozione. Ho già ricevuto le congratulazioni di Francesco Russo”. Sono state queste le prime dichiarazioni di Roberto Dipiazza, l’imprenditore che per la quarta volta si conferma sindaco di Trieste. E porta in dote anche un primato: ai ballottaggi è l’unico candidato di centrodestra ad essersi aggiudicato il seggio. Roberto Dipiazza, appoggiato da Lista Civica Dipiazza per Trieste, Lega Salvini Fvg, Noi con l’italia Dipiazza sindaco, Cambiamo Trieste, Forza Italia e Fratelli d’Italia, è stato confermato sindaco di Trieste con il 51,29% per cento dei voti (38.816 votanti). Al ballottaggio ha superato Francesco Russo, sostenuto da Partito Democratico-Demokratska Stranka, Uniti per un’altra città – Združeni Za Drugacno Mesto, Partito Animalista Ambientalista, Lista Russo Punto Franco, Ts 21-26 Russo Sindaco e Noi Pensionati Insieme, che ha ricevuto 36.858 voti pari al 48,71%. Sessantotto anni, imprenditore, ribattezzato affettuosamente “El botegher” per gli inizi di carriera da garzone, piace ai triestini. Di fede berlusconiana, si conferma sindaco per la quarta volta in venti anni. Nel 2011 non si potè ricandidare per via della legge che impediva la ricandidatura per due mandati di seguito. E la vittoria arriva proprio nei giorni della tensione massima in città per il blocco imposto dai portuali, le proteste e gli sgomberi. Ed è proprio da qui che il sindaco riconfermato dovrà partire per far rientrare la situazione. “Comunque sia non voglio più vedere la mia città chiusa, sono stato male quando mi hanno detto che due navi sono state dirottate su Marghera – ha ribadito il sindaco – Lo ripeto: io mi sono vaccinato, non possiamo permetterci di tornare indietro. Chiedo a questa gente di lasciare Trieste libera di lavorare, libero il porto, liberi di esprimere il nostro immenso potenziale”. La storia di Dipiazza è fortemente legata a quella di Trieste. Parì dal basso, facendo il garzone del padre. “Papà Aiello, che accompagnavo in città ogni mattina all’alba dove distribuiva il latte, mi ha insegnato il sacrificio e le soddisfazioni che può regalare”, ha raccontato al Corriere della Sera. Lasciò la scuola dopo la terza media, nel 1983 aprì il suo primo supermercato. Nel 1996 diventò sindaco di Muggia. Dal 2001 al 2011 primo cittadino di Trieste. “Dieci anni che hanno rappresentato il cambiamento e la crescita del nostro capoluogo”, ricorda lui con orgoglio. Poi un quinquennio di centrosinistra. “Caratterizzati da immobilismo, assenza di progettualità e prospettiva”, bacchetta. Poi il suo ritorno nel 2016, con il successo su Cosolini, e la conferma oggi a sindaco di Trieste.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
La battaglia delle galline: tutti ridono meno i friulani. Annalisa Cavosi su La Repubblica il 6 aprile 2021. Il carro armato che per errore ha colpito un pollaio è solo l’ultimo episodio (con seguito di meme). Ma da queste parti la convivenza tra i soldati e i civili non è mai stata facile. In Friuli ci sono paesaggi lunari attraversati da colonne di carri armati. Sono i letti dei fiumi, distese di ghiaia larghe chilometri con una vegetazione rada e secca e niente agricoltura o case: perfetti per le grandi manovre. I soldati arrivano dalle caserme italiane e dalle basi militari Usa di Aviano e di Vicenza e dai corpi di tutta la Nato per le esercitazioni congiunte. Quotidianamente si sentono scoppi e spari a ridosso dei poligoni di tiro sopravvissuti alla dismissione della leva (2004), quando la presenza militare si è riorganizzata verso l’esercito professionale. È qui, a ridosso di Vivaro e dei suoi 1.350 abitanti, che lo scorso 17 marzo, durante un’esercitazione notturna, è avvenuto l’accidentale bombardamento di un pollaio, costato l’uccisione di decine di pennuti. L’attività militare non pare risentire delle limitazioni dovute alla pandemia, che non hanno fermato neanche i lanci dei paracadutisti dagli enormi e panciuti aerei che arrivano da Vicenza nei grandi prati del Dandolo, sempre zona Vivaro, e le smitragliate nei poligoni di tiro che accompagnano le giornate di interi paesi. Gli F16 si alzano tutti i giorni (non la domenica, se non in guerra) dall’aeroporto di Aviano, dove sono scomparse le targhe Afi (Allied Forces Italy) dalle auto dei soldati americani per evitare danneggiamenti nel buio delle strade del paese: si erano moltiplicati dal 1998, anno della strage del Cermis, così la base Usaf è diventata una cittadella recintata e autosufficiente. Nel Dopoguerra e per tutta la Guerra fredda oltre la metà dell’Esercito italiano era finito di stanza in Friuli; negli anni Settanta le caserme erano piene di migliaia di soldati in paesi di pochi abitanti, si moltiplicavano le pizzerie, le strade erano sfondate dai cingoli, proliferava il nonnismo e i militari di carriera andavano in pensione da generali. Abolita la leva, il panorama è cambiato. Ne tiene traccia un bel progetto il cui titolo nasce dai versi del friulano più famoso del mondo, il poeta Pier Paolo Pasolini: il sito primulecaserme.it ha cercato di censire luoghi e numeri del cambiamento, ne è nato un documentario che «racconta le storie di chi vive e ha vissuto lo sconvolgente abbandono di oltre 100 chilometri quadrati di aree militari nel Nordest d’Italia» secondo le parole degli autori. Dopo il bombardamento delle galline, su Wikipedia è comparsa la “Battaglia del Cellina”; sono spuntati meme con “la Corte dell’Aia apre un’inchiesta”, citazioni del film Galline in fuga e polli con l’elmetto sono apparsi nei gruppi Facebook che radunano i coscritti di leva dei decenni passati, perché la caserma è anche oggetto di nostalgia con tutti i vent’anni del primo viaggio lontano da casa. Alla memoria locale sono consegnati pure gli aerei schiantati: sul Monte Jouf, nel greto del fiume Meduna, nella zona industriale di Maniago, la città delle coltellerie, per restare nei dintorni di Pordenone e agli incidenti collegati al poligono del Dandolo, a un passo da Vivaro: chiuso negli anni 90, dopo avere allietato per decenni il circondario con il sibilo dei caccia a bassa quota e le bombe che ogni tanto cadevano vicino a case e scuole provocando spaventi e interrogazioni parlamentari. Delle esercitazioni del dopoguerra nel poligono Dandolo si trova traccia anche nei filmati dell’Istituto Luce, «con riprese di attacchi di razzi e bombardamenti al napalm». Vivaro è nel cuore di una V tracciata dagli ampi e bianchi letti di Cellina e Meduna che attrassero il regista Gabriele Salvatores (nel 2008 qui ha girato Come Dio comanda). È anche il cuore della Zona a protezione speciale (Zps) dei Magredi di Pordenone e in particolare del Sito di importanza comunitaria (Sic) dei Magredi del Cellina, con i prati stabili a carattere arido (praticamente una steppa) più vasti d’Europa: un habitat unico per panorama e biodiversità. Avere destinato per decenni aree così vaste alle attività militari le ha anche in qualche modo preservate sul fronte ambientale, essendoci proibita ogni altra attività (al netto delle bonifiche, perché l’attività militare inquina), ma oggi accade dunque che le esercitazioni militari si tengano all’interno di un’area protetta. Innescando anche qualche conflitto tra militari e i turisti, con la richiesta di cannoneggiare solo in bassa stagione. Per non parlare delle ripercussioni sugli animali, circondati nelle “terre magre”, ai piedi delle Dolomiti friulane, da un campionario unico di fiori e piante selvatici. Questa volta a lasciarci le penne, causa carro armato che ha clamorosamente sbagliato mira puntando verso il centro abitato, sono state una manciata di galline. E la Procura ha aperto un’inchiesta.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Genio, "sghei", affari. Quando le star dell'arte costavano mezzo maiale. Luigi Mascheroni l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Mostra a Vicenza sui processi artistici nel '500, fra capolavori, mercato e... animali da cortile.
Non è una mostra sul Rinascimento. Ma sull'altro Rinascimento. Una mostra che ti porta dentro la fabbrica delle idee e della creatività, un precorso che guarda le opere non solo per la loro meraviglia e qui ci sono i migliori Jacopo da Bassano che si possano vedere ma per capire come e perché nacquero qui, in quel momento. Per capire quanto valeva il mercato dell'arte e in che modo un'invenzione si concretizzava in realtà. È La fabbrica del Rinascimento, la grande mostra inaugurata ieri alla Basilica palladiana di Vicenza (fino al 18 aprile 2022) che racconta come «una città non molto grande ma di ricchezza assai abbondante», con dei committenti colti e cosmopoliti, dei nobili ambiziosi e un gruppo di giovani artisti moderni incantati dall'«arte nuova» nutrita dall'Antico - l'architetto Andrea Palladio, i pittori Paolo Veronese e Jacopo Bassano, lo scultore Alessandro Vittoria diedero vita a un modello di art system ante litteram. Genio, sghei, status symbol e mercato. Le tre «I» del Rinascimento: invenzione, innovazione, imprenditorialità. O le tre «C»: coraggio, creatività, competenza.
Tre curatori (Guido Beltramini, Mattia Vinco e Davide Gasparotto del Getty museum di Los Angeles), due anni di lavoro, un costo di 1,2 milioni di euro (700mila sono soldi pubblici, 500mila di Marsilio arte), 90 magnifici pezzi fra dipinti, sculture, disegni, gioielli e arazzi, lo spazio espositivo forse più bello dell'Europa mediterranea la Basilica palladiana: mille mq per 25 metri d'altezza e volta a vista l'ambizione di svelare i meccanismi di produzione dei capolavori (il making of delle botteghe d'artista), un anno chiave, il 1550, quando Vicenza e la Terraferma veneta, tra industria della seta, mulini ville e palazzi, era una delle aree più ricche e dinamiche in Europa (all'epoca la città di Gian Giorgio Trissino, un umanista che sapeva di politica e aveva capito dai Papi che è la cultura può cambiare un Paese più della finanza, contava 30mila abitanti), e un mito da sfatare: che gli artisti rinascimentali siano geni assoluti e nient'altro. No. Sono diabolici imprenditori, innovatori, uomini che sfruttano le prime forme di marketing, che realizzano bozzetti e modellini per i clienti, che producono copie con lo stesso soggetto dei quadri più richiesti, replicano tele e busti che incontrano il gusto del pubblico, riciclano e riutilizzano progetti scartati, usano (come Palladio) materiali low cost. Alle radici dello spirito imprenditoriale veneto. Il Nord est tra factory e impresa.
Con un cortocircuito artistico-architettonico molto curioso la storia dell'altro Rinascimento è raccontata dentro il luogo che ha costruito questa storia: il progetto di Andrea Palladio per la sua basilica è del 1549 la mostra si sviluppa lungo un «dove», un «chi», un «come» e è l'aspetto più originale della Fabbrica del Rinascimento un «quanto».
Il «dove» è una Vicenza che non si sente inferiore a Venezia, operosa e danarosa, con un'aristocrazia fiera e combattiva. Qui ci sono modellini e disegni preparatori dei grandi edifici cittadini proprio sotto lo sguardo dei loro committenti: il Ritratto di Livia Porto Thiene e della figlia o quello di Iseppo Porto e il figlio, entrambi di Paolo Veronese, del 1552, o il Ritratto di Paola Bonanome Gualdo con le figlie (1566) di Giovanni Antonio Fasolo. E lì davanti ecco la ricostruzione in legno di Villa Repeta e Villa Saraceno del Palladio, e Palazzo Thiene, che è a 250 metri da qui, o Palazzo Porto
Il «chi» sono i quattro eroi della mostra. Palladio, Veronese, Jacopo Bassano e Alessandro Vittoria coi lavori più belli di quella stagione. Uno per tutti: L'unzione di Davide (1550) di Paolo Veronese che viene da Vienna.
Il «come» sono i processi creativi. Quindi le fonti di ispirazioni e l'uso che gli artisti facevano delle stampe, un «mezzo» straordinario per far circolare le idee e potere vedere - in piccolo - opere lontane, un po' come l'iPhone oggi; e poi l'uso di disegni e «modelletti» (diciamo dei rendering...) per mostrare al cliente il risultato finale. «Come preferisci la facciata del tuo palazzo, così o così?». «Io la Natività che mi hai chiesto l'ho immaginata così, ti piace?». Ed ecco i progetti à la carte di Palladio; un quadro del Veronese ispirato alle composizioni del Parmigianino, ecco due Adorazioni dei Magi del Bassano identiche, ma di taglia leggermente diverse, per due diversi committenti
E poi il «quanto». Quanto costava un quadro? Quanto valeva il lavoro di un artista? Risposta: tutto ciò che oggi è custodito nei musei, valeva ben poco; e ciò che oggi ci piace di meno, aveva costi esorbitanti. Un esempio? Ecco un dipinto di Jacopo Bassano, un Ritratto di due cani (1548) che arriva dal Louvre, direttamente dalla sala dove è esposta la Gioconda. Capolavoro assoluto. Bene. All'epoca valeva 15 lire. Che, con un calcolo fatto ad hoc dal team di economisti della mostra, i quali hanno usato come unità di misura un bene di largo uso nel '500 come il «mezanotto», un maiale di mezza taglia del costo di 3 ducati, valeva forse anche perché il dipinto era di piccole dimensioni e con poche figure mezzo maiale. Molto di più, per i materiali preziosi e per il maggior tempo impiegato a realizzarle l'opera, valevano gli arazzi o le statue o i bronzi. E al top c'erano i marmi antichi. Ogni opera in mostra porta nella didascalia il valore in «mezanotti». Il prezzo di questo busto romano in marmo, ora a Monaco di Baviera, era equivalente a cento maiali. Mentre eccola qui la croce in cristallo di rocca incisa da Valerio Belli per papa Clemente VII fu pagata l'astronomica cifra di mille scudi: 333 maiali. Palladio, è vero, guadagnava appena come un maestro setaiolo. Ma c'era offerta di arte e c'era una grande domanda. Fu il Rinascimento di Vicenza. Poi nel 1630 arrivò una malattia infettiva. La peste nera. E dopo, nulla fu più come prima.
Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010); "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).
Da veneziatoday.it il 16 novembre 2021. «Venezia, turisti sotto sorveglianza». È questo il titolo di un lungo reportage pubblicato ieri sul quotidiano francese Le Monde in merito alla questione del turismo nel capoluogo del Veneto. «Incarnazione dell'eccesso di turismo contro il quale non ha mai combattuto - si legge sull'articolo - la Serenissima dice di voler obbligare i visitatori a prenotare e a pagare il loro ingresso nel centro storico. Al rischio di rafforzare il suo carattere museale senza necessariamente risolvere i problemi di fondo». Il quotidiano francese cerca di inquadrare il turismo lagunare, dove «con la graduale revoca delle restrizioni sanitarie legate al Covid, sono tornati gli abitanti del Veneto, poi di tutta Italia, poi dei Paesi limitrofi. E poi dall'Austria, dalla Croazia o dalla Slovenia. Ci sono già alcuni americani, i più sperati. In attesa dei cinesi, tra qualche anno, e di tutta la classe media dei paesi emergenti che non hanno mai avuto occasione di vedere la Serenissima. La manna sembra inesauribile, nonostante i ripetuti avvertimenti dell'Unesco». Non manca nemmeno l'attacco al sindaco della città, Luigi Brugnaro, "accusato" di vivere in terraferma e voler attuare un "provvedimento radicale evocato da decenni". «Rieletto al primo turno nel 2020, - scrive il quotidiano - promette di applicare la prenotazione obbligatoria e a pagamento - da 3 a 10 euro a seconda del giorno - per entrare nel centro storico, accompagnato da cancelli per convalidare il suo biglietto. Il concetto di "città museo" diventerebbe realtà».
Lorenzo Mayer per ilgazzettino.it il 16 novembre 2021. Un video, che ha fatto il giro dei social prima di essere rimosso dagli stessi autori, documenta la cattura di un cinghiale, probabilmente lo stesso avvistato al Lido nelle scorse settimane e poi anche a Pellestrina. L'animale stava tranquillamente nuotando, senza dare fastidio a qualcuno, quando è stato avvicinato dagli occupanti di un'imbarcazione, che l'hanno legato con un grosso laccio e portato non si sa dove. La cattura sarebbe avvenuta nella zona di Malamocco. Su queste immagini sta lavorando la polizia provinciale e presto potrebbe risalire ai responsabili di questo gesto crudele, anche ascoltando il sonoro e i commenti che, pur senza inquadrare gli autori, si sentono in modo nitido. I video potrebbero essere addirittura due: uno subito rimosso dagli autori, l'altro che ancora circola. La scena ha scatenato da più parti reazioni indignate al Lido. Della questione si è immediatamente interessata Cristina Romieri, lidense ambientalista e animalista, che ha già pronta una denuncia, per il momento contro ignoti, che verrà formalizzata oggi dalle forze dell'ordine. «È una scena inaccettabile e incivile - spiega Romieri - l'animale stava nuotando pacifico. Voglio ricordare che solo la polizia provinciale può dare corso a catture di animali, non le altre persone. Chi si comporta come abbiamo visto in quel video commette dei reati. È un reato sia la cattura che il maltrattamento oltre, ovviamente all'ipotetica uccisione dell'animale, così inerme e indifeso. Tutti elementi che formalizzerò nella mia denuncia. Tante persone, in questa triste situazione, mi hanno espresso solidarietà, offrendo la loro disponibilità a sottoscrivere la denuncia». Nel video si sente anche ipotizzare la volontà di fare annegare il cinghiale, altri dicono che potrebbe essere stato portato alle Vignole. Per il momento solo ipotesi perché dell'animale si sono perse le tracce. Le attenzioni sono concentrate su un gruppo di cacciatori e bracconieri. Anche chi si rende protagonista di simili comportamenti poi probabilmente non si rende conto che postando filmati l'effetto rischia di essere ancor più dirompente.
Giuseppe Scaraffia per Il Sole 24 Ore il 20 settembre 2021. George Gordon Byron “L’amante scatenato. Lettere veneziane (1816-1819), a cura di Paola Tonussi, De Piante editore, p.216, €.16,00. Era notte quando, l’11 novembre 1816, George Gordon Byron entrò nella laguna su una gondola. Non esiste un diario del periodo veneziano; quello di Byron si ferma alla fine del periodo svizzero e ricomincia con il periodo ravennate. La felicità non ha bisogno di appunti, bastano queste magnifiche lettere di una libertà assoluta. Chi l’aveva conosciuto in Inghilterra cupo e tormentato restava stupito di trovarlo allegro e soddisfatto. “Venezia mi piace quanto me l’aspettavo, e mi aspettavo molto”. Era attutita l’eco dello scandalo sollevato dal suo incesto con la sorellastra, madre di una sua figlia, e dalla fine, dopo appena un anno, del suo matrimonio. I veneziani non sapevano che l’“inglese pazzo”, come lo chiamavano, non era solo un ricco lord, ma un mito vivente e un genio precoce. Presto, però, si accorsero che l’appetito sessuale di Byron era inesauribile. Sulla laguna, l’infedeltà era universale e Byron era bellissimo e pronto a sedurre chiunque usando la fama o il denaro. Una dama con un solo amante veniva considerata una donna perbene. “I mariti naturalmente appartengono alla moglie di chiunque – tranne che alla propria”. Pochi giorni dopo il suo arrivo aveva incontrato la sua prima amante, Marianna, moglie del tappezziere che gli affittava un sontuoso appartamento. Aveva ventidue anni, sei meno del suo amante, che la trovava bellissima e divertente, anche se era meno ingenua di quel che sembrava. Infatti non era stato, come si illudeva, il suo primo amante e la ragazza era nota per la sua avidità., ma era sempre a disposizione – “Posso fare all’amore con lei a qualsiasi ora” – e cantava benissimo. Presto però erano venuti a galla il suo carattere tirannico e una feroce gelosia, che obbligava Byron a una serie di sotterfugi. Frequentava Isabella Teotochi Albrizzi, la Madame la madame de Staël veneziana, “desiderosa di omaggi, non più giovane, ma molto colta, simpatica e senza la minima affettazione, molto gentile con gli stranieri e, credo, non molto dissoluta come invece la maggior parte delle donne”. Ma in fondo preferiva la piccante compagnia delle popolane. Aveva partecipato al celebre carnevale culminato nel ballo mascherato alla Fenice, “il più bel teatro che abbia mai visto”. Stremato dalle dissolutezze, si era preso una terribile febbre e Marianna l’aveva amorosamente curato. Indispettito dalla scoperta che l’amante aveva venduto i suoi preziosi regali, Byron glieli aveva ricomprati, ma il loro legame stava declinando. Durante l’estate, galoppando sul Brenta, aveva incontrato due ragazze. Margherita, la più vivace, si era subito dichiarata pronta a fare all’amore “perché era sposata”, anche se il marito era molto geloso. Presto aveva cominciato a vivere con quell’ “animale magnifico e indomabile”, sempre pronta a passare dal riso al pianto. Ma aveva mantenuto una casa per le numerose amanti occasionali con grande stupore dell’amico Percy Bysshe Shelley, che trovava le italiane spregevoli, sporche e bigotte. Dopo un’iniziale aridità, il periodo veneziano si stava rivelando inaspettatamente fertile. Lì scrisse “Mazeppa” e iniziò il “Don Giovanni”, in cui usciva dal suo ruolo di bel tenebroso per assumere quello ben più realistico di seduttore passivo. Non di rado la sera tornava a nuoto dai salotti facendosi illuminare dalla torcia di Titta, il suo gondoliere. Più di dieci camerieri ronzavano nel palazzo, dove Shelley contò anche "otto enormi cani, tre scimmie, cinque gatti, un'aquila, un corvo e un falco ... cinque pavoni, due galline e una gru”. Sullo sfondo della bellezza decadente della città diventava sempre più profonda in Byron la consapevolezza della sua estraneità all’Inghilterra. Soffriva però della lontananza delle sue figlie; odiava l’inflessibile lady Byron che, inasprita dalle sue infedeltà, si dava da fare per allontanarlo dalla sua bambina. Alla fine però anche i capricci di Margherita avevano stufato Byron, che l’aveva faticosamente messa alla porta. La ragazza infatti, prima di rassegnarsi, aveva più volte minacciato il suicidio, arrivando a ferirsi e a buttarsi in acqua. Un nuovo amore aspettava il giovane lord, la contessa Teresa Guiccioli, una formosa diciannovenne sposata un sessantenne di Ravenna, prima riluttante e poi connivente. “E’ deliziosa, ma è priva di tatto. Quando le sussurro all’orecchio, risponde a voce alta. Stasera ha fatto scandalo a palazzo Benzon chiamandomi a gran voce ‘Il mio Byron”. Ma la fedeltà di Byron andava soprattutto a se stesso. Facendo i conti sulla sua vertiginosa attività con le veneziane, poteva dire di averne avute “almeno duecento di un tipo o dell’altro – forse di più -perché ultimamente ho smesso di tenerne il conto… alcune nobili -alcune borghesi – alcune di ceto basso – e tutte puttane…. Le ho avute tutte”. Nell’estate del 1819, risalì sull’imponente carrozza, costruita sul modello di quella di un suo mito, Napoleone. Stava seguendo la Guiccioli a Ravenna. Gli piaceva pensare di esserne innamorato: e forse lo era davvero.
Alberto Vitucci per “la Stampa” il 13 agosto 2021. San Marco ancora sott'acqua. Non sono bastati sei miliardi di euro per il Mose, commissari straordinari e promesse al mondo lanciate dagli ultimi governi. L'autunno si avvicina, e la Basilica è ancora indifesa. Tra un mese sarà già autunno, e la stagione delle acque alte non promette nulla di buono. Un allarme ribadito nei giorni scorsi dagli scienziati dell'Ipcc: il livello del mare si alzerà di mezzo metro almeno nei prossimi decenni. E San Marco è in pericolo. Nell'inverno scorso la Basilica è andata sott'acqua anche due volte al giorno. Succede quando la marea supera i 76 centimetri sul medio mare. Evento diventato ormai quasi quotidiano. Fino a 88 centimetri funziona un sistema di difesa locale. Ma poi l'acqua del mare invade la cripta, allaga i mosaici, corrode i marmi antichi e le basi delle colonne. Le immagini valgono più di qualsiasi commento. «La situazione è drammatica, e nessuno interviene», accusa il procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin. Per salvare la Basilica la Procuratoria ha offerto già tre anni fa un progetto di difesa con barriere in vetro, autorizzato dalla Soprintendenza, capace di difendere il monumento da tutte le maree. Costa 3 milioni e mezzo di euro, una goccia rispetto al mare di soldi del Mose, che ha fatto spendere finora 6 miliardi di euro. Perché non si interviene? Elisabetta Spitz, commissario del Mose nominata nel novembre del 2019 dal governo Conte all'indomani dell'Acqua alta eccezionale che aveva sommerso la città, aveva bloccato il progetto, firmato dal proto di San Marco Mario Piana e dall'ingegnere idraulico Daniele Rinaldo, nel febbraio del 2020. «Inadeguato dal punto di vista architettonico», aveva sentenziato, affidando una consulenza allo studio milanese dell'archistar Stefano Boeri per «migliorarlo». Ma dopo molti mesi il ministero dei Beni culturali ha bocciato le proposte, rinviando al progetto originario. In autunno, altre acque alte e arriva l'approvazione. L'incarico doveva essere assegnato dalle imprese dal Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dello Stato per la laguna dal 1984. Ma è sull'orlo del fallimento, affidato a un altro commissario, il commercialista Massimo Miani. «Nessuno ci ha detto nulla», dice l'architetto Piana, proto di San Marco e già vicesoprintendente a Venezia, «così anche i restauri rischiano di essere vanificati, i danni aumentano, i marmi si sgretolano». «Se partissimo oggi», dice Piana, «lavorando giorno e notte potremmo forse concludere l'opera in 3 mesi». Ma il Consorzio da ieri ha esposto un cartello: «Uffici chiusi». I dipendenti sono stati messi in ferie fino al 21 agosto. Eppure i soldi ci sono. Il governo Draghi ha sbloccato 538 milioni di euro necessari a concludere il Mose e ad avviare altri interventi in laguna chiesti dall'Ue. Ma il blocco è totale. Anche il Mose è in grave ritardo. Difficilmente potrà essere mantenuta la data promessa del 31 dicembre per ultimare i lavori. Mancano gli impianti, le manutenzioni, i collaudi e soprattutto non sono state riparate molte criticità. Le 78 paratoie del Mose sono state sollevate con successo nei test invernali. Ma sono prove, perché l'opera non è finita. Se si dovesse ripresentare una situazione critica come quella del 12 novembre 2019 i problemi potrebbero essere tanti. Ma soprattutto il Mose è stato pensato per le maree eccezionali. Anche se fosse ultimato in dicembre, la Basilica andrebbe sott'acqua con tutte le acque alte fino a 110 centimetri. Cioè la stragrande maggioranza. E' fermo anche il progetto per mettere all'asciutto l'intera piazza San Marco, con un sistema di pompe e blocchi dell'acqua che entra dal mare. Anche qui il progetto è pronto, i soldi ci sono. Della Piazza all'asciutto si parla dagli Anni Novanta. Il Consorzio Venezia Nuova di Mazzacurati aveva proposto allora un grande progetto da 100 miliardi di lire per sistemare una grande guaina sotto i masegni di San Marco e isolarla dall'acqua. Bocciato perché giudicato pericoloso e non fattibile. Tra i consulenti di quel primo progetto c'era anche Elisabetta Spitz, ex direttore del Demanio e attuale commissaria straordinaria per il Mose.
Il Cdm ha approvato il decreto. Grandi Navi a Venezia, dall’1 agosto stop sulla Giudecca e San Marco: “Giornata storica”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Luglio 2021. Stop alle grandi navi davanti a Piazza San Marco e sul canale della Giudecca a Venezia. Il decreto legge approvato stasera dal Consiglio dei Ministri fa la storia. Una misura a partire dal primo agosto. Le navi da crociera potranno attraccare provvisoriamente a Marghera. Previsti risarcimenti per le aziende che saranno danneggiate dalla decisione e fondi per 157 milioni per gli approdi provvisori a Marghera, appunto. Il decreto stabilisce il divieto di navigazione a Venezia e nelle vie marittime definite di interesse culturale entrerà in vigore il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Le imbarcazioni interessate dalla decisione dovranno essere interessate da almeno uno di questi requisiti: più di 25.000 tonnellate di stazza lorda; più di 180 metri di lunghezza; più di 35 metri di altezza; produzione superiore allo 0,1% di zolfo. Il resto delle navi potrà continuare a navigare, considerate sostenibili nelle vie marittime definite di interesse culturale. Potranno continuare ad attraccare per esempio le navi da crociera da circa 200 passeggeri. La notizia può essere considerata storica. È arrivata dopo anni di campagne, attivismo, proteste, dibattito e decisioni a metà. La legge era stata approvata lo scorso maggio ma l’attuazione era stata rinviata. Per il Presidente del Consiglio il decreto è un “passaggio chiave per la tutela della laguna”. Il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini ha definito la decisione come “attesa dall’Unesco e da tutti coloro che sono stati a Venezia e sono rimasti stravolti dalla grandezza di queste navi passare nel luogo più fragile e bello del mondo”. Si lavorerà intanto ad approdi offshore “con l’obiettivo di rendere compatibile l’attività croceristica con la salvaguardia paesaggistica e ambientale”. Il 29 giugno è stato pubblicato dall’Autorità portuale del Mare Adriatico settentrionale il bando per il concorso di idee sui punti di attracco di grandi navi e portacontainer fuori dalla laguna di Venezia. Il vincitore sarà designato entro giugno 2023. Il provvedimento intanto supera anche le prescrizioni dell’Unesco perché “stabilisce un principio inderogabile, dichiarando monumento nazionale le vie urbane d’acqua Bacino di San Marco, Canale di San Marco e Canale della Giudecca di Venezia”, ha aggiunto Franceschini. La linea è stata condivisa anche dal presidente di Confturismo Veneto, Marco Michielli, e da Luigi Merlo, numero uno di Federlogistica-Conftrasporto e direttore delle relazioni istituzionale di Msc. “Il Decreto adottato oggi costituisce un importante passaggio per la tutela del sistema lagunare veneziano. Queste norme intervengono nell’immediato con le cautele e i ristori necessari per mitigare l’impatto occupazionale sul settore e si affiancano al concorso di idee, il cui bando è già stato pubblicato, per la futura realizzazione e gestione di punti attracco fuori dalle aree protette della laguna con l’obiettivo di rendere compatibile l’attività croceristica con la salvaguardia paesaggistica e ambientale”, recita la nota di Palazzo Chigi che quindi anticipa che “si concluderanno i lavori di completamento del Mose e si realizzerà in tempi brevi l’Autorità della Laguna con la rinascita del Magistrato delle Acque” con le risorse “messe a disposizione per le opere paesaggistiche collegate e i progetti per l’area di Venezia previsti nel Pnrr”, ha precisato il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile Enrico Giovannini. 80 milioni di euro con 90 milioni per l’elettrificazione delle banchine. Le grandi navi a Venezia, prima della pandemia, rappresentavano il 3% del Pil, 150 milioni di euro all’anno e 4mila posti di lavoro.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Alessandro Barbera per “La Stampa” il 14 luglio 2021. A Venezia non c'è argomento più contestato. Una delle poche questioni che unisce una città divisa fra nostalgici dell'antica Repubblica e pragmatici difensori della città museo. Da anni le associazioni ambientaliste ne fanno una bandiera, fra le incertezze di sindaci e governi. Ha avuto la meglio la minaccia dell'Unesco di cancellare Venezia dalla lista del World Heritage: dal primo agosto le grandi navi da crociera non potranno più sostare davanti a San Marco entrando dal canale della Giudecca. Di qui in poi potranno attraversare il bacino e attraccare sulle banchine di Marghera, in attesa di una soluzione definitiva che ancora non c'è. Il primo intervento contro i giganti del mare in Laguna risale al 2012, premier Mario Monti. Da allora sfilze di decreti, ricorsi e controricorsi. Il tema era già stato oggetto di uno dei primi provvedimenti del governo Draghi: un concorso idee per costruire un nuovo pontile. Ma anche stavolta mancava la soluzione drastica. Il decreto approvato ieri stabilisce che il canale di San Marco e quello della Giudecca diventano monumento nazionale. A convincere il premier e il ministro della Cultura Dario Franceschini della necessità di convocare un consiglio dei ministri ad hoc è stato l'inizio (fra due giorni) del congresso mondiale dell'Unesco a Fuzhou, in Cina. La decisione arriva insieme ad una serie di interventi collaterali: l'impegno ad investimenti fino a 157 milioni di euro a favore degli approdi temporanei a Marghera, la reintroduzione del magistrato delle acque, il completamento del sistema di controllo dell'acqua alta del Mose, entrato in funzione quest' anno dopo trent' anni di lavori, corruzione, sprechi, e già bisognoso di manutenzione. Draghi ha deciso di affrontare una volta per tutte il problema ai primi di luglio, quando si è materializzato il rischio di immagine per il turismo italiano, una voce che prima della pandemia valeva il 13 per cento del Pil. Il bacino, il canale di San Marco e il canale della Giudecca sono di qui in poi monumento nazionale. Di lì sarà vietato il transito di qualsiasi nave che superi le 25mila tonnellate o un'altezza di 35 metri. Non solo: il combustibile usato per le manovre in laguna non potrà avere una percentuale di zolfo superiore allo 0,1 per cento. La potentissima associazione internazionale delle compagnie di navigazione ha fatto buon viso, dicendosi soddisfatta di avere ottenuto una soluzione ragionevole. In realtà gli armatori speravano che il divieto fosse limitato alle 40mila tonnellate, il limite stabilito dal primo decreto dell'allora ministro Passera, poi impugnato da loro stessi di fronte al Tar. In teoria la censura dell'Unesco non è ancora sventata, perché aveva chiesto il pieno divieto di ingresso in laguna. Ma a Palazzo Chigi sono convinti che quanto deciso sarà più che sufficiente. A Venezia in tempi normali arrivano via terra e via mare 32 milioni di persone all'anno. Finora le grandi navi attraversavano la laguna da San Niccolò e si fermavano a pochi passi dai giardini della Biennale e da San Marco, accompagnate dai rimorchiatori. Ora i turisti potranno intravedere la città solo dai ponti in mare e raggiungerla da Marghera, dall'altra parte della laguna. Per il danno al turismo il settore potrà contare su svariate compensazioni. Andranno a favore «delle compagnie di navigazione, del gestore del terminal di approdo interessati dal divieto di transito, delle imprese titolari di contratti d'appalto e dei lavoratori». Se ne occuperà l'Autorità del sistema portuale del Mare Adriatico Settentrionale di Venezia. Nel frattempo verrà completato il concorso di idee per individuare punti di attracco definitivi fuori della laguna. Fra le tante ipotesi, anche quella di una banchina flottante. La gara internazionale si chiuderà a dicembre dell'anno prossimo, se tutto andrà bene si conoscerà il progetto vincitore a giugno 2023. Da quel momento dovrebbero iniziare i lavori del nuovo porto. Visti i tempi per l'avvio del Mose, difficile essere ottimisti.
Laura Berlinghieri per "la Stampa" il 15 luglio 2021. All'indomani di una decisione che dovrebbe porre la parola fine a una battaglia durata anni, Venezia si spacca sull'opportunità di allontanare le grandi navi dal bacino di San Marco e dal canale della Giudecca, dal primo agosto. Perché se, in tesi, sono tutti concordi nel volere i giganti del mare lontani dal fragilissimo centro storico, gli interessi in gioco sono troppi e difficilmente conciliabili. La prudente soddisfazione del sindaco Luigi Brugnaro si scontra con l'amarezza dei lavoratori del porto. Il presidente veneto Zaia chiede ristori per la società, partecipata dalla Regione, che ha in concessione il terminal. E si dividono gli esercenti: in chi al turismo "mordi e fuggi" preferisce la sicurezza della laguna e in chi, invece, su questo turismo fonda una parte non sacrificabile del proprio reddito. Del resto, nell'economia della città, il porto ha un ruolo da protagonista. «Venezia Terminal Passeggeri, la società concessionaria dello spazio acqueo che accoglie le navi, va ristorata. È una società della Regione e di altri soci, come le compagnie di crociera. Non passi l'idea che, in Italia, è sufficiente "staccare la spina" per mandare tutti a casa. È stato fatto un danno, ora va riparato» sostiene Zaia, pur favorevole all'allontanamento delle grandi navi da San Marco. Nel mezzo c'è il destino dei portuali. «Quattromila persone. Sarebbe stato più opportuno attendere la fine della stagione, dato che l'alternativa a Marghera non è pronta» rincara il vicesindaco Andrea Tomaello. Mentre si dice fiducioso il primo cittadino Brugnaro: «Aspetto il testo del decreto, ma sono ottimista. Ho lavorato con i ministri Brunetta e Giovannini, che hanno visto che la soluzione più semplice è quella che proponevamo da 10 anni». Ma è scendendo in città che gli animi si fanno bollenti. Tra i lavoratori del porto, in primis, che temono per il proprio futuro. «È il futuro di un'intera filiera produttiva - che si compone di almeno 18 categorie, dando lavoro a migliaia di persone - a essere messo in discussione dalle scelte del governo» mette in guardia Vladimiro Tommasini, presidente della cooperativa portabagagli del porto. «Abbiamo ripreso a lavorare dopo 19 mesi di inattività, chiediamo scelte chiare e la possibilità di continuare a vivere a Venezia, fino alla definizione di progetti sensati». Ma su Venezia pende la spada di Damocle dell'ultimatum dell'Unesco, che è fantasia immaginare non abbia inciso sull'improvvisa accelerata. Tra gli esercenti, i pareri sono discordi. Non subiranno alcun impatto i locali di piazza San Marco, come conferma il presidente dell'associazione Claudio Vernier, titolare della storica gelateria Al Todaro. «Questa era l'unica decisione da prendere. È la crocieristica che deve adattarsi alle esigenze della laguna, non il contrario». Dall'altro lato del guado si colloca Andrea Mazzola, titolare del ristorante-pizzeria Alle lanternine. «Per me, perdere i croceristi significa rinunciare al 30-40% dell'incasso giornaliero - sostiene -. Senza il passaggio da piazza San Marco, temo che saranno in molti a virare su altri porti, come Trieste o Civitavecchia. La fragilità della laguna? L'incidente più grosso è stato dovuto a un errore del comandante». La decisione, in ogni caso, è stata presa, anche se i tempi per l'individuazione dei definitivi approdi offshore sono tutt' altro che brevi. «Sarà una prova durissima per il settore della crocieristica, per l'indotto e per i lavoratori, ma anche una sfida per il porto del futuro e un passaggio importante verso la costruzione di Venezia, capitale della sostenibilità» conclude il presidente dell'autorità portuale, Fulvio Lino Di Blasio.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Lombardia.
Ciumbia! Perché Milano è la grande Milano. I centouno motivi per cui è la città più cool d’Italia. Anna Prandoni l'8/9/2021 su L'Inkiesta.it.
1. Perché, grazie a Maurizio Cattelan, abbiamo le opere d’arte anche sui muri della piscina comunale. Si chiama Be Water ed è un’installazione site specific alla Cozzi, un gigantesco murale di una donna immersa nell’acqua, ideata con l’artista e fotografo Pierpaolo Ferrari per Toilet Paper.
2. Perché qui c’è la michetta, il pane dalla forma più design del mondo. Anche se ormai fatichiamo a trovarla in panetteria.
3. Per cena possiamo andare ovunque nel mondo: qui c’è una quantità infinita di locali dove mangiare cibo di altri Paesi.
4. La Scala è il teatro. Sontuoso dentro, elegante e rigoroso fuori. Con le maestranze più abili e i cantieri più imponenti, la scuola di formazione migliore e gli interpreti più prestigiosi.
5. Perché in un’ora siamo su tutti i laghi più belli d’Italia: Iseo, Maggiore, Garda, Orta. Si fa coda solo per uscire da Milano: perché l’odiata tangenziale è comunque la più trafficata.
6. Perché qui ci sono le sedi degli editori e dei distributori più importanti, qui si fanno i giochi dell’editoria. Qui si decide se quello che scrivi ha un senso, e se venderà.
7. Perché abbiamo le reliquie dei Re Magi nella Basilica di Sant’Eustorgio.
8. È nato il Campari, vuoi mettere? E lo si può degustare nel salotto buono della città, con vista sul Duomo, in un locale liberty strepitoso.
9. Perché abbiamo Piazza Affari dove ha sede il palazzo della Borsa, ma per dire che siamo superiori a questo sfoggio di ricchezza ci abbiamo piazzato “Il dito” davanti.
10. Perché in un pomeriggio puoi arrivare in mezza Europa: Svizzera, Francia, Slovenia, Austria sono a un passo.
11. Perché i mezzi sono tanti, funzionano e soprattutto sono puntualissimi. Per questo se scendete le scale della metro e sentire lo sferragliare del treno verrete travolti dai milanesi che corrono anche se non hanno fretta.
12. Perché a Milano ti puoi vestire come vuoi, perché nessuno saprà mai se il tuo outfit è la creazione di un giovane couturier o il pigiama della sera prima. E nessuno ti giudicherà per questo. Se hai una Jackie 1961 al polso, ovviamente.
13. Perché il risotto all’onda lo mangi solo qui: l’abbiamo inventato noi nel Rinascimento e negli anni ’80, quando stava per essere dimenticato, gli abbiamo messo sopra una foglia d’oro. Uno dei piatti che ha fatto la fortuna di Gualtiero Marchesi, primo chef italiano a ottenere le tre stelle Michelin, ovviamente a Milano in via Bonvesin de la Riva.
14. Perché abbiamo i Navigli, e i bar sui Navigli, e i cocktail sui Navigli e la movida sui Navigli. E ogni tanto c’è anche l’acqua, nei Navigli.
15. Perché digeriamo meglio di tutti con il Fernet Branca proprio in città, che con la sua torre Branca realizzata nel 1933 dall’acciaieria Dalmine su progetto di Gio Ponti regala una delle viste più alte sulla città. Se c’è vento, regala anche una certa inquietudine.
16. Perché ci siamo presi un salame e lo abbiamo fatto nostro: il salame Milano, buono con il pane.
17. Perché in enoteca trovate un ex calciatore a servirvi un calice di Cannonau (Il gusto di Virdis)
18. Perché siamo milanesi imbruttiti. Una tipologia autoctona solo entro 10km dal centro, che fa sorridere tutta Italia.
19. Perché L’Ultima Cena è qui, insieme alle code di giapponesi che tengono compagnia e alle visite guidate e scaglionate, ridotte e rapide.
20. Perché solo qui vedi le mamme col Cayenne a prendere il figlio a scuola.
21. Perché nostro è il dolce più amato e celebrato al mondo, il panettone, re del Natale. Forma sobria e interno raffinato, nessuna ridondanza, tanta sostanza.
22. Perché al Parco delle Basiliche, spazio verde fatto di olmi, platani e faggi e bordato da un roseto c’è San Lazzaro, protettore dei sofferenti, proprio dove si tenevano le esecuzioni capitali dei malfattori della città. Perché siamo misericordiosi, ma se sbagli non ti perdoniamo.
23. Perché Paolo Sarpi è la Chinatown più gustosa ed estesa d’Italia, dove mangiare come a Shanghai e scoprire che i piedini di maiale e le zampe di gallina sono un ottimo street food.
24. Perché ci sono gli Omenoni, non delle semplici colonne a reggere il peso del Palazzo Leoni Calchi. Sono la rappresentazione delle famiglie dei barbari sconfitti. Sempre perché quando ci fanno innervosire, non le mandiamo a dire.
25. Perché c’è il primo hotel con 7 stelle certificato al mondo. Perché nonostante la percentuale di 5 stelle lusso in città, avevamo voglia di qualcosa di più esclusivo. Ma che sia discreto, incastonato nella Galleria Vittorio Emanuele e con accessi riservati così che sia inaccessibile ai più. Non solo per il prezzo.
26. Perché c’è la più estesa rete di lavoratori digitali del Paese. Le mamme dei milanesi ignorano per la maggior parte la professione dei figli. Qui se non sei digital o social qualcosa hai sbagliato città. E più la tua job description è criptica, più lo stipendio sarà adeguato alla complessità. Che cosa fai esattamente, si fa fatica a spiegare e a volte non l’hai capito nemmeno tu.
27. Perché il Circolo filologico milanese, per i milanesi “Il filologico” è la prima associazione culturale della città, una delle prime in Italia, che promuove lo studio delle lingue e delle civiltà straniere. Vocazione internazionale since 1872.
28. Perché facciamo visite guidate anche per andare al cimitero, al Monumentale, e abbiamo guide preparatissime che fanno parte di una associazione culturale che vi accompagnano tra le tombe.
29. Perché solo a Milano un cantante lirico giapponese può vendere macchine fotografiche. Succede da New old camera.
30. Perché la statua della libertà autentica, la prima mai realizzata, fa bella mostra di sé sulla facciata del Duomo dal 1810. Si narra sia una delle fonti di ispirazione per quella oggi più celebre, realizzata da Auguste Bartholdi e inaugurata nel 1886.
31. Perché a Milano ”shariamo” tutto: auto, moto, bici, monopattini. Non c’è mezzo di trasporto che non sia possibile affittare per pochi minuti o per un anno. C’è persino una gondola sui Navigli, ma non siamo certi che si possa prendere in prestito.
32. Perché abbiamo imparato l’eleganza delle proporzioni, e a comprendere come il giusto mix antico moderno sia una ricchezza da coltivare. Mettetevi in piazza all’Isola in un giorno di mercato e guardate verso Gae Aulenti per averne la prova provata.
33. Perché l’avanguardia gastronomica è indubitabilmente riunita qui. La quantità di ristoranti e la loro varietà stupisce. E se provate a chiedere a uno chef di qualunque altro luogo italiano dove vorrebbe far fortuna, non c’è dubbio che dirà sotto la Madonnina.
34. Perché qui hanno sede le scuole di arte e design più prestigiose: dall’Accademia di Brera allo IED, i creativi e gli artisti hanno qui la loro culla e la loro istruzione.
35. Perché siamo molto studiosi. Abbiamo una biblioteca dedicata agli alberi e la biblioteca Braidense che ospita un milione e mezzo di volumi. E la biblioteca Sormani, la più prestigiosa d’Italia dove tutti gli scrittori ambirebbero ad avere i loro libri.
36. Perché ci autosuperiamo in quanto ad altezza dei grattacieli: dalla Torre Unicredit con i suoi 231 metri, ai più bei grattacieli del Paese disegnati dagli architetti più prestigiosi al mondo come la Torre Generali di Zaha Hadid. Del resto già in epoca romana avevamo Le torri di Milano, per secoli uno dei tratti caratteristici soprattutto nel Medioevo, quando erano di riferimento per le diverse contrade. Oggi la più alta è la Torre Isozaki, un grattacielo progettato dall’architetto giapponese Arata Isozaki e dall’architetto italiano Andrea Maffei. Con i suoi 209,2 metri di altezza, è l’edificio più alto d’Italia per numero di piani: misura 250 metri con l’antenna.
37. Perché abbiamo Peck e Eataly e l’Esselunga: il buon cibo non ci è mai mancato e abbiamo sempre saputo dove andare a comprarlo. Ancora oggi, la mattina di Natale, le sciure e i cumenda sgomitano per una mattonella di paté. rigorosamente logato.
38. Perché l’orto botanico voluto dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria è uno dei più belli e vari del Paese, oltre ad essere un vero polmone di pace nella vibrante Brera.
39. Perché l’Area C è la ZTL più famosa d’Italia: introdotta il 16 gennaio 2012, ha ridotto gli accessi nella cerchia dei Bastioni e ha consentito sia un incremento del 10 per cento della velocità media dei mezzi pubblici di superficie sia un netto contenimento, superiore al 30 per cento, dei principali inquinanti. È stato approvato in modo permanente il 27 marzo 2013.
40. Perché ci sono il ragazzo della via Gluck e le luci a San Siro, le abbronzature a 100mila watt e Porta Romana bella. Milano è sushi e coca e vai di good vibes. Perché staremmo meglio su una spiaggia cubana tra fumo e Havana, ma intanto stiamo qui.
41. Perché Armani ha qui il suo hotel, il suo quartier generale, il suo ristorante. E scommettiamo che non avrebbe potuto inventare il suo greige in nessun altro posto del mondo?
42. Perché i Ferragnez vivono qui, e da qui illuminano l’Instagram di tutto il mondo.
43. Perché qui si ascolta e si fa Radio DJ, in quella via Massena che è ormai un brand nel brand.
44. Perché possiamo bere il vino dei secoli, la Malvasia Candia aromatica, perché nei pressi del Cenacolo Leonardo aveva la sua vigna, donatagli da Ludovico il Moro in cambio del suo lavoro. Oggi è un delizioso luogo accogliente dove sorge la casa degli Atellani.
45. Perché c’è un ippodromo centenario “patrimonio di interesse culturale”, riprogettato da zero dall’architetto Paolo Vietti Violi. È grazie a lui che ancora oggi l’Ippodromo Snai San Siro è considerato un impianto con moderne concezioni strutturali ed estetiche.
46. Perché qui sorge la Scala del calcio. Lo stadio “Giuseppe Meazza” forte dei suoi 80.018 posti, è lo stadio con maggiore capienza del Paese. Anche conosciuto come “San Siro”, dal nome del quartiere in cui è stato edificato, ospita Milan e Inter, due regine del calcio mondiale che vantano nel proprio palmares un numero sterminato di trofei. E che fanno discutere i milanesi, soprattutto durante il derby.
47. Perché si va a bere l’aperitivo nei negozi di fiori, compriamo piante in negozi con ristorante, visitiamo l’evento dedicato ai fiori più cool d’Italia e quello più amato dai milanesi, abbiamo un vivaio storico in centro città. Fioraio bianchi -Capoverde – Orticola – Floralia – Vivaio Riva.
48. Perché qui è stato inventato l’happy hour e per scoprire dove basta andare al Bar Basso e prendere un Negroni sbagliato.
49. Perché i paninari sono nati qui, celebrati persino dai Pet Shop Boys, che dopo una visita in centro incisero il singolo Paninaro, portando la moda a livello internazionale. I protagonisti del videoclip, girato a Milano, erano alcuni ragazzi perfettamente vestiti secondo i dettami del tempo e si riunivano in San Babila, nelle paninoteche e nei fast food che contribuirono al loro nome.
50. Perché puoi stare comodamente sul divano e mangiare, bere e avere tutto quello che vuoi: il delivery è nato qui, e da qui sono partite tutte le più importanti esperienze di ghost, cloud e dark kitchen.
51. Perché compriamo bio da quando non andava ancora di moda e mangiavamo vegetariano prima che lo inventassero. È a Milano il primo ristorante stellato veg d’Italia, il mitico Joia di Pietro Leeman.
52. Perché ci si può far fare un tatuaggio chic, con il braccialetto saldato direttamente al polso. Da Atelier VM.
53. Perché c’è l’unico ristorante tristellato italiano in un museo: il Mudec di Bartolini (tra l’altro chef più stellato d’Italia con i suoi ristoranti sparsi per tutta Italia).
54. Perché Prada qui ha il suo headquarter con lo scivolo nell’ufficio del capo (“la Miuccia”), il suo museo coperto d’oro (la Torre Prada) e persino le pasticcerie Marchesi. Sono le più chic della città, ça va sans dire.
55. Perché operano da qui due degli wedding planner più ricercati al mondo, Giorgia Fantin Borghi e Enzo Miccio.
56. Perché viveva e operava qui uno dei primi serial killer della storia moderna, in via Bagnera, tra l’altro la via percorribile in auto più stretta della città. Antonio Boggia, mostro di Milano, operò a fine ottocento e seppellì in cantina i corpi delle sue 4 vittime. Smascherato, venne impiccato nell’ultima esecuzione avvenuta in città.
57. Perché i cani hanno i loro negozi per lo shopping di lusso dal 1998: For Pets Only è stata fondata a Milano da un’idea di Silvia Savi. E anche gastronomie e pasticcerie a loro riservate, come Pets Gourmet, che ha diete create appositamente per i “clienti” abbaianti che hanno problemi alimentari.
58. Perché abbiamo iniziato a fare pilates prima di tutti grazie ad Anna Maria Cova, una delle guru del movimento, pioniera e docente internazionale che ha qui il suo studio. A partire dal 1989, sviluppa un metodo per insegnare il Pilates combinando la sua esperienza di ballerina classica con solide basi di anatomia e fisiologia.
59. Perché il design ha casa a Milano: qui ci sono gli studi – oggi musei visitabili – di alcuni dei padri dell’architettura italiana. Studio museo Achille Castiglioni, Casa Borletti, residenza di Giò Ponti, e casa Caccia Dominioni, la fondazione Magistretti. E se non volete vederli separati, potete trovarli insieme a tanti altri alla Triennale di Milano.
60. Perché abbiamo una delle più antiche fiere paesane al mondo che ancora viene festeggiata. El tredesin de Marz è il ricordo del primo diffondersi del cristianesimo a Milano e rappresenta ancor oggi la tradizionale festa della primavera e dei fiori che si celebrava con un’esposizione di piante e di fiori attorno alla chiesa di Santa Maria al Paradiso, lungo i viali aperti dopo la demolizione dei bastioni tra Porta Vigentina e Porta Ludovica. E il 13 si festeggia ancora oggi la cristianizzazione dei cittadini milanesi e, proprio come facevano i nostri antenati insubri, la rinascita del Sole, la rinnovata Primavera.
61. Perché c’è dal 1848 una palla di cannone rimasta intrappolata nelle mura sotto il balcone alla destra del portone principale della casa di porta romana 3. È la testimonianza delle 5 giornate di Milano.
62. Perché abbiamo fatto diventare fashion la parrucchiera e la manicure che vengono a casa: Madame Miranda è il primo servizio di questo genere che si prenota online e che arriva anche in ufficio o dove serve. Perché l’apparenza è sostanza.
63. Perché abbiamo il chiosco di pollo allo spiedo più “buono” al mondo: ogni anno l’intero ricavato di un sabato di lavoro viene devoluto alla ricerca sul cancro. E Giannasi è qui con i suoi polli, i suoi fritti e la sua zucca al forno dal 1967.
64. Perché abbiamo il Mare. Un centro di produzione artistica e culturale attivo nella zona ovest con un’officina di linguaggi contemporanei, palco per i giovani artisti, spazio per drammaturghi attori e registi in residenza che lavorano con il territorio.
65. Perché qui i grandi personaggi della tv che si mangia hanno il loro quartier generale. Carlo Cracco col suo building storico in Galleria, Ernst Knam con la sua pasticceria in via Anfossi dove gustare il meglio del re del cioccolato, Sonia Peronaci con la sua Sonia Factory luogo per eventi e set per videoricette.
66. Perché possiamo farci un monumento in bronzo con la tecnica della cera persa alla fonderia artistica Battaglia, fondata nel 1913.
67. Perché si sente spesso dire, da chi non conosce né frequenta Milano, che si tratti di una città grigia, ma i milanesi doc sanno che nelle giornate limpide, che sono molte più di quanto si creda, alzando il naso all’insù si può godere di un cielo ceruleo, circondato dai fiori che spuntano dai balconi di palazzi storici e grattacieli moderni. E si vedono le montagne molto più spesso di quanto si pensi. E alla fine, qui, ti fai piacere anche la nebbia.
68. Perché qui si trova la pasticceria francese. Ma anche granite siciliane e torte tradizionalissime. Milano è la città dove si preparano i dolci che appartengono alle più diverse cucine, che soddisfano tutte le voglie a ogni ora del giorno.
69. Perché sempre più diffuse negli ultimi anni, le vinerie sono le enoteche con qualcosa in più, perché oltre a vendere bottiglie non così facili da trovare nella grande distribuzione, propongono ai clienti di sedere a un tavolino – generalmente ce ne sono pochi ma molto graziosi – e assaggiare un calice accompagnato da qualche sfizio salato. La versione alcolica della pausa caffè, amatissima da tutti gli avventori maggiorenni.
70. Perché alcune cascine sono resistite miracolosamente al passare degli anni e dei cambiamenti architettonici all’interno della città, altre sono collocate poco fuori, ma le cascine ristrutturate che permettono ai milanesi una fuga dal caos metropolitano sono numerose e oggi hanno assunto le funzioni più diverse. In alcune si organizzano concerti indie, altre sono set perfetti per matrimoni e festeggiamenti, altri ancora il regno della cucina tradizionale, ma tutte amatissime e preservate dai cittadini. Cascina Guzzafame – La forestina – Gaggioli.
71. Perché i veri milanesi non sono quelli che prendono la metropolitana di fretta il lunedì mattina, ma quelli che nel fine settimana hanno voglia di attraversare il proprio quartiere a piedi, spiando i giardini e le corti che si intravedono all’interno dei palazzi e magari, scoprirne la storia. Perché ci sono i cortili segreti e nascosti più belli di sempre. Ma per conoscerli e vederli bisogna farsi accompagnare dai milanesi.
72. Perché altro che cani e gatti, a Milano l’animale da compagnia è il fenicottero. Si possono ammirare a Villa Invernizzi, al numero 9 di via dei Cappuccini, nel giardino di una costruzione in stile Liberty che, per volere del Cavalier Invernizzi, ospita una colonia di fenicotteri sin dagli anni Settanta. L’abitazione non è aperta al pubblico, per cui per vedere i fenicotteri bisogna avere un po’ di fortuna, ma quando capita, il cuore salta sempre un poco.
73. Perché non abbiamo mai tempo e per ovviare a questo problema abbiamo inventato un’azienda che fa tutto quello che non riusciamo a fare noi. Si chiama Noitutto, fidata come una segretaria, affidabile come un maggiordomo, disponibile come un amico.
74. Perché abbiamo le piste ciclabili più amate e contestate, ma sappiamo per certo che girando con la bici si scoprono sempre posti nuovi. I Ladri di biciclette hanno un bel da fare, visto che qui i ciclisti sono bravi come meccanici e cari come gioiellieri. Perché le bici a Milano sono customizzate o non sono. E i ciclisti hanno anche i locali fatti per loro. Scatto italiano – Rossignoli – Upcycle
75. Perché c’è una fabbrica di cioccolato cittadina, fondata nel 1913. È la Zaini, oggi come allora, un baluardo di dolcezza.
76. Perché non amiamo le discoteche, che pur ci sono dentro e fuori la città, ma resistono luoghi come la Balera dell’ortica, che nei mesi estivi propone serate di liscio, di swing e Boogie Woogie e d’inverno lezioni di ballo. Bocciofila e trattoria, invece, sono sempre aperte. Un tuffo nella Milano che c’era (e c’è ancora).
77. Perché è il rifugio per gli amanti del vintage è molto meno noto: dal Mercatone dell’Antiquariato sui Navigli, che si tiene ogni ultima domenica del mese tutto l’anno, all’East Market, che ospita artigiani hypster e amanti del vintage, fino ai negozi dove si possono trovare attualissimi abiti d’epoca, come Ambroeus Milano. Riciclo e recupero a Milano sono all’ultima moda.
78. Perché puoi andare al mercato di carne, pesce, fiori e frutta più fornito e grande d’Italia. Che è talmente cool da chiamarsi Foody.
79. Perché è una città eterogenea, in grado di farci passare dai resti romani, ai vicoli medievali, dal liberty al bosco verticale, transitando con una passeggiata attraverso tutti gli stili e tutte le epoche.
80. Perché ci sono la Biblioteca degli alberi e il bosco verticale. Il Parco Sempione e il Parco delle Cave. Il verde non manca.
81. Perché abbiamo il sindaco più instagrammabile (e instagrammatore) d’Italia.
82. Perché i tram sono i più belli del mondo, e se avete voglia di fare un giro per il centro basta salire sull’1 a Cadorna e lasciarvi trasportare osservando la città dal finestrino. E se volete anche cenare, c’è anche il tram con cucina annessa. Milano Express.
83. Perché ormai abbiamo anche i dehors come a Roma e con il riscaldamento climatico li possiamo usare tutto l’anno.
84. Perché è vicina a Santa e a St., tra mare e montagna. Astenersi Cortinesi e Sanremesi. Se andiamo, ovviamente per il week end, andiamo a Santa Margherita e a St. Moritz.
85. Perché Milan l’è on gran Milan, ma se hai buone gambe e un po’ di voglia, puoi andare ovunque a piedi o in bici.
86. Perché, nonostante i luoghi comuni, a Milano è facile fare amicizia. Basta entrare nel giro giusto.
87. Perché in città c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, soprattutto quando c’è il salone del mobile e il suo ormai mitico fuorisalone, crocevia di designer, installazioni, contraddizioni e tartine.
88. Perché qui si svolgono due delle manifestazioni di arte contemporanea più accessibili, Miart e Affordable art fair.
89. Perché solo qui si può ascoltare dal vivo la stessa musica che si ascolta a New York con il Blue note, e per il festival musicale più mattiniero, che porta il pianoforte nei quartieri e nei parchi, nelle case e nelle piazze alle ore più improbabili. È Pianocity.
90. Abbiamo una fontana dentro una chiesa: è a Santa Maria della Fontana, ed è una pietra verticale con undici fori da cui esce l’acqua.
91. Perché solo a Milano al mercato compri i maglioni di cachemire e trovi i capi firmati dell’ultima collezione. Soprattutto se il mercato è quello di via Calvi. Puoi spendere la stessa cifra anche comprando gamberi o polli di Bresse al mercato di piazza Wagner.
92. Perché si può fare facilmente un salto nel razionalismo degli anni Trenta andando a vedere il capolavoro del Portaluppi, Villa Necchi Campiglio.
93. Perché possiamo vedere le stelle sul soffitto: e sono tutte le stelle del mondo, al Planetario dei giardini di via Palestro. Per quelle vere, invece, ci stiamo attrezzando, ma dalla montagnetta la vista sul cielo non è male affatto.
94. Perché Milan ha il coeur in man. Ma è un cuore artistico. Antonio Boschi e Marieda Di Stefano hanno donato alla città una selezione di 300 opere che i collezionisti hanno raccolto come testimonianza della storia dell’arte italiana del XX secolo.
95. Perché a Milano ci vuole orecchio, come il Palazzo Sola Busca dove c’è un citofono in pietra scolpito da Adolfo Wildt nel 1930, posto accanto al portone d’ingresso per parlare con il custode. Bisbigliando un desiderio nell’orecchio pare che questo si avveri. Non è vero ma ci crediamo.
96. Perché c’è l’unica copia europea della spaventosa e gotica casa di Brooklyn del rabbino Yosef Yitzchak Schneerson, sfuggito per le persecuzioni razziali. Il genero, per rendergli omaggio, ne costruì 12, una proprio in via Poerio 35.
97. Perché c’è un negozio dove vendono solo grissini (e sono i grissini più buoni e calorici del mondo), un ristorante che fa solo sciatt e piatti valtellinesi, e un locale che offre solo bruschette svedesi. E non sono ancora chiusi.
98. Perché non c’è un luna park come a NYC, ma la scritta Luna Park in caratteri giganti, a ricordo delle Varesine dove il luna park c’era, le abbiamo tenute: salvate e trasferite a Lambrate dall’artista Patrik Tuttofuoco stanno a presidiare uno dei nuovi quartieri emergenti.
99. Perché c’è un favoloso Teatro, il Franco Parenti, che ha fondato una Radio e realizzato quella meraviglia dei Bagni Misteriosi, i Caraibi liberty di Milano.
100. Abbiamo Nolo, abbiamo Napa, abbiamo SouPra. Perché essere cool, a Milano, è uno state of mind.
101. 101. Perché Linkiesta è di Milano.
Taaac! Com’è cambiato Il Milanese Imbruttito, la maschera della milanesità sul web. Ilaria Chiavacci su L'Inkiesta il 3 Dicembre 2021. Il 7 dicembre arriva al cinema “Mollo tutto e apro un chiringuito”, esordio nelle sale della pagina caricaturale nata per gioco nel 2013, che oggi è diventata una realtà di successo nel settore della content creation. A Milano succede che una pagina nata per gioco sugli stereotipi più gettonati riguardanti la città e chi la abita, diventi un‘azienda di content creation di successo e che arrivi nelle sale con un film vero e proprio. Il Milanese Imbruttito, realtà creata nel 2013 da Tommaso Pozza, Federico Marisio e Marco De Crescenzio, sta infatti per arrivare al cinema con “Mollo tutto e apro un chiringuito”, film che, non poteva essere altrimenti, arriverà nelle sale il 7 dicembre, ovvero il giorno di Sant’Ambroeus.
«Che poi noi siamo tutti e tre dei giargiana, nessuno è di Milano, ma ci siamo trasferiti qua per studiare» racconta uno dei founder, Tommaso Pozza nella sua «ora buca», in pieno stile Imbruttito, dopo l’anteprima di “Mollo tutto e apro un Chiringuito”. «Siamo partiti dall’osservazione del reale, amici o contatti di lavoro, ognuno di noi non faceva che dare il suo punto di vista, composto da stereotipi un po’ grotteschi, ma allo stesso tempo divertenti, sul lavoratore business oriented, super stressato e iper operativo».
La crescita della pagina Facebook de Il Milanese Imbruttito, aperta il 7 marzo 2013, è stata esponenziale: «Già allora prendere 110 mila like in un mese era un’enormità. Non esisteva la parola influencer, non c’erano Tik Tok o i branded content e non c’era niente di quello che esiste oggi nel panorama social, era tutto da inventare, c’era spazio per poter fare».
La storia di questo, che oggi è a tutti gli effetti un brand, corre veloce: prima i post bianco su nero, poi le Interviste Imbruttite realizzate per la strada e, finalmente, nel 2016, un volto per l’Imbruttito. Cruciale l’incontro con il Terzo Segreto di Satira, che sono diventati i produttori di tutti i format video nonché i registi del film, e con Germano Lanzoni, l’attore del roaster de Il Terzo Segreto di Satira che poi è diventato il volto dell’imprenditore imbruttito.
«All’epoca non avevamo il budget per sostenere delle produzioni video articolate esclusivamente per la nostra fanbase, quindi ci siamo proposti alle aziende. Grazie a queste partnership abbiamo potuto evolvere il nostro mondo, siamo cresciuti come società, ma siamo cresciuti anche nella scrittura e nella content creation».
È una mia impressione, o anche l’Imbruttito si è evoluto? Nel film si parla di sostenibilità e c’è l’imprenditore guru…
Moltissimo: siamo partiti in un’epoca e ci ritroviamo in un’altra, quindi ci siamo adeguati. Gli stereotipi, che per noi sono la base del lavoro, non sono più gli stessi, noi cerchiamo sempre di andare in profondità sul perché queste macchiette esistono.
Quindi cosa è successo al manager stressato?
Si è scontrato con il mondo green, con la sostenibilità, con la new economy, con l’ambiente e con la diversity. L’imbruttito degli inizi non esiste più. Per noi è stato bello poter seguire, sia da osservatori che da accompagnatori, l’evoluzione di Milano in nove anni. In questo tempo non sono cambiati solo gli stereotipi, è cambiata proprio la città nella sua completezza, sia a livello di infrastrutture, che di contenuto. Questo è sicuramente molto interessante e noi siamo stati testimoni e traghettatori di certe cose che ci sono passate per le mani. Pensiamo anche solo allo skyline: le torri di Porta Nuova o City Life che non esistevano.
E ora com’è, l’identikit dell’imbruttito?
Sicuramente è molto più international: se prima gli inglesismi venivano buttati lì ogni tanto, adesso sono il pane quotidiano. Il fatto di respirare questa aria internazionale in una città che rimane pur sempre una piccola metropoli, è sicuramente un tema. Se prima lavoravamo sul singolo stereotipo, ora si può lavorare su una decina di situazioni in contemporanea: stiamo cercando di dipingere meglio anche il fronte femminile, il mondo dello sport, della musica e della moda. Potenzialmente potremmo raccontare di tutto perché adesso a Milano c’è tutto.
Com’è cambiata la città in questi nove anni?
Sicuramente in meglio: è cambiato tutto Expo in poi: prima ok, era la locomotiva dell’Italia, il centro produttivo del paese, ma oggi è veramente il place to be. Milano ha anche un bell’abito e, secondo me, a tendere vedendo anche l’obiettivo delle Olimpiadi Invernali Milano-Cortina del 2026, in questi 4 o 5 anni succederanno un sacco di cose. Il bello di Milano è che è in continuo mutamento, non è una città ferma: il fatto che sia una città liquida, che cambia in continuazione, ci permette, a livello di contenuto, di poter avere in continuazione qualcosa di nuovo di cui parlare.
Parte del vostro successo la dovete anche a chi questa città la ama?
Assolutamente, per noi la community è sempre stata cruciale e abbiamo sempre accolto e ascoltato tutti i suggerimenti, le foto e le gag che ci venivano mandate. Un altro grande stereotipo italiano, poi, è quello del campanilismo. Con la differenza, rispetto ad altri luoghi d’Italia, che Milano è un grandissimo porto di mare: è come se fosse un po’ il riassunto dell’Italia. L’imbruttito in definitiva arriva da tutte le altre regioni, o addirittura dall’estero, quindi c’è un attaccamento fortissimo, sia da parte di chi in questa città ci è nato e cresciuto, ma anche da parte di chi ci è arrivato. È un posto che ti toglie tanto, ma ti dà anche tanto: io credo che questa cosa abbia sempre fatto sì che le persone si schierassero in difesa della città e di tutto quello che ne consegue, quindi anche realtà come la nostra. Anzi, credo proprio che questa proudness ci abbia dato una grandissima spinta.
DAGOREPORT il 10 dicembre 2021. Oh Macbeth, il potere dov’è? Solo ieri i palchi della Scala alloggiavano i Faraoni di Milano: sul fondo c'era Arnoldo Mondadori, ed aveva come custodi a destra Angelo Rizzoli e a sinistra Edilio Rusconi. Da quest'altra parte si poteva ammirare Giovambattista Falk e Giovanni Pirelli, là al centro Angelo ed Erminia Moratti, e accanto i Borghi e i Radice Fossati; davanti a tutti troneggiava Annibale Brivio Sforza nel suo ruolo di intercettatore dell'aristocrazia lombarda. Il palco, poi, diventava proscenio all'arrivo dei Crespi, proprietari del Corriere della Sera. All'inizio del Novecento la città più amata da Stendhal era il "luogo del fare". La vecchia Milano era una Chiesa, tutto era sacro, intoccabile, serio e paziente: la cultura industriale, la nevrosi produttiva, lo slancio dell'efficienza, di nuove energie letterarie, nuove ambizioni artistiche. E la prima della Scala era passerella di una Milano che aveva un grande sogno: essere la "Grande Mela" d'Italia, la New York sui Navigli, la capitale della cultura europea. Oh Macbeth, il potere dov’è? Dove sono finiti gli Archinto, i Rusca Tofanelli, i Brion? Quella Grande Borghesia che, tra economia e finanza, incarnava i valori assoluti della cosiddetta capitale morale, luogo extra-territoriale di un paese strappato dalle grinfie dei magliari della politica romanesca. Una volta la prima della Scala calamitava una nomenklatura di stile, selezione, buon gusto formata e capitanata dal patron Ghiringhelli, Camilla Cederna, Wally Toscanini, Ileana De Sabata, Giovanna Lomazzi, Alberto Arbasino e Giovanni Testori; e bastava che la divina Callas, durante una "Traviata" diretta da Visconti, perdesse una scarpetta per far ruggire il vecchio industriale: "La Scala l'è diventata el Circo Togni". Quella che era la scala santa della milanesità, quindi perdersi nel girone dei palchi scaligeri, scrutare la lista degli abbonati, da sempre simbolo di successo spasimato e di agiatezza realizzata, è definitivamente scomparsa. La lapide è scesa con il pessimo “Macbetto” di Livermore-Chailly, salvato dalla catastrofe solo dalla presenza carismatica di Mattarella al suo ultimo atto. A troneggiare c’è solo Armani (ma con le nipoti e un grottesco ‘’ombrellino’’ cancellarughe per le foto) e tutti vestono Armani, compresi i fiori, e siccome Armani è tornato quest’anno non avremo l’albero di Natale Dolce e Gabbana. Invidia del pene? Ingiuria dell’uomo superbo? Ma quali sogni possano venire se nemmeno Re Giorgio, il Vetrinista Supremo è riuscito a portare Cate Blanchett o a convincere la diva di riserva Sophia Loren a venire alla Scala? Si è dovuto accontentare di farsi fotografare con l'ignorata modella ungherese Barbara Palvin, ex angelo sbikinato di Victoria’s Secret. Niente Loren trattenuta nella Valle dei Templi a Luxor e la Vanoni è caduta in treno per colpa di un labrador. Per carità, non si dice Angelina Jolie, ma almeno una Marini chiappona de’ noantri, una Parietti rifatta di seconda mano. Niente. Bisogna sopportare i colpi di fionda che ha voluto Muti, proprio in questi stessi giorni, protagonista nella periferica maison Prada by Koolhaas, e così pure Miuccia era assente nel sottoScala del fiorista Armani. Non si chiede la presenza del sire di Hardcore, ormai a rischio decomposizione, ma almeno della figlia Marina, editrice della Mondadori-Rizzoli, cioè la più grande casa editrice italica ospite di quel di Segrate. Al solito ha timbrato il cartellino il solito Fedele Confalonieri mangiaregisti. Non si pretende una platea con il Conte Appulo in smoking e il truce meneghino Salvini in lungo, l’Enrico Letta addormentato e le labbra rossettate di Maria Elena Boschi con toy-boy al guinzaglio, ma non si è visto nemmeno un Gianniletta da Roma con signora Margherita, insomma un qualcuno di quelli che frequentavano il potente salotto della Angelillo. Oh Macbeth, il potere dov’è? Se ci fosse almeno il presidente di Confindustria Bonomi ci si potrebbe dare quietanza; ma dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio di finanzieri dove sono i Descalzi – che è consigliere – i Tronchetti Provera, i Della Valle, i Carlo Messina, la Mediobanca di Nagel, il notaio de Milan Piergaetano Marchetti? E il più importante legale d’affari d’Italia, Sergio Erede? Sono già a Sankt Moritz i Palenzona e gli Abatatessa, padroni del mattone milanese? E i Moratti, sono tutti a vedere Inter-Real, compresa l’assessora alla Regione Letizia? Qualcuno ha avvistato in platea gli arzilli vecchietti Leonardo Del Vecchio e Franco Caltagirone che sognano ogni notte Mediobanca e Generali? E il “Generale” Donnet? Non pervenuti John Elkann con la Borromeo. Non è lui il potere globale? Non sono i Borromeo che comandavano a Milano? Non è lui che deve comprare Armani? Non è lui la plusvalenza? Tutti timorosi di Omicron, caro Macbeth? Magari aver cassato la cena del dopo-Scala al Giardino, da sempre climax e status della mondanità meneghina, ha fatto passare la voglia a Urbanetto Cairo con il suo direttor Luciano Fontana. C’è solo il direttore Molinari di “Repubblica”, nemmeno Chiara Beria che è già andata a Courmayeur, senza Elisabetta Sgarbi ci fosse almeno una Greta Beccaglia che, con la ressa che c’è nel foyer lì la mano scappa involontaria… Niente: solo le statue di Vespa e della Carlucci a fianco di quella di Rossini scolpita da Pietro Magni nell’Ottocento. Il ritardo della Legge è evidente, caro Macbeth: c’erano solo Francesco Greco e la Pomodoro, due ex senza il grande ex melomane Borrelli, che ha superato la linea del Piave. Sarà la pandemia che fa stare la farmaceutica Diana Bracco un po’ discosta, forse per non farsi vedere da quel Burioni quando dice “Vorrei essere presto dimenticato”. Sarà fatto. C’è il nasone di Maurizio Cattelan, quello del dito medio alzato davanti a tutti lor signori davanti alla Borsa, ma non c’è nemmeno un Manfredi Catella con moglie amerikana tra i tanti grattacieli, proprio lui che ottiene cubature che Livermore manco se le sogna! E’ Milano la città distopica; ci fosse ancora quell’Arbasino direbbe una “città senza…”. Non possiamo, Macbeth, accontentarci di un Bolle bollito o di un Luca Argentero notato solo per le tette sopraelevate della moglie, o di un Arturo Artom qualunque, che dà alla sventura una vita così lunga, perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell'oppressore senza nemmeno uno Sgarbi maschio e femmina a rappresentare la cultura? Morire, dormire, dormire, forse sognare che ci siano ancora Arbasino e Calasso e poi Daverio e almeno un Gregotti un qualcuno che non “sembran”, come dici nel libretto, altro che “orfanelli”. Ma se non c’è più nemmeno la cena alla Società del Giardino, chi può sopportare i fardelli della musica? Se Livermore va da Cracco in Galleria attovagliato dal grillozzo Artom, anche le imprese di grande altezza deviano dal loro corso e precipitano come nel sonnabulismo. Con un sonno, allora, poniamo fine al dolore del cuore, Macbeth: è Milano il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno.
Atm Milano, la cricca dei biglietti clonati: il dipendente che denunciò la truffa licenziato e due volte assolto. Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. Il dipendente cacciato nel 2019 perché avrebbe proferito violente minacce contro due superiori: ma quelle frasi non vennero mai pronunciate. Licenziato. Ma per un fatto che «non sussiste». L’ultima parabola dell’(ex) impiegato dell’Atm che ha denunciato la truffa dei biglietti clonati, parte da un provvedimento dell’azienda datato 8 febbraio 2019 (il dipendente cacciato perché avrebbe proferito violente minacce contro due superiori, «ora gli faccio vedere io... prendo il fucile e li ammazzo») e finisce con una sentenza di assoluzione piena in Tribunale: quelle minacce non sono mai state pronunciate. Per rendersi conto che non si tratta solo di una causa di lavoro, o di un rovello di interna corporis annidato in un clima di antipatie tra colleghi, bisogna ricordare che lo scorso ottobre, dopo la chiusura delle indagini dei carabinieri, la magistratura ha sequestrato beni per 1,2 milioni alla funzionaria (anche lei licenziata) accusata di stampare e rivendere in nero biglietti e abbonamenti per i mezzi pubblici. Altri 9 dipendenti sono stati licenziati con la stessa «imputazione» (anche se per somme molto minori), ma a distanza di tre anni non si sa ancora che esito abbia avuto il procedimento penale.
Chi è il whistleblower
La cifra di quel sequestro dà però, almeno in parte, la proporzione di quanto sia stato ampio il canale di frode che fino all’inizio del 2018 drenava incassi destinati all’azienda e al Comune (il pagamento dei passeggeri per i titoli di viaggio), e li dirottava verso tasche private. Nel frattempo, mentre Atm denunciava la truffa e l’Arma iniziava a indagare, il whistleblower, e cioè l’uomo che aveva provato a scoperchiare il sistema prima con segnalazioni, poi con mail certificate alla sua azienda e al Comune, è stato investito da una serie di procedimenti disciplinari e infine licenziato. Oggi incassa la seconda assoluzione penale: stavolta rispetto ai fatti che hanno provocato il suo allontanamento.
Testimoni a confronto
Storia intricata. Parte a fine 2016 con due esposti che porteranno alla chiusura (poi sanata) di due piani della sede Atm di Foro Buonaparte per il mancato rispetto delle norme di sicurezza. Gli esposti portano la firma di un dirigente, che però la disconosce. L’indagine interna dell’Atm punta subito sul whistleblower, come autore ombra degli esposti, e viene confermata dalla polizia giudiziaria: a marzo 2018 l’impiegato viene rinviato a giudizio per «sostituzione di persona». Nel frattempo, a novembre 2017, lo stesso dipendente firma le due Pec che porteranno all’inchiesta sui biglietti clonati (che l’indagine sia nata da una soffiata interna lo ha confermato un dirigente Atm in un’udienza al Tribunale del lavoro). Qualche mese dopo, a giugno 2018, l’impiegato riceve una lettera anonima in cui qualcuno sostine che sulla denuncia ai vigili del fuoco qualcuno all’interno dell’azienda «l’avrebbe incastrato». Il dipendente ha una reazione di rabbia e sconforto, in Atm arriva prima un’ambulanza, poi una pattuglia dei carabinieri. È in quella situazione che tre colleghi (tra cui un dirigente) dicono di aver sentito le minacce di morte. Per quei fatti il whistleblower viene di nuovo denunciato, e poi licenziato.
La doppia assoluzione
Il 9 giugno 2020 arriva la prima sentenza penale: il whistleblower assolto dalla «sostituzione di persona» perché non ci sono prove per affermare che abbia mandato lui gli esposti (l’assoluzione è stata chiesta dallo stesso pm). E poi, con sentenza dello scorso 8 settembre, sempre assistito dai legali Domenico Tambasco e Gennaro Colangelo, il whistleblower incassa la seconda e ancor più pesante assoluzione («il fatto non sussiste») per le minacce: a fronte di tre testimoni che hanno sostenuto di aver sentito le frasi col proposito d’omicidio, altri sette impiegati Atm presenti quella mattina hanno smentito del tutto la ricostruzione, parlando dello «stato di afflizione» del loro collega, ma escludendo del tutto di aver sentito le minacce. Un quadro confermato anche dai sanitari e dai carabinieri intervenuti in azienda. Il ricorso contro il licenziamento è ancora aperto davanti al Tribunale del lavoro: un percorso parallelo, in cui il giudizio penale potrebbe avere un peso, ma non è vincolante per il giudice.
Le indagini interne
Nell’inchiesta dei carabinieri sui biglietti clonati è però emerso un altro elemento, e cioè che sia stato sempre lo stesso whistleblower ad informato l’azienda sulle truffe interne negli Atm Point già nel periodo a cavallo tra 2015 e 2016. Lo ha raccontato un ex potentissimo capo del personale agli investigatori, dicendo che l’impiegato si era rivolto a lui per la segnalazione. Ecco quel che accadde (nella ricostruzione messa a verbale): «Ritenni utile convocare il dipendente in un bar di piazza Argentina, con preghiera di rendere partecipe il dirigente (all’epoca responsabile degli Atm Point, ndr) di quanto mi aveva riferito». Lo stesso ex capo del personale racconta di aver saputo che vennero fatte indagini interne affidate a due dirigenti, che riferirono poi al loro superiore gerarchico, dunque ai massimi vertici aziendali. Quei due dirigenti sono ancora in Atm. Il verbale si chiude così: all’epoca, «venni poi a sapere l’esito di tali indagini fu negativo».
Lo scalpo del governatore della Lombardia. Attilio Fontana accusato di “frode in donazione”, reato inventato per mandare a processo il governatore della Lombardia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Dicembre 2021. La scombiccherata procura della repubblica milanese, quella che da almeno un anno accerchia inutilmente Matteo Salvini e la Lega proprio come un giorno fece (e ancora fa) con Berlusconi, si accontenta per ora di agitare lo scalpo del presidente Attilio Fontana. E chiede che sia mandato a processo per frode in donazione. Proprio così. Un po’ come se qualcuno avesse promesso di regalare tre libri, o tre vestiti, e poi ne avesse donati solo due. In realtà l’articolo 356 del codice penale, “frode in pubbliche forniture” non parla di regali, ma di contratti pubblici violati da una parte. Per esempio quando si consegna una merce diversa da quella stabilita. Naturalmente all’interno di un contratto a titolo oneroso, cioè prodotti in cambio di denaro. Ma nella vicenda per la quale la procura di Milano chiede al giudice di processare Attilio Fontana non c’è ombra di denaro, anzi, la Regione Lombardia ci ha guadagnato perché, in uno dei momenti più tragici della pandemia dell’anno scorso, ha ricevuto in omaggio cinquantamila camici. Una vera boccata d’ossigeno, nei giorni in cui qualunque presidio sanitario, mascherine comprese, era quanto mai introvabile. Passerà alla storia, o almeno alla cronaca, come lo “scandalo” dei camici. Anche se di scandaloso non c’è proprio niente. Per capire il contesto politico cui si inscrive la vicenda, basti ricordare l’assedio mediatico-giudiziario piombato addosso alla Regione Lombardia nel momento della sua maggiore difficoltà sociale e sanitaria. L’inchiesta mediatico-giudiziaria sul Pio Albergo Trivulzio con tutte le panzane del Fatto e di Repubblica ebbe titoloni ogni giorno, anche se poi si è sciolta come neve al sole sulla base soprattutto della perizia ordinata dalla procura. Quanti si sono accorti del fatto che il Pio Albergo Trivulzio nel frattempo ha recuperato l’immagine di eccellenza come principale casa di riposo italiana ed europea? Quanti articoli di scuse ha scritto Gad Lerner che per primo, citando l’istituto come quello presieduto negli anni novanta da Mario Chiesa e da cui partì Tangentopoli, inventò inesistenti fatti delittuosi? Per non parlare di tutti i comitati e comitatini che sfruttando il dolore di chi aveva perso persone care a causa del covid, si erano inventati l’inesistente reato di “epidemia colposa”, seguiti da qualche procura come quella di Bergamo. Mentre in tutta Italia le indagini frettolosamente aperte stanno terminando con archiviazioni. E anche la principale, che sfiora il ministro Speranza, dovrà per forza finire in nulla. Quello era il clima, mentre i partiti della sinistra e quello dei Cinque stelle con cinismo già assaporavano il boccone grosso della Regione Lombardia e insieme quello del capo del partito maggioritario al nord, e in quei giorni ancora in testa sul piano nazionale in tutti i sondaggi. Il presidente Fontana qualche errore, qualche pasticcio sicuramente l’ha fatto in quella circostanza. Quella in cui la Regione Lombardia, seguendo quanto disposto dal governo sul piano nazionale, aveva contattato una serie di aziende cui proporre in affidamento diretto l’incarico di fornire il numero più alto possibile di camici ospedalieri e altri presidi sanitari. Senza gara, perché nella situazione di emergenza questo è possibile. Nessuno scandalo, dunque. Ma c’è un “ma”. Era inopportuno il fatto che una delle cinque aziende individuate dall’assessore competente, la Dama di Andrea Dini fosse di proprietà del cognato del presidente (e al 10 per cento della moglie)? Forse si, o forse no. Anche i parenti devono poter lavorare, purché non diventino soggetti privilegiati. E non si cada in un concreto conflitto di interessi. Fatto sta che, nella confusione frenetica di quei giorni, a un certo punto lo stesso Fontana si rende conto che sta per scoppiare, sia pure ingiustamente, un bubbone mediatico. Le telecamere di Report annusano il sangue e cominciano a gironzolare, a chiedere, a citofonare (ah, la passione giornalistica per le interviste ai citofoni!). Così Andrea Dini fa sapere alla società Aria, quella che per la Regione Lombardia si occupa delle forniture, che offrirà i camici in donazione. Tutto finito dunque? E no, perché, dei 75.000 camici previsti dall’iniziale contratto poi saltato (a fronte di un incasso di 513.000 euro) ne verranno regalati “solo” 50.000. Un bel regalo per il mondo sanitario e per i cittadini lombardi, no? Invece no. Ah mondo ingrato! Nessuno ringrazia il donatore, Né la moglie né il cognato, che è poi il presidente della Regione. Il quale pensa poi, proprio perché è uno per bene, di dare personalmente, cioè togliendoli dalle proprie tasche, 250.000 euro a Dini, a titolo di parziale risarcimento per la sua azienda che, come tutte le altre in quel momento, non viveva un periodo particolarmente brillante e aveva perso una fonte di guadagno. Così si apre un altro filone di indagine, perché la cifra viene prelevata da un conto svizzero con fondi “scudati” ed ereditati dalla madre di Fontana e la cifra insospettisce e fa scattare le norme antiriciclaggio. Così nasce una seconda inchiesta, rallentata dalle necessarie rogatorie con la Svizzera. Ma l’assalto a Fontana è da subito politico. Quanti anni sono che la sinistra, che pure conquista ripetutamente Milano (con uno zoccolo duro nel centro storico), non riesce a sfondare nella regione con le sue valli fortini leghisti ? Così arriva puntuale la mozione di sfiducia. Attilio Fontana si presenta con orgoglio e con la voce rotta: “Non posso tollerare che si dubiti della mia integrità e di quella della mia famiglia”, dice in un consiglio che è in gran parte con lui e gli tributa ben sette applausi a scena aperta. Ma i denti nel suo collo affondano violenti. Persino la procura della repubblica di Pavia se la prende con lui. E una mattina alle sette, nello sconcerto del suo legale Jacopo Pensa, uno di quelli che da Mani Pulite in avanti ne ha viste tante, si presentano quasi nella sua camera da letto gli uomini della guardia di finanza per sequestrargli il telefonino. L’indagine, nella quale lui non era indagato, riguardava un’azienda multinazionale, la Diasorin, cui l’Ospedale San Matteo di Pavia aveva assegnato lo svolgimento di alcuni test sierologici. Inutile dire che l’accordo sarà in seguito ritenuto legittimo. Ma intanto un po’ di scenografia e di intimidazione fanno sempre notizia. Questo accadeva un anno fa, nel settembre del 2020. Così arriviamo all’oggi, in un quadro molto cambiato. La Regione Lombardia ha riacquistato il proprio smalto. Il procuratore aggiunto Romanelli ha forse accantonato la speranza di prendere il posto del pensionato Francesco Greco, che probabilmente sarà sostituito da un “papa straniero”, mentre un bel gruppo di magistrati milanesi è indagato, per vari motivi, dai colleghi della procura di Brescia. Un contesto nel quale la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Fontana, di Dini e dei vertici di Aria (la centrale acquisti della Regione) stride non poco. Perché è documentato che la Lombardia con l’operazione camici non solo non ha rimesso denaro, ma ha anche avuto un regalo. Spontaneo? Indotto? Che importanza ha, ormai? C’è da domandarsi se ci sarà a Milano un giudice che avrà il coraggio di mandare qualcuno a processo per “frode in donazione”. È anche vero che qui si è visto di tutto, però…
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
(ANSA il 2 dicembre 2021) - La procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per il governatore della Lombardia Attilio Fontana e altre 4 persone per la vicenda dell'affidamento da parte della Regione di una fornitura, poi trasformata in donazione, da circa mezzo milione di euro di 75 mila camici e altri dpi a Dama, la società di suo cognato Andrea Dini. La richiesta è stata firmata dai pm Carlo Scalas e Paolo Filippini e dall'aggiunto Maurizio Romanelli. L'accusa è frode in pubbliche forniture. Oltre a Fontana, la richiesta di processo riguarda Andrea Dini, titolare di Dama e cognato del governatore lombardo, Filippo Bongiovanni e Carmen Schweigl, rispettivamente ex dg e dirigente di Aria spa e, infine, Pier Attilio Superti, vicesegretario generale della Regione. La chiusura delle indagini risale alla fine dello scorso luglio e gli indagati, che inizialmente avevano chiesto di essere interrogati, hanno rinunciato all'esame, ma hanno depositato memorie. "Il presidente Fontana - aveva spiegato l'avvocato Jacopo Pensa - ritenendo evento utopistico che la Procura, dopo l'avviso di chiusura indagine, possa mutare impostazione accusatoria a seguito di un suo interrogatorio ha deciso di riservare le proprie difese alle fasi processuali successive di fronte a giudici terzi". L'inchiesta, che ha visto lo stralcio in vista dell'istanza di archiviazione del capo di imputazione in cui solo Dini e Bongiovanni rispondono di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente, ha al centro la fornitura di dispositivi di protezione individuale, tra cui appunto 75 mila camici, da consegnare in piena pandemia nella primavera 2020 alla Regione. Ne vennero consegnati in realtà solo 50 mila, in quanto venne a galla il conflitto di interessi poichè Dama è società del cognato di Fontana. Per questo la fornitura fu trasformata in donazione, con la conseguenza, secondo la ricostruzione degli inquirenti, che l'ordine non venne perfezionato per la mancata consegna di un terzo del materiale, cosa che ha portato i pm a formulare l'accusa di frode in pubbliche forniture. Ora la parola passa al gup.
Caso camici: difesa Fontana, richiesta processo non sorprende
(ANSA il 2 dicembre 2021) "Tutto come volevasi dimostrare. Non c'è nulla di sorprendente dal momento che non è stata accolta la nostra richiesta di archiviazione. D'ora in poi avremo a che fare con un giudice davanti al quale ci difenderemo seduti allo stesso livello dell'accusa. Fontana è certo della sua estraneità alle vicende contestate". Così l'avvocato Jacopo Pensa che, assieme a Federico Papa, ha commentato la richiesta di rinvio a giudizio da parte dei pm di Milano nei confronti del governatore della Lombardia Attilio Fontana e di altre 4 persone. (ANSA).
Milano capitale criminale delle criptovalute: droga, truffe e riciclaggio. L’analisi: le false promesse e i rischi. Andrea Galli su Il Corriere della sera il 22 novembre 2021. Le mosse dei gruppi specializzati in raggiri milionari, il narcotraffico e il riciclaggio, i beni-rifugio dei clan: ecco come a Milano aumentano il ricorso e l’utilizzo del «denaro nascosto». Le indagini dei carabinieri. Il tema sono le criptovalute qui intese nella desinenza criminale: criptovalute, ovvero soldi nascosti, protetti da codici informatici con chiavi di accesso, dunque denaro non fisico, denaro non tangibile, denaro difficile da scoprire dagli investigatori. Ora, apriamo due parentesi. La prima: in reati quali l’estorsione, un’antica pratica delle forze dell’ordine riguarda l’aver contrassegnato le banconote — o averne annotato i numeri di serie — prima della fase del pagamento, poiché quelle stesse banconote diverranno fonti di prova, saranno uno strumento forte, nel processo, in possesso dell’accusa. Seconda parentesi: vi sono casati mafiosi — i Fontana l’hanno fatto anche a Milano — che reinvestono i soldi sporchi in gioielli; chi indaga può anche saperlo, può aver ricevuto conferme al proposito da informatori oppure da conversazioni intercettate; d’accordo, ma diamanti e collier vanno materialmente individuati, altrimenti è come se non esistessero.
La trama
Così avviene per le criptovalute che, al netto di errate certezze e di ripetute sottovalutazioni, e pure al netto di generiche analisi di (non) esperti decontestualizzati che provano a buttar lì temi, in città iniziano a rappresentare un solido e preoccupante fenomeno, e non unicamente per la banale equazione Milano uguale danee. Come raccontato al Corriere da fonti qualificate, l’insistenza sulle criptovalute da parte di alcuni gruppi delinquenziali, a cominciare da quelli attivi nelle truffe milionarie, e al contempo l’aumentato ricorso nelle estese strategie del narcotraffico, obbligano alla rimodulazione del pensiero a monte di ogni azione investigativa. L’essere umano non è mai esente da errori, lascia tracce. E però, dice un ufficiale dei carabinieri, la copiosa immissione sul mercato di questo denaro occulto — quantomeno un’immissione figlia di una trama, non insomma una semplice conseguenza fortuita, non un effetto collaterale fra tanti —, alza giocoforza il livello di impermeabilità criminale, anche in considerazione della grande facilità con la quale le vittime vengono ingannate. Prendiamo le truffe aventi come oggetto barche, macchine e orologi di lusso, che siamo abituati a vedere ambientate nelle sale di prestigiosi hotel con l’obiettivo di creare una scenografia che consolidi la convinzione di affari seri: ebbene, il criminale propone un pagamento in criptovalute per assicurarsi la merce in vendita, a garanzia della propria serietà versa un anticipo in banconote e sparisce. O meglio, magari completa il saldo con criptovalute che però non hanno un corrispettivo in contante e non determinano una riscossione, entrambe circostanze, queste, assai diffuse in quanto chiunque può creare una valuta digitale che può finire scambiata in euro o dollari su apposite piattaforme che però sono zone franche, per niente delimitate, prive di regole, di obblighi, di sanzioni.
I soldi presenti ma assenti
Obiezione: ci cascano soltanto i tonti. Ovviamente è falso, non fosse che raggiri del genere colpiscono gente che dovrebbe sapere come va il mondo. Obiezione più tecnica, per chi magari è addentro alle dinamiche del denaro «virtuale»: alla base delle criptovalute ci sono sì dei codici informatici, e ci sono dei simil-registri che custodiscono memoria delle transazioni. Ma vai a esplorarli. Un investigatore della Guardia di finanza sottolinea l’ulteriore livello di rischio delle trattazioni nella misura in cui sono contemplati soggetti terzi quali le banche a svolgere una funzione di intermediazione, di presidio, se vogliamo di guardia, senza beninteso entrare nel vasto argomento di controlli a volte allentati — qualcuno aggiunge anche di una normativa anacronistica — che permettono i flussi del riciclaggio. Restano, le criptovalute, un settore investigativo di portata planetaria, ma a Milano, specie in questa fase di slancio produttivo ed economico sia dopo i lockdown sia in proiezione delle Olimpiadi, restano anche, per appunto, e torniamo alle due parentesi iniziali, un canale per far sparire soldi nonché per godere di un bene-rifugio depositato in un angolo remoto; soldi presenti ma assenti.
LOMBARDIA INSICURA - Milano capitale italiana delle violenze sessuali. Donne avvicinate e affascinate con il potere dei soldi, della vita nei locali alla moda e dei party super esclusivi. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud il 12 novembre 2021. L’ultimo caso riguarda un agente immobiliare accusato di aver drogato una coppia per stuprare una donna. Ma di violenze a cinque stelle nella civilissima Milano se ne contano sempre di più: nel passato recentissimo i nomi di Alberto Genovese, Antonio Di Fazio, Paolo Massari avevano già scosso il mito del capoluogo lombardo e delle sue mille luci. Ora si aggiunge il nome di Omar Confalonieri, agente immobiliare di lusso con l’ufficio in via Montenapoleone 8 a tirare una mazzata al mito milanese come fece il libro di Jay McInerney su quello newyorchese. Perché Milano, proprio nel suo cuore, sembra un posto sempre meno sicuro per le donne. Soprattutto se giovani e belle, sebbene l’avidità sessuale nelle sue estrinsecazioni violente ormai non abbia limiti: vengono avvicinate e affascinate con il potere dei soldi, della vita nei locali alla moda e dei parties super esclusivi come a Terrazza Sentimento di Genovese, per poi trovarsi in un tunnel di violenze senza pari. E fino alle feste di Genovese o alla vita alla moda di giornalisti e politici come Massari e di finti agenti segreti come Di Fazio, si poteva pure chiudere il discorso consigliando alle donne di non frequentare quelli che una volta venivano definiti i “rampanti”. Ora però pure andare a comprare una casa è pericoloso nel centro di Milano a vedere l’esempio di Omar Confalonieri. Perché in questo caso non c’è stata nessuna festa o festino, manco una cena elegante come le tante viste sotto la Madonnina. Solo l’intenzione di due persone normali di acquistare un posto dove vivere, con il risultato di vivere invece la violenza dello stupro. Un segno pesante per la reputazione di tutte le attività commerciali di lusso di via Montenapoleone e del centro più esclusivo della città, dove è prassi consolidata, proprio perché si tratta di commercio di lusso, offrire da bere e da mangiare qualcosa ai possibili clienti. Confalonieri potrebbe dunque aver lanciato un grosso sasso nello stagno, perché ora la semplice offerta di un caffè verrà vista con occhi molti diversi da chi entra nei negozi di alta gamma milanesi. Infatti secondo quanto ricostruito dalle forze dell’ordine e dalla Procura di Milano, l’uomo avrebbe incontrato la coppia a inizio ottobre. Dopo essersi recati in un bar, avrebbe provveduto a prendere dal bancone due bicchieri di spritz e sciolto della droga che avrebbe così narcotizzato i due. Dopo averli portati in casa, e aver lasciato l’uomo sul letto, avrebbe violentato la donna. Un sequestro durato otto ore, in seguito alle quali i due si sono recati in ospedale per dei malori che avevano accusato. Almeno la figlia di pochi mesi, presente durante la narcotizzazione, sarebbe stata risparmiata secondo i medici che l’hanno visitata. Tra l’altro dopo l’arresto dell’agente immobiliare altre due donne si sarebbero fatte avanti per episodi simili a quest’ultimo accertato dalla polizia. Ed è anche emerso che Confalonieri non sarebbe nuovo a questo genere di azioni: aveva già affrontato un percorso di rieducazione dopo un episodio di violenza e sembrava recuperato alla società. Invece, stando alle ultime indagini, pare che quel percorso non abbia funzionato. Resta da vedere cosa succederà più avanti, ma per Milano è ora di interrogarsi su quale sia la natura della città perché non è solo nelle situazioni esclusive che si concentra la violenza: in tutti i luoghi della così detta movida si continuano a conteggiare aggressioni e violenze di ogni genere. Dai Navigli e la Darsena dove i rapinatori ormai usano pure i cani per derubare i passanti, a corso Como dove tra droga e alcol vengono continuamente segnalate risse e molestie alle ragazze tanto da costringere i commercianti di zona a chiedere una stretta alle regole della movida al Comune di Milano. Ma non si salva nessun luogo famoso anche oltre i confini cittadini. La lista dei presunti colpevoli è come sempre molto lunga, ma il fatto incontestabile è che la violenza stia dilagando in un modo nuovo, forse non arrestabile. Persino corso Buenos Aires è diventato il cuore delle manifestazioni anti green pass. I fiori del male che stanno prosperando a Milano sembrano avere un terreno troppo fertile per essere recisi stabilmente. O almeno disinfestati. Perché la città che insegue il divertimento e lo sballo con pervicacia, o si organizza, o diventa una sorta di girone dantesco. Una gigantesca orgia di vizi senza scopo alcuno da cui sarà difficile riemergere, perché se il lavoro e la fama di città del lavoro hanno reso Milano un unicum in Italia, il cazzeggio all’ennesima potenza e la fama di città dei soldi facili per il “divertimento” rappresentato dalle droghe e dalla violenza potrebbero affossarla del tutto. Una fine simile a quella di Genovese: da super ricco che pensava di veder raccontata la propria vita nei libri di storia, a galeotto disprezzato da tutti con la sua biografia scritta nei verbali delle forze dell’ordine e un futuro per sempre segnato dalla fama di stupratore di ragazze.
Monica Serra per "La Stampa" il 10 novembre 2021. In carriera, ricchi, con grande disponibilità di droga e spesso anche di psicofarmaci. Non si tratta più di un caso isolato. Nella deriva milanese dell'ultimo anno ce ne sono stati almeno tre, con molti tratti in comune. A partire - scrivono i magistrati - dall'atteggiamento di «sopraffazione» nei confronti delle donne, considerate semplici «prede su cui esercitare il proprio potere». Dopo l'ex mago delle startup Alberto Genovese, ai domiciliari in una comunità di recupero per tossicodipendenti, ora a processo con l'accusa di aver drogato (con cocaina rosa e ketamina) e abusato di due ventenni, e l'imprenditore farmaceutico Antonio Di Fazio, finito in carcere per aver narcotizzato, fotografato nuda e violentato una universitaria ma indagato per abusi su almeno altre cinque donne, è stata la volta dell'agente immobiliare della ricca Milano, Omar Confalonieri. È in carcere da venerdì con l'accusa di aver drogato e tenuto sotto sequestro marito e moglie per un pomeriggio intero, e di aver violentato la donna, con la bimba di nemmeno un anno che gattonava incustodita per casa. Anche in questa storia, ricostruita dalle pm Letizia Mannella e Alessia Menegazzo, ci sono i soldi (la Confalonieri Real Estate è in via Montenapoleone), fiumi di cocaina da cui il 48enne è dipendente conclamato, le benzodiazepine usate per stordire le vittime e la serialità, di cui parlava già il 9 ottobre del 2009 la Corte d'Appello di Milano che lo condannò a tre anni e mezzo di prigione per le violenze su una collega 19enne: «Il suo agire evidenzia una serialità preoccupante che denota forte motivazione a delinquere non debellata neppure dalle denunce». E all'epoca, dodici anni fa, di denunce il 48enne ne aveva già ricevute tre. Una è quella oggetto della condanna: con un bicchiere di mirto condito con gli psicofarmaci, dopo una cena di lavoro, l'agente immobiliare aveva stordito la ragazza, indotta ad accettare un passaggio a casa. E, dopo aver seminato in auto gli altri colleghi, tra i boschi aveva abusato di lei fino alle 5 del mattino, quando i genitori erano riusciti a raggiungerla e a salvarla. Quattro mesi prima di quei fatti, che risalgono al 26 novembre 2007, un'altra donna aveva querelato Confalonieri a Bergamo. Si tratta di un'amica della sua fidanzata dell'epoca. La coppia era andata a casa della vittima a mangiare un gelato. «Nel corso della serata le due donne avevano accettato di fumare sigarette offerte da Confalonieri ed entrambe avevano accusato uno stato di sonnolenza». Soprattutto l'amica che, costretta a mettersi al letto, era stata spogliata dal 48enne «senza essere in grado di opporre alcuna resistenza». Sempre negli stessi mesi del 2007 un'altra conoscente aveva denunciato l'imprenditore: «Mi ha drogata con un tè freddo». A nulla sono serviti i tre anni di riabilitazione in una comunità di recupero dopo la prima condanna: Confalonieri ad ottobre ha colpito ancora. Qualche settimana fa un'altra signora si è rivolta ai carabinieri del Nucleo investigativo: «È successo anche a mia figlia». E ancora, ieri, altre donne si sono fatte avanti.
Vittorio Feltri smaschera i colleghi del Consiglio comunale: ecco il loro trucco per raddoppiare lo stipendio. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 novembre 2021. Chi sostiene che in Consiglio comunale a Milano ci si annoia, dice una cosa inesatta. Perché in aula talvolta succedono faccende turche che meritano di essere divulgate per fare sapere alla gente in che mani siamo. Un esempio significativo dell'indole degli eletti. Stasera si riunisce l'assemblea alle 20.30. Motivo? I signori politici vengono convocati così tardi perché la maggior parte di essi di giorno lavora e non può dedicarsi ai problemi cittadini. Fin qui, tutto normale. Il bello è che l'adunanza si scioglierà qualche minuto dopo mezzanotte, quando la massa dei milanesi sarà caduta tra le braccia accoglienti di Morfeo. Qualcuno a questo punto osserverà: cacchio, eroici questi consiglieri. Ma va là. Pur nella nostra ingenuità, abbiamo scoperto l'arcano: se la riunione terminasse, poniamo, alle 23, lorsignori avrebbero diritto a un solo gettone di presenza. Se viceversa si protrae oltre le 24 scatta un secondo gettone, in quanto formalmente l'impegno dei consiglieri in questo modo abbraccia due giornate, quella di oggi e quella del 5 novembre. Se per un punto Martin perse la cappa, il politico per un quarto d'ora in più guadagna la doppia indennità. Personalmente non mi scandalizzo, ci vuol altro. Ma credo valga la pena di segnalare agli elettori che i giochetti di prestigio, se c'è di mezzo la grana, non sono estranei a Palazzo Marino. Qui non ballano cifre astronomiche, per carità. All'incirca il gettone è di 120 euro, se moltiplicato per due si sale a 240. Buttali via. Meglio dello sputo in un occhio. Il notiziario municipale registra un altro fenomeno interessante. L'amministrazione ha deciso di deliberare un finanziamento di 3 milioni di euro ai rom, onde aiutarli nella educazione dei figli, e dare loro una mano affinché possano vivere più decentemente. Ottima cosa? Mica tanto. Perché è risaputo, come insegna la cronaca, che l'attività principale cui si dedicano i nomadi è il furto. Che non è meritevole di essere sostenuto da sussidi speciali. Se l'intento è quello di aiutare chi è in difficoltà economiche, nulla da eccepire. Ma allora ci domandiamo perché avere tanti riguardi per coloro che un tempo era lecito definire zingari, e neanche un briciolo di pietà per i clochard di cui è infestata Milano, i quali anche in pieno inverno dormono all'addiaccio e di giorno campano trascinandosi nelle vie del centro. Sono vittime di un abbandono del Comune, ma anche dello Stato che regala redditi di cittadinanza a chiunque si gratti il ventre, tranne che ai barboni cui non si riconosce neppure la condizione di poveri. La situazione se non fosse grave sarebbe addirittura comica. Datevi una mossa cari politici dei miei stivali.
Milano è la Montecarlo di sinistra. Altro che crisi da pandemia. Nella locomotiva d'Italia la bolla immobiliare continua a gonfiarsi grazie a 30 miliardi di investimenti nel prossimo decennio e ai soldi del Pnrr. Mentre la giunta guidata da Beppe Sala si avvia alla riconferma, gli urbanisti si chiedono se la città non stia diventando una sala giochi per ricchi. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 20 settembre 2021. È il modello Grimaldi. Una città-Stato “business first” in cui la parte pubblica concede permessi e licenze mentre i privati rovesciano palate di miliardi su un settore immobiliare che si vuole rigorosamente ecocompatibile e green. I prezzi di Montecarlo sono ancora parecchio superiori rispetto a quelli di Milano, questo è vero. In compenso, il capoluogo lombardo governato da Beppe Sala, sindaco destinato a una rielezione comoda il prossimo ottobre, ha spazi che il principato di Monaco si sogna (181 chilometri quadrati di superficie contro 2) e può contare su uno stimolo di denaro pubblico colossale con i 4,7 miliardi destinati alla città dal Pnrr. Nemmeno la pandemia con la minaccia del telelavoro è riuscita a frenare a lungo la galoppata dei prezzi che stanno imponendo alla città una selezione darwiniana spietata. L’unico effetto del lavoro a distanza sembra essere la sostituzione del tandem vincente mono-bilocale con il boom dei tri-quadrilocali con la stanza in più per lavorare. Le agenzie propongono affitti nei dintorni dei duemila euro al mese in zone ben lontane dalle aree più pregiate al netto della commissione. Comprare è ancora più difficile. Solo il ricco o chi è già proprietario riesce a vivere all’ombra delle nuove torri, purché non vadano a fuoco come è successo a fine agosto al quartiere Vigentino. Solo il molto liquido può investire per tempo nelle aree di sviluppo che una volta erano scali ferroviari o quartieri degradati e ora sono le boe per nuove gentrificazioni, nuove movidas con locali sempre pieni, come notò anni fa un milanese cento per cento trasferitosi ad Arcore, Brianza. Da un salone del mobile a una settimana della moda, dalla Milano wine week al salone del risparmio, l’appuntamento elettorale è quasi un evento di contorno da quanto appare scontato l’esito delle urne. L’unica incertezza sembra tra vittoria al primo o al secondo turno, con l’avversario di Sala, Luca Bernardo il pediatra pistolero, pistola a Milano non è una bella parola, impelagato in schermaglie di retroguardia contro le ciclabili di corso Buenos Aires, l’area C e persino contro i troppi saloni. Mentre la destra rimane fossilizzata nel mantra della sicurezza, la giunta uscente agisce con disinvoltura al di qua e al di là del crinale ideologico o di quanto ne resta. Manager come Fabio Terragni sono capaci di muoversi fra apparenti contraddizioni in termini come la presidenza della linea metropolitana 4, l’autostrada Pedemontana lombarda e il progetto Forestami che vuole piantare 330 mila nuovi alberi entro il 2021. E se Terragni è da sempre di area Pd, il sindaco non è mai stato iscritto al partito guidato da Enrico Letta, né ha mantenuto l’impegno di sei mesi fa, che a molti era suonato paradossale, di prendere la tessera dei Verdi europei. Per sentire una cosa di sinistra deve parlare il vescovo, Mario Delpini: «Aumentano le disuguaglianze. C’è una parte di Milano che corre troppo e fa fin troppi profitti».
CAPITALISTI COL CUORE IN MANO
Una fiera via l’altra, già appare all’orizzonte il vero capolavoro di Sala, le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026. In Ampezzo avranno qualche nuova pista, in Valtellina incasseranno la tangenziale di Tirano, ma il grosso dei danè resterà in zona Madonnina, anche se la neve sul Naviglio si vede di rado e la nebbia è diventata uno strangolamento di polveri sottili finito nelle seconde file dell’agenda politica come l’agonia di cinema, teatri e della tanta cultura che nobilitava la corsa al profitto. Il mercato ha risposto presente. A luglio lo studio di Nomisma-Scenari immobiliari su gennaio-giugno 2021 aveva presentato una classifica dei dieci quartieri italiani in maggiore progresso di prezzo. Milano Ticinese, ossia la zona Navigli, era in testa e altre due aree (Curtatone e piazza Firenze) fra le prime cinque. Nell’ultimo report di Casafari relativo a giugno-agosto i prezzi medi per comprare sono saliti di quasi il 5 per cento con punte quasi doppie in zone di periferia come Ponte Lambro, al di là della tangenziale est, e Santa Giulia-Rogoredo, a sud. Sbalorditiva la crescita degli affitti, oltre il 7 per cento, in quartieri come Bisceglie, Baggio, Olmi, tutti lontani dalla Milano glamour. Sono aumenti con pochi uguali fra le maggiori città del mondo, il cosiddetto C40 che ha un ruolo nella nuova narrazione urbanistica meneghina sotto il titolo “Reinventing cities”. Come sempre nella città che dà la linea all’Italia sulle mode, la nuova Milano è una questione terminologica: densificazione, rigenerazione, social housing, circolarità. Il nemico ufficiale è il capitalista mordi e fuggi contrapposto al capitalista per bene che investe a lungo termine per gestire senza strangolare l’inquilino. Sarebbe difficile fare nomi dei capitalisti mordi e fuggi. Qualcuno lascia cadere il ricordo del fu Salvatore Ligresti, che da Milano non è fuggito mai, o di qualche furbetto del quartierino non tanto fuggito quanto finito in galera per bancarotta. Più semplice è identificare i capitalisti buoni. C’è Hines che ha in mano il quartiere Porta Nuova e l’ex area Falck di Sesto San Giovanni insieme a Prelios e alla MilanoSesto dell’avvocato leghista varesino Giuseppe Bonomi. Sono 4 miliardi di investimento che l’ad di Hines Italia, il trentasettenne Mario Abbadessa, ha definito un elemento di «contrasto al global warming». In modo analogo la posa della prima pietra di Citywave, nuova torre da 180 milioni del quartiere Citylife in mano a Generali Real Estate, è stata presentata come il più grande parco fotovoltaico della città con i suoi undicimila pannelli. C’è Lendlease che a luglio ha finito di spianare l’area dell’Expo 2015 per Mind (Milano innovation district), un investimento da 2,5 miliardi che darà casa alla Città della salute con Human Technopole, l’università statale, l’Ircss Galeazzi che fu di Antonino Ligresti, fratello minore dell’allora boss di Fonsai, ed è della famiglia Rotelli (Gsd) che si avvale del contributo manageriale dell’ex pluriministro Angelino Alfano. C’è Coima di Manfredi Catella che realizzerà il villaggio olimpico allo scalo Romana insieme al gruppo della moda Prada con il progetto dello studio di architetti Usa Skidmore Owings and Merrill, da poco dichiarato vincitore della gara per riqualificare l’area. Il contributo complessivo dei bravi capitalisti alla nuova Milano-Montecarlo vale molto più di questi 7 miliardi di euro a prezzi correnti e c’è chi parla di 30 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, soprattutto in arrivo dall’estero. Gli investitori, ha sottolineato all’Espresso l’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran, una delle locomotive elettorali di Sala, hanno sposato la causa della nuova Milano e nessuno è venuto meno agli impegni assunti prima del Covid-19. E chi può dire oggi che la fedeltà matrimoniale non paga dopo che il governo ha destinato quasi 5 miliardi di euro del piano di ripresa e resilienza al capoluogo lombardo? La bella notizia è stata data dal sindaco alle parti sociali in giugno e da allora non passa settimana senza che si annunci una iniziativa. Si rifarà piazzale Loreto, cuore nevralgico di una formidabile operazione di marketing immobiliare come Nolo (sigla di North of Loreto, a Milano la prima lingua è l’inglese). Si riqualificheranno Bovisa-Goccia, Crescenzago, lo scalo Fs di Greco, la scuderia De Montel a San Siro. L’ippodromo del galoppo accanto allo stadio Meazza sarà restituito alla sua vocazione in attesa di sapere che ne sarà dell’impianto dove giocano Milan e Inter. Il piano di abbattimento con ricostruzione e aggiunta di ricche cubature residenziali e commerciali è stato frenato dalla titubanza della giunta di fronte alle difficoltà finanziarie dei cinesi di Suning, proprietari dei nerazzurri campioni d’Italia. Solo il presidente rossonero Paolo Scaroni non molla quella che ormai è una battaglia personale.
RISCHIO GHETTO
Con tanti soldi in circolazione è presumibile che le mafie puntino sempre più decisamente su Milano, come del resto fanno da decenni. Oltre alla densificazione praticata con la costruzione di grattacieli, tiene banco la rigenerazione di migliaia di appartamenti, agevolata dai vari superbonus all’edilizia. Ogni angolo della città è un cantiere e bisogna mettersi in fila per trovare un’impresa in un mercato che produce mezzo milione di tonnellate di inerti all’anno. I vincoli imposti dal Parco Sud impedirebbero ulteriori consumi di terreno dell’area metropolitana di Milano che, per estensione, è la seconda zona agricola d’Italia. Ma molti Comuni dell’hinterland hanno competenza diretta sui progetti di espansione immobiliare e non hanno bisogno di altre autorizzazioni in un contesto già molto permissivo del piano regolatore regionale. «Il rischio è diventare una sala giochi per ricchi», dice Paolo Pileri, urbanista del Politecnico e autore di un bel saggio intitolato “Progettare la lentezza” (2020). «Parliamo pure di densificazione a patto che ci sia uno stop alle costruzioni nei terreni intorno a Milano. Purtroppo il vincolo del Parco Sud non basta tanto che quest’anno la Lombardia è prima in Italia per consumo di suolo e Milano è prima in Lombardia. Alcuni progetti nascono vecchi, come il nuovo Mercato Centrale che imita Eataly in una zona a pochi passi dal sottopasso Mortirolo, dove la gente dorme per terra. Molto co-housing c’è stato grazie all’assessore al Welfare, Gabriele Rabaiotti. Ma stiamo creando quartieri dove non si dorme la notte per la movida e zone dove non mi basterebbero cinque vite di lavoro per comprare casa. Stiamo svendendo la città ai fondi. Saranno loro a decidere che cosa è bene per la città». E non è certo un caso se, come accadeva ai tempi di don Salvatore Ligresti, fra i quartieri che si stanno valorizzando di più ci sono quelli interessati dalle nuove stazioni della metro rossa (Parri Valesia, Baggio, Olmi) pagati con 398 milioni di euro di soldi pubblici. Altri 500 milioni di denaro privato in cambio di una concessione di 90 anni finanzieranno l’operazione di social housing forse più ambiziosa, gestita da Redo sgr. È l’ex macello di via Lombroso nella parte sud-est della città verso Linate. L’obiettivo è creare in tempo per le Olimpiadi un quartiere per 15 mila nuovi residenti con affitti inferiori ai 500 euro al mese e prezzi d’acquisto al di sotto di 2500 euro al metro quadrato. Intanto, ai fini della campagna elettorale, la giunta può tranquillizzare l’inquieto elettore progressista con il superamento degli obiettivi nel recupero delle case popolari sfitte. Sala aveva promesso di arrivare a quota tremila, siamo già oltre 3500. Ma ci sono ancora 14 mila cittadini in lista d’attesa, circa l’1 per cento dei residenti totali, non pochi quindi. Dovrebbero essere loro a garantire un altro slogan, il mix sociale, che la sinistra oppone alla spaccatura tra ghetti per ricchi e ghetti per poveri in ricordo di esperienze urbanistiche come il Qt8. Erano altre epoche, però, quando nello stesso condominio vivevano l’operaio dell’Alfa e il dirigente Rai. Oggi una casa al Bosco verticale, che torreggia sulla gentrificatissima Isola, costa di sole spese mensili più dello stipendio di un insegnante. In fondo anche la circolarità ha un significato particolare. C’è il comune cittadino che con le sue tasse finanzia i servizi che gli faranno pagare di più l’appartamento. E c’è il tabaccaio di Maratea che si svena per mantenere il figlio all’università pagando un affitto folle a un padrone di casa che si è trasferito a Maratea, dove con la rendita di un trilocale in zona Bocconi si vive da califfi e c’è anche il mare come a Montecarlo. A Milano no, non ancora.
Milano, brusche frenate in metrò: ecco perché. Valentina Dardari il 26 Ottobre 2021 su Il Giornale. La procura ha chiuso l'indagine: tre persone sono ora indagate. Si tratta dei dirigenti della società di controllo della sicurezza. A Milano il 2019 era stato segnato da brusche e improvvise frenate in metropolitana che in alcune occasioni avevano causato contusioni e fratture ai passeggeri a bordo. Le indagini partirono in seguito alla querela presentata da quattro passeggeri rimasti feriti proprio a causa delle frenate brusche. Nel 2019 gli eventi furono circa 300, anche se la maggior parte di questi non provocarono cadute o feriti. A distanza di due anni, la Procura ha chiuso le indagini iniziate ai tempi e contesta ai vertici di due società fornitrici di Atm il reato di lesioni colpose aggravate. L’inchiesta della Procura sembra essere servita a qualcosa: “La specifica tipologia delle frenatura indebite, a causa di malfunzionamento dei sistemi di sicurezza, ha sicuramente determinato un certo rischio di lesioni più o meno gravi per i passeggeri, ma non si è mai determinato un rischio di collisione fra i treni o di altri incidenti riconducibili al concetto di disastro ferroviario”.
Chi sono gli imputati
Per questo motivo la Procura, in relazione a quattro passeggeri che non hanno ritirato la querela, a differenza di altri che sono invece arrivati a una transazione, contesta il reato di lesioni personali colpose al presidente Michele Viale di Alstom Ferroviaria S.p.A., produttore del sistema di segnalamento e controllo della marcia dei treni in uso sulla linea 1 rossa della Mm, e anche al presidente Andrea Rossi e all'amministratore Carlalberto Guglielminotti di Engie Eps, subfornitore del produttore Tattile srl del captatore di bordo sulle motrici della linea 2 verde Mm. Per questi stessi tre indagati viene invece chiesta l'archiviazione del fascicolo aperto per l'ipotesi di disastro ferroviario.
Sulla linea 1 rossa il sistema garantisce automaticamente che i treni non si avvicinino mai oltre una certa distanza di sicurezza predeterminata, e questo avviene attraverso un continuo dialogo tra i sistemi di bordo del treno e i sistemi di terra della linea, sulla quale il conducente sempre presente può comunque passare quando vuole in modalità manuale se necessario. I consulenti della Procura hanno ricostruito che qui le frenature indebite sono state in gran parte riconducibili a difetti di comunicazione tra sistemi di bordo e sistemi di terra: difetti tra l'altro non nuovi ma che Atm aveva segnalato al produttore Alstom già dal lontano 2011, con successivi solleciti nel 2017 e nel 2018. Solo dopo l'inchiesta, “oltre a interventi sul sistema informatico di esclusiva competenza di Alstom, Atm è intervenuta meccanicamente su ogni treno riducendo della metà la prestazione frenante dei pattini comandati da frenature generate dal sistema di segnalamento, e lasciando invece inalterate le prestazioni delle frenature comandate dal macchinista”.
Cosa hanno scoperto i periti
Per quanto riguarda invece la linea 2 verde, la perizia ha rilevato che le frenature indebite sono tutte dipese da alcune anomalie presenti nel sistema di segnalamento discontinuo, dove sono posizionati i segnali luminosi, che in condizioni di marcia regolare blocca il treno seguente solo nel caso in cui il binario sia ingombrato da un altro treno. Nei casi in questione il dispositivo si è però attivato nonostante non vi fosse alcun accoppiamento tra il captatore di bordo e quello di terra. La causa sarebbe riconducibile a un cortocircuito della scheda elettronica interna al captatore di bordo, per via del contatto fra le viti di fissaggio della scheda e il corpo del captatore.
I periti dei pubblici ministeri hanno infatti “riscontrato che, in difformità dell'originario progetto meccanico, il produttore Engie Eps non utilizzava rondelle dentate antislittamento, più in grado di resistere all'allentamento delle viti favorito dalle vibrazioni usuali sul corpo captatore dalla marcia del treno”, pertanto “il progressivo allentamento determinava il corto circuito delle schede elettroniche, che a sua volta provocava l'azione della frenatura di emergenza quale autoprotezione”. Un altro difetto è stato rimediato introducendo un terminale a forchetta per evitare movimenti dei cavi dovuti alle accelerazioni. Ma vi è stata anche una terza categoria di frenatura indebite, causate questa volta da errori umani e non da guasti tecnici. In questo frangente “Atm è intervenuta con un potenziamento dei programmi di aggiornamento periodico delle competenze dei conducenti dei treni”.
L'unico caso senza spiegazione
Il 9 marzo del 2019 sulla linea 1 rossa a Cadorna vi era stata una sola frenata indebita che al momento non ha ancora trovato una spiegazione, né nei guasti del sistema di segnalamento, né nell'errore umano. Secondo i periti l’unica spiegazione potrebbe essere stata “una serie di disturbi elettromagnetici che potrebbero aver interferito con la regolare strumentazione del treno”. Ma sono ipotesi e non certezze.
La pm Maura Ripamonti ha quindi osservato che “nessuna delle frenature indebite, né per numero né per gravità di feriti, può essere qualificata come disastro ferroviario nei termini di legge”, questo perché nella maggior parte dei casi si sono verificate delle “lievi lesioni di natura contusiva”, e solo tre passeggeri hanno riportato “lesioni gravi come fratture ma senza mai comunque pericolo di vita”.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
(ANSA il 19 ottobre 2021.) Appalti ottenuti anche a scapito della sicurezza dei trasportati in ambulanza: così, secondo la Gdf, la cooperativa First Aid One, si aggiudicava appalti in tutta Italia "con conseguenti gravi disservizi”. Dalle videoriprese effettuate in alcune ambulanze, è risultato che venivano raramente eseguite le sanificazioni prescritte dopo il trasporto di ogni paziente soprattutto in tempo di pandemia: "In una delle ambulanze monitorate, in 20 giorni di lavoro con trasporto di 92 pazienti è stata sanificata solo in 4 occasioni mentre un'altra, in 9 giorni di servizio ed 86 pazienti trasportati, è stata sanificata un'unica volta”. Le indagini svolte dai militari della Guardia di Finanza del Gruppo di Pavia e della Compagnia di Vigevano, che hanno portato al sequestro della cooperativa, hanno permesso di individuare diverse gare d'appalto per l'affidamento dei servizi di trasporto in ambulanza in diverse parti del territorio nazionale (Pavia, Roma, Milano, Perugia, Ancona e Pescara): gare vinte da questa cooperativa, che però, secondo quanto è emerso dall'inchiesta, sono risultate turbate e per le quali sono state riscontrate diverse frodi nell'esecuzione del servizio pubblico. "In primo luogo - si legge nel comunicato delle Fiamme Gialle pavesi -, la cooperativa agiva tramite prestanomi, al fine di occultare la costante presenza ed effettiva direzione aziendale da parte di uno degli indagati già condannato in via definitiva nel 2017 per turbata libertà degli incanti, ed aveva escogitato un metodo infallibile per aggiudicarsi tutti gli appalti a cui partecipava: proporre prezzi talmente bassi che talvolta superavano il limite della anti-economicità e assicurare, solo formalmente, una folta flotta di mezzi. Peccato però che i bassi prezzi erano ottenuti dallo sfruttamento dei lavoratori e dal numero dei mezzi impiegati che era sensibilmente inferiore a quello previsto da contratto. Naturalmente, l'esiguo numero di mezzi sanitari presenti sul territorio comprometteva l'efficienza dei soccorsi a disposizione della collettività”. "Inevitabili i disservizi conseguenti - continua il comunicato della Guardia di Finanza -. Infatti, già dai primi mesi di operato, la qualità del servizio richiesto dall'appalto era molto al di sotto di quanto pattuito, creando numerose e continue inefficienze unite a sensibili ritardi e mancate prestazioni sanitarie, spesso confermate anche dalle segnalazioni pervenute dai pazienti trasportati e dai medici in servizio presso i presidi ospedalieri".
Luca Fazzo per ilgiornale.it il 22 ottobre 2021. È un vero terremoto nel mondo delle ambulanze milanesi quello scatenato dal provvedimento con cui due giorni fa la Procura di Pavia ha ottenuto il sequestro della cooperativa First Aid. Perchè va a colpire il colosso che negli ultimi anni ha conquistato passo dopo passo quote sempre più vaste del business delle lettighe, con metodi che sollevavano da tempo perplessità e denunce, e inghiottendo nel frattempo marchi storici in difficoltà, come Ata Soccorso e la Croce Maria Bambina. Un colosso, quello guidato dai fratelli siciliani Antonio e Francesco Calderone, dagli agganci politici importanti ma anche con legami sotterranei con ambienti malavitosi. Oggi la rete di marchi che fa capo ai Calderone gestisce la maggioranza delle postazioni di pronto soccorso concesse da Areu, l'azienda regionale per l'emergenza, nel territorio del Comune di Milano: si tratta spesso delle postazioni più ghiotte, quelle che generano più chiamate e più reddito. Ma ancora più redditizio è l'affare dei trasporti interni agli ospedali pubblici. Nell'aprile scorso a far finire nei guai la First Aid e ai domiciliari i Calderone furono i metodi con cui avevano ottenuto l'appalto per trasportare i malati tra gli ospedali della provincia di Pavia. Ma la stessa (finta) cooperativa ha anche il gigantesco appalto per il Policlinico di Milano: storia curiosa, perchè in realtà l'appalto alla First Aid risulta scaduto nel 2015, ma per vie di fatto, tra una proroga e l'altra, a regnare tra i padiglioni di via Francesco Sforza sono ancora le ambulanze dei Calderone. I metodi con cui i due fratelli (mascherati dietro un prestanome, visti i precedenti penali di uno di loro) riuscivano a sbaragliare la concorrenza erano noti da tempo nel settore: dipendenti spacciati per volontari e costretti a lavorare gratis fuori orario, mezzi non sanificati e posteggiati per strada. La Croce Verde di Bergamo aveva denunciato più volte i metodi della First Aid, che aveva anche gli appalti in ospedali flagellati dal Covid come Nembro in Val Seriana, dove ammucchiava i malati sulla stessa ambulanza. Da notare anche che i Calderone controllano anche una ditta di pompe funebri, in modo da gestire il ciclo completo dei pazienti più sfortunati, anche se il doppio ruolo sarebbe proibito. Ora la Gdf di Vigevano, coordinata dal pm Roberto Valli, ha incamerato le testimonianze di numerosi lettighieri della First Aid, che hanno confermato di essere stati costretti per anni a subire le imposizioni dei Calderone. Ma la spregiudicatezza nella gestione del personale non è sufficiente a spiegare il travolgente successo della cooperativa. I due fratelli - uno dei quali ama farsi ritrarre a torso nudo coperto di tatuaggi o alla guida di Ferrari e Lamborghini - hanno saputo trovare sponde importanti nelle istituzioni. Basta pensare che da una visura camerale effettuata nel luglio scorso il presidente del Consiglio d'amministrazione della Cooperativa Sociale First Aid risulta essere l'avvocato Michele Vietti, ex deputato ed ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Ma scavando nella rete che ha dato vita in Sicilia alla creatura dei Calderone, la Guardia di finanza ha trovato anche personaggi meno illustri. Nella ordinanza di custodia eseguita nella primavera scorsa contro la «testa di legno» che amministrava la società, tale Francesco Di Dio, si legge testualmente che «la predetta società cooperativa è amministrata dai fratelli Calderone e da Pepe Salvatore, soggetti che risultano gravati da precedenti penali di rilevante allarme sociale, in particolare Pepe per delitti connotati da metodo mafioso». Ora la gestione dell'impero dei Calderone è affidata a un amministratore giudiziario, chiamato a mettere ordine nei conti occulti della First Aid. Ma la domanda che si fanno in queste ore le croci travolte dall'avanzata dei due fratelli è: che fine faranno gli appalti assegnati in questi anni alle ambulanze venute dal nulla?
(ANSA il 5 ottobre 2021) - L'avvocata Chiara Valcepina, finita al centro di polemiche dopo l'inchiesta giornalistica di Fanpage in ambienti dell'estrema destra milanese, risulta tra gli eletti al Consiglio comunale di Milano avendo ottenuto 903 voti. Valpecina è stata la terza più votata nel partito: primo, il capolista Vittorio Feltri (2268). Secondo i dati del ministero dell'Interno, FdI conquista 5 seggi. Il quinto della lista è l'altro candidato di punta del gruppo dell'europarlamentare Carlo Fidanza, Francesco Rocca (606 voti).
I dati a cui Feltri si riferisce sono quelli al momento che vedono il Pd, primo partito con il 33,60%, rispetto al 28,97% del 2016 e al 35, delle europee 2019.
Le proiezioni dei partiti a Milano
Rispetto a queste ultime elezioni si assiste ad un travaso di voti in favore di Fdi, che ha un balzo anche rispetto alle comunali del 2016. Nel centrodestra il partito di Salvini cinque anni fa era ancora Lega Nord è portò a casa l’11,77%; che viene confermato oggi (11,44%); ma se il confronto è con la tornata delle europee 2019 si nota uno scivolone dal 27,39% di allora. Percorso inverso per il partito di Giorgia Meloni: 2,42% alle ultime comunali, 5,16% alle europee e 9,92% oggi. Fi nel 2016 era il primo partito della coalizione con il 20, 21%, sceso al 10,18% delle europee e al 7,47% della odierna tornata.
Carmelo Caruso per ilfoglio.it il 5 ottobre 2021.
Ti divertirai ancora a prendere in giro la “tua” destra o ricomincerai a prendere in giro la sinistra, la sinistra “verde” di Beppe Sala?
“Scriverò e dirò che avevo previsto tutto. Scriverò che Salvini ha sbagliato e che ormai rovina ogni cosa che tocca. Sbaglia anche quando respira. Scriverò e continuerò dunque a divertirmi. Io vinco comunque. Io rimango Feltri. Vittorio Feltri”.
Avevi previsto sul serio che Sala vincesse al primo turno e che si prendesse ancora la tua Milano e che questa città fosse il “capolinea della destra”?
“Milano è di sinistra”.
Ma tu eri candidato con FdI, anzi, con Giorgia Meloni. Ti sei pentito? Che c’entri tu con i “baroni neri”?
“Non mi sono pentito. E’ stato tenerissimo. E quell’inchiesta di Fanpage, quell’inchiesta a pochi giorni dal voto, è montata ad arte. Robaccia. Sporcizia. Non riguarda la Meloni”. Perché hai scelto di correre? Non ti basta scrivere? “Perché non voglio stare fermo. Perché voglio ancora che si parli di Feltri e si sorrida di quello scalmanato di Feltri”.
Ci sei riuscito. Lo sai che Salvini ce l’ha con te?
“E chi se ne frega. Salvini è un uomo confuso, rincretinito. Mi ha tolto il saluto. Ma ho ragione io. Io penso. Io rifletto”. E se ti facessi dire adesso che la destra era davvero “una coalizione del cazzo” come avevi detto sul Fatto Quotidiano? “Non me lo faresti dire. Perché si può dire meglio”.
E come lo vuoi dire?
“Fammelo dire con la grazia del Foglio ma con la faccia tosta di Feltri”.
Bernardo era un candidato un po’ “pistola”?
“Bernardo era ed è un bravissimo pediatra. Ha costruito un reparto d’eccellenza. Sa fare questo”.
La sua campagna elettorale è stata però un disastro. Adesso lo puoi dire con una carezza?
“Certo. La sua capacità politica era nulla. Io su di lui non avrei scommesso cinque centesimi. Non tutti sanno fare i politici. Non c’è nulla di male”.
Perché la destra ci ha puntato?
“Non è stata la destra. Ci ha puntato Salvini, uno che mi sembra ultimamente abbia perso la trebisonda”.
A Roma, Enrico Michetti, il centurione tutto latinorum e codice civile, arriva al ballottaggio. Sei costretto a invidiare Roma?
“La invidio. Qui il ballottaggio è rimasto un sogno. Non c’è dubbio che Michetti sia stata una scelta migliore”.
Farai i complimenti a Sala?
“Glieli fa tutta la destra. Ha vinto con le mani in tasca. Ha vinto la politica di sinistra, la politica delle fesserie. Monopattini, piste ciclabili. E’ la dottrina Sala”.
Ti spaventa?
“Me ne frego”.
Ritieni ancora che Giorgia Meloni possa essere leader del centrodestra?
“E’ la più brava”.
Hai visto Salvini, al Tg1?
“Non l’ho visto”.
E se uscisse dal governo come molti temono?
“Completerebbe il casino. E’ ormai un esperto di casini. E’ uscito dal governo con il M5s per rientrarci e in compagnia del Pd. Non si capisce la sua linea”.
Giorgetti ti piace?
“La sua linea almeno la capisco”.
Salvini ha capito che ha perso?
“Non l’ha capito. Gli auguro di trovare la serenità. Di farsi un esame di coscienza. Ha perso lui”.
E invece tu?
“Scriverò che avevo ragione. Cosa c’è di meglio che dire a tutti: avevo ragione io?”.
E però avevi davvero ragione tu.
“Avevi dubbi?”.
Dagospia il 13 ottobre 2021. Da "Un giorno da pecora". Il "Corriere della Sera" ha scritto che lei ha ricevuto i finanziamenti da parte di Lega ed FdI ma non da Fi e dal partito di Lupi. E' vero? “Confermo, chiedere è lecito ed è nella normalità. Loro avevano da sostenere la loro campagna, ma non sono dispiaciuto. Io non ho guardato mai il conto tranne che alla fine”. A rispondere, ospite di Rai Radio1 a Un Giorno da Pecora, è l'ex candidato a sindaco di Milano Luca Bernardo. Il conto alla fine l'ha solo pagato...”In parte sì”. Ha sentito Berlusconi dopo la sua sconfitta? “Ancora no”. Crede che Gabriele Albertini potesse esser un candidato più forte di lei? ”Albertini era sicuramente una persona più conosciuta di me, mi piace molto. Aveva avuto qualche veto, credo da Lupi, ed è un peccato: è una persona perbene, conosciuta, brillante”. Tra cinque anni si ricandiderà? “Potrebbe essere, intanto farò il consigliere comunale”. Usciamo un attimo dalla politica: è vero che lei ama molto i tatuaggi? “Si, ne ho circa cinquanta. Ho la croce di Gerusalemme, il mio segno zodiacale, il leone, e su tutto l'avambraccio sinistro un 'maori'. L'unico di cui forse mi sono pentito è stato un delfino - ha raccontato a Un Giorno da Pecora - che mi sono fatto tatuare da ragazzo sul gluteo destro...”
Andrea Senesi per corriere.it il 12 ottobre 2021. Dopo l’ormai celebre vocale su Whatsapp, i soldi sono arrivati? La risposta giusta è: solo in parte. Sul conto della campagna elettorale per Luca Bernardo sindaco sono stati versati 30 mila euro dalla Lega e altrettanti da Fratelli d’Italia (a una manciata di giorni dal voto, però). Stop. Il resto — più o meno 40 mila euro — è arrivato dalle sottoscrizioni di privati (perlopiù piccole donazioni). All’appello mancano insomma le quote promesse da Forza Italia e dal movimento di Maurizio Lupi. In totale quindi una campagna da 100 mila euro. Taxi, «vele», manifesti. Ma, tanto per dire, neanche uno spot televisivo, nemmeno sulle emittenti private. Solo in caso di ballottaggio, si sarebbe potuto sperare in una seconda tranche di aiuti finanziari da parte dei partiti. Che invece si sono fermati a quota 60 mila. La bomba era esplosa a 15 giorni esatti dal voto. «Se entro questa settimana non arrivano da tutti i partiti almeno 50 mila euro a testa per andare avanti con la campagna elettorale, lunedì mattina convoco una conferenza stampa e mi ritiro», scandiva Luca Bernardo in un messaggio vocale diretto a una chat coi rappresentanti del centrodestra milanese: «Se troverò sul conto corrente della campagna elettorale un riscontro diverso e non vedrò la sintonia di tutti, torno a fare il mio lavoro che mi piace molto». Ne seguirono polemiche violentissime. «Per l’audio rubato ho dato mandato al mio legale di avviare una denuncia alla magistratura o alla polizia postale. Ho il timore che si sia inserito qualcuno in questa chat, conosciamo i colpi bassi di certa sinistra. I metodi da ex Unione Sovietica non sono i nostri», disse il pediatra che poi però ritirò la minaccia di farsi da parte per rigettarsi invece nel finale di campagna elettorale. Dopo la sconfitta al primo turno, Bernardo si è preso qualche giorno di relax staccando da telecamere e microfoni. Tornerà in corsia nel reparto di pediatria del Fatebenefratelli, ma non rinuncerà al posto da consigliere d’opposizione a Palazzo Marino. Nessuna polemica né con gli avversari né coi partiti della coalizione. Col sindaco Beppe Sala si è complimentato per la rielezione, mentre per i leader del centrodestra Bernardo ha speso solo parole di stima e ringraziamento. Domenica scorsa la prima intervista concessa a Sky. «A Milano c’è tanto da fare. Da parte nostra ci sarà un’opposizione responsabile e rispettosa delle istituzioni. C’è stato poco tempo per far conoscere alla città il nostro programma fatto di proposte e soluzioni, che porteremo subito in Consiglio». «Bisogna infondere di nuovo fiducia nei cittadini, in modo che tornino a partecipare alla vita democratica», ha concluso l’ex candidato sindaco.
Estratto di un articolo di Alessia Gallione per “la Repubblica” il 26 agosto 2021. Luca Bernardo non ha mai avvertito di aver portato con sé in ospedale la pistola. Né tantomeno è stato autorizzato dalla struttura a farlo. A certificarlo, adesso, è la direzione dell'Asst Fatebenefratelli-Sacco, l'istituto sanitario in cui il candidato sindaco del centrodestra a Milano lavora come primario di pediatria. Tutto nero su bianco in una risposta a una richiesta di accesso agli atti presentata dal Pd in Regione Lombardia: «Da una verifica effettuata dai competenti uffici, non risultano pervenute al protocollo aziendale né richieste né segnalazioni in ordine all'accesso con un'arma da parte del personale dipendente negli spazi ospedalieri e nemmeno sono mai state rilasciate autorizzazioni in tal senso». Continua ad agitare la campagna elettorale milanese, il caso del candidato con la pistola. A sollevarlo, proprio sulle pagine di Repubblica, era stato il consigliere regionale di +Europa e medico neonatologo Michele Usuelli. Era lo scorso luglio. Erano i giorni, drammatici, di un'altra vicenda che ha fatto fare alle armi irruzione nell'agenda politica, quella dell'assessore leghista Massimo Adriatici che ha sparato e ucciso nel pieno centro di Voghera Youns El Boussetaoui. Alla fine, dopo una nota in cui aveva fornito una versione un po' diversa, lo stesso Bernardo l'aveva ammesso: sì, «sono entrato con l'arma in ospedale e l'ho avuta addosso», ma mai in reparto, «mai quando giro con i pazienti e nemmeno in loro presenza». Per quella pistola, ha spiegato, ha un porto d'armi da dieci anni perché ha subìto minacce e gli è capitato di portala in passato durante i turni di notte. Al Pd, che aveva annunciato di chiedere spiegazioni al Fatebenefratelli, lo stesso candidato aveva ribattuto così: «Se uno ha un porto d'armi da difesa personale, ha la possibilità di portarla ovunque e sempre e non deve avvertire nessuno per legge, perché si chiama "porto occulto". Il Fatebenefratelli non deve neanche rispondere». Invece, il Fatebenefratelli ha risposto. Inviando la comunicazione "per conoscenza" anche al direttore generale Welfare della Lombardia e al presidente del Consiglio regionale. E chiarendo di non aver mai autorizzato qualcuno a introdurre una pistola nei suoi spazi.
Andrea Senesi per corriere.it il 29 ottobre 2021.
«La cosa che mi ha meravigliato di questa faccenda è che il sindaco di Milano non fosse già sotto tutela».
Gabriele Albertini, anche lei finì sotto scorta?
«All’inizio del mandato giravo la città in Vespa. Dopo l’omicidio di Massimo D’Antona mi chiamò però il capo della polizia per annunciarmi che mi avrebbero assegnato una vigilanza di tre uomini. Ma ero finito al centro delle attenzioni delle Br fin dalla fine degli anni 70, per la mia attività in Confindustria. Dal covo di via Monte Nevoso si è scoperto che i terroristi mi pedinarono anche per un certo periodo. Grazie al fatto che stavo spesso fuori città dalla mia fidanzata di allora mi lasciarono poi perdere. Ero a capo della Piccola Industria di Milano. I miei omologhi di Genova e Torino sono stati gambizzati. Erano anni terribili, tanto che io ho il porto d’armi dal 1974».
Girava con la pistola?
«Ho vissuto tutte le situazioni a rischio. Dalla stagione dei rapimenti a quella del terrorismo. Ho il porto d’armi e lo rinnovo ogni anno. Quando esco di casa ho con me tre cose: orologio, cellulare e rivoltella. Mi sento più al sicuro».
Negli anni di Palazzo Marino portava in municipio la pistola?
«No, perché avevo a fianco a me, appunto, un servizio di vigilanza con tre carabinieri bravissimi».
Da sindaco si è poi trovato in situazione pericolose?
«Minacce di morte dirette in quegli anni non mi sono mai arrivate. Magari qualche lettera minatoria, ma niente di più. Era il clima generale però a essere ancora avvelenato, il terrorismo era ai titoli di coda ma sparava ancora. Nell’attentato alla sede di via Tadino della Cisl i brigatisti compilarono di fatto la condanna a morte del povero Marco Biagi, che con noi aveva scritto il Patto per Milano. E anche in quel volantino si faceva riferimento a me come ex presidente di Federmeccanica».
Vede analogie con la galassia No vax e No pass?
«Quelle di oggi mi paiono schegge impazzite di ribellismo con venature di patologie personali. Però i pazzi scatenati possono anche essere più pericolosi degli ideologi organizzati».
Ha fatto bene il sindaco Sala a denunciare gli insulti e le minacce?
«Altroché. Mi dispiace per lui e anzi ne approfitto per esprimergli tutta la mia solidarietà. Gli consiglio di accettare la scorta. È una tutela doverosa per chi occupa una posizione come la sua. Non è questione di essere coraggiosi: qui si tratta di difendere le istituzioni».
Bisogna usare una mano più ferma coi cortei del sabato?
«Quando una manifestazione non è autorizzata è la legge che prevede che vada sciolta. Senza usare i lanciafiamme, ma con gli idranti e gli sfollagente, se serve. Ogni opinione è legittima se non ha finalità eversive e se è espressa nel rispetto della legge. Manifestare dove si vuole, quando si vuole, danneggiando i commercianti, ecco questi sono atti illegali. Sono minoranze aggressive che fanno danni. Perché diecimila persone non sono niente. Senza contare che i non vaccinati sono di per sé un pericolo per tutti».
Cosa si sente di dire a Sala?
«È un uomo ragionevole, dovrà sopportare questa situazione con pazienza. Il sindaco è un ruolo di grande esposizione. E l’anomalia, ripeto, è che finora non abbia avuto una scorta. Se ce l’hanno i ministri, anche quelli senza portafoglio, non vedo perché il sindaco di Milano non debba essere protetto».
Sala: "Milano, senza arroganza, deve essere la guida dell'Italia". Affari Italiani Venerdì, 29 gennaio 2021. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala: "Dobbiamo essere la città guida del nostro Paese. Siamo attrattivi perchè ci rinnoviamo sempre". "Milano, senza arroganza, deve pensare ad essere una citta' guida nel nostro Paese e il mio impegno e' di cercare di portare avanti un'istanza politica che sia di esempio, anche per il Paese". Così il sindaco di Milano Giuseppe Sala ieri sera intervenendo ad un evento promosso dal Centro studi Grande Milano. "Voglio pensare a Milano e dimostrare che la cosa importante e' tornare a funzionare velocemente. Un certo modo di fare politica se a Milano lo si fa bene e' un buon segno per il nostro Paese". Sala ha guardato anche al futuro post pandemia: "Saremo diversi ma non perderemo la nostra capacita' di essere centrali in un mondo che va alla ricerca di modelli positivi e di modelli di cambiamento. Il nostro obiettivo e' di pensare alle tante fragilita' e di mettere mano ai problemi contingenti senza perdere la strada verso una visione di lungo termine di cambiamento". "Milano e' chiamata a un cambiamento straordinario. Non cadiamo nella sbagliata retorica di chi dice 'Nulla sara' come prima'. Noi dovremo ritornare a ricreare un modello di citta' che si basi su alcuni aspetti che funzionavano e che devono funzionare", ha rimarcato il primo cittadino citando l'esempio del tema dell'attrattivita': "Non sono banali le ragioni per cui Milano e' attrattiva, lo siamo perche' ci rinnoviamo sempre e perche' dal punto di vista culturale-educativo siamo straordinari. Abbiamo qualcosa che e' veramente unico, ovvero la capacita' di coniugare il passato, l'arte e la cultura di 26 secoli di storia con la freschezza di chi affronta con creativita' le nuove sfide che il mondo propone". "Abbiamo - ha concluso il sindaco Sala - tutte le caratteristiche per trovare una nuova dimensione".
Ospedale Sacco, soldi per entrare all'obitorio e in camera mortuaria: il caso sconvolge Milano, tre arresti. ". Libero Quotidiano il 30 settembre 2021. Smantellato un giro di corruzione all'obitorio dell'ospedale Sacco di Milano, dove in cambio di denaro veniva garantito a impresari delle onoranze funebri libero accesso alla camera mortuaria e alla documentazione relativa ai decessi. Stando a quanto riporta l'Adnkronos, l'indagine è partita da quattro esposti e ora il gip Stefania Donadeo ha emesso tre misure cautelari nei confronti di un operatore obitoriale dell'Asst Fatebenefratelli Sacco e di due dipendenti di onoranze di Milano e Baranzate. Per il primo è scattata la sospensione dall'esercizio del pubblico servizio, per i secondi il divieto di esercitare l'attività di impresario funebre. Con gli esposti si denunciavano in particolare atteggiamenti confidenziali tra impresari delle onoranze funebri e operatori obitoriali, i quali consentivano agli impresari stessi l'accesso alla camera mortuaria senza che vi fosse richiesta dei parenti del defunto. Non solo, perché veniva loro consegnata anche la documentazione sui cedessi in cambio di denaro. A partire da febbraio 2021 sono anche state intercettate delle conversazioni che per gli inquirenti sono state indicative di una diffusa pratica corruttiva. In particolare l'operatore sospeso era costante in queste condotte contro il regolamento aziendale per i decessi intraospedalieri e per l’accesso alle camere mortuarie dell’Asst, per le quali riceveva contanti dalle onoranze funebri.
Come sono i MILANESI? I 5 modi come vengono definiti più di frequente. Se si digita su Google "I milanesi sono..." appaiono le ricerche che esprimono come i cittadini di Milano vengono più frequentemente definiti. Da milanocittastato.it il 20/09/2020. Se si digita su Google “I milanesi sono…” appaiono ai primi cinque posti queste ricerche che esprimono come i cittadini di Milano vengono più frequentemente definiti. Vediamo queste cinque scelte che presentano diverse sorprese. E vediamo infine quali sono le definizioni più comuni nelle ricerche per gli abitanti di altre città italiane. Come vedremo sono definiti ognuno in modo diverso.
Quinto posto: i milanesi sono CHIUSI. Forse perchè Milano sembra una città fredda, forse una questione di carattere ereditato dalla dominazione Asburga o Longobarda, o forse collegato alla chiusura del lockdown per Covid, forse tutto questo spiega perchè al quinto posto nelle ricerche su Google i milanesi risultano “chiusi”.
Quarto posto: i milanesi sono RICCHI. Magari… In un momento di crisi come non si era mai vista questa definizione ci fa sorridere e ci mette un po’ di nostalgia. Chissà se ancora oggi il resto d’Italia ci vede ancora così?
Terzo posto: i milanesi sono SIMPATICI. Può sembrare una sorpresa. Tra le molti virtù dei milanesi non spicca per fama certo quella di essere dei simpaticoni. Eppure le ricerche di Google mettono questo al terzo posto per definire i nostri concittadini. Ma prima di montarci la testa vediamo le altre due posizioni.
Secondo posto: i milanesi sono ARROGANTI. Eccoci qua. E’ il dark side del bauscia, l’arroganza della capitale morale o della Milano da bere, l’immagine da milanesi imbruttiti che forse in realtà appartiene più a chi non è di Milano ma fa credere di esserlo. Comunque sì, forse un po’ ce la tiriamo. Anche perchè la concorrenza non è questo granché.
Primo posto: i milanesi sono ANTIPATICI. Google non mente. Così ci vedono nel resto d’Italia. Questa è la definizione che appare di più nelle ricerche. Però considerando che al terzo posto c’è “simpatici”, forse nel modo di vedere i milanesi l’Italia è spaccata in due. Per concludere vediamo al primo posto cosa appare nelle ricerche per definire abitanti di altre città.
Gli altri sono… (per Google)
I torinesi sono… freddi (secondo: antipatici, terzo: falsi e cortesi)
I bergamaschi sono… ignoranti (secondo: freddi, terzo: muratori)
I genovesi sono… tirchi (secondo: antipatici, terzo: chiusi)
I fiorentini sono… maleducati (secondo: simpatici, terzo: antipatici)
I romani sono… cafoni (secondo: arroganti, terzo: simpatici)
I napoletani sono… gelosi (secondo: simpatici, terzo: belli)
Armando Stella per corriere.it il 12 ottobre 2021. «Dum Dum» andava di fretta. Il «diciassettenne è già noto nel mondo della malavita» alla fine dei Settanta, scrive il Corriere dell’epoca. Sono anni neri. Di piombo. Di feste e di sangue. Notte di San Silvestro ‘77, Capodanno ‘78. Paolo Salvaggio (il narcotrafficante ucciso lunedì 11 ottobre 2021 con tre colpi di pistola a Buccinasco, ndr) ammazza il buttafuori di un night club di Bereguardo, nel Pavese. La vittima è Nereo De Pol, 47 anni, ex pugile professionista. Salvaggio ha bevuto, non vuole pagare il conto. Inizia una lite, escono le pistole, si arriva presto agli spari. Sulla scena del delitto c’è anche il «papà» della banda Vallanzasca, in licenza premio dal manicomio criminale di Aversa. Le cronache dell’epoca definiscono Salvaggio il «mini-killer». Giovane, spietato. «Dum Dum», come i proiettili a espansione usati dai sicari di mafia. Questa era Milano. Il 15 gennaio 1978 «Dum Dum» viene sorpreso nel suo covo dai carabinieri: sta dormendo con una rivoltella a tamburo calibro 45 sotto il cuscino. Il 13 febbraio, un mese dopo, è già in fuga dal carcere minorile Beccaria insieme ad altri due ragazzotti accusati di rapina. Poi verranno le grandi inchieste per droga, associazione a delinquere, i rapporti con le cosche mafiose calabresi e pugliesi, condanne e assoluzioni, il carcere, i domiciliari e infine i tre proiettili mortali sull’asfalto di via della Costituzione. Ma la carriera criminale di «Dum Dum» inizia qui. «Nessuno degli agenti di custodia si è accorto della fuga», scrive il Corriere nel febbraio 1978. Scomparso. Passano tre mesi. «Dum Dum» si è tinto i capelli di rosso per non farsi riconoscere. In viale Fulvio Testi, alle otto del mattino, una pattuglia della Squadra Mobile della polizia intercetta un taxi giallo. Sul sedile posteriore, un volto noto: Salvaggio. Nelle foto segnaletiche ha i capelli neri, scurissimi. Ora, in quell’auto, c’è un bandito dalla chioma rubina. Scrive il Corriere: è il «giovanissimo ricercato per furto, omicidio, rapina». Sintesi efficace: «Il killer della nuova generazione». Salvaggio non reagisce: «Sono io». Il romanzo criminale di «Dum Dum» inizia in realtà un paio d’anni prima, quando ha solo 15 anni e ancora deve conquistarsi il soprannome da bandito. L’8 febbraio 1976: arresto per furto d’auto. Inizio 1977: fermato su un’auto rubata. Luglio 1977: furto in abitazione. Novembre 1977: rissa. Il gennaio 1978, al momento dell’arresto per l’omicidio del pugile buttafuori, «Dum Dum» dice poche parole ai carabinieri: «Non ricordo nulla di quello che è successo quella sera. Ero ubriaco».
Atm Milano, tangenti e appalti pilotati: l’ex funzionario Paolo Bellini patteggia cinque anni di carcere. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2021. È 5 anni, cioè il massimo della pena che un imputato può concordare con la Procura, la pena che ha scelto di patteggiare Paolo Bellini, l’ex funzionario capoarea di Atm al centro dell’inchiesta della Guardia di Finanza milanese, coordinata dal pm Giovanni Polizzi, che nel giugno 2020 lo aveva arrestato insieme ad altre 12 persone con le accuse di corruzione, turbativa d’asta, peculato, abuso d’ufficio e falso in atti pubblici in 8 forniture dei sistemi di segnalamento della metropolitana milanese. La Procura contestava a Bellini verifiche non eseguite, falsi verbali di sopralluogo retrodatati, consegne di cd o pen-drive con rivelazioni di segreto sulle specifiche tecniche delle gare prima ancora della pubblicazione dei bandi, persino correzione delle proposte delle imprese affinché potessero risultare più competitive.
Le accuse a Bellini
«Dalle intercettazioni — aveva notato la gip Lorenza Pasquinelli, non senza una punta di sorpresa rispetto all’atteggiamento di opportunistica sudditanza palesato da colossi dell’economia — emerge come Bellini si districasse in tale groviglio di rapporti illeciti non solo in maniera del tutto disinvolta, ma anche senza alcun timore reverenziale nei confronti dei suoi interlocutori, i quali, se mai, a tratti manifestavano (loro sì) quasi una sottile piaggeria nei suoi confronti, rimettendosi praticamente in toto alle sue organizzazione e volontà nella gestione “parallela” e illecita».
Il risarcimento
Davanti alla giudice Manuela Cannavale, Bellini ha risarcito il danno quantificato in circa 141 mila euro. Analoga scelta di patteggiare, con una pena fissata in 2 anni ma con sospensione condizionale, ha compiuto anche Carmine D’Apice, dipendente di «Engineering Informatica» difeso dall’avvocato Vincenzo Maiello. Per un’altra quarantina di indagati la Procura della Repubblica si appresta definire il procedimento dopo il lungo incidente probatorio che, proprio con l’interrogatorio di Bellini, ha occupato i mesi scorsi.
Gli interrogatori
Nelle lunghe tappe di questo interrogatorio nel contraddittorio tra le parti anticipato rispetto poi al dibattimento, Bellini, difeso dall’avvocato Massimiliano Leonetti, ha anche voluto allegare una serie di manoscritti, con i quali mentre era in custodia cautelare aveva contrappuntato ciò che a suo avviso non rispondeva al vero nei depositati interrogatori dei suoi coindagati pure arrestati, a volte apparendo quasi piccato che a momenti facessero finta di non conoscerlo. Tra le posizioni da definire ci sono anche quelle di «Hitachi Rail Sts» (l’ex «Ansaldo Sts»), di «Siemens Italia» con l’allora suo responsabile gare, di «Alstom», di «Engineering» e di «Ceit», già indagate in base alle legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle società per reati commessi dai propri vertici nell’interesse aziendale.
L'ultimo "affare" di Dum Dum per amore della figlia piccola. Luca Fazzo il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il boss della droga, malato terminale, si era rimesso in pista per dare un futuro alla giovane. Rientro fatale. Anche i vecchi gangster hanno un cuore da padre. E Paolo Salvaggio, il veterano della malavita milanese giustiziato lunedì in pieno giorno, davanti a tutti, mentre pedalava per Buccinasco, non faceva eccezione. Ed è stato quell'ultimo richiamo ai suoi doveri familiari, paradossalmente, a portarlo alla tomba: una fine quasi gloriosa, nel suo contesto criminale, e certo meno penosa del cancro che se lo stava mangiando, e che lo avrebbe condotto alla tomba in qualche mese. Il retroscena della morte di Dum Dum - come era soprannominato fin dai tempi del Beccaria, il carcere minorile che svezzò Vallanzasca e tanti altri - circola con insistenza in queste ore nel milieu della delinquenza milanese. Anche in questo mondo la fine di un bandito ormai in disarmo, logorato dalla galera e dai vizi, ha creato stupore e suscitato domande. Qualche risposta sta arrivando. E dice che se Salvaggio si era rimesso in circolazione, anziché aspettare rassegnato la fine imminente, è stato per amore di sua figlia. Dum Dum aveva un erede ormai grande, anche lui inciampato in qualche guaio giudiziario, ma restando ben lontano dalle vette paterne. Poi era arrivata una bimba: nata dall'unione di Salvaggio con la compagna di un altro nome di peso della mala milanese, Emanuele Tatone. La leggenda narra che Tatone prese malissimo lo scippo, e che i due si sfidarono a duello. Tatone ne uscì con una pallottola nella gamba che lo rese zoppo per il resto dei suoi giorni. La nuova figlia di Dum Dum ha da sempre qualche problema di salute. Al punto che, si dice, quando il padre si è reso conto che la fine dei suoi giorni si avvicinava a grandi passi, la sua principale preoccupazione è stato garantire alla giovane donna un futuro privo di preoccupazioni materiali. Così si è fatto carico del problema nell'unico modo in cui era capace di farlo: tornando a muoversi sul fronte della droga, il business che per lunghi anni era stato la sua principale fonte di guadagno, e tornando a mettere a frutto le conoscenze di un tempo. Mettersi in proprio a trafficare cocaina era per Dum Dum impensabile: troppo malconcio, troppo solo, del tutto incapace di reggere lo scontro con la concorrenza. Ma viveva a Buccinasco. Le due ore d'aria quotidiane, quando lasciava gli arresti domiciliari, bastavano per tenere le antenne attivate. E per sapere che da tempo quanto resta delle cosche calabresi era alle prese con la penuria di droga da smerciare: tra arresti e lockdown, i canali classici si erano inariditi. Salvaggio i canali li aveva ancora: i serbi, la mafia dell'ex Jugoslavia che da tempo si è impadronita di alcune rotte importanti per la «polvere». E si è candidato a fare da tramite per la fornitura di una partita consistente. I calabresi risolvevano un problema di marketing. E Dum Dum incassava una provvigione in grado di sistemare i conti di casa in vista del suo addio. Ma qualcosa non ha funzionato, evidentemente. I calabresi, secondo la voce che gira in queste ore, non hanno pagato: o almeno non hanno pagato tutto. I serbi hanno battuto cassa. E si sono rivolti all'uomo che aveva fatto da garante: Salvaggio. D'altronde, per quanto i tempi siano cambiati, andare allo scontro direttamente con i calabresi di Buccinasco non era facile neanche per gente tosta come i ragazzi di Belgrado. Quello che la storia non dice, e che probabilmente nessuno ancora sa, è come abbia reagito Dum Dum quando si è trovato preso in mezzo nello scontro tra clan. Forse si è sentito protetto dall'ombra dei calabresi, forse si era sentito sicuro. Sbagliando. Mentre agonizzava sull'asfalto di via della Costituzione, lunedì mattina, l'ex ragazzo del Beccaria ha avuto forse il tempo per rendersene conto. E per andarsene con il rimpianto di non avere saputo garantire un futuro sereno a sua figlia. Dopodiché, se questa è la storia, l'ammazzamento di Salvaggio suona come un messaggio pesante ai suoi «clienti». Ma questa è un'altra faccenda, più banale.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Cesare Giuzzi per corriere.it il 12 ottobre 2021. I proiettili che uccidono Dum dum, uno dei narcos più importanti sulla piazza milanese, fanno molto più rumore del semplice suono di uno sparo. A Buccinasco li sentono tutti. Quando Paolo Salvaggio è a terra, con il corpo trafitto da quattro proiettili, ci sono intorno almeno una ventina di persone, immortalate da qualche foto scattata con il cellulare. Tutti aspettano i soccorsi che nonostante un disperato tentativo di rianimarlo non bastano a salvargli la vita. Il 60enne Paolo Salvaggio muore un’ora dopo all’Humanitas di Rozzano. Sono spari che fanno rumore non solo per la caratura di Dum dum Salvaggio, ma perché sono più di trent’anni che a Buccinasco non ci sono agguati mafiosi, dai tempi seguiti all’operazione Nord Sud del pentito Saverio Morabito, della Criminalpol e del pm Alberto Nobili. Nella cittadina diventata famosa negli anni ‘90 come la Platì del Nord da più di 15 anni s’è scelta la strategia del silenzio. Silenzio assoluto. Niente più macchine che bruciano di notte, niente bombe davanti ai negozi. Niente ‘ndrangheta che «toglie il respiro» come quella raccontata dagli imprenditori edili nelle inchieste Cerberus e Parco Sud. Ma una mafia più subdola, strisciante, più attenta alla politica e all’imprenditoria, riflessiva e soprattutto «pacifica», capace di appianare i contrasti senza piombo e pallottole. Ma che guarda al bottino grosso: gli affari. E con il cadavere a terra di Paolo Salvaggio per un po’ di affari se ne faranno pochi. Per questo i carabinieri del Nucleo investigativo, guidati da Michele Miulli, Antonio Coppola e Cataldo Pantaleo, procedono molto cauti su piste suggestive restando per ora ben ancorati alla scena del crimine. E a un dato: Salvaggio era malato di tumore all’ultimo stadio, sarebbe morto comunque nel giro di poche settimane. Cosa può aver spinto i killer (e i mandanti) ad agire in modo così fragoroso senza attendere in qualche modo il corso del tempo? Un elemento che fa pensare a una vendetta, a un odio personale che non poteva essere lavato che con il sangue. La sua carriera era iniziata giovanissimo con l’omicidio del pugile-buttafuori Nereo De Pol, colpito a pistolettate dopo essere stato sbattuto fuori da un night a Bereguardo, nel Pavese. Era il 1978. Poi l’evasione dal carcere minorile Beccaria e l’ingresso nella malavita che conta con le prime batterie di rapine insieme ad ex del giro di Vallanzasca. Infine il grande sbarco nel mondo della droga. Non a Buccinasco ma tra il Gratosoglio e lo Stadera, storico feudo dei fratelli Mannino. Risale a quel tempo un agguato a cui miracolosamente scampa Salvaggio: nel 1987 mentre si trova in via Meda viene colpito da una raffica di piombo. Muore l’amico Eugenio Vanadia, ma Salvaggio rimane illeso. Si scoprirà che il mandante di quell’agguato era Leonardo Triglione di Rozzano e che quelle pallottole erano in realtà la risposta per una donna contesa. La donna si chiamava Giuliana ed è l’attuale compagna di Salvaggio con la quale viveva, in via Lamarmora a Buccinasco, vicino al figlio Claudio. Salvaggio era già stato sposato e aveva avuto una bambina dal precedente matrimonio. Ieri la nuova compagna e il figlio 39enne sono stati sentiti a lungo da carabinieri e magistrati. Dum Dum ha trascorso anni in carcere, era stato messo ai domiciliari nel 2018 proprio per i problemi di salute. Ma non ha mai parlato, neanche quando il suo fidato socio, Francesco Petrelli, lo ha tradito collaborando con la giustizia. Con Salvaggio hanno trafficato droga i nomi più importanti della malavita milanese e non solo: dai Molluso ai Grifa, da Liuni a Mazzone. Come quel Francesco Orazio Desiderato, brooker gemello di Dum dum, legato al potente clan Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia). Ma anche importanti personaggi slavi e serbi da cui Salvaggio acquistava quintali di cocaina ogni mese. Dum Dum era stato coinvolto anche in un’altra indagine per omicidio. L’uccisione di un palermitano scomparso misteriosamente e di cui vennero trovati solo i resti. Ma le accuse erano poi cadute in giudizio. Le indagini vanno avanti a passo spedito, gli investigatori della squadra Omicidi e della compagnia di Corsico hanno sequestrato i filmati delle telecamere e sono alla ricerca delle tracce dei killer. Lo scooter non sarebbe ancora stato ritrovato. Si lavora ad ampio raggio. Chi ha sparato sapeva di muoversi a Buccinasco in un contesto di forte controllo della criminalità mafiosa. Una regola che vale per tutti, anche per la criminalità straniera. Ma che potrebbe essere stata infranta da qualche gruppo «forestiero» non troppo preoccupato per le ripercussioni di spari tanto rumorosi.
Cesare Giuzzi per corriere.it l'11 ottobre 2021. Un’esecuzione. Un agguato pianificato. Un lavoro da professionisti. Tre spari, l’ultimo alla testa, quando già era a terra. Paolo Salvaggio, 60 anni, già coinvolto in diverse operazioni antidroga, importante broker del narcotraffico milanese, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco sparati in via della Costituzione a Buccinasco, comune a pochi chilometri da Milano e storico territorio dei clan di ‘ndrangheta. Salvaggio — che era agli arresti domiciliari per droga a casa dell’ex moglie e aveva un permesso per uscire due ore alla mattina, dalle 10 alle 12 — era in bicicletta quando è stato raggiunto dai proiettili sparati dai killer (due, secondo le prime informazioni) su un T Max nero. I primi due colpi sarebbero stati esplosi dallo scooter in corsa a distanza ravvicinata. Il terzo sarebbe stato sparato a bruciapelo, con la vittima già riversa sul marciapiede.
La bicicletta, il bar e gli spari vicino al parco in centro
Secondo gli investigatori i killer conoscevano bene le abitudini di Salvaggio, che era autorizzato ad uscire tra le dieci e mezzogiorno e solitamente, dalla sua abitazione in via Lamarmora a Buccinasco, si recava al bar della piazzetta, nel centro del paese, dove trascorreva la mattina fino al rientro. L’agguato è avvenuto a circa 250 metri dal locale, in una strada molto frequentata, accanto ad uno dei principali parchi della cittadina. Gli aggressori lo avrebbero seguito sullo scooter per poi sparargli una volta arrivati all’altezza del semaforo tra via della Costituzione e via Morandi. Senza lasciargli scampo. Sul posto il pm di turno Carlo Scalas. La moglie e il figlio della vittima sono stati ascoltati dagli investigatori.
Le telecamere di videosorveglianza
Il sindaco Rino Pruiti ha messo a disposizione delle forze dell’ordine i filmati delle telecamere di sorveglianza nella zona: «Abbiamo diversi impianti “intelligenti” che già in altri casi sono stati risolutivi. Gli investigatori stanno visionando le immagini».
L’operazione Parco Sud
Salvaggio, soprannominato «Dum Dum», era stato coinvolto nel 2013 nell’operazione Parco Sud. Intermediario nei traffici di droga, si riforniva dai montenegrini (a loro volta vicini ai narcos colombiani) e teneva contatti con i boss della ‘ndrangheta e della Sacra corona unita. Da una parte la cosca Barbaro-Papalia di Platì, basata a Buccinasco, dall’altra il clan Magrini, pugliesi legati ai clan della malavita barese. (…)
Da corriere.it l'11 ottobre 2021. Il timore per una escalation di violenza. Nel feudo della ’ndrangheta. «Adesso bisogna capire perché dopo decenni qui si ricomincia a sparare. Evidentemente sono saltati gli equilibri fra le famiglie». Rino Pruiti è il sindaco dem di Buccinasco. Sindaco antimafia. In trincea. Prima linea contro le cosche. «La preoccupazione è altissima» dice, dopo l’assassinio per strada di Paolo Salvaggio, avvenuta nella mattinata dell’11 ottobre accanto al parco Spina Azzurra, «una delle zone più frequentate del paese».
Le infiltrazioni della ‘ndrangheta
«Sono decenni che pregiudicati e famiglie di mafia vivono qui. La proporzione di locali sequestrati alle mafie che abbiamo qui è più alta che a Reggio Calabria, uno ogni mille abitanti» aggiunge. Ma finora gli «affari» della criminalità organizzata erano rimasti sotto traccia: «L’ultimo morto ammazzato risale alla fine degli anni ‘80». Salvaggio era, spiega Pruiti, una sorta di «ponte fra la ’ndrangheta e altre famiglie di mafia». Da qui il timore che, saltati gli equilibri, inizi una sorta di nuova guerra di potere. «Il problema — aggiunge Pruiti —- c’era prima e c’è oggi. Abbiamo tutte le più importanti famiglie di `ndrangheta che vivonoqui. L’attenzione deve rimanere alta, noi lo diciamo da anni. Magistratura e forze dell’ordine si occupino in maniera decisa di questo territorio».
Lo scontro con Papalia
Solo quattro mesi fa il sindaco Pruiti era stato vittima delle intimidazioni del boss Rocco Papalia. Perché a Buccinasco come a Corsico la ‘ndrangheta ha un solo nome: Barbaro-Papalia. Dove il primo è il casato di Platì (Reggio Calabria) tra i più nobili della ‘ndrangheta, e il secondo è la sua emanazione in terra lombarda: i figli di Giuseppe Papalia e Serafina Barbaro. Quattro anni fa, il boss Rocco Papalia, 71 anni, è stato scarcerato dopo 26 anni. Vive in una villetta di via Nearco, a Buccinasco, per metà confiscata al genero. Al piano superiore c’è una comunità per migranti minori, sotto lui e la moglie. A maggio 2017 la ritrovata libertà era stata festeggiata con una processione di amici, parenti e nipoti con lo champagne sotto braccio. Oggi «conduce la vita del nonno» e chiede di «voler essere lasciato in pace».
La reazione del sindaco
A fine maggio Papalia era tornato a parlare nel programma «Mappe criminali» su Tv8. Se l’era presa con i giornalisti ma soprattutto con il sindaco Pruiti. Il primo cittadino aveva chiesto al boss di scusarsi con la cittadinanza per i reati commessi.«Cosa ha detto lui? Che io devo chiedere scusa alla cittadinanza. Io ho fatto più di lui perché ho costruito mezza Buccinasco con i mezzi miei di scavo e movimento terra. Lui sulu si ‘mbucca ‘a pila (si fotte i soldi, ndr). Se c’è qualcuno che se ne deve andare deve essere lui. La mafia a Buccinasco non è mai esistita». «Le parole di Papalia sono inaccettabili — aveva replicato il sindaco (che aveva scritto anche al prefetto) — Non possiamo pensare di poter continuare a vivere accanto a un personaggio simile. Non rinnega il suo passato, non chiede scusa per i reati per cui è stato condannato, addirittura rivendica di aver fatto per Buccinasco più delle istituzioni. È un nuovo attacco allo Stato e lo Stato deve reagire».
La Molenbeek di Milano tra racket e jihadisti. Alberto Giannoni l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. Case occupate a colpi di piccone e aspiranti terroristi islamici. Bernardo mette il dito nella piaga della periferia più derelitta. Case occupate a colpi di piccone, covi jihadisti, rivolte anti-polizia. E poi racket, rifiuti, degrado estetico e non solo. Se a Milano c'è un luogo simbolo delle periferie fisiche ed «esistenziali», questo è piazzale Selinunte, vertice del quadrilatero della paura che attanaglia San Siro, quartiere anomalo in cui 50mila persone vivono divise fra zone residenziali e vecchie case popolari che cadono a pezzi e sono in mano al racket, come il clan egiziano sgominato ad aprile con 260 alloggi. Ha scelto il quadrilatero, e ha scelto Selinunte, il candidato sindaco del centrodestra Luca Bernardo, per mettere il dito nella piaga di un'amministrazione comunale che ha saputo, o voluto, neanche immaginare una rinascita. «Io incontro i cittadini - ha detto il medico - il sindaco uscente incontra rapper con precedenti. Bisogna che torni la legalità. Il sindaco Sala, qui, nessuno lo ha visto». In effetti, ad aprile una rivolta balorda e criminale si è materializzata in una sassaiola contro le forze dell'ordine. In un sabato pomeriggio di restrizioni Covid, 300 giovani che si erano ritrovati in via Micene per partecipare alle riprese di video si misero a ballare e cantare sui tettini delle auto in sosta, e dopo essere fuggiti in Selinunte alla vista delle divise si ricompattarono iniziando un lancio di pietre, bastoni e bottiglie verso i poliziotti. Sala, in seguito, pensò di incontrare altri rapper, tutt'altro che irreprensibili peraltro. Il quadrilatero fa paura da anni, e dopo il 2015 - anno degli attentati jihadisti di Parigi - è stato indicato come la potenziale «Molenbeek» italiana, per evocare quel sobborgo di Bruxelles che è sfuggito a ogni controllo per trasformarsi in una base di sanguinari attacchi terroristici che hanno colpito il Belgio e la Francia. Nel 2016 è stato arrestato in Libia il colonnello dell'Isis Moez Ben Abdelkader Fezzani, tunisino vecchia conoscenza di Milano: 9 anni prima, in un'ordinanza di custodia cautelare, era stato accusato di essere un uomo di Al Qaeda e di «organizzare la logistica dei mujaheddin provenienti dall'Italia accogliendoli presso la «Casa dei fratelli tunisini». La «Casa dei fratelli tunisini si trovava in un piccolo appartamento di edilizia popolare in via Paravia 84, mentre in una traversa (via Civitali) abitava Mohamed Game, il libico che nel 2009 si fece esplodere davanti alla caserma di piazzale Perrucchetti. Nel 2018, uno studio condotto di «ItsTime», centro di ricerca guidato dal professore Marco Lombardi della Cattolica, aveva indicato i punti in cui «potrebbe più facilmente attecchire il fenomeno del radicalismo religioso»: San Siro, in particolare piazza Selinunte, Lorenteggio-Giambellino e Corvetto. L'anno precedente, denunciando le occupazioni endemiche di via Morgantini e del quadrilatero, il presidente del Municipio 7 Marco Bestetti, aveva tracciato lo scenario di un teatro di guerra, chiedendo «stivali sul terreno»: «Entrando in quei palazzi - avvertì - ci si rende conto che non c'è politica di integrazione o sociale che tenga. E se qualcuno sfonda le porte a picconate o con la sega elettrica, allora devi portare decine di agenti, svuotando interi palazzi in un colpo solo». Bestetti - oggi candidato in Comune - ieri ha accompagnato Bernardo in piazzale Segesta, lo spartiacque fra il «nulla» che avanza e le zone residenziali. «Invece di portare le periferie verso il centro, la sinistra ha fatto il contrario - ha spiegato in serata - E molte persone ormai denunciano situazioni allucinanti. In Selinunte non puoi intervenire col fioretto ma con la clava. La sinistra ha applicato la ricetta dell'accoglienza, della tolleranza, e così via. È ora di cambiare completamente approccio e di usare la clava». Alberto Giannoni
Grattacielo bruciato a Milano, così è nato l’incendio: la sigaretta accesa, i rifiuti sul balcone e l’effetto camino. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. Torre dei Moro di via Antonini, la relazione dei vigili del fuoco sul rogo del 29 agosto. Nessuna traccia di cortocircuito o dolo. Sul balcone che ha preso fuoco 20 sacchetti della spazzatura, tovaglioli di carta, bottiglie, batterie e un vecchio copridivano sintetico. I pannelli della facciata installati prima della certificazione. La canna fumaria del palazzo avrebbe innescato l’effetto camino. Il «triangolo del fuoco» prevede che per innescare un incendio siano necessari soltanto tre elementi: il combustibile, il comburente e la fonte di innesco. Questo vale per la teoria, ma per il rogo della Torre dei Moro di via Antonini del 29 agosto, in mezzo a questo triangolo ci sono un numero altissimo di variabili, coincidenze, concause e negligenze che solo se messe perfettamente in fila, nell’ordine preciso in cui si sono verificate, possono spiegare come in una manciata di minuti un grattacielo di 15 piani sia stato completamente avvolto dalle fiamme.
La relazione dei vigili del fuoco
La relazione tecnica del Nucleo investigativo antincendi dei vigili del fuoco, depositata al pm Marina Petruzzella e all’aggiunto Tiziana Siciliano, per la prima volta fa luce su ciò che è successo, minuto per minuto, quel pomeriggio in via Antonini. Secondo gli esperti il rogo sarebbe stato innescato probabilmente da un mozzicone di sigaretta gettato accidentalmente sul balcone dell’appartamento 15C da un vicino di casa dei piani superiori. Causa «non da escludere», così la definiscono i vigili del fuoco, che nella loro relazione eliminano in base ai risultati delle indagini le altre possibili ipotesi dietro l’incendio. Resiste, ma «ritenuta estremamente rara e di difficile accertabilità» quella del cosiddetto effetto lente: uno specchio del bagno che riflette la luce del sole su una bottiglia di vetro vuota che a sua volta innesca «oggetti o materiale vegetale» lasciati sul balcone. Nessuna traccia, invece, di cortocircuito, combustione spontanea o dolo.
La spazzatura sul balcone
A prendere fuoco sarebbero state masserizie e rifiuti: «Sul balcone dell’appartamento oggetto dell’inizio del rogo è emerso un vano utilizzato come ripostiglio e vi erano sacchi di spazzatura, vario materiale combustibile coperto da un grosso telo di materiale sintetico». Nel dettaglio, secondo il racconto dei proprietari, c’erano: 20 sacchetti della spazzatura, tovaglioli di carta, bottiglie, una batteria da 9 volt, una da 1,5 e un vecchio copridivano sintetico. Questo «ammasso» avrebbe fatto da culla alla combustione lenta provocata dal mozzicone. Non c’è la certezza, ma per i vigili del fuoco quella della sigaretta resta per esclusione l’ipotesi più probabile. Le indagini non hanno finora evidenziato responsabilità sull’autore del «lancio» e probabilmente sarà impossibile farlo. Ci sono però passaggi importanti per determinare le responsabilità, anche a livello penale, che sono state decisive per la propagazione dell’incendio e per i danni.
I pannelli della facciata
I pannelli del rivestimento, vero punto debole del grattacielo, erano stati installati ancora prima che ricevessero la certificazione. Inoltre, stando ai vigili del fuoco, non sarebbero state seguite le specifiche durante la posa. Il materiale «antirombo» utilizzato non solo brucia a contatto con una fiamma libera ma «cola» rapidamente e pericolosamente verso il basso. Le fiamme che si sono sviluppate in un angolo del balcone hanno subito intaccato una parete di lamiera sottile che separa un grande cavedio, a tutta altezza, dove si trovano i tubi di scarico in pvc. Questa «canna fumaria» avrebbe poi innescato l’effetto camino con la colatura di materiale incandescente di sotto che man mano innescava altri roghi e il cavedio che dava ossigeno alle fiamme. La parte finale delle vele sulla facciata ha permesso alle fiamme, spinte dal vento, di ruotare tutto intorno al palazzo. Come già emerso durante le operazioni di spegnimento l’impianto antincendio non aveva pressione. Il guasto ai «pressostati» era stato segnalato a giugno all’amministratore.
Paura a Milano: in fiamme palazzo di 15 piani. Francesca Galici il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. Le fiamme hanno avvolto il palazzo, ormai gravemente compromesso. 11 ambulanze sono accorse sul posto per soccorrere i residenti. Maxi incendio in un grattacielo di Milano, in via Giacomo Antonini al numero civico 32 e al 34. Un'alta colonna di fumo, visibile da più parti della metropoli, si è levata dal palazzo e sul luogo sono accorsi i Vigili del fuoco e i mezzi di soccorso per far fronte all'emergenza. L'allarme è scattato attorno alle 17.30 in un palazzo dove, stando a quanto si apprende, abitano circa 70 famiglie. L'incendio è partito da un palazzo alto 15 piani che è stato completamente avvolto dalle fiamme ma le fiamme hanno poi interessato anche il palazzo adiacente. Le operazioni di evacuazione sono ancora in corso. Da quanto si apprende dal sito di Areu, almeno una persona è rimasta coinvolta ed è stata soccorsa in codice giallo. Sul posto si trovano 11 ambulanze, diverse auto mediche e numerose pattuglie della polizia di Stato che stanno seguendo le operazioni di evacuazione e gestione delle fiamme. È una corsa contro il tempo quella dei Vigili del fuoco per tentare di domare rapidamente le fiamme ed evitare ulteriori danni alla struttura, ormai gravemente compromessa. Stando alle prime informazioni le fiamme sarebbero partite dall'ultimo piano del grattacielo. Le fiamme si sono sviluppate sul lato sinistro dell'edificio e, da quanto si apprende dai soccorritori, hanno in parte consumato la muratura dell'edificio, che rischiava di precipitare nel parcheggio sottostante. L'edificio è avvolto da una densa coltre di fumo nero e gli uomini del soccorso stanno perlustrando lo stabile per capire se al suo interno siano ancora presenti persone da evacuare. Oltre alla persona soccorsa in codice giallo, per il momento sono state 20 le persone che sono ricorse alle cure dei soccorritori. Fonti presenti sul posto riferiscono che sono tutti in buone condizioni, e non presentano sintomi di intossicazione. Nessuno ha avuto bisogno di un sostegno per gli spostamenti. Gli investigatori sono già al lavoro per capire quali possano essere state le cause scatenanti dell'incendio. I vigili del fuoco stanno sgombrando anche le abitazioni vicine, perchè il rogo ha fiamme alte; preoccupa anche la vicinanza di un impianto di distribuzione del carburante. Nel palazzo probabilmente erano in corso lavori di ristrutturazione come testimoniano le impalcature esterne. Non è escluso che sia partite di là l'incendio. Nelle vicinanze del palazzo evacuato si trovava anche il cantante Morgan, che sui suoi social ha documentato la fuga, inquadrando le fiamme che iniziavano ad avvolgere il grattacielo. "Scappiamo, scappa", dice il cantautore con voce concitata a un amico, mentre i due iniziano a correre in direzione opposta alle fiamme. "Stavamo in casa ed è scoppiato un incendio a Milano. C'è un grattacielo che sta andando completamente a fuoco. È una cosa assurda, assurda. Stavamo per andare a fuoco anche noi ma stavamo nella casa di fianco", ha poi commentato Morgan in un altro video.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Incendio di Milano, la Torre dei Moro "sciolta come burro". Il dettaglio sconcertante sul rivestimento: "Nessun obbligo". Libero Quotidiano il 30 agosto 2021. Solo un miracolo ha impedito che l'incendio della Torre dei Moro, palazzo di 16 piani in via Antonini, si trasformasse nella Grenfell Tower di Milano. Settanta famiglie evacuate, rimaste senza una casa, ma nessun morto, se si escludono gli animali domestici rimasti intrappolati negli appartamenti. Per loro, una fine orribile, per le persone scampate al rogo (tra cui il cantante Mahmood, residente) una enorme paura. E tanta rabbia, perché quel palazzo alla periferia Sud di Milano, finito di costruire nel 2011, "si è sciolto come burro", in una manciata di minuti. "Se fosse accaduto di notte saremmo morti", accusa un testimone. E la mente corre alla tremenda sciagura di Londra di 5 anni fa, in cui morirono anche due giovani italiani. Le cause dell'incendio sono ancora da chiarire, mentre la dinamica è chiara: le fiamme sarebbero partite da un appartamento del 15esimo piano e poi si sarebbero diffuse lungo la copertura esterna del palazzo, diventato un enorme cerino. Un vicino di casa ha dato l'allarme scendendo le scale, e tutti sono riusciti a mettersi in salvo sul marciapiede, mentre dall'edificio iniziavano a staccarsi lastroni di cemento e di vetro, "che cadevano come lapilli". "Ci avevano assicurato che la copertura era ignifuga, me lo ricordo benissimo", spiega una signora in lacrime. Ed è qui il particolare sconvolgente. "Il fuoco pare si sia propagato solo all'esterno - analizza sul Corriere della Sera il professor Angelo Lucchini, docente di Architettura tecnica al Politecnico di Milano -, se qualcosa non ha funzionato riguarda esclusivamente l'involucro e in particolare il suo rivestimento. Significa cioè che il sistema di sicurezza interno ha funzionato". Evidentemente, "il rivestimento è stato realizzato con materiale combustibile, in grado di reagire rapidamente all'innesco che, per quanto è dato sapere, pare sia avvenuto a un piano alto". Tutto questo è possibile perché non c'è un obbligo di utilizzo di materiale ignifugo, ma solo una "raccomandazione": "Per le facciate è inappropriato e non si concilia con i requisiti di sicurezza rispetto al fuoco previsti dal Ministero dell'Interno per gli edifici civili", sottolinea il professor Lucchini. Ora si indagherà su architetto, ingegneri e ditta costruttrice del palazzo, visto che i pannelli esterni erano in polistirene. "Di norma non c'è la necessità di proteggere le facciate con questo genere di impianti in quanto i materiali stessi dovrebbero salvaguardarne la sicurezza".
Edificio di circa 20 piani abitato da 70 famiglie: tra loro anche Mahmood. Incendio in un grattacielo a Milano, famiglie evacuate e intossicati: “Non ci sono vittime, vigili ustionati”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 29 Agosto 2021. Maxi incendio divampato intorno alle 17.45 in un palazzo di 20 piani a Milano, che ha interessato due civici, il numero 32 e il numero 34 di Via Antonini, periferia sud della città, dove abitano, secondo quanto si è appreso, circa 70 famiglie. Ancora incerto il numero di persone ancora presenti nel palazzo. Sul posto numerose squadre (almeno una decina) dei vigili del fuoco. Sono in corso le operazioni di evacuazione degli abitanti dello stabile. Al momento non è chiaro se all’interno ci sono ancora persone intrappolate dalle fiamme. Sul posto quasi una ventina tra ambulanze ed automediche e diverse pattuglie della polizia. “Abbiamo sentito odore di fumo e siamo scappati via” commenta all’agenzia Ansa una donna residente al 15esimo piano, dove sarebbe partito il rogo. “Non pensavo fosse così grave, i vigili del fuoco mi hanno detto che sarebbe partito dall’altro lato del mio piano – continua la donna – dove vive un ragazzo che dovrebbe essersi messo in salvo”. Molte abitazioni sono vuoto perché gli occupanti non sono ancora rientrati dalle vacanze. Secondo una prima ricostruzione, il fuoco si è propagato probabilmente dall’ultimo piano, facendo crollare le vetrate della faccia e generando una colonna di fumo visibile anche a chilometri di distanza. Le fiamme si sono sviluppate sul lato sinistro dell’edificio e, da quanto si apprende dai soccorritori, hanno in parte consumato la muratura dell’edificio, che rischiava di precipitare nel parcheggio sottostante. “Per ora non abbiamo segnalazioni di vittime o feriti” annuncia il sindaco di Milano Beppe Sala intervenuto in via Antonini. “Una ventina di persone sono uscite senza problemi – ha aggiunto – ora i vigili del fuoco entrano casa per casa sfondando le porte per vedere se qualcuno è rimasto dentro. Siamo positivi rispetto al fatto ci sia stato tempo uscire ma finché il controllo non viene fatto non possiamo esserne certi”. “Ho visto dei vigili del fuoco con le mani ustionate, stanno svolgendo un encomiabile lavoro, come sempre” ha aggiunto.
“Stiamo trovando delle camere d’albergo” per le famiglie che hanno perso la propria abitazione ha annunciato il sindaco di Milano Giuseppe Sala, che circa un’ora fa ha raggiunto il luogo del rogo. “Però è il minimo” ha aggiunto. “E’ chiaro che queste persone hanno perso tutto: sono qua con un paio di jeans e una maglietta e non hanno niente. C’è qua già un magistrato – ha proseguito Sala – e sarà importante subito verificare le responsabilità, perchè ci sono persone che hanno perso tutto”. Stando a quanto riferisce il 118, non risultano persone trasportate in ospedale. Molti residenti sono stati assistiti sul posto dal cospicuo numero di sanitari e ambulanze fatte pervenire. La certezza che non ci siano altre persone coinvolte si avrà quando i vigili del fuoco avranno messo in sicurezza lo stabile. L’Areu è presente con 17 mezzi. Sono almeno 20 gli inquilini del palazzo di 20 piani di via Antonini a Milano dove nel pomeriggio è scoppiato un incendio che sono già stati visitati dal 118. Da quanto si apprende, tutti erano in buone condizioni, non presentavano sintomi di intossicazione ed erano in grado di camminare. Sul rogo la procura di Milano ha aperto un fascicolo. Sul posto il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano. Alle 21 le fiamme sono state quasi domate del tutto. Ancora visibili le fiamme all’ultimo piano. Diversi detriti sono in strada a diversi metri dal palazzo. Il grattacielo in questione si chiama La torre dei Moro. Il complesso è costituito da due piani interrati, adibiti ad autorimesse, posti auto, cantine e locali tecnici, da un piano fuori terra adibito ad attività commerciale, da una parte superiore in cui sono stati realizzati appartamenti disposti su due livelli. C’è poi un edificio a torre residenziale che ha 16 piani e raggiunge i 60 metri di altezza. C’è anche il cantante vincitore del festival di Sanremo Mahmood tra i residenti nel palazzo che ha preso fuoco in via Antonini. Lo riferiscono alcuni abitanti dell’edificio. Non lontano abita un altro cantante, Morgan, che ha postato su Instagram una storia in cui scappa alla vista delle fiamme.
Incendio Milano, Mahmood tra i residenti in fuga. Morgan: “Stavamo andando a fuoco”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 29 Agosto 2021. “E’ una cosa assurda, c’è un grattacielo che sta andando a fuoco. E’ allucinante, stavamo andando a fuoco anche noi però stiamo nella casa di fianco. Guardate il palazzo, incredibile. Fiamme altissime”. Così il cantante Morgan in un video pubblicato su Instagram da via Antonini, a Milano, che ha ripreso nel pomeriggio il rogo nel palazzo di 15 piani avvolto dalle fiamme. “Io sono scappato subito appena ho sentito il calore in casa. Stanno portando fuori le persone. In quel palazzo ci abita Mahmood”, ha sottolineato. C’è anche il cantante vincitore del festival di Sanremo Mahmood tra i residenti nel palazzo che ha preso fuoco in via Antonini. Lo riferiscono alcuni abitanti dell’edificio. Da quello che hanno spiegato i soccorritori il cantante Mahmood che abitava al nono piano della torre andata a fuoco a Milano sarebbe stato tra i primi ad abbandonare l’edificio una volta scoppiato l’incendio. Il cantante si è quindi messo in salvo. Intanto il sindaco Giuseppe Sala esclude vittime: “Sono stati contatti tutti i residenti del palazzo e la buona notizia è che hanno risposto tutti. Da quello che capiamo, avendo contattato tutti, credo che in questo momento che ci siano vittime lo si possa escludere. Aspettiamo però di entrare in ogni appartamento ma possiamo tirare un sospiro di sollievo”. “Per ora non abbiamo segnalazioni di vittime o feriti” annuncia il sindaco di Milano Beppe Sala intervenuto in via Antonini. “Una ventina di persone sono uscite senza problemi – ha aggiunto – ora i vigili del fuoco entrano casa per casa sfondando le porte per vedere se qualcuno è rimasto dentro. Siamo positivi rispetto al fatto ci sia stato tempo uscire ma finché il controllo non viene fatto non possiamo esserne certi”. “Ho visto dei vigili del fuoco con le mani ustionate, stanno svolgendo un encomiabile lavoro, come sempre” ha aggiunto. “Stiamo trovando delle camere d’albergo” per le famiglie che hanno perso la propria abitazione ha annunciato il sindaco di Milano Giuseppe Sala, che circa un’ora fa ha raggiunto il luogo del rogo. “Però è il minimo” ha aggiunto. “E’ chiaro che queste persone hanno perso tutto: sono qua con un paio di jeans e una maglietta e non hanno niente. C’è qua già un magistrato – ha proseguito Sala – e sarà importante subito verificare le responsabilità, perchè ci sono persone che hanno perso tutto”.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
Da video.corriere.it il 30 agosto 2021. «È allucinante, stavamo per andare a fuoco anche noi»: è quanto ha detto il cantautore Morgan in una storia su Instagram in cui ha raccontato l’incendio avvenuto in via Antonini domenica 29 agosto a Milano. «Noi stiamo nella casa di fianco», ha proseguito Morgan. «Sono scappato subito appena ho sentito il calore in casa, in un attimo è divampato il fuoco nel palazzo. Ho fatto in tempo a fare un video ma sono scappato perché sentivo le fiamme addosso», ha detto mentre riprendeva il grattacielo in fiamme. «È una scena allucinante, le fiamme sono altissime», ha spiegato. (ANSA).
Federico Berni e Cesare Giuzzi per corriere.it il 30 agosto 2021. Le fiamme partono dall’interno di un appartamento al quindicesimo piano. Se ne accorge un ragazzo che abita di fianco e sente odore di bruciato. È lui a correre all’impazzata per le scale, a bussare alle porte degli altri appartamenti e a dare l’allarme. Quando arrivano le prime chiamate al 112, il rogo è soltanto un puntino rosso in lontananza che si staglia sulla facciata bianca con il profilo della chiglia di una nave. Chi è dentro fa appena in tempo a scendere e a mettersi in salvo. Appena gli abitanti arrivano in strada e si voltano, il rogo ha già avvolto il rivestimento esterno della facciata. È come se fosse benzina. Perché le fiamme prima salgono verso l’alto, al diciottesimo, poi scendono seguendo un percorso «innaturale» verso il basso. Avvolgono la prima «vela» della facciata, poi in meno di quindici minuti il grattacielo di 18 piani è avvolto come una torcia dalle fiamme. Una nuvola di fumo si alza in cielo, visibile da tutta la provincia di Milano, e sotto, sulle auto parcheggiate, sulle aiuole e nei cortili delle case vicine, precipitano vetrate, cemento e pezzi di rivestimento incandescenti come lapilli di un vulcano. Il bilancio è a lungo provvisorio, perché solo a tarda notte i vigili del fuoco riescono a entrare in tutti gli appartamenti (3.700 metri quadrati totali) dopo aver sfondato e abbattuto le porte blindate. Ma come conferma il comandante Felice Iracà «non risultano dispersi». Tutti salvi i trenta inquilini presenti (su settanta). C’è il rischio di crolli: le temperature potrebbero aver minato la tenuta della gabbia esterna di metallo. Così da rendere ancora più complicato il lavoro dei vigili del fuoco che devono salire piano per piano con manichette e respiratori. L’impianto antincendio è andato fuori uso, le autoscale arrivano al massimo al decimo piano. «Ho visto dei vigili del fuoco con le mani ustionate, stanno svolgendo un encomiabile lavoro, come sempre», dice il Beppe Sala accorso sul posto. Tra gli abitanti del grattacielo «Torre dei Moro», sorta nel 2011 in via Antonini, periferia sud di Milano, anche il cantante vincitore di Sanremo, Mahmood. «L’ho incontrato cinque minuti prima di lasciare il palazzo. Sentivamo puzza di fumo mi ha chiesto se venisse da casa mia eravamo già in allarme», racconta un giovane in bermuda, maglietta e zino neri che vive all’ottavo piano. Per gli sfollati una notte in albergo o a casa di amici e parenti. C’è chi scappando non è neppure riuscito a prendere il cellulare e grazie agli amici riesce a mettersi in contatto con la famiglia. Chi ha solo il gatto. Tra i primi a dare l’allarme anche il cantante Morgan che abita di fronte e pochi istanti dopo posta sui social le prime immagini. Migliaia di foto e video fanno il giro del web. Dirette che ricordano le terribili immagini della Grenfell Tower di Londra, 72 morti quattro anni fa. Solo il caso e la prontezza dei soccorsi hanno evitato un tragico bilancio. «Quando siamo arrivati c’era una piccola fiammella che si vedeva da una finestra, siamo riusciti a salire e a chiamare tutti», racconta uno dei primi soccorritori. Il grattacielo brucia per ore. Solo a notte fonda i vigili del fuoco riescono a spegnere le ultime fiamme. L’incendio, alimentato da alcuni spazi commerciali al pianterreno, ha attaccato anche i due seminterrati. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Pasquale Addesso hanno aperto un fascicolo per disastro colposo. Non ci sono solo da capire le cause, ma soprattutto perché il fuoco si sia propagato così rapidamente. L’innesco potrebbe essere un corto circuito in un appartamento, ma il materiale di rivestimento della torre ha trasformato il grattacielo in una torcia. Sotto la lente ora progetti, materiali e le tecniche per l’esecuzione dei lavori.
Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 31 agosto 2021. Sugli alberi del parco, sotto lo scheletro della torre bruciata, ci sono filamenti simili a ragnatele. È materiale plastico misto a lana di vetro «colato» dalla facciata. Resti dei pannelli di rivestimento «bruciati come cartone», per usare le parole del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano che coordina le indagini sull'incendio della Torre dei Moro di via Antonini. È lì che si nasconde la causa di un rogo tanto «rapido e imponente» da avvolgere la facciata in meno di 15 minuti trasformando un «normale» incendio in appartamento (al 15esimo piano) in una tragedia evitata solo dalla prontezza degli inquilini e dei soccorsi. Un altro filone delle indagini riguarda invece l'impianto antincendio. Alcuni abitanti hanno messo a verbale che le «bocchette» tra il quinto e il decimo piano non erogavano acqua. Gli stessi vigili del fuoco non hanno potuto usare l'impianto interno in parte fuori uso. Nel racconto dei primi pompieri intervenuti per primi le scale d'emergenza erano «piene di fumo» così come «alcuni piani», anche se l'impianto di areazione e le porte tagliafuoco avrebbero dovuto evitarlo. La prima certezza dell'inchiesta è empirica, ma «sotto gli occhi di tutti»: i video dell'incendio mostrano il propagarsi delle fiamme in modo innaturale, dall'alto verso il basso, sulle due facciate esterne con una rapidità che lascia pensare a un «combustibile», quasi un «accelerante». Non ci sono dubbi sulla matrice accidentale delle fiamme, ma proprio il rivestimento interno dei pannelli di Alucobond (un sandwich di sottili lamine di alluminio e materiale isolante leggero) avrebbe agito come «benzina». Lo spazio vuoto tra le lastre ha poi dato ossigeno in una sorta di «effetto camino». Le indagini si concentrano sulla proprietà e sull'impresa «Moro costruzioni», chiusa alcuni anni fa e trasformata in «real estate», e la Saint Gobain di Pisa che ha realizzato il rivestimento. Gli esperti del Nucleo investigativo antincendi dei vigili del fuoco hanno sequestrato i resti della copertura e alcune sezioni rimaste integre. Le perizie in laboratorio - che non si annunciano brevi così come l'inchiesta - daranno un nome al materiale usato per «riempire» i pannelli delle facciate. Da capire se i pannelli siano stati montati secondo le specifiche e se siano stati usati isolanti e schiume non previste. Stesso discorso per la vernice con cui è stata rivestita la facciata. L'Alucobond è un materiale molto utilizzato nelle nuove costruzioni, oggi è certificato come «ignifugo» o «difficilmente infiammabile». Il rivestimento sulla torre di via Antonini è stato posizionato nel 2011. Le normative non imponevano l'uso di materiale antincendio all'esterno dei palazzi. «Per la verità anche oggi la materia resta controversa», spiegano gli inquirenti. Tuttavia «un conto è usare pannelli non ignifughi, un altro prodotti che hanno favorito le fiamme e le hanno alimentate. I rivestimenti non devono bruciare così», spiegano i magistrati. I danni nel grattacielo sono ingentissimi. Alcuni alloggi del lato est si sono in parte salvati. In altri sono crollate anche le solette di cemento. I vigili del fuoco hanno acquisito un video amatoriale dove vengono riprese le prime fasi dell'incendio nell'appartamento al 15esimo piano. Il rogo potrebbe essersi innescato sul balcone o vicino alla porta finestra per un cortocircuito: il motore del condizionatore, una batteria lasciata in carica e surriscaldata, una lampada. La casa era deserta. Il proprietario era in vacanza in Sicilia da due settimane. L'ultimo ad entrare in casa è stato il portiere 5 giorni fa per annaffiare le piante. Oggi sono attesi i dati sui consumi dell'elettricità nell'appartamento per capire quali apparecchi erano rimasti accesi.
Alberto Mattioli per “La Stampa” il 31 agosto 2021. La scena è surreale. Dentro lo scheletro annerito del grattacielo di via Antonini ci sono i vigili del fuoco che ispezionano appartamento per appartamento e mettono in sicurezza quel che ne resta. Fuori, nello spiazzo di un distributore, prorietari e inquilini guardano le loro vite andate in fumo. Alcuni sono tornati in tutta fretta dal mare, non si sa se più abbronzati o increduli. Chi era lì, mentre le fiamme hanno iniziato ad avvolgere tutto con una rapidità inquietante, oscilla fra la disperazione per non avere più nulla e il sollievo per essersi salvato. Tutto è perduto, fuorché la vita. «No, il soffitto non è così nero», dice un signore al telefono scrutando le finestre di quella che era la sua casa. C'è chi piange, chi già scrive mail ad avvocati e assicuratori e chi manda a quel paese i giornalisti che chiedono come ci si sente quando ti brucia la casa: «Lei che ne pensa?». Sono vivi grazie a una chat su WhatsApp. In una città dove per lo più del vicino di pianerottolo si ignora perfino il nome, la Torre dei Moro era un condominio atipico e coeso, con una vita comunitaria. La chat per condividerla è servita a dare l'allarme a tutti. Altra strana caratteristica: gli anziani sono pochissimi, forse perché lo stabile aveva appena dieci anni. Per lo più, gli adulti sono professionisti in carriera (alcuni molto in carriera, come Mahmood); i ragazzi, studenti alla Bocconi che è a un chilometro e mezzo. Socialmente, un misto: dagli studenti in affitto agli attici da un milione e passa di euro. C'è stato chi ha avuto la prontezza di dare l'allarme. Come un ragazzo del sedicesimo piano, sopra quello dov' è scoppiato l'incendio: «Ero appena tornata a casa dalle vacanze - ha raccontato -. Già sul pianerottolo c'era un forte odore di fumo. Sono entrato, ho posato le sacche, mi sono affacciato alla finesta, ho visto il fumo salire dal piano di sotto. E ho dato bussato alle porte». Mirko Berti occupava uno dei due appartamenti al sedicesimo piano: «Ero appena uscito. Mi ha chiamato il vicino: guarda che c'è un incendio nel nostro palazzo. La prima ad accorgersene è stata sua figlia sedicenne. Poi è arrivato il messaggio in chat. Adesso sono calmo, sta finendo l'effetto dell'adrenalina. Alle cinque del mattino, in albergo, piangevo come un bambino. Ero stato fra i primi a comprare qui, ci chiamavano "i nativi". Faccio il consulente, non ho più il computer, l'archivio, nulla. Tutto quel che mi è rimasto sono i vestiti che ho indosso. Ma il dolore maggiore è per i miei libri, avevo una stanza solo per quelli di viaggio. Spero che ci diano una mano. Domenica è venuto il sindaco Sala per un quarto d'ora, oggi mi sarei aspettato di vedere qualche rappresentante delle istituzioni, invece niente». Vera Gandini è una giornalista Mediaset. È forse quella che ha rischiato di più: abita in una delle villette nella corte, dove a un certo punto ha cominciato a piovere fuoco dall'alto. «Stavo preparando un pezzo sull'incontro fra Letta e Sala alla Festa dell'Unità e non mi sono accorta di nulla. All'improvviso è arrivato mio marito urlando: corri, corri!». E tu che hai fatto? «Mi sono messa le scarpe e ho sollevato di peso Pierguido, il mio cane di diciannove anni. Sono uscita fra le fiamme, appena prima che esplodesse la conduttura del gas. Sala me lo sono trovato davanti poco dopo». Ieri le hanno dato il permesso di rientrare un momento a casa: «È meno distrutta di quanto pensassi. La parte davanti è tutta bruciata, quella dietro no. Ho potuto prendere qualche oggetto, per ora vivrò dai miei ad Alessandria, poi si vedrà». A Laura è andata peggio. Ingegnere chimico, 40 anni, viveva al quindicesimo piano dal 2011, «un bell'appartamento con il terrazzo. Ero a casa dei miei a Vicenza quando nella chat è apparso il video dell'incendio. Ho visto la finestra della mia camera bruciare. È come un lutto. Ho passato la notte a fare l'inventario di tutto quel che ho perso». Cominciano le iniziative di solidarietà. Don Lucio della parrocchia di Maria Liberatrice si sta organizzando per l'assistenza, non solo spirituale. Su Facebook c'è già una pagina «Le scatole del grattacielo» per raccogliere quel che può essere utile a chi non ha più nulla. E ci sarà un conto corrente per le donazioni. In serata, arriva anche il miracolo. Da ore, Chiara era abbracciata al fidanzato, in ansia per Artù e Chiara, i gatti rimasti al settimo piano: «I miei genitori non avevano capito che fosse così grave, sono scesi senza prenderli. Mio fratello avrebbe voluto tornare indietro, ma era troppo tardi. I vigili del fuoco mi dicono che c'è una probabilità su cento che siano vivi, nel rogo le temperature sono arrivate a 800 gradi». E invece alle 18.10 sbucano due pompieri con un sorriso largo così sulla faccia annerita. Uno porta Kira, l'altro Artù: frastornati ma vivi. Lacrime, applausi, baci e una corsa dal veterinario. La vita, nonostante tutto.
Da corriere.it il 30 agosto 2021. C’è anche Mahmood tra gli abitanti del grattacielo distrutto dalle fiamme nella periferia sud di Milano. Il suo è uno degli appartamenti del palazzo di via Antonini: si trova al nono piano, quindi a un livello inferiore rispetto a quello dal quale si sarebbe sviluppato l’incendio alle 17.36 di domenica 29 agosto. Da quello che hanno spiegato i soccorritori, il cantautore - vincitore del Festival di Sanremo nel 2019 con il brano Soldi - sarebbe stato tra i primi ad abbandonare l’edificio una volta scoppiato l’incendio. Il cantante si è quindi messo in salvo. Pochi minuti prima del maxi rogo, Mahmood - come si vede in alcune storie pubblicate su Instagram - si trovava con due amici e colleghi: Arashi, nome d’arte per Riccardo Schiara, e Camilla Magli. I tre si trovano all’interno dell’appartamento prima dell’incendio. Nei pressi del palazzo vive anche un altro cantautore, Morgan, che in una diretta su Instagram ha raccontato l’incendio del grattacielo: «Ci abita anche Mahmood, in quel palazzo lì», aveva detto nel corso della diretta lo stesso ex leader dei Bluvertigo.
Mahmood ha perso tutto, drammatica ricostruzione: "Con chi era mentre la sua casa andava a fuoco". Libero Quotidiano il 31 agosto 2021. C’era anche Mamhood tra le tante persone che hanno visto andare a fuoco le proprie abitazioni all’interno della Torre dei Moro. Il cantante aveva deciso di andare a vivere da solo e aveva da poco fiatato un appartamento al nono piano. Al momento dell’incendio partito dal quindicesimo piano si trovava in casa assieme a due amici e colleghi: si tratta di Riccardo Schiara, in arte Arashi, e di Camilla Magli. Ovviamente i tre si sono precipitati fuori dall’appartamento e poi hanno assistito al drammatico spettacolo mentre le fiamme avvolgevano la Torre dei Moro. Almeno Mahmood ha la fortuna di non avere particolari problemi economici, dato che dopo il trionfo al Festival di Sanremo risalente a due anni fa, la sua carriera artistica è stata un continuo crescendo e costellata di grandi successi. Quale mese fa, parlando della sua ultima fatica discografica Ghettolimpo, Mahmood aveva dichiarato di non avere “vizi particolari, tranne il cibo: mangio tanto” e aveva svelato di voler spendere i soldi guadagnati in una casa. Nel frattempo quella in via Antonini era una buona soluzione nella zona Sud di Milano, a circa quattro chilometri dall’area di Gratosoglio in cui è cresciuto: “Le mie abitudini sono rimaste quelle di prima. L’unica cosa che le canzoni hanno cambiato è la coscienza, perché ora so di avere un lavoro e non scrivo più i miei pezzi sul tram, ma in aereo”.
Stefano Landi per il “Corriere della Sera” il 31 agosto 2021. Non parla più al presente. Ormai qui non lo fa più nessuno. Quella casa è un ricordo. «Un attimo e ti spazza via quel luogo dove pensavo di poter stare al sicuro», racconta Sam Nabi, 32 anni, origini persiane, ai piedi di quella casa all'ottavo piano che per 24 ore non ha smesso di bruciare. Il giorno dopo ci sono meno lacrime e più rabbia. Sconforto. Perché questo non è un film. E anche i piccoli eroi come lui devono fare i conti con la vita vera. Con la seconda notte in un albergo anonimo, senza nemmeno mezza valigia ai piedi del letto. Eppure domenica è anche grazie a lui se al maxi incendio in via Antonini resta comunque un lieto fine. Nessun ferito, per quella che poteva essere una tragedia se lui, insieme ad altri condomini, non fossero corsi a battere sulle porte dei vicini invece di scappare fuori in preda al panico. «Mi sento peggio di ieri perché sto realizzando che il luogo dove vivevo, tra i miei oggetti e quello che eravamo riusciti a costruire, è andato in fuoco cancellando gran parte della mia vita». Come una candela. Impotente a guardare il disastro da sotto, mentre alcuni curiosi passano a scattare foto in una surreale pausa pranzo davanti allo scheletro del grattacielo. La memoria è un flipper con quei sette minuti in cui le fiamme montano e si mangiano ogni parete. Le grida in disordine. «Abbiamo sentito la puzza di bruciato, visto il fumo. La mia compagna Valentina è stata più lucida. Ha preso il telefono, il nostro cagnolino Bruce. Il tempo di suonare campanelli e battere a più porte possibili». Poi giù di corsa lungo le scale interne: l'affanno, le gambe che si fanno di legno all'ultimo pianerottolo. «Una volta fuori, abbiamo comunque sperato di poter rientrare. Che la nostra fuga da casa fosse un arrivederci e non un addio», continua Sam, che nella vita fa il consulente tecnico del tribunale di Milano. Una sorta di ausiliare del giudice, sfruttando le sue conoscenze con il mondo mediorientale. Per il condominio, nel 2017, era stato anche consigliere e conosceva da vicino la storia di quel palazzo, da cui ieri è uscita anche la voce dell'inquilino vip, il rapper Mahmood, che ha ringraziato i vigili del fuoco: «Sto bene, per fortuna non ci sono state vittime. Grazie ai pompieri per l'incredibile lavoro svolto e a voi tutti per i messaggi». Ieri la seconda notte praticamente insonne in un hotel in via Lampedusa. «Ieri ci siamo staccati da qui solo per fare un salto a un supermercato per comprare un cambio e un deodorante. In questo momento non penso nemmeno ai vestiti. Una sorta di scaramanzia che ci siamo imposti con Valentina: spero di entrare e trovare almeno quelle tre quattro cose salve». Un pezzo di vita è riuscito a recuperarlo nel pomeriggio di ieri, quando i vigili del fuoco hanno permesso di scendere ai piani sotterranei. «Abbiamo recuperato gli oggetti intatti». Stamattina invece il primo incontro con gli altri condomini, dopo quello virtuale nella chat che ha salvato la vita a molti facendo correre l'allarme. «Ora la cosa più importante è restare uniti. Affrontare insieme questa emergenza, perché fra qualche giorno gli altri si dimenticheranno di noi. Per un po' è facile essere solidali. Noi ora siamo come bambini, qualcuno ci deve aiutare a gestire la vita».
L’ALLARME VIA CHAT E PORTA A PORTA, ECCO COME NON CI SONO STATE VITTIME NELL’INCENDIO DI MILANO. Il Corriere del Giorno il 31 Agosto 2021. I Vigili del fuoco di Milano sono intervenuti con 17 squadre che hanno dovuto combattere ancora dei focolai e sono riusciti a ispezionare fino all’ottavo piano e stanno verificando la resistenza della struttura. Il rogo di via Antonini, ieri a Milano, con un grattacielo andato completamente in fumo, non si è trasformato in tragedia. “Ero appena tornato a casa dalle vacanze, ho sentito un forte odore di fumo già sul pianerottolo, mi sono affacciato dalla finestra e ho visto le volute di fumo provenire dall’appartamento di sotto al quindicesimo piano”: così un inquilino del piano alto ha raccontato, in sostanza, agli investigatori, nell’inchiesta della Procura di Milano, il momento in cui ha lanciato l’allarme per il rogo. Una ragazza che ha subito capito la gravità della situazione, un padre che è corso a bussare alle porte e una chat di condominio che si è dimostrata molto più che utile: così il rogo di via Antonini, ieri a Milano, con un grattacielo andato completamente in fumo, non si è trasformato in tragedia. A raccontarlo sono gli abitanti del sedicesimo piano, che hanno visto fumo e fiamme salire dal livello sottostante e hanno dato l’allarme con tutti i mezzi possibili. “E’ stata la figlia a dare l’allarme – racconta un altro condomino che abita sullo stesso pianerottolo – io ero da poco uscito di casa e mi ha chiamato il mio vicino, il padre della ragazza, che è minorenne, per avvertirmi di ciò che stava avvenendo, poi ho saputo che è stata lei la prima a vedere il fumo e le fiamme che salivano dal piano sottostante, anche perché abitavano proprio dove presumibilmente c’è stato l’innesco”. Dalla prontezza della ragazza è subito partita la comunicazione via chat dell’incendio, mentre poi il padre ha anche chiamato i vigili del fuoco e bussato a varie porte per essere sicuro di non lasciare indietro nessuno. “Il mio vicino e la figlia ovviamente non potevano raggiungere tutti, così hanno scritto sulla chat per allertarci e dirci di uscire di casa, postando anche un filmato di ciò che stava succedendo”. “La tecnologia è servita per coordinarci e veicolare il messaggio, se siamo qui è grazie alla prontezza di tutti e al fatto che ci diamo una mano, siamo – sottolinea il condomine – un gruppo coeso, unito dall’amore per il posto in cui vivevamo. La chat era nata proprio per questo, per fare il meglio possibile per il nostro condominio, dalle segnalazioni su eventuali problemi causati dalle attività commerciali vicine alla richiesta di un idraulico. Questa volta la chat ci ha salvato la vita. Poi, per fortuna, non è successo di notte, altrimenti chissà…”. I condomini, che hanno passato la notte in varie strutture, per domani hanno richiesto all’amministratore la convocazione di un’assemblea straordinaria “per formulare un piano di azione – continua il condomine – che vada al di là della fase emergenziale. Siamo 70 famiglie e abbiamo perso tutto: in questo momento ho solo ciò che indosso, nemmeno il computer per lavorare. Ci aspettiamo che le istituzioni vengano qui a parlare con noi, in modo da spiegare loro – conclude – quali sono le priorità per ripartire”. Gli inquirenti che indagano sul maxi rogo che ha distrutto la Torre dei Moro in via Antonini a Milano dovranno acquisire tutta la documentazione relativa alle modalità di costruzione del grattacielo e ai materiali utilizzati. È uno dei prossimi passaggi dell’inchiesta per disastro colposo coordinata dal pm di turno Pasquale Adesso e dal dipartimento guidato dall’aggiunto Tiziana Siciliano. Nelle indagini, infatti, si dovrà verificare se il materiale che è stato usato per realizzare i pannelli di rivestimento del palazzo, ossia una sorta di "cappotto termico", era indicato come ignifugo o meno. Il procuratore aggiunto Siciliano ha parlato dei pannelli di alluminio che rivestivano la facciata del palazzo distrutto dalle fiamme a Milano. “Abbiamo visto che hanno preso fuoco però bisogna esaminare il materiale e sono tutte cose che andranno fatte in laboratorio” ha detto il procuratore. “Poi bisognerà verificare la normativa dell’epoca perché questo palazzo ha dieci anni che sembrano molto pochi, ma in dieci anni tante normative sono cambiate ci sono anche nuove conoscenze sui materiali. – ha concluso – Per cui tante cose da valutare ci sono che richiederanno tempo e grande accuratezza. Ho potuto avvicinarmi ma all’interno al momento ci si può entrare con cure straordinarie perché il grande calore si è sviluppato ha distrutto le solette. La struttura insieme regge ma le solette sono pericolanti. È molto pericoloso”. In Procura a Milano si continua a ribadire che “poteva andare molto peggio” anche perché, malgrado il vasto incendio, non si sono registrate vittime o feriti. E uno degli elementi finora accertati è che le fiamme si sono propagate in breve tempo, una mezz’ora in tutto, in tutta la struttura di rivestimento e a causa di una ‘camera d’aria’, ossia il piccolo spazio tra i pannelli esterni e la struttura portante dell’edificio, che ha determinato un ‘effetto camino’ facendo correre il fuoco verso il basso e verso l’alto. Nel video girato da un residente della zona si vede che il rogo divampa al quindicesimo piano e che il fumo inizia a uscire dal balcone di un appartamento, ma le indagini dovranno accertare dove effettivamente si è originato e per quali cause. Per fortuna, è stato spiegato, non c’erano persone presenti negli appartamenti oltre il 15esimo piano. Per ora la priorità, viene specificato, resta la messa in sicurezza dell’edificio anche perché si temono soprattutto crolli interni e non è esclusa la necessità di tirare giù per sicurezza parti della struttura, soprattutto il “cappotto” esterno.
Incendio Milano, il giallo delle cause: i nodi dell’inchiesta su sistema antincendio e pannelli di rivestimento. Redazione su Il Riformista il 30 Agosto 2021. Soli trenta minuti per ‘divorare’ l’intera facciata dal grattacielo milanese di via Antonini. Tanto ha impiegato l’incendio divampato domenica pomeriggio nel capoluogo lombardo per rendere uno scheletro la facciata della Torre dei Moro, il palazzo completato nel 2011 che ieri ha preso fuoco per cause ancora da accertare. Su cosa abbia scatenato il maxi rogo la pm Tiziana Siciliano, il magistrato della procura di Milano titolare dell’inchiesta aperta con ipotesi di reato che vanno dal disastro all’incendio colposo, va molto cauta. “Dall’interno di un appartamento del 15esimo piano proveniva un fumo nero molto denso e questo è stato sufficiente” per dare l’allarme e far evacuare i condomini del palazzo, ha chiarito il magistrato oggi. È ancora troppo presto per capire se il rogo, divampato in un appartamento al 15esimo piano, sia partito da un corto circuito, anche se questa è una delle ipotesi al vaglio degli investigatori e degli inquirenti. “Qualunque ipotesi sarebbe dissennata in questo momento, è veramente troppo presto”, anche se quella del cortocircuito “è una delle ipotesi”, ha aggiunto Siciliano. Quanto ai sistemi antincendio, “al momento forse emergono delle criticità, ma devono essere ancora valutate”. In particolare, scrive l’Agi, le cassette antincendio (idranti a muro) della Torre hanno funzionato correttamente in tutto il palazzo tranne che tra il quinto e il decimo piano. Ha retto invece il sistema antincendio della tromba delle scale, che ha permesso agli inquilini di lasciare lo stabile in sicurezza senza che gli spazi si riempissero di fumo con il rischio di intossicazione. Altra concausa del rogo sarebbe il cosiddetto “effetto camino”, che spiegherebbe anche l’incredibile velocità con cui le fiamme hanno ‘divorato’ il rivestimento dell’edifico, rimasto uno scheletro in mezz’ora. Le fiamme sprigionatesi originariamente al 15essimo piano si sarebbero propagate ad alta velocità sfruttando l’aria che circola in un’intercapedine tra i pannelli che ricoprono la facciata del grattacielo di via Antonini e la struttura del palazzo. Quanto al materiale del rivestimento, verrò esaminato nei prossimi giorni: il settore investigativo dei vigili del fuoco ha infatti prelevato dei materiali da controllare. Smentendo invece alcune voci circolate sulla stampa questa mattina, per il momento “non ci sono grossi problemi di stabilità, almeno per potersi introdursi e poterlo ispezionare”, ha chiarito la pm Siciliano durante il sopralluogo al grattacielo. Fonti investigative citate dalle agenzie riferiscono inoltre che i pannelli di rivestimento si staccavano e cadevano dall’edificio, bruciando “come se fossero di cartone”. La facciata del palazzo, da quanto ha riferito l’amministratore dello stabile, era stata realizzata con lastre di alucobond, un materiale definito dall’azienda produttrice come “costituito da due lamiere esterne di alluminio e un nucleo di sostanze minerali difficilmente infiammabili o ignifughe”. Per gli inquirenti milanesi che indagano sull’incendio di via Antonini, “evidentemente” il materiale con cui sono state realizzate le facciate del palazzo non era ignifugo.
Paola Fucilieri per “il Giornale” il 7 settembre 2021. Tornare indietro di oltre duemila anni per spiegare un dramma di appena una settimana fa. Si perché nel remoto caso in cui l'attuale ipotesi investigativa della Procura di Milano si rivelasse esatta, le cause dell'incendio del grattacielo «Torre dei Moro» di via Antonini - bruciato domenica scorsa lasciando senza casa circa ottanta famiglie - sarebbero da ricondurre in soldoni al principio delle «lenti di fuoco» escogitato da uno degli scienziati più famosi della storia, Archimede, nel II secolo avanti cristo per incendiare le navi romane nemiche durante l'assedio di Siracusa. Il matematico avrebbe utilizzato una vasta schiera di scudi di bronzo o rame lucidati per creare una fornace solare, attraverso la riflessione parabolica della luce del sole. E a provocare le fiamme nel bilocale al quindicesimo piano da cui sono partite per scatenare poi il mega incendio potrebbero essere stati sempre i raggi solari, ma dopo aver surriscaldato una o più bottiglie di vetro lasciate sul balcone dal proprietario assente da giugno e trasformatesi a loro volta in un innesco, incendiando prima un rifiuto e poi il grattacielo. Tra le opportune cautele e un conclusivo e assai prudente «vedremo» - molto condiviso dai vigili del fuoco piuttosto restii a sposare una tesi con chi sta ancora lavorando per esclusione su una serie di ipotesi - lo ha dichiarato ieri la pm Marina Petruzzella che lavora con l'Aggiunto Tiziana Siciliano a capo del sesto dipartimento della Procura «Tutela della salute, dell'ambiente e del lavoro», titolare dell'inchiesta per disastro colposo. Ieri pomeriggio la squadra di polizia giudiziaria del dipartimento si è recata in via Antonini per un nuovo sopralluogo nel palazzo dopo che sui tavoli dei magistrati è arrivata la prima relazione conclusiva dei vigili del fuoco sui rivestimenti delle facciate del grattacielo, realizzati dalla Aza Corp di Fiorenzuola (Piacenza) e definiti «altamente infiammabili». Nei prossimi giorni i titolari verranno sentiti in Procura. Questa settimana è anche in programma un'audizione dei titolari della «Moro Costruzioni» (che nel frattempo è stata liquidata ed è confluita nella «Moro Real Estate»), la società che ha ultimato i lavori nel 2011. Sotto questo aspetto i punti da chiarire nell'inchiesta sono ancora diversi. Ad esempio come sia stata svolta la manutenzione dal 2011 ad oggi, l'esatto funzionamento del sistema antincendio e ovviamente la specifica composizione del rivestimento. Che dire? L'ipotesi di un cortocircuito ormai è già stata scartata ed è evidente che gli inquirenti non hanno più elementi a cui appigliarsi per sostenerla. Anche se la possibilità dell'«effetto lente» fa un po' pensare che l'inchiesta stia navigando a vista. Del resto anche il proprietario dell'appartamento dove il rogo ha preso il via è stato sentito e formalmente verbalizzato nei giorni scorsi dagli investigatori del Nucleo investigativo antincendi dei vigili del fuoco in videoconferenza da Siracusa. Insieme al figlio, l'uomo ha ribadito quanto aveva dichiarato sin dall'inizio di questa brutta storia. Ovvero di aver staccato l'interruttore delle luce prima di andarsene da casa e che il solo ad avere le chiavi per andare ad annaffiare periodicamente le piante era appunto l'uomo che da dieci anni è il portinaio del grattacielo, da tutti descritto come persona rispettabile e decisamente degna di fiducia. Nel frattempo in Procura si stanno presentando diversi avvocati, tra cui anche l'avvocato Solange Marchignoli che rappresenta il condominio; mentre gli inquilini hanno nominato come perito di parte per far luce sull'accaduto l'ingegner Massimo Bardazza che si è occupato di molti casi importanti: dal disastro di Linate (2001), alla strage di Viareggio (2009) fino aquella della palazzina esplosa in via Brioschi (2016) a Milano.
Monica Serra per “La Stampa” il 7 settembre 2021. Si chiama «Alucoil Pe» ed è un materiale di classe E: «normalmente infiammabile». Quasi il peggio che si potesse usare: l’ultima categoria è la classe F, «altamente infiammabile». Di questo era fatto il rivestimento del grattacielo di via Antonini 32, andato a fuoco domenica 29 agosto alla periferia sud di Milano. Non solo. La stessa azienda produttrice, di Burgos, in Spagna, in un documento pubblicato sul suo sito, e datato gennaio 2018, «sconsiglia» di usare l’Alucoil Pe per rivestire «grattacieli», proprio come la Torre dei Moro. «Il prodotto – spiega – è stato pensato solo per edifici bassi, tettoie e segnaletica aziendale». Chi doveva controllare che questi pannelli fossero idonei? C’è da dire che all’epoca (il palazzo ha l’abitabilità dal 2011) nessuna legge vietasse di usare un materiale infiammabile sulle facciate degli immobili (la normativa è successiva al 2017). E non è neanche detto che già allora il prodotto fosse classificato come infiammabile. Gli investigatori della polizia giudiziaria del dipartimento Ambiente, salute e lavoro della procura stanno provando a ricostruirlo, a partire dai fascicoli sequestrati nell’ufficio tecnico del Comune di Milano e alla Aza Aghito Zambonini Spa di Fiorenzuola, nel Piacentino. Dopo le perquisizioni di venerdì scorso, la società precisa che «non è stata lei a produrre i rivestimenti in questione come erroneamente riportato dai giornali, ma ha acquistato il pannello composito dalla società produttrice Alucoil di Burgos (Spagna)». Si legge ancora nella nota che «questi rivestimenti, per completezza di informazione, erano integralmente conformi alle specifiche tecniche del progetto e alle normative vigenti nel 2009 e sono stati scelti ed approvati dalla committenza dell’appalto». Tra l’altro, a favorire le fiamme, che nel giro di quindici minuti hanno avvolto l’intero palazzo di diciotto piani, potrebbero essere stati anche i rivestimenti dei balconi, di spugna, per attutire meglio i rumori esterni. Nel fascicolo aperto per disastro colposo contro ignoti dall’aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Marina Petruzzella, resta aperto il giallo dell’innesco dell’incendio. Tra le ipotesi prese in considerazione dal Nucleo investigativo antincendio dei vigili del fuoco c’è anche una banale cicca di sigaretta. Le fiamme possono essere state favorite dai sacchi della spazzatura che il proprietario dell’appartamento 15 c ha lasciato sul balcone. Ma non si capisce chi possa aver gettato l’eventuale sigaretta. E gli investigatori non escludono che, in assenza del proprietario, in vacanza da due mesi, che dice di aver lasciato le chiavi solo al custode, qualcun altro possa essere entrato nel bilocale.
Sandro De Riccardis, Luca De Vito per la Repubblica l'11 settembre 2021. Un mozzicone di sigaretta lanciato da uno dei piani superiori. Potrebbe essere la causa più classica e come in questo caso devastante, ad aver innescato l'incendio che ha trasformato in una gigantesca torcia di fuoco il grattacielo di via Antonini. Quella della cicca di sigaretta spenta male viene al momento considerata dagli investigatori l'ipotesi più probabile tra le diverse che vengono valutate come causa del rogo che ha incendiato le vele del palazzo in 15 minuti e cha ha distrutto completamente 14 appartamenti. Da tempo, in condominio, era in corso una "guerra delle sigarette", con diversi residenti in protesta per i mozziconi lasciati cadere dall'alto. L'ipotesi su cui si stanno concentrando gli investigatori - coordinati dalla pm Marina Petruzzella e dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano - è che a prendere fuoco per primi siano stati i sacchi di roba inutilizzata ammassata sul terrazzino dell'appartamento al 15esimo piano: nel sopralluogo della procura e dei vigili del fuoco è invece stato trovato sul balcone un enorme ammasso di rifiuti, oggetti e materiale plastico andato completamente distrutto nel rogo, proprio nel punto dove i video dei passanti hanno documentato aver avuto origine l'incendio. Il problema dei mozziconi lasciati cadere dai balconi ha tenuto banco per anni tra gli inquilini della torre. Gli investigatori hanno raccolto testimonianze e documenti sulle lamentele di diversi coinquilini, ma anche su piccoli incendi nel palazzo che fortunatamente sono stati domati in tempo. Uno, un paio di anni fa, cagionato proprio da una sigaretta caduta dai piani alti che ha dato fuoco al materiale sui balconi ai piani più bassi. Acquisita in procura anche una lettera all'amministratore di condominio di una residente al piano terra che si lamentava della continua presenza di cicche finite nel suo cortile. Al centro dei sospetti, quindi, ci sono i fumatori che vivono negli appartamenti sopra a quello da cui è partito l'incendio. «Una sera ne ho trovate undici - racconta una delle residenti che vivono nelle villette al piano terra - le ho raccolte tutte in un barattolo, ero pronta a portarle all'assemblea di condominio. Protesto da anni, oltre al principio d'incendio ci fu anche il caso di un dondolo bruciato da un mozzicone caduto dall'alto, in un'altra casa. Ho coinvolto l'amministratore che ha mandato la raccomandata. Ma non si è mai capito chi fosse a gettare le sigarette di sotto». L'altro fronte delle indagini, riguarda i pannelli e tutte le certificazioni che riguardano la pratica edilizia. Le vele sono state costruite con materiale Larson PE, dalla ditta spagnola Alucoil. E, a questo punto, all'attenzione degli investigatori c'è anche l'ente certificatore italiano che ha dato il via libera all'uso dei pannelli come rivestimenti a parete. Da una serie di documenti agli atti della procura, infatti, risulta che quel materiale fosse adatto solo per edifici di bassa statura e non per grattacieli e che fosse classificato a livello europeo come "normalmente combustibile": il Larson PE rientra nella cosiddetta euroclasse E, ovvero la penultima categoria secondo il metodo di classificazione di reazione al fuoco EN 13501-1 che va dai materiali più sicuri e completamente incombustibili, che sono quelli in classe A, fino a quelli peggiori che si trovano in classe F.
Da repubblica.it il 12 settembre 2021. Al centro delle attenzioni degli investigatori c'è la certificazione dei pannelli delle vele che circondavano la Torre dei Moro. Ovvero il sostanziale via libera, ricevuto nel 2009, al materiale prodotto dalla ditta spagnola Alucoil, il Larson PE, di cui erano costituite le vele del grattacielo di via Antonini che hanno preso fuoco nel giro di 15 minuti lo scorso 29 agosto. In particolare, c'è agli atti un certificato di prova (numero 258422/RF5356) con cui l'istituto Giordano - uno dei principali enti accreditati presso i ministeri per le certificazioni - attribuisce al Larson PE "impiegato come rivestimento parete" una classe di reazione al fuoco 1. Ovvero un basso livello di reazione (combustibili non infiammabili), stando a quella che è la classificazione UNI 9177, cioè quella italiana che pone i materiali in categorie che vanno da 0 a 5, con un crescendo di reattività al fuoco (nella 5 ci sono quelli più facilmente combustibili). Certificazione relativa a una "campionatura sottoposta a prova", firmata nell'agosto del 2009 dal direttore del Laboratorio di Reazione al fuoco dell'istituto, Gian Luigi Baffoni, e dal presidente Vincenzo Iommi. I test fanno riferimento al Larson PE come "materiale di completamento degli elementi di chiusura verticali" che viene "posto in opera appoggiato su supporto incombustibile". In allegato, i risultati della prova insieme alla documentazione del produttore. Molti i nodi che gli investigatori devono ancora sciogliere. Il primo riguarda proprio le incongruenze tra le classificazioni. La stessa ditta Alucoil aveva dichiarato, nel 2018, il Larson PE di categoria E secondo le classi europee, ovvero "normalmente combustibile". Tuttavia i due sistemi di classificazione, quello italiano e quello europeo, non sono paragonabili. Il secondo riguarda la facilità di diffusione anche alla struttura portante: ci sono altri elementi su cui si indaga per capire come sia stato possibile arrivare a un rogo così rapido e devastante. Partendo (come ipotizzano gli investigatori) da un mozzicone di sigaretta caduto accidentalmente su un balcone pieno di sacchi e immondizia.
Guido Bertolaso e il palazzo incendiato a Milano: "Quante sono le case italiane a rischio fiamme". Libero Quotidiano il 30 agosto 2021. Poteva essere una tragedia e fortunatamente è andata bene. Ma secondo Guido Bertolaso dobbiamo approfittarne per fare una riflessione sui materiali che vengono utilizzati nell'edilizia. Ospite di questa mattina 30 agosto a Morning News, su Canale 5, il consulente per la campagna vaccinale della Lombardia, ha commentato l'incendio avvenuto domenica 29 agosto a Milano in un palazzo di via Antonini e lanciato un allarme. "La memoria corre a quanto accaduto in un grattacielo di Londra nel 2017, anche in quel caso si trattava di una struttura moderna e purtroppo si registrarono diverse vittime. Per quanto accaduto ieri a Milano va sottolineato lo straordinario intervento dei nostri vigili del fuoco che si sono dimostrati i migliori del mondo per essere riusciti a evacuare tutti gli inquilini, dopodiché si tratterà di uno spegnimento articolato, vanno evitati i rischi di crolli, ma le vite sono state tutte salvate e questo è l'importante ed è la grande differenza rispetto all'Inghilterra", ha detto Bertolaso. Sui possibili problemi legati ai materiali, Bertolaso ha sottolineato: "Questi sono problemi che purtroppo ricorrono in continuazione, il problema sull'efficacia dei materiali di costruzione, che devono essere capaci di resistere alle fiamme, riguarda probabilmente il 60-65 per cento di tutti gli edifici italiani. Pensiamo ad esempio alle bonifiche dall'amianto ancora non completate in Italia. Questa esperienza, che non registra vittime, ci deve dare lo spunto per fare maggiori controlli e si faccia in modo che si costruisca con materiali veramente a norma, altrimenti si inseguono sempre i problemi invece di risolverli".
Cesare Giuzzi per corriere.it il 30 agosto 2021. Quali sono le cause dell’incendio che, domenica 29 agosto, ha distrutto il palazzo di 18 piani in via Antonini, a Milano? Per scoprirlo, gli esperti del Nucleo investigativo antincendi dei Vigili del fuoco hanno acquisito un video amatoriale nel quale si vede chiaramente l’origine del rogo. Dal balcone del 15esimo piano, si scorge prima del fumo nero, poi fiamme vive che iniziano a intaccare il rivestimento della facciata. Da queste immagini, il fuoco sembra originarsi da un angolo del balcone, vicino alla parete. Non ci sono ancora certezze ma potrebbe anche essersi trattato del malfunzionamento di un condizionatore o di qualche apparecchiatura che si trovava sul balcone. Gli investigatori stanno anche ascoltando il proprietario dell’appartamento per capire quali materiali si trovassero sul balcone.
Andrea Pasqualetto per corriere.it il 30 agosto 2021. Il professor Angelo Lucchini, docente di Architettura tecnica al Politecnico di Milano, è esperto di edifici alti e complessi e di questioni legate alla sicurezza e al fuoco.
Professore, com’è possibile che di questi tempi un edificio di recente costruzione vada a fuoco così?
«Premessa: io posso fare solo delle ipotesi sulla base di quel che vedo e di quel che leggo. Mi viene da dire una cosa: visto che il fuoco pare si sia propagato solo all’esterno, se qualcosa non ha funzionato riguarda esclusivamente l’involucro e in particolare il suo rivestimento. Significa cioè che il sistema di sicurezza interno ha funzionato».
All’esterno però il palazzo si è acceso come un fiammifero. Perché?
«Perché il rivestimento è stato realizzato con materiale combustibile, in grado di reagire rapidamente all’innesco che, per quanto è dato sapere, pare sia avvenuto a un piano alto».
Si può usare il materiale combustibile per il rivestimento?
«Per le facciate è inappropriato e non si concilia con i requisiti di sicurezza rispetto al fuoco previsti dal Ministero dell’Interno per gli edifici civili».
Esiste un obbligo?
«No, le linee guida preparate dai Vigili del fuoco per il Ministero, fatte peraltro molto bene, hanno valore di raccomandazione. È però auspicabile che, anche alla luce di questo caso milanese, si acceleri il passaggio a un livello obbligatorio».
Qui pare siano stati utilizzati dei pannelli di polistirene...
«Io non so che materiale sia stato utilizzato per il rivestimento. La cosa evidente è la sua notevole reattività al fuoco, dato che l’incendio si è esteso in brevissimo tempo ai livelli inferiori di entrambe le facciate principali».
Esiste un impianto di sicurezza che impedisca questo tipo di incendi?
«Diciamo che di norma non c’è la necessità di proteggere le facciate con questo genere di impianti in quanto i materiali stessi dovrebbero salvaguardarne la sicurezza».
Anche la Grenfell Tower di Londra si era incendiata velocemente...
«Effettivamente c’è una forte analogia fra i due eventi. Nel caso milanese fortunatamente non vi sono stati problemi di evacuazione grazie al probabile rispetto delle regole costruttive sulla compartimentazione che hanno evitato alle fiamme di aggredire i piani interni. A Londra invece no ed è stata una tragedia».
Cesare Giuzzi per il Corriere.it l'1 settembre 2021. Porte deformate dal calore, soffitti collassati, cenere e detriti. Il Corriere può mostrare le prime fotografie scattate durante il sopralluogo nella Torre dei Moro di via Antonini a Milano, devastata dall’incendio divampato domenica pomeriggio. I pompieri hanno ispezionato tutti e 18 i piani dello stabile e continua la messa in sicurezza. Nel frattempo i tecnici del Nucleo investigativo antincendi in capo alla Direzione regionale della Lombardia, insieme all’Ufficio di polizia giudiziaria del Comando di Milano, stanno effettuando il primo sopralluogo alla ricerca delle cause del rogo. Nelle prossime ore arriverà sul tavolo del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano la relazione preliminare sull’incendio. Non tutti gli appartamenti sono stati distrutti dal fuoco: anzi, una buona parte, sul lato est, potrebbe risultare agibile. Sono invece ancora pericolanti i piani 14, 15 e 16, dove alcune solette dei soffitti sono collassate. Le indagini sulla causa del rogo si concentrano su un bilocale al 15esimo piano, il cui proprietario si trovava in vacanza in Sicilia da giugno. L’ultimo ad entrare nell’appartamento, 5 giorni prima delle fiamme, è stato il custode, che periodicamente innaffiava le piante e ha riferito agli inquirenti che la luce nell’appartamento era staccata. Tuttavia, l’inchiesta continua a considerare l’ipotesi di un corto circuito, legato a qualche apparecchiatura rimasta attiva. Sono in corso le analisi dei consumi di elettricità con i tecnici di A2A. Inoltre, dalle testimonianze raccolte finora è emerso che i condomini del grattacielo non hanno sentito suonare alcun allarme antincendio quando si sono accorti dall’odore e dal fumo che le fiamme stavano divampando nel palazzo. Dunque l’allarme sonoro non avrebbe funzionato.
DA ansa.it il 2 settembre 2021. Prima il grattacielo avvolto dal fumo e, nel giro di pochi minuti, probabilmente solo tre, la Torre dei Moro di via Antonini che si trasforma in una torcia di fiamme con pezzi incandescenti della struttura che volano verso il basso. Lo mostrano alcuni nuovi video, realizzati da residenti della zona, agli atti dell'inchiesta della Procura milanese, coordinata dall'aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Marina Petruzzella. Con gli accertamenti condotti dai vigili del fuoco sarebbe stata anche individuata la ditta che avrebbe realizzato i pannelli di rivestimento esterno dell'edificio, la Aza Aghito Zambonini di Fiorenzuola (Piacenza). Dal momento in cui si è sviluppato il rogo, probabilmente in un appartamento al 15esimo piano, a quando il palazzo è stato completamente avvolto dalle fiamme, come era già emerso, sarebbe passato circa un quarto d'ora. Nei nuovi video raccolti dagli inquirenti si vede la Torre avvolta dal fumo e poi, nel giro di pochissimi minuti, il grattacielo che va a fuoco come una torcia con pezzi di struttura avvolti dalle fiamme che cadono verso terra. Dalle prime analisi è stato accertato che a propagare con grandissima rapidità il rogo è stato un "effetto camino" dovuto allo spazio di aria che stava tra il 'cappotto termico' di rivestimento esterno e la struttura principale dell'edificio. Allo stesso tempo, i pannelli del rivestimento sono andati a fuoco velocemente bruciando "come cartone", a detta degli stessi inquirenti. Sarebbe stata individuata, poi, proprio la ditta che avrebbe realizzato i pannelli di questa struttura esterna a vela, ossia la Aza Aghito Zambonini. I vigili del fuoco stanno verificando quale materiale sia stato usato per i pannelli e va accertato se il materiale indicato nei documenti di costruzione sia lo stesso effettivamente usato. Tutte le analisi in corso, anche sul funzionamento dei sistemi antincendio (pare che non si sia attivato l'allarme e che le bocchette dell'impianto idrico non funzionassero in molti piani), saranno effettuate tenendo conto delle normative, come il testo unico del 2011 sulla prevenzione degli incendi. Sul tavolo dei pm è attesa la prima informativa dei vigili del fuoco, che lavorano pure per capire per quale motivo e dove esattamente si è originato l'incendio.
Federica Zaniboni per “Libero Quotidiano” il 3 settembre 2021. In sette minuti l'incendio è diventato incontrollabile. E decine di famiglie hanno guardato la propria casa bruciare. Se nei giorni scorsi sembrava inspiegabile che un intero palazzo, alto 60 metri, potesse venire divorato dalle fiamme in meno di un quarto d'ora, adesso una risposta c'è. Il rivestimento esterno della torre milanese, che si è letteralmente sciolto sotto agli occhi dei residenti, non era affatto composto da Alucobond - quasi del tutto ignifugo - come si era creduto inizialmente, bensì di un materiale plastico, sintetico e altamente infiammabile. Il nome dell'azienda tedesca produttrice di pannelli che molto difficilmente potrebbero bruciare in quel modo, era venuto fuori già domenica scorsa, quando il rogo si è acceso nella periferia Sud di Milano. La maggior parte degli inquilini, increduli e sotto choc - aveva dichiarato di esser sempre stata convinta che il rivestimento della facciata dell'edificio fosse fatto di materiale non combustibile, e lunedì mattina l'amministratore di condominio aveva parlato esattamente di Alucobond. Ma se fin da subito è parso chiaro che non poteva trattarsi di quello, adesso ne è arrivata la conferma. Secondo gli accertamenti dei vigili del fuoco, l'esterno del palazzo - il cui progetto ha preso il via nel 2006 - sarebbe stato ricoperto di Eps, un materiale molto usato tra la fine degli anni Ottanta e i primi Duemila, quando ancora le normative lo consentivano. E ciò che può risultare preoccupante è che sono ancora tantissimi - forse migliaia - i palazzi costruiti allora che presentano le facciate esterne rivestite di quel composto plastico. E dunque in qualche modo a rischio. Un'altra delle domande a cui stanno cercando di rispondere gli inquirenti è quella relativa alla dichiarazione o meno, nella pratica edilizia presentata in Comune più di dieci anni fa, del materiale realmente utilizzato per il cappotto esterno della torre. Un aspetto, quest'ultimo, che potrà essere chiarito soltanto con l'acquisizione delle schede tecniche e di tutta la documentazione sulla costruzione dell'edificio di via Antonini. Per il momento, le indagini dei vigili del fuoco - che da cinque giorni stanno lavorando ininterrottamente - sono arrivate soltanto alla definizione del materiale di cui erano realmente composti quei pannelli che in pochi minuti si sono sciolti come burro. Ai piedi della torre, infatti, è possibile vedere una serie di pozze provocate proprio dalla fusione del rivestimento, oltre a filamenti simili a ragnatele che ricordano inevitabilmente la plastica bruciata. Come è stato confermato già nei giorni scorsi, l'incendio è partito da un appartamento al 15esimo piano, ma la storia che vi sta dietro è ancora avvolta nel mistero. Se in un primo momento una delle ipotesi più probabili era quella del cortocircuito, questa sarebbe stata smentita dalla testimonianza del custode del palazzo, che ha riferito di esserci entrato pochi giorni prima per innaffiare le piante, scoprendo che la corrente era staccata. Sì, perché l'inquilino di quell'appartamento era in vacanza, quando è scoppiato il rogo, e ciò che appare ancora più strano è che di lui non si hanno avuto ancora notizie. La sua casa è andata a fuoco cinque giorni fa, ma da quel viaggio non sembrerebbe essere più tornato, rendendosi irreperibile anche per gli inquirenti. Così, mentre la procura e i vigili del fuoco procedono nella ricostruzione della storia della Torre dei Moro e contemporaneamente in quella dell'incendio, gli ormai ex residenti di via Antonini sono ancora senza casa. Alcuni di loro, in questi giorni, stanno entrando nelle proprie abitazioni, insieme ai vigili del fuoco, per capire quanto è rimasto di ciò che possedevano. Il Comune di Milano, intanto, ha messo a disposizione alcuni alberghi, e questa mattina - dopo giorni in cui gli inquilini hanno lamentato di sentirsi abbandonati dall'amministrazione.
Mario Consani per “il Giorno” il 3 settembre 2021. Non che ci fossero dubbi, visto il palazzo ridotto a torcia incandescente. Ma ora c'è anche la conferma dei tecnici sul fatto che i pannelli del rivestimento esterno della Torre dei Moro di via Antonini, il grattacielo di 16 piani che domenica scorsa si è incendiato in pochi minuti, sono di materiale plastico sintetico altamente infiammabile e che a temperature elevate si scioglie. Un particolare apparso evidente fin dal primo momento, e che ora viene confermato dalle analisi di laboratorio (condotte dal Nucleo investigativo antincendio) disposte dalla Procura che ha aperto un fascicolo per disastro colposo al momento nei confronti di ignoti. Quando però sul tavolo dei magistrati arriverà la prima relazione completa dei vigili del fuoco (attesa a breve), è probabile che i primi nomi finiranno sul registro degli indagati, anche in vista di consulenze tecniche delle varie parti interessate, che si preannunciano inevitabili. Secondo gli accertamenti finora effettuati, il materiale dei pannelli, di cui non è stata ancora definita l'esatta qualificazione in quanto mancano alcuni documenti tecnici, avrebbe agito da "conduttore" rendendo in tre minuti il rogo incontrollabile. E che si sia anche sciolto lo dimostrano le "pozze" che si sono formate ai piedi dell'edificio nel momento in cui è andato a fuoco, fortunatamente senza causare vittime. L'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliana e dal pm Marina Petruzzella sta ricostruendo la dinamica dell'incendio con particolare riguardo all'aspetto della sicurezza e tra i vari capitoli punta non solo a stabilire l'esatta composizione dei pannelli, ma anche se questi corrispondano a quanto dichiarato nella pratica edilizia presentata in Comune. Per il momento, invece, nessun passo avanti sull'accertamento della causa effettiva dell'incendio, che però (questo in Procura viene dato quasi per certo) si sarebbe sviluppato in un appartamento al 15esimo piano, il cui proprietario - in vacanza in Sicilia - non è ancora stato rintracciato. Oltre a far luce sulle evidenti falle del sistema antincendio - che pure era stato collaudato e certificato nel 2010 - l'inchiesta mira ad accertare se i pannelli fossero a norma dato che non solo si sono sciolti ma alcuni pezzi sono diventati tizzoni e sono volati disseminando focolai in diversi piani del grattacielo. Mentre inquirenti e investigatori sono al lavoro anche sulle carte raccolte - come la pratica edilizia depositata in Comune e il fascicolo antincendio dell'edificio - ieri sono proseguite le operazioni di recupero degli oggetti personali degli inquilini che in pochi minuti hanno perso la loro casa. E nel frattempo, anche per poter essere informato sui vari passaggi di un'indagine che si annuncia lunga e complessa, il condominio di via Anonini 32, attraverso l'amministratore che ne è rappresentante legale, ha incaricato due avvocati (che sono pure residenti nel palazzo) di seguire formalmente tutta la vicenda. Lo stesso ha fatto singolarmente, affidando il compito ad un terzo legale, un altro residente, un manager olandese proprietario di un appartamento al 16esimo piano. Intanto c'è un primo bilancio dei danni alle abitazioni, stando ai sopralluoghi dei vigili del fuoco. Su una sessantina di appartamenti, 14 sarebbero quelli andati completamente distrutti, 20 hanno subito danni notevoli, 24 sarebbero in buone condizioni. II problema che riguarda però anche i locali meno danneggiati, è quello dell'agibilità dell'intero edificio. Ci vorranno tempo e valutazioni approfondite per capire se la struttura del palazzo potrà essere salvata e se economicamente ne varrà la pena. E ad ogni buon conto, qualunque potrà essere la decisione finale, va da sé che i tempi si annunciano tutt' altro che brevi.
Incendio Milano, le prime foto dentro il palazzo di via Antonini sventrato dalle fiamme: gli abitanti recuperano le loro cose. Massimo Pisa su La Repubblica il 31 agosto 2021. I vigili del fuoco sono entrati nel grattacielo che domenica pomeriggio ha preso fuoco per cause ancora da accertare per salvare il salvabile. Morgan: "Ho recuperato la mia chitarra". I più fortunati sono anche i più bagnati. Sono i condomini degli appartamenti dei primi due piani di via Antonini 32, quelli staccati dalla Torre Moro, quelli con i terrazzini trasformati in enormi posacenere di lamiere infuocate, le prime a staccarsi dalla copertura in alucobond. Sono gli unici autorizzati a rientrare fisicamente nelle loro case e il via arriva quando i primi goccioloni del temporale di fine agosto bagna le loro teste coperte dai caschetti gialli dei vigili del fuoco. Hanno in mano sporte dell'Esselunga e del Penny Market, quelle più capienti dell'Ikea, borsoni recuperati da qualche parente o trolley appena acquistati nel negozio qui accanto. Devono fare in fretta, i pompieri che all'ultimo momento hanno raccolto le loro iscrizioni nel listone sono stati categorici: solo l'essenziale, qualche indumento, le chiavi, i computer, il contenuto delle casseforti. Andrea esce coperto di sudore, con la fidanzata a il fratello ha riempito tutto quello che poteva. "È l'essenziale per poter lavorare - sospira mentre indica i borsoni pieni di cd, portatili, faldoni e documenti - l'interno della casa era annerito ma tutto sommato gli oggetti si sono salvati". Davide, chioma e barba rossicci dietro gli occhiali da sole, traina le sue valigette a rotelle e i suoi sacchettoni. È riuscito a infilare perfino le giacche con le grucce, le scarpe e le ciabatte, il necessaire e qualche maglione per l'autunno che verrà. Chissà, infatti, quando potrà rientrare. Adesso o mai più. Lo pensano lui e gli altri condomini che per l'intera giornata si sobbarcano code assolate davanti al gazebo della protezione civile. Tocca anche a Morgan, abitante delle "Perle", i loft che guardano lo scheletro d'acciaio della facciata più rovinata. "Ho preso il monopattino e la mia chitarra - spiega all'uscita - con questa potrò ricominciare a suonare". Le liste per gli inquilini della torre sono fatte con altri criteri: ci si segna, si indica il piano, si disegna una mappa approssimativa della casa, si dà indicazione di massima ai pompieri - gli unici autorizzati a salire per le scale del palazzo - di dove potranno trovare gli oggetti di prima necessità. Poi, quando arriva il turno, li si guida su col cellulare, in videochiamata o in voce, oppure con i walkie-talkie. Michele, che nel rogo ha perso il cane Ernesto, un "lagotto" di un anno appena, ha ancora gli occhi umidi quando riesce a portar via due borse di roba. Davide si allontana dal parcheggio raggiante, scavalca il nastro bianco e rosso con due borsoni e la custodia della chitarra: "I vigili del fuoco sono stati fantastici - esulta - hanno recuperato anche più roba di quanto avevo chiesto, messo dentro tutto quello che potevano. È un bel sollievo, dopo due giorni, mi ridà un po' di ottimismo dopo quello che abbiamo sofferto". Lo aspetta una stanza da un'amica, e qualche oggetto amico a riempire le prossime giornate. È la stessa sorte che tocca a tanti condomini, esclusi quelli dei piani dal 14esimo al 16esimo, gli unici rimasti inagibili: troppo devastati, troppo pericolanti ancora. Gli altri portano via le chiavi, il mac ricoperto di fuliggine, qualche collana. I quadri, no. I mobili, non se ne parla. Anche tanti armadi restano chiusi fino a data da destinarsi. Nella Babele che si forma sotto la torre da fine mattinata, dopo un'assemblea straordinaria di condominio altrettanto caotica, è complicatissimo orientarsi. Il futuro prossimo è incerto e costoso, visto che il conto della permanenza nella trentina di stanze prenotate al Quark o agli Ata Hotel di Opera è in capo al fondo condominiale gestito dall'amministratore Augusto Bononi. Se ne discuterà venerdì, quando una delegazione di residenti verrà ricevuta a Palazzo Marino dal sindaco Beppe Sala. Viene a sincerarsi della situazione l'assessore all'Urbanistica Pierfrancesco Maran: "Avevamo messo delle strutture a disposizione, alla Bovisa. Ora cerchiamo di capire come farc carico degli altri alloggi".
Massimiliano Peggio per “La Stampa” il 5 settembre 2021. «L'incendio non ha distrutto solo le nostre case. Ha spezzato legami e amicizie. Per molti di noi, questo palazzo era la nostra famiglia». Sabrina, piangendo di fronte a un caffè, racconta di non avere più niente. E dire che non voleva piangere, mostrandosi a tutti i costi forte. Eppure si arrende, ascoltando il responso di un funzionario dei vigili del fuoco. «Mi dispiace signora, il piano mansarde non esiste più. Lassù è tutto incenerito». Quel luogo là in alto, divorato per quasi un giorno dalle fiamme, era un piccolo angolo in stile parigino nel cuore di Torino. Mansarde con abbaini. Da un lato orientati verso la collina, dall'altro con vista sulle montagne. «Lassù affittavo una mansarda di 50 metri quadrati - racconta Sabrina - Adesso molti inquilini dovranno trovarsi altre sistemazioni, altri posti dove abitare. Così si perderanno amicizie, piccole abitudini che ormai facevano parte della nostra vita. Ecco, proprio come una famiglia». Il giorno dopo, nel centro di Torino, il fumo denso del fuoco vivo ha lasciato il campo a sbuffi di vapore provocati dai getti d'acqua dei vigili del fuoco. Dopo quasi 24 ore le fiamme non volevano arrendersi, annidiate in travi ottocentesche e solette di cannicciato. L'incendio scoppiato l'altra mattina ha coinvolto due palazzi di fronte alla stazione di Porta Nuova. Centodieci unità abitative inagibili. Decine di negozi chiusi, tra cui lo store di Decathlon. Due palazzi gemelli ma con storie strutturali diversi. Uno, bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale, è stato ricostruito con soletto di cemento. Per via di quelle disgrazie belliche, ha retto meglio all'effetto del fuoco. L'altro, quello di piazzetta Lagrange, dedicata al grande matematico, sopravvissuto alle bombe degli Alleati, con strutture originali di fine Ottocento, si è arresto al fuoco. «Lo abbiamo visto bruciare lentamente, per un giorno intero» dice un residente. L'incendio ha divorato una trentina di alloggi. Tra cui i due attici del primo palazzo, da cui sono partite le fiamme. Ieri mattina, i vigili del fuoco, hanno aiutato gli abitanti di primi piani a recuperare oggetti personali. «Entra una sola persona per alloggio. Prendetevi sole le cose di stretta necessità: documenti, indumenti, medicine». Elenchi, prenotazioni per l'entrata, tutto gestito da un'unità mobile allestita in strada. Poi, con caschetto in testa, gli inquilini sono entrati uno alla vola negli stabili, nelle parti ritenute sicure. Ennio, farmacista, ha recuperato i medicinali urgenti per alcuni clienti. Amil Lopes, fisioterapista personale dell'ex difensore del Torino Lyanco, ora ceduto al Southampton, ha recuperato i suoi attrezzi da lavoro. «Devo seguirlo a breve in Inghilterra - dice Amil trascinando in strada un borsone gigantesco - appena ho i documenti a posto lascio Torino». Eugenia Borsello lavora in un laboratorio di moda. «Pare che al momento l'attività non abbia subito danni. Per noi la vera ricaduta riguarda il lavoro, che non possiamo portare avanti». Ieri, si poteva incontrare Antonella Loiacono, la portiera del palazzo di piazza Lagrange che ha messo in salvo gli inquilini dello stabile suonando i citofoni. «Sì è vero, ho fatto quello, urlando, ma con me c'erano anche due agenti della polizia, che sono andati su piano per piano» dice, spiegando che non è stata la sola a pensare agli altri. Malgrado due sole ore di sonno, è tornata di fronte al «suo» palazzo, a dare una mano ai vigili del fuoco a rintracciare proprietari e inquilini. Un capo squadra si è avvicinato a lei, con aria distrutta: «Dobbiamo abbattere un soletta pericolante, se riusciamo a rintracciare il padrone i casa recuperiamo qualcosa». Tra le storie che sono emerse, c'è anche quella della piccola cagnetta Chanel. La proprietaria, Teresa, nota commerciante torinese, proprietaria di uno dei due attici devastati dalle fiamme, l'altra mattina è uscita presto per andare al lavoro. «L'ha salvata la mia colf - racconta la donna, tenendo la cagnetta nella borsa - Qualche giorno fa la mia collaboratrice si è licenziata, per tornare a casa in Romania. Venerdì è venuta a prendersi alcuni effetti personali. Non c'era nessuno in casa. Ha visto il fumo ed ha dato l'allarme, portando anche in salvo la mia Chanel».
Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2021.
Morgan, è rientrato nella sua casa?
«No, e non so nemmeno quando ci faranno rientrare. Io e altre famiglie che abitano accanto al grande palazzo che ha preso fuoco in via Antonini, a Milano, siamo stati allontanati dalle nostre case per il rischio di crolli. Dall'oggi al domani».
E lei dove alloggia adesso?
«Sono ospite di una persona meravigliosa, il pittore e scultore Robert Gligorov, sempre a Milano. Con me ho soltanto qualche vestito e una chitarra».
Poco per un musicista così impegnato come lei.
«È questo il punto: sono un artista che non può fare arte. Nella casa che ho dovuto lasciare, anche se temporaneamente, c'è tutto quello che mi permette di lavorare».
Per esempio?
«Per esempio i miei strumenti. Io sono un polistrumentista e ogni giorno mi alleno al pianoforte, al basso, al clavicembalo, alle percussioni. Non ho niente con me, per non parlare degli appunti, degli spartiti, delle parole. Però poi penso a quelle povere famiglie del palazzo incendiato, quelle persone che hanno davvero perduto tutto e allora mi passa. Naturalmente».
Ha già sentito Mahmood, il suo collega che abitava nella Torre dei Mori?
«Non ancora ma penso di contattarlo a breve perché voglio capire che cosa si sta facendo. Certamente ho parlato con alcune di quelle persone e vorrei fare qualcosa di concreto. Per esempio, domani sera (oggi per chi legge, ndr) io terrò un concerto al Comfort Festival di Ferrara: ho chiesto e ottenuto che se qualcuna di quelle famiglie che sono rimaste fuori casa avesse voglia di venire potrà farlo senza pagare il biglietto (chi volesse partecipare dovrà mandare una email alla BarleyArts, ndr ).
In questi giorni abbiamo letto tante storie di persone che, assieme alla casa, hanno perso anche dei luoghi di lavoro, perché ormai le case sono anche questo.
«Infatti, è questo il punto. Non ci sono soltanto i luoghi dove mangiamo o dormiamo, ma tanti di noi hanno l'ufficio domestico, dall'atelier alla postazione per lo smart working. E per gli artisti come me c'è dell'altro. Io mi alleno suonando Bach o Beethoven tutti i giorni, per almeno due ore. Fa parte del mio essere artista. La musica si nutre di una disciplina costante, di un continuo immergersi nelle note e nelle parole. Senza contare l'effetto pratico di lavorare senza l'home recording oppure il computer fisso dove conservo tutto».
Ha perso qualche occasione di lavoro?
«Sì, per esempio il Teatro Bellini di Napoli mi aveva commissionato una colonna sonora per accompagnare uno dei suoi spettacoli e io non posso realizzarla. Ma è solo un esempio. Ecco perché chiedo di non far calare l'attenzione su quello che è accaduto a Milano: famiglie intere sono lontane da casa e molti, con questa, hanno perso anche gli strumenti di lavoro. Posso fare un appello sul Corriere della Sera ?»
Certamente.
«Se il Comune lo consentirà e se sarà possibile tornare a stare nella mia casa, io la aprirò e ospiterò temporaneamente una o due di quelle famiglie che hanno perso l'appartamento. Il mio vuole essere sì, un gesto di solidarietà, ma anche un gesto rivolto a chi deve vigilare sulla loro situazione: queste persone non vanno lasciate sole».
Sempre se le permetteranno di riaprire la casa e di tornarci a breve.
«Sì, e a questo proposito faccio un altro appello: a me basterebbe tornarci un paio d'ore al giorno per lavorare. Per andare a riprendermi la mia musica».
Lei era sul posto nel giorno in cui il palazzo ha preso fuoco.
«Vedere quella facciata bruciare in un modo così inesorabile mi ha fatto riflettere sul dualismo etica/estetica. A quanto pare quella facciata era lì per un effetto estetico, ma non si è prestata abbastanza attenzione ai materiali. Penso che quando assistiamo ad uno squilibrio tra ciò che è bello e ciò che è buono - nel senso di fatto ad arte -, perdiamo qualcosa».
La musica dal vivo è stata a lungo ferma a causa della pandemia. Ha fatto discutere la posizione di De Gregori che ha scelto di non condannare Salmo, il rapper che ha sfidato le restrizioni.
«Penso che Francesco abbia fatto benissimo, e io sto con lui. Ha messo l'accento sulla dignità degli artisti: in tanti pensano che noi siamo creature astratte. Noi siamo concreti, calati nel mondo».
Incendio a Milano, gli abitanti di via Antonini: "Allarme non ha suonato". Giallo sull'elettricità nell'appartamento al 15esimo piano. La procura ha formalmente aperto un fascicolo contro ignoti con l'ipotesi di disastro colposo. Il custode: "In quell'appartamento la luce era staccata". Ancora roghi nella notte. I vigili del fuoco resteranno per giorni. Con l'arrivo delle relazioni degli agenti dell'ufficio Volanti della Questura di Milano, i primi a intervenire al grattacielo di via Antonini 32, è stato formalmente aperto dalla procura un fascicolo sull'incendio con l'ipotesi di reato di disastro colposo a carico di ignoti. Dalle testimonianze raccolte finora nell'inchiesta è emerso che i condomini del grattacielo, che due giorni fa sono riusciti a salvarsi, non hanno sentito suonare alcun allarme antincendio quando si sono accorti dall'odore e dal fumo che le fiamme stavano divampando nel palazzo. Dunque, al momento, secondo gli inquirenti, è evidente che l'allarme sonoro non avrebbe funzionato. Tra i passaggi dell'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dalla pm Marina Petruzella, ci sarà l'acquisizione della documentazione tecnica relativa al palazzo costruito nel 2006. Tra i primi atti già in possesso degli specialisti del Nucleo investigativo antincendi dei Vigili del Fuoco i registri di revisione e di manutenzione del grattacielo. La procura ha anche delegato la squadra di polizia giudiziaria del dipartimento 'Ambiente, salute, sicurezza, lavoro' ad acquisire negli uffici tecnici del Comune i documenti relativi alla concessione edilizia che ha permesso di realizzare la costruzione del grattacielo. Intanto le operazioni di spegnimento del rogo della Torre dei Moro si sono concluse ieri pomeriggio, ma nella notte si sono riaccesi dei focolai: i vigili del fuoco sono ancora sul posto con 2 squadre e ci rimarranno ancora per giorni per mettere in sicurezza quanto rimane del grattacielo andato in fiamme domenica a Milano. In mattinata si è svolto un sopralluogo degli investigatori coordinati dalla procura. Ci sono ancora da ispezionare - viene spiegato dal comando provinciale di Milano - alcuni appartamenti e da monitorare la messa in sicurezza dello stabile dove, finché non saranno ultimate queste operazioni, non si potrà accedere. L'elettricità dell'appartamento del 15esimo piano, da cui potrebbe essersi sviluppato il maxi incendio della Torre dei Moro di via Antonini a Milano domenica scorsa, "era stata staccata" verosimilmente dal proprietario prima di partire per le vacanze. Lo ha raccontato agli investigatori il custode del grattacielo che 5 giorni prima del rogo era andato ad innaffiare le piante nell'abitazione. Un elemento, quello della luce staccata messo a verbale davanti ai pm coordinati dall'aggiunto Tiziana Siciliano, che porta a dover effettuare ulteriori verifiche per capire se davvero il fuoco è scaturito da quell'appartamento e per quali cause. Il custode ha spiegato che quando è entrato per bagnare le piante in quell'appartamento ha provato ad accendere la luce ma era stata staccata, verosimilmente dal contatore principale e dal proprietario (nell'abitazione viveva una persona soltanto, che non è rientrata a Milano dopo il rogo) prima di partire per le vacanze. Un elemento, questo, che fa sorgere qualche dubbio sul fatto che possa essersi verificato un cortocircuito o un malfunzionamento di un impianto attaccato alla corrente elettrica, anche se resta possibile che il proprietario abbia staccato la luce dal contatore, escludendo alcuni elettrodomestici, come il frigorifero, dal blocco. E restano, comunque, in piedi anche le ipotesi di autocombustione di batterie o altro. Ad ogni modo nell'inchiesta, coordinata ora anche dal pm Marina Petruzzella del dipartimento guidato dall'aggiunto Siciliano, si vuole verificare proprio se davvero le prime fiamme e il fumo, che si vedono uscire in un video amatoriale dal balcone di quell'appartamento, si siano originate in quell'abitazione. Tanto che oggi gli investigatori del Vigili del fuoco sono entrati nuovamente nell'appartamento. In Procura, intanto, è arrivata anche la prima relazione della polizia che è subito intervenuta quel pomeriggio: alcuni agenti hanno portato fuori delle persone salendo fino all'ottavo piano. E la loro attività di quella domenica è riassunta nella relazione consegnata agli inquirenti. Sui social la solidarietà alle famiglie che hanno perso la loro casa nel rogo. Sulla pagina Facebook "Sei di Milano se" sono apparsi i primi messaggi di chi vuole dare una mano alle vittime del drammatico incendio. Una ditta di traslochi offre trasporto e materiali da imballaggio a tutti i residenti, quando sarà possibile accedere allo stabile e prelevare quanto resta dei loro effetti personali, mentre un ristoratore della zona ha offerto pranzo e cena a coloro che in quella torre hanno perso tutto. Questo ancor prima che gli stessi residenti dello stabile lanciassero un appello alla città di Milano e ai milanesi, per chiedere anche un piccolo aiuto tramite donazione sul conto corrente condominiale. Gli abitanti della Torre dei Moro hanno pensato di istituire una raccolta fondo di "aiuto per Antonini 32/34". E per questo chiedono sostegno al Comune perché "si facciano accordi con gli alberghi" aggiunge Nicola. "Faccio un appello al Comune di Milano perché non dimentichi i superstiti di Antonini 32, perché siamo in strada. Non vogliamo fare la fine dei terremotati".
Il grande affare della Torre dei Moro, ecco chi ha costruito e venduto il grattacielo andato in fiamme a Milano. Gli appartamenti del palazzo sono stati consegnati nel 2007 a prezzi anche superiori ai 5mila euro al metro quadro. Tra gli acquirenti anche l’imprenditrice Diana Bracco. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 30 agosto 2021. Inizia una quindicina di anni fa, il 19 dicembre del 2006, la sfortunata storia del grattacielo divorato dalle fiamme la sera di domenica. Quel giorno la società Sasso Blu ha venduto alla Polo srl la proprietà dell’area in via Antonini, nella periferia sud di Milano dove nei cinque anni successivi verrà costruito il palazzo di 15 piani che due giorni fa è stato ridotto a uno scheletro da un incendio le cui cause sono ancora da accertare. La società venditrice, così come quella che ha comprato, erano controllate dalla famiglia Moro, costruttori e immobiliaristi molto conosciuti nel capoluogo lombardo. Da qui il nome “Torre dei Moro”, con cui è noto tra gli addetti ai lavori il grattacielo che svetta in una zona dove negli ultimi anni sono stati numerosi gli interventi di riqualificazione urbana. A poco distanza, non lontana dalla zona dismessa di Porta Romana, è sorta la Fondazione Prada, a cui si sono aggiunti numerosi altri edifici. È stata quindi la società Polo a mettere in vendita già a partire dal 2007 gli appartamenti nel grattacielo in costruzione. Dai dati di bilancio emerge che le società dei Moro hanno incassato svariate decine di milioni dalla vendita degli appartamenti, venduti a prezzi anche superiori a 5 mila euro al metro quadrato. Sono stati in totale una settantina gli acquirenti degli appartamenti in cui sono suddivisi i 18 piani dell’edificio andato a fuoco. Nella lista dei compratori, secondo quanto risulta a L’Espresso, figura anche il nome dell’imprenditrice Diana Bracco, a capo dell’omonimo grande gruppo farmaceutico e in passato anche a capo di Assolombarda, l’associazione milanese degli industriali. Tra gli inquilini che si sono precipitati fuori dal grattacielo c’è invece il cantante Mahmood, vincitore del festival di Sanremo del 2019. Sarà un’inchiesta della magistratura a stabilire per quale motivo le fiamme partite da uno degli ultimi piani del palazzo abbiamo potuto propagarsi nel giro di pochi minuti fino ad avvolgere l’intero edificio. In particolare, dovrà essere verificato se i materiali usati per il rivestimento possano aver favorito la propagazione dell’incendio.
DA corriere.it il 31 agosto 2021. «Vogliamo parlare con il sindaco»: è questa la richiesta dei condomini della Torre dei Moro di via Antonini, il grattacielo andato a fuoco a Milano. Questa mattina le 70 famiglie che nell'incendio hanno perso casa si sono riunite in una palestra affittata per l'occasione per un'assemblea straordinaria. «Abbiamo chiesto un incontro con il sindaco, ma al momento non siamo stati ancora convocati». Gli inquilini della palazzina si dicono «uniti» nella gestione di questa emergenza, ma ammettono che vi è molta preoccupazione per il futuro: «ci sentiamo come i terremotati», le parole di Marco all'uscita della riunione straordinaria.
Massimiliano Jattoni Dall’Asén per corriere.it il 31 agosto 2021. I primi istanti dell’incendio che ha devastato il 29 agosto il grattacielo di via Antonini, a Milano, sono racchiusi in un video di 25 secondi girato da un abitante della zona. Su quel mezzo minuto scarso di immagini gli investigatori stanno concentrando la loro attenzione perché vi si vede come il fumo nero che esce dal balcone dell’appartamento al 15esimo piano della Torre dei Mori in pochi secondi si trasformi in un inferno di fuoco che intacca e avvolge il rivestimento della facciata. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Pasquale hanno aperto un fascicolo per disastro colposo. Ora si dovrà dimostrare perché il fuoco si sia propagato così rapidamente e come mai il materiale di rivestimento abbia trasformato il grattacielo in una torcia. Ma che materiale è stato usato nella costruzione della Torre dei Mori? La legge cosa dice a proposito delle coperture? E infine: chi pagherà il conto di questo disastro che ha mandato in cenere i beni personali, gli arredi e reso impraticabili le abitazioni di una settantina di persone? Purtroppo, in Italia «abbiamo un vuoto normativo», come spiega al Corriere della Sera l’avvocato Nicola Frivoli del Comitato Scientifico del portale Condominio e Locazione di Giuffrè Francis Lefebvre. E anche se abbiamo «la disciplina sull’antincendio che in teoria dovrebbe coprire anche situazioni come questa, di fatto manca una norma ad hoc».
Avvocato Frivoli, non esiste dunque nessun obbligo per i costruttori?
«Nessuno. Vi sono solo delle linee guida preparate dai Vigili del fuoco per il Ministero. Ma il loro valore è solo di raccomandazione».
In presenza dunque di un vuoto normativo, quale responsabilità ha il costruttore della Torre dei Mori?
«Il settore investigativo dei vigili del fuoco sta in queste ore esaminando il materiale prelevato e la valutazione riguarderà anche la normativa dell’epoca della costruzione. L’art. 1669 del codice civile stabilisce proprio la responsabilità dell’appaltatore per la rovina o i gravi difetti di edifici o immobili di lunga durata, che si manifestino però nel corso di dieci anni dal loro compimento. La Torre dei Mori è stata costruita tra il 2006 e il 2011, sono già trascorsi dunque i 10 anni dalla fine dei lavori. Dunque, potrebbe esserci in questo caso la prescrizione. Potrebbero essere considerati responsabili anche le ditte che hanno fornito i materiali, che nel capitolato dei lavori depositato in Comune sembra siano stati definiti ignifughi, ma i video che hanno ripreso l’incendio hanno mostrato come la torre si sia trasformata in breve tempo in una torcia. Come nel caso dell’incendio della Grenfell Tower, il grattacielo londinese divorato dal fuoco la notte del 14 giugno 2017, e che mostra molte analogie con l’incendio della Torre dei Mori, la responsabilità fu posta sulla società che aveva fornito il materiale».
Quali sono le responsabilità dell’amministratore del condominio?
«In questo caso si deve chiarire se vi è stata una mancata manutenzione dell’antincendio all’interno dello stabile. L’amministratore condominiale ha infatti nelle sue competenze anche la responsabilità della sicurezza dell’edifico che amministra. Nel caso le indagini dimostrassero che non si è adempiuto a quanto dovuto, si potrebbe valutare la responsabilità civile, come previsto dall’articolo 1130 del codice civile, dove al punto 4 impone all’amministratore di “compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio”».
Alla luce di tutto questo, chi pagherà per il danno subito dai circa 70 proprietari? L’assicurazione? Ma i condomìni sono obbligati ad averne una?
«No, la riforma del 2012 e introdotta nel giugno 2013 non ha reso obbligatorio l’assicurazione per gli edifici condominiali. Spesso però i condomini si dotano comunque di un’assicurazione che garantisca sui danni originatasi nelle parti comuni e, in casi eccezionali, anche per danni conseguenti ad avvenimenti accaduti all’interno di un appartamento e dunque di proprietà esclusiva di un condòmino. Il classico esempio è dato dalla caduta di un calcinaccio da un balcone di proprietà non del condominio ma di uno degli inquilini. Le polizze assicurative comunque escludono i danni per dolo o per colpa grave».
Il grattacielo di via Antonini ha però ormai più di 10 anni, questo può influenzare nel caso di in un eventuale indennizzo assicurativo?
«Lo stabile non è più considerabile “nuovo” e dunque l’eventuale polizza potrebbe avere delle franchigie che comporterebbero un indennizzo minore. Nel caso poi di un indennizzo parziale, se l’incendio fosse cominciato da una parte comune o in conseguenza di una mancata manutenzione, allora le differenze dovranno essere pagate dall’intero condominio, dunque dai proprietari».
I condòmini in possesso di una polizza potranno agire contro il condominio?
«Sì, in caso di una polizza personale che non dovesse coprire tutti i danni, le differenze dovrebbero essere coperte dalla polizza del condominio e se questa non c’è dal condominio stesso. La causa dovrà essere sempre imputata al condominio, non al singolo inquilino, salvo che la polizza non copra specificatamente i danni causati dai singoli inquilini dello stabile».
Da affaritaliani.it l'1 settembre 2021. A distanza di tre giorni dal tremendo incendio che ha distrutto un palazzo di 18 piani di nuova costruzione a Milano, restano un mistero le reali cause della tragedia sfiorata. Miracolosamente nessuno è rimasto ferito o è morto mentre l'edificio bruciava. Nelle descrizioni tecniche della facciata del palazzo - si legge sul Fatto Quotidiano - si parla di "un’intercapedine d’aria per creare un effetto camino”. A produrli la Saint-Gobain, multinazionale francese da 38 miliardi di fatturato nel 2020 e presente in 70 Paesi, avendo realizzato infrastrutture come l’Allianz Arena di Monaco di Baviera o il National Grand Theatre di Pechino. Li pubblicizza per realizzare le “facciate ventilate” con “intercapedine”. Servono a smaltire l’aria calda prodotta in estate dall’irraggiamento solare, mantenendo fresco l’edificio, mentre in inverno evitano le condense. Gli inquirenti milanesi - prosegue il Fatto - hanno messo nel mirino proprio “l’effetto camino” creatosi nella parete perimetrale esterna del grattacielo finito nel 2011 dalla ditta Moro Costruzioni. Hanno anche funzione estetica: servono a realizzare “l’effetto vela” del grattacielo che, in realtà, è costruito perpendicolare e non curvo. Contro questa deriva si scaglia l’architetto e ingegnere Gabriele Mariani, tra l’altro candidato sindaco di sinistra. “La forma che brucia la funzione” attacca Mariani proprio perché i pannelli estetico-decorativi (che fanno lievitare i prezzi degli immobili) sono andati in fumo "come una torcia".
Cesare Giuzzi per il Corriere.it l'1 settembre 2021. Tutta la storia della Torre dei Moro è sotto indagine. Dalla concessione edilizia, che risale all’epoca Albertini, fino agli ultimi interventi di manutenzione sugli impianti elettrici e antincendio. È un’inchiesta ad ampio spettro quella avviata dalla procura sul rogo di domenica di via Antonini. Ieri gli investigatori della squadra di polizia giudiziaria del dipartimento «Ambiente, salute, sicurezza, lavoro» guidato dall’aggiunto Tiziana Siciliano, hanno sequestrato «presso terzi» (quindi senza indagati) tutta la documentazione relativa al progetto della torre. Carte ritenute indispensabili per ricostruire le società coinvolte nella realizzazione dell’edificio, i responsabili dei lavori e i progettisti. Alcuni nomi potrebbero finire presto nel registro degli indagati in vista degli accertamenti irripetibili sui reperti. L’inchiesta è stata aperta per disastro colposo e al momento è ancora a carico di ignoti. Il fascicolo è affidato anche al pm Marina Petruzzella. C’è da capire se davvero, come hanno raccontato i condomini, l’allarme sonoro antincendio non è entrato in funzione. «Mia moglie è tornata indietro, ha premuto il pulsante al secondo piano ma non è successo niente», racconta un residente. Già i vigili del fuoco impegnati nelle prime operazioni di spegnimento avevano parlato di impianto antincendio fuori uso e di manichette che non «davano» acqua. Un problema sorto nelle prime fasi dell’intervento è legato anche al contesto ristretto in cui è stata costruita dieci anni fa la Torre dei Moro. L’autoscala da 50 metri, capace di raggiungere la sommità della torre e specifica per incendi in grattacieli, non è stata utilizzabile perché non c’erano gli spazi tecnici (12 metri dalla facciata) per posizionarla. Per fortuna tutti i condomini erano già fuori. Le indagini si muovono su due fronti: la causa dell’incendio al 15esimo piano e l’analisi dei materiali del rivestimento. Il custode Walter Aru ha detto ai pm che «i contatori differenziali della luce erano abbassati». Ma le verifiche sono in corso. Tempi più lunghi per le prime analisi di laboratorio dei tecnici del Nucleo investigativo antincendi della direzione regionale Lombardia insieme agli esperti dell’ufficio di polizia giudiziaria di Milano. Ieri in procura è stata depositata la prima relazione delle Volanti. Gli agenti della «Mecenate», della «Romana» e della «Baggio bis» sono stati i primi soccorritori a intervenire. Si sono lanciati nel palazzo e hanno iniziato ad evacuare i residenti «al fine di mettere in sicurezza quante più persone possibili». All’ottavo piano «il forte calore ed il fumo rendeva impossibile la respirazione». Tutti però erano ormai in salvo. Poi i primi equipaggi dei pompieri sono saliti con i respiratori fino al 16esimo bussando a tutte le porte. «Ero fuori. È suonato l’allarme sul telefonino. Ho visto da una telecamera l’ombra del fumo. Poi dei colpi fortissimi alla porta, infine l’impianto è saltato», racconta un residente. I piani 14, 15 e 16 sono ancora pericolanti. È lì che si sono registrati i danni maggiori. Nelle prime immagini del sopralluogo dei vigili del fuoco la distruzione è totale: porte divelte, calcinacci, pareti cadute. Alcuni appartamenti sarebbero però intatti. La conta dei danni è solo all’inizio.
Incendio Milano, fabbricati in Spagna i pannelli della torre bruciata: "Non erano ignifughi, consigliati solo per edifici bassi". Luca De Vito su La Repubblica il 7 settembre 2021. Agli atti del fascicolo di inchiesta aperto in procura sul rogo di via Antonini i documenti sul materiale usato per le coperture: gli stessi produttori parlano di bassa resistenza alle fiamme. Nuovo sopralluogo dei detective Quelle coperture non dovevano essere utilizzate per un edificio alto come la "Torre dei Moro" di via Antonini. A sconsigliare per i grattacieli l'uso dei pannelli in "Larson PE", ovvero un materiale composto da due strati di alluminio con un cuore di polietilene per 4 millimetri di spessore totali, fabbricati dalla multinazionale spagnola Alucoil e bruciati nel giro di 15 minuti lo scorso 29 agosto, è un documento descrittivo del prodotto redatto dall'impresa stessa.
Grattacielo a fuoco, c'è l'ipotesi choc: l'"effetto lente" nel mirino del pm. Paola Fucilieri il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Si fa strada una teoria sul rogo: colpa dei raggi solari che hanno surriscaldato alcune bottiglie che a loro volta hanno fatto da miccia. Tornare indietro di oltre duemila anni per spiegare un dramma di appena una settimana fa. Si perché nel remoto caso in cui l'attuale ipotesi investigativa della Procura di Milano si rivelasse esatta, le cause dell'incendio del grattacielo «Torre dei Moro» di via Antonini - bruciato domenica scorsa lasciando senza casa circa ottanta famiglie - sarebbero da ricondurre in soldoni al principio delle «lenti di fuoco» escogitato da uno degli scienziati più famosi della storia, Archimede, nel II secolo avanti cristo per incendiare le navi romane nemiche durante l'assedio di Siracusa. Il matematico avrebbe utilizzato una vasta schiera di scudi di bronzo o rame lucidati per creare una fornace solare, attraverso la riflessione parabolica della luce del sole. E a provocare le fiamme nel bilocale al quindicesimo piano da cui sono partite per scatenare poi il mega incendio potrebbero essere stati sempre i raggi solari, ma dopo aver surriscaldato una o più bottiglie di vetro lasciate sul balcone dal proprietario assente da giugno e trasformatesi a loro volta in un innesco, incendiando prima un rifiuto e poi il grattacielo. Tra le opportune cautele e un conclusivo e assai prudente «vedremo» - molto condiviso dai vigili del fuoco piuttosto restii a sposare una tesi con chi sta ancora lavorando per esclusione su una serie di ipotesi - lo ha dichiarato ieri la pm Marina Petruzzella che lavora con l'Aggiunto Tiziana Siciliano a capo del sesto dipartimento della Procura «Tutela della salute, dell'ambiente e del lavoro», titolare dell'inchiesta per disastro colposo. Ieri pomeriggio la squadra di polizia giudiziaria del dipartimento si è recata in via Antonini per un nuovo sopralluogo nel palazzo dopo che sui tavoli dei magistrati è arrivata la prima relazione conclusiva dei vigili del fuoco sui rivestimenti delle facciate del grattacielo, realizzati dalla Aza Corp di Fiorenzuola (Piacenza) e definiti «altamente infiammabili». Nei prossimi giorni i titolari verranno sentiti in Procura. Questa settimana è anche in programma un'audizione dei titolari della «Moro Costruzioni» (che nel frattempo è stata liquidata ed è confluita nella «Moro Real Estate»), la società che ha ultimato i lavori nel 2011. Sotto questo aspetto i punti da chiarire nell'inchiesta sono ancora diversi. Ad esempio come sia stata svolta la manutenzione dal 2011 ad oggi, l'esatto funzionamento del sistema antincendio e ovviamente la specifica composizione del rivestimento. Che dire? L'ipotesi di un cortocircuito ormai è già stata scartata ed è evidente che gli inquirenti non hanno più elementi a cui appigliarsi per sostenerla. Anche se la possibilità dell'«effetto lente» fa un po' pensare che l'inchiesta stia navigando a vista. Del resto anche il proprietario dell'appartamento dove il rogo ha preso il via è stato sentito e formalmente verbalizzato nei giorni scorsi dagli investigatori del Nucleo investigativo antincendi dei vigili del fuoco in videoconferenza da Siracusa. Insieme al figlio, l'uomo ha ribadito quanto aveva dichiarato sin dall'inizio di questa brutta storia. Ovvero di aver staccato l'interruttore della luce prima di andarsene da casa e che il solo ad avere le chiavi per andare ad annaffiare periodicamente le piante era appunto l'uomo che da dieci anni è il portinaio del grattacielo, da tutti descritto come persona rispettabile e decisamente degna di fiducia. Nel frattempo in Procura si stanno presentando diversi avvocati, tra cui anche l'avvocato Solange Marchignoli che rappresenta il condominio; mentre gli inquilini hanno nominato come perito di parte per far luce sull'accaduto l'ingegner Massimo Bardazza che si è occupato di molti casi importanti: dal disastro di Linate (2001), alla strage di Viareggio (2009) fino a quella della palazzina esplosa in via Brioschi (2016) a Milano. Paola Fucilieri
Vittorio Feltri sull'incendio al grattacielo di via Antonini: palazzo bruciato e inquilini abbandonati. Chi li aiuta? Vittorio Feltri Libero Quotidiano l'1 settembre 2021. Noi non siamo ingegneri né architetti né geometri e neppure muratori, pertanto non azzardiamo ipotesi sulle cause che hanno provocato l'incendio nel grattacielo di 18 piani, a Milano, in via Antonini 32. Saranno i tecnici incaricati dai magistrati a darci delle illuminazioni. Diciamo che ci pare strano che un edificio moderno sia stato divorato dalle fiamme in pochi minuti, senza che scattassero meccanismi di difesa. Probabilmente ne sapremo di più - speriamo - quando si concluderà l'inchiesta che ci auguriamo sia stata aperta e venga portata avanti celermente. Cosa di cui dubitiamo conoscendo i nostri polli. Il problema che vorremmo sollevare tuttavia è un altro. I numerosi inquilini del palazzone per fortuna sono rimasti illesi, ed è già un buon risultato. Ma adesso che sono senza casa, che fine faranno? Ora si sono rifugiati in albergo, però fino a quando vi rimarranno? E chi paga il conto dell'hotel? Non sono dettagli. Bisogna chiarire la questione delle spese senza contare la necessità di assicurare alle vittime dell'incendio un futuro decente. Le quali hanno perso tutto nel fuoco divampante, non solo non hanno più un alloggio dove risiedere, privati dei mobili, dei vestiti, e anche delle mutande. Adesso chi li aiuta? A chi tocca sostenere gli oneri? Finora nessuno ha dichiarato quali siano le intenzioni e gli obblighi della impresa che ha costruito il casermone nonché degli enti pubblici che dovevano garantirne la sicurezza a coloro che vi abitavano. Nessuno dice niente, zero assicurazioni. Chi risarcirà le persone danneggiate? Possibile che le autorità le quali hanno preso visione del disastro non dicano cosa intendono fare per soccorrere gli sfigati che hanno subìto le conseguenze del fuoco distruttivo? Ci domandiamo con angoscia in quali luoghi saranno ospitati i poveracci senza dimora e senza i loro beni. Non abbiamo letto una sola dichiarazione delle istituzioni a tale proposito. Qui non si tratta soltanto di rasserenare le famiglie ridotte sul lastrico, bensì tutti i cittadini milanesi che si identificano con esse. Chiediamo lumi, non fiammelle per carità.
A Milano progettano tutto ma poi non finiscono niente. Sta diventando una costante: in campo le idee con ritorno elettorale poi si va a caccia dei soldi necessari. E Metropolitana Milanese è una società eccellente in questo sport. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud il 25 agosto 2021. Progettano opere senza avere i soldi per usare quelle finite. Perché a Milano progettare pare diventato un lavoro più del realizzare ciò che si ipotizza su carta. E Metropolitana Milanese è una società eccellente in questo sport. L’azienda partecipata del Comune di Milano ha appena annunciato l’avvio di una “metropolitana leggera” che unirà il capolinea della Linea 2 (o Linea verde) con Vimercate, cioè la Brianza profonda. O meglio questi sono i titoli dei giornali, in realtà l’accordo raggiunto tra Comune di Milano, Regione Lombardia, Città metropolitana di Milano, provincia di Monza e Brianza e i Comuni di Cologno Monzese, Brugherio, Carugate, Agrate Brianza, Concorezzo e Vimercate è per il finanziamento dell’approfondimento del progetto di fattibilità tecnica ed economica per il prolungamento della linea metropolitana. Cioè vengono assegnati a MM 174mila euro per capire se si può costruire la nuova ferrovia e nel caso quanto costerebbe. Poi semmai si cercano i soldi, parola di Marco Granelli, assessore alla Mobilità del Comune di Milano. Ora l’annuncio potrebbe essere positivo per le decine di migliaia di persone costrette a usare l’automobile per raggiungere Milano, ma i milanesi i cui soldi vengono stanziati per “l’approfondimento” potrebbero storcere il naso: da più di un decennio si discute del prolungamento della Linea 1, o rossa, fino a Monza. Ma il progetto continua a essere fermo al palo. Quando si avvicina qualche tornata elettorale arriva l’immancabile annuncio sullo sblocco dei lavori, ma allo stato attuale la metro a Monza non arriva. E forse se ne parla per il 2024. Se si considera che doveva essere l’ennesima opera pronta per Expo 2015, la firma dell’accordo di programma è del 2009, il ritmo di avanzamento è degno delle statistiche di solito associate al Sud Italia. Ma intanto si progetta qui e là, come se tutto andasse bene. E non è nemmeno l’unico caso. La nuovissima metro 5, o lilla, viaggia con le porte dei treni rotte da anni. E ha un problema di manutenzione alle scale mobili, tanto che spessissimo sono fuori uso quelle dello snodo più importante cioè la stazione Garibaldi. Eppure sono stati affidati a MM anche i progetti per il prolungamento della ferrovia sotterranea fino a Monza. I soldi ci sono, come riporta una nota del 2019 del Comune di Milano in cui si specifica che “Grazie ai finanziamenti già pervenuti nel 2016 MM è al lavoro sul progetto definitivo”. L’idea di quando si farà mica tanto: il sindaco Sala ha provato a riproporre il modello Expo annunciando che la linea sarebbe stata pronta per le Olimpiadi invernali 2026, ma già si parla del 2029. E se fa la fine delle altre metro i milanesi dovranno aspettare gli anni Trenta. Ma ad apparire ancora più surreale il continuo drenaggio di fondi pubblici per progettare cose e vedere gente, parafrasando Nanni Moretti, è il destino dell’ultima arrivata, cioè la metro 4, o blu. Questa linea dovrebbe unire la città all’aeroporto di Linate e manco a dirlo doveva essere pronta per Expo 2015. Peccato che non sia pronta nemmeno ora. In un decennio sono state consegnate tre stazioni, ma il Comune non ha i soldi per metterle in funzione. Perché tenere aperte le infrastrutture costa e ci vuole tempo prima che i cittadini si abituino ad usarle, dunque per il momento le tre fermate sono chiuse. Ma intanto si progettano prolungamenti. Forse perché alla fine Milano ha assorbito i concetti di marketing, cioè raccontare positivamente qualunque realtà. O forse perché senza questo ossessivo progettare opere che poi come minimo arrivano a costare più del previsto e rimangono a metà c’è il problema del bilancio di Metropolitana Milanese. E c’era ben prima del Sars-Cov-2. Perché l’azienda ha in pancia lo studio di progettazione più grande d’Italia, ma senza approfondimenti e studi mancano i soldi. Tanto è vero che proprio Expo 2015 servì ad arricchirne i bilanci grazie agli appalti multimilionari che potevano essere affidati senza gara come spiega Andrea Mascaretti, capogruppo di Fratelli d’Italia a Palazzo Marino: “MM è una società in house quindi di fatto è come un pezzo dell’Amministrazione pubblica e può ricevere affidamenti diretti, cioè senza gara, come è successo ai tempi dell’esposizione del 2015, ma allo stesso tempo fuori Milano l’azienda si comporta da azienda privata”. Ma il vero tema oltre alla doppia natura della società è che tutto questo progettare costa molto ai milanesi. Che in cambio però non vedono i servizi. Persino la metro Lilla è stata progettata con una curva troppo stretta che impone una manutenzione ai binari e ai treni più frequente del normale. La risposta del capo progettista fu “non c’era spazio”. Se fosse stato napoletano sarebbe stato lo zimbello d’Italia per settimana, invece a Milano sembra si perdoni tutto. Intanto si continua a finanziare approfondimenti su questo e quello, senza considerare che troppo portarsi avanti poi rende i progetti vetusti e l’unica soluzione per aggiornarli resta progettare ancora. Una pena in stile dantesco da cui le casse pubbliche milanesi rischiano di non liberarsi mai.
L'inchiesta sul caso che ha scosso la magistratura. Mistero Loggia Ungheria, chi se ne occupa a Milano? Paolo Comi su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Ora che la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha bocciato la richiesta di trasferimento del pm Paolo Storari, ci sarà una svolta nelle indagini sulla Loggia Ungheria? Storari era finito nel mirino del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare del potere disciplinare nei confronti delle toghe, per aver consegnato in maniera del tutto irrituale i verbali di interrogatorio dell’avvocato Piero Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Il pm allievo prediletto di Ilda Boccassini aveva interrogato Amara, insieme alla vice del procuratore di Milano, Laura Pedio, per diversi giorni verso la fine del 2019. Nelle sue lunghe deposizioni Amara, sentito inizialmente sul falso complotto nei confronti dell’Eni, aveva anche svelato l’esistenza di questa Loggia, una sorta di nuova P2, composta da magistrati, professionisti, imprenditori, alti esponenti delle forze dell’ordine. Lo scopo della Loggia, come affermato da Amara, sarebbe stato quello di pilotare i processi e condizionare le nomine dei magistrati e dei vertici dello Stato. Il resto della storia è noto. Storari avrebbe voluto fare accertamenti, procedendo subito con almeno otto iscrizioni sul registro degli indagati, per verificare la fondatezza di quanto dichiarato da Amara. I suoi capi, Greco e Pedio, sarebbero invece stati di diverso avviso. Amara, da quanto risulta, aveva fatto una settantina di nomi di appartenenti alla Loggia, fra cui quelli di due consiglieri del Csm in carica: Marco Mancinetti e Sebastiano Ardita.
Vista “l’inerzia” dei vertici della Procura di Milano, Storari avrebbe allora deciso di consegnare i verbali di Amara a Davigo, allora potente consigliere del Csm, affinché fosse posto a conoscenza di quello che stava accadendo alla Procura di Milano. I verbali di Amara finirono, poi, nelle mani di due giornalisti del Fatto e di Repubblica, che non vollero pubblicarli per “non compromettere” l’indagine. Anzi, denunciarono quanto accaduto. La “postina” sarebbe stata Marcella Contraffatto, la segretaria di Davigo, che Storari sembra avesse voluto intercettare ed arrestare. La donna è attualmente sotto indagine, come Storari e Davigo, accusati di rivelazione del segreto. Il Csm, dopo aver sospeso dal servizio la ex segretaria di Davigo, pare avesse deciso di licenziarla, salvo poi ripensarci. Essendo, dunque, rimasti tutti al proprio posto, tranne Davigo che per raggiunti limiti di età è andato in pensione lo scorso ottobre, sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto le indagini sulla Loggia Ungheria, e quindi se è esistita veramente o se sia sta una invenzione calunniosa di Amara per chissà quale fine. Dalla reazione di Davigo, che aveva messo a conoscenza di questi verbali mezzo Csm, parrebbe che un qualche fondamento ci possa essere. Un magistrato esperto come l’ex pm di Mani pulite che in vita sua avrà letto chissà quanti esposti e denunce, si presume sappia distinguere se una notizia è bufala o meno. I verbali di Amara sono nel fascicolo sul falso complotto Eni. Il fascicolo è stato iscritto nel 2017 e risulterebbe essere pendente. Qualche mese fa era girata la notizia che Francesca Nanni, procuratrice generale di Milano, volesse avocarlo visto il tempo trascorso senza che la Procura avesse preso una determinazione. Ma poi, anche in questo caso, non si è più saputo nulla. Non è dato sapere, alla luce degli ultimi sviluppi, chi si occuperà di indagare sulla Loggia: Storari o Greco e Pedio che volevano cacciarlo. Se Greco a novembre andrà in pensione, Pedio è destinata a rimanere. Una situazione che non potrà non creare imbarazzo, soprattutto dopo che Storari ha affermato che la linea dei vertici della Procura di Milano prevedeva di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, in quanto sarebbe tornato utile come teste in altri processi. Amara alla fine dello scorso mese di maggio fece una lunga intervista, accennando alla Loggia Ungheria, durante la trasmissione Piazza Pulita condotta da Corrado Formigli su La7. Qualche giorno dopo venne arrestato dalla Procura di Potenza per corruzione in atti giudiziari. Messo in libertà per aver fornito ampia collaborazione ai pm lucani, è stato quasi subito riarrestato in quanto, per una precedente condanna, il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva respinto la sua richiesta di affidamento. Adesso si trova nel carcere di Orvieto. In silenzio. Palamara la scorsa settimana su questa vicenda ha tirato fuori il classico pizzino, affermando l’esistenza di un “collegamento” fra quanto accaduto a lui e ad Amara, annunciando a breve delle “rivelazioni”. Paolo Comi
Dalle Feste de L’Unità a candidato Sindaco del Centrodestra, Luca Bernardo: “Sarò il medico di Milano”. Antonella Ferrari il 26/07/2021 su Notizie.it. Nell'intervista rilasciata a Notizie.it Luca Bernardo racconta i suoi precedenti rapporti con il Pd e i motivi che hanno spinto il centrodestra a puntare su di lui dopo tanti no. Dall'”Avvocato degli italiani” (il Giuseppe Conte del primo governo) al “Medico di Milano”, il Centrodestra in Italia continua a puntare su figure esterne alla politica. Dopo il magistrato Catello Maresca a Napoli Luca Bernardo, 54 anni, primario di Pediatria al Fatebenefratelli, è il candidato sindaco per il Centrodestra alle Comunali di Milano. Il suo nome è arrivato dopo un carosello di nomi che, tuttavia, non si sono mai concretizzati. L’intervista a Luca Bernardo
Come mai ha deciso di accettare questa candidatura?
Ho avuto la fortuna di avere una bella famiglia di origine, ho una famiglia fantastica, ho avuto la fortuna di fare il lavoro che immaginavo, ovvero fare il pediatra, ho sempre potuto aiutare sia dal punto di vista medico che sociale.
Sono un uomo molto fortunato e io credo che quando si ha fortuna sia necessario dare qualcosa indietro.
Non ha dispiacere nel lasciare il suo lavoro di pediatra?
All’inizio il dispiacere c’era. Io sono medico e si è medico per sempre. Durante la campagna elettorale, e finchè riuscirò, lavoro la mattina e poi inizio l’attività di campagna elettorale. Da settembre sarò presente sulla campagna e qualora gli elettori scegliessero sindaco Bernardo ho già deciso di lasciare la parte medica e fare il medico di Milano.
Andrò a curare Milano e credo che questa cosa sia importante soprattutto dal punto di vista del sociale e della solidarietà. I quartieri devono tornare in mano ai cittadini e ai negozianti.
“Il medico di Milano” ricorda un po’ “L’Avvocato degli Italiani”. Perchè Milano ha bisogno di un medico?
Guardando Milano da candidato, ma ancor prima da cittadino, io credo che ci voglia un medico. Milano è malata, ha tante patologie. Se uno va nei quartieri periferici vede persone che hanno infiltrazioni e muffe nelle stanze e i catini che raccolgono l’acqua che cade. Manca il controllo del territorio e i cittadini non escono di casa dopo una certa ora perchè hanno paura. C’è poi la questione parcheggi e la questione piste ciclabili. Su queste ultime, ad esempio, non ho mai detto che vanno eliminate: vanno ridisegnate, ripensate e in alcuni punti spostate, per due motivi: la sicurezza e gli ingorghi.
Come giudica, quindi, i 5 anni di amministrazione Sala?
Se uno guarda ad Expo credo si aspettasse un sindaco che facesse grandi cose per Milano. In realtà io credo che non abbia più nulla nel cassetto. Non dico che non abbia fatto nulla, ha fatto tanto ma di ciò che gli è stato lasciato da costruire dai precedenti sindaci. Milano-Cortina 2026, ad esempio, è una grande opportunità che ci si deve giocare oggi per il 2026.
Sono noti i suoi buoni rapporti con il Centrosinistra e con il Pd, questo potrebbe riflettersi in un diverso modo di approcciare l’opposizione qualora lei dovesse diventare sindaco?
Ma, certamente sì. Io sono sintesi di quattro partiti di colazione. Io sono stato l’unico candidato senza veti e senza pensieri perchè rappresento il social-civile, perchè ho affrontato il Covid in reparto e credo che questi siano temi che non riguardo nè destra nè sinistra e visto che le persone per bene ci sono sia da una parte che dall’altro bisogna essere tutti insieme altrimenti Milano non la cambiamo. La mia idea, qualora i cittadini dovessero scegliermi, è di avere una città aperta, di cuore, inclusiva. Milano è questa e lo è da sempre.
Il suo nome arriva dopo parecchi altri nomi: perchè pensa che così tanti abbiano rifiutato?
Ci sono state tante persone, e di livello, tra i nomi. Riguardo alla polemica sulla retribuzione io credo che uno debba approcciarsi non dal punto di vista economico ma di quello che deve fare. L’unica preoccupazione che un sindaco ha sono tutte quelle possibili denunce per cui risulti responsabile pur non avendo fatto nulla.
Lo ha vissuto come un ripiego?
No, non mi sento un ripiego. Tutte le persone che sono passate prima sono di altissimo livello culturale e lavorativo. Quando io sono stato scelto dalla coalizione sul tavolo c’erano anche altre persone, non c’ero solo io. Sono felice di essere stato scelto ma sarò ancora più felice quando riuscirò a fare bene per i cittadini riaccendendo questa città.
Il Centrodestra ha attinto a personaggi esterni alla politica ma riconosciuti come grandi professionisti come candidati per le Comunali. Secondo lei da cosa nasce questa scelta? Il Centrodestra manca di figure di spicco in questo momento?
Io credo che di figure di spicco ce ne siano. Penso che la scelta sia quella di cambiare pagina: per una volta non si sceglie la politica. E così anche la lista civica Bernardo avrà all’interno persone e figure che arrivano dalla società civile, quindi non ci saranno politici che arrivano dai partiti, a meno che non si spoglino della figura politica. Chi entrerà nella lista dovrà essere il più bravo nella propria attività e della propria categoria.
A Milano il centrosinistra ha già da tempo individuato un candidato sindaco che sembra più di destra che di sinistra. Con lei il centrodestra ha individuato un candidato che sembra più di sinistra?
Luca Bernardo è andato alle Feste de L’Unità, alle sagre e ha sempre collaborato con persone che non erano nè di Sinistra nè di Destra ma che avevano voglia di fare nel sociale e nella solidarietà: io guardo la persona. Io attingo e spero di attingere a tutti indistintamente perchè noi siamo inclusivi e credo che questa sia la cosa che più piace alla gente. Milano ha bisogno di tutti.
Articolo del 7 luglio 2021 di Stefania Chiale per "corriere.it" il 25 settembre 2021. Forzista della prima ora dal 1994, consigliere regionale, assessore, quindi deputato dal 2006 al 2018 nel centrodestra poi nel Partito democratico («colpa» di Matteo Renzi) sognando un «rilancio dell’area moderata». Oggi Maurizio Bernardo è tornato nel centrodestra, «nella casa che mi appartiene» dice, ma ora è il fratello Luca, primario di Pediatria al Fatebenefratelli, a scendere nell’arena politica.
Suo fratello passa nel suo campo e lo fa da candidato sindaco di Milano. Cosa gli ha detto quando è venuto fuori il suo nome?
«Che ero fiero di lui perché per la mia esperienza di 23 anni nelle istituzioni credo che servire la propria città significhi occuparsi delle persone. Lui finora l’ha fatto: averne cura e ascoltarle è il leitmotiv dell’esperienza che ha maturato in questi anni. Gli ho detto di considerarlo un grande onore, il proseguimento della sua attività e la conseguenza di ciò che ha studiato tutta la vita».
Qual è stato finora il rapporto di suo fratello con la politica? Già nel 2006 era stato candidato come consigliere comunale nella lista civica di Letizia Moratti.
«In effetti fu chiamato come rappresentante di un’esperienza civica professionale nella lista Moratti ormai 15 anni fa, come medico. Per il resto non ha mai preso parte alla politica, se non attivamente nella cabina elettorale. Ma ha sempre interloquito con tutti, nel rispetto delle istituzioni e privilegiando l’ospedalità pubblica».
Le altre passioni di suo fratello, oltre alla medicina?
«Ha una grande passione per gli animali, ha cani e gatti che fanno parte della sua famiglia. E poi le arti marziali: in famiglia un po’ tutti siamo dediti alla difesa personale, che significa anche rispetto verso gli altri e controllo di se stessi. Luca è diventato istruttore di Krav Maga, l’arte di difesa israeliana, e ha partecipato a iniziative per insegnare alle donne a difendersi da atti di violenza. L’altra sua caratteristica preponderante è l’altruismo, il mettersi a disposizione, l’essere sempre al servizio, non avere mai sabati o domeniche... Credo questa sia una caratteristica del buon politico come del medico».
Suo fratello corre nel centrodestra che lei ha lasciato e a cui è tornato. Ha consigli da dargli per sfidare Beppe Sala? A chi e a cosa deve guardare oggi il centrodestra a Milano?
«Vedo due direttrici: una è l’area sociale di cui poco ho sentito parlare in questi anni, quindi l’attenzione verso le persone e le periferie, perché le circoscrizioni a Milano sono 9. L’altro è il coinvolgimento degli attori dell’economia e della finanza per il rilancio della città. La campagna inizia ora, ma abituato lui all’emergenza-urgenza saprà rispondere anche a questa».
“RIMBORSOPOLI”: NICOLE MINETTI PATTEGGIA E VIENE CONDANNATA A 13 MESI. CONFERMATA LA CONDANNA A RENZO BOSSI, “IL TROTA”. Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2021. La pena per le «spese pazze» relative al periodo in cui era in consiglio regionale, in continuazione con i 2 anni e 10 mesi inflitti per il processo «Ruby bis». Al «Trota» 2 anni e mezzo. Il collegio della seconda Corte d’Appello di Milano presieduto dal giudice dr.ssa Daniela Polizzi ha dato semaforo verde al “concordato in appello”, cioè ad un patteggiamento, per 10 politici o ex consiglieri regionali, tra cui Nicole Minetti, ex igienista dentale di Silvio Berlusconi nonché ex consigliera regionale lombarda imputata nel processo di appello con al centro la vicenda giudiziaria, meglio nota come “Rimborsopoli” alla Regione Lombardia, relativo alle “spese folli” relative al periodo in cui era in consiglio regionale, ha patteggiato 1 anno e 1 mese in continuazione con i 2 anni e 10 mesi inflitti per il processo “Ruby bis“. Confermata la condanna a 2 anni e mezzo per Renzo Bossi, soprannominato all’epoca dei fatti “il Trota”, il figlio di Umberto Bossi. Gli è stata però revocata la confisca disposta in primo grado. 1 anno e 8 mesi di condanna al senatore Massimiliano Romeo ed 1 anno e mezzo per l’europarlamentare Angelo Ciocca entrambi della Lega. L’accusa per i 51 imputati è peculato. I fatti sono avvenuti tra il 2008 e il 2012: stando a quanto emerso nell’inchiesta “Gratta e vinci” coordinata dal pm Paolo Filippini, cene e banchetti di nozze, cocktail e feste erano stati rimborsati dalla Regione per un totale di oltre 3 milioni di euro. Tra le spese di cui Minetti aveva chiesto il rimborso, anche 16 euro per l’acquisto di “Mignottocrazia” il libro di Paolo Guzzanti. Il collegio giudicante presieduto dal giudice Polizzi, nei confronti degli imputati che hanno scelto il rito ordinario ha ridotto molte delle 39 condanne per “intervenuta prescrizione” dei reati commessi nel 2008. In un paio di casi ha anche assolto per qualche capo di imputazione e per qualcuno revocate le confische disposte in primo grado. I politici ed ex politici sono accusati di essersi fatti rimborsare con soldi pubblici spese folli per l’acquisto di cartucce da caccia o ‘gratta e vinci’, oppure cene da centinaia di euro per pochi coperti o per tavolate di 26 persone. Non mancavano i conti per apertivi, drink o lunch in locali di lusso, i costi di sigarette, Red Bull e di videogiochi. La pena più alta sono i 4 anni e 2 mesi per l’ex capogruppo della Lega Stefano Galli che risponde sia di peculato sia di truffa in quanto avrebbe fatto ottenere una consulenza da 196mila euro al genero, anche lui tra gli imputati (l’unico a non essere un politico) e si sarebbe fatto pure rimborsare oltre 6mila euro per il banchetto del matrimonio della figlia. Per l’ex consigliere Angelo Giammario e l’ex assessore Gianluca Rinaldin le condanne sono state di 2 anni 7 mesi e 10 giorni e di 2 anni e 6 mesi e 10 giorni. Sono state di 2 anni e 7 mesi e 2 anni e mezzo le pene nei confronti di Carlo Saffiotti e Massimo Guarischi, mentre gli ex assessori Monica Rizzi (Lega) e Massimo Buscemi (Fi) sono stati condannati rispettivamente a 2 anni e 1 mese, 2 anni e 1 mese e 15 giorni e Chiara Cremonesi l’ex capogruppo del Pd si è vista da un lato revocare la confisca e dall’altro confermare i 2 anni e 2 mesi inflitti in primo grado. C’è poi stata una serie di condanne tra 1 anno e 7 mesi e 1 anno e 5 mesi. Nella gran parte dei casi è stata sospesa la pena con la non menzione e solo per alcuni disposte le pene accessorie. La Regione Lombardia era stata già risarcita a suo tempo. Le motivazioni saranno depositate in 90 giorni.
Da leggo.it il 5 luglio 2021. Vittorio Feltri guiderà la lista di Fratelli d'Italia alle prossime elezioni amministrative di Milano. Lo ha annunciato la stessa numero uno del partito, Giorgia Meloni, nel corso della presentazione del suo libro a Palazzo Reale. «Sono estremamente fiera di annunciare, non solo che il direttore Vittorio Feltri ha deciso di iscriversi a Fratelli d'Italia, ma l'abbiamo anche convinto con facilità a guidare la nostra lista per le prossime amministrative a Milano» ha spiegato Meloni.
"Non è un lavoro, è una collaborazione". Vittorio Feltri capolista di Fratelli d’Italia a Milano: “Via piste ciclabili e monopattini”. Redazione su Il Riformista il 5 Luglio 2021. “Conosco Giorgia Meloni da molto tempo, vado d’accordo con lei, non sono appassionato particolarmente di politica ma quando mi ha chiesto la disponibilità a candidarmi, ho detto di sì. Se me lo avesse chiesto qualsiasi altro, non avrei accettato”. Dopo l’annuncio di questo pomeriggio dato da Giorgia Meloni, Vittorio Feltri commenta con l’Adnkronos come è arrivato a prendere la decisione di iscriversi a Fratelli d’Italia e guidare la lista di Fdi alle prossime elezioni amministrative così come annunciato nel tardo pomeriggio dalla stessa Meloni (“Sono estremamente fiera di annunciare non solo che il direttore Vittorio Feltri ha deciso di iscriversi a Fratelli d’Italia, ma anche e soprattutto che abbiamo convinto con facilità il direttore a guidare la lista di Fratelli d’Italia alle prossime elezioni amministrative”. “Ho deciso nello spazio di un giorno -rivela- Anche perché, quando si era fatto il mio nome come sindaco, avevo subito detto di no. Ma come consigliere lo posso fare, non la trovo una cosa così devastante per la mia vita -scherza- Aggiungo un’occupazione ad un’occupazione che ho già. Continuerò a fare il direttore editoriale di Libero, perché il consigliere non è che sta lì tutto il giorno. Non è un lavoro, è una collaborazione”, spiega. Sugli obiettivi che si propone da consigliere, Feltri ha le idee chiare: “Io avrei soltanto un paio di obiettivi molto forti: quello di eliminare le piste ciclabili che hanno paralizzato la città, di combattere i monopattini e cercare di restituire a Milano un’immagine anche esteriore che sia migliore di quella che è stata disegnata nell’ultimo anno e mezzo con il Covid. Milano in fondo è rimasta la prima città italiana, cerchiamo di ribadirlo”. Perché per Feltri “Milano è una città che funziona, si tratta di farla funzionare meglio. Mi auguro di poter dare il mio contributo se non riuscirò pazienza”. Sembra ormai al capolinea la ricerca del candidato sindaco del centrodestra a Milano. Sulla città amministrata da Giuseppe Sala, in campo ormai da tempo a caccia del bis, si concentrerà in particolare il vertice della coalizione, in programma nel primo pomeriggio di martedì a Roma. Dopo una serie di porte girevoli con diversi nomi entrati e usciti di scena nelle ultime settimane, da Oscar di Montigny ad Andrea Farinet passando per Alberto Rasia dal Polo e Gabriele Albertini, su Luca Bernardo, pediatra di 54 anni, direttore del dipartimento Materno-infantile Fatebenefratelli, ospedale milanese fiore all’occhiello, c’è anche il via libera di Fratelli d’Italia. Se è assicurato quello della Lega e di Matteo Salvini, primo sponsor del medico, dai vertici di Forza Italia non c’è ancora un sì o no netto. Sta di fatto che Giorgia Meloni, a Milano per presentare il suo libro “Io sono Giorgia” a Palazzo Reale, ha approfittato dell’occasione per incontrare in forma privata proprio Bernardo. “Mi ha fatto un’ottima impressione. È sicuramente un profilo di grande serietà e umanità, da madre non posso che avere una passione per un pediatra. Chiaramente bisognerà parlarne con il resto della coalizione, ci vedremo nelle prossime ore. Confronterò le mie impressioni, che sono sicuramente ottime, con quelle degli alleati”.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza per corriere.it il 30 giugno 2021. La Lombardia è l’unica Regione italiana che ha stabilito per legge parità di diritti e doveri fra soggetti pubblici e privati convenzionati che operano all’interno del servizio sanitario. Le intenzioni della norma n. 31 voluta nel 1997 da Roberto Formigoni sono quelle di promuovere la competitività tra strutture per soddisfare meglio i bisogni dei pazienti, che possono scegliere dove farsi curare, e accorciare le liste d’attesa. E la Regione rimborsa indifferentemente gli uni e gli altri (all’interno di tetti di spesa contrattati). Ma la sanità lombarda presa spesso anche come esempio da esportare in altre regioni, ha davvero un sistema pubblico-privato in grado di garantire cure più tempestive? I dati, forniti dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) e che per la prima volta è possibile rendere pubblici, permettono di capire come funziona nella realtà il modello. Quel che emerge non è una conseguenza dell’intasamento degli ospedali causato dal Covid, perché è stata fotografata la situazione considerando i numeri del 2019. Dopo è andata solo peggio.
Posti letto a confronto
I posti letto totali sono 29.308, 70% pubblici e 30% privati. Vuol dire che di tutti i tipi di ricoveri, oltre 1,2 milioni, il 70% è pubblico e il 30% privato. Intanto su 100 posti letto in un ospedale pubblico, 45 sono occupati da chi entra per un’emergenza passando dal Pronto soccorso. Su 100 posti nel privato, solo 20 pazienti arrivano dal Ps. Per gli altri 80, le strutture accreditate possono programmare per tipologia i ricoveri. Per accedere in ospedale chi ha bisogno di un intervento chirurgico deve prenotarsi la visita specialistica: per le strutture pubbliche c’è un sistema di prenotazione trasparente dove il contact center regionale dice dov’è possibile andare e in che tempi. Per quelle private, invece, bisogna rivolgersi alle singole strutture accreditate che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno mai voluto mettere a disposizione pubblicamente le loro agende, nonostante siano state sollecitate a farlo già a partire dal 2016.
Quali prestazioni offre il privato?
Per una lunga lista di ricoveri e interventi chirurgici il rapporto pubblico-privato 70 a 30 s’inverte, con alti volumi in una serie di prestazioni. Vediamo quali.
Primo: gli interventi ben pagati, spesso a rischio inappropriatezza perché il medico ha ampia discrezionalità nel decidere se è utile o meno eseguirli. Sono quelli per obesità, che le strutture accreditate eseguono per il 74,5%, con un rimborso di 5.681 euro; sulle valvole cardiache, che valgono 21.882 euro e sono svolti dal privato per il 51% (a Milano per il 66,2%); le artrodesi vertebrali, dove vengono inchiodate le vertebre della schiena, fatte per oltre l’80% dal privato. Nell’agosto 2019 il rimborso da 19.723 euro è stato tagliato di quasi il 40% dall’allora direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo, proprio per renderli meno redditizi e tentare di limitare gli interventi inutili.
Interventi più remunerativi
Secondo: le prestazioni più remunerative delle specialità di cardiologia/cardiochirurgia e ortopedia. Si tratta di interventi che prevedono l’impianto di protesi, dove le strutture private già hanno margini di guadagno elevati perché negli acquisti hanno meno vincoli e standard del pubblico. A Milano, dove sono concentrati i colossi della Sanità accreditata, i privati impiantano il 60% dei defibrillatori (rimborso 19.057 euro), il 68% delle valvole cardiache (17.843 euro), l’88% dei bypass coronarici (19.018 euro). Inoltre: il 90% degli interventi sulle articolazioni inferiori (12.101 euro), e il 68% delle sostituzioni di anca e ginocchio (8.534 euro). Nell’intera regione comunque, per gli stessi tipi di intervento, la percentuale di prestazioni svolte dal privato supera il 40%, con punte che arrivano al 77%.
Terzo: su oltre 500 tipi d’intervento, il privato fa la metà del suo fatturato con 25 prestazioni, il pubblico 43. Segnale evidente che l’attività si concentra in ambiti di specialità più convenienti. Le più diffuse riguardano le malattie degenerative del sistema nervoso, che valgono l’8,8% del fatturato, la sostituzione di articolazioni maggiori o il reimpianto degli arti inferiori (8,5%), le diagnosi del sistema muscolo-scheletrico (3,7%), e gli interventi sul sistema cardiovascolare (4,4%).
Milano: dominio del privato
Su Milano, se si prendono in considerazione anche i pazienti da fuori Regione, la sanità privata, rispetto ai grandi ospedali pubblici, raggiunge percentuali tra l’85 e il 97% degli interventi e ricoveri di cardiologia, cardiochirurgia, ortopedia, e quelli ad alto fatturato, ma a rischio di inappropriatezza. È la stessa Regione Lombardia ad ammettere: «La Sanità privata si è concentrata su alcune specifiche linee di attività che, tuttavia, impongono controlli incisivi in termini di appropriatezza» evitando che «gli erogatori si concentrino su attività caratterizzate da buona redditività e da non verificata necessità epidemiologica».
Cosa fa il pubblico?
Gli interventi molto costosi e rischiosi, a partire dai trapianti, che può farli solo l’ospedale pubblico. E poi l’80% delle emorragie cerebrali, l’87% delle leucemie, l’82% delle neoplasie dell’apparato respiratorio, il 75% dell’ossigenazione extracorporea. I neonati gravemente immaturi sono curati per l’87,2% nelle strutture pubbliche. Oltre a tutti quegli interventi poco remunerativi, ma molto comuni: parti (81,8%), aborti (90%), calcoli (80%), polmoniti (78%), appendiciti (83,9%), tonsille (79,3%). Le operazioni per tumore al seno sono, invece, equamente ripartite. A conti fatti gli ospedali pubblici sono in perdita, con la Regione che ogni anno deve ripianare i bilanci: 44 milioni il Policlinico di Milano, 58 il San Paolo e il San Carlo, 87 i Civili di Brescia, 75 il Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Mentre i gruppi privati fanno utili importanti: 27 milioni il gruppo San Donato della famiglia Rotelli, 66,9 l’Humanitas di Gianfelice Rocca, 6,7 la Multimedica di Daniele Schwarz. Certo, il pubblico sconta inefficienze, mentre il privato è più manageriale, ma non basta a spiegare un divario di questa portata.
Le liste d’attesa restano
Le linee guida nazionali danno i tempi: nel caso di rischio di aggravamento rapido della malattia l’intervento chirurgico deve essere eseguito entro 30 giorni. In Regioni comparabili per offerta sanitaria, vediamo altri numeri: in Veneto solo il 6% delle operazioni urgenti sui tumori non viene eseguito entro i 30 giorni, per gli altri interventi gli sforamenti sono del 9%. In Emilia Romagna sono rispettivamente del 22% e del 15%. E questo era l’andamento fino ad attimo prima dell’arrivo della pandemia. Va detto che in quei mesi durissimi, con le strutture pubbliche al collasso, il privato ha messo a disposizione il 40% dei posti letto per pazienti Covid.
Modello da riformare
Tirando le fila, il modello non garantisce nei fatti quella «parità» di diritti e doveri prevista dalla legge regionale, non risolve le liste d’attesa, ma porta pian piano al deperimento del pubblico e all’accaparramento dei medici migliori. A quel punto sarà difficile tornare indietro. Infatti è in discussione un piano di riforma che in autunno dovrà sfociare in una legge, considerata dall’assessore al Welfare Letizia Moratti una delle priorità del proprio mandato. Nelle linee di indirizzo allo studio, l’assessore scrive che è necessario «un miglior governo dell’offerta». Dovrebbe voler dire: ti accredito per fare di più quello che serve e non solo quello che ti conviene. Vedremo se dalle parole si passerà ai fatti. (ha collaborato Alessandro Riggio)
Francesco Gentile per "Il Messaggero" l'1 luglio 2021. Nonostante la condanna ai domiciliari per evasione fiscale, dalla sua villa con vista sul Lago di Como continuava a dare indicazioni ai suoi collaboratori su come frodare il fisco. Così ieri ad Antonio Baldan, il re delle beauty farm, è stata notificata una nuova ordinanza di restare a casa senza comunicare con l'esterno. Con la sua azienda l'imprenditore fornisce 6.500 istituti di estetica e 2mila farmacie con 250 agenti e 90 consulenti. Dagli arresti domiciliari Baldan, come emerso dalle intercettazioni telefoniche, si faceva beffe delle sentenze dei tribunali senza sequestri del suo patrimonio e delle finte trattative per transare parte del debito con l'Agenzia delle Entrate: «M'hanno fatto una pippa... non mi sequestrano... Ormai m'hanno condannato, farò la mia condanna e punto. Tanto che a un certo punto m'hanno quasi convinto e versavo..., avrò versato qualche mese 5mila euro, poi ho detto: no, no caspita, che cosa verso a fare?». Così ieri la Procura di Milano, da tempo impegnata nel perseguire chi evadendo il fisco fa concorrenza sleale, ha spedito la Guardia di Finanza di Lecco a eseguire tre misure cautelari firmate dal giudice per le indagini preliminari Carlo Ottone De Marchi. Il pm Roberto Fontana contesta a Baldan, e ai suoi collaboratori Sandro Sansoni e Maria Liliana Tondi, di aver operato con due società che vendono macchinari per l'estetica su cui è in corso una richiesta di fallimento. I tre avrebbero portato avanti sistematicamente un piano di omissione di ogni adempimento fiscale allo scopo di autofinanziarsi, tanto che le loro società non avevano nessun debito con le banche, ma 19 milioni dovuti al Fisco. Come non bastasse il pm imputa a Baldan anche la distrazione di fondi dall'azienda a scopi personali, l'annotazione di fatture false, l'utilizzo di crediti tributari inesistenti come compensazione e l'acquisizione immotivata di una società di diritto colombiana. Dalle intercettazioni telefoniche sono emersi altri dettagli sui progetti dell'imprenditore, che voleva mettere le mani sui soldi dell'emergenza Covid, sui contributi per la formazione professionale e sui fondi dedicati alla cassa integrazione nonostante non ne avesse bisogno. A Natale scorso questa era la sua idea per l'anno nuovo: «C'è anche da capire gli stipendi... e poi c'è la tredicesima. Visto che è un Natale molto fiacco, non si potrebbe... non so... gli diamo lo stipendio e la tredicesima la facciamo dare dallo Stato? Come fanno quelli che non c'hanno i soldi? Non pagan mica... sento sempre in televisione... la cassa integrazione per coprire altre perdite». Finito agli arresti domiciliari, Baldan continuava a vivere come prima, a dare ordini ai collaboratori, a dare feste in villa con decine di invitati in barba alle norme sanitarie. Di recente aveva acquistato anche, con fondi della società, una barca taxi per girare sul Lago di Como, oltre a un centinaio di bottiglie di vino di pregio da regalare agli ospiti.
MILANO DA BERE ? NO, MILANO CAPITALE DEGLI EVASORI! Il Corriere del Giorno il 30 Giugno 2021. Arrestato Antonio Baldan che faceva l’imprenditore, autofinanziandosi alle spalle del Fisco cioè di tutti i cittadini per decine di milioni di euro, tagliando fuori dal mercato le società oneste che invece rispettano tutti gli adempimenti fiscali e quindi a fronte delle medesime prestazioni non riescono a praticare gli stessi prezzi concorrenziali. Ancora più facile fare l’imprenditore dagli arresti domiciliari alle spalle dei contribuenti. “Baldan Group è un gruppo vincente in ambito nazionale e internazionale, che oggi conta 4.000 punti in Italia, 105 tra uomini e donne che compongono la rete vendita, 45 consulenti beauty, 60 dipendenti ed oltre 30 consulenti specializzati tra cosmetologi, chimici, dermatologi, chirurghi estetici, dietologi e nutrizionisti. Antonio Baldan è l’artefice di questo successo, basato su uno straordinario connubio tra efficaci metodiche high-tech Baldan Group e riconosciute linee cosmetiche e nutrizionali unite ad indovinate strategie di marketing” così Antonio Giuseppe Baldan, 60 anni, si presentava ed auto-esaltava sulla propria pagina Facebook, passato nelle ultime ore dalle vacanze su un lussuoso yacht fra la Costa Smeralda e la Costa Azzurra e le squallide mura del carcere. “Fin da ragazzo affiancando mio padre nella gestione dell’attività, ho capito che innovare e offrire un eccellente customer satisfaction, erano elementi fondamentali per tenere una posizione di leadership di mercato e fidelizzare i clienti” scriveva Antonio Baldan “Mi piace pensare positivo, e cercare opportunità di crescita e consolidamento, anche in periodi particolari come quello che stiamo attraversando”. Finito agli arresti domiciliari dove stava scontando una precedente condanna per reati fiscali, Antonio Baldan si faceva beffe delle sentenze dei tribunali senza sequestri del suo patrimonio, ed intraprendeva trattative ingannevoli fingendo di voler transare parte del debito con l’Agenzia delle Entrate: “M’hanno fatto una pippa ma una pippa….non mi sequestrano… Ormai m’hanno condannato, farò la mia condanna eh punto. Tanto che — diceva ridendo ignaro di essere intercettato — a un certo punto m’hanno quasi convinto e versavo…, avrò versato qualche mese 5.000 euro, due o tre mesi, poi ho detto: no no caspita, che cosa verso 5.000 a fare?, mi dico, tanto che ne verso cinque o mille, allora bastan mille ah ah…“. Così Antonio Baldan faceva l’imprenditore, autofinanziandosi alle spalle del Fisco cioè di tutti i cittadini per decine di milioni di euro, tagliando fuori dal mercato le società oneste che invece rispettano tutti gli adempimenti fiscali e quindi a fronte delle medesime prestazioni non riescono a praticare gli stessi prezzi concorrenziali. Ancora più facile fare l’imprenditore dagli arresti domiciliari alle spalle dei contribuenti. Le intercettazioni telefoniche hanno anche consentito di impedire l’attuazione di una serie di creativi programmi dell’imprenditore, il quale non soddisfatto di non pagare un euro di tasse da anni, progettava di provare a lucrare dallo Stato sui sostegni per il Covid, i contributi per la formazione professionale, e persino la cassa integrazione pur avendo società con le quali “siamo soffocati di lavoro”. Lo Stato scambiato ed utilizzato come Babbo Natale: “C’è anche da capire gli stipendi… e poi c’è la tredicesima. Visto che è un Natale molto fiacco, non si potrebbe…non so…gli diamo lo stipendio e la tredicesima la facciamo dare dallo Stato? Come fanno quelli che non c’hanno i soldi? — si chiedevano l’imprenditore e l’amministratore — Non pagan mica…sento sempre in televisione… la cassa integrazione per coprire altre perdite”. Baldan stava come un pascià agli arresti domiciliari, a giudicare dalle feste con 15/20 invitati che ogni fine settimana organizzava calpestando le normative anti Covid nella sua villa comasca di Alserio, con un recente acquisto online di un nuovo motoveicolo (marca BMW, cilindrata 1250) del valore di circa 20mila euro, o dall’ acquisto (sempre utilizzando i soldi delle società) di un «taxi veneziano» da ormeggiare sul lago di Como, o dall’incetta di 97 bottiglie di vino di pregio giustificandole come “un omaggio per i clienti per il prossimo evento fieristico ‘Baldanprof’ che l’indagato avrebbe voluto organizzare”. Baldan intercettato diceva: “perché facciam la fiera, la faccio qua, la gente viene e quindi penso che è contenta”. Documentati dalle Fiamme Gialle anche trattamenti di chirurgia estetica per la ex moglie e viaggi super lussuosi per i suoi due figli. Sempre secondo gli inquirenti, i soci della società, per sottrarre a tassazione i proventi dell’impresa hanno creato una serie di società estere, nel Regno Unito, Olanda, Svizzera, Germania, gestite di fatto dalla società italiana. Per l’ipotesi di truffa allo Stato l’imprenditore è indagato, ma non è stato arrestato. Baldan avrebbe anche messo in atto “compensazioni di debiti tributari con crediti inesistenti” per una “asserita attività di Ricerca e Sviluppo” e così avrebbe ottenuto “l’erogazione del credito d’imposta per la "formazione 4.0"” per oltre 100mila euro “senza l’effettivo svolgimento dei relativi corsi di formazione” per i dipendenti. Il pm Roberto Fontana ha contestato a Baldan, e ai due collaboratori Sandro Sansoni e Maria Liliana Tondi, di aver operato con due società nel settore della vendita di macchinari per l’estetica, per le quali la Procura ha avanzato richiesta di fallimento, attraverso la sistematica omissione di ogni adempimento fiscale a mo’ di auto finanziamento: talmente vero che, alla data della richiesta di fallimento, per la GdF le società «B&B groppa srl» e «B&M marketing nel benessere srl» incredibilmente non avevano nemmeno un euro di debiti con gli istituti di credito, accumulando 19 milioni di debiti con il Fisco. Il pm imputa agli arrestati anche la distrazione di fondi societari per propri fini personali, l’annotazione di fatture per operazioni inesistenti, l’utilizzo in compensazione di crediti tributari inesistenti e l’acquisizione di una società di diritto colombiana, operazione priva di ogni ragione economico – imprenditoriale. Nella sua ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Carlo Ottone De March si legge: “La professionalità dimostrata da Baldan e dai suoi collaboratori nel commettere i reati contro il patrimonio e contro l’erario e la capacità di reinvestirne i profitti illeciti, con il concorso e la collaborazione di altri soggetti, portano a ritenere concreto il pericolo che gli indagati in forza del sistema illecito radicato messo in atto possano commettere altri delitti della stessa specie». Ai suoi due dipendenti, Sandro Sansoni e Maria Liliana Tondi, arrestati anche loro Antonio Baldan impartiva “specifiche disposizioni anche allo scopo di garantire alle varie operazioni illecite poste in essere un’immagine di apparente regolarità”. In ultimo, si legge che neppure “le istanze di fallimento avanzate nei confronti delle due società” al centro dell’indagine, segnala il gip, “hanno rappresentato un deterrente per Baldan”.
Milano, la sala d'aspetto vuota dei candidati dell'opposizione. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 27 giugno 2021. La scelta dei candidati a sindaco di Milano sta rendendo la “capitale morale d’Italia” una sorta di Luna Park con in mezzo l’albero della cuccagna. L’ultim’ora avverte che è stata offerta la candidatura anche a Vittorio Feltri il quale, con un certo aplomb declina dichiarando che lo stipendio sarebbe troppo basso per un lavoro di cui non sa nulla. Evviva la sincerità. A destra, la confusione è grande ma a sinistra non scherzano. Il sindaco Sala combatte una guerra solitaria ma integrata nel PD come esponente non si sa più bene se verde solitario difensore di piste ciclabili impercorribili in corso Buenos Aires, sempre teso mentre lo sport della sua area consiste nel cercare di farlo fuori. A destra torna Gabriele Albertini che è già stato sindaco di Milano e che è un uomo simpatico, grande imitatore con cui mi sono battuto più di una volta a un Giorno da Pecora, vincendo io ma riconoscendo la sua superiorità nell’imitazione di Paolo VI. Albertini è intelligente spiritoso e competente ma probabilmente stanco per tornare a questo mestiere corrosivo. Salvini va a caccia e dopo aver bocciato Lupi, il quale peraltro è un uomo di grandissime abilità che ha dimostrato anche negli anni in cui dirigeva i lavori della Camera come vicepresidente. È Salvini ad avere tutte le carte in mano come king-maker ma intanto la città è in uno stato di malessere afflitta da tutti i danni che l’amministrazione Sala ha inferto approfittando del lockdown, sicché il ritorno alla vita è ostacolato da una quantità di iniziative malaccorte e di lavori in corso del tutto inutili.
ADDIO ALL’OSCAR. All’inizio nel centrodestra era Oscar di Montigny che però ha mollato: a Silvio Berlusconi non resta altro che constatare come stiamo ancora cercando il candidato per Milano. Al round precedenti ricordiamo che Berlusconi aveva azzardato l’ipotesi di un altro giornalista, Alessandro Sallusti allora direttore del Giornale, oggi è uscito dai ranghi.
LETIZIA INFINITA. La Moratti è rimasta amareggiata perché pensava che fosse naturale offrirle la candidatura dopo aver già dato un’ottima prova di sé, ma non è arrivata. La sua amarezza nasconde neanche troppo velatamente un certo fastidio nei confronti di Salvini benché la stessa Moratti dichiari di approvare una Federazione del centrodestra in cui Forza Italia si dovrebbe unire con la Lega. Ma se dovessimo stare a quel che accade nell’area del centrodestra per vaticinare il futuro di una tale Confederazione, non potremmo che dire che nasce malissimo in un clima di rissosi conflitti e confronti, ricatti e rimpianti. Salvini stesso ha visto il proprio nome lanciato come quello di un candidato possibile ma il leader della Lega ritiene di avere ben altro da fare che non dirigere la metropoli da Palazzo Marino.
È saltato fuori il nome di Roberto Rasia dal polo già sondato da Stefano Bolognini commissario della Lega a Milano e dallo stesso Salvini ma poi sembra che non se n’è fatto più niente mentre la rinuncia di Di Montigny ancora pesa come una cappa di piombo sul cielo del centrodestra.
L’ORTODOSSIA. A sinistra siamo più o meno nell’ortodossia: Enrico Letta è venuto a sostenere Beppe Sala il quale promette tutto il sostegno e la determinazione ad appoggiarlo con il massimo impegno. E dice frasi molto scontate come che per il centrosinistra, per la coalizione, il voto rappresenta una delle prove più importanti qualcosa di più di una semplice elezione amministrativa. Così Sala e Letta hanno formato una coppia costante che permette di fare dei calcoli per ora molto approssimativi sul successo del fronte della sinistra e Sala si concede anche battute generose nei confronti del capo della Lega. Infatti, dice che uno scontro fra lui e Salvini sarebbe un grande confronto politico delle idee per una città e per soluzione dei suoi problemi. Quanto vale il sostegno dei cinque Stelle siamo sempre allo stesso punto perché le liste in tutto sono ben sette. Quanto alla spinosa questione della presenza dei cinque Stelle. Nell’eventuale giunta con un nuovo mandato per Sala, il sindaco conferma che è meglio lasciare i populisti cuocere dal loro brodo finché sono in crisi. Ha cercato quindi così di togliere qualche castagna dal fuoco Enrico Letta il quale confermato per l’occasione che per il momento è meglio non insistere. Ma intanto il sindaco è attaccato dalle opposizioni per non essere ancora riuscito a distribuire un bel pacco di milioni frutto di una colletta dei cittadini di Milano per i loro commercianti agonizzanti anzi asfissiati dal Covid per un pasticcio burocratico ancora non sciolto.
Gabriella Mazzeo per fanpage.it il 19 giugno 2021. I giovani sono assidui frequentatori delle spiagge del Campanello a Castelnuovo del Garda, sul confine con Peschiera. A rendere degradata la zona da un po' di tempo, però, è la presenza di alcune gang protagoniste di furti, atti vandalici e furti. Nella giornata di venerdì una ventina di giovani si sono resi protagonisti di un furto ai danni di un 23enne, annegato in seguito a un tuffo da uno dei due pontili frontali al Campanello. Mentre intervenivano i soccorsi, la gang ha fatto razzia rubando lo zaino della vittima e le borse dei bagnanti che si erano allontanati per dare una mano. Il titolare del bar del lido Campanello spiega che i ragazzi hanno tra i 16 e i 20 anni. "Ci stanno rovinando e fanno paura ai bagnanti. Ormai la situazione è insostenibile, perché spesso entrano nel bar e spaventano gli altri clienti. Occupano il locale in gruppi da dieci, non pagano il conto e rubano di tutto nel frigo. Per tutelarci siamo costretti spesso a restare chiusi. Abbiamo provato a chiamare i poliziotti, a richiedere maggiore sorveglianza ma non è cambiato niente. Questi ragazzi cercano lo scontro con gli agenti, non hanno paura. Li insultano, li provocano e spesso avvengono vere e proprie risse". Il sindaco di Castelnuovo conferma la versione dei fatti, asserendo inoltre che proprio domenica scorsa alcuni giovani hanno picchiato degli agenti della Polfer, bloccando il treno delle 19 e occupando il binario. "Arrivano dalla Lombardia, spesso da Brescia e Milano, con treni regionali del tardo mattino e del primo pomeriggio. Si dirigono alla spiaggia libera che è ormai il loro territorio: minacciano i bagnanti, gli aizzano contro i cani e lanciano sabbia fino a quando la gente non va via. Nel fine settimana arrivano anche in 300 o 400. Si danno appuntamento in chat e poi tornano a casa con l'ultimo treno".
Alberto Francavilla per blitzquotidiano.it il 14 giugno 2021. Cade dal monopattino a Monza, ma le persone che accorrono non lo soccorrono. Anzi, gli rubano il mezzo e scappano via. E pazienza se l’uomo, dopo aver battuto la testa, è finito anche in coma. Com’era la storia del “saremo tutti migliori” dopo il Coronavirus? Ecco un piccolo esempio di come erano tutte speranze mal riposte. E non perché sia colpa del Covid. Ma perché, ieri come oggi, le cose restano uguali. Non è servita la pandemia a far aumentare il senso civico. Anzi, in alcuni casi (leggi popolo della movida che picchia le forze dell’ordine) ha aumentato il senso di frustrazione. Un uomo di 33 anni, originario dello Sri Lanka, è finito in coma dopo essere caduto dal monopattino, a Monza. Mentre era a terra esanime per un forte trauma cranico, un uomo si è avvicinato e gli ha rubato il mezzo di trasporto elettrico. La polizia sta esaminando le immagini delle telecamere di sorveglianza per rintracciarlo. Il 33enne al momento ricoverato in prognosi riservata all’ospedale San Gerardo. Sul luogo dell’incidente sono poi intervenuti i soccorritori e gli agenti della Questura di Monza, per il sospetto investimento di un pedone. Il 33 enne è stato ricoverato al San Gerardo dove ora è nel reparto di Neurochirurgia. Visionate le immagini delle telecamere di sorveglianza della zona, è emersa la reale dinamica dei fatti, ovvero una caduta accidentale e il furto. La Questura sta indagando per risalire all’identità del ladro, che sarebbe ben visibile e quindi facilmente riconoscibile, nelle immagini catturate dalle telecamere.
La lenta agonia della Procura di Milano. L’agonia della procura di Milano: Davigo coinvolto nel caso Amara, De Pasquale e Spadaro indagati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Con due uomini di punta, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati a Brescia come il loro collega Paolo Storari e Piercamillo Davigo che è lì lì per raggiungere il trio, sta andando in pezzi il mito della Procura della repubblica di Milano. Il fortino degli invincibili e intoccabili, quelli che ti procuravano la scossa elettrica prima ancora che tu li avessi sfiorati (bastava lo sguardo o una parola di troppo), ha decisamente perso non solo lo splendore, ma proprio la verginità. Prima vediamo un sostituto procuratore scontento del proprio capo perché secondo lui sta trascurando una certa inchiesta (in cui si parla di una loggia segreta fatta anche di magistrati e finalizzata tra l’altro ad aggiustare i processi), che si rivolge a un amico invece che alle vie istituzionali, consegnandogli materiale coperto da segreto. Poi questo amico, che casualmente è un ex uomo del pool e in seguito membro del Csm, a sua volta sceglie una sorta di passaparola per vie informali, fino ad arrivare, con queste carte che misteriosamente passano di mano in mano, al presidente della commissione Antimafia, che c’entra come i cavoli a merenda e che comunque va subito a spifferarlo in Procura. E intanto, mentre le carte “segrete” volano motu proprio fino a due redazioni di quotidiani, si scopre che colui che veniva chiamato Dottor Sottile forse tanto sottile non era. E forse il mitico Pool di cui ha fatto parte a sua volta non era proprio geniale. E magari ha avuto anche qualche “aiutino”. Poi subentra la famosa maledizione dell’Eni, quella che nel 1993 portò al suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Solo che questa volta i vertici del colosso petrolifero vengono assolti, pur se dopo tre anni di dibattimento e 74 udienze e dopo che i rappresentanti dell’accusa avevano tentato di far entrare nel processo una sorta di cavallo di troia che avrebbe potuto persino portare il presidente Tremolada all’astensione. E questo è già un brutto neo sulla reputazione della Procura di Milano, il primo fatto di cui dovrebbe forse occuparsi il Csm. Anche perché di questo verbale si sono preoccupati anche lo stesso procuratore Greco e la fedelissima aggiunta Laura Pedio, inviandolo a Brescia per competenza. Sicuramente a tutela del presidente Tarantola, pensiamo. A Brescia c’è stata una repentina archiviazione, ma il Csm è stato informato? Non si sa. Quello su cui è invece già stato allertato, insieme al procuratore generale della Cassazione, è un fatto di omissione. Perché aver ignorato la manipolazione di certe chat e aver tenuto fuori dal processo Eni un video che avrebbe giovato alla difesa, ha portato il procuratore aggiunto De Pasquale e il sostituto Spadaro sul banco degli indagati, se così si può dire. E anche sul banco degli sgridati, nella motivazione della sentenza, in cui il tribunale si dice sconcertato per i comportamenti dei rappresentanti dell’accusa. Sarebbe mai successo ai tempi splendidi di Borrelli e Di Pietro? Impensabile. A questo punto, mentre gli uomini di punta della Procura di Milano sembrano cadere come birilli, nella reputazione ma anche nelle carte processuali, il dottor Nicola Gratteri da Catanzaro può veramente cominciare a scaldare i muscoli e farsi la bocca sulla possibilità di succedere a Francesco Greco nell’autunno milanese. Poche sere fa, ospite di una dolcissima Lilli Gruber, sprizzava soddisfazione e infilava gli occhi diritti nella telecamera (un po’ come un tempo faceva Di Pietro), presentandosi come uno diverso dagli uomini del Sistema di Palamara. E quindi anche da quelli del fortino milanese. Non ho mai fatto parte di alcuna corrente, dice, e mai lo farò, per questo ho perso molte occasioni di andare a presiedere Procure prestigiose. Poi vi dico anche che ritengo che i membri del Csm debbano entrare per sorteggio e non per traffici o camarille politiche. Se la carica di Procuratore della repubblica di Milano dovesse essere assegnata tramite referendum popolare, Nicola Gratteri avrebbe già detto al suo collega “fatti più in là” e sarebbe già seduto al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano prima ancora che Greco abbia compiuto i 70 anni, età della pensione dei magistrati. Si spezzerebbe così non solo la tradizione almeno trentennale del fortino di Magistratura democratica, ma anche il permanere di quello stile ambrosiano, intriso di fair play istituzionale e garbo politico molto gradito al ceto dei partiti, quelli contigui fin dai tempi di Mani Pulite, naturalmente. Quel rito ambrosiano che indusse il premier Matteo Renzi a ringraziare il procuratore capo Bruti Liberati per aver consentito l’apertura per tempo dell’Expo. Uno sforzo che non ha però salvato il sindaco Sala dall’arrivare poi a una condanna per falso ideologico, infine tamponata dalla prescrizione. Ma il garbo ambrosiano c’era stato. Quello stile oggi è decisamente incrinato. Il procuratore Greco si era fino a poco tempo fa salvato da situazioni come quella di vera sparatoria all’o.k. Corral tra il suo predecessore Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Ed è uscito abbastanza indenne dal libro di Sallusti, anche se con qualche ombra polemica sui colleghi nominati come suoi aggiunti. Palamara è stato garbato nei suoi confronti, e gli ha consentito di continuare a governare la Procura più famosa d’Italia “con la diligenza del buon padre di famiglia”. Ma gli sono esplose tra le mani, in sequenza, prima la vicenda Storari-Pedio-Davigo e poi il processo Eni, la maledizione del tribunale di Milano fin dai giorni di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini. Ma erano altri tempi, quelli, e Francesco Greco c’era, con il procuratore Borrelli e gli altri del pool. Erano gli anni Novanta. Quelli in cui a cadere nella polvere erano i ministri di giustizia. Claudio Martelli con un’informazione di garanzia, Giovanni Conso e Alfredo Biondi per due decreti che avrebbero cambiato in meglio le regole della custodia cautelare e dei reati contro la pubblica amministrazione. Erano tempi in cui bastava una telefonata del procuratore: signor ministro le sto inviando un’informazione di garanzia, e lui si dimetteva. Oppure si concordava la linea con i direttori dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’Unità (che garantiva la complicità del principale partito della sinistra) e il decreto era affossato. O anche si andava in tv con gli occhi arrossati e la barba lunga a dire che senza manette non si poteva lavorare e l’altro decreto cadeva e in successione anche il governo. Bei tempi, quelli. E il capolavoro dell’abbattimento del ministro Filippo Mancuso? Quello fu un vero combinato disposto Procura-Pds. Il guardasigilli “tecnico” del governo Dini, voluto personalmente dal presidente Scalfaro, fu in realtà il più politico e il più coraggioso. L’unico che non si fece mai intimidire dalla potenza degli uomini della Procura milanese, quello che la inondò di ispezioni. La prima dopo il suicidio di Gabriele Cagliari, illuso e poi deluso dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale e suicida dopo 134 giorni di carcere preventivo. Ma poi altre, per verificare se rispondesse a verità il fatto che gli indagati venissero tenuti in carcere fino a che non avessero confessato e fatto anche “i nomi”. I più gettonati erano quello di Craxi, e in seguito quello di Berlusconi. Un modo di procedere confermato dallo stesso procuratore Borrelli, che candidamente dichiarava: noi non li teniamo in carcere per costringerli alla confessione, ma li liberiamo solo se parlano. Il Sistema Lombardo che evidentemente non turbava i sonni dei componenti del Csm, ma anche che piaceva molto ai discendenti di Vishijnsky, il cui partito allora si chiamava Pds, Partito democratico della sinistra, fratello maggiore del Pd. Così fu inaugurata con la defenestrazione del ministro Mancuso la stagione della sfiducia individuale. Con il quarto ministro guardasigilli abbattuto dal potere della Procura di Milano, uno in fila all’altro. Giusto per rinfrescarci la memoria, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, qualcuno ricorda la fine miserrima delle Commissioni Bicamerali? Si potrebbe alzare il telefono e fare due chiamate a coloro che ne furono i presidenti, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Il primo fu apparentemente travolto dall’arresto di suo fratello, ma la verità è che, proprio mentre la Commissione stava timidamente (così lo ricorda anche Marco Boato, che era presente) affrontando il tema della separazione delle carriere, irruppe in aula e fu distribuito a tutti un Fax dell’Associazione nazionale magistrati con decine di firme di toghe, comprese quelle degli uomini del pool, che intimava di non affrontare nella Commissione il tema giustizia. E l’argomento sparì. La seconda Commissione subì i colpi di un’intervista del pm Gherardo Colombo al Corriere della sera, in cui veniva ricostruita la storia d’Italia come pura storia criminale. Una frase andò diritta al cuore del Presidente Massimo D’Alema: state attenti, che di Tangentopoli abbiamo appena sfiorato la crosta. Fu sufficiente, anche se la guerra-lampo durò tredici giorni, e alla fine chi ci rimise non fu, ovviamente l’uomo del pool ma l’incolpevole ministro di Giustizia Giovanni Maria Flick. Bei tempi davvero. Oggi con tre indagati e un ex in crollo di reputazione pare un po’ difficile che la Procura di Milano abbia la forza, non diciamo di far cadere la ministra della Giustizia, ma neanche di bloccare leggi e decreti. Ma il problema è: questa classe politica, che teoricamente dovrebbe essere più forte di quella che mostrò la propria fragilità abrogando l’immunità parlamentare, ha la capacità di cogliere l’attimo? Pare proprio di no. Ma ci saranno i referendum, e forse quella forza la troveranno direttamente i cittadini.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Simone Mosca per “il Venerdì di Repubblica” il 12 giugno 2021. L'autunno padano nel 1868 non fu allegro per Dostoevskij che lo subì con la moglie durante un tour europeo e se ne lamentò scrivendo a casa. «Due mesi fa attraverso il Sempione ci siamo trasferiti a Milano. Qui il clima è migliore ma la vita più cara, piove molto e per di più ci annoiamo mortalmente». Andrej Burstev, traduttore e interprete simultaneo nato a Mosca nel 1955 e oggi residente in zona Città Studi, insiste sul concetto di "cara", cioè sull'inflazione e la decrescita che non lo fanno felice come un tempo. «È un problema di downshifting, scalare di marcia. Milano negli anni 80, quando arrivai, era un'altra cosa. Chiesi la prima volta 200 mila lire per dieci minuti da interprete a una conferenza. "Meglio se facciamo 500 mila, 200 è poco, che figura facciamo?". Ecco, Milano non è più stata così. Chissà, forse ha sperperato, come sperperiamo noi. Ci somigliamo». La Russia oggi a Milano scalda il cuore di chi per caso si chiama Mosca di cognome (come me); agli altri si nasconde, è una memoria dal sottosuolo, e perciò è una fantasia nutrita di stereotipi, figurine rubate alla rinfusa tra le righe di meschine spy story. O di macchiette riciclate stile Vanzina dai primi del 2000, quando si favoleggiava di oligarchi che depredavano in contanti Montenapoleone e via della Spiga per poi divertirsi la notte in promiscui lettoni offerti dal potere locale. «Amo i pub, qui vicino non è niente male la pizzeria Hot Meeting» confessa con candore ancora Andrej, russo vero che a Mosca, nato privilegiato in pieno comunismo («mio padre era geologo, fece una buona carriera senza doversi inginocchiare») in piazza Puskin e spinto in carrozzina dalla mamma al parco del Cremlino («il più vicino a casa») andava a scuola col nipote di Nikita Kruscev. «Ora è morto anche lui poverino, era dolce e paffuto. E comunque la Russia se mai è stata ricca, lo è stata fino al 2006». Esistono hacker che ricattano il Pianeta da sperduti paesini delle steppe, esiste la Russia a Milano e senza computer da decenni, una comunità sfuggente, gassosa, che viene voglia di respirare proprio ora per capire cosa pensi degli oppositori avvelenati, dei carri armati al confine con l'Ucraina, del via vai di ambasciatori convocati o espulsi. «È complicato» si scusano alla fine pressoché tutte le gocce intercettate della misteriosa nube rifiutando di commentare la geopolitica lasciata al di là degli Urali. Pare che siano circa 4 mila i russi doc residenti a Milano e provincia, sarebbero poco meno di 20 mila contando i russofoni provenienti da Ucraina, Moldavia, Kazakistan, Georgia, insomma dalla galassia dell'antica Urss. Tenendo fuori dal conto gli irregolari, è sicuro che la maggioranza di russi e russofoni ufficiale sia donna (secondo alcune stime almeno per il 70 per cento) così come non c'è dubbio che Milano sia la capitale della Russia italiana. «Due mogli, due figli mandati al classico Manzoni, ma Milano per me è stata un caso» conclude Andrej mostrando la collezione di dischi e nastri con le Early Tapes dei Beatles e la teca in cucina dove luccica la spilla in cirillico che recita "Forza Italia" sotto il viso di Berlusconi. «A Pratica di Mare tradussi Putin che lo incontrava. Ogni traduttore si fa un'opinione che non può rivelare; la mia, da interprete anche di Gorbaciov, è che oggi ci sia troppa aggressività quando è ospite un russo in Italia».
Comunisti e calciatori. Milano per i russi non è un caso. Nel 1946 fu qui che Rossana Rossanda insieme ad intellettuali come Antonio Banfi fondò l'associazione Italia Russia per incoraggiare scambi culturali, affari, spostamenti liberi da un lato all'altro di cortina e ideologie. «Facciamo ancora la stessa cosa, e ne abbiamo superate tante di divergenze senza esporci» ride la direttrice Annalisa Seoni. Sarda che in zona Lampugnano, dopo aver studiato il russo, è rimasta a guidare l'istituzione ora presieduta da Gianni Cervetti. Al fianco ha la collega Anastasja Lobanova, arrivata in Italia dopo aver studiato a Mosca il teatro italiano, le maschere di Pirandello. Uno, nessuno e centomila. «Non sappiamo dire se i russi si facciano notare così poco perché siano schivi, discreti, prudenti, furbi. Sappiamo che si considerano europei mentre gli europei considerano ormai i russi un'incognita, come se prima o poi dovessero esserne divorati». Seoni e Lobanova mostrano le sculture di Aleksej Blagovestnov, moscovita e milanese, che da mesi erano in mostra ma invisibili causa Covid. E ricordano che è da loro che l'ucraino Andry Shevcenko imparò in italiano a dire «Pallone d' Oro» così come insegnarono la lingua di Dante ad Aleksej Mordashov, principale azionista e presidente di Sverstal, colosso minerario ed energetico. Lui sì, Mordashov, uno degli uomini più ricchi di Russia. «L'associazione promuove anzitutto la cultura». Seoni consiglia di recuperare i celebri versi di Tjutcev. «La Russia non si intende con il senno/ né la si misura col comune metro/ la Russia è fatta a modo suo/ in essa si può soltanto credere». Irina Nazarenko, nata in Ucraina nel 1981, sposata con un milanese, ha aperto nel 2019 Knigagrad, piccola libreria in cirillico di zona Chinatown specializzata in titoli per l'infanzia. «Detestavo lavorare per datori che con elasticità italiana chiedevano prestazioni fuori orario». Meglio dedicarsi in proprio e liberi alle fiabe, alle poesie illustrate di Pasternak o Brodsky. «Se siamo una comunità a Milano? A volte. Russia e Ucraina? Bisogna ricordare che in Ucraina oggi è impossibile trovare libri in russo, i punti di vista come vede sono importanti».
Caviale a merenda. Alle colonne di San Lorenzo si siede Uliana Kovaleva, produttrice cinematografica che nel 2009 presentò gli esordienti Riondino e Ragonese in Dieci inverni a Venezia, organizzatrice del Premio Felix, festival di pellicole russe. «Ci sono sei scuole di russo per bambini a Milano. Ognuno sceglie. Per giudicare la Russia di Putin dovrei tornarci. Giudicare l'Italia, invece, è un gioco in cui siamo più bravi di voi. Non capite la magia che abitate. Comunità russa a Milano? Siamo cosmopoliti, amiamo integrarci in silenzio. Orgogliosi noi? Lo siete poco in patria ma all'estero non siete diversi dai russi». Vlada Novikova, originaria di Mariupol, 50 anni, tre lauree, è anche lei sposata con un italiano. «Mi ha convinta a vivere a Milano e poi a Monza. Milano è una meravigliosa velocità». Ha pubblicato un libro su Nicola Benois, leggendario scenografo russo alla Scala. Una volta, ricorda, mandò sua figlia in gita con una schiscetta insolita. «Non c'era nient'altro in casa. Le feci delle crêpes ripiene di caviale». Il caviale si mangiava una volta allo Yar di via Mercalli, scomparsa oasi di vodka e borsch anni 90, si compra ora al Kalinka di via Boscovich, zona Porta Venezia. «Vanno molto la panna acida, l'aringa, i cetrioli, il salame nostrano che agli italiani piace così così» dice con accento incerto Tatiana Kozac alla cassa mentre tre modelle e due studenti infilano nel sacchetto una vodka indecifrabile e un'icona di Maria. «Sant'Ambrogio è veneratissimo in Russia, come San Nicola. I pellegrini o vengono a Milano e vanno a Bari. A Roma no, c'è il Papa» ride Anastasia Lavrikova, arrivata a Milano con la madre nel '94. Nata nella fu Volgograd nel '76, ha cinque figli, ha fondato un'associazione, ha scritto un libro («per ora solo in russo») dove celebra i compatrioti come caso perfetto di integrazione. «Però giudicare la Russia di Putin dall'Italia è come dire dalla panchina all'arbitro quando fischiare». Tuttavia è l'unica a sapere perché Sant'Ambrogio sia così amato dai russi. «Si oppose all'imperatore Teodosio e gli impedì di entrare nella sua basilica milanese».
Stefano Landi per il “Corriere della Sera” l'11 giugno 2021. Le istantanee sono tre, tutte scattate nel centro di Milano. I pitbull che aggrediscono i carabinieri, che sparano per difendersi. Il ring in prima serata in piazza Mercanti, con le sedie dei fast food usate come bombe a mano. Il ragazzino rapinato dalla baby gang in piazza Gae Aulenti, gioiello della Milano che guarda al futuro, un sabato pomeriggio. Messe in fila così raccontano un pessimo film. Chi ama l'enfasi, esagerando, ha subito scomodato le banlieue o il far west. Resta il problema di fondo delle metropoli uscite malconce a livello emotivo da 15 mesi di pandemia. Da inizio anno a Milano sono già 40 i giovani, spesso minorenni, arrestati per risse o violenze in luogo pubblico. Così mentre per giorni in città si discuteva dell'orario di coprifuoco e di mascherine abbassate, ci si perdeva l'aspetto più violento della questione. «Sulla movida incontrollata stiamo lavorando con prefetto e questore, il vero problema è che sono molte le aree da vigilare - spiega il sindaco Beppe Sala -. Abbiamo puntato molto nel periodo precedente sul controllo della Darsena, di Garibaldi, adesso è chiaro che le Colonne di San Lorenzo sono un problema e i cittadini che ci abitano hanno diritto ad essere più tranquilli». Le metropoli si nutrono di una conflittualità latente. Solo che ora di latente c'è poco, tra bottigliate, coltelli e pure un machete tra un gin tonic e l'altro, il conto del disagio sociale sta venendo fuori tutto insieme. «Purtroppo il nostro è un po' un gioco di rincorsa perché le forze dell'ordine hanno una dimensione che non è sufficiente per gestire tutto questo fermento», continua Sala, che sa quanto quel fermento in tema di sicurezza possa muovere la bilancia a quattro mesi dalle elezioni per palazzo Marino. Dai Navigli all'Isola, due dei «quartieri da bere» della città, i residenti chiedono presidi delle forze dell'ordine. Ma nello stesso tempo sta nascendo un fronte collettivo per riempire quel vuoto sociale che sta montando facendo danni. Succede soprattutto ai piedi dei grattacieli di piazza Gae Aulenti, nella piccola Manhattan all'italiana nata sulle ceneri della Milano anni Ottanta. Là dove c'era una città triste e vuota ora c'è l'erba della Biblioteca degli Alberi. Mille progetti, cultura nel parco. Funzionava quando Milano viaggiava col pilota automatico, deve farlo soprattutto ora che c'è da ripartire. Perché anche tra queste panchine, i vari lockdown hanno fatto proliferare baby gang specializzate in piccoli furti e aggressioni verbali. L'ultima sabato davanti a centinaia di persone. Vittima un undicenne, al quale sono state rubate le scarpe firmate. «C'è un disagio evidente. In vari contesti è venuto meno il controllo familiare, senza nemmeno l'aiuto della scuola. Con le attività chiuse per protocollo. Così l'energia a quella età implode», spiega Kelly Russel, direttore della Fondazione Catella. Nel parco intorno a piazza Gae Aulenti ultimamente sono aumentati anche i controlli della vigilanza privata. Perché dalle aggregazione è facile sfociare nelle baby gang. Pur senza i picchi di violenza registrati nel resto della città, la situazione è peggiorata dopo il secondo lockdown. E una manciata di ragazzi sono diventati centinaia, facendo scattare spesso la legge del branco. «A marzo nessuno usciva, le cose sono peggiorate a ottobre con le scuole chiuse. Ora che le classi richiudono si dovrà monitorare la situazione - continua Russel -. Cercheremo di coinvolgere anche associazioni che lavorano con i giovani. C'è una fascia d'età che si è sentita abbandonata in una fase complessa della vita». Nella zona ci sono 10 ettari di parco non recintati. E mentre in città torna a farsi sentire chi vorrebbe chiudere e alzare barriere per controllare le notti, anche i comitati si muovono. C'è chi pensa di ripristinare l'antico e poco futurista metodo delle ronde: genitori in giro in massa per controllare gli spazi dei loro figli. «Dobbiamo lavorare soprattutto sull'offerta. Sulle proposte per i giovani. Uno skatepark, campi sportivi...» dice la portavoce di uno dei comitati, Serena Masi. Un modo per costruire invece che limitarsi a reprimere.
Claudia Osmetti per "Libero Quotidiano" il 10 giugno 2021. L'artigianato milanese non parla più italiano. In almeno due settori (l'edilizia e i servizi per le pulizie), tra l'altro due ambiti storici per Milano, ci sono più ditte straniere che lombarde. A dirlo è l'ultimo rapporto dell'Unione artigiani della Madonnina: «Abbiamo numeri simbolici che segnano la storia, e questo ne è un esempio», commenta Marco Accornero, il segretario della categoria sotto piazza Duomo, sfogliando la cinquantina di pagine che certifica (tabelle alla mano) il sorpasso dei suoi colleghi con un passaporto in tasca. In percentuali: il 52% delle aziende edili meneghine è gestito da cittadini che non sono nati in Italia e ben il 63% di quelle che si occupano, a vario titolo, di pulizie e affini idem. Tutto legittimo, per carità, e, tra l'altro, tutto pure previsto, dato che la crescita (esponenziale) degli artigiani stranieri va avanti, inesorabile, dal 2009. E infatti mica è detto che si fermi qui, al contrario. La presenza straniera nell'alimentare è al 47%, nel tessile al 43: significa che il raddoppio è dietro l'angolo. «È un fenomeno che parte da lontano», spiega Accornero, «e che oggi non si ferma con le mani». Come a ribadire, oramai è fatta. Milano sarà la capitale economica del Paese, ma non è un caso che proprio qui, in dieci anni, gli imprenditori non italiani sono cresciuti del 70,66%. Ovvio, basta uscire un po' dalla città e il discorso cambia: già nell'area metropolitana la presenza di imprese straniere cala e nella vicina Brianza passa dal complessivo 46% milanese al basso 15%. Però il dato c'è, la direzione è tracciata. Dopodiché ce la possiamo raccontare come vogliamo: che ci sono ambiti in cui gli italiani (pardon, i lombardi) resistono, come le strutture mediche che hanno una presenza di stranieri piccina picciò e ridotta al 2%, o le ditte che lavorano con i motori e che, in nove casi su dieci, restano gestite dagli italiani. Ma solo l'anno scorso, quindi in piena pandemia, le imprese individuali degli stranieri sono cresciute del 2%, per un numero sull'unghia di 511 nuove unità. Non son poche. «Da un lato», fanno sapere dall'Unione artigiani, «questo scenario porta il rammarico per un lavoro, il nostro, che è scelto sempre meno dai connazionali, ma dall'altro testimonia un fenomeno di integrazione che ha ricadute reali». Gli stranieri censiti, non è nemmeno il caso di sottolinearlo, sono in regola, pagano le tasse e si confrontano con la burocrazia tricolore esattamente come fanno i colleghi italiani. Da dove vengono? In massima parte (al 41%) dal Nord-Africa. Poi ci sono gli europei (31%), gli asiatici (15%), i sudamericani (12%) e appena uno su cento degli imprenditori stranieri di Milano è statunitense o canadese. Nell'edilizia vanno forte gli egiziani, ma anche i marocchini e i tunisini. L'Egitto la fa da padrone, tuttavia, anche nell'alimentare. I cinesi spadroneggiano nella cura della persona e nell'elettronica, i pakistani nelle stamperie. Si tratta in stragrande maggioranza di uomini e quando si dice cittadini comunitari bisogna tenere a mente che si parla, per lo più di persone provenienti dall'est europeo: Romania, Albania, Ucraina, Moldavia e Bulgaria. Un titolare di un'azienda artigiana su cinque, nel milanese, è straniero, mentre tra i dipendenti il rapporto sale addirittura di uno a quattro. Se l'anno del Covid ha aperto, nel complesso, 20.790 posti di lavoro tra Milano e il suo hinterland, Accornero chiosa che «come associazione di categoria, sosteniamo tutti gli artigiani che si rimboccano le maniche e che rispettano le regole con una concorrenza leale».
Patrizia Groppelli Per CHI il 10 giugno 2021.
Letizia Moratti: per tutti donna Letizia, sia che in quel momento stia vestendo i panni del presidente, oppure sia calata in quelli di ministro, o di sindaco. Già, perché poche donne – ma anche pochissimi uomini – possono vantare un curriculum come il suo. Dove c’è un problema, dove servono competenze, autorevolezza e prestigio arriva lei, crocerossina di Stato. L’ultima impresa è stata liberare i lombardi dal Covid.
Domanda. Impresa disperata?
Risposta. «Innanzitutto un’impresa riuscita».
D. Tutto merito suo o anche un po’ di fortuna?
R. «Non nego che la fortuna aiuti. La mia ha più nomi».
D. Elenchiamoli...
R. «Il governatore Attilio Fontana, Guido Bertolaso – un organizzatore eccezionale che conobbi da sindaco di Milano durante l’emergenza terremoto all’Aquila – e poi i nomi delle migliaia di nostri medici, infermieri e volontari».
D. Ma partiamo dall’inizio. Chi sono stati i suoi maestri?
R. «La signorina Rossi, Luisa Cogliati e Anna Marchetti».
D. Non pervenuti su Wikipedia.
R. «Già, eppure lo meriterebbero: sono persone che hanno in mano le nostre vite, sono i maestri. La prima, quando ero bimba alle scuole elementari Collegio delle Fanciulle di Milano, mi ha fatto amare la scuola; la seconda al liceo, professoressa di storia dell’arte, mi ha inculcato il gusto del bello; la terza, beh...».
D. Dica...
R. «È che io non ero brava in matematica, lei sì, e alle medie è riuscita a farmi amare anche i numeri».
D. Vede che la fortuna esiste...
R. «Ma la mia fortuna nasce ancora prima, in famiglia».
D. Famiglia importante, quella dei Brichetto Arnaboldi.
R. «Non mi riferisco al blasone, ma al mix di arti, mestieri e inflessioni che ho respirato crescendo».
D. Spieghi meglio.
R. «Un po’ complicato, ma mi segua: nonna materna, Letizia, metà padovana e metà cremonese; nonno materno pugliese; nonna paterna lombarda; nonno paterno genovese».
D. Veniamo alle arti e mestieri.
R. «Nonna Letizia, che aveva una grande passione per la politica, aiutava il fratello nella gestione della campagna e delle fabbriche. Suo marito Michele è stato in banca tutta la vita, direttore del Credito Italiano: inventò pure formule matematiche innovative in ambito bancario.
Nonna Emilia, molto amica di Benedetto Croce, leggeva i classici greci e latini in lingua originale: quando andavo a trovarla c’era da perdersi in quei libri. A Milano teneva un salotto letterario frequentato: lì ho conosciuto, tra gli altri, Montale, Piovene e Bachelli».
D. C’è da perdersi la testa in tanto parentado.
R. «E non le ho ancora detto che c’era pure bisnonna Bice, pittrice come nonna Letizia e pure due mie zie. Ho preso da loro il grande amore per l’arte. Eppure...».
D. Eppure cosa?
R. «Mi hanno cresciuto come un maschio, io che da bambina sognavo di fare la ballerina».
D. Senza mettere in dubbio le sue doti artistiche, diciamo che ci hanno visto giusto.
R. «Mamma Paola, la donna più dolce mai conosciuta, papà Paolo molto severo. Non so, forse voleva un figlio e si è ritrovato con due bimbe, io la maggiore, ed è andata così. Con mia sorella Beatrice, tre anni meno di me, è rimasto un legame molto forte. Lei è una crocerossina e mi aiuta tantissimo nell’accudire la nostra mamma».
D. L’ultimo consiglio di suo padre, eroe della Resistenza non comunista rinchiuso nel campo di concentramento di Dachau e liberato dal generale Patton?
R. «Non l’ultimo, ma tra i più importanti: “Letizia, se credi davvero in San Patrignano non avere paura e combatti per difendere le tue idee come ho fatto io”».
D. E lei ha combattuto.
R. «Io e Gian Marco, senza alcuna esitazione. Ancora oggi considero quella comunità la mia famiglia allargata, che va ad aggiungersi a quella naturale: è un punto fermo della mia vita. Se ne occupa mio figlio Gabriele, affiancando chi manda avanti la comunità, e questo mi dà gioia, un senso di continuità rispetto a quello che abbiamo fatto io e Gian Marco».
D. Passo indietro: dove ha conosciuto Gian Marco Moratti?
R. «È successo qualche giorno prima della maturità».
D. La famosa notte prima degli esami, un capolavoro di Venditti...
R. «Più o meno, solo che, poi, noi non ci siamo più visti per un anno. Lo rividi e non ebbi dubbi: è l’amore della mia vita».
D. Era pur sempre un Moratti...
R. «Capisco l’allusione ma non è andata così. Ho sempre voluto essere autonoma finanziariamente, tanto che abbiamo scelto la separazione dei beni. Per cinquant’anni ci siamo amati e abbiamo condiviso tutto, ma proprio tutto, dalla famiglia al sostenerci nel lavoro, dove mi sono sempre arrangiata da sola».
D. Non ne dubitiamo.
R. «Ho iniziato a lavorare a vent’anni, a ventuno mi sono laureata e il giorno seguente ero reclutata come assistente, due giorni dopo ero in aula a fare esami. Poi ho aperto una mia società di brokeraggio perché in quella di mio padre, dove avevo iniziato a collaborare, non mi trovavo più. Le mie idee in quel settore erano troppo innovative per lui».
D. Sapeva già allora che sarebbe diventata “donna Letizia”?
R. «Pensi che dopo aver archiviato i sogni da ballerina volevo fare l’architetto: tutta quell’arte e bellezza che avevo respirato da bambina mi aveva condizionato».
D. Architetto?
R. «Già, e l’avrei fatto se proprio quell’anno – siamo nel 1969 – l’università di architettura di Milano non fosse di fatto inagibile, travolta dal vento del ’68. Così scelsi Scienze politiche».
D. Non tutte le rivoluzioni vengono per nuocere...
R. «Le assicuro che non è stata una passeggiata. Ogni tappa della mia vita è stata una scalata, ho vissuto sulla mia pelle il pregiudizio verso le donne ai vertici».
D. All’Italia e soprattutto a Milano lei ha dato molto. Che cosa ha avuto in cambio?
R. «Quando giro per la mia città vedo i suoi musei, i suoi teatri, i suoi nuovi quartieri e la metropolitana che avanza: ecco, tutto questo mi ripaga di tanto lavoro».
D. Tanto tempo tolto alla sua famiglia?
R. «Sì tanto. Ma sono convinta che il tempo non si misuri, ma si pesi: è una questione di qualità, non di quantità. E, da questo punto di vista, con le persone più care non ho sprecato neppure un minuto. Anche se ho sempre avuto e continuo ad avere sensi di colpa per non offrire sufficiente tempo agli affetti più cari».
D. Mai una concessione?
R. «Il mio diversivo è fare lunghe passeggiate con Black, il mio cane trovatello. E poi, ovviamente, infilarmi nelle mostre che meritano».
D. Quanto le manca Gian Marco?
R. «Fisicamente tanto, è ovvio. Ma in realtà lo sento vicino a me in ogni momento: è come se la morte non ci avesse mai diviso. E poi...».
D. E poi?
R. «La nostra canzone preferita è stata Smile, di Michael Jackson. Racconta di quanto sia importante sorridere anche nei momenti più difficili. Io e lui lo abbiamo sempre fatto, io continuo a farlo».
Accoltellamenti e sparatorie: la mappa della Milano violenta. Giovanni Giacalone il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. Il numero di reati, anche gravi, è in costante crescita nel capoluogo lombardo: negli ultimi giorni un peruviano è stato ucciso a coltellate e un 26enne italiano ferito alla pancia da due maghrebini. La criminalità e il degrado dilagano a Milano. Ancora un accoltellamento nei pressi delle Colonne di San Lorenzo, nota zona della movida milanese divenuta roccaforte di spacciatori maghrebini senza scrupoli che fanno il bello e il cattivo tempo. Decisamente strana l'ultima aggressione, avvenuta nella notte di sabato scorso a un 26enne italiano incensurato, in Corso di Porta Ticinese, per mano di due maghrebini. Nessuna minaccia, nessuna rapina, i due hanno avvicinato la vittima, l'hanno accoltellata e si sono allontanati. Il ragazzo è stato immediatamente trasportato al Policlinico in codice giallo. La ferita è fortunatamente risultata lieve e non vi è stato bisogno di ricorrere ai punti di sutura; la prognosi è di otto giorni. Le indagini sono ancora in corso in quanto le dinamiche dell'aggressione risultano alquanto insolite ed anche la motivazione è poco chiara. In base agli elementi resi noti finora, non sembrano esserci dubbi sul fatto che i due aggressori si siano avvicinati con l'intento di ferire la vittima, resasi conto del colpo ricevuto soltanto quando i due maghrebini si stavano già allontanando. Questo è un classico, in quanto chi è abituato a utilizzare armi bianche in strada e vuole colpire una persona, la lama non la fa vedere e molto spesso la vittima si rende conto di essere stata accoltellata soltanto dopo aver ricevuto il colpo. Differente è invece il caso della rapina, dove la lama viene mostrata per minacciare e dunque intimorire la vittima. Altro aspetto interessante riguarda la ferita che non è risultata profonda, tanto che non vi è stato neanche bisogno di punti. Gli assalitori erano inesperti? Difficile crederlo vista la modalità con la quale hanno avvicinato e colpito il 26enne; è più probabile che non volessero infierire più di tanto, ma solo "ammonire", forse un avvertimento, ma in relazione a cosa?
Le Colonne, zona franca e roccaforte dello spaccio. Il punto dell'accoltellamento precedentemente citato è a soli 300 metri dalle oramai famigerate Colonne di San Lorenzo, zona dove spacciatori maghrebini muniti di coltelli, bottiglie da rompere a necessità e con pitbull al guinzaglio, spadroneggiano e spacciano indisturbati. Chi bazzica l'area che va dai Navigli a Corso di Porta Ticinese lo sa bene, se si vuole comprare lo stupefacente, basta andare alle Colonne o in via Gola, altra zona da tempo degradata e problematica, come già illustrato nel dettaglio poco più di un anno fa da "Il Giornale. Le Colonne erano già finite al centro di aspre polemiche in seguito al gravissimo episodio avvenuto nella notte di venerdì 28 maggio quando i carabinieri erano intervenuti in soccorso di due turisti tedeschi rapinati da alcuni maghrebini poi individuati nella movida e che avevano a loro volta sguinzagliato un pitbull contro i militari, costringendoli così a sparare. Alle aggressioni e allo spaccio vanno poi ad aggiungersi tutta una serie di casi non denunciati o che non hanno trovato spazio sulla cronaca in quanto meno gravi ma certamente non di minor importanza, come ad esempio le molestie alle ragazze che passano in questa zona da parte di maghrebini e sbandati; la presenza di personaggi problematici che importunano i passanti, tutte situazioni che rendono invivibile e pericolosa una parte della città che è centralissima e tutto a discapito di commercianti, residenti e cittadini che vi transitano. È chiaro che chi spaccia ha tutto l'interesse a trasformare l'area in una zona franca, come già successo nel quadrilatero di via Gola. In particolare, la zona delle Colonne è d'importanza strategica per lo spaccio in quanto non soltanto hub della movida, ma anche importante via di collegamento tra i Navigli e la zona di via Torino e Duomo, nonchè area particolarmente frequentata anche dagli studenti universitari e fa dunque gola a chi "smercia". È però ammissibile che le autorità permettano tutto ciò? La situazione non è infatti degenerata di recente, ma è così da ben prima del Covid.
Milano allo sbando, la criminalità dilaga. La zona delle Colonne è soltanto una delle numerosissime aree oramai in preda a degrado e criminalità, come quella che da Stazione Centrale va verso Corso Buenos Aires e che include strade oramai off-limits come via Settala, via Scarlatti, via Petrella e via Settembrini, zona dove spaccio e vendita abusiva di merce da parte di immigrati africani trovano campo libero. Allucinante anche la situazione al parco giochi di via Benedetto Marcello, luogo dove bivaccano extracomunitari e disperati, con tanto di "toilette" a cielo aperto. Una situazione disastrosa, a poche centinaia di metri da Corso Buenos Aires, più volte segnalata dai residenti ma senza alcun risultato. Altra zona centralissima in preda a degrado e delinquenza è quella di Porta Venezia dove vengono segnalate risse, danni alle auto parcheggiate, presenza di spacciatori a tutte le ore del giorno e della notte, in particolare nei pressi dei Bastioni, divenuti un accampamento per irregolari con tanto di materassi buttati sui marciapiedi e tende improvvisate. È qui che nel maggio del 2020 l'inviato di Striscia la Notizia, Vittorio Brumotti, venne aggredito a colpi di spranga da un gruppo di spacciatori africani che non avevano gradito la sua presenza in loco. Un anno dopo la situazione non è affatto cambiata, anzi, risulta peggiorata. Altro punto della città allo sbando è quello della Stazione Centrale, in particolare il piazzale antistante, che ha sempre più le sembianze di un campo profughi dove immigrati irregolari in prevalenza africani sono liberi di spacciare, di azzuffarsi, di aggredire le Forze dell'Ordine, rapinare i passanti e persino di avere rapporti sessuali in pieno giorno davanti a tutti. Non certo un bel biglietto da visita per i turisti che giungono in treno a Milano e rischiano la propria incolumità appena usciti dalla Stazione. Nemmeno la zona di Piazza Duomo si salva, come dimostra la violenta rissa scoppiata lo scorso 23 maggio tra giovanissimi in prevalenza di origine africana, in via Orefici, davanti al Kfc. Scena tra l'altro già vista nel medesimo luogo a fine febbraio. Spostandosi fuori dalla circonvallazione, le zone degradate si moltiplicano. Nella parte di Via Padova attorno al Parco Trotter e nel reticolato di strade che vanno verso via Leoncavallo, oltre allo spaccio, vengono anche segnalati bordelli clandestini dove "operano" sia trans che prostitute. Nulla di nuovo, visto che questa zona è da anni toccata da queste problematiche e nonostante i tentativi di "rilancio" da parte dei comitati di quartiere, ben poco si può fare senza il sostegno delle Istituzioni in un'area dove l'illegalità è divenuta la norma. Disastrosa la situazione anche a San Siro, in particolare l'area che ruota attorno a piazza Selinunte, teatro negli ultimi mesi di un numero impressionante di reati e dove ad inizio aprile si verificavano scontri tra agenti in tenuta anti-sommossa e circa 300 ragazzi del quartiere, scesi in strada per assistere alle riprese video del rapper Neima Ezza. In più occasioni i ragazzi del luogo, in prevalenza nordafricani, ma non soltanto, hanno affermato di volersi ispirare ai modelli delle banlieues francesi e in effetti quella zona ne sta prendendo sempre più le sembianze, non tanto per lo spaccio a cielo aperto, aspetto oramai comune anche ad altre zone di Milano, ma in particolare per quanto riguarda l'elevatissima presenza di nordafricani e la difficoltà da parte delle autorità nel verificare quel che avviene all'interno degli edifici popolari. Grossi problemi segnalati anche in zona Corvetto, in particolare dalle parti di Piazza Bologna, dove nella nottata del 24 maggio un cittadino ecuadoriano è stato assalito, picchiato a colpi di spranga e cacciavite e rapinato da un gruppo composto da cinque individui che gli hanno sfilato orecchino e anello. Poco più su, al parchetto di via Nervesa (a suo tempo luogo di ritrovo della famigerata gang salvadoregna MS13), a metà maggio due ventenni originarie di El Salvador venivano assaltate e picchiate, anche con una spranga, da un gruppo composto da una ventina di ragazze. Molto complicata anche la zona tra via Mecenate e via Salomone, in particolare nei pressi dei palazzoni limitrofi al parco Guido Galli. L'area dei palazzoni Aler a Calvairate e quella dell'ex macello di viale Molise risultano altrettanto problematiche; la seconda sottoposta all'attenzione dei media anche dal consigliere regionale leghista Massimiliano Bastoni. Torna poi a farsi sentire la delinquenza latinoamericana, con il tentato omicidio di una donna da parte del suo ex compagno, un 58enne salvadoregno e la tentata rapina con pestaggio a Quarto Oggiaro subita da un 27enne ecuadoriano per mano di tre latinos mercoledì 26 maggio. Il caso che ha però fatto più scalpore è quello dell'omicidio del peruviano Adrian Ybarraguirre Silva, 38 anni, ferito a morte nel pomeriggio di sabato 29 maggio durante un torneo di calcetto in zona Ponte Nuovo che vedeva impegnate alcune squadre amatoriali. Tutto ciò per illustrare come l'emergenza criminalità tocchi un po' tutto il territorio di Milano e tutte le nazionalità, a prescindere che si tratti di zone centralissime o periferia. Non vi è più soltanto il quartiere problematico, ma una fluidità micro-criminale che si espande a macchia di leopardo sul territorio, vale per lo spaccio, la prostituzione ed anche per aggressioni e rapine. Non si parla più poi soltanto di gang latinoamericane (pandillas) ma di "baby-gang" (che di "baby" non hanno poi un bel niente), gruppetti spontanei, non strutturati (a differenza delle pandillas), formati da giovani sia italiani sia stranieri, provenienti da quartieri periferici con i quali spesso si identificano tramite il nome di una strada o il CAP della zona. Queste bande possono agire sul "proprio territorio" o "in trasferta" verso zone più ricche dove è più facile individuare prede da assaltare e derubare. Possono colpire in due o tre, oppure in gruppi di dodici/quindici, incutendo timore al malcapitato (spesso un coetaneo, ma non sempre) a causa dell'aggressività di branco e l'utilizzo di oggetti volti ad offendere. La droga risulta poi un altro problema ampio e diffuso, sia per quanto riguarda lo spaccio in città, sia per quello dell'estrema periferia, con una molteplicità e differenziazione di clienti, dai ragazzi che bazzicano il centro in cerca di "fumo", marijuana, cocaina per allietarsi la nottata, fino ai disperati della linea gialla MM3 che fanno avanti e indietro tra Rogoredo e il centro per procurarsi soldi e poi la dose. In ogni modo, la domanda c'è e dunque le piazze dell'offerta si espandono. È il caso di chiedersi chi ci sia a monte, ma sarebbe una domanda retorica. Del resto la droga a Milano c'è sempre stata, ma il progressivo degrado è segnale di incapacità da parte delle Istituzioni di controllare e prevenire il problema, proprio a causa di un rapido incremento e diffusione. Troppi irregolari e disperati in giro per il territorio, una crescente crisi socio-economica e tanta "roba" da piazzare sul mercato.
Le prospettive tra istituzioni che latitano e criminalità in aumento. I casi discussi sopra sono soltanto la punta della punta dell'iceberg, perchè il numero di reati verificatisi a Milano da inizio anno è ben maggiore. Bisogna infatti tenere bene a mente che non tutti gli episodi vengono citati dai media e se sulle pagine dei giornali finiscono alcuni casi, ve ne sono molti altri di cui non si sa nulla a meno che non si "batte" il territorio e si parla con le persone e con gli addetti ai lavori. Alcuni episodi non vengono nemmeno denunciati. Considerando però l'elevato numero di casi reperiti da inizio anno e sul quale il Centro Studi Machiavelli ha anche pubblicato a inizio settimana un dossier dal titolo "Milano a Mano Armata", è evidente come nel capoluogo lombardo la situazione sia molto seria. Lo scorso aprile il Questore di Milano, Giuseppe Petronzi, aveva affermato in conferenza stampa che i reati a Milano erano in calo rispetto al 2020, una dichiarazione che non può non destare perplessità, considerato anche il fatto che il capoluogo lombardo è già risultato primo in classifica per ben tre anni di fila (2017, 2018 e 2019) nell'indice-criminalità del "Sole 24 Ore". Ci sono due aspetti in particolare da considerare per eventuali previsioni a breve-medio termine: il primo è quello legato alla pesante crisi socio-economica dovuta al Covid, i cui effetti più drammatici non si sono ancora presentati, ma che colpiranno inevitabilmente tutte le categorie, incluse quelle più marginali che vivono di espedienti e reati. In secondo luogo, il flusso ininterrotto di sbarchi (che quasi certamente incrementerà nel periodo estivo) con conseguente arrivo nelle grandi città di altri disperati pronti a tutto pur di sopravvivere in qualche modo. Le Forze dell'Ordine fanno quello che possono, ma non riescono materialmente ad essere sempre ovunque e se le zone degradate e il numero di sbandati continuano a moltiplicarsi, sarà sempre più difficile per gli addetti ai lavori controllare il territorio. Molti dei soggetti arrestati per violenza e spaccio vengono inoltre quasi sempre scarcerati dopo poco, raramente espulsi e dunque liberi di proseguire con le loro "attività".
Giovanni Giacalone. Laurea in Sociologia presso l’Università di Bologna, Master in “Islamic Studies” presso la Trinity Saint David University of Wales con tesi sull’Islam in Italia e ulteriore specializzazione in “Terrorism and Counter-Terrorism” presso l’International Counter-Terrorism Institute di Herzliya, Israele.
Filippo M. Capra per fanpage.it il 3 giugno 2021. Non è nuovo agli investimenti di pedoni l'uomo che nella giornata di ieri ha provocato il grave ferimento di un bambino di tre anni a Paderno Dugnano, in provincia di Milano. Già nel recente passato – secondo quanto raccolto da Fanpage.it – l'anziano, un uomo di 72 anni, si è reso protagonista di incidenti che hanno portato al ferimento di altri pedoni. A differenza di quanto successo ieri, fortunatamente, le vittime non avevano mai riportato ferite gravi. Una costante, però, era la sua fuga. Stando alle informazioni arrivate a Fanpage.it, l'uomo si è sempre allontanato dal luogo dell'incidente. Ieri, per ovvie ragioni, non ha potuto farlo.
Il conducente negativo a droga e alcol. Trovato in uno stato di lucidità, il conducente dell'auto che è piombata sulla famiglia del piccolo di tre anni è risultato negativo ai test antidroga ed etilico. Soccorso, ha riportato diverse fratture: ricoverato, si trova ora all'ospedale Niguarda di Milano dove i medici non lo hanno giudicato in pericolo di vita. Confermata anche l'indiscrezione secondo lui l'uomo non aveva la patente: la licenza di guida gli è stata revocata tempo fa, pare proprio in seguito ad uno degli incidenti provocati da cui era scappato. È accusato di lesioni gravissime.
Il bimbo di 3 anni lotta tra la vita e la morte. Diversa, invece, la situazione clinica del piccolo: portato di corsa in codice rosso al pronto soccorso dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il piccolo non è ancora stato dichiarato fuori pericolo, e lotta tra la vita e la morte. Ferito, in maniera più lieve, anche il padre del piccolo, un uomo di 27 anni che è stato soccorso dagli operatori sanitari intervenuti.
Paola Fucilieri per “il Giornale” il 4 giugno 2021. Quando una vicenda assurda - per dinamiche ed eventi che l'hanno determinata - una volta approfondita si carica di ulteriori elementi negativi, c' è chi si ostina a parlare di karma o destino avverso. Nel nostro caso - quello di un bambino di appena tre anni travolto e quasi ucciso da un'auto guidata da un 72enne entrato nel viale pedonale di un parco pubblico, poi uscito di strada lungo una scarpata piombando così dall' alto sul piccolo e la sua famiglia - le cosiddette «fatalità» c' entrano poco o nulla. Come si è scoperto, infatti, guidava una vecchia Ford Focus grigia sotto sequestro ed era anche senza patente (non l'ha mai conseguita) Salvatore D'Amico, il pregiudicato milanese di 72 anni che domenica mattina, poco dopo mezzogiorno, ha sfiorato la strage al Parco Lago Nord di Paderno Dugnano, un'area verde con due laghetti artificiali riservata ai pedoni, a 15 chilometri a nord di Milano. I carabinieri della tenenza locale, guidati dal capitano Salvatore Marletta e dalla Procura di Monza, non sanno dire cosa D' Amato ci facesse da quelle parti. Confermano però che al momento dell'incidente l'uomo non era sotto l'effetto di alcol o droga come hanno stabilito le analisi a cui è stato sottoposto dopo la tragedia all' ospedale Niguarda. Tuttavia nemmeno un mese prima, il 4 maggio, a Milano, il 72enne aveva investito altri tre pedoni - marito e moglie di 56 e 52 anni originari del Bangladesh e il loro figlio 21enne - quindi era scappato. Quando gli accertamenti della polizia locale avevano condotto sino a lui e D' Amico era stato denunciato per omissione di soccorso l'auto che guidava, la medesima vecchia Ford utilizzata l'altro ieri a Paderno, gli era stata sequestrata e affidata a un'altra persona. La macchina però sembra servisse a D' Amico per dormirci sopra. Quindi, sapendo chi era l'uomo che gliela custodiva e forse grazie a un secondo mazzo di chiavi, non aveva esitato a raggiungerlo e a portarsela via. La vita rocambolesca di D' Amico non riguarda però solo questi episodi stradali. Era stato arrestato nel 2016 sempre a Milano e in pieno centro, in piazza della Repubblica, dopo che, durante un controllo casuale, non solo aveva esibito dei documenti falsi, ma a bordo della sua auto erano state trovate anche delle bustine di cocaina. Scarcerato nel 2017, fino al 2019 era stato agli arresti domiciliari a Milano, dove però non si sa: risulta infatti tuttora residente nel carcere di San Vittore. Da domenica D' Amico è indagato per lesioni gravissime e guida senza patente e resta ricoverato a Niguarda per delle fratture a un femore e al bacino rimediato nel volo dalla scarpata. Il piccolo Lyam, il bimbo milanese che il pregiudicato ha travolto precipitando dalla discesa del parco dove le auto ovviamente non sono ammesse, resta ricoverato in condizioni gravissime all' ospedale Papa Giovanni di Bergamo. Purtroppo il piccolo dopo l'incidente è andato in arresto cardiaco ed stato rianimato per 20 minuti dai soccorritori delle ambulanze prima che le sue frequenze cardiache potessero riprendere e fosse quindi essere caricato sull' elisoccorso per raggiungere Bergamo. Privo di sensi per quel lungo lasso di tempo, il bambino ha subito delle sofferenze cerebrali che non fanno ben sperare per lui. Il padre, un 27enne in un primo tempo rimasto contuso, ora sta bene e con la moglie, rimasta illesa, in queste ore prega e spera al capezzale del loro bambino.
Da "Ansa" il 4 giugno 2021. E' morto nel pomeriggio di oggi il bambino di tre anni investito mercoledì scorso all'interno del Parco Lago Nord di Paderno Dugnano (Milano). Lo ha comunicato l'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove il bimbo era ricoverato. La salma del piccolo resta a disposizione dell'autorità giudiziaria per l'esame autoptico, disposto per la giornata di domani. A investire il bimbo era stato un pensionato di 72 anni che aveva l'auto posta sotto sequestro e la patente revocata. Tra le possibili cause dell'incidente, anche quella del malore. Esclusa dagli inquirenti, invece, la guida in stato di alterazione da alcol o sostanze stupefacenti. L'uomo, già indagato per lesioni stradali gravissime e guida senza patente, potrebbe ora rispondere di omicidio stradale. La sua Citroen era piombata addosso al bambino cadendo da una terrazza panoramica del parco.
Paderno, è morto il bimbo di 3 anni investito nel parco da un 72enne senza patente. Valentina Dardari il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Il piccolo è deceduto in ospedale. Era stato investito da una vettura guidata da un pregiudicato 72enne senza patente. Il bimbo di tre anni che era stato investito al parco mentre si trovava con la famiglia, è morto in ospedale. Lyam Hipolito, questo il suo nome, era stato travolto lo scorso mercoledì, 2 giugno, all’interno del Parco Cava Nord di Paderno Dugnano, comune in provincia di Milano. A comunicare la tragica notizia è stata la struttura ospedaliera dove si trovava ricoverato il bimbo, l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. In mattinata Lyam, rimasto gravemente ferito dall’impatto, aveva smesso di dare segnali di vita, ma il suo cuoricino aveva continuato a battere e i medici dell'ospedale hanno aspettato fino all’ultimo, in attesa forse di un miracolo. Alle 17,10 gli operatori sanitari si sono dovuti arrendere e hanno dichiarato la morte del bimbo.
A investire il bimbo un pregiudicato. Come riportato dal Corriere, i genitori del piccolo sono originari delle Filippine e hanno la cittadinanza italiana. La salma del bimbo resterà ora a disposizione dell’autorità giudiziaria che ha disposto l’autopsia per domani, e dovrà servire agli investigatori per capire l’esatta dinamica del tragico incidente e appurare la piena responsabilità del conducente dell’auto. A investire la famiglia è stato un uomo di 72 anni, risultato in seguito senza patente, adesso accusato di omicidio stradale. Si tratta, secondo quanto emerso, di un pensionato pregiudicato, Salvatore D’Amico, classe 1949, residente a Milano. Anche l’investitore si trova ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Niguarda del capoluogo lombardo. L’uomo avrebbe sfondato una barriera e sarebbe planato nel parco investendo il bimbo. Secondo quanto reso noto, il 72enne viveva a bordo della sua macchina, e il suo indirizzo ufficiale di residenza risulta essere piazza Filangieri 2, ovvero il carcere di San Vittore. L’uomo, come appurato dalle forze dell’ordine, avrebbe precedenti per reati contro il patrimonio e vicende legate a sostanze stupefacenti, tra gli ultimi reati quelli di possesso e spaccio di cocaina. Lo scorso 4 maggio investì tre pedoni e cercò di fuggire, il 7 maggio era stata formalizzata la denuncia nei suoi confronti. D’Amico era riuscito in seguito a riavere le chiavi della vettura che gli erano state precedentemente sequestrate.
Il bimbo non ce l'ha fatta. Il giorno della Festa della Repubblica è piombato a folle velocità nel parco investendo, e poi uccidendo il bimbo di soli tre anni che stava passeggiando con i suoi genitori. Ezio Casati, sindaco di Paderno Dugnano, ha commentato il tragico evento: “In questo momento la cosa che più mi colpisce è che la piccola creatura che ho visto soffrire non ce l'ha fatta. Mi stringo in un abbraccio ai genitori. Nelle prossime ore valuterò cosa fare, ma non escludo che il Comune possa costituirsi parte civile nella causa, anche per rispetto in questo bimbo che stava vivendo una giornata di festa insieme ai suoi genitori”.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Milano cominciò a rinascere dieci anni fa con Giuliano Pisapia. Luca Bottura su L'Espresso l'1 giugno 2021.La lezione di una vittoria della sinistra di popolo e d’élite. Che da allora sconfigge la destra e tiene a bada i Cinque Stelle. È caduto in un silenzio assordante il decimo anniversario di quello che allora parve a molti un momento storico: la Sinistra che riconquistava Milano. Un evento che i più consideravano piuttosto improbabile ancora a pochi giorni dal ballottaggio e che venne oltremodo favorito da un’altra, misconosciuta, pietra miliare: a spostare il comune sentire fu la satira. Giuliano Pisapia, candidato che oggi definiremmo di sinistra/sinistra e che sarebbe bersaglio del fuoco “amico” dei progressisti di stanza a Riyad, si presentava all’ultimo miglio contro i favori del pronostico. Letizia Moratti, ora riemersa agli orrori della cronaca, contava su una vittoria di conserva, sulla prosecuzione della sua Milano da pettinare, più che da bere, amata anche da certo ceto progressista col cuore sulla mancina e l’Iban a destra. Vogliamo ricordare le frotte di consulenti liberal al soldo di suor Letizia? Non vogliamo. Poi, Moratti diede a Pisapia del ladro d’auto sul finire del confronto diretto su Sky. Ne nacque una formidabile contro/narrazione alla Chuck Norris che sui social, i primi social, bagnò il candidato comunista in acque purificatrici. Pisapia che sbriciolava le patatine nei supermercati e le rimetteva negli scaffali, Pisapia che rubava le dentiere alle vecchiette per suonarle come nacchere nei centri sociali… da lì all’epopea di Sucate, immaginario Paese dell’hinterland devoto del futuro sindaco, fu un attimo. Il vento era cambiato. La percezione pure. Il comunista cattivo diventava di colpo una piccola, buffa icona.
Una risata li avrebbe di lì a poco seppelliti. Quel giorno Milano è rinata. Quel giorno Milano si è scossa dal torpore rassegnato di una promessa tradita, quella di Mani Pulite, che veniva dopo i magheggi socialisti degli anni Ottanta a dimostrare che, come cantava Ivan Graziani, è vero: non si può migliorare. Quel giorno una piccola utopia di popolo, politica nel senso migliore, di atto personale messo a servizio degli altri, mise le basi per la città che due lustri dopo è migliore in tutto e aderisce, finalmente, all’etichetta che ai tempi morattiani era solo chiacchiere e distintivo: l’unica entità europea al di qua delle Alpi. Un percorso talmente solido che avrebbe retto, in parte addirittura crescendo di spessore, al cambio di nocchiero in corsa. Al traumatico, per certi versi, avvicendamento con Beppe Sala. Pisapia avrebbe preferito una soluzione interna, ai tempi. Che non avvenne per la solita balbuzie decisionale che sempre permea il fronte cosiddetto radicale. E col giro di valzer morì definitivamente il tono da epopea che aveva accompagnato la valanga arancione. Milano brillava, ma di un lucore più normale. Più rassicurante. Intorno, intanto, era cambiata l’Italia. L’obiettivo non era più quello di fare valanga, ma di sopravviverle. Beppe Sala ha governato benissimo e la fatica che il centrodestra sconta nel trovargli un avversario o avversaria è indice che nella cerchia dei navigli, unico luogo in Italia nel quale il Pd spadroneggia, il fortino è saldamente presidiato. Ma c’è un ma. Forse un paio. Il primo è che, nonostante la plateale buona amministrazione di palazzo Marino, un eventuale “briscolone” spariglierebbe i sondaggi. Il secondo è che Milano ha smesso da parecchio di essere laboratorio. È un’eccezione. L’eccezione per eccellenza. Ma, da lontano, pare al resto del Paese una sorta di fortino radical chic assediato da Lega e Fratelli d’Italia, da una Lombardia che voterebbe centro-destra anche se domani Fontana, Gallera, la Moratti, che ora si bullano di correre più degli altri nelle vaccinazioni, si presentassero sul tetto del Pirellone e cantassero in coro: “Nella prima e seconda fase ne abbiamo ammazzati più noi della peste”. Eppure, nella narrazione forzatamente approssimativa che ho appena fatto, albergano alcuni dati che dovrebbero interessare a quel che resta della sinistra. Il primo è che le primarie servono, chiunque le vinca. Perché compattano eserciti in rotta. Non solo, la vittoria del candidato più (fittiziamente) pericoloso, come fu Pisapia, porta spesso a una sorta di epifania. In un contesto per cui i suoni gutturali di Meloni e Salvini raccolgono voti, e consenso, l’incidente “estremista” di qualche anno fa, un po’ come quello di Vendola in Puglia, hanno ribaltato il tavolo. Il secondo è che l’impopolarità non sempre affossa i progetti. La salva di pernacchie che circonda Enrico Letta dacché ha deciso di guidare le folle, o almeno provarci, sempre che le folle esistano e gli sopravvivano, è rivelatrice. Letta veleggia sui numeri dei suoi predecessori eppure viene tacciato di perdentismo solo perché non ha ceduto all’evoluzione cogente del celebre teorema di De Gasperi. Laddove uno statista lavorava per le prossime generazioni e un politico per le prossime elezioni, il segretario gentile ha deciso di non lavorare, perlomeno, per il prossimo like. Picchia su argomenti identitari per riunire i propri, puntando poi a cavalcare e ad allargare la nicchia. Nell’attesa che un momento Sucate (oggi potremmo chiamarlo momento mojito, ed è avvenuto mica tanto tempo fa) sorrida anche a lui. Il terzo è ultimo attiene alla sempre sottovalutata matematica. Dieci anni fa, per sconfiggere l’esponente locale di un Berlusconi all’epoca dominante, Pisapia radunò una coalizione che andava dalla Bonino a Rifondazione Comunista. Ora: anche al sottoscritto infastidì non poco l’investitura zingarettiana per Conte, roba da sindrome di Stoccolma, o di ‘stoc***o, per restare a Roma e dintorni. Ma i numeri sono chiarissimi: senza trattenere quel che resta dei Cinque Stelle nell’alveo progressista, senza dialogare con chi non è corso a limonare politicamente con le Destre, il Partito Democratico non vince neppure cinque euro al gratta e vinci. L’alternativa, semplicemente, non esiste: sono Italia Viva, o Azione, ad aver bisogno del Pd per sopravvivere. Altro che dettare condizioni. Per questo, l’evento ormai remoto che fa da spunto a questo pezzo, potrebbe e dovrebbe essere rispolverato. Perché la memoria consente di non ripetere errori, talvolta, ma anche di cogliere nuovamente occasioni. Basterebbe, forse, sfuggire alla narrazione dominante, semplificante, da social network, che ha ridotto ogni dinamica del centro-sinistra a una scontro tra gang su basi di sconsolante pochezza. Si può vivere, e bene, senza i tweet di Marcucci. Sempre, naturalmente, che non si abiti a Sucate.
Il degrado di Milano: "I rom occupano con i materassi in spalla". Francesca Galici il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. Sono scene surreali quelle che arrivano dalla periferia di Milano dimenticata dall'amministrazione: illegalità e occupazioni abusive sono all'ordine del giorno. La situazione delle periferie di Milano è sempre più complicata. La propaganda dell'amministrazione comunale sugli interventi effettuati per risanare gravi situazioni si risolve spesso in una bolla di sapone, come dimostrano i reportage effettuati dal consigliere comunale ed europarlamentare della Lega Silvia Sardone. Di recente, l'esponente leghista ha documentato la situazione di via Medici del Vascello, quartiere Merezzate-Santa Giulia, periferia sud-est di Milano. "Negli enormi edifici abbandonati di via Medici del Vascello sono in corso delle occupazioni abusive da parte di rom, con tanto di materassi, che puntualmente spaccano i lucchetti messi dalle proprietà per introdursi senza problemi", ha scritto in una nota Silvia Sardone, portando a conoscenza di una situazione di cui i cittadini della zona si lamentano da tempo. Questo è un quartiere fantasma, dove l'amministrazione si dimentica spesso di intervenire e, quando lo fa, non è così incisiva come dovrebbe. Non era certo difficile prevedere quanto sta accadendo: "Dopo lo sgombero del vicino campo rom irregolare di via Bonfadini avevo paventato la possibilità, nemmeno poi così tanto remota, che alcune famiglie potessero occupare questi immobili dismessi e degradati. Nella vicina ex Intendenza della Finanza e in altri edifici di via dei Pestagalli funziona già così: ci sono stata per un sopralluogo e ho trovato mini-appartamenti, refurtiva varia e sporcizia". Una pratica diffusa, che secondo Silvia Sardone deriva dal fatto che "il Comune di Milano, anche quando sgombera non riesce a garantire la sicurezza dei quartieri perché pensa che il suo lavoro sia finito lì, mentre invece serve presidio del territorio a tutela della legalità. Dopo questa mia ennesima denuncia mi auguro che il sindaco Sala e la sua giunta intervengano subito per sanare la piaga dell’abusivismo che tiene in scacco l’intero quartiere tra via Zama e Rogoredo". L'esasperazione dei cittadini in regola è palpabile. La paura di un incremento della criminalità, che si insinua tra le pieghe delle comunità che vivono senza controllo, è tanta. "“È davvero scandaloso che il Comune di Milano faccia finta di nulla e cerci di nascondere la sabbia sotto il tappeto", ha commentato Davide Ferrari Bardile, referente di alcuni comitati cittadini. E ci hanno provato, i cittadini, a far sentire la loro voce: "Più volte abbiamo segnalato episodi di illegalità e occupazioni abusive ma non siamo mai stati ascoltati. Se è questa la considerazione del sindaco e della sua giunta allora non ci siamo proprio". Perentoria la conclusione di Davide Ferrari Bardile: "Chiediamo lo sgombero degli abusivi e la messa in sicurezza totale degli immobili dismessi tra via Medici del Vascello e via dei Pestagalli per evitare nuove intrusioni. Attendiamo risposte dal Comune".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 24 maggio 2021. Dopo la Milano da bere, la Milano da stuprare. Quanta nostalgia, a quarant' anni di distanza, per una città dove l'illusione di sentirsi qualcuno era affidata al rito fatuo dell'apparenza, alla rucola e alla chiacchiera da foyer. Spazzata via - insieme alla classe politica che ne era l'espressione - la generazione spensierata di rampanti che ne era l'ossatura e la linfa vitale, nella ex capitale morale fiorisce una generazione di ricchi senza volto nè radici nè rappresentanza, miracolati da una economia impalpabile che non richiede conoscenze specifiche ma solo intuizioni fulminee. Sanno che la catastrofe può essere repentina quanto lo è stato il successo. E allora c'è poco da stupirsi se affidano le prove del proprio ego fuori controllo all'unico, immortale strumento di affermazione del maschio dominante: il controllo assoluto sulla donna, brutale, sbrigativo. Non serve essere affascinanti, non serve nemmeno quel po' di chiacchiera da cinepanettone che portava le serate degli anni Ottanta ad approdare sul materasso. Basta la chimica. La cocaina di Alberto Genovese, le benzodiazepine di Antonio Di Fazio, scorciatoie a poco prezzo per saltare a piè pari quel minimo sindacale di corteggiamento dall'esito incerto e approdare direttamente allo stupro puro e semplice. Apparire non serve, anzi questi rituali di sopraffazione si esaltano nei loft blindati come catacombe, unico occhio presente la videocamera destinata a replicare in eterno quei pochi o tanti minuti di dominio totale. Apparire non serve perchè non c'è nulla da mostrare, neanche l'abbronzatura da lettino del seduttore, neanche i muscoli fittizi da palestra. I Genovese, i Di Fazio, sono pallidi e smilzi, non subiscono il feticcio del benessere fisico. Sono inciampati per caso in montagne di soldi ma sanno che anche il denaro come strumento di seduzione ha fatto il suo tempo, nell'arena metropolitana si muove una generazione di donne che si è liberata di quella soggezione davanti al quattrino che un tot di loro mamme si portava appresso. E allora l'unica strada è lo stupro a forza di pillole, l'oggetto reso incosciente, pronto ad essere trascinato nel vuoto infinito che i signori della clic economy portano con sè.
A cura di GLUCK per DAGOSPIA il 20 aprile 2021. Il noto penalista siciliano dà appuntamento alla solita libreria all’Accademia di Corso Porta Vittoria. “Dagospia non è la bocca della verità, ma siete tra i pochi a squarciare il muro di carta omertoso innalzato dai giornali locali, ecco perché la convoco qui tra i tomi dei giuristi che proverrebbero vergogna per lo stato di salute della nostra giustizia di rito ambrosiano”.
Già, prima la rissa e poi la pax armata tra Francesco Greco e Roberto Bichi al Palazzaccio?
“Dopo ci arrivo su quanto accade oggi nel Palazzaccio, simbolo delle ingiustizie perpetrate durante Tangentopoli e delle guerre sotterranee in corso per la successione in autunno del procuratore capo… E vengo al primo punto. Lei segue in tv quel ciràuli di Piercamillo Davigo? L’ex magistrato è apparso in una trasmissione de La7 dedicata alla figura imprenditoriale di Raul Gardini, definito dal professor Marco Fortis un innovatore nel suo campo quanto Jobs o Gates, e l’ha trasformata nell’ennesima puntata di esaltazione di Mani pulite. “I sucidi? Per Davigo sono cose che capitano come a Gabriele Cagliari rinchiuso a San Vittore al quale per ben sei volte gli era stata promessa, e sempre negata, la scarcerazione. Una tortura. Ma il colmo della sfacciataggine -incalza - il ciràuli l’ha raggiunto quando, in pratica, ha sostenuto che, Gardini si è sparato perché il finanziere-amico Cusani gli negava le carte per difendersi…”.
C’era stato l’arresto di Giuseppe Garofano, l’uomo delle mazzette del gruppo Ferruzzi…?
“Già, con Di Pietro che va a prendere il latitante a Ginevra portandosi dietro venti giornalisti che il giorno dopo scrivono che il Cardinale, come lo chiamavano, aveva cantato…Alla faccia del segreto istruttorio”.
E veniamo al secondo punto.
“Lei davvero pensa che il procuratore Greco e il presidente del Tribunale Bichi abbiamo sotterrato l’ascia di guerra dopo i colpi bassi scambiatisi dopo l’assoluzione per lo scandalo Eni-Nigeria? Lì al Palazzaccio, simbolo dei misfatti giuridici di Mani pulite, si continuerà a ‘fari giustizia a manico di mola’, come diciamo noi isolani, cioè grossolanamente. Non ricordo che Greco abbia polemizzato con la corte giudicante quando Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, senza uno straccio di prova e con il collaudato sistema niente prove ma teoremi – lo si evince nelle motivazioni della sentenza dove scrivono che avevano ‘una spiccata capacità a delinquere’ -, sono stati condannati a 6 anni per aver tentato di risanare i conti del Monte dei Paschi. Con i pubblici ministeri da lui guidati, cioè l’accusa, che avevano chiesto per ben tre volte l’archiviazione…”.
Tutti fitùsi, avvocato?
"Ah saperlo. Alla Casa d’asta Ponti gli eredi di Cesarone Romiti (i figli Maurizio e Piergiorgio) hanno affidato la vendita della mobilia e degli arredi accumulata negli anni nella sua Villa Orlando di Bellagio ch’è stata il rifugio preferito di sua moglie Gina. L’esposizione a palazzo Crivelli dei cimeli antichi dell’ex amministratore della Fiat e di Rcs (tra i più preziosi un raro orologio e un pugnale Kumiya), ha fatto sorgere ai suoi visitatori-esperti (e snob) una domanda: a quale antiquario si è affidato il Sor Cesare nel mettere insieme, tra poche cose preziose, tanta paccottiglia? Non poteva farsi consigliare dall’Avvocato, grande intenditore? Dopo il lancio dei jeans alla meneghina, Tony Manero Sala si ripete su Instagram dove si può seguire il nuovo corso ye ye del sindaco. Nel giorno della presentazione della sua lista civica con il logo che richiama i cinque cerchi olimpici l’inquilino di Palazzo Marino sponsorizza sul social l’ultimo disco “Nostalgia” dei Coma-Cose e annota: “In anteprima il vinile dei Coma-Cose (privilegi da sindaco…) E’ questa l’ora giusta per ascoltarlo”.
Più stonato (politicamente) di così Beppe ye ye ha provocato le reazioni dei follower (indignati e non): “Ma riaccenda i riscaldamenti che in città si gela!”
LETTERA A DAGOSPIA SUI “MORTI DI FAMA” “Egregio Dagospia, la seguo da sempre e vorrei che aggiungesse al gustoso album dei suoi morti di fama (o “più che miti, mitomani”) l’antiquario torinese, Marco Voena. Nel catalogo di presentazione (via social) della nascita del suo Art Authenticator, lo Schwarzenegger delle croste antiche scrive che la pensata è figlia del “genio di Marco Voena. Cioè di lui. Grazie”
(lettera firmata)
Risposta: Affido il commento alla sua segnalazione (grazie) all’aforista Stanislaw Jerzy Lec:” Il momento in cui si riconosce la propria mancanza di talento è un lampo di genio”.
Era stata “MilanoFinanza” a parlare (acriticamente) degli appetiti della famiglia Rotelli sul nosocomio romano Fatebenefratelli di proprietà del Vaticano. Dagospia l’ha rilanciata con qualche sospettuccio sulle scorribande Oltre Tevere degli operatori (insaziabili) della sanità privata. Operazioni spesso accompagnate da scandali (o peggio). Qualche giorno fa è stato arrestato il finanziere Gianluigi Torzi per la vendita del palazzo di Sloan Square di Londra, ma con la sua Beaumont Invest Service, si era fatto avanti anche per il salvataggio dello storico ospedale romano nell’isola Tiberina finito nella procedura fallimentare di concordato preventivo. Nell'impresa avrebbe messo il Becciu (cardinalizio) anche il porporato rimosso da Papa Bergoglio. Al Corrierone di Fontana&Veltroni, ovviamente, non trattandosi del benessere dei canili tanto amati (meritoriamente) dalla liquida Michela Brambilla non hanno trovato degno di nota occuparsene. Soltanto una breve in economia con la notizia che il Gruppo San Donato ha deposito una offerta vincolante per il salvataggio del Fatebenefratelli. L’ha fatto l’Espresso con il titolo: “A chi fa gola la sanità vaticana”. Ma è ai giardini “Montanelli” che l’amica col cagnolino mi aggiorna sul potere forte acquisito nel gruppo San Donato dal vice presidente, Kamel Ghribi, dopo la morte del patron Giuseppe Rotelli: “Amico mio, qui a Milano si sussurra che il finanziere tunisino abbia una affettuosa amicizia con la vedova di Giuseppe Rotelli, Gilda Maria Cristina Gastaldi, che ha ricevuto uno stramilionario lascito. Adesso le sue amiche impegnate nel volontariato citano, maliziosamente, il sublime Oscar Wilde nel commentare la diceria, quella che voi chiamate il ronzio delle mosche avvelenate: ‘’Quando è morto suo marito, lei è diventata bionda dal dolore…”. E il testamento? Ah saperlo! Magari al prossimo Stramilano. Buio in sala allo storico cinema “Odeon” nel cuore di Milano. Ma le luci stavolta si accenderanno soltanto nella parte sotterranea del locale dove ci saranno alcuni spazi destinati alla settima arte (che fu) dopo essere stata la prima multisala in città. Lo spettacolo inventato dai fratelli Lumiere torna così in cantina come all’inizio della sua gloriosa storia. Gli investitori della Dea capital real estate (Gruppo De Agostini) guidati da Gianandrea Perco, avrebbero già ricevuto l’interessamento dei grandi magazzini Harrods e Galerie Lafayette. Insomma, come si poteva leggere sin dal 1939 sulla scritta che campeggiava sul boccascena “Ex tenebris vita”…
Chiara Campo per “il Giornale” l'11 aprile 2021. Vietato criticare l'amministrazione sui social o sui forum, la sorveglianza scatterà pure sui commenti pubblicati fuori dall'orario di lavoro sui profili Facebook personali. Il centrodestra ha definito il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti del Comune di Milano «degno del soviet supremo». Beppe Sala sta incassando accese proteste da lavoratori e sindacalisti, l'Rsu si è già rivolta a un avvocato per un giudizio legale. Il regolamento nel mirino è stato approvato lo scorso febbraio ma non è ancora entrato in vigore perché per legge va sottoposto prima a consultazione. E la giunta doveva sentirsi particolarmente tranquilla visto che giorni fa lo ha pubblicato on line aprendo la partecipazione «non solo ai dipendenti ma a tutta comunità milanese». Sotto processo l'articolo 16 che regola i «rapporti con mezzi di informazione e l'utilizzo dei social network». Qualche passaggio? Il dipendente «si astiene dal diffondere con qualunque mezzo, compreso il web o i social network, i blog o i forum, commenti o informazioni compresi foto, video, audio che possano ledere l'immagine del Comune e dei suoi rappresentanti o suscitare riprovazione, polemiche, strumentalizzazioni». Il lavoratore «si impegna a mantenere un comportamento ineccepibile anche nella partecipazione a discussioni su chat o forum on line, mantenendo cautela nell'esprimere opinioni, valutazioni, critiche su fatti o argomenti che interessano l'opinione pubblica o che possano coinvolgere la propria attività all'interno del Comune» e il codice andrà rispettato «anche al di fuori dell'orario di lavoro». Il consigliere comunale di Forza Italia Alessandro De Chirico sintetizza il punto: «Sala vuol mettere il bavaglio ai dipendenti. Forse hanno dato fastidio le tante denunce pubbliche per i disservizi legati al Covid sia in merito alla salute dei lavoratori che ai servizi erogati ai cittadini», vedi gli assembramenti davanti alle (poche) sedi anagrafiche lasciate aperte. Insomma, «guai a dissentire, il regolamento blocca il diritto di critica, spero che i sindacati si facciano sentire con uno sciopero». Un delegato sindacale Rsu - almeno per ora - non si fa problemi a bollare il nuovo codice di comportamento come «un attacco alla libera espressione, alla comunicazione sindacale e al diritto di informazione libera». Se il Comune non farà dietrofront il sindacato passerà alle vie legali. Un conto sono ingiurie o insulti, ma «il diritto di opinione espresso fuori dall'orario di lavoro non può essere punito con il licenziamento e tanto meno può essere spiato il profilo social di un dipendente per controllarne il contenuto». Il confine tra ciò che è lecito o punito con provvedimenti disciplinari o licenziamento rischia di assottigliarsi parecchio, i sindacalisti abituati a mantenere rapporti con la stampa sono preoccupati. Avverte il codice che «il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e politici non consente al dipendente di rilasciare dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell'amministrazione».
La delibera di assunzione è anomala. Il Comune di Milano oscura i titoli del capo dei vigili, Ciacci aveva i requisiti? Paolo Comi su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il gabinetto del sindaco di Milano ha chiesto che venga presentata una querela – a tutela dell’Amministrazione – nei confronti degli organi di informazione, fra cui Il Riformista, che nei giorni scorsi, dopo il servizio televisivo delle Iene, si sono occupati della nomina del comandante della Polizia locale del capoluogo lombardo. Ad assistere Beppe Sala, come si legge nella delibera di giunta, gli avvocati della civica Avvocatura. Le spese di lite, prosegue la delibera, sono al momento “indeterminabili”. Nell’attesa che i magistrati decidano se nei vari articoli sono stati posti in essere “fatti lesivi” per l’immagine del comune di Milano e di Sala, sarebbe interessante sapere se Marco Ciacci aveva i titoli per ricoprire l’incarico di comandante della polizia locale di Milano. Nella delibera di assunzione, firmata da Sala, i titoli posseduti da Ciacci risulterebbero essere stati “omissati”. L’ex responsabile della sezione di polizia giudiziaria della polizia di Stato presso il Palazzo di giustizia di Milano venne scelto da Sala, a settembre del 2017, per sostituire l’allora comandante Antonio Barbato, dimessosi dall’incarico per circostanze mai del tutto chiarite. I titoli “omissati” sono una singolarità, trattandosi di un incarico pubblico. La nomina di Ciacci, che in passato aveva coadiuvato le indagini di Ilda Boccassini nei confronti di Silvio Berlusconi nel procedimento Ruby e che, divenuto comandante della polizia locale, era intervenuto in un sinistro stradale mortale, dove non vennero fatti accertamenti tecnici, causato proprio dalla figlia della pm antimafia, non era stata effettuata ai sensi dell’articolo 110 del Testo unico degli enti locali del 2000. La procedura utilizzata era stata quella del “comando”. La differenza non è di poco conto. I Comuni possono conferire, fornendone esplicita motivazione, incarichi dirigenziali in dotazione organica a soggetti esterni con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, in possesso di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nell’Amministrazione. Queste persone devono aver svolto attività in “organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali”, o “aver conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e/o scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete e qualificate esperienze di lavoro, maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o provenienti dalle aree della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”. La ratio della norma è chiara: si possono assumere, a tempo determinato, professionalità che non sono in quel momento reperibili all’interno dell’Amministrazione. Ed infatti, il regolamento del Comune di Milano prevede che un incarico dirigenziale apicale, come quello di comandante della polizia locale, possa essere affidato a un soggetto esterno all’ente soltanto dopo avere esperito una ricognizione interna, volta ad accertare la mancanza di figure qualificate e idonee ad occuparlo. Nel caso del comandante della polizia municipale sarebbe stato difficile assumere un “esterno” essendo presenti all’interno del Comune di Milano diversi dirigenti in possesso di tutti i requisiti previsti. Dunque, nessuna ricognizione e assunzione tramite l’istituto del comando, con richiesta all’allora capo della polizia Franco Gabrielli di “prestare” Ciacci. Il “comando”, però, è per un periodo limitato di tre anni, durante il quale l’amministrazione provvede a “rimborsare” i costi sostenuti per lo stipendio al “datore di lavoro” originario. In questo caso il Ministero dell’Interno. Il paletto dei tre anni è stato “by passato” da Sala lo scorso anno, disponendo per Ciacci una proroga di un altro anno, fino al prossimo mese di settembre. Se l’assunzione fosse stata effettuata con l’articolo 110, invece, poteva durare per l’intero mandato del sindaco, senza bisogno di proroghe. Il Comune di Milano ha diramato una nota sul disinteresse di Ciacci per la polizia locale di Milano. “Ciacci era già dirigente della polizia di Stato e responsabile della Sezione di polizia giudiziaria, per cui il comando come dirigente della polizia locale non ha certo rappresentato per lui un avanzamento di carriera.” I maligni fanno presente, però, che Ciacci prima di diventare comandante della polizia locale guadagnava circa 70.000 euro l’anno, che ora sono diventati 140.000. Un sacrificio sopportabile. Paolo Comi
Il cambio al vertice dei vigili urbani. Ci fu accordo tra Sala e la Procura? Il sindaco deve fare chiarezza. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Questa volta non c’è moratoria per Beppe Sala, e non c’è un presidente del consiglio che venga a Milano per porgere i propri complimenti alla Procura della repubblica. La tegola c’è ed è pesante. Certo, è solo giornalistica, e oltre a tutto di un giornalismo di nicchia, come è quello delle Iene. Ma molto popolare. Tanto che se ne sta parlando parecchio a Milano, pur se non sui “grandi” giornali, che mantengono un atteggiamento ancora piuttosto british, con la deferenza dovuta al primo cittadino. In fondo non è neanche indagato, questa volta. Ma la tegola c’è. È la storia di quel licenziamento del capo dei vigili urbani Antonio Barbato nell’estate del 2017 e del velocissimo rimpiazzo del medesimo con il capo degli agenti del Palazzo di giustizia Marco Ciacci, braccio destro di Ilda Boccassini. C’è qualcosa di opaco in quella vicenda, protestano le opposizioni in consiglio comunale, e chiedono al sindaco di dare spiegazioni pubbliche. Che lui non dà, per non concedere palcoscenici agli oppositori politici, ma anche perché la situazione è molto imbarazzante, come lui stesso ha dimostrato sfuggendo nervosissimo davanti al giornalista delle Iene che lo aveva braccato con una certa insistenza, come è nello stile (un po’ scortese) della trasmissione. Certo, siamo in campagna elettorale, e il sindaco ha già messo su addirittura otto squadre per giocare al raddoppio. Non ha proprio bisogno di avere casini di questo tipo tra i piedi. Gli è già andata bene una volta, ed era molto più pesante, perché la tegola era giudiziaria, e riguardava il suo ruolo e alcuni suoi comportamenti nella veste di commissario di Expo. Una vicenda che va raccontata tutta, anche perché, dalla lunga “Nota dell’amministrazione comunale” diffusa alla stampa domenica pomeriggio traspare una certa astuzia non degna degli uffici del primo cittadino. Per replicare ai sospetti avanzati dall’ex comandante dei vigili Antonio Barbato, il quale ha esplicitamente denunciato un accordo tra il Comune e la procura della repubblica per far entrare al suo posto Marco Ciacci, la nota sostiene che «la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione per tutti i fatti connessi alla gestione dell’Expo nel gennaio 2016, oltre un anno e mezzo prima che scoppiasse il caso Barbato». In cosa consiste l’astuzia? Nel fatto che in quella richiesta di archiviazione non c’era affatto il nome di Sala, ma altri cinque indagati. E lasciamo perdere quel che è successo in quel periodo al palazzo di giustizia, con il conflitto Bruti Liberati-Robledo, proprio intorno ai fatti di Expo, quelli per cui il presidente del consiglio ha ringraziato per due volte il procuratore della repubblica. Rimane il fatto che, se è vero quel che dice Barbato, e che gli avrebbe riferito l’ex assessore alla sicurezza Carmela Rozza, sulla preoccupazione di Sala per l’inchiesta giudiziaria, tale da non poter rifiutare una richiesta della procura su Marco Ciacci, è perché era nel frattempo intervenuta la procura generale a sanare una grave ingiustizia. E cioè il fatto che si fosse consentito a un candidato alle elezioni comunali di avere una lunga moratoria, con le indagini messe su un binario morto fino a che lui non era stato eletto. Fino a che, non necessariamente “allo scopo di” farlo eleggere. Ma come si fa a non chiedere chiarezza? E siamo sicuri che, con il moralismo imperante anche nella laicissima Milano medaglia d’oro della resistenza, Beppe Sala sarebbe stato eletto sindaco, se si fosse saputo che era indagato per aver falsificato un atto pubblico? Perché del fatto che ci fosse un’inchiesta che lo riguardava tutti noi comuni mortali l’abbiamo saputo solo il 15 dicembre 2016, sei mesi dopo il suo ingresso a Palazzo Marino, quando la procura generale, che nel frattempo aveva avocato a sé l’inchiesta, evidentemente mostrando agli occhi di Matteo Renzi meno “sensibilità istituzionale”, aveva chiesto una proroga alle indagini. Ma l’estensore della “Nota” non demorde. Solo che trae dal ragionamento una conclusione sballata. Soprattutto perché pare ignorare il pesantissimo conflitto che proprio sulla vicenda giudiziaria di Beppe Sala ci fu tra procura della repubblica e procura generale. Semplificando rozzamente, l’una innocentista, l’altra colpevolista. E, se Barbato ha ragione, visto che non abbiamo mai visto una smentita dall’ex assessore Rozza, se amorosi sensi ci sono stati, non fu certo tra il sindaco e chi l’aveva indagato e aveva sostenuto l’accusa nei suoi confronti fino alla condanna (e in seguito la prescrizione). Per dovere di cronaca, ecco le conclusioni su questo punto della Nota: «Dunque è del tutto evidente che, poiché la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione molto prima che Sala diventasse sindaco e la procura generale ha invece portato avanti il rinvio a giudizio nei suoi confronti, la tesi dello “scambio di favori” risulta totalmente fantasiosa, infondata e a dir poco pretestuosa, quindi diffamatoria. E verrà perseguita in sede legale». Finale non molto elegante, pensare di chiedere a un giudice se è vero che un suo collega si è messo d’accordo con un sindaco per imbrogliare un vigile urbano. Ma sono tanti gli elementi di questa storia che non convincono. Anche perché gli interessati non rispondono, né in sede giornalistica né in quella politica. Ci hanno già provato a palazzo Marino nel passato e stanno insistendo in questi giorni. Il capogruppo in consiglio di Forza Italia Fabrizio De Pasquale, che vorrebbe vedere in volto (o in collegamento) il sindaco per chiarire come mai alle dimissioni di Barbato del 10 agosto sia seguita l’11 agosto la fulminea richiesta del Comune al questore per avere l’autorizzazione al comando di Marco Ciacci senza fare un bando. Analoghe richieste della presenza in aula del primo cittadino sono avanzate da Andrea Mascaretti, capogruppo di Fratelli d’Italia e il consigliere della Lega Max Bastoni. Sono tante le spiegazioni che la città si aspetta. Per esempio, se Antonio Barbato, per esser finito nelle intercettazioni di un’inchiesta di mafia in cui sarà sentito dalla pm Boccassini solo come persona informata sui fatti, non era più adatto a dirigere la polizia municipale, perché dopo le dimissioni è stato spostato in una società partecipata del Comune con lo stesso ruolo e le stesse mansioni? Insomma, era degno o indegno? E siamo così sicuri che il suo successore Marco Ciacci non abbia tratto, come dice la Nota, nessun vantaggio nel passare dalla polizia di Stato a quella locale? Neanche il vantaggio economico di veder triplicare la propria retribuzione? E siamo sicuri che questo passaggio così vantaggioso non sia stato anche un premio per il passato e anche in vista del futuro?
La storia dell'ex capo dei vigili di Milano Barbato. Le Iene News il 02 aprile 2021. Nel 2017 l’allora capo della polizia municipale di Milano, Antonio Barbato, si dimette dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Al suo posto il Comune nomina Marco Ciacci, fino ad allora in servizio presso la Procura. Ce ne parla Fabio Agnello. “Ho vissuto una storia molto brutta, che nessuno dovrebbe vivere in un paese come l’Italia”. A parlare con il nostro Fabio Agnello è Antonio Barbato, che fino al 2017 era il comandante della polizia municipale di Milano. In quell’anno però si dimette, dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Uno scandalo che ipotizzava un presunto coinvolgimento perfino delle cosche della criminalità organizzata: Barbato viene accusato di aver incontrato dei mafiosi al fine di far pedinare un vigile sotto il suo comando. Una notizia che ha fatto discutere molto in quei giorni e che è finita al centro della cronaca cittadina. “Io sono stato sentito in qualità di testimone”, ci racconta Barbato. In quell’inchiesta infatti l’ex comandante dei vigili non venne indagato, ma sentito come persona informata sui fatti. Ma sulla stampa le cose vengono presentate in modo molto diverso. “Questa è una cosa che mi fa impazzire e non mi fa dormire la notte, sapendo quello che c’è dietro a questa storia”, ci dice Barbato: “Cioè la sostituzione del comandante Barbato con l’attuale comandante Marco Ciacci”. Al posto di Antonio Barbato il Comune, guidato dal sindaco Beppe Sala, nomina Marco Ciacci, che fino a quel giorno era a capo della polizia giudiziaria della procura di Milano. Possibile che ci sia qualcosa che non torna in questo cambio alla guida della Polizia locale della città? La Iena ce ne parla nel servizio in testa a questo articolo.
Il patto tra Procura e sindaco. Scandalo Expo, così il sindaco Sala si è piegato alla Procura (e fu salvato…). Frank Cimini su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Stop and go. Il bastone e la carota. La magistratura da tempo è consapevole di poter aumentare il potere della categoria e anche quello del singolo magistrato sia facendo le indagini che non facendole. A seconda delle convenienze e delle opportunità con tanti saluti al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale tanto celebrato nei convegni e nei comunicati stampa. Bisogna raccontare di nuovo la storia di Expo, della moratoria sulle indagini per approdare a uno “strano” incidente stradale con un morto e senza alcol test e test antidroga, una storia da nomenklatura moscovita sulla quale i giornaloni oni-oni scelsero di autocensurarsi. Beppe Sala il sindaco di Milano, pronto a ricandidarsi e a essere confermato come primo cittadino per mancanza di avversari decenti al di là dell’alleanza con i Verdi europei che in Italia e in città non esistono, fu uno dei principali beneficiari della moratoria decisa dalla mitica procura che fu di Mani pulite per salvare l’evento. Senza fare gara pubblica, Sala deus ex machina di Expo affidò la ristorazione di due padiglioni a Eatitaly di Oscar Farinetti senza che in un primo momento nessuno dicesse niente. Poi l’anomalia chiamiamola così fu segnalata dall’Anac all’epoca diretta da Raffaele Cantone. Sala venne indagato per abuso d’ufficio e non fu mai interrogato fino alla richiesta di archiviazione. Così ebbe modo di candidarsi a sindaco e di essere eletto nonostante il gigantesco conflitto di interessi tra amministratore di Expo e Comune di Milano che qualcosa da spartire con l’evento l’aveva. La procura nella richiesta di archiviazione ammetteva che di fatto Sala aveva favorito Farinetti ma senza averne l’intenzione. Insomma una sorta di “a sua insaputa” di scajolana memoria. L’accusa di abuso d’ufficio venne archiviata dal gip. Il giudice che firmò il provvedimento era stato tra i vertici del Tribunale che sui fondi di Expo giustizia avevano deciso di non fare gare pubbliche per l’affidamento dei fondi, ricorrendo ad aziende «in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione». Una di queste aziende aveva sede nel paradiso fiscale del Delaware e ancora oggi non sappiamo a chi appartenesse. Ma possiamo affermare tranquillamente che la società non era di Silvio Berlusconi. Insomma Sala fu salvato anche perché aveva assunto la stessa iniziativa dei giudici, oltre che per non far saltare del tutto l’evento. Sui fondi di Expo giustizia nacque un fascicolo di indagine che per il sospetto fossero coinvolti dei giudici in servizio a Milano fece il giro di diverse procure, Brescia, Venezia, Trento. E qui venne tutto archiviato senza neanche iscrizioni al registro degli indagati e interrogatori perché cane non mangia cane. Qui tornano in mente le parole dell’allora premier Matteo Renzi che per ben due volte ringraziò la procura che aveva dimostrato senso di responsabilità istituzionale. Per aver falsificato la data della sostituzione di due componenti di una commissione aggiudicatrice Sala venne indagato solo perché era intervenuta la procura generale della Repubblica avocando l’inchiesta. La procura aveva fatto finta di niente. Alla fine il sindaco è stato condannato sia in primo grado sia in appello a sei mesi mutuati in una sanzione pecuniaria. Nel frattempo scattava la prescrizione alla quale il primo cittadino non ha legittimamente rinunciato. A nessun imputato si può chiedere né tantomeno imporre di farlo. È un principio di civiltà. In tutta questa storia non possiamo non ricordare che la giunta Sala designò a capo dei vigili urbani Marco Ciacci fino ad allora capo della polizia giudiziaria. Ciacci una sera dell’ottobre di tre anni fa piomba letteralmente sul luogo di un incidente stradale dove era stato investito, morendo, un medico. Responsabile dell’investimento con il proprio ciclomotore era stata Alice Nobili figlia dei due procuratori aggiunti Ilda Boccassini e Alberto Nobili. Come detto all’inizio niente alcol test né test antidroga. Risarcendo il danno (la somma sicuramente congrua è coperta legittimamente da clausola di riservatezza) la ragazza è stata condannata tramite patteggiamento a nove mesi per omicidio colposo. I giornali e le agenzie di stampa non diedero neanche la notizia della condanna. Pensate a cosa avrebbero e non avrebbero scritto nel caso in cui Piersilvio Berlusconi avesse tirato sotto un pedone. Ci pensò un povero blog, poi qualche quotidiano minore tornò sulla vicenda. Adesso grazie alla trasmissione delle Iene si ritorna a parlare della nomina di Ciacci. Sarebbe cosa buona e giusta che si riparlasse pure di Expo, celebrato come una sorta di miracolo economico ma di cui non conosciamo ancora i conti. Nonostante ciò i giudici per la storia del falso hanno riconosciuto a Sala l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Quel falso materiale e ideologico nella vicenda intricata e coperta da moratoria di Expo sarà sicuramente una quisquilia ma siamo sicuri spetti ai giudici affermare che l’evento fu un fatto tutto sommato positivo? Forse sì forse no. Aspettiamo i conti, la pipì fuori dal vaso non va bene mai soprattutto se fatta dai giudici chiamati a condannare o assolvere. E basta.
Lo scoop delle Iene sul caso Barbato. La Procura di Milano ha commissariato Sala: capo dei vigili cacciato e sostituito dall’uomo di fiducia della Boccassini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2021. È vero che nel 2017 nella città di Milano ci fu un accordo sotterraneo tra il sindaco, il procuratore della repubblica e un ex leader di Mani Pulite, per far fuori il comandante dei vigili urbani e sostituirlo con un agente di polizia giudiziaria, uomo di fiducia di Ilda Boccassini? E per quale motivo il Comune di Milano avrebbe dovuto essere tenuto a balia dalla polizia di Stato, o addirittura dall’antimafia? È la vittima in persona, quell’Antonio Barbato che fu braccato dai giornalisti e spintonato dal sindaco e dall’assessore finché stremato non accettò di lasciare il suo posto di capo della polizia urbana alla persona segnalata dalla procura, a raccontarlo. Alla fine, anche con un nodo in gola, al ricordo di quel che gli capitò. Una bomba di ventisette minuti, lanciata il venerdì di Pasqua dal programma delle Iene su una Milano già deserta alla vigilia dei tre giorni di zona rossa, destinata a un potente scoppio, anche se ritardato dai giorni di festa. Se scoppio ci sarà, visto il timore reverenziale (chiamiamolo così) che ormai pervade le redazioni al solo sentire i nomi di alcuni protagonisti. Di sicuro ci saranno le reazioni politiche da parte delle opposizioni a Palazzo Marino, già preannunciate da diversi consiglieri. Se fossimo in un’aula giudiziaria, e se ragionassimo con il metro di certi pubblici ministeri, alla sbarra ci sarebbero: Il sindaco di Milano Beppe Sala, il procuratore Francesco Greco, il presidente della “Commissione legalità” del Comune, Gherardo Colombo, ex divo di mani Pulite, l’ex assessore alla sicurezza Carmela Rozza. E se quanto raccontato nel super-documentato servizio delle Iene fosse anche solo rilanciato da una bella campagna stampa in stile Repubblica (le dieci domande) – Il Fatto (corsivo travagliesco) – Domani (imitazione degli altri due), un bel reato associativo agli imputati non lo leverebbe nessuno. Lasciamo parlare i fatti, un po’ come se nel processo italiano ci fosse davvero il rito accusatorio e la prova si formasse nel dibattimento. Il giornalista delle Iene Fabio Agnello ci ha lavorato per mesi, lo si capisce, e non ha tralasciato alcun indizio, né dimenticato di sentire alcun testimone. La parte lesa in primis, Antonio Barbato. Il quale racconta che, quando nel 2016 vinse il concorso e diventò comandante della polizia municipale milanese, l’assessore alla sicurezza Carmela Rozza (oggi consigliera regionale del pd) gli disse che era stato molto fortunato. Perché? Perché c’era stata una pressione da parte della Procura della repubblica perché a quel ruolo fosse nominato un altro, ma che il sindaco Sala non aveva potuto far niente perché ormai il posto era già stato assegnato a lui. L’ “altro”, quello segnalato dalla procura, si chiamava Marco Ciacci, era un agente di polizia giudiziaria assegnato al procuratore aggiunto Ilda Boccassini, allora capo del dipartimento antimafia (andrà in pensione nel 2019). A pensarci questo aspetto della vicenda è un po’ inquietante. All’interno del corpo dei vigili urbani milanesi esistevano all’epoca, a quanto documentato anche in una relazione dell’Anci, l’associazione dei Comuni Italiani, diverse posizioni adatte a quel ruolo, tredici per la precisione. E non va dimenticato che in passato Letizia Moratti e tutti gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei Conti proprio per non aver eseguito una ricognizione interna al Comune prima di nominare dirigenti esterni. Può anche essere una regola sbagliata, ma esiste. In ogni caso, per poter collocare a quel posto dirigenziale l’appartenente a un’altra amministrazione (come la polizia di Stato), il sindaco Sala avrebbe dovuto procedere a indire un altro bando. E forse chi in procura gli aveva chiesto quel favore avrebbe dovuto saperlo. In ogni caso in quel 2016 non successe niente e Ciacci rimase al proprio posto. Comunque sarà il caso, un anno dopo, a far virare il vento. E il caso porterà il comandante Barbato proprio a testimoniare, come persona informata dei fatti, davanti alla pm Boccassini. Certo, lui avrebbe preferito essere convocato per altri motivi, per un suo esposto. Perché, da bravo capo, si era allarmato sui comportamenti di un suo sottoposto, un sindacalista della Cisl di nome Mauro Cobelli, che esagerava nella richiesta di permessi , che capitavano quasi sempre di sabato e domenica piuttosto che in feste come quella del 2 giugno o dell’8 dicembre. Cobelli finirà in seguito rinviato a giudizio in un’inchiesta giudiziaria di nome “multopoli”, perché sospettato di far annullare le contravvenzioni agli amici. E ora, intervistato dalle Iene, prende tempo nel dare le risposte, senza trovare il modo di spiegare il perché di tutti quei permessi. Comunque il comandante Barbato aveva presentato il suo bell’esposto alla procura della repubblica di Milano che, al contrario di quanto accaduto in altre città dove le inchieste sui “furbetti del cartellino” spopolavano (a volte a sproposito) con arresti e licenziamenti, non aveva preso alcuna iniziativa. Fu a quel punto che la buona sorte del comandante Barbato cominciò a girare storta. Pensò infatti il tapino di chiedere consiglio a un altro sindacalista, Domenico Palmieri, un leader della Cisl molto conosciuto che lavorava in Provincia. I due si videro e si telefonarono. Palmieri la buttò lì: perché non lo fai pedinare da un investigatore privato? E lo sventurato rispose: meriterebbe questo e altro! Fu la fine. Palmieri era intercettato in un’inchiesta milanese chiamata “mafia appalti” (come quella siciliana che potrebbe aver segnato la fine di Paolo Borsellino), condotta da Ilda Boccassini, la quale sentì subito Antonio Barbato come persona informata sui fatti (una mezzoretta in tutto, ricorda lui), e la cosa pareva finita lì. Invece no, perché aleggiava sempre qualcosa di strano nell’aria. E perché qualcuno soffiò ai giornali la storia del (mancato) pedinamento. Parte da subito Repubblica, “Intercettati dall’antimafia, Barbato nei guai”, e poi “Milano, vigile pedinato dagli uomini del clan”, eccetera. L’assessore Rozza comincia a fare pressioni perché il comandante si dimetta. Lui non capisce: ma che cosa ho fatto? Non ho neanche poi raccolto quel consiglio sul pedinamento. Ed ecco che la stessa assessore –è il racconto di Barbato già reso pubblico in altre occasioni e mai smentito- gli dice chiaramente che il sindaco Sala sta passando un brutto momento perché indagato per reati connessi all’Expo e quindi non ci si può permettere di fare uno sgarbo alla Procura della repubblica. In poche parole: devi lasciare il posto a Ciacci. Questo è quanto lui intuisce, e la storia gli darà ragione. La situazione è molto delicata e Sala è in una posizione quanto meno imbarazzante. Perché la Procura di Francesco Greco vuol lasciar cadere le accuse nei confronti del sindaco e questo determinerà un clima conflittuale con la procura generale (proprio come nei giorni scorsi per il processo Eni), che avocherà a sé l’inchiesta fino a che il sindaco di Milano sarà condannato per falso ideologico e materiale e infine godrà di una prescrizione cui non rinuncerà. Ma cui aveva diritto, anche se la cosa non era piaciuta a Marco Travaglio, che da allora lo dardeggia ogni volta in cui è possibile. Ma sulla vicenda Barbato non fa certo una bella figura. Anche perché le parti più brutte di tutta la storia sono quelle che arrivano dopo. Il sindaco è in difficoltà, perché Barbato ha vinto il concorso, e nello stesso tempo, come si fa a dire di no a una richiesta della procura? Così passa la patata bollente a qualcuno che il Palazzo di giustizia lo conosce bene, Gherardo Colombo. L’ex pm di Mani Pulite è infatti il presidente di una Commissione legalità del Comune, di cui, se mi si consente, non si capisce perché debba esistere, quasi ci fosse il bisogno di controllare, in aiuto alla magistratura, se Palazzo Marino commette reati. Così Gherardo Colombo e la sua commissione, in nome della legalità, mostrano il pollice verso che porterà infine il povero Barbato alle dimissioni. Ma non dimentichiamo che quello delle Iene è un programma satirico. E come tale non può non notare il linguaggio usato nella condanna a morte. Un linguaggio quanto meno ipocrita. Ecco il motivo della sentenza della Commissione legalità: “il solo ipotizzare di poter accettare l’ipotesi di farlo seguire… è il contrario della correttezza”. Cioè Barbato, nella telefonata con il sindacalista Barbieri, di cui ignorava (come tutti) la vicinanza a una cosca, avrebbe ipotizzato di poter accettare un’ipotesi. Naturalmente, inseguito dal giornalista delle Iene, Colombo non dà oggi nessuna spiegazione per quella decisione, così come Sala, nervosissimo. Viene anche rimandata l’immagine dei quei giorni, quando lui diceva che Barbato l’aveva fatta grossa, mentre alle sue spalle il vigile Cobelli rideva. Tutti oggi paiono voler dimenticare. Tranne la vittima. Che ricorda. Volete sapere come finisce la storia? Attenzione alle date. Barbato si dimette il 10 agosto. Il giorno dopo, 11 agosto, Franco Ciacci ha già ottenuto il nulla osta del questore ed è il nuovo comandante dei vigili di Milano. Senza ricognizione interna al Comune e senza bando di gara. Mai successo. Barbato aspetta giustizia. “Si erano messi tutti d’accordo”, dice con la voce rotta dal pianto. Aspetta giustizia. Non l’ha avuta dal sindaco Sala, non l’ha avuta dal procuratore Greco, non l’ha avuta dal presidente della legalità Colombo. Ha inviato tutta la sua documentazione all’Anac, che ha inviato una relazione alla procura di Brescia. Chissà. Non avendo molta fiducia in una nuova campagna di stampa che vada in direzione contraria alla gogna che aveva subito quattro anni fa, spera che tutti i consiglieri di opposizione di Palazzo Marino, che ci avevano già provato invano allora, si facciano sentire oggi. In una situazione particolare, con il procuratore Greco che sta per andare in pensione e il sindaco Sala ricandidato alle prossime elezioni. Ma, chiunque sarà il prossimo sindaco di Milano e chiunque sarà il prossimo procuratore capo, non sarebbe ora di separare le loro carriere?
Giorgio Gandola per "La Verità" il 13 aprile 2021. C'è posta per la Procura di Brescia. Fra i documenti e gli esposti di routine, è arrivata dall'Anac (l'Agenzia nazionale anticorruzione) la segnalazione relativa a una vicenda che sta facendo rumore a Milano. Titolo del dossier: «Nomina illegittima del comandante del corpo di polizia municipale, senza selezione pubblica, senza titolo e con stipendio maggiorato». È il caso sollevato dall'ex comandante dei ghisa Antonio Barbato e da un'inchiesta del programma Le Iene. La storia riguarda anche il successore Marco Ciacci, agita i sonni del sindaco Giuseppe Sala e potrebbe avvelenargli la campagna elettorale. Barbato fu costretto alle dimissioni nel 2017 dopo una campagna mediatica micidiale. Fu accusato sui giornali (ma mai indagato) perché in un colloquio telefonico l'ex sindacalista Domenico Palmieri gli consigliò di far pedinare un vigile che faceva parte dei cosiddetti «furbetti del cartellino» (aveva utilizzato 60 permessi sindacali in modo irregolare, anche il 2 giugno e l'8 dicembre). Barbato rispose: «Meriterebbe questo e altro». Non fece pedinare nessuno ma la frase gli è costata la carriera; il dialogo era intercettato nell'ambito di un'inchiesta sulle infiltrazioni delle cosche mafiose nella metropoli, Palmieri sarebbe stato arrestato. L'ex comandante dei vigili non era coinvolto, passava di lì, ma pagò con la defenestrazione. Allora la pietra tombale sui suoi tentativi di difesa venne posta dal Comitato per la legalità e la trasparenza presieduto dall'eroe di Mani pulite, Gherardo Colombo, che sentenziò: «Il solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi di far pedinare un collega depone in senso avverso alla correttezza che un comandante deve avere». Il sindaco Sala sembrava non aspettare altro: parere negativo il 10 agosto, cambio al vertice l'11 agosto con la nomina di Ciacci. Tutto in una notte senza ricognizione interna per verificare l'esistenza di analoghe professionalità (secondo l'Anci c'erano 13 posizioni adatte al ruolo) e senza concorso. È facoltà del sindaco non fare il bando, ma in passato Letizia Moratti e gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei conti per non aver eseguito «la ricognizione interna» prima di nominare dirigenti esterni. Il nuovo numero uno dei vigili era un esterno di prestigio, ex responsabile della polizia giudiziaria in procura, collaboratore di Ilda Boccassini, paracadutato con un blitz a Ferragosto. Al di là delle modalità, è l'accusa di Barbato a fare rumore: «La mia sostituzione era per far sì che Sala esaudisse un desiderio della Procura, considerando anche le inchieste giudiziarie a cui era stato sottoposto il sindaco. La gogna mediatica nei miei confronti serviva a velocizzare l'operazione di nomina di Ciacci. Si erano messi d'accordo per mandarmi via». Nel programma Le Iene, Barbato aggiunge che l'allora assessore alla Sicurezza, Carmela Rozza, gli disse: «Bisogna mettere Ciacci perché lei sa in che posizione giudiziaria è il sindaco, non possiamo permetterci di non esaudire la richiesta della Procura». Nel periodo di Expo, il deus ex machina Sala fu indagato per abuso d'ufficio (aveva affidato due padiglioni della ristorazione direttamente a Oscar Farinetti) e archiviato. Poi fu condannato a sei mesi con prescrizione per un appalto. Il dirottamento delle inchieste a Francesco Greco e Boccassini portò allo scontro fra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, conclusosi con l'allontanamento di quest'ultimo. Ricordando quel braccio di ferro scrive Luca Palamara: «Se cade Bruti, cade il Sistema». Nel periodo dell'Expo per due volte il premier Matteo Renzi rese pubblico tributo alla Procura di Milano per «sensibilità istituzionale». La storia è intricata, le opposizioni chiedono a Sala di spiegare in consiglio comunale ma lui non è ancora uscito allo scoperto. Max Bastoni (Lega): «Sala deve fugare ogni sospetto di scambio di favori». Fabrizio De Pasquale (Forza Italia): «Perché non ha voluto valutare più figure? Il sindaco abbia il coraggio di affrontare un dibattito democratico». Ciacci è un funzionario noto: indagò sulle cene eleganti ed è stato teste d'accusa nel processo Ruby contro Silvio Berlusconi. Da capo dei ghisa, nel 2018 si è occupato personalmente di un incidente stradale in cui un medico fu investito da una ragazza in motorino e morì. La responsabile dello scontro, condannata per omicidio colposo, era Alice Nobili, figlia di Boccassini e dell'ex marito pm, Alberto Nobili. Mai sottoposta ad alcoltest e a test antidroga. Ora saranno i pm bresciani a valutare se dentro il caso sollevato da Barbato ci sono irregolarità. Rimane una perplessità rispetto a quel «solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi» scandito dall'ex pm Colombo nel suo pronunciamento. Un anno lo stesso Comitato legalità e trasparenza non ha avuto niente da dire a Sala per la nomina di Renato Mazzoncini ad amministratore delegato di A2A, multiutility strategica con 12.000 dipendenti e un fatturato da 7 miliardi. Mazzoncini non aveva «ipotesi» pendenti, ma due inchieste a carico.
Lo scandalo. Marco Ciacci, il fedelissimo della Boccassini: teste contro Berlusconi, promosso senza concorso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Lui c’era. Non appena è partita in quarta Ilda Boccassini, pubblico ministero antimafia distolta improvvisamente da indagini complesse sulla criminalità organizzata al nord per occuparsi dei peccati di Silvio Berlusconi, lui c’era. E fu un importante testimone dell’accusa al processo Ruby, il vicequestore Marco Ciacci, responsabile della polizia giudiziaria al Palazzo di giustizia di Milano, oggi comandante dei vigili urbani. Bisognerebbe chiedergli se quel salto di carriera, un distacco avvenuto senza bando dopo molte pressioni da parte di ambienti della procura sul sindaco Sala, sia stato per lui un premio. Certo non è routine, che un vicequestore di polizia diventi comandante dei vigili, improvvisamente uomo di potere in una città come Milano. Ma premio per che cosa? Per capacità, per lealtà? Nelle indagini sul presidente del Consiglio si era dato molto da fare, in quei mesi del 2010: intercettazioni, controlli e pedinamenti su chiunque entrasse nella villa di Silvio Berlusconi in occasione di una serie di cene, diciassette per la precisione. Marco Ciacci era stato l’uomo-macchina di Ilda Boccassini e responsabile della polizia giudiziaria. E forse sei anni dopo, quando per la prima volta si ipotizzò un suo passaggio dal palazzo del Piacentini di corso di Porta Vittoria alla piazzetta Beccaria (proprio quella dove tanto tempo fa Pietro Valpreda era stato sospettato di aver preso un taxi per percorrere venti metri fino a piazza Fontana per mettere la bomba) dove è la sede della vigilanza urbana, un premio lo meritava proprio. Certo, quando il vicequestore Marco Ciacci arriva davanti alle tre giudici della settima sezione del tribunale di Milano, quelle che Berlusconi definiva “comuniste e femministe”, e non era un complimento, parte nel racconto dal 3 settembre 2010, quando l’aggiustamento delle date è già stato fatto. Con tradizionale sistema ambrosiano, che poi è parte di quello nazionale così ben descritto da Sallusti e Palamara nel famoso libro. Se l’ex leader del sindacato delle toghe da Roma si è fatto cecchino, imbracciando il fucile nei confronti del presidente del Consiglio, a Milano ci fu un intero plotone di esecuzione in quei giorni del 2010. Lo stile ambrosiano aveva già regalato alla storia, dai tempi di Mani Pulite, ma ancor prima negli anni del terrorismo, una certa disinvoltura nell’applicazione delle regole. Competenza territoriale, diritti dell’indagato, obbligatorietà dell’azione penale, uso corretto della custodia cautelare: parole, parole, soltanto parole. Perché al sistema ambrosiano tutto era concesso. Lui era lì. Lo rivediamo impassibile nell’aula, bel ragazzo con il pizzetto alla moda, mentre snocciola l’elenco delle intercettazioni e parla di prostituzione, prostituzione, prostituzione. Silvio Berlusconi è rinviato a giudizio per concussione, prima di tutto, accusato di aver costretto un pubblico ufficiale che in realtà non si è mai sentito obbligato, a fare qualcosa contro i suoi compiti, cioè affidare la giovane Ruby a Nicole Minetti. Ma nel pentolone processuale pornografico dove si mescolano reati e peccati, parlare di sesso a pagamento è obbligatorio, se non si vuol far crollare l’interno impianto dell’accusa. Il vicequestore Marco Ciacci si presta. Viene trovata nella casa di una ragazza una lettera anonima scritta da un mascalzone che si riteneva in diritto di avvertire la madre sulla presunta professione della figlia? Ecco la prova che la ragazza sia una puttana. Certo, forse a quella ragazza sarebbe piaciuto ricevere dal vicequestore la stessa attenzione che lui dedicherà, qualche anno dopo, quando sarà già stato premiato con la nomina a comandante della polizia urbana di Milano, a un’incauta ragazza che di notte aveva investito e ucciso un pedone con il suo scooter. Era accorso subito sull’incidente, quella sera, il dottor Ciacci perché, aveva detto mentre un sindacato dei vigili protestava per quell’attenzione particolare, stava cenando in un ristorante vicino al luogo dell’incidente. Lodevole solerzia, la sua. Anche se poi nessuno aveva sottoposto la ragazza all’alcol-test, né l’aveva arrestata per omicidio stradale (reato che comunque noi consideriamo assurdo e sbagliato), come spesso succede se la persona investita decede. Lui c’era, al processo. E dichiarava di aver iniziato le investigazioni dal 3 settembre 2010, quando aveva ereditato generiche indagini su un giro di prostituzione di cui faceva parte anche Ruby. Resta il fatto che, nel frattempo, molti danni erano stati fatti. E neanche un bambino potrebbe credere a certe favolette. Perché da quella famosa sera di maggio in cui Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio in carica, aveva telefonato alla questura di Milano, ritenendo che fosse stata fermata la nipote del presidente Mubarak, era diventato lui il pesce grosso da prendere all’amo e poi giustiziare da parte dei famosi “cecchini” di cui parla Luca Palamara. Il plotone era pronto da tempo, si aspettava solo l’occasione. E quella fu ghiotta. Altro che generiche inchieste su giri di prostituzione! Non dimentichiamo che, per indagare su Berlusconi (e non su qualche Belle de jour), il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva anche sottratto le competenze al pm competente per materia, ingaggiando un robusto braccio di ferro con il suo aggiunto Alfredo Robledo, poi ghigliottinato dal Csm con l’aiuto addirittura del presidente della Repubblica. Fatto sta che le indagini, ci fosse o no il vicequestore Ciacci a condurle dall’inizio, presero origine fin da allora. E Ruby fu interrogata due volte nei primi giorni di luglio, e per mesi e mesi fu stesa la tela del ragno nei confronti di Silvio Berlusconi. Ma il leader di Forza Italia sarà iscritto nel registro degli indagati solo il 21 dicembre, e in seguito raggiunto da un invito a comparire il 14 gennaio 2011. Sistema ambrosiano, ovvio. Nel frattempo è già accaduto tutto, il controllo ogni sera, per diciassette volte, nella casa del peccato, neanche si stessero spiando boss mafiosi di Cosa Nostra, per «ricostruire lo svolgimento delle cene e chi fossero i partecipanti». Si spiava il presidente del Consiglio per frugare tra le sue pietanze e le sue lenzuola. Per mesi e mesi, senza mai informarlo, come sarebbe stato suo diritto e come prevede la legge. Anche se lui, e anche le ragazze che frequentavano le sue cene, non avevano mai ucciso nessuno. Sono state solo trattate come puttane, nel processo pornografico che non finisce mai. E nessuna di loro ha mai avuto la fortuna di trovare un buon samaritano in divisa che corresse a dar loro conforto qualora una sera si fossero trovate in difficoltà. Loro.
Vittorio Feltri, la risposta a Paolo Liguori: "Milano fa schifo? Evita di brindare e pensa ai disastri di Roma". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 29 marzo 2021. Ieri il mio collega e amico Paolo Liguori ha scritto un articolo di fondo sul Giornale diretto da Alessandro Sallusti per dire che Milano e la Lombardia in genere fanno schifo. Perché la sanità è un disastro, i commerci languono, l'economia piange. Insomma, secondo il giornalista, la regione e soprattutto il suo capoluogo hanno perso ogni primato e sono diventate perfino più buie, sembrano avviate a una morte precoce. Indubbiamente il direttore storico di varie testate televisive Mediaset afferma alcune verità, ma non tutta la verità. In particolare, attacca il territorio più evoluto del Paese forse perché ci vive e ci lavora da decenni, essendosene innamorato. Succede: quando ti sei affezionato a qualcuno, o a qualcosa, che poi ti delude, sei portato a coprirlo di insulti. Naturalmente esagerati. È innegabile, il Covid ha ferito noi polentoni, però non soltanto. L'Italia intera boccheggia, è stata trasformata in una prigione dove è vietato lavorare e produrre come un tempo, le disposizioni che ci bloccano tuttavia non sono parto delle istituzioni locali, bensì del governo che cambia colore trascurando di cambiare i divieti mortiferi. Tornando alla Lombardia, reale che è in ginocchio, eppure senza il suo Pil il bilancio nazionale sarebbe all'incirca come quello dell'Albania. Milano non è deceduta, dorme a causa del sonnifero che le viene impartito da Roma, la quale si vanta di aver fatto 900 mila vaccinazioni nel Lazio, cioè quante l'Inghilterra ne somministra in un giorno. Capirai che prodezza. D'altronde, se l'esecutivo non è in grado di procurarsi un numero sufficiente di dosi, è impossibile immunizzare il popolo sia del Nord sia del Sud. È accertato, la Lombardia ha avuto più vittime. Ovvio. Ha 11 milioni di abitanti, con una densità di abitazioni e di esercizi commerciali assai fitta, i contagi sono più facili. Bergamo nella fase acuta della pandemia è stata abbandonata da Conte, idem Brescia e varie altre città. Nonostante ciò questa regione rimane pilota. Segnalo a Liguori che ieri il Cnel ha diffuso dati da cui si evince che a Milano si campa in media dieci anni di più che a Napoli, sebbene attorno alla Madonnina si sviluppi uno smog record. Come si spiega questo strano fenomeno? O l'inquinamento è salutare oppure la sanità Milanese è molto più efficiente, a onta delle critiche, di quella partenopea. Le statistiche sui grandi numeri non sbagliano mai, e dimostrano che la mia regione, che ormai è pure la tua, Paolo, rimane la locomotiva del Paese alla faccia del virus. Peccato che le sue sorti in questo momento dipendano da Roma, la quale non sarà ladrona, tuttavia registra 30 morti l'anno per soli incidenti stradali provocati dalle buche trascurate dalla signora Raggi. Infine devo darti atto che il sindaco di Milano, Beppe Sala, è un campione di insensatezza, non perché è divenuto verde, ma perché ha ridotto la metropoli a un ginepraio cosparso di piste ciclabili più perniciose che inutili, incentivando per giunta l'uso dei monopattini, i quali esaltano l'irresponsabilità di parecchi ragazzi. In pratica la circolazione si sta paralizzando quantunque il traffico sia diminuito grazie alle proibizioni confermate da Draghi, l'uomo della provvidenza che ha provveduto esclusivamente a confermare la detenzione della gente. La Lombardia è paragonabile al primo della classe: allorché prende un brutto voto, i compagni festeggiano. Almeno tu, evita di brindare.
Milano, città del degrado: "Tende e senzatetto in pieno centro". Silvia Sardone denuncia ancora la deriva sociale di Milano, dove a ridosso del centro si incontrano tende e sacchi a pelo dei senzatetto. Francesca Galici - Lun, 05/04/2021 - su Il Giornale. Milano capitale italiana dell'economia, ombelico del mondo della moda, città dalle mille opportunità. Questo era il capoluogo della Lombardia fino a qualche anno fa ma ora non ne resta che un ricordo sbiadito, anche a causa delle politiche amministrative che l'hanno fatta regredire costantemente fino a diventare la brutta copia di quello che era. Oggi a Milano è facile incontrare il degrado, che se fino a non troppo tempo fa era confinato alle periferie, oggi avanza inesorabile e conquista anche il centro della città, il suo cuore. Basta passeggiare in zona Duomo e nelle sue vie laterali per incontrare la povertà. A volte è necessario prestare la massima attenzione per evitare di inciampare su sacchi a pelo e coperte posati sui lati dei portici o della Galleria Vittoria Emanuele. È questo il degrado che ancora una volta ha raccontato Silvia Sardone, eurodeputata e consigliere comunale della Lega a Milano. "Da tempo si moltiplicano scene di degrado e disagio sociale. Non solo la Stazione Centrale a Milano, ormai abbandonata a sbandati e spacciatori. Anche il centro è preda di situazioni difficili con i clochard che si moltiplicano. Ho avuto modo di vedere la situazione nella centrale Piazza Vetra dove accanto alla Basilica di San Lorenzo ci sono numerose tende e sacchi a pelo", denuncia l'esponente della Lega. Questa zona, prima della pandemia e delle varie zone rosse, era uno dei punti nevralgici della movida di Milano. Le Colonne di San Lorenzo sono a due passi, così come il Naviglio con i suoi locali. Oggi è un dormitorio a cielo aperto per i senzatetto, con tutto ciò che ne consegue. "Ci sono sia italiani che stranieri", sottolinea Silvia Sardone, che nella sua nota evidenzia il fatto che non si tratta di una situazione isolata o sporadica. "Scene simili si possono vedere anche nelle gallerie di Corso Vittorio Emanuele accanto al Duomo o accanto alla stazione di Garibaldi", prosegue l'eurodeputata. Il coronavirus ha creato moltissimi nuovi poveri tra gli italiani ma anche l'accoglienza indiscriminata è causa di queste scene poco dignitose. "Ci sono situazioni di estrema povertà che riguardano anche tanti nostri connazionali che il sindaco Sala e il Comune di Milano non affrontano. Poi ci sono i danni dell’accoglienza senza freni che ha portato tantissimi stranieri a bivaccare nelle nostre piazze, senza futuro e con la prospettiva crescente di andare a ingrossare le fila della criminalità", afferma Silvia Sardone. L'esponente della Lega, quindi, punta il dito contro il sindaco di Milano Beppe Sala e la sua politica: "Come affronta il Pd queste emergenze: con il silenzio, censurando i problemi o non ammettendoli. Ancora si vantano di un inesistente modello di accoglienza e solidarietà. È inaccettabile questo lassismo!".
L'orgoglio ferito di Milano. Milano è indietro! Impensabile, incredibile, orribile, mai successo nell'ultimo quarto di secolo in Italia. Eppure, è così. Paolo Liguori - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Milano è indietro! Impensabile, incredibile, orribile, mai successo nell'ultimo quarto di secolo in Italia. Eppure, è così. L'affermazione si riferisce all'andamento delle vaccinazioni, che però, in questo momento, è il fulcro dell'emergenza nazionale. Il governo Draghi scommette sulle vaccinazioni tempo e quantità -, l'Europa è altrettanto frenetica e Milano e la Lombardia, abituate ad essere sempre all'avanguardia, sono pericolosamente indietro. C'è chi la butta in politica, chi lancia accuse e chi si difende, ma qui il fatto è più grande e più grave, va molto oltre le singole responsabilità. Non scherziamo con le cose serie: ricordate Giulio Gallera? Hanno scritto che era tutta colpa sua, ma non era vero, oggi cerchiamo di non moltiplicare lo stesso errore. Lo sconcerto dei cittadini di una regione, di una grande città, abituate a camminare sempre in testa al gruppo, a dare l'esempio, ad indicare gli errori e i ritardi altrove, è molto grande, merita una risposta seria, non si può risolvere con una semplice caccia ai responsabili. Il sistema sanitario lombardo ha certamente mostrato le sue piaghe e la pandemia ha fatto da detonatore: è talmente vero che, sotto i colpi del Covid, si sono incrinate molte altre certezze in giro per il mondo. Il mito dell'efficienza tedesca, per esempio, ha subito un duro colpo dopo le parole di scusa della Cancelliera Merkel e dopo l'ammissione che la stessa Germania sta faticando a procurarsi i vaccini, proprio come l'Italia. Però, Milano e la Lombardia di scuse non ne hanno avute e non si capisce neppure da chi dovrebbero averne. C'è un sottile vento di incertezza che percorre tutto il mondo nell'epoca del Covid, se è vero che, in piena discussione sui possibili disastri ambientali, un vero disastro economico parte e continua da giorni nel Canale di Suez per una causa banale. Il Grande Canale è troppo piccolo per i grandi trasporti di oggi. Cause oggettive, giustificabili, ma il declino evidente e rapidissimo di Milano e Lombardia è sotto i nostri occhi e coinvolge le istituzioni più diverse. Lasciamo da parte per un attimo la Salute e facciamo un salto in Tribunale, più esattamente alla Procura di Milano. Non sono mai stato un grande estimatore del modo in cui la Procura ha gestito la Giustizia a Milano, sono venuto a lavorare e a vivere in questa città 29 anni fa ed ho avuto sempre argomenti e spazio per criticare la gestione di Mani Pulite di Borrelli, Di Pietro, Davigo e Colombo. Poi, è stata la grande stagione della caccia persecutoria a Silvio Berlusconi e alle sue imprese, dopo che il fondatore decise di entrare in politica. Vicende ben conosciute che, da un esame ormai storico, dipingono la Procura come una Fortezza che si autodefinisce il luogo assoluto del Bene, impegnato nella Lotta contro il Male. Un falso, usato dalla politica, che poteva attrarre, nonostante tutto, molti milanesi, orfani della sinistra. E oggi? Quella stessa procura sembra un organismo in rotta, dopo aver subito nel processo contro due successivi amministratori delegati dell'Eni una sconfitta senza precedenti. Assoluzione con formula piena, nonostante richieste di condanna altissime e con la Procura Generale che parla apertamente di denaro pubblico sperperato. Ma il peggio rischia di venire ancora dallo stesso grande vaso scoperchiato da Luca Palamara, sentito di recente a Perugia sulle modalità delle nomine dei Procuratori Aggiunti a Milano. Lottizzazione tra le correnti è la tesi che Palamara documenta con i suoi sms: sempre politica al comando, come negli anni ruggenti, ma di livello più basso. Come finiscono quasi tutte le avventure rivoluzionarie in un mondo libero, da temibili persecutori a carrieristi spietati. Torniamo in città, nel territorio del sindaco Sala, e qui parliamo di una Milano che usciva fortissima dall'Expo: un simbolo di modernità e di rinnovamento, anche urbanistico, da additare come esempio. In un solo anno di Covid, lo spirito si perde, si corrompe e non soltanto per la scomparsa dentro le case dei dipendenti pubblici e una enorme chiusura degli esercizi commerciali. La città sembra prigioniera, contratta, addirittura più buia (sarà una forma di risparmio?), ma un Comune come Milano non può restare inerte. E infatti interviene in maniera pesantissima e discutibile, prima con la campagna «Milano non si ferma», poi sulla viabilità e sul traffico: il centro si riempie di piste ciclabili, che levano spazio al traffico su ruote, che è aumentato inevitabilmente per effetto dell'abbandono dei mezzi pubblici e dei camioncini necessari ad approvvigionare la città. E molti ciclisti interpretano il lockdown come un via libera per circolare senza rispettare il codice della strada. E si moltiplicano in modo esponenziale i monopattini, grande business per qualcuno, ma non per la città, che per tutto l'inverno giacciono abbandonati come spazzatura postatomica. Dicono che Sala non abbia voluto lo scempio e che sarebbe stato influenzato da due suoi assessori, ma il Sala dell'Expo (e anche quello che avrebbe voluto il ritorno al lavoro dei dipendenti pubblici) forse non avrebbe subito. Quello odierno, invece, annuncia l'abbandono del Pd e si iscrive ai Verdi Europei, scelta criptica. Su tutto, c'è la sofferenza sanitaria della regione e della città, con l'emergenza Covid più forte d'Italia. Un anno fa era la disinformazione, il dinamismo, un «caso», oggi è un «caos»: il sistema informatico autonomo è andato per Aria e ci sono volute le Poste, errori e ritardi si sono accumulati a scelte discutibili sulle categorie da vaccinare (professori universitari, con università chiuse?) e oggi il lavoro è diventato ancora più difficile per i responsabili. Ne usciremo certamente, perché non si può fare diversamente, ma la frustrazione e l'orgoglio ferito della Lombardia saranno lunghi e difficili da curare.
"Addio Milano bella". L’indagine di Cavenaghi tra le macerie del Pci. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. Si sa tutto sui socialisti a Milano negli anni di tangentopoli, sui sindaci Tognoli e Pillitteri e sul cittadino più famoso, Bettino Craxi. È sempre rimasto un po’ in penombra il partito che per molti anni con il Psi ha governato la città e che non è stato risparmiato dalle mazzate dei pm. Questo partito si chiamava Pci, lo stesso che a Roma andava a braccetto con le toghe, a Milano non si salvò né dalle inchieste né da una devastazione dei suoi militanti, che fu psicologica prima ancora che politica. Una città che nel 1993 non si è ancora ripresa dalla botta, che è tutta uno sferragliare di tram e presenta luci fioche, viene raccontata da uno che c’era, nella metropoli e anche nella sinistra, in un libro dal titolo che sa di resa: Addio Milano bella di Lodovico Festa, Edizioni Guerini e associati. «Erano quattro anni che Mario aveva tagliato i ponti con Milano, con il partito, con le vicende di una politica a lungo, per più di trent’anni, padrona quasi assoluta della sua vita». Questa storia potrebbe essere liquidata come fosse solo la piccola vita di uno dei tanti che se ne erano andati, in parte anche quella dell’autore, ma sarebbe poco generosa nei confronti dell’ingegner Cavenaghi, l‘ex capo dei Probiviri lombardi del Pci fin quasi agli anni novanta. Uno di quelli addetti all’etica (troppo spesso anche alla vita personale dei compagni), ma anche alle strategie del partito e a certe relazioni, da cui non erano esclusi magistratura e forze dell’ordine, e che non disdegnavano di tenere l’occhio attento ai rapporti con l’Unione Sovietica, fin che c’era stata. Quasi avesse avuto l’intuizione di qualcosa di tremendo che stava per abbattersi sulla città, sulle sue istituzioni, sui suoi partiti, e anche sui comunisti lombardi, quelli della corrente riformista (o migliorista) sempre sospettati di intelligenza con il nemico, cioè quel Bettino Craxi con cui pure governavano Milano e migliaia di altri Comuni, Mario Cavenaghi aveva dato un taglio netto a tutto. Aveva preso su la Carla, «da sempre rigidamente anticomunista», i due figli e se ne era andato a Lugano. Un posto da sempre considerato “noioso” dai milanesi, che ci andavano per una gitarella sul lago o negli anni sessanta per fare benzina e comprare sigarette e dadi di pollo, ma che non avrebbero mai potuto viverci. Lui si, il Cavenaghi. Anche perché ascoltare ogni mattina il tg ticinese che festeggiava il centenario del famoso coltellino svizzero, che raccontava la vita senza fremiti dei consigli comunali o dell’ennesimo referendum, dava pace alla mente. Addio Milano bella, io sto a Lugano. Niente correnti di partito né congiure di palazzo né pericolo di scissioni. Quando lui se ne era andato, lo scioglimento del Pci e poi la nascita del Pds e di Rifondazione comunista non erano ancora nell’aria. O per lo meno non erano dichiarati. Riservatezza comunista. Quel che invece correva lungo le vie sotterranee del suo partito era la “questione morale”. Certo, ne aveva parlato Enrico Berlinguer («i partiti di oggi sono soprattutto macchine di clientele e di potere…») tanto tempo prima. E in seguito, ma quando Mario era già via e il disastro si era già abbattuto anche sul suo partito, Bettino Craxi aveva enunciato analogo concetto in un suo famoso discorso alla Camera: tutti i partiti, aveva detto con enfasi senza che nessuno lo smentisse, sono finanziati in modo irregolare o illegale. Mario Cavenaghi, benché ormai “svizzero”, quando viene svegliato dal suo torpore da un vecchio compagno del partito che gli chiede aiuto per una questione a metà tra la morale berlingueriana, il complotto politico o sbirresco o magari straniero e un rompicapo da film giallo, sente che non può sottrarsi. Non può negarsi, benché debba prima fare i conti con l’implacabile Carla, per quel suo antico senso del dovere, per l’affetto nei confronti di quella che è pur sempre stata per anni la sua comunità, e anche perché curioso di guardare per due settimane dal buco della serratura le macerie sotto cui sembrano seppellite Milano e la vecchia Federazione del Pci. Che ormai non si chiama neanche più così. Perché i comunisti non ci sono più, meglio dirsi “democratici”, lo sguardo si allarga. Anche se nel frattempo si è perso per strada qualche milione di voti. Due settimane di incontri, su e giù per i tram, quasi la vecchia morale impedisse l’uso dei taxi. A cercare, a capire. A cercare due miliardi di lire spariti dalla cassaforte le cui chiavi erano in possesso del Presidente dei probiviri (quello che aveva preso il posto di Mario dopo un po’ dalla sua partenza) morto d’improvviso d’infarto. Due settimane che si trasformano in una radiografia impietosa dello stato di un partito che, mentre a Roma, cioè sul piano nazionale, era l’alleato più fedele, anche se non certo disinteressato, dei pubblici ministeri di Mani Pulite che avevano fatto a pezzetti la prima repubblica, a Milano erano ancora lì a leccarsi le ferite. C’erano stati indagati, perquisiti e arrestati. Cavenaghi cerca i soldi ma trova solo gente che vuol parlare di quello che è successo con tangentopoli e le inchieste dei pubblici ministeri. Parla un po’ con tutti, fa il finto distaccato, ormai senza passione né sentimenti, come se ci si potesse mai levare dalla pelle la scimmia della politica. E quella del sogno rivoluzionario, anche. “Partito di lutto e di governo”, ridacchia qualcuno. In tutti c’è lo sconcerto all’idea che possano esserci stati compagni che si dedicassero all’arricchimento personale, magari “teste finissime e aliene da qualsiasi volgare pulsione” di quel tipo. Ci pensano tutti, e si capisce che un po’ ci credono, nonostante un personaggio come Bruno Trentin (uno dei pochi citato con il nome vero, gli altri sono solo citazioni allusive, difficili da individuare per i non milanesi), troppo radicale per i comunisti milanesi, avesse messo in guardia: «Stiamo attenti a condannare senza cercare di capire». Ognuno dice la sua, spesso con una certa pedanteria, il funzionario come l’ex magistrato, il famoso architetto e la sciura protettrice di giovani rivoluzionari, il vecchio cronista giudiziario dell’Unità che stava per principio sempre dalla parte dei magistrati, e di uno in particolare. Qualcuno si avventura a spiegare la spaccatura tra i compagni sull’operato della magistratura simile a quella che c’era stata sul sessantotto, come se i magistrati con la distribuzione di manette, spesso a casaccio, fossero diventati i protagonisti del cambiamento. Ma c’è chi parla di “macelleria giudiziaria” e chi si difende, lamentando di esser arrestato pur avendo fatto tutto “secondo le regole”. Si, ma quali regole? La carrellata va a sfiorare il ministro Conso e il suo fallimentare tentativo di un’uscita onorevole da tangentopoli, stroncata da quel pool di direttori di giornali che agiva in parallelo (e in combutta) a quello dei pm. C’è chi ricorda di aver avvertito Craxi della deriva che stava prendendo la classe politica milanese. E c’è l’angoscia, la mancanza di una zattera cui i naufraghi possano aggrapparsi, la mancanza di ricambio della classe politica dirigente. Si ondeggia tra la disperazione e la voglia di ribellarsi comunque a certi comportamenti della magistratura, e anche degli avvocati complici, gli “accompagnatori” che mettevano i propri assistiti nelle mani di Di Pietro. Come è andata a finire? Visto che “Addio Milano bella” è anche un noir, sappiamo che il compagno Cavenaghi il giallo dei soldi spariti l’ha risolto, con l’aiuto di qualche papa straniero. Sentendosi una specie di James Bond “con la pancera”. Ma dobbiamo anche sapere che il suo compito principale non era quello di improvvisarsi detective, ma di fare la relazione; dove stava andando, dopo le inchieste giudiziarie e tutto il resto, quel popolo che era stato comunista? Che cosa ne pensavano i cittadini e i compagni? «Febbraio non è mai un mese allegro a Milano, nonostante il carnevale». Così l’ingegner Mario Cavenaghi, ex presidente dei probiviri, ormai in procinto di tornare esule a Lugano, finisce con lo stendere la relazione secondo il canone tradizionale dei comunisti quando erano in difficoltà, «cioè quella di sostenere che fosse vera una cosa ma anche il suo esatto contrario». Poi dice addio, ma questa volta per sempre, a Milano. E tornato a casa «poté serenamente andare a letto e, tenuto sveglio non dalla tensione ma dall’amore, dopo un po’ dormire del tutto pacificato».
Alberto Genovese e «Terrazza Sentimento»: tornano le ombre su Milano. Marco Missiroli su Il Corriere della Sera il 5/2/2021. Un imprenditore diventato milionario che organizza feste con droga e ragazze bellissime. Poi il grido di una di loro squarcia la notte: dopo 20 ore di violenze, fugge e denuncia. Milano ritrova un cuore oscuro. Trentasei anni dopo e a solo 300 metri dai luoghi dove negli anni 80 l’aspirante modella Terry Broome prese una pistola e fece fuoco. Città bianca, città oscura. Quando Alberto Genovese apre le porte del suo appartamento per una festa, il 10 ottobre 2020, il cielo di Milano è oltre il crepuscolo. Sono passate le 20.30 e tutto di questa metropoli sta per compiersi. La vitalità, la leggerezza brutale, l’opacità degli uomini e delle loro leggi ballerine dopo il traffico del giorno. A due passi dal Duomo, nella terrazza di Genovese chiamata Sentimento, va in scena il teatro di un capoluogo da bere che non c’è più e che c’è ancora. Il risveglio di un’epoca è nel grido di una ragazza di diciotto anni che uscirà da quell’appartamento in stato di choc venti ore dopo esserci entrata: fermerà la polizia e si farà portare al pronto soccorso della clinica Mangiagalli dove verrà dimessa tre giorni dopo con una prognosi di un mese. Il passo successivo è la denuncia contro Genovese che porterà a capi di imputazione per stupro, tortura, sequestro di persona, cessione di stupefacenti e lesioni. I fatti sono all’ordine della magistratura, le ferite mai del tutto. Per la presunta vittima rimane il fardello di un dopo-Cristo: la diciottenne è un’altra rispetto a qualche ora prima. Racconta di aver assunto droghe, racconta di essersi trovata in camera con Genovese sotto prevaricazione, racconta di una violenza incessante. Da qui, da questa Milano d’ombre che diventa pece, si consuma una giovinezza. La città ha guardato, la città è testimone. Marco Missiroli, scrittore. Nato nel 1981 è autore di Atti osceni in luogo privato e Fedeltà, finalista al Premio Strega 2019.
Il cuore della terra: dal Nepentha a Piazza Santa Maria Beltrade Milano vede. Gli occhi sono quelli degli Ottanta quando con l’imbrunire qualcosa rischiava sempre di sprigionarsi: la city da bere, le anime inquiete da sfamare. Per Genovese e la sua terrazza il Duomo è a due passi, come nel delitto del 26 giugno 1984, quando Terry Broome, un’aspirante modella americana ventiseienne, uccide con una pistola calibro 38 Francesco D’Alessio. Il finale potrebbe essere certamente diverso, non il midollo di questa città elettrica che sembra allacciare destini e luoghi. Il Nepentha, per esempio, locale notturno in piazza Diaz dove Broome comincia quella serata maledetta. Vicinissimo c’è Piazza Santa Maria Beltrade, indirizzo di casa di Alberto Genovese e del suo attico e superattico. Trecento metri e trentasei anni di distanza. E lo stesso «cuore della terra»: così Scott Fitzgerald chiamò l’incantesimo dei quartieri nell’emanare un preciso codice emotivo. Vale anche per le fondamenta sotto la cattedrale di Milano, cerchia eterea e viscerale dell’urbe, che resse terremoti controversi e genera energie sacre e profane. Osmosi, coincidenze, sostanze fitzgeraldiane: eppure qualcosa è in continua frizione in questo punto centralissimo della mappa dove gli affari pullulano di giorno e si scaricano di notte, allo stesso modo di un carnevale che riverbera virulenze sopite. Denaro e malpotere, ascese e decadenza. Alberto Genovese, che fece fortuna grazie all’invettiva imprenditoriale riversata sulla new economy e si ritrovò con più di un pugno di dollari e una noia cronica da gestire. Il curriculum ci dice che è laureato in economia aziendale alla Bocconi, un master alla Harvard Business School, circa duecento milioni tra guadagni e richieste di nuovi investimenti. Su questa identità professionale, dopo l’ipotetico crimine, la stampa ha eretto intorno al suo nome epiteti di gloria pregressa («mago delle startup», «genio», «businessman di successo»), come se un lustro passato lo giustificasse. Invece dopo la vendita anni prima di Facile.it, creatura che gli fruttò la ricchezza, comincia il periodo del vuoto e delle abbuffate. Quarantuno anni e fino a centocinquantamila euro spesi per una festa. L’altro Alberto Genovese.
Pippa, pippa: il corpo sull’altare dell’esaltazione Nell’interrogatorio che seguì la notte infernale di ottobre, Genovese ammise che non usava un computer per lavoro da quando mise in tasca il gruzzolo e si espose al baratro. Quale baratro? Ibiza, Formentera, feste, aerei privati, l’appartamento in Santa Maria Beltrade che elesse a quartier generale del suo girotondo. E la droga, lo stesso carburante che fu l’esclamativo delle nottate di Piazza Diaz decenni prima nella Milano da bere. Sulla Terrazza Sentimento le testimonianze rivelano di piatti con tre tipi stupefacenti: cocaina, metanfetamina e la 2CB, bamba rosa da quattromila euro al grammo, offerta come arachidi tra musica e balli. Si parla anche di ketamina e soprattutto di Ghb, il farmaco «dello stupro» che se assunto a dosi elevate cancella la memoria e rende inerme la persona all’assalto del carnefice. Secondo gli inquirenti Genovese in quelle venti ore abusò della ragazza somministrando ripetutamente droghe fino a renderla una «bambola di pezza». Al risveglio, in uno dei bagni della casa, lei si sarebbe ritrovata livida e scaraventata in un oblio sospettoso. Cosa mi è successo? Cosa mi è stato fatto? I segni sul corpo sono cicatrici, assieme agli sprazzi di coscienza che riportano l’incubo a galla. La ragazza ha lembi di memoria in cui rivede Genovese sopra di lei, i polsi bloccati. Droga e altra droga. Il gip scriverà che «Genovese ha agito prescindendo dal consenso della vittima, palesemente non cosciente per circa metà delle 24 ore trascorse con lui, tanto da sembrare in alcuni frangenti un corpo privo di vita, spostato, rimosso, posizionato, adagiato, rivoltato, abusato». L’altare dell’esaltazione, per stordire sé stessi e innescare la prevaricazione: ragazze giovanissime, condotte al piano di sotto nella camera da letto vegliata da un buttafuori? «Pippa, pippa», è stata l’esortazione di Genovese alla ragazza nella violenza, secondo la testimonianza che scoperchiò il vaso di Pandora. Era una delle ossessioni di Francesco D’Alessio, il playboy ricchissimo che perseguiterà Broome prima di essere ammazzato dalla modella stessa all’alba di quel 26 giugno. La polvere bianca nutre i rampolli, un circolo sfrontato che regala duecentomila lire di dose a chi non può permetterselo, alimentando l’opacità della notte.Alberto Genovese con una delle giovanissime ospiti delle sue feste che si svolgevano tra Milano e Ibiza.
Cortesie per gli ospiti (e i 5 colpi che spaccarono la Milano da bere). Camicie sbottonate, balli scatenati, mani ai cocktail. E quel moto a luogo spasmodico: le notti 80 erano lo spostamento eterno da un luogo all’altro, spiriti convulsi, carichi, dal Nepentha agli altri locali di Diaz, e poi Moscova e Brera, i bar di Porta Venezia, fino all’ultimo lido: gli appartamenti raggiunti all’alba. Si finiva a casa di qualcuno che apriva un rifugio per chiudere in dolcezza lo sfarzo. Sesso, un’ultima vertigine, poi accoccolarsi sui divani. Quasi mezzo secolo dopo rimangono gli attici: lassù, vista Duomo. Ma nessuno spostamento: qui si apre la serata e qui si chiude. Solo rendez-vous selezionati e organizzati, anche all’ultimo. Come se la città non seguisse più le scorribande nelle sue strade. Genovese invita e lo fa anche attraverso i fidati che inviano messaggi a ragazze e vip, belle presenze e aure rassicuranti. Dal momento che presenziava quel personaggio tutto sembrava garantito e ci si poteva divertire: è il pensiero che dichiarò la diciottenne. Il 10 ottobre entrò alla festa assieme ad altre due amiche già abituate a scintillii simili. Ma quella sera pare che da subito Genovese cominci a seguire le tre donne insistentemente. La stessa ossessione che segnò i frangenti dell’epilogo di Francesco D’Alessio: Broome non gli si era concessa e lui non si dava pace. Diventò sfrontato, fuori controllo, macerò nel livore finché al Nepentha avviene una prima resa dei conti. Lei è con il fidanzato, lui la segue in bagno e tenta ancora un affronto. Terry riesce a divincolarsi e continua la notte da un locale all’altro, finché sottrae la Smith&Wesson al fidanzato e si dirige in casa di D’Alessio in Corso Magenta. È già prima mattina, suona il campanello, si fa aprire per intimargli di smettere di tormentarla una volta per tutte. Forse si versano dell’altro bourbon, altra coca. Poi la colluttazione e i cinque colpi di pistola. L’epilogo di una trama che inizia mesi indietro, allo stesso modo della vicenda Genovese, iniziata già prima di quella festa di ottobre.
Le pupille al cielo di Giacobbe nell’attesa dell’abisso. A un certo punto Hemingway disse che bisognava rovistare nei verbi per trovare la voce di un’epoca: saziare è il paradigma di Milano che cuce gli Ottanta a noi, due ere slegate dalle rivoluzioni che una città si è guadagnata. Lo spirito europeo, l’Expo, sindaci competenti, l’accoglienza a un’integrazione culturale preziosa. Ma il cuore della terra non si estingue mai e rivela la voracità dell’affamarsi, e della combustione. Giorni dopo l’arresto di Genovese cominciano le dichiarazioni dei vicini di casa dell’ex imprenditore. Tutti confessano di essere stati angosciati per quell’ultimo piano che teneva svegli: ciascuno di loro ha sopportato, ha allertato le forze dell’ordine, qualcuno ha parlato con Genovese che in un primo momento si è dimostrato gentile e poi ha smesso di rispondere al telefono. Ma il dettaglio che cerchiamo è in una coppia che abita qualche appartamento sotto e che al tempo aspettava un bambino: sono in pena per l’imprevedibilità di quei festini. L’effetto arriva sempre nel tardo pomeriggio, quando percepiscono l’attesa di sapere se ci sarà un bagordo dell’ex imprenditore e dei suoi amici. L’unico modo per capirlo è rientrare a casa, dopo il lavoro, e alzare gli occhi verso l’attico con il terrore di vedere tutte le luci accese. Quel segnale. Le pupille sollevate alla Terrazza Sentimento: una città che attende l’abisso. Milano vede, di nuovo. Riconosce l’umanità che la rimpolpa di epoca in epoca. Quelle luminarie accese per una festa e il terrore che scende su chi le osserva. Sentirsi in lotta contro qualcuno che impone da un ultimo piano. Il volume troppo alto, il vociare, il trambusto, lottare contro una vitalità illegittima che corre lungo i muri. È un corpo a corpo che spinge a conoscere una parte di noi stessi a cui non eravamo pronti. Come il Giacobbe biblico che in una notte come tante si alza dal suo giaciglio e ha il sentore di raggiungere il fiume con tutto ciò che possiede. Non sa perché ma è conscio che deve farlo. Si mette in cammino con la famiglia e quando arriva al fiume chiede a mogli e figli di passare sull’altra sponda. Lui rimane al di qua, perché percepisce qualcosa che riguarda solo sé. Aspetta finché non compare una creatura che lo costringe al combattimento. È un lottare durissimo, con la creatura che non riesce a sopraffarlo ma soltanto a ferirlo all’anca. Giacobbe zoppica e quello è il segno di essersi spinto oltre. Il fiume lo veglia in una sorte di battesimo, prima che la notte si esaurisca, ribattezzandolo dolorosamente in una nuova anima. La città nella città, un regno chiamato Sentimento Demoni e lotte. Non ci sarà solo la denuncia della diciottenne. Ne verranno fuori altre. Ma in quel primo grido di Piazza Santa Maria Beltrade risiede un’immagine che ha la voce di tutte: le videocamere di sorveglianza mostrerebbero la ragazza che esce dall’appartamento con vestiti non suoi, una sola scarpa. Si racconta che Genovese le lanciò qualcosa dalla finestra quando lei era già in strada, forse la scarpa mancante, forse cento euro per sfregio. In quel momento la ragazza potrebbe essere già vittima da ore, presto lo diventerà una seconda volta per insinuazioni che le piomberanno addosso: se ha accettato la droga, è chiaro che si è messa in una situazione compromettente. Se era in una data situazione, non poteva non sapere. Se frequentava certe feste, non si deve stupire del risultato. Esattamente quel tipo di allusione: se una donna va in giro a correre al parco alle sei della sera in pantaloncini è normale che si esponga. Gravissimo. La violenza così finisce per non essere più violenza. E si va in una logica ancora più inaccettabile: la vittima, pur essendo vittima, non ha calcolato il rischio. Non ha calcolato che esistono realtà, come lassù in Beltrade, con leggi proprie e silenti. Città nelle città. Lassù, nel regno di Genovese, dove una terrazza è chiamata Sentimento. Un inno alla felicità, all’ebrezza, alle passioni. Alla libertà. E libertà sembra essere il grande imperativo da difendere rispetto al fuori. Ignorare le proteste dei vicini, modificare l’ultima parte della scalinata condominiale per ottenere una zona delimitata di accesso, installare un circuito di videosorveglianza interno. L’arma a doppio taglio di questa storia. Dopo quella notte di ottobre, Genovese tentò di far sparire le immagini delle diciannove telecamere puntate su ogni angolo dell’abitazione. Saranno recuperate e acquisite dagli inquirenti. Temeva i movimenti, i moti a luogo, la mappa personale che riperimetrava la sua città privata. Terry Broome nella sua notte disegnò un’area tra Piazza Diaz e Brera e Corso Magenta, Alberto Genovese siglerà direzioni brevi dal superattico all’attico con la zona di casa privata. Quanti metri percorsi? Una decina al massimo? Dieci metri per la possibile discesa agli inferi. E per un epilogo.Alberto Genovese con un gruppo di amici davanti al suo aereo privato.
Testimoni e “prostitute” nel walzer delle allusioni. L’epilogo: nel 1984 fu un salotto per Terry Broome e un omicidio, nel 2020 potrebbe essere una camera da letto a casa Genovese e uno stupro. C’è anche un coro di presenze intorno su cui gli inquirenti vegliano o hanno vegliato. Nel caso di Terry Broome mancarono i testimoni oculari: l’aspirante modella prese la Smith&Wesson dal fidanzato e si diresse in Corso Magenta. Quando entrò nella scena del delitto D’Alessio è in compagnia del proprietario di casa, Carlo Cabassi, e di una modella americana arrivata da poco in Italia, Laurie Marie Roiko. Nessuno di loro vide. Ascoltarono gli spari, ma non videro. Per Genovese la lista è al vaglio: c’era un buttafuori che vigilava la stanza da letto dove l’ex imprenditore portò la ragazza. C’era un cerchio magico che mandava inviti e gestiva il carnevale. C’era stata Sarah Borruso, compagna di Genovese: non quella notte, ma in altri due casi di denuncia di stupro rivolte contro il fidanzato. Lei dichiara che era Genovese a chiederle rapporti a tre, sesso estremo e droghe, facendola trovare «nelle situazioni». La causa era la personalità fortissima dell’uomo, secondo Borruso, e un ricatto d’amore per cui il suo Alberto la minacciava di tornare con la ex fidanzata che lo assecondava meglio. L’amore, insomma. Il circolo vizioso delle passioni e un carrozzone che lascia Milano in base alle stagioni. D’estate il regno è Ibiza, dove Genovese e Borruso gozzovigliavano e dove c’è un nuovo capo di imputazione per violenza su una ventitreenne. La ragazza che ha esposto denuncia era con Genovese e Sarah nella villa affittata. Borruso respinge le accuse dicendo che la ragazza sapeva di passare giorni di divertimento a drogarsi con la coppia. Tutti erano pienamente consenzienti, tutti, sempre, a parte Genovese che una volta arrestato per Terrazza Sentimento ammise di essere dipendente dalla droga e che non si rendeva conto di quello che stava facendo. Si domandò come mai nessuno l’avesse mai portato da un medico, lui che soffriva di «allucinazioni uditive», di «confusione nel ricordare». Imboccò la strada dell’autogiustificazione, aggiungendo di essere stato circondato da persone interessate solo alla sua fortuna e da «prostitute» «Prostitute» è il suono dell’allusione, ancora una volta, verso le vittime. Verso una loro presunta responsabilità, nel tentativo di finire nei paraggi delle parti lese. Basta questo per spostare l’inclinazione di un meccanismo narrativo? Davvero basterebbe insinuare, per esempio, che la diciottenne di quella festa di ottobre potrebbe essere stata una escort, e che tutto sarebbe avvenuto per soldi? È il ribaltamento che tentò Harvey Weinstein quando disse che le sue vittime soffrivano di memorie nebulose e inaffidabili rispetto alla verità. Meschinità da abuser, e manipolazione del linguaggio. Tanto per essere chiari, oggi: stupro significa stupro, abuser significa abuser, violenza significa violenza, survivor significa survivor.
La Milano dei demoni, e della giustizia futura. Terry Broome subì davvero ripetute insistenze da D’Alessio. Ebbe una parte di opinione pubblica dalla sua parte e attenuanti in fase processuale, fu condannata a dodici anni di carcere in appello. In Terrazza Sentimento il copione potrebbe avere avuto una sola direzione: Genovese riversa l’ultimo sé stesso – droga, camera da letto, buttafuori, venti ore di accanimento su un’innocente –, e niente altro. Nell’attesa del verdetto finale. Attese di verdetti: Alberto Genovese è a San Vittore. Intanto fioccano nuove rivelazioni, la trentina di conti correnti esteri a cui attingeva, altre cinque ragazze che si aggiungono alla denuncia della diciottenne, la ferita allargata di quest’ultima per una ulteriore macchina del fango subita («Con tutto quello che sta venendo fuori, mi chiedo se quella sera non sarebbe stato meglio tornare a casa in silenzio»). Altro si accumulerà in questa lotta dove Milano è l’altra ferita. Perché una città è sempre le sue vittime. E la futura giustizia. Allora vale la pena evocare Shirley Jackson, scrittrice amatissima per romanzi e racconti dove gli esseri umani si erodono tra loro, avvolti da luoghi che ne assorbono la tragedia. Jackson è celebre per dare alla normalità un’incombenza di pericolo, lasciando le donne e gli uomini al cospetto della loro natura. Diceva che il segreto di una storia nera è sempre nei luoghi luminosi in cui è immersa. Case, villaggi, piazze, stanze, rifugi in cui protagonisti credono di sottrarsi ai loro demoni. «Ma un demone cova sempre», ripeteva Jackson. Quanto covava il demone di Alberto Genovese prima della notte di ottobre, a terrazza Sentimento. Come covava. In lui, e in questa Milano bianca e di nuovo oscura.
Alberto Mattioli per "La Stampa" il 20 gennaio 2021. L'uomo che sta attraversando i giardini pubblici all'altezza della terrificante statua di Montanelli ha la sigaretta in bocca (e la mascherina, di conseguenza, abbassata). Non è solo un milanese imbruttito ma anche arrabbiato: «Già con il Covid non possiamo più fare niente. Siamo tutti depressi, se ci tolgono anche le sigarette è davvero finita. Ma poi qui siamo all'aperto. Non si può fumare nemmeno qui?». In effetti, no. Ieri era il giorno in cui è entrata in vigore a Milano la nuova grida antifumo, un divieto di sigaretta (e sigari, e pipa, mentre prodotti più impegnativi vietati lo sono già) anche all'aperto, nei parchi a meno di dieci metri da altri cittadini, nei cimiteri, alle fermate dei mezzi pubblici e allo stadio. Per il momento, però, il divieto c'è ma non si vede. Le aspettative dei salutisti che speravano in una stretta spettacolare, tutto e subito, con i vigili sguinzagliati per la città a fare multe (da 40 a 240 euro), per ora sono finite, è il caso di dirlo, in fumo. Evaporate nell'aria. E poi, fra il Covid che obbliga i più a restare a casa e il fatto che ieri a Milano la temperatura era appena sopra lo zero, ieri nei parchi cittadini era più facile trovare un porcino che un fumatore a zonzo. In ogni caso, la pubblica autorità ha deciso un avvio soft del divieto. I cartelli che riportano le nuove regole non sono stati ancora tutti collocati e i vigili hanno l'ordine di prevenire più che di reprimere: per ora niente multe, solo «moral suasion» (modello Quirinale, insomma). E infatti i rari fumatori presi in castagna cadono dalle loro nuvole di fumo: «Vale anche per la pipa?», chiede preoccupatissimo un sosia di Vittorio Feltri in transito per la Biblioteca degli alberi. Mentre un'anziana sciura al Parco Sempione si fa addirittura beffe delle minacciate rappresaglie: «Fumo da sessant'anni e non sarà certo un ghisa (la versione milanese del vigile, ndr) a farmi smettere». Tuttavia, indietro non si torna. La norma approvata dal Consiglio comunale in novembre e slittata a ieri per inghippi burocratici è motivata, oltre che dalla volontà di proteggere i fumatori da loro stessi, dal controllo dell'inquinamento. L'assessore Marco Grabelli equiparò a suo tempo le sigarette ad altri agenti inquinanti come il traffico, il riscaldamento e i forni a legna delle pizzerie. L'idea è quella di arrivare al divieto assoluto il primo gennaio 2025, quando tutte le aree pubbliche della città saranno vietate al fumo. Milano cerca così di ridorare il suo blasone di capitale innovativa e verde d'Italia, un po' appannato dalle attuali circostanze che ne fanno soprattutto la capitale italiana della pandemia. Ma intanto già dall'8 febbraio sarà «smoking free», come si dice nel tipico itagliese in uso in città, la zona dell'Idroscalo, «il mare dei milanesi» ad appena otto chilometri dal Duomo. E lì saranno vietate perfino le sigarette elettroniche. «Dura lex sed lex - commenta Francesco Greco, procuratore di Milano e fumatore -. Sono d'accordo, soprattutto per l'inquinamento da mozziconi». Insomma, Beppe Sala tira diritto, anche se per ora la tolleranza è tutt'altro che zero, tanto che ieri sera i vigili urbani di multe non ne avevano fatta nemmeno una. Come sempre in Italia, però, tutto finisce in politica, perché l'opposizione di centrodestra ha subito ravvisato un «fumus persecutionis» contro la minoranza fumatrice. «Per chi non avesse ancora chiaro quali sono le priorità della sinistra - sbotta Gianluca Comazzi, capogruppo di Forza Italia in Regione -, questo succede mentre viviamo un'emergenza sanitaria. Oltre a rincorrere chi non indossa la mascherina, i nostri vigili dovranno badare anche a chi fuma una Marlboro aspettando il bus». Basta spegnerla, però.
Le porte girevoli. Robledo entra nello staff della Moratti, l’ex Pm ottenne la condanna del figlio per la “Batcasa”. Frank Cimini su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. L’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo ha accettato di entrare a far parte della squadra di Letizia Moratti neo-assessore alla Sanità e vicepresidente della giunta regionale lombarda. Alfredo Robledo è in pensione e fa il manager della Sangalli azienda del settore servizi ambientali. Robledo darà il suo contributo alla parte giuridica della riforma della sanità regionale. I magistrati in pensione non riescono a stare al loro posto, come quelli in servizio che passano con grande velocità e nonchalance tra la toga e la politica. Porte girevoli. Nel caso specifico va ricordato che Robledo diversi anni fa aveva messo sotto inchiesta Letizia Moratti sindaco di Milano per abuso d’ufficio nell’ambito della vicenda conosciuta come “consulenze d’oro”. L’ufficio del primo cittadino era stato perquisito per una giornata intera dalla polizia giudiziaria. L’allora pm chiese l’archiviazione perché si rese conto che i fatti non erano di rilevanza penale. Il gip ordinò un supplemento di indagini che non portò novità. Un altro gip poi accolse la richiesta di archiviazione bis di Robledo, anche se poi ci fu la condanna per danni erariali da parte della Corte dei conti. Ai ricordi e ai trascorsi bisogna aggiungere che Robledo ottenne la condanna del figlio di Letizia Moratti per abusi edilizi in relazione ai lavori eseguiti nella “Batcasa”. Insomma c’erano problemi di opportunità che avrebbero dovuto sconsigliare Alfredo Robledo dall’assumere l’incarico per il quale va precisato non incasserà compenso alcuno. Da procuratore aggiunto Robledo era stato protagonista di un durissimo scontro, una sorta di vicenda pilota nella storia della magistratura italiana, con il capo dell’ufficio Edmondo Bruti Liberati in relazione alla gestione di diversi fascicoli di indagini sulla pubblica amministrazione. Bruti esautorava Robledo dall’indagare sugli appalti di Expo, una storia complicata dove i sospetti sfioravano anche alcuni giudici considerando che i vertici del palazzo di corso di porta Vittoria in relazione ai fondi di Expo giustizia decidevano di non indire gare pubbliche ma di affidarsi ad “aziende in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione”. Una di queste aziende aveva addirittura sede nel paradiso fiscale del Delaware, ma siccome cane non mangia cane, il fascicolo sulle presunte responsabilità delle toghe, dopo aver fatto il giro d’Italia tra diverse autorità giudiziarie venne archiviato a Trento. Con tanti saluti al Delaware. Lo scontro tra Bruti e Robledo venne risolto in pratica dall’Intervento di Giorgio Napolitano presidente della Repubblica e del Csm il quale appellandosi alla riforma intervenuta tempo prima sui poteri dei capi degli uffici inquirenti “sentenziò” che la situazione era fin troppo chiara. Insomma aveva ragione Bruti, tra i fondatori di Magistratura Democratica nata per tutelare l’orizzontalità nelle decisioni delle procure, ma si sa che si nasce incendiari e si muore pompieri, anche se non vale certo per tutti.
Milano e la violenza della Politica di Davide Steccanella: quanta storia tra piombo, forca e cabaret. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Gennaio 2021. Un atto d’amore per la nostra Milano. Scritto da uno nato a Bologna e raccontato, in questo momento, da una nata a Parma, che è a cento chilometri da Bologna e 130 da Milano. Gliene hanno dette di tutti i colori, a ’sta città, che c’era la nebbia e il cemento, e piazzale Loreto con Mussolini a testa in giù e la Petacci scomposta, e i calabresi con la valigia di cartone chiamati terùn mentre i milanesi si ingozzavano di panettone. E poi la strage e poi gli anni di piombo e poi la città da bere e i paninari, poi la moda, il design e l’Expo precipitati infine nel contagio più contagioso d’Italia. E quattordicimila cittadini milanesi che se ne sono andati nell’ultimo anno. Potrebbe chiamarsi “Milano ti amo”, l’ultimo libro di Davide Steccanella, avvocato e scrittore. Invece il titolo sembra parlare di tutt’altro: Milano e la violenza politica 1962-1986 (Milieu edizioni, euro 18,40). E non vuol dire che si ami una città “nonostante” quel che è successo in quei vent’anni, ma “anche” per quello. Perché ogni evento ha una sua spiegazione, una propria logica, e la ritrovi in ogni angolo, in ogni viuzza che prima conoscevi perché lì c’era un piano bar o un cabaret, e dopo perché sul selciato era rimasto il corpo di qualcuno. Ammazzato dalla polizia o da qualcuno cui era parso naturale, un certo giorno, prendere le armi. Un periodo di storia che non si è mai voluto veramente elaborare, che si è tenuto lontano dalle nostre mani come fosse un tizzone ardente, fino a delegare tutto alla magistratura. La quale ha fatto i suoi conti: 269 sigle armate attive alla fine del 1979, 36.000 cittadini inquisiti, 6.000 condannati, 7.866 attentati e 4.290 gesti di violenza a persone. Cui andrebbero aggiunte le leggi speciali e il nascente uso del “pentitismo”. Cioè le prove generali di quel che sarà in seguito, con la fase di tangentopoli e quella dei processi per fatti di mafia, lo sviluppo di un uso politico della giustizia che prenderà la tangente dell’aggressione ai fenomeni criminali e anche sociali come prevalente rispetto al giudizio sul singolo fatto e sul singolo sospettato. Non è un caso se Armando Spataro, che degli anni Settanta milanesi fu protagonista nel suo ruolo di pubblico ministero, rivendichi il fatto che «il terrorismo perse nei tribunali» ed esalti le leggi del ministro dell’interno Rognoni e, da parte dei magistrati, la «capacità di gestione di un fenomeno divenuto quasi "di massa" come quello dei cosiddetti pentiti». E dall’altra parte Cecco Bellosi, che fu militante della colonna Walter Alasia delle Brigate rosse, ricordi che «negli anni Settanta c’era un mondo attorno a noi, che voleva cambiare il mondo. La lotta armata –questo è il mio pensiero netto- ne è stata la parte estrema, non estranea. Ma di quegli anni è stato rimosso il contesto: un movimento denso di lotte, di condivisione, di appartenenza». Sono un po’ i due poli di una stessa realtà. Un corno del problema, quello espresso da Spataro, che chiede la resa, l’altro, quello di Bellosi, che dice “ma non eravamo solo criminali”. Poi però c’è anche, nella Milano di ieri e di oggi, una come Claudia Pinelli. La quale, nell’introduzione del libro, spiega quanto per lei, sua sorella Silvia e sua madre Licia, sia stato «importante perseverare e rimanere nella città a cui sentiamo di appartenere, la città di mio padre, Giuseppe Pinelli, nato, vissuto e morto a Milano, il suo nome inciso in alcune di quelle lapidi che segnano il lungo itinerario di morti e dolore di questo territorio». Per noi è stato importante, concludono, decidere di resistere e di rimanere a Milano. Non solo la città della strage, la città della morte violenta di un anarchico, la città degli anni di piombo (espressione quanto mai strampalata, assunta da un bellissimo film di Margaret von Trotta, che si riferiva agli anni del post nazismo in Germania), degli anni Sessanta che si aprirono con l’uccisione in piazza Duomo dello studente Giovanni Ardizzone, dei Settanta con le morti di Calabresi e Feltrinelli, gli Ottanta che riassumevano quindici anni di guerriglia urbana e di morti sul selciato. Dietro e prima e durante c’è Milano, tutta intera, capace di tutto contenere, tutto amare e farsi amare. C’è la città dove è concentrato un quarto del capitale economico del Paese, dove si tengono insieme il Teatro alla Scala, lo stadio di San Siro e il Corriere della sera, dove nel 1950 riapre dopo la guerra La Rinascente e si inventa il panettone (“Non c’è Natale se non c’è Motta”, “Si scrive Natale, si pronuncia Alemagna”) e nel 1954 partono le prime trasmissioni della Televisione di Stato e un anno dopo va in scena Lascia o raddoppia. E possiamo aggiungere la grandiosità del Palazzo del ghiaccio che con i suoi 1800 metri quadrati è la principale pista di ghiaccio coperta d’Europa). Sono gli stessi anni in cui viene inaugurato il primo supermercato d’Italia, ideato dal genio Caprotti, quello dell’Esselunga. E anche del concerto di Billie Holliday e della grande stagione milanese del jazz. Può stupire il fatto che, in questi anni di meraviglia dopo due guerre e il fascismo, e in un contesto di sviluppo ma anche creatività di artisti come Lucio Fontana, architetti come Gio Ponti, scrittori come Umberto Eco, e giornalisti fotografi musicisti e cabarettisti, e il bar Giamaica e il santa Tecla e il negozio di Elio Fiorucci, Milano creasse dentro di sé anche tutte le sue contraddizioni sociali? E anche una certa voglia di illegalità? Basterà ricordare la famosa rapina di via Osoppo, quella che ispirerà il film Audace colpo dei siliti ignoti di Nanni Loy. Non fu un fatto politico. Ma il primo sasso era tirato, anche se non pareva. La forza della polizia non fu inferiore a quella degli “altri”. Nel 1962 lo studente Giovanni Ardizzone fu schiacciato da una camionetta della polizia durante una manifestazione. E gli anni Sessanta si chiuderanno in modo tragico, con la morte di Antonio Annarumma durante una manifestazione davanti al teatro Lirico, poco lontano e poco prima della strage di piazza Fontana. Non so se sia vero quel che disse qualcuno, e cioè che noi giovani di allora perdemmo la verginità quel 12 dicembre del 1969. So che sicuramente cambiò tutto. E so che i nomi di quelle vie, dove prima andavamo al cabaret a vedere Jannacci, i Gufi o Cochi e Renato, o a ballare il rock con Adriano Celentano e Bruno Dossena, erano diventati i luoghi bui dove qualcuno era caduto. Milano città grande, o Milano grande città? La sua ricchezza, le sue contraddizioni. C’è Primo Moroni, il “libraio del movimento”, che ha aperto la sua Calusca e Andrea Valcarenghi che ha fondato “Re Nudo” e Mauro Rostagno “Macondo”. E Dario Fo e Franca Rame sfondano con più spettacoli al giorno di Morte accidentale di un anarchico e nasce la Palazzina Liberty, luogo di vita quotidiana di migliaia di giovani. Ma Milano era stata anche la città di Pietro Secchia e della Volante Rossa, e dell’album di famiglia di cui parlò in anni successivi Rossana Rossanda. Le immagini parlavano da sole. Andavi una sera al bar Oreste di piazza Mirabello e vedevi qualcuno che giocava a boccette e qualcun altro seduto a un tavolino che mostrava un disegno ai suoi amici, ed era il tracciato del percorso per una rapina di banca. La città teneva insieme tutto. I gruppi armati delle Brigate rosse e di Prima linea sono nati nelle fabbriche, ma cresce anche qualche forma di “spontaneismo armato”. A Milano a un certo punto «nei giovani militanti si produce una sindrome terribile… le scelte paiono essere solo di tipo estremo e radicale», scrivono Nanni Balestrini e Primo Moroni. E si arriva al triennio ‘78-’81, il più sanguinoso per la città di Milano, con un bilancio di 28 morti, “da una parte e dall’altra”. Il libro dell’avvocato Steccanella meriterebbe ben altro approfondimento. Per esempio sulle tante riforme che comunque in quegli anni il Paese seppe fare, anche e soprattutto per merito dei tanti movimenti, a partire da quello delle donne, e poi degli studenti e dell’”autunno caldo”. E di persone come il mio indimenticabile amico Primo Moroni. È morto nel 1998, sono andata al suo funerale, anche sfidando qualche “intransigente”, che lui avrebbe incenerito con la sua ironia, e che non mi voleva. Anche in questo Milano fu protagonista, qui abitarono i buoni e i cattivi. Ma qui «è ancora possibile ritrovare i luoghi di una storia che racconta di chi, nel corso di quel lungo e violento conflitto ha perso la vita. Da una parte e dall’altra, compresi quelli delle targhe che non ci sono e che nessuno ricorda». Un libro per capire, per ricordare.
(ANSA il 2 gennaio 2021) E' morto a Milano Marco Formentini, il primo e unico sindaco della Lega del capoluogo lombardo in carica dal 1993 al 1997. Ne dà notizia Davide Boni, ex presidente del Consiglio regionale della Lombardia. Formentini aveva 90 anni ed era malato da tempo. Prima di diventare sindaco, Formentini venne eletto deputato sempre nelle file della Lega ed è stato poi anche eurodeputato per dieci anni, non tutti nelle file del Carroccio che lasciò per passare ai Democratici.
Morto Marco Formentini, unico sindaco leghista di Milano: aveva 90 anni. Andrea Montanari su La Repubblica il 2 gennaio 2021. Aveva partecipato alla Resistenza e negli anni '90 era entrato nella Lega. Salvini: "Buon viaggio Marco". Sala: "Un politico di cui Milano può essere orgogliosa". Si è spento a 90 anni Marco Formentini, primo sindaco leghista di Milano. Era nato a La Spezia nel 1930. A 14 anni aveva partecipato alla Resistenza come vedetta partigiana. Si era laureato in giurisprudenza e dal 70 al 75 è stato esponente del partito socialista italiano. Di Craxi aveva detto: "l'ho conosciuto poco, non riesco a giudicarlo ma non mi è mai piaciuto". Dopo una pausa era tornato alla politica negli anni 90, entrando nella Lega Nord. Con il Carroccio viene eletto deputato nel '92 e parlamentare europeo nel '94. Da europarlamentare negli ultimi anni lasciò il Carroccio per passare ai Democratici con Parisi di cui era amico personale. Il 20 giugno del 1993 viene eletto sindaco di Milano, vincendo al secondo turno su Nando dalla Chiesa. Primo e unico sindaco di Milano della Lega dopo Tangentopoli. Primo a essere scelto direttamente dagli elettori, dopo l’entrata in vigore della nuova legge elettorale. In quegli anni la sua prima moglie Augusta, era stata soprannominata First sciura, dalla rivista satirica Cuore. La notte degli exit poll il leader della Lega Umberto Bossi si affacciò da un balcone di piazza Duomo insieme al neosindaco e salutando i sostenitori leghisti rivolse lo sguardo verso il civico 19, storica sede del PSI milanese. Un gesto rivolto ai politici della Prima Repubblica che fu interpretato come il simbolo della fine della cosiddetta “Milano da bere”. Rimase in carica fino al 1997, quando gli subentrò Gabriele Albertini, che fu eletto sull’onda dell’era berlusconiana. Leghista fin dalle origini, fu eletto parlamentare nel 1992 e due anni dopo all’Europarlamento. Durante il suo mandato da sindaco fu protagonista tra l’altro della campagna per lo sgombero del centro sociale Leoncavallo. Ma nel 2003 si pentì quando affermò: "Se fossi sindaco adesso lavorerei per aiutare il Leoncavallo", sostenendo che "lo sgombero forzato li ha aiutati a maturare e mi risulta che dove stanno ora sono una presenza molto meno fastidiosa e che si siano sforzati di passare dalla connotazione politica e ideologica a quella culturale e sociale”. Nel 2004, Formentini aderì ai Democratici di Arturo Parisi. Poi alla Margherita e alle primarie del partito Democratico del 2007 ha sostenuto la candidatura di Rosy Bindy. Lunedì dalle 9 la camera ardente a palazzo Marino e alle 14 la cerimonia civile. Tanti lo ricordano in queste ore, come Davide Boni, ex presidente del Consiglio regionale della Lombardia: "Mi giunge questa dolorosa notizia, è venuto a mancare Marco Formentini, ho un ricordo particolare, nel 1993 fummo eletti insieme Lui a Milano e io a Mantova. Bei tempi, tempi eroici ed epici". E il leader leghista Matteo Salvini su twitter: "Buon viaggio Marco, primo sindaco leghista di Milano, uomo onesto, coraggioso, concreto e generoso. Proteggi la nostra Milano e la nostra Italia da Lassù". Il sindaco Beppe Sala: "E' stato un uomo politico di cui Milano può essere orgogliosa. Partigiano, cuore socialista, segretario della giunta della Regione Lombardia di Piero Bassetti, aderisce alla Lega in un percorso di continua ricerca di nuove soluzioni politiche per il nostro Paese. Nel 1993 diventa il primo sindaco di Milano eletto direttamente dai cittadini milanesi. La sua Giunta sperimentò una scelta di figure per lo più indipendenti dallo schieramento dei partiti".
Morto l'ex sindaco di Milano Marco Formentini. A 90 anni si è spento l'ex sindaco Marco Formentini, il primo e finora unico sindaco leghista di Milano. Guidò il capoluogo lombardo tra il 1993 e il 1997, dopo l'inizio di Tangentopoli. Orlando Sacchelli, Sabato 02/01/2021 su Il Giornale. L'ex sindaco di Milano Marco Formentini è morto a 90 anni. A renderlo noto, su Facebook, è stato Davide Boni, ex presidente del Consiglio regionale lombardo. "Mi giunge questa dolorosa notizia , è venuto a mancare Marco Formentini, ho un ricordo particolare, nel 1993 fummo eletti insieme, lui a Milano e io a Mantova. Bei tempi, tempi eroici ed epici". Formentini guidò la città di Milano dal 1993 al 1997. È stato il primo e unico sindaco della Lega nel capoluogo lombardo. Nato a La Spezia il 14 aprile 1930, era stato un giovane partigiano prima della laurea in giurisprudenza e della carriera politica. Esponente del Partito Socialista Italiano, dal 1970 al 1975 fu segretario della giunta della Lombardia. Negli anni Novanta, invece, entrò a far parte della Lega. Con il Carroccio fu eletto deputato alle elezioni politiche del 1992 e parlamentare europeo nel 1994. Con la nuova legge elettorale che prevedeva l'elezione diretta dei sindaci il 20 giugno 1993 Formentini venne eletto primo cittadino di Milano, battendo Nando dalla Chiesa, candidato del centrosinistra. Nei suoi anni a Palazzo Marino intraprese un duro braccio di ferro con il centro sociale Leoncavallo, contro cui si era scagliato durante tutta la campagna elettorale: il sindaco riuscì a farlo traslocare da via Leoncavallo a via Watteau. Pur avendo un'ampia maggioranza, la coalizione del centrodestra si rivelò assai litigiosa e, nella fase finale del suo mandato, Formentini sarà costretto a imbarcare dall'opposizione alcuni componenti del Pds. Dopo l'esperienza da sindaco e appena rieletto al parlamento di Strasburgo, in occasione delle europee del 1999, Formentini lascia la Lega, in polemica con la fase dell'indipendentismo padano, successiva alla rottura con Silvio Berlusconi. Successivamente, grazie all'amicizia personale con Arturo Parisi, aderisce ai Democratici, passando così al gruppo dell'Eldr. Nel 2004, candidato alle elezioni europee nelle file dell'Ulivo, ma non è eletto. È stato membro dell'Assemblea Federale della Margherita nel 2005, e alle primarie del Partito Democratico del 2007 ha sostenuto Rosy Bindi. Dal novembre del 2008 ha aderito alla Democrazia Cristiana per le Autonomie. "Buon viaggio Marco - scrive su Twitter Matteo Salvini - primo sindaco leghista di Milano, uomo onesto, coraggioso, concreto e generoso. Proteggi la nostra Milano e la nostra Italia da lassù". "Piango la scomparsa dell'amico Marco Formentini", afferma Roberto Calderoli, vice presidente del Senato. "Una persona che conoscevo e apprezzavo da più di trent'anni: è stato il mio primo capogruppo alla Camera dei Deputati, per un anno, prima di diventare il sindaco di Milano, ma è stato anche un amico. Mi era spiaciuto molto quando aveva scelto di lasciare la Lega per passare con la Margherita ma per me resterà sempre uno di quelli, insieme a Umberto Bossi, che mi ha insegnato a fare politica e a viverla con impegno e passione". "Marco Formentini è stato un uomo politico di cui Milano può essere orgogliosa", scrive su Facebook il sindaco di Milano Giuseppe Sala. "Partigiano, cuore socialista, segretario della giunta della Regione Lombardia di Piero Bassetti, aderisce alla Lega in un percorso di continua ricerca di nuove soluzioni politiche per il nostro Paese. Nel 1993 diventa il primo sindaco di Milano eletto direttamente dai cittadini milanesi. La sua Giunta sperimentò una scelta di figure per lo più indipendenti dallo schieramento dei partiti. Ebbe una navigazione non semplice - aggiunge Sala - chiese e ottenne l'appoggio della sinistra per concludere il suo mandato. Da parlamentare europeo, aderì alla Margherita (in Europa 'I Democratici'), portando la sua esperienza e la sua visione anche nell'alveo del centro sinistra. Lasciò in eredità la pedonalizzazione dal Duomo a San Babila, la linea 3 della metropolitana e il primo progetto della linea 4. Ma soprattutto, dopo uno dei momenti più critici della storia di Milano del dopoguerra, seppe farsi apprezzare per quelle doti umane che un sindaco non deve mai dimenticare di esercitare nei confronti dei suoi cittadini. Grazie, Marco. Non ti dimenticheremo". "Addio Marco. Ci lascia il primo sindaco leghista di Milano, eletto direttamente dai milanesi!", afferma il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana. "A lui possiamo attribuire l'impulso, fatto di scelte concrete, che ha prodotto la 'rinascita di Milano'. Una persona perbene, molto competente e affabile. L'ho conosciuto personalmente - prosegue Fontana - e ne ho potuto apprezzare i suoi modi genuini ma, allo stesso tempo, risoluti. Non dimenticherò mai il suo sorriso rassicurante. Ai suoi cari - conclude il governatore - le più sentite condoglianze di tutta la Regione Lombardia e dei lombardi". Roberto Maroni ricorda Formentini pubblicando su Facebook due foto: una lo ritrae con lui e un'altra con l'ex sindaco ritratto con alle spalle il Duomo di Milano e il commento "Momenti magici!!! Grazie Marco". "Apprendiamo con grande dispiacere della scomparsa di Marco Formentini, un uomo che mancherà non solo alla Lega ma alla nostra città", affermano in una nota i deputati milanesi della Lega Igor Iezzi, Alessandro Morelli e Federica Zanella. "Milano oggi è in lutto per la perdita di un politico concreto ma anche di un uomo perbene e generoso". Paolo Grimoldi, deputato leghista e segretario della Lega Lombarda Salvini Premier lo ricorda con queste parole: "Tutta la Lega Lombarda piange la scomparsa di Marco Formentini, che resterà per sempre nella memoria di ognuno di noi per essere stato il primo sindaco leghista di Milano, un grande sindaco che ha fatto grandi cose per la sua città, e un combattente sempre in prima linea nelle battaglie per il federalismo". Gianfranco Rotondi (presidente della Fondazione Dc e vicecapogruppo di Fi alla Camera) lo ricorda così: "Addio a Marco Formentini, il leghista democristiano: fu l'unico sindaco leghista della storia di Milano e rifondò con me la Dc nel 2005. Ma soprattutto fu un galantuomo e un milanese apprezzato in tutta Europa". "Lo ricordo come onesto intellettualmente e capace di grande ascolto. Una preghiera per lui", scrive sui social Fabio Pizzul, capogruppo Pd al Consiglio regionale della Lombardia. E la segretaria metropolitana del Pd Silvia Roggiani aggiunge: "Scompare un protagonista della storia di Milano. Socialista e partigiano, come primo Sindaco eletto direttamente dai cittadini, durante una fase travagliata e difficile per tutto il Paese, è stato promotore di alcune delle rivoluzioni più importanti lasciate in eredità alla città, su tutte la linea 3 della Metropolitana e il primo progetto della M4. Con Marco Formentini se ne va un uomo sensibile e intellettualmente onesto, un amministratore capace che ha saputo guidare Milano con generosità e visione, che vogliamo ringraziare per aver portato anche nel centrosinistra".
Lutto cittadino a Milano. In occasione delle esequie di Marco Formentini lunedì 4 gennaio a Milano sarà lutto cittadino. In tutte le sedi comunali le bandiere civiche saranno esposte a mezz'asta. La camera ardente sarà allestita nella Sala Alessi di Palazzo Marino lunedì dalle 9.30 alle 13.30. A seguire, alle ore 14.30, si terrà la cerimonia di commemorazione. La partecipazione sarà consentita nel rispetto delle disposizioni vigenti per il contenimento dell'emergenza sanitaria.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Piemonte.
Dal "Corriere della Sera" il 15 dicembre 2021. Un anno e sette mesi di carcere: questa la condanna che la Corte di Appello di Torino ha inflitto all'ex governatore della Regione Piemonte Roberto Cota per la vicenda Rimborsopoli che ha coinvolto ex consiglieri regionali. Per Cota, che nel frattempo ha lasciato la Lega per Forza Italia, si tratta del quarto processo. Assolto in primo grado, poi condannato in appello a un anno e sette mesi, quindi il rinvio a un nuovo appello da parte della Cassazione. Tra gli altri condannati ieri, i deputati Paolo Tiramani della Lega, oggi sindaco di Borgosesia, e Augusta Montaruli di FdI.
Irene Famà per “La Stampa” il 10 dicembre 2021. «La faccia è la mia. Temo che questa cosa mi travolgerà». È la solitudine dell’ex sindaca Chiara Appendino riassunta in un messaggio ai più stretti collaboratori. Mal consigliata, forse. Sicuramente tenuta all’oscuro su vari aspetti dell’organizzazione della proiezione della finale di Champions League in piazza San Carlo a Torino il 3 giugno 2017. La festa che diventò tragedia. Un evento messo in piedi in «fretta e furia», come detto dal procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo. In diverse fasi Appendino non venne aggiornata. Lo raccontano le chat dei giorni successivi alla tragedia, illustrate ieri in Corte d’Assise durante il processo su lacune e carenze in materia di sicurezza e gestione a nove rappresentanti di istituzioni e forze dell’ordine. Quelli che hanno scelto il rito ordinario. Per quei fatti, Appendino è stata condannata in abbreviato primo grado a 1 anno e 6 mesi. Così l’ex capo di gabinetto Paolo Giordana e altri. Nei giorni successivi a quella notte la sindaca è preoccupata. Si accorge che molto non le è stato detto. C’è la questione dell’ordinanza del vetro: «Su questo siamo indifendibili». E quella degli steward: «Se viene fuori che non c’erano per problemi di soldi siamo morti». Chiede chiarimenti ai suoi collaboratori, a coloro a cui aveva lasciato ampio margine di manovra. Ottiene risposte vaghe, giri di parole burocratici. O almeno così appare da quelle chat, che la Procura aveva dimenticato e poi ritrovato. L’ordinanza del vetro che avrebbe dovuto vietare le bottiglie in piazza, Appendino non l’ha mai firmata. E quella notte il pavimento del salotto elegante di Torino era un tappeto di cocci di vetro. «Esiste sta ordinanza del 2015 oppure no?» scrive la sindaca in chat. I telegiornali ne parlano, in molti chiedono chiarimenti. «La faccia è la mia, di che ordinanza si parla?». Giordana prende tempo: «Stiamo cercando». Lei lo incalza: «Paolo, mi avevi detto al telefono che non erano mai state fatte ordinanze». I messaggi proseguono: «Il problema è sempre e solo uno dove siamo indifendibili. Ordinanza vetro. Temo che questa cosa mi travolgerà». Interviene anche il marito Marco Lavatelli per chiedere se «far saltare la testa del capo dei vigili». Il 5 giugno il tema sono gli steward. La Questura aveva chiesto a Comune e Turismo Torino, ente strumentale della Città che prese in carico l’evento, di fornirli per i varchi di filtraggio. Se ne era parlato il 31 maggio in una riunione nell’ufficio del capo del gabinetto della Sindaca. E il presidente di Turismo Torino, Maurizio Montagnese, il primo giugno, in un’email alla Questura e per conoscenza al Comune era stato chiaro: «Non ci è possibile sopportare l’onere economico». Occupatevene voi. Appendino non sapeva nulla. A Giordana scrive: «Se viene fuori che gli steward non c’erano per problemi di soldi siamo morti». Lui scarica la responsabilità: «Sono cavoli del questore». Lei ribatte: «Di queste cose non abbiamo parlato però». E chiede: «Quindi noi sapevamo che la questura ci aveva chiesto di mettere gli steward? E sapevamo che non avevamo i soldi». La sindaca sottolinea che si parla di una riunione «fatta dal gabinetto». Giordana semplifica. «Paolo la verità non è così chiara. Verrà fuori un merd... unico su sta roba».
Irene Famà per “la Stampa” l'11 dicembre 2021. «Teniamo il fronte con prefetto e questore unito o no? Il dubbio è se far saltare la testa del capo dei vigili. Magari si può aspettare». A meno di 48 ore dalla tragedia di piazza San Carlo a Torino, Marco Lavatelli, marito di Chiara Appendino, in una chat con i collaboratori più stretti della sindaca propone un "capro espiatorio". È Ivo Berti, nuovo comandante vicario della polizia municipale. A fermarlo, con cautela, è proprio l'ex sindaca: «Marco non si capisce nulla. La testa del comandante per ora non salta». Che la macchina del Comune si sia inceppata prima, durante e dopo il caos nel salotto elegante della città, diventato il 3 giugno 2017 una trappola per i tifosi davanti al maxischermo della finale di Champions League Real Madrid-Juventus, è sotto gli occhi di tutti. L'ordinanza che proibiva le bottiglie in vetro non c'era, gli steward ai varchi non erano sufficienti: una serie di omissioni al centro del processo in Corte d'Assise dove alcuni difensori, gli avvocati Claudio Strata, Elena Negri e altri, hanno illustrato le chat di Appendino e dei suoi fedelissimi. Conversazioni che raccontano una sindaca tenuta all'oscuro di diversi aspetti organizzativi e spaventatissima: «Temo che questa cosa mi travolgerà». Funzionari che si rimpallano responsabilità e il marito e i collaboratori di Appendino che pensano a chi dare la colpa. Ivo Berti appunto. Già tirato in ballo dal capo di gabinetto Paolo Giordana nel tardo pomeriggio del 3 giugno, quando i problemi erano anche in piazza Castello, invasa dai venditori abusivi. «Lunedì pomeriggio riunione urgente da me con Berti» scrive. «Pazzesco» risponde uno. «Povero Berti» è il commento di un altro. Poi la tragedia: oltre 1600 feriti e due morti. Appendino chiede chiarimenti. Quella notte è a Cardiff e dell'organizzazione dell'evento, com' è normale, non si è occupata direttamente. Nei giorni successivi, su WhatsApp capisce che i suoi collaboratori o non le hanno comunicato tutto o le hanno fornito consigli e informazioni errate. Berti, il 5 giugno, sembra essere l'anello più debole. Indagato in un primo momento, la sua posizione era stata archiviata. Ai magistrati, però, la sua versione dei fatti l'aveva raccontata senza nascondere amarezze e perplessità: «Non ho parlato con nessuno sino alla mattina del 4 giugno. Quando il capo di gabinetto, intorno alle 10,05, mi aveva avvertito telefonicamente della riunione in Prefettura convocata per le 10,30».
Chiara Appendino: “Il problema è sempre uno dove siamo indifendibili. L'ordinanza vetro. Temo che sta cosa mi travolgerà”
Marco Lavatelli: “Teniamo il fronte con questore e prefetto unito o no? Il dubbio è se far saltare il capo dei vigili. Magari si può aspettare”
Chiara Appendino: “Infatti la testa del comandante per ora non salta Marco non si capisce nulla”
Paolo Giordana: “Marco per favore ora sono con Spinelli e Gregnanini Stiamo preparando tutto”
Estratto dell’articolo di Domenico Di Sanzo per “il Giornale” l'11 dicembre 2021. […] E sicuramente provocano imbarazzo nel M5s le chat di Chiara Appendino illustrate in Corte d'Assise a Torino e pubblicate ieri dai giornali. La vicenda è quella della tragedia di Piazza San Carlo del 3 giugno 2017. Mille e 500 feriti e due morti in una calca dopo la proiezione della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid. Appendino, già condannata con il rito abbreviato, due giorni dopo il disastro diceva al capo di gabinetto Paolo Giordana frasi come «se viene fuori che gli steward non c'erano per problemi di soldi siamo morti». E ancora: «Verrà fuori un merd... unico su sta roba». Parole scomode. Soprattutto per Appendino, uno dei nomi di punta del nuovo corso. Nominata da Conte alla guida del comitato formazione e aggiornamento dei Cinque Stelle. […]
Piazza San Carlo, chat Appendino-Giordana: «Se viene fuori che gli steward non c’erano per problemi di soldi siamo morti». Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021. Davanti alla corte d’Assise, i difensori del viceprefetto Dosio citano la conversazione (risalente al 5 giugno 2017) tra l’allora sindaca e il capo di gabinetto. Una frase che rimbomba nella maxi aula e gela, ancora una volta, le coscienze: «Se viene fuori che gli steward non c’erano per problemi di soldi siamo morti». Scriveva questo, in una chat, l’allora sindaca di Torino, Chiara Appendino, due giorni dopo la tragedia di piazza San Carlo. Il destinatario del messaggio era l’ex capo di gabinetto, Paolo Giordana.
La conversazione (risalente al 5 giugno 2017) è stata illustrata oggi (9 dicembre) davanti alla corte d’Assise dagli avvocati Claudio Strata e Giancarla Bissattini, difensori di uno dei nove funzionari pubblici imputati, il viceprefetto Roberto Dosio.
Il 3 giugno 2017, durante la proiezione in piazza San Carlo della finale di Champions fra Juve e Real Madrid, un’ondata di panico tra la folla provocò 1.500 feriti e, in seguito, la morte di due donne. Sia Appendino che Giordana sono già stati condannati in primo grado con il rito abbreviato. Quello che è ripreso oggi in vece in corte d’Assise è il giudizio ordinario a carico degli altri funzionari pubblici.
Un processo che riguarda le presunte lacune in materia di gestione e sicurezza. La tesi di Strata e Bissattini è che il viceprefetto Dosio e la Commissione provinciale di vigilanza (da lui presieduta) non possono essere considerati responsabili per le omissioni di altri soggetti. Sulla mancanza degli steward, per esempio, hanno sottolineato che «nessuno informò la prefettura». «Il 1/o giugno — hanno spiegato —l’agenzia Turismo Torino, cui il Comune affidò l’organizzazione, scrisse alla questura che per ragioni economiche non era possibile predisporre un servizio di steward. Quindi ci pensarono le forze dell’ordine, mobilitando in tutto un centinaio di agenti. Ma di questo la Commissione rimase all’oscuro. Diversamente, dato che quella dello steward è una figura professionale altamente specializzata, avrebbe dato delle indicazioni precise su come regolare l’attività».
La chat
Nella chat, Appendino chiede a Giordana se «sapevamo che la questura ci aveva chiesto di mettere gli steward e che non avevamo soldi?». Il capo di gabinetto risponde che «non era una richiesta», perché si trattava di una circolare generale (firmata dal capo della polizia pochi giorni prima) «valida per tutta Italia» e inoltrata a Turismo Torino; quindi, aggiunse che «se gli steward fossero stati indispensabili ci avrebbero dovuto mettere quella prescrizione. Non lo hanno fatto. Affari loro». Non parve una risposta felice: «Io — fu infatti la replica della sindaca — non la farei così semplice. Su sta’ roba verrà fuori un merdone unico». Quanto alle altre contestazioni mosse a Dosio, per la difesa è una «illazione» sostenere che la Commissione di vigilanza non visionò il progetto della manifestazione: «Una nota della prefettura, relativa al lavoro che era stato, dimostra esattamente il contrario. A meno che non si voglia dubitare della prefettura».
«Passò tutto un po’ in cavalleria»
Di fronte alle evidenti difficoltà organizzative, anche la questura non fece una piega, come raccontò un anno fa l’ispettore superiore di polizia Gioacchino Lo Presti, 53 anni, che dal 1992 si occupa di ordine pubblico nell’ufficio di gabinetto. Lo spiegò per oltre due ore nell’aula bunker delle Vallette, come testimone, nel processo che vede i funzionari pubblici accusati di disastro e omicidio colposi dal procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo.Non ne uscì solo una questione di responsabilità penali — quelle le stabilirà la corte d’Assise presieduta dal giudice Alessandra Salvadori — ma di vergogna civile, delle istituzioni. Sentirla raccontare, fece un certo effetto. Già si era partiti male: «I tempi erano notevolmente ristretti, purtroppo». Altra grana: «Loro avevano difficoltà economiche per materiali e risorse umane». Tanto che, a un certo punto, «Pasquaretta (ex capo ufficio stampa della sindaca, ndr) fece una telefonata a Pairetto (della Juve, ndr). «“Ci dovrebbero dare sui 10.000 euro”, disse». I pericoli erano altri: «Io e la collega dicemmo: “Attenzione al discorso dei vetri, perché spesso le bottiglie finiscono per essere lanciate”». Chiara Bobbio, funzionaria del Comune, tra gli imputati, lo rassicurò: «Nelle piazze auliche, spiegò, la vendita del vetro è già vietata».
Altro campanello d’allarme, il 29 maggio: «Fu inviata una lettera all’amministrazione comunale per avere notizie più certe». Ovvero: «Chiedevamo stewart e metal detector, oltre a spazi per proteggere le persone da un eventuale attacco terroristico, che in quel momento era una minaccia attuale: c’erano stati episodi a Nizza, Berlino, Manchester». Ebbene: «A questa lettera non venne data risposta. Passò un po’ in cavalleria». Nella riunione del 31 maggio, va ancora peggio: «Ci dissero che per gli stewart non c’erano risorse e che non avrebbero rimosso i dehors dalla piazza». Le transenne parvero una banalità: «Mettiamo quelle tipo Turin Marathon, rispose Giordana», ex portavoce di Appendino. Lo Presti riferì poi in questura, all’allora capo di gabinetto Mollo. E, sentito il questore, la risposta fu: «Andiamo avanti così, e facciamo con le nostre forze».
Val.Err. per "Il Messaggero" l'1 luglio 2021. Li aveva nascosti all'insaputa dei confratelli: 1.812 documenti, testimonianze storiche dal valore complessivo di oltre due milioni di euro. Beni che aveva sottratto a enti, famiglie e archivi, sempre presentandosi come delegato dell'ordine religioso dei Battuti neri di Bra, in provincia di Cuneo. E una parte di quel tesoro aveva anche tentato di venderla sulle piattaforme online. I componenti della confraternita si erano affidati a lui e invece l'uomo aveva accumulato negli anni un'enorme mole di documenti, approfittando del fatto che non fossero catalogati. Li aveva occultati proprio nelle stanze sicure dell'Arciconfraternita della Misericordia e alcuni li aveva messi all'asta su ebay. Un vero e proprio tesoro che è stato recuperato, dopo sei anni di indagini, dai carabinieri del nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale di Torino, guidato dal comandante Cristian Lo Iacono, in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica e Bibliografica del Piemonte e della Valle d'Aosta. Il confratello infedele dovrà ora rispondere delle accuse di ricettazione e impossessamento illecito di beni culturali. Il materiale proviene dall'Archivio di Corte dei Savoia e comprende documenti storici di enorme valore ed era stato raccolto in un meticoloso lavoro che avrebbe garantito all'uomo anche di entrare in possesso di fondi per i beni storici. Dai ritagli di giornale, bigliettini personali di varia natura, dalle patenti nobiliari, alle foto che ritraggono Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, seduto a cavallo nel 1865, e sua figlia Maria Pia. Molte le carte, alcune ufficiali altre private, riportanti firme autografe di principi e sovrani europei, come ad esempio quella di Caterina, imperatrice di Russia, o del Duca Testa di ferro Emanuele Filiberto. Beni appartenenti alla Biblioteca reale e Archivio di Stato di Torino e all'archivio del castello di Racconigi. I primi sospetti erano sorti proprio all'interno della confraternita dei Battuti neri. Nel 2012, la presidente di Roberta Comoglio si era accorta dell'anomalia, durante i lavori di catalogazione del materiale archivistico con verifiche dei beni di proprietà dell'ordine. Camoglio si è accorta che c'erano alcuni documenti che non avevano nulla a che vedere con la secolare attività della Confraternita. Così riscontrate, le anomalie, si era ricolta prima alla Soprintendenza e poi ai carabinieri. «Il materiale dal punto di vista storico è importante - spiega il comandante Cristian Lo Iacono - materiale eterogeneo, di diversa natura, appartenenti ad enti pubblici o comunque ad enti ecclesiastici, per questo motivo non potevano essere venduti o ceduti». Il confratello, che non è un religioso e aveva una mansione di altissima fiducia all'interno degli archivi, in sostanza si era impossessato del materiale, ascrivendolo alla confraternita. «Non è stato semplice riuscire a ricostruire tutti questi ammanchi e venire a capo dei vari archivi», conclude Lo Iacono. Ora i documenti sottratti torneranno alla Biblioteca Reale di Torino, all'Archivio di Stato di Torino e al Castello di Racconigi, nel Cuneese. Tutto alla vigilia della sepoltura a Superga del principe Amedeo di Savoia.
Da battutineribra.it l'1 luglio 2021. La Confraternita della Misericordia, o dei Battuti Neri, sotto il titolo di S. Giovanni Decollato fu fondata in Bra nel 1587. L’autorizzazione per la fondazione del sodalizio fu concessa dal Duca Carlo Emanuele I, con Lettere Patenti datate 10 giugno 1587 e l’atto di fondazione fu redatto il 10 luglio 1587. Ottenuto il benestare dell’autorità civile, venne poi inviata una richiesta al Cardinale Girolamo della Rovere, arcivescovo di Torino, perché riconoscesse canonicamente la Compagnia appena costituita: la risposta del Cardinale con l’accoglimento dell’istanza è datata 22 luglio 1587. Le confraternite o “confrerie”, come venivano chiamate nel Medioevo, hanno origine molto antica. In generale, avevano la funzione di soccorrere le persone più deboli e bisognose in ogni circostanza, e ciò specialmente durante le epidemie e le carestie. Esse svolgevano, in pratica, quei compiti di assistenza a cui, nella nostra società provvede, o dovrebbe provvedere, lo Stato. Le Confraternite avevano anche, fra gli scopi primari, la solidarietà verso i confratelli che dovessero trovarsi in difficoltà. Oltre alle finalità di culto e di preghiera, comuni a tutte le Confraternite, i Battuti Neri si proponevano di visitare e soccorrere i carcerati non solo spiritualmente, ma anche materialmente, di assistere e confortare i condannati a morte, che accompagnavano fino al patibolo, e di provvedere a dar loro cristiana sepoltura. Per far fronte ai compiti e alle finalità per le quali era stata istituita, la Confraternita poteva contare su diverse fonti di reddito: le quote annuali obbligatorie versate dai confratelli, l’elemosina raccolta nella chiesa, i lasciti testamentari ed i fitti sui beni immobili di proprietà del sodalizio. L’attività della Confraternita non si è attenuata e trova il suo culmine con la tradizionale processione dell’Addolorata che si svolge per le vie della città ogni anno il venerdì prima della settimana Santa.
Le elezioni comunali. Chi è Stefano Lo Russo, nuovo sindaco di Torino: il “secchione” che ha battuto Damilano. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Ottobre 2021. Stefano Lo Russo è il nuovo sindaco di Torino. Battuto nel testa a testa del ballottaggio l’avversario candidato con il centrodestra Paolo Damilano. Al momento le preferenze a favore del candidato del centrosinistra sfiorano il 60% con quasi 20 punti percentuali sull’avversario. “Non nego l’emozione. Questa vittoria la dedico a una persona che per me è stato un maestro, un padre, una guida, don Aldo Rabino”, Stefano Lo Russo, al suo comitato elettorale, ha dedicato la vittoria al salesiano, storico cappellano del Torino, che lo ha avviato alla politica. Di fronte agli ex sindaci Valentino Castellani, Sergio Chiamparino e Piero Fassino ha aggiunto: “Vi prenderò a modello pur nella vostra specificità, per la vostra capacità di essere persone perbene, capaci, competenti e oneste e per il bene che avete fatto alla città spero di essere all’altezza del vostro esempio. Erano tanti anni che il centrosinistra non era così unito e capace di fare squadra”. Quindi ha ammesso che la dimensione del risultato è andata ben oltre le sue aspettative e ringraziato “per la lealtà della competizione” l’avversario Damilano. Lo Russo è professore ordinario in geologia applicata al Politecnico. È nato il 15 ottobre del 1975. Figlio unico di famiglia di origini operaie, non credente. Ha una figlia, Beatrice, di 14 anni. La prima elezione nel 2006: consigliere comunale. Quindi assessore dal 2013 al 2016, responsabile delle Politiche Urbanistiche nell’unica giunta Fassino. La sua vittoria al primo turno aveva sorpreso un po’ tutti. Al ballottaggio ha dilagato. Premiata la sua scelta di non allearsi con il Movimento 5 Stelle, in crollo verticale, dopo cinque anni di giunta Appendino. Si definisce “secchione”. Ha fatto una campagna elettorale intensa: per due mesi in giro per piazze e mercati e quartieri. Ha anticipato che la giunta sarà annunciata il prossimo lunedì 25 ottobre. L’affluenza ha superato di poco il 42%.
La candidatura e le primarie
La candidatura di Lo Russo era arrivata alla fine di un percorso durato 15 anni. “Il centrosinistra unito potrà vincere al primo turno se sarà capace di dare risposte ai bisogni evidenti che ci sono, soprattutto nelle periferie cittadine – aveva commentato – C’è una riflessione profonda politica da fare su come dovremo impostare la campagna elettorale perché è evidente che il centrosinistra ha in questo momento una debolezza strutturale soprattutto nella periferia nord. Adesso si tratta di partire insieme, uniti, a cominciare da Francesco, Enzo e Igor (gli altri tre candidati alle primarie, ndr), ma soprattutto coinvolgendo la coalizione del centrosinistra”. Lo Russo era stato appoggiato anche da big delle preferenze come Laus, Lepri, Gallo e Valle. Oltre che da partiti alleati come i Moderati e la lista Monviso di Mario Giaccone. Ha raccolto un’eredità difficile dei dem nel capoluogo piemontese dopo la doppia terribile sconfitta alle comunali del 2016 e alle Regionali del 2019. Le primarie furono un flop per l’affluenza e le vinse con un distacco risicato. Stefano Lo Russo è risultato il candidato più votato con il 37,48% dei voti, contro il 34,85% del civico Francesco Tresso. Neanche 300 voti di scarto. Lo Russo era sostenuto dalla quasi totalità del gruppo dirigente del Pd. Tresso è stato soprannominato “Signor Nessuno” e ha raccolto il consenso di società civile e della sinistra ecologista. A seguire il vice Presidente del Consiglio Comunale Enzo Lavolta, 25,39%, e il radicale Igor Boni, 2,28%. Solo 11.631 persone si sono recate alle urne, la metà rispetto alle attese secondo quanto scritto da La Stampa; meno anche delle oltre 16mila persone iscritte al Partito. Nel 2019, per la scelta del segretario, allora venne eletto Nicola Zingaretti, furono 23mila i votanti. Nel 2011 furono invece 53mila le preferenze che avevano incoronato Piero Fassino. Il candidato del centrosinistra era appoggiato dalla coalizione formata da Partito Democratico, Moderati, Sinistra Ecologista, Torino Domani, Articolo Uno e Lista Civica Lo Russo Sindaco.
Le promesse di Lo Russo
In un’intervista a questo giornale di qualche settimana fa annunciava per il capoluogo del Piemonte: “Una grande opera di semplificazione burocratica, abbiamo molta energia inespressa nella città. Il freno della burocrazia va combattuto. La seconda cosa è la costruzione di una capacità di spendere bene i soldi del Recovery: si apre adesso una fase importante, dobbiamo spendere nei tempi giusti. Terza cosa: c’è una strutturale esigenza di riportare i cittadini ai servizi, riaprire le reti di biblioteche e dei trasporti locali anche e soprattutto per la periferia”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
La vittoria alle primarie del capogruppo Pd al consiglio comunale. Chi è Stefano Lo Russo, il candidato del centrosinistra alle comunali di Torino. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Giugno 2021. Primarie flop per affluenza e vinte con un distacco risicato. Stefano Lo Russo è risultato il candidato più votato alle primarie del centrosinistra per le elezioni amministrative del prossimo autunno. Si voterà tra il 15 settembre e il 15 ottobre. Il centrodestra, la settimana scorsa, ha annunciato la candidatura dell’imprenditore Paolo Damilano. L’attuale sindaca Chiara Appendino, Movimento 5 Stelle, ha già chiarito che non si candiderà per un secondo mandato. Lo Russo ha vinto di poco, con il 37,48% dei voti, contro il 34,85% del civico Francesco Tresso. Neanche 300 voti di scarto. Lo Russo era sostenuto dalla quasi totalità del gruppo dirigente del Pd. Tresso è stato soprannominato “Signor Nessuno” e ha raccolto il consenso di società civile e della sinistra ecologista. A seguire il vice Presidente del Consiglio Comunale Enzo Lavolta, 25,39%, e il radicale Igor Boni, 2,28%. Le primarie del centrosinistra si sono rivelate tuttavia un flop nell’affluenza. Solo 11.631 persone si sono recate alle urne, la metà rispetto alle attese secondo quanto scritto da La Stampa; meno anche delle oltre 16mila persone iscritte al Partito. Nel 2019, per la scelta del segretario, allora venne eletto Nicola Zingaretti, furono 23mila i votanti. Nel 2011 furono invece 53mila le preferenze che avevano incoronato Piero Fassino. Lo Russo ha 45 anni, è professore di geologia al Politecnico di Torino. È attualmente capogruppo del Pd al consiglio comunale. La sua candidatura è arrivata alla fine di un percorso durato 15 anni. “Il centrosinistra unito potrà vincere al primo turno se sarà capace di dare risposte ai bisogni evidenti che ci sono, soprattutto nelle periferie cittadine – ha commentato Lo Russo – C’è una riflessione profonda politica da fare su come dovremo impostare la campagna elettorale perché è evidente che il centrosinistra ha in questo momento una debolezza strutturale soprattutto nella periferia nord. Adesso si tratta di partire insieme, uniti, a cominciare da Francesco, Enzo e Igor (gli altri tre candidati, ndr), ma soprattutto coinvolgendo la coalizione del centrosinistra”. Lo Russo era stato appoggiato anche da big delle preferenze come Laus, Lepri, Gallo e Valle. Oltre che da partiti alleati come i Moderati e la lista Monviso di Mario Giaccone. Raccoglie un’eredità difficile dei dem nel capoluogo piemontese dopo la doppia terribile sconfitta alle comunali del 2016 e alle Regionali del 2019. Al momento non sembra percorribile la strada dell’alleanza del centrosinistra con il Movimento 5 Stelle. Giuseppe Conte, leader del M5s, si era detto rammaricato per non aver raggiunto un accordo con il Pd a Torino.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Damilano: "Renderò di nuovo bellissima la città". Fabrizio De Feo il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. "Mister Barolo" pronto alla sfida: "L'unità e la squadra fondamentali per la ricostruzione". La lunga attesa è finita. La sua candidatura non è mai stata in discussione, mancava però l'ufficialità. Da ieri è arrivata anche quella e Paolo Damilano è diventato il candidato sindaco del centrodestra alle elezioni comunali di Torino 2021. «Oggi è una giornata molto importante, perché l'adesione dei partiti di centrodestra al progetto civico di Torino Bellissima è un segnale ulteriore che siamo sulla strada giusta» le parole pronunciate dopo l'investitura. «La strada è quella della condivisione di una terapia d'urto per fare ripartire la città, per ricostruirla dopo questa guerra. Dovremo lavorare tutti insieme per riportare Torino all'altezza di sé, della sua storia e dei talenti della sua straordinaria comunità. L'unità e la squadra sono un elemento fondamentale per la ricostruzione, bisognerà agire in fretta e più siamo meglio possiamo farlo. Da oggi siamo ancora più concentrati sull'obiettivo di rendere di nuovo Torino bellissima». Damilano è partito con i tempi giusti. Lavora ormai da circa sei mesi a questo obiettivo, convinto che con un progetto civico si possa strappare Torino al centrosinistra e scardinare un fortino quasi inviolabile. Ha un legame molto stretto con Giancarlo Giorgetti e ha ottenuto un sostegno convinto da parte di Matteo Salvini, ma è molto stimato anche dal presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio. Fratelli d'Italia ieri lo ha definito come «la giusta alternativa per Torino». Damilano dal 1997 è alla guida della Cantina Damilano di Barolo insieme ai fratelli. Si occupa anche di acque minerali con marchi come Sparea e Valmora. Dal 2013, all'interno della Cantina Damilano, è stato aperto un ristorante stellato: il Massimo Camia Ristorante. Damilano ha rivestito anche incarichi da manager culturale. È stato infatti presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino dal 2013 al 2018 e, sempre nel 2013, eletto presidente della Piemonte Film Commission. Ha tappezzato la città di poster e manifesti con la sua lista civica «Torino bellissima» poi puntando su «C'è da fare», uno slogan pensato per fare arrivare il messaggio che un imprenditore, un uomo del fare appunto, vuole rimboccarsi le maniche e rilanciare la città della Mole.
Chi è Paolo Damilano, candidato sindaco di Torino. Federico Garau il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. "Abbiamo ufficializzato il via libera di Paolo Damilano a Torino", ha dichiarato Matteo Salvini al termine del vertice del centrodestra. Sarà Paolo Damilano il candidato sindaco di Torino per il centrodestra, come stabilito dai partiti che compongono la coalizione nel corso del vertice tenutosi questo pomeriggio. Nessuna discussione fra gli alleati, che hanno scelto di comune accordo l'imprenditore 55enne. "Abbiamo ufficializzato il via libera di Paolo Damilano a Torino", ha dichiarato Matteo Salvini al termine della riunione, come riportato da LaPresse. Insieme a Damilano, è stato approvato anche il nome di Enrico Michetti come candidato sindaco per Roma. Si attende ora anche la candidatura per la Regione Calabria, che dovrebbe arrivare entro questa settimana. Le decisioni, come lasciato trapelare da alcune fonti, sono state prese in totale sintonia. Presidente della Film Commission del Piemonte, Paolo Damilano possiede un'azienda di vini amministrata insieme al fratello, la Cantina Damilano di Barolo, ed un'impresa che produce acque minerali, la Valmora. Non solo, ha contribuito a ridare lustro a famosi marchi piemontesi come il Pastificio Defilippis ed e il Bar Zucca. Ex pilota di rally (ha concorso guidando una A112 e successivamente una Peugeot 205), il candidato del centrodestra ha in passato avuto un incarico presso il Museo del Cinema di Torino (presidente dal 2013 al 2018). Questa esperienza, così come quella alla Film Commission del Piemonte, gli hanno permesso di acquisire dimestichezza nella pubblica amministrazione. Damilano si candiderà nella lista civica "Torino bellissima", ed il suo slogan lascia intendere quanto il candidato sindaco sia consapevole delle problematiche della città e sia intenzionato a mettersi a lavoro. "C'è da fare" è infatti il motto riportato sui suoi manifesti. In tanti a criticarlo ed a non ritenerlo all'altezza dell'incarico a causa della sua scarsa esperienza nel mondo della politica. L'imprenditore ha tuttavia ricevuto l'approvazione di tutto il centrodestra, che lo sosterrà nella battaglia elettorale. Fra le iniziative proposte, quella di avere anche a Torino una settimana dedicata al cinema, così da richiamare anche attori e celebrità e far vivere le piazze cittadine. Un candidato sindaco vicino agli imprenditori, ai lavoratori nel settore della ristorazione e degli impianti sciistici, con i quali ha già provveduto a mettersi in contatto. Il lavoro per lui è la priorità, non c'è spazio per i dissapori fra centrodestra e centrosinistra: "Oggi la gente parla di altro, soprattutto parla di lavoro, dopo la batosta Covid", ha dichiarato, come riportato da Repubblica. "Oggi è una giornata molto importante, perché l'adesione dei partiti di centrodestra al progetto civico di Torino Bellissima è un segnale ulteriore che siamo sulla strada giusta", ha dichiarato il candidato sindaco dopo la riunione di questo pomeriggio. "La strada della condivisione di una terapia d'urto per fare ripartire la città, per ricostruirla dopo questa guerra. Dovremo lavorare tutti insieme per riportare Torino all'altezza di sè, della sua storia e dei talenti della sua straordinaria comunità. L'unità e la squadra sono un elemento fondamentale per la ricostruzione, bisognerà agire in fretta e più siamo meglio possiamo farlo. Da oggi siamo ancora più concentrati sull'obiettivo di rendere di nuovo Torino bellissima", ha concluso.
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo s
L'imprenditore con un passato nel rally. Chi è Paolo Damilano, il candidato del centrodestra alle comunali di Torino. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Giugno 2021. È l’imprenditore Paolo Damilano il candidato sindaco del centrodestra per le elezioni comunali a Torino che si terranno nel prossimo autunno. La fumata bianca dopo il vertice dei leader di centrodestra a Roma. Oltre al segretario della Lega Matteo Salvini, il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani e la segretaria di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, anche i cosiddetti partiti “piccoli”: Coraggio Italia, Udc Noi con l’Italia e Rinascimento di Vittorio Sgarbi. Ancora nessuna decisione per i candidati di Milano e Bologna. A Roma invece via libera al ticket Enrico Michetti sindaco e Simonetta Matone vicesindaco. “Piena sintonia nel centrodestra che ha scelto Enrico Michetti candidato sindaco per Roma Capitale, in ticket con Simonetta Matone che sarà prosindaco. Paolo Damilano è il candidato sindaco a Torino. Entro la settimana sarà ufficializzata la candidatura per la Regione Calabria”, ha dichiarato il leader del Carroccio Matteo Salvini. Damilano ha 55 anni, imprenditore attivo nel settore del beverage con un’azienda di vini, guidata con il fratello Mario, e un’altra di acque minerali. Vanta un passato da pilota di rally. È Presidente dalla Film Commission del Piemonte. Proprio con le esperienze alla Film Commission e al Museo del Cinema replica a chi gli muove la critica di avere poca esperienza da un punto di vista amministrativo. Prima dell’investitura ufficiale aveva cominciato la sua campagna elettorale tappezzando la città con manifesti della sua lista civica “Torino Bellissima”. Lo slogan: “C’è da fare”. Le proposte che ha già avanzato per Torino: una pista da sci cittadina; un hotel 5 stelle lusso; una settimana del cinema con attori e registi ed eventi nelle piazze cittadine. Nessuna rivelazione sulla probabile squadra di governo.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da today.it il 17 maggio 2021. Tutta colpa di un video amatoriale, "rubato", in cui il presidente del Torino Football Club, Urbano Cairo, viene ripreso mentre parla con alcuni tifosi. Tra i temi trattati spunta anche il campo del Robaldo, da tempo al centro dell'interesse del Torino per realizzare il nuovo centro sportivo. Nel video, che è stato girato a sua insaputa, il presidente del Torino parla più volte della sindaca del capoluogo piemontese Chiara Appendino, poi spiccano alcuni insulti (ripete tre volte "è una deficiente") e frasi tra cui: "Appena andrà via lei avremo subito le autorizzazioni". Urbano Cairo fa più riferimenti alla sindaca e al Comune di Torino parlando del mancato accordo per il Robaldo. La sindaca replica sui social, commentando proprio l'articolo di TorinoToday: "Come ho detto ieri, preferisco non rispondere a degli insulti, credo che si commentino da soli. Ciò che mi auguro, da sindaca della Città, è che il Torino, nelle prossime 2 partite, possa fare i punti necessari per rimanere in A. Nel merito del Robaldo, come il presidente ben sa, non sussistono questioni politiche, ma solo tecniche legate al progetto presentato dalla società, che era lacunoso relativamente all'impianto di illuminazione. È tutto ampiamente spiegato dai tecnici del Comune".
Le scuse del presidente del Torino alla sindaca. Doverose poi le scuse di Cairo. Il presidente del Torino è tornato sulla vicenda delle offese che ha rivolto nei confronti della sindaca Chiara Appendino. La notizia era stata riportata questa mattina dal quotidiano Tuttosport e il presidente granata ha voluto scusarsi con la sindaca della città di Torino con queste parole rilasciate ai microfoni dell'ANSA: "Si tratta di un video rubato, di una conversazione privata con poche persone. Non ho mai mancato di rispetto a nessuno, se l’ho fatto in questo caso con la sindaca Appendino chiedo scusa". Cairo prosegue parlando dei ritardi nella costruzione del centro sportivo Robaldo. "Riguardo poi al Robaldo, la nostra colpa, come ha detto in una intervista il capo di gabinetto della sindaca Luca Palese è che abbiamo chiesto di poter realizzare un centro sportivo che richiedeva un investimento maggiore ed era anche più funzionale per la città”, continua il presidente del Torino. Che poi conclude: "Se a causa di questo si è dovuto aspettare cinque anni per realizzare questo centro sportivo, e non c’è ancora l’ok per partire, giudichino i torinesi se questa è una cosa giusta".
Il progetto del centro sportivo Robaldo. Cos'è il Robaldo? Perché il progetto di un centro sportivo fa così discutere? La storia del Robaldo è cominciata sette anni fa, quando il Nizza Millefonti, storica società dilettantistica che ha fatto la storia del calcio locale a Torino, riconsegnò le chiavi dell’impianto al Comune di Torino e l’area fu assegnata prima a una società temporanea, quindi all’Atletico Gabetto che a maggio 2015 aveva vinto la gara senza averne i titoli (concessione ritirata per irregolarità contributive). Amarzo 2016 il Torino vinse il bando successivo. Solo nell’ottobre 2017 ci fu l’effettiva aggiudicazione. Il Torino aveva fatto progettare un centro sportivo all’avanguardia con un budget di 4 milioni. Il via libera del Consiglio Comunale, che fa seguito a quello della Circoscrizione 2, è solo dell'11 febbraio 2019. Da lì in poi, al di là della formale consegna delle chiavi al club granata, una sfilza di tappe burocratiche. Riqualificare, abbattere le strutture esistenti, mettere in sicurezza l’intera area e procedere con appositi interventi legati alla viabilità, poi costruire: tutti passaggi che per essere autorizzati richiedono permessi e tanto tempo. E' arrivato anche l'ok del Coni e, a luglio dell'anno scorso, il Torino ha offerto alla Città (sono coinvolti in tutto tre Assessorati: Sport, Ambiente e Urbanistica) e agli Enti interessati le ultime rassicurazioni progettuali: su tutte quella di procedere con la costruzione di una specifica via d’accesso al Parco Sangone da strada Castello di Mirafiori, dietro a quello che sarà il quinto campo in erba del Robaldo. La Giunta ha deliberato ad agosto: il progetto è di interesse pubblico, poiché implica un intervento di riqualificazione di una vasta area urbana. Ma i lavori non sono ancora partiti per questioni tecniche.
Lodovico Poletto per "lastampa.it" il 5 febbraio 2021. Il burocratese è sempre scivoloso. Ma qui è chiaro, anche senza tante interpretazioni degli esperti, oppure giri di parole. Il Comune di Torino vuole vietare ai senza tetto che campano di carità sotto i portici del centro, di avere accanto a sé animali. E non è soltanto una chiacchiera. È già tutto scritto nero su bianco nella bozza del nuovo «Regolamento animali». E sono 50 pagine di indicazioni su tutto: dai cani, ai gatti, ai piccioni, senza dimenticare i pipistrelli (di razza italiana ovviamente, e che non si possono vendere), le colonie feline, i circhi equestri con o senza leoni, elefanti struzzi e via di questo passo. Ma ai cani è dedicato un comma intero - il numero 22 - del capitolo che va sotto il nome di Divieti generali. Eccolo: « È vietato su tutto il territorio del Comune utilizzare qualsiasi specie animale, sia domestica-selvatica-esotica, per la pratica dell’accattonaggio». E visto che in città nessuno ha mai incrociato mendicati con i pappagalli, non ci sono incantatori di serpenti, o anziani senza nulla con al seguito bestie esotiche, è evidente che si parla di cani. Anche quei cuccioli tenuti come figli, ma su letti di cartone. Una scelta - hanno scritto nella presentazione della bozza di regolamento - che va incontro alle nuove sensibilità, a opinioni «da più parti espresse». Cioè a quello che dovrebbe essere il sentire comune. Via i cani, dunque. Senza se e senza ma. Senza discrezionalità. Oppure criteri di valutazione che c’erano invece nella vecchia norma su animali e accattonaggio. Che, è vero, già li vietava. Ma spiegava bene che, alla fine, contava come erano tenuti gli animali: se erano sani, nutriti e via discorrendo. Qui no: con quattro o cinque tratti di penna hanno cancellato quella che era una via di fuga alla rigidità della legge. Stavolta è tutto netto. L’unica discrezionalità è lasciata al buon cuore del vigile urbano che passa e può decidere se chiamare l’accalappiacani o girarsi dall’altra. E far finta che va tutto bene. La questione, però, è ben più delicata di un comma del regolamento. E investe le scelte del Comune sulla questione homeless. Nel giro di dieci giorni Torino ha cambiato rotta sulla questione senza tetto. Prima ci ha pensato il comandante dei vigili, urbani, che senza giri di parole ha detto non date è più soldi gli homeless. E ancora: «Se non beccano nulla, vedete che accetteranno le nostre soluzioni». Cioè il ricovero in strutture organizzate. Motivo? La seconda bordata è stata politica: «Il centro per loro è un bancomat». E poi: «Guadagnano anche euro al giorno». Apriti cielo in municipio? No. L’assessore alle politiche sociali non ha fatto un plissé. Anzi, ha rincarato la dose: «Molti di loro percepiscono il reddito di cittadinanza». Che è come dire: non fate la carità, soldi ne hanno a sufficienza. Il popolo dei social ha fatto un po’ di polemiche. C’è stata qualche mezza alzata di scudi della politica d’opposizione. Poi la questione homeless, è finita in archivio. Fino a che qualcuno ha aperto il file con il nuovo regolamento, ed è trasalito. Ancora i senza tetto. Ancora una scelta forte. Ecco qui la seconda parte del comma 22 sull’accattonaggio: «Gli animali di cui sopra saranno sequestrati a cura degli organi di vigilanza e ricoverati al Canile municipale, oppure in strutture definite in accordo con l’ufficio tutela animali». Tutto assolutamente chiaro. Game over. Le Circoscrizioni criticano. C’è chi come la presidente Carlotta Salerno parla di «scelte ideologiche», definite «ben lontane da un lavoro equilibrato che pensi al benessere animale». E Salerno non è la sola a pensarla in questo modo. Ma il parere che arriva dai quartieri non è vincolante. E i barboni sono destinati a restare - prima o poi - ancora più soli in mezzo alla strada, oppure sotto i portici e negli androni. Salvo ripensamenti (improbabili). Nel frattempo la bozza del regolamento passa di mano in mano alla velocità della luce. «Togliere i cani ai senza tetto che chiedono la carità è una cattiveria inutile, nei confronti di persone sole e molto spesso fragili. Ricordiamoci che abbiamo a che fare con uomini e donne la cui socialità è ridotta zero» dicono alle 8 di sera i volontari che fanno il giro dei giacigli con i bidoncini di the caldo e i pacchi di biscotti per il popolo che campa in strada. Ma c’è differenza tra accattoni e senza tetto? «Coincidono» dicono i volontari. «No, sono categorie diverse. E poi vigili e servizi sociali li conoscono tutti» replica Chiara Giacosa che ha elaborato il regolamento. «Gli animali li tolgono solo agli accattoni». Chi sa distinguerli alzi la mano.
Appendino condannata per falso ideologico. Report Rai 21 settembre 2020 ore 18:14. La sindaca di Torino, Chiara Appendino, è stata condannata a sei mesi per falso ideologico nell'ambito del processo per il mancato inserimento nel bilancio 2017 del Comune di cinque milioni di euro versati come caparra dalla società Ream Sgr, controllata dalla fondazione bancaria Crt. La società, durante la precedente amministrazione comunale, si era interessata alla riqualificazione di un'area abbandonata nella periferia del capoluogo, detta ex Westinghouse. Il progetto era stato poi affidato a un'altra società, senza che il Comune restituisse la caparra. È il 2016 e in quell’anno la città di Torino era a rischio dissesto finanziario, per l’ingente mole di debiti accumulati: il mancato inserimento della partita in bilancio sarebbe servito, secondo la tesi della procura, a far quadrare i conti dell’Ente locale. Il giudice non ha riconosciuto invece l'ipotesi di reato, formulata dalla Procura, di abuso di ufficio, pertanto la condanna non rientra nei casi per i quali la legge Severino prevede la decadenza dalla carica pubblica. Report aveva raccontato la vicenda nell'inchiesta di Manuele Bonaccorsi "Mal comune", andata in onda il 19/11/2018. Il servizio si occupava anche del dissesto del Comune di Catania, per cui l'allora sindaco Enzo Bianco è stato recentemente condannato a un risarcimento di 48 mila euro con l'interdizione per 10 anni dai pubblici uffici.
Gabriele Guccione per "il Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021. C'è amarezza nello sguardo di Chiara Appendino. Si intravede appena, sopra la mascherina nera, insieme a un certa dose di scoramento. «Per fare il sindaco devi essere un martire», si sfoga con chi le sta accanto. Il giudice ha appena finito di pronunciare la sentenza. Un anno e mezzo di carcere. Colpevole di disastro, omicidio, lesioni colpose. Accuse che pesano sull' animo di una giovane mamma di 36 anni, ancor prima che sulla fedina penale della sindaca. Non è la prima condanna, questa. Solo quattro mesi fa, in un' altra aula dello stesso palagiustizia, il tribunale l' aveva giudicata responsabile di falso ideologico in una vicenda relativa alla compilazione del bilancio comunale. Robe da travet, difficili da comprendere se non si è un esperto contabile. Questa volta però è diverso. L' ondata di panico, le vittime, due donne morte in seguito alle lesioni, i 1.694 feriti di quel 3 giugno 2017 in piazza San Carlo durante la finale Juventus-Real Madrid: tutto è ancora lì, come un fermo immagine, davanti agli occhi dei torinesi. «Pago un gesto fatto da altri», non smette di ripetere Appendino, i capelli corvini raccolti in una coda. Indica la responsabilità dei quattro baby-rapinatori armati di spray urticante che quella sera scatenarono il fuggi fuggi. «Avrei dovuto prevedere, secondo i giudici, quanto poi è accaduto e annullare la proiezione della partita. Se avessi avuto gli elementi per farlo - afferma -, l' avrei fatto. Ma così non fu e purtroppo il resto è cronaca». Nulla è stato più come prima dopo quella notte di tre anni e mezzo fa. Qualcosa si è incrinato per sempre nel rapporto tra Appendino e la città. Lei stessa ne è consapevole. «Non ve lo nascondo, questa tragica vicenda - ammette - mi ha segnato profondamente. Quei giorni, e i mesi che sono seguiti, sono stati i più difficili sia del mio mandato da sindaca sia della mia sfera privata, personale. Quel dolore è ancora vivo, lo porterò sempre con me». E, ora, esserne giudicata responsabile è terribile. Come se non bastasse, poi, si abbatte sulle sue prospettive politiche future a pochi mesi dalla sua uscita da Palazzo Civico. Già dopo la prima condanna si era autosospesa dal M5S e una eventuale ricandidatura era stata messa da parte. Con le dimissioni del Conte bis si sarebbe potuto riaprire un qualche spiraglio, magari per un posto nel nuovo governo. Nulla da fare. «Io sono demotivata. Il contesto generale è terribile», confida, mentre il Movimento si stringe attorno a lei. «Ti mando un grosso abbraccio, sei straordinaria e continuerò a fidarmi di te», è il messaggio di Luigi Di Maio. Così, dopo essere stata condannata (mai successo a un sindaco di Torino), Appendino lancia la palla nel campo dei rapporti tra giustizia e politica. «Forse - propone - andrebbe aperta una sana discussione sul difficile ruolo dei sindaci, sui rischi e sulle responsabilità a cui sono esposti». Il suo predecessore, Piero Fassino, raggiunto l' altro giorno da un avviso di garanzia, le va dietro: «Condivido». E i sindaci d' Italia si uniscono all' appello, fanno quadrato attorno alla collega, la difendono. «Non possiamo essere ancora capri espiatori», sostiene il primo cittadino di Bari e presidente dell' Anci, Antonio Decaro. «Spesso paghiamo anche per gesti folli di altri», fa notare il fiorentino Dario Nardella, che con un tweet rivolge alla collega «un abbraccio», mentre il milanese Giuseppe Sala si limita a un «mi dispiace, è un' amica». Appendino si appresta così a uscire di scena nel suo ruolo di sindaca. Lei, che nel 2016 entrò in municipio tra i cori giustizialisti dei grillini: «Onestà, onestà».
Giuseppe Legato e Maurizio Tropeano per “la Stampa” il 14 maggio 2021. Tre aggettivi per nulla clementi: «Frettolosa, imprudente, negligente». Se 160 pagine di una sentenza si potessero riassumere in una rosa ristretta di aggettivi, sarebbe questa quella che condensa i motivi per cui Chiara Appendino è stata condannata in primo grado per la tragedia di piazza San Carlo avvenuta il 3 giugno 2017 durante la proiezione della finale di Champions League Juventus Real Madrid. Li ha utilizzati il giudice Maria Francesca Abenavoli per inquadrare le responsabilità colpose della prima cittadina nell' organizzazione di quella notte maledetta chiusa con 1500 feriti e due morti. Le motivazioni della sentenza complicano i piani di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio di ricandidare Chiara Appendino nonostante le sue perplessità legate, appunto, all' esito dei processi. La memoria dei giudici, infatti, rafforza la scelta della sindaca di non scendere in campo - è anche in attesa del processo di appello per il reato di falso in bilancio, altri sei mesi di condanna- senza però rinunciare a fare politica. I vertici nazionali del M5S, invece, tramontata l' ipotesi di candidare Guido Saracco, la ritengono la più adatta e competitiva per sfidare il Pd a Torino dove il 46% dei torinesi, per un sondaggio commissionato dai Dem, ritiene che abbia governato bene. Adesso resta da capire se Di Maio e, soprattutto Conte, continueranno nel pressing sulla sindaca. Ma che cosa c' è scritto in quelle motivazioni? «Decidendo di proiettare in piazza San Carlo la partita - scrive il giudice - Appendino ha chiesto all' amministrazione di operare in condizioni la cui criticità era evidente, disinteressandosi poi di tutti gli aspetti operativi. Secondo il Tribunale «la prima cittadina ha trascurato di assicurare il dovuto rilievo agli aspetti legati alla sicurezza non curando il bilanciamento di tale interesse (di rango nettamente superiore) con quello pur legittimo dei tifosi della Juventus di assistere alla partita». Ancora: «Ha agito attraverso il suo capo di gabinetto Paolo Giordana, ma questa non la esime da responsabilità visto il rapporto fiduciario che legava due figure apicali dell'amministrazione». Insomma: «Ciò che Giordana ha fatto su indicazione o delega della Appendino è anche a lei riconducibile in quanto da ritenersi frutto di un' unica volontà». La sindaca avrebbe dovuto vigilare di più dunque. Anche alla luce "di tempi strettissimi, di un budget incerto, di un organizzatore privo di specifica esperienza nel settore e considerata la terribile stagione terroristica che l' Europa stava vivendo e che colpiva soprattutto in occasione di raduni con grande partecipazione di pubblico» avrebbe «dovuto mettere a punto un monitoraggio molto più da vicino». I suoi avvocati però non demordono: «Nella sentenza in realtà - spiega l' avvocato difensore Luigi Chiappero - hanno trovato accoglimento molte nostre considerazioni. Il giudice ritiene insussistenti numerosi profili di colpa sugli aspetti autorizzativi che hanno consentito la proiezione della partita. Ancora, si legge come non fosse l' organo apicale del Comune a dover vigilare sull' osservanza delle prescrizioni imposte dalla Commissione Provinciale di Vigilanza. Restiamo convinti che, allo stesso modo, non spettasse alla prima cittadina seguire, anche sotto il profilo tecnico, l' evoluzione organizzativa dell' evento. Sarà uno degli aspetti fondanti dell' atto d' appello, con il quale chiederemo la piena assoluzione perché col senno del poi è facile dire che tutto era prevedibile».
Ottavia Giustetti per repubblica.it il 27 gennaio 2021. La sindaca di Torino, Chiara Appendino, è stata condannata a un anno e sei mesi nel processo con rito abbreviato per i fatti di piazza San Carlo. Il processo si riferisce ai fatti del 3 giugno 2017, quando un'ondata di panico collettivo tra la folla che stava assistendo alla finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid causò il ferimento di oltre 1600 persone e la morte di due donne: Erika Pioletti, deceduta in ospedale dopo una decina di giorni, e Marisa Amato, rimasta tetraplegica e spirata nel 2019. Nel processo, oltre alla sindaca, hanno ricevuto la stessa condanna il suo ex capo di gabinetto Paolo Giordana, l'allora questore Angelo Sanna, l'ex presidente di Turismo Torino (l'agenzia che prese in carico la creazione dell'evento) Maurizio Montagnese, ed Enrico Bertoletti, professionista che si occupò di parte della progettazione. Per tutti l'accusa è di disastro, omicidio e lesioni colpose. Per Appendino il procuratore aggiunto, Vincenzo Pacileo aveva chiesto una condanna a un anno e 8 mesi; stessa richiesta per l'ex questore Sanna, due anni per Giordana, un anno e sette mesi per Montagnese e 3 anni e sei mesi per Bertoletti. Per l'accusa, sostenuta dal pm Vincenzo Pacileo, la manifestazione fu organizzata male e troppo in fretta. Le difese hanno invece replicato che era impossibile prevedere ed evitare il panico collettivo. Dalle indagini emerse che a causare l'ondata di panico fu una gang, poi sgominata dagli investigatori, che compiva rapine tra gli spettatori in piazza usando spray urticanti. Secondo il pm Pacileo la sindaca Appendino, in particolare, "non ebbe solo un ruolo politico ma anche gestionale". L’udienza era iniziata ed è stata quasi subito interrotta dopo che i difensori Paolo Pacciani, Simona Grabbi e Roberto Macchia, avevano sollevato l’eccezione di nullità dell’intero processo a causa del fatto che per un errore alcuni atti non sono mai stati resi noti ai difensori né depositati nel fascicolo d’indagine. Sono le copie dei telefonini e dei computer dell’ex portavoce della sindaca e l’ex capo di gabinetto che furono sequestrati a gennaio 2018 in un procedimento parallelo ma che contengono conversazioni di alcuni dei protagonisti prima del processo, prima, durante e dopo l’evento. Il processo è poi ripreso dopo che il gup, Maria Francesca Abenavoli, ha rigettato l'istanza di nullità. Successivamente il giudice si è ritirato in camera di consiglio: dopo un'ora e mezza la sentenza.
Processo per i morti di piazza San Carlo, Appendino condannata a 1 anno e 6 mesi. Il sindaco di Torino è stata condannata a un anno e mezzo per la tragedia di piazza San Carlo. Per il pm Pacileo la sindaca "non ebbe solo un ruolo politico ma anche gestionale". Martina Piumatti, Mercoledì 27/01/2021 su Il Giornale. Il pm Vincenzo Pacileo aveva chiesto un anno e otto mesi. Un anno e sei mesi è stata, invece, la condanna per la sindaca di Torino Chiara Appendino, riporta l'Agi. Il processo con il rito abbreviato si riferisce ai fatti del 3 giugno 2017, quando un attacco di panico collettivo tra la folla ammassata sotto il maxi schermo di Piazza San Carlo per assistere alla finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid, portò al ferimento di oltre 1600 persone e alla morte di due donne. Erika Pioletti, deceduta in ospedale dopo una decina di giorni, e Marisa Amato, rimasta tetraplegica e, poi, morta nel 2019. Dalle indagini è emerso che a causare il panico fu una gang di ragazzini solita compiere rapine durante gli eventi usando spray urticanti. I quattro sono già stati condannati in appello a 10 anni per omicidio preterintenzionale. Per l'accusa, sostenuta dal pm Pacileo, la manifestazione era stata organizzata male e troppo in fretta e la sindaca Appendino, in particolare, "non ebbe solo un ruolo politico ma anche gestionale". Per le difese, invece, sarebbe stato impossibile prevedere ed evitare il panico collettivo. Stessa condanna anche per l'ex capo di gabinetto della sindaca Paolo Giordana, l'allora questore Angelo Sanna, l'ex presidente di Turismo Torino (l'agenzia che prese in carico la creazione dell'evento) Maurizio Montagnese, ed Enrico Bertoletti, che, invece, si occupò di parte della progettazione. Per tutti l'accusa è di disastro, omicidio e lesioni colpose. L’udienza, appena iniziata, si era subito interrotta dopo che i difensori Paolo Pacciani, Simona Grabbi e Roberto Macchia, avevano sollevato l’eccezione di nullità dell’intero processo. Per un errore alcuni atti non sarebbero stati resi noti ai difensori né depositati nel fascicolo d’indagine. Poi, l'udienza è ripresa dopo che il gup, Maria Francesca Abenavoli, ha rigettato l'istanza di nullità. Il giudice si è ritirato in camera di consiglio e dopo un'ora e mezza la sentenza di condanna per tutti gli imputati. A inchiodarli sono state le copie dei telefonini e dei computer dell’ex portavoce della sindaca e l’ex capo di gabinetto che furono sequestrati a gennaio 2018 in un procedimento parallelo ma che contengono conversazioni decisive di alcuni dei protagonisti. "Accetto e rispetto la decisione del giudice anche per il ruolo istituzionale che ricopro ma non posso non nascondere una certa amarezza perché c'è un sindaco che paga per un gesto folle di alcuni ragazzi che sono stati già condannati anche in appello", commenta la sindaca di Torino che annuncia il ricorso in appello. "Quello che è accaduto quel giorno è un dolore che porto con me, che porterò sempre, lo porto io, lo porta la città, lo porta la comunità, quindi le questioni processuali non incidono sul lato personale - ha aggiunto - detto ciò attendiamo le motivazioni ma sicuramente procederemo con l'appello". Dura la reazione del leader del Carroccio Matteo Salvini. “Appendino condannata per piazza San Carlo e Bonaccini indagato dopo aver minacciato un sindaco perché schierato col centrodestra. Mi chiedo - tuona il segretario della Lega - se i problemi giudiziari siano ancora un problema, per grillini e la sinistra, o se la fame di poltrone gli fa digerire tutto come già successo per l’indagato Zingaretti”.
La sentenza per la sindaca di Torino e altri 4 imputati: condanna a un anno e sei mesi. Chiara Appendino condannata per la tragedia di piazza San Carlo: “Non potevo prevedere, pago gesto folle ragazzi”. Redazione su Il Riformista il 27 Gennaio 2021. Un anno e sei mesi con sospensione condizionale della pena. Questa la sentenza di primo grado, con rito abbreviato, emessa dal Gup Maria Francesca Abenavoli per la sindaca di Torino Chiara Appendino e per altri quattro imputati nel processo per i fatti accaduti il 3 giugno 2017 in piazza San Carlo durante la finale di Champions League, persa dalla Juventus con il Real Madrid, dove successivamente morirono due persone e ci furono oltre 1500 feriti. Appendino insieme all’ex capo di gabinetto del Comune Paolo Giordana, l’allora questore Angelo Sanna, l’architetto Enrico Bertoletti e l’ex presidente dell’Agenzia Turismo Torino, Maurizio Montagnese, deve rispondere di disastro, omicidio e lesioni colpose. Un sesto imputato, Danilo Bessone, esponente di Turismo Torino, ha chiesto e ottenuto di patteggiare un anno e sei mesi. Per la sindaca di Torino la Procura aveva chiesto un anno e 8 mesi, due anni per Giordana, un anno e sette mesi per Montagnese e 3 anni e sei mesi per Bertoletti. “È una decisione che accetto e rispetto, anche per il ruolo che rivesto ma non posso non nascondere una certa amarezza perché c’è un sindaco che paga per un gesto folle di alcuni ragazzi che sono stati già condannati anche in Appello”. Così, in un lungo post su Facebook, commenta Chiara Appendino. “La tesi dell’accusa, oggi validata in primo grado dalla Giudice, è che avrei dovuto prevedere quanto poi accaduto e, di conseguenza, annullare la proiezione della partita in piazza. È una tesi dalla quale mi sono difesa in primo grado e che, dopo aver letto le motivazioni della sentenza con i miei legali, cercherò di ribaltare in Appello perché è evidente che, se avessi avuto gli elementi necessari per prevedere ciò che sarebbe successo, l’avrei fatto. Ma così non fu e, purtroppo, il resto è cronaca”, aggiunge. “Quello che è accaduto quel giorno – prosegue – è un dolore che porto con me, che porterò sempre, lo porto io, lo porta la città, lo porta la comunità, quindi le questioni processuali non incidono sul lato personale – ha aggiunto – detto ciò attendiamo le motivazioni ma sicuramente procederemo con l’appello”.
LA TRAGEDIA – Durante la proiezione della finale di Champions League in piazza San Carlo si scatenò il panico quando, come ricostruito dagli inquirenti, alcuni rapinatori spruzzarono dello spray al peperoncino tra la folla, provocando un fuggi fuggi generale. Numerosi i feriti, la più grave, Erika Pioletti, 38 anni, morirà in ospedale dopo dodici giorni di agonia. La seconda vittima è la 65enne Marisa Amato, rimasta paralizzata e morta il 25 gennaio 2019. Altri nove imputati, che a titolo diverso presero parte all’organizzazione dell’evento, hanno scelto invece il rito ordinario, con il processo che è tuttora in corso.
Appendino condannata, il reato? Essere sindaca. Salta il codice morale 5S. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. Gli incidenti del 2019 a piazza San Carlo, a Torino, costati la vita a due donne e il ferimento di 1500 persone, portano a una condanna dura, un anno e sei mesi di detenzione, per la sindaca Chiara Appendino. Ma è una sentenza di primo grado, la Sindaca farà appello e si guarda bene dal dimettersi, appoggiata dai più autorevoli guardaspalle del Movimento: già ieri Marco Travaglio, torinese, aveva dettato sul Fatto l’arringa difensiva: assurdo condannarla per una responsabilità che non poteva assumere, il senso delle sue parole. «Che avrebbe potuto fare Appendino se non vietare preventivamente la manifestazione?», si chiedeva. Tuttavia la macchina della giustizia gira come gira, inchiodando i Sindaci a ogni tipo di responsabilità civile e penale. Ed eccone il risultato. È la stessa sindaca a dirsene amareggiata. «La tesi dell’accusa, oggi validata in primo grado dalla Giudice, è che avrei dovuto prevedere quanto poi accaduto e, di conseguenza, annullare la proiezione della partita in piazza», ribadisce Appendino. Che non nasconde di essere segnata dalla vicenda. «Quei giorni e i mesi che sono seguiti, sono stati i più difficili sia del mio mandato da sindaca sia della mia sfera privata, personale». Ma qui si apre una riflessione che finalmente si intesta una esponente del Movimento che fino a ieri agitava le manette per tutti e le dimissioni immediate, al primo avviso di garanzia: «La carica istituzionale che ricopro comporta indubbiamente delle responsabilità, alle quali non ho alcuna intenzione di sottrarmi. Proprio sul difficile ruolo dei sindaci, sui rischi e sulle responsabilità a cui sono esposti, forse andrebbe aperta una sana discussione». Silvia Fregolent, deputata torinese di Italia Viva, entra nel merito: «Noi come IV dicemmo da subito che qualcosa non andava sui commenti fatti da Chiara Appendino sulla sola responsabilità di Torino Eventi e non della propria. Da subito parlammo di responsabilità politiche, e di come la cattiva gestione di quell’evento avesse segnato l’inizio del declino della città». Appendino è a fine mandato, per la sua successione Pd e M5S mantengono l’idea di un candidato unitario. «Sbagliando», chiosa Fregolent. Circola l’idea di far slittare la tornata delle amministrative in autunno, davanti al persistere della pandemia e alle vaccinazioni a rilento. Appendino godrebbe dunque di una estensione del suo mandato. Anche il responsabile giustizia di Azione, il deputato e avvocato Enrico Costa, cuneese, ha frequentato piazza San Carlo negli anni dell’università. «Sono molto colpito da una condanna che attribuisce ad un Sindaco una responsabilità organizzativa che prevede l’imprevedibilità dell’evento». Aggiungendo un punto più politico: «I suoi compagni di partito, se fosse capitato a qualche loro avversario, avrebbero sollevato un polverone e chiesto cento passi indietro. Noi no: le auguriamo di far valere in appello la sua innocenza». La sentenza-choc qualche merito ce l’ha. Suona la sveglia tra i Cinque Stelle, che scoprono oggi (meglio tardi che mai) cosa significa amministrare. Anche il viceministro al Mise grillino, Stefano Buffagni, se ne rende conto: «Questa vicenda rischia di portare qualsiasi amministratore e dirigente pubblico, non solo sindaci o figure apicali istituzionali, a temere per ogni decisione da prendere e quindi a non fare. Dobbiamo come parlamentari e legislatori aprire una seria riflessione sulla tutela dei sindaci e degli amministratori». E il sindaco dem di Pesaro, Matteo Ricci, presidente delle Autonomie Locali Italiane: «È assurda una legge che scarica sui sindaci responsabilità che oggettivamente non possono avere. Ogni sindaco oggi è Chiara Appendino». Una inversione da capogiro che fa dire a Matteo Salvini che «ora va bene tutto, a sinistra e grillini: i guai giudiziari non sono più un problema». Solo quindici giorni fa era arrivata la sentenza della Cassazione sulla strage ferroviaria di Viareggio – il deragliamento di un treno che trasportava Gpl – operante distinguo importanti: il processo a Moretti va rifatto, aveva deciso la Corte suprema, perché l’impianto accusatorio faceva acqua da tutte le parti. E l’ad di Ferrovie era alla sbarra non per un atto commesso ma per l’incarico professionale rivestito. A quella decisione era seguita la furia dei parenti delle vittime, corroborata dalle dichiarazioni dello stesso Salvini e dei Cinque Stelle, oltre che del Pd: tutti scandalizzati e uniti nel pretendere pene severe per i vertici dell’azienda. Il Fatto di Travaglio aveva titolato: “Giustizia & impunità: la strage di Viareggio senza colpevoli”. Una riflessione seria va fatta sul ruolo degli amministratori, tutti.
Ego te absolvo. Marco Travaglio archivia l’honestà e "assolve" Chiara Appendino. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Mettere la parola “onestà” al posto di “innocenza”. E tutto quadra. Si potrebbe persino modificare l’articolo 27 della Costituzione (che in realtà parla di non colpevolezza, non di “innocenza”), nel mondo di Marco Travaglio e dei suoi cari. Che in realtà non credono nella giustizia. Nel mondo in cui Chiara Appendino dovrebbe essere ricandidata a sindaco di Torino, secondo il direttore del Fatto, «non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Schiuma di rabbia, il povero Marcolino, quasi qualcuno gli avesse disobbedito, facendo deporre la fascia tricolore al sindaco di Torino. Che Chiara Appendino sia una persona per bene, un sindaco “normale”, e che non abbia fatto disastri come la sua collega Virginia Raggi a Roma, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. È sotto gli occhi di tutti. Ma in questi quattro anni la prima importante sindaca grillina, pur appoggiata inizialmente dal mondo produttivo torinese, non è riuscita a scrollarsi di dosso il suo mondo d’origine, quello dei No-Tav e della purezza da decrescita più o meno felice che l’ha portata a rinunciare alle Olimpiadi della neve e a perdere il salone dell’auto, oltre che a chinare la testa di fronte alla più combattiva Milano, concorrenziale su grandi mostre e salone del libro. Motivi politici, e difficoltà d’incontro dei due mondi – quello grillino con il ditino alzato e i grandi rifiuti, e quello della tradizione di sinistra, da Mirafiori fino all’intellighenzia snob con la puzza sotto il naso – prima ancora che la “questione di coerenza” per motivi giudiziari, hanno portato la sindaca al passo di lato. Così lei stessa ha definito il suo abbandono della fascia tricolore. Il che toglie un bel po’ di castagne dal fuoco all’alleanza rossogialla. Per lo meno a Torino, viste le difficoltà nella città di Roma con la ricandidature spontanea di Virginia Raggi. Nel mondo “normale”, come avrebbe potuto essere quello di un sindaco normale come Appendino, non peserebbe più di una piuma quella condanna a sei mesi per falso ideologico che accomuna il primo cittadino di Torino a quello di Milano Beppe Sala e a tanti altri sparsi per l’Italia. Sono gli assurdi “incidenti sul lavoro” dei pubblici amministratori. Quegli stessi soggetti che la piccola sub-cultura di Marcolino e del suo amico Bonafede ha voluto, per esempio con la legge “spazzacorrotti”, equiparare agli assassini mafiosi e ai trafficanti internazionali di droghe. Ma nel mondo di onestà-onestà ogni sospiro, ogni piccolo gesto di attenzione di un pubblico ministero conta più di un premio Nobel. A volte, e in questo il Fatto quotidiano è insuperabile maestro, gli uffici della procura vengono addirittura sollecitati. È il caso dell’assessore lombardo alle politiche sociali Giulio Gallera, per sua fortuna non sottoposto a nessuna indagine giudiziaria, ma il cui cognome viene ogni giorno storpiato con la cancellazione di una “L” in modo da evocare e sollecitare le manette. Ovvio che, nel piccolo mondo di Marcolino, quella condanna in primo grado di Chiara Appendino bruci come una bestemmia in chiesa. Un affronto. Ma anche una realtà che cozza con le strampalate regole del grillismo e del travaglismo. Basterebbe rileggere quell’accozzaglia di insulti che ogni giorno viene stampata sul colonnino laterale destro nella prima pagina del Fatto. Quel che è stato sparato, con la forza di pallottole, per esempio nei confronti del sindaco milanese Sala o del governatore lombardo Fontana. Amministratori “normali” proprio come Appendino. Di cui però Marcolino non auspicherebbe mai la ricandidatura, soprattutto per motivi giudiziari. Ecco perché non riesce a ingoiare la rinuncia della sindaca di Torino al secondo mandato. Se la prende con il partito di Grillo e Di Maio perché non aggiorna immediatamente il Codice etico, «ancora troppo rigido e dunque inefficace». Poi inciampa, ricordando come sia giusto allontanare i condannati, specie se per reati gravi come il falso. Però l’ultima parola, suggerisce, andrebbe ai probiviri. Sembra quasi dire che non conta tanto la decisione della magistratura quanto quella del partito. Complimenti per il doppiopesismo, Marcolino! Per uno che è campato sulle vicende giudiziarie di Roberto Formigoni non è male come giravolta. Che cosa dice di Chiara Appendino? «Non ha rubato, “mafiato”, truffato, sperperato, abusato del suo potere a fini personali». Sai, Marcolino quanti esempi di pubblici amministratori, da Tangentopoli in avanti, potremmo farti, anche di persone che si sono suicidate per la vergogna di insinuazioni ingiuste fatte da persone come te? Persone per bene che, proprio come Chiara Appendino, non avevano rubato o truffato o “mafiato” e hanno dovuto subire magari il carcere e la gogna quotidiana sparsa a piene mani dalla sub-cultura che a te è sempre piaciuta finché le condanne non hanno colpito i tuoi cari. Non stupisce il finale del tuo colonnino laterale destro di ieri. Uso volutamente il termine “laterale destro”, con cui viene definito, nei tribunali, il giudice più anziano che siede alla destra del presidente. Perché tu oggi hai emesso una sentenza. Hai stabilito che non ti importa niente della giustizia. Tu invochi il Movimento Cinque Stelle, cioè un partito, in favore di Chiara Appendino: «Un movimento che ha a cuore l’onestà dovrebbe annullare la sua autosospensione e spingerla a ricandidarsi. Non malgrado la sentenza, ma alla luce della sentenza». Ed ecco lo squillo di trombe, la vera anima del giacobino che in realtà non crede nelle decisioni dei giudici (del resto ha sempre preferito i pubblici ministeri): «Non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Ego te absolvo.
Lodovico Poletto per “La Stampa” l'1 febbraio 2021. Tredici file di blocchi di cemento sovrapposte. Tredici. «E adesso voglio proprio vedere come fanno a passare di là». Dall'altra parte di questo muro alto tre metri - costruito dopo mille discussioni e ripensamenti, e terminato pochi giorni fa - c'è il male. Con gli spacciatori e i ragazzi strafatti che vagano, la notte, in un fazzoletto di parco spoglio. Ci sono le siringhe sporche di sangue. E i fantasmi dei disperati che farebbero di tutto per una dose. Di là ci sono le prostitute e i loro clienti che prima del muro venivano tra le case a cercare un posto dove fare sesso. Di qua, invece, c'è quello che chiamavano «il Villaggio»: ventisette blocchi di appartamenti costruiti negli Anni 60. Case modeste, ma ai confini di un parco, il «Sempione». Un posto tranquillo, di mezza periferia: famiglie con bambini, i pomeriggi d'estate tutti in cortile a chiacchierare. Le pizzate tutti insieme sul battuto di cemento in occasione delle feste. Un buon posto per vivere, tutto sommato. Un posto di gente che sogna di invecchiare bene, crescere i bambini lontano dalle brutture del mondo, vederli laureati e sistemati. Poi, però, è accaduto che anche qui, ai confini di Torino, ai margini di questo slargo che si chiama piazza Rebaudengo, è arrivato tutto ciò che spaventa di più. La droga, i pusher, i ragazzi strafatti che vagano seminudi. Si sono infilati nel parco. E il villaggio è diventato un inferno. Colpa di un varco tra i garage. Dieci metri di passaggio che, quando venne pensato, doveva essere una specie di extra per quel posto: un acceso diretto a un'area verde. Con i platani, le altalene, le ringhiere colorate. «E in primavera e in estate, quando imboccavi la strada che porta alle case, lo vedevi laggiù e ti si allargava il cuore: era un paesaggio bellissimo e struggente. Lo vedevi e sapevi di essere a casa» racconta alle dieci del mattino la signora Maria Grazia Battistetti, una che qui è nata e cresciuta. Poi un anno e mezzo fa è tutto precipitato. La strada per «il Villaggio» è diventata la pista per entrare nel regno dei pusher. Le rampe che portano alle cantine sono diventate il posto dove le prostitute portavano i clienti. Passavano tutti da quei dieci metri di varco tra i garage per arrivare nel parco. Al mattino c'erano siringhe e preservativi ovunque. La notte c'erano le auto che s'infilavano tra le case sgommando, per fermarsi davanti ai garage, a due passi da quel varco. Scendevano i tossici, c'era lo scambio, e poi i clienti ripartivano di gran carriera. E i bambini, allora, sono stati barricati dentro casa: troppo pericolosi lasciarli giocare in quel posto. E le tavolate sono finite. «Ad un certo punto gli uomini si sono organizzati. Facevano la ronda tutte le sere, fin verso le 2 o le 3. Quando vedevano le auto arrivare le fermavano, spiegavano che lì non potevano entrare, che era una strada privata, la strada del Villaggio» insiste la signora Battistetti. Non serviva a nulla. I balconi con gli stendini pieni di biancheria, sono diventati un posto dove servirsi di pantaloni, maglie camice e mutande messe ad asciugare. C'era un continuo va e vieni di gente e di auto, di giorno e di notte. «E noi avevamo paura» dice Adele Casanova. E così le famiglie del Villaggio si sono tassate. Cinquanta euro ognuna: qui ne abitano circa 200. E hanno fatto costruire il muro. Ma non è finta lì. Di soldi, alla fine, ne hanno risparmiati un bel po'. E - come spiega Maria Grazia Battistetti - «presto i muri si moltiplicheranno. Ne sarà costruito un altro di lato, per evitare che quella gente entri nel Villaggio». «Ci blindiamo, sì, proprio così, ci blindiamo perché abbiamo paura. Perché non era più vita. Perché gli uomini rischiavano ogni notte». E neanche le autorità riuscivano a risolvere il problema. Ora c'è il muro, e il male è finalmente di là. Il «Villaggio» è salvo. Da qui non si vede più parco, ma solo le fronte più altre dei platani.
Nella via con il muro anti-pusher: "Ora siamo noi quelli in galera". I residenti del "Villaggio" nella periferia Nord di Torino si sono autotassati per costruire un muro, per difendersi dagli spacciatori che passavano dalla loro via: "Noi siamo contro questi venditori di morte". Francesca Bernasconi, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. "Loro fuori, noi dentro". Separati da un muro alto circa tre metri. Da un lato il parco Sempione, che da qualche tempo ospita spacciatori e prostitute, dall'altro gli abitanti del "Villaggio". Siamo a Rebaudengo, nella periferia Nord di Torino. Qui, le circa 200 famiglie che vivono nella via hanno deciso di unire le forze, per difendersi dal degrado e dagli spacciatori: per questo, si sono autotassate e hanno chiuso la via con un muro, per impedire l'accesso al parco. "Siamo quasi stati costretti a fare questo lavoro- ha spiegato al Giornale.it uno dei residenti che ha promosso l'iniziativa, Nicola Metta, raggiunto al telefono- e abbiamo dovuto farlo perché la situazione era diventata invivibile, siamo arrivati alla disperazione. Noi vogliamo far capire che siamo contro questi venditori di morte". Il "Villaggio" è una zona privata, composta da una decina di palazzine unite da una via, in fondo alla quale era stato lasciato un varco per poter accedere al parco. Ma da tempo, ormai, quell'apertura era diventata un incubo. "C'era un passaggio di tossici e di prostitute", ha raccontato uno degli abitanti al Giornale.it. "Qui senza il muro era micidiale - spiega un altro residente - una sera ho visto un tassista, poi un carroattrezzi e varie auto, che arrivavano a velocità sostenuta. Una volta ho trovato qui sulla strada uno che si drogava...". Non sono mancati episodi di degrado, dalla sporcizia alle "latte piene di escementi", ricorda Nicola Metta. E la paura è tanta: "I bambini non possono più giocare in cortile - racconta una mamma - e noi d'estate la sera non scendevamo in strada". Ma il timore è a senso unico, perché "loro non hanno mica paura". Una situazione, quella descritta dai residenti, "diventata invivibile", dove gli spacciatori sono attivi ad ogni ora del giorno e della notte e "l'isola felice" di un tempo ha lasciato il posto al degrado: "Si facevano in strada, davanti a bambini, donne, anziani, con un'indifferenza totale". Ma il punto in cui si radunano principalmente i pusher sembra essere il troncone a due passi dalle abitazioni, sottoposto a lavori ora sospesi: "Là sopra ce ne sono sempre". Adesso, dopo la chiusura del passaggio al parco, sembra che il traffico si sia spostato su Corso Grosseto, come ha precisato al Giornale.it Metta: "Si fermano con la macchina, scendono per prendere la droga e ripartono. Le macchine che passavano nella nostra stradina ora si sposteranno lì". La situazione nel "Villaggio", infatti, sembra migliorata anche se, rivelano gli abitanti, "bisogna chiudere anche i lati", con una recinzione, e l'inizio della via: "Continueremo per proteggere in nostro villaggio". E i soldi? "Se il Comune non ci viene incontro facciamo tutto a nostre spese". Per costruire il muro, infatti, alcune famiglie della via hanno dato un contributo, raccogliendo la somma necessaria richiesta dalla ditta che ha chiuso il varco. "La Circoscrizione però ci ha indirizzato per muoverci nella legalità assoluta- ha ricordato Metta- Noi volevamo dare importanza al nostro quartiere. Ci siamo uniti e abbiamo preso la decisione di autotassarci, visto che siamo anche una zona privata". L'iniziativa dei residenti, "ha smosso un po' le acque" e anche la scorsa settimana "c'è stato un aiuto dalla Circoscrizione", intervenuta per il lavoro di pulizia. Il parco, infatti, ora l'erba è tagliata e i rifiuti raccolti. In un angolo, però, il degrado è ancora presente, tra bottiglie di plastica, cartacce e oggetti di ogni tipo, tra cui un cucchiaio di metallo e una scarpa. "Avrete visto anche poco movimento perché in questi giorni sono arrivati alcuni giornalisti e la polizia è intervenuta ieri pomeriggio", precisa Nicola Metta. La situazione, per il momento, sembra migliorata. Ma c'è una cosa che i residenti non riescono a digerire: "Sembra quasi che siamo in galera noi, loro fuori e noi dentro. Hanno più diritti loro".
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Liguria.
L'imprenditrice e influecer che fa discutere. Chi è Giusy Rizzotto, la candidata di Forza Italia e Udc al comune di Savona. Vito Califano su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Giusy Rizzotto è praticamente la candidata protagonista delle elezioni comunali a Savona. Non si parla che di questo, sui social e sul web, nella corsa alle amministrative nel capoluogo di provincia in Ligura. Più che delle idee della candidata nella lista Forza Italia – Unione di Centro si parla delle sue foto, e di un video hard diffuso in rete “Non sono io”, ha chiarito subito lei. E promesso querele. All’anagrafe Giuseppina Rizzotto, 38 anni, imprenditrice e influencer, candidata a sostegno di Angelo Schirru. Su Instagram al momento è seguita da 362mila follower, destinati molto probabilmente ad aumentare. Di lei si è cominciato a parlare diffusamente per via del suo santino elettorale, sul quale appare con un’evidente scollatura, circolato anche su un furgoncino per la campagna elettorale in questi giorni in città. “Io per te … ci sono!”, lo slogan. Rizzotto è nata a Catania. Per lavoro si è trasferita a Trieste, Genova e quindi a Savona. È diplomata in ragioneria, gestisce uno stabilimento balneare a Spotorno e lavora per l’azienda “Acqua di Calizzano”. È sposata da vent’anni, ha due figli di 20 e 17 anni. Punta a valorizzare l’aspetto turistico della città, a investire in opportunità per i giovani che spesso decidono di lasciare la città, a promuovere l’inclusione. A volerla fortemente nella lista il coordinatore provinciale di Forza Italia Marco Melgrati. Alle critiche dell’Udc per via del suo santino elettorale troppo osé ha replicato con una bordata in un’intervista a La Repubblica: “Sono bella, per lavoro invece di fare la modella in passerella, faccio l’influencer su Instagram e quindi ci sono molte mie foto in circolazione, ma il problema non è mio, è loro: io mi candido per lavorare per la mia comunità, loro guardano il mio seno e le mie gambe lunghe. Forse l’età media, avanzata, in quel partito non aiuta: borbottano e criticano. Badano all’immagine, a quello che pensa la gente, non a quello che potrò fare. Pensi che mi aveva contattato un altro partito, nel centrodestra, ma io avevo rifiutato la candidatura”. Su una storia su Instagram Rizzotto ha denunciato: “Mi hanno appena mandato delle foto, mie, associate al video di una ragazza, che non sono io, un po’ troppo spinto. Questa persona verrà denunciata. Non fatelo ragazzi, basta. Verrete denunciati, passerete dei guai e saranno fatti vostri stavolta”. E in un’altra storia successiva ha raccontato di essere alla polizia postale per presentare la denuncia. “È assurdo, mi stanno scrivendo da tutta Italia, con questo video di questa tizia che potrebbe assomigliarmi, che fa dei video hard, ma non sono io”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Da liberoquotidiano.it il 12 settembre 2021. È furiosa Giusy Rizzotto, la candidata di Forza Italia-Udc alle comunali di Savona a sostegno del sindaco Angelo Schirru. La sua discesa in campo si è trasformata in brevissimo in un caso politico con tanto di attacchi e insulti sui social. La donna, oltre a essere bellissima, è anche un'influencer, una modella, un'imprenditrice, ma anche una mamma: «Sono davvero amareggiata, non mi aspettavo che nel 2021 una donna potesse essere attaccata per l'aspetto fisico», ha detto all'Adnkronos dopo che alcuni hanno messo in giro video hot sul suo conto, risultati poi fake news. «I video hot? Non ci voleva un genio per capire che si trattava di un fake, fatto per giunta malissimo e solo per screditarmi come persona e come donna, ma soprattutto come candidato». E ancora, si sfoga: «Per questo ho presentato una denuncia ai Carabinieri di Savona che sarà girata alla polizia postale. Sono sicura che l'hanno fatta apposta per gettare discredito su di me. Io sono una donna sposata, ho due figli grandi». A chi continua a tirare in ballo anche il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, la Rizzotto replica: «Non no mai sentito né visto Berlusconi, eppure hanno scritto che è stato lui a scegliermi, è tutto assurdo... Forza Italia, lo voglio dire, è stato l'unico partito che non si è soffermato sul mio fisico e ha tenuto conto delle mie idee e i miei progetti... Tutti gli altri hanno detto: "una modella candidata? È troppo, non va bene"... Non c'è niente da fare, nulla è cambiato, non puoi essere bella e intelligente nello stesso tempo».
Savona, la candidata che divide destra e sinistra denuncia: "Quei video sexy non sono miei". Michela Bompani su La Repubblica il 10 settembre 2021. Le chat di politica in Liguria discutono da giorni sullo stile dell'influencer Giuseppina Rizzotto: una scelta che fa parlare. L’hanno soprannominata “la variante Giusy” e ha fatto irruzione nella sonnolenta campagna elettorale savonese per le elezioni amministrative, da giorni le chat di politica di tutta la Liguria non parlano d’altro e soprattutto non guardano altro che il suo profilo Instagram: Giuseppina Rizzotto, 38 anni, è candidata nella lista di Fi-Udc per le comunali, a sostegno del candidato sindaco di centrodestra Angelo Schirru ed è bellissima. Imprenditrice, influencer, gioca le sue carte, usa il lessico social, informale, diretto, ammiccante, per fare campagna elettorale e manda in tilt il sistema arrugginito e, nonostante tutto, codino di destra e anche di sinistra che come diceva De André, sentendosi come Gesù nel tempio, dà buoni consigli, se non può più dare il cattivo esempio. E Rizzotto ci rilascia l’intervista sulla soglia del commissariato di Polizia di Savona, poco prima di depositare una denuncia per diffamazione perché sui social, le sue foto, originali, vengono fatte circolare abbinate però a un video sexy, di cui nega di essere protagonista: "è una donna che mi assomiglia, non sono di certo io e siamo arrivati al punto che devo sporgere denuncia". Nata a Catania, ha lasciato la Sicilia per lavoro: prima Trieste, poi Genova e, da sei anni, abita e lavora a Savona. Ha un diploma in ragioneria e diversi certificati professionali, anche quello di pizzaiola, gestisce uno stabilimento balneare e lavora per l’azienda “Acqua di Calizzano”.
Giuseppina Rizzotto pensava che sarebbe diventata il centro del dibattito elettorale, non solo fuori ma anche dentro il suo stesso schieramento?
“Non mi aspettavo assolutamente una risonanza del genere. Tutt’altro: mi ha preso alla sprovvista. Credo che mi dovrebbero lasciare lavorare, invece di farmi perdere tempo a giustificarmi, se sia davvero la protagonista di un video sexy oppure no. Ho una famiglia solida, per fortuna: sono sposata da vent’anni, ho due figli, un maschio di vent’anni e una ragazza di 17 anni, che tengo accuratamente lontano dai social. Non voglio che le mie idee finiscano nel tritatutto, voglio metterle in pratica e mettermi a disposizione della mia città, altro che scandali”.
Questo la avvilisce?
“Sto ricevendo una valanga di messaggi privati di solidarietà che mi spingono ad andare avanti, da parte di tantissime donne soprattutto e anche di uomini. Ho fatto un post per ringraziarli: per ringraziare tutte le donne intelligenti che mi sostengono e anche tutti gli uomini, che non si fanno spaventare dalle donne”.
Prima di tutto è vittima del fuoco amico: l’Udc non ha apprezzato che nel suo santino elettorale abbia deciso di appaiare il suo invidiabile décolleté allo scudo crociato.
“Sì, mi arrivano critiche da lì. Sono bella, per lavoro invece di fare la modella in passerella, faccio l’influencer su Instagram e quindi ci sono molte mie foto in circolazione, ma il problema non è mio, è loro: io mi candido per lavorare per la mia comunità, loro guardano il mio seno e le mie gambe lunghe. Forse l’età media, avanzata, in quel partito non aiuta: borbottano e criticano. Badano all’immagine, a quello che pensa la gente, non a quello che potrò fare. Pensi che mi aveva contattato un altro partito, nel centrodestra, ma io avevo rifiutato la candidatura”.
Ha rifiutato la candidatura per la Lista Toti?
“Non dico quale sia il partito. Però dico quali condizioni mi aveva posto: cancellare le mie foto, cambiare look, cambiare modo di parlare, cambiare tutto insomma. Allora ho pensato: ma se ancor prima di candidarmi e di essere eletta mi dicono già cosa fare, una volta in consiglio comunale quale libertà avrò? E così ho rifiutato. Perché devo soffocare la mia bellezza, il mio modo di essere, per candidarmi? Sono profondamente offesa, penso alle donne afghane che devono tornare a coprirsi e qui? Mi devo coprire le spalle, per candidarmi? Se questo impedisce di ascoltare le mie idee e le mie proposte per la città il problema non è mio, ma di chi non ascolta”.
Poi è arrivata la proposta di Forza Italia: l’ha fortemente voluta il coordinatore provinciale Marco Melgrati.
“Sì, mi ha scelto, mi sostiene e mi difende a spada tratta: mi ha dato il tempo di parlare, di spiegare le mie idee e il contributo che potevo portare alla lista. Lui non si è fermato al mio aspetto”.
Perché ha deciso di candidarsi?
“Vivo a Savona da quasi sette anni e vedo potenzialità turistiche enormi bloccate da un muro. Sono cresciuta in Sicilia, dove i ristoranti, i bar, i negozi sono aperti sempre, di giorno e di sera. E così accade in molte parti d’Italia, dove viaggio spesso per lavoro. A Savona arrivano i croceristi, i turisti e trovano tutto chiuso, voglio una città accogliente che colga le occasioni economiche che sennò perde. Poi c’è la questione giovani: parto dai miei figli, non ci sono opportunità, a cominciare dagli spazi di aggregazione o sportivi che non siano a pagamento. Poi c’è l’inclusione: ho uno stabilimento balneare a Spotorno dove abbiamo riservato otto posti alle carrozzine, che possono arrivare in acqua. Voglio poter far arrivare tutti negli stessi luoghi, con semplicità. Poi, amo gli animali e non trovo accettabile che il centro di Savona sia precluso a padroni e cani a passeggio: serve prima creare aree dedicate allo sgambamento e poi si possono dare limitazioni, ma non così restrittive”.
Ha scelto uno slogan ammiccante: “Io per te … ci sono!”, cosa intende?
“Significa che voglio che le persone mi parlino e mi chiedano: questo fa un consigliere comunale. Ho un cervello, ma solo due occhi, mi servono quelli di tutti i cittadini per arrivare dove non posso e poter vedere problemi che posso contribuire a risolvere”.
La accusano di aver fatto una foto in una Rsa senza autorizzazione e senza mascherina, in campagna elettorale.
“Sono andata a trovare la mamma di una mia amica, in visita privata: le abbiamo portato la focaccia. Eravamo all'aperto e abbiamo scattato una foto privata, poi è circolata. Non era una visita elettorale”.
Quante preferenze si aspetta?
“Non mi sono posta alcuna quota. Mi metto in gioco e accetto il risultato".
Però ha l'amaro in bocca.
"Sono forte, sono abituata a gestire i social, certo però che mi aspettavo di scontrarmi su temi politici. Ai miei alleati Udc dico ascoltatemi, perdete due minuti del vostro tempo. Sono solo un granello di sabbia, se lavoriamo tutti insieme, però, possiamo fare una bellissima spiaggia”.
La mamma, l’avvocata e la giudice. Tre donne in lotta per la verità sulla strage della Torre Piloti di Genova. Adele Chiello ha ottenuto una sentenza per la morte del figlio, una delle nove vittime della collisione nel porto del 2013. Ma la battaglia continua. Ora nel mirino ci sono il sistema di certificazione delle navi e la sicurezza dell’approdo. Sara Lucaroni su L’Espresso il 29 aprile 2021. «Guardi che non è coraggio, è amore per mio figlio. Io allo Stato gliel’ho consegnato per la manina, me lo ha restituito dentro una cassetta di legno stipata nella stiva di un aereo». Adele Chiello Tusa parla per cinque ore di fila al telefono. Vuole spiegare quel che ha fatto per rompere “il sistema”, le poche lacrime e le tante urla, le camminate al Molo Giano, le facce alle udienze, le lampadine che le si sono accese, l’Italia che uccide sul posto di lavoro. Ci mescola «la musica che ti salva sempre», la morte del marito e Giuseppe che da piccolo le diceva: «Se non mangi, non mangio neanche io, se piangi piango anche io», e allora bisognava essere ancora più forti. E poi la rabbia nel vedere le divise alla camera ardente, il codice civile e il manuale di procedura penale piazzati sul tavolo di cucina. «Lo scriva, lo scriva. Ho preso a bastonate le persone, ho alzato le mani, ho messo sottosopra scrivanie alla Capitaneria, ho urlato “ti ammazzo”. A un altro ho detto: “Ti conviene che ti fai condannare perché alla fine ti strozzo”. Prima ero calma, questo non era il mio temperamento». Il “prima” per lei finisce alle 23,05 del 7 maggio 2013, quando la motonave Jolly Nero della Ignazio Messina & C., durante la manovra per uscire dal porto, ha un’avaria al motore e dopo una serie di errori urta la banchina causando il crollo della torre piloti. In quattro vengono estratti vivi dalle macerie finite in mare. Tra le nove vittime c’è il figlio di Adele, il trentenne sottocapo di seconda classe Giuseppe Tusa. Era nell’ascensore. Verrà estratto alle 14,45 il giorno dopo, proprio mentre sua madre, che lo credeva ricoverato per un incidente, arriva a Genova. «Quando lo vidi, coperto dal lenzuolo all’obitorio spuntava solo il viso, sembrava dormisse. Aveva i capelli bagnati, urlai che volevo un phon per asciugarli. Mi dettero un asciugamano», dice la donna. Aveva le mani rotte e le ossa fuori per aver scavato tra le macerie in acqua, lo vide solo quando riuscì a leggere l’autopsia e vedere i filmati del recupero. Mentre ancora lo cercavano, lo aveva chiamato al cellulare immaginandolo da solo in ospedale: «Lei ha mai sturato un lavandino? Io al telefono ho sentito quel rumore lì. Lo giuro e ce l’ho ancora dentro le orecchie». Le sue intuizioni e la sua tenacia portano la Procura di Genova ad aprire un nuovo processo, dopo le condanne definitive di tre membri dell’equipaggio e l’assoluzione della Messina, condannata a una sanzione amministrativa di un milione e mezzo di euro. Lo scorso 15 settembre il giudice Paolo Lepri ha condannato altre sette persone perché l’urto di una nave con la banchina era un «rischio che gli imputati dovevano e potevano prevedere»: sono l’ammiraglio ex comandante della Capitaneria di Genova Felicio Angrisano, l’ex commissario del Comitato autonomo portuale Fabio Capocaccia, l’ex presidente della sezione del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici Ugo Tomasicchio, gli strutturisti Angelo Spaggiari e Mario Como, l’ingegnere Paolo Grimaldi e Giovanni Lettich della Corporazione Piloti. Mentre sono arrivati gli atti di appello, la sentenza ha “gemmato”, perché nel mirino ora ci sono il sistema di certificazioni delle navi e la sicurezza di tutto il porto di Genova. Adele ha seguito tutte le udienze con la foto di Giuseppe in mano o prendendo appunti. Ma ha fatto scoppiare anche diverse bagarre. Come quando ha sentito l’autodifesa di Angrisano. «Se mi avessero detto che erano in pericolo, non li avrei fatti scendere immediatamente quei ragazzi?», ha sostenuto col giudice. «A quel punto mi sono alzata: Indegno! Non nominare più i figli nostri morti. La colpa è dei morti?». Al numero di Giuseppe risponde lei, ha fatto recuperare la memoria dal telefono finito in acqua. Dice che è stato lui a “svegliarla”. Il vecchio pc, che lei non sapeva usare, l’ha acceso una notte e ha visto le immagini del crollo su YouTube, a un mese dalla tragedia: «Non mi avevano detto nulla per proteggermi. Ma io ho buttato le medicine e ho iniziato a vedere e leggere tutto perché mentre noi eravamo chiusi in Capitaneria, loro rilasciavano interviste ma si contraddicevano. Sentivo puzza». Va subito a Genova per trovare una cartina del porto da studiare. A settembre rifiuta il modulo con la cifra in bianco con cui gli armatori propongono risarcimenti. Coinvolge i giornalisti. Chiede ai legali di inviarle ogni documento: ne leggerà più di duemila. È sfogliando le perizie sulla Jolly, il Registro Navale Italiano (Rina), e le certificazioni di sicurezza e nota che a firmare la classificazione della nave sia sempre la stessa persona. Piomba nell’ufficio del procuratore e quel nome finirà nelle indagini. Studia diritto della navigazione e il Testo unico per la sicurezza nel lavoro. Nel 2015, durante una puntata di Uno Mattina, intervistano Leopoldo Franco, un ingegnere e docente all’Università Roma Tre: dice che non esiste al mondo una torretta costruita sull’acqua, alta 54 metri e spessa 20 centimetri, con un cono interno per l’ascensore. Lo pensa anche Adele che lo cerca per conferirgli l’incarico di consulente. Per avere le carte necessarie alla sua relazione fa due esposti in procura e due diffide all’Autorità portuale. Sul suo telefono Giuseppe aveva il video di una nave da crociera che quella torretta la sfiorava: mancava una barriera di protezione. Lei deposita memorie e denunce: ci sono anche i nomi e i cognomi di chi aveva permesso si lavorasse in quella costruzione. «Il pubblico ministero mi diceva che la torre era irrilevante ai fini processuali. Ricordo che scesi piangendo, ma non mi sono arresa e sugli scalini del Palazzo di Giustizia chiamai un quotidiano chiedendo di mettere quei nomi. Angrisano poi mi inviò una lettera: mi scrisse che ero devastata e che mancavo di rispetto alla memoria di mio figlio, la inviò dal Comando generale della Capitaneria, si deve vergognare», racconta Adele. Ad agosto 2015 il gip Alessia Solombrino legge la sua opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero Walter Cotugno. A ottobre ordina un supplemento di indagini sulla torre, da effettuare entro otto mesi. A processo finiscono altri 12 imputati: progettisti, costruttori, i funzionari il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. La Capitaneria e i datori di lavoro delle vittime: la Corporazione Piloti, Società Rimorchiatori Riuniti, la Marina Militare. Il 26 novembre scorso la Cassazione rende definitive le condanne per l’equipaggio della Jolly Nero ma dispone un nuovo appello per rideterminarne le pene. I legali degli imputati lo spiegano sostenendo che è stata riconosciuta la “corresponsabilità” emersa nel processo bis. «Abbiamo processato il comandante del porto più famoso del Mediterraneo e l’ingegnere capo più importante del Mediterraneo», spiega Alessandra Guarini, parte civile con gli avvocati delle figlie di Adele, Massimiliano Gabrielli e Cesare Bulgheroni. «L’ho conosciuta in tribunale a fine 2014. Mi è piaciuta come si muoveva. E dissi: lei sarà il mio avvocato», spiega Adele. Alessandra Guarini, già impegnata a difendere i familiari delle vittime nel caso giudiziario della Costa Concordia e adesso nella tragedia dell’Hotel Rigopiano, il disastro del Norman Atlantic e la morte del nocchiere Alessandro Nasta sulla Amerigo Vespucci, è “l’avvocata delle mamme”: «Non ho mai impedito a Adele di essere se stessa», dice: «Ci siamo intese, ci siamo sostenute e in aula eravamo spalla a spalla. Era preparatissima. Ed è stato un processo “altruista” perché è non è servito a lei o al figlio, ma a mettere a posto tante cose». Come ad esempio ribadire che le norme nazionali in materia di sicurezza valgono non solo per i datori di lavoro privati, ma anche quelli pubblici e militari. Il giudice, nelle 343 pagine di motivazioni spiega che «una diversa ubicazione della torre avrebbe impedito l’urto e conseguentemente il crollo e le morti e i ferimenti», e sottolinea che «attitudine salvifica avrebbe potuto avere anche la realizzazione delle protezioni».
Il pm Walter Cotugno aveva chiesto un’informativa all’Autorità Portuale su altri edifici del porto antico costruiti sul ciglio delle banchine, la cui pericolosità è direttamente proporzionale alla grandezza di molte navi che attualmente transitano nel porto di Genova. L’Ammiraglio, «responsabile della sicurezza in porto e datore di lavoro», «avrebbe invece dovuto ricorrere alla più radicale misura consistente nell’immediato sgombero della Torre Piloti». «La difficoltà di questi due processi è stata riuscire a gestirli con addosso le critiche di chi ci diceva che stavamo mettendo in dubbio la sicurezza del porto di Genova e quindi addirittura compromettendo l’economia della Liguria», spiega Guarini, poi aggiunge: «Abbiamo aperto una riflessione sull’importanza di tutelare chi lavora, dai militari della Marina a chiunque si trovi ad operare nel porto, inclusi i passeggeri delle navi da crociera». «Il pubblico ministero mi ha porto pubblicamente le sue scuse», racconta Adele. «Gli ho detto: non mi parli del passato, adesso siamo qua. Apra il cassetto dove ci sono tutte le mie denunce. Siamo solo al primo grado, sono passati sette anni, io voglio vedere qualcosa prima di morire. Si è dimenticato di quelle certificazioni false?». Ride, raccontando le lacrime che le si sono sciolte e l’abbraccio dell’avvocato dopo la sentenza: «Non ero pazza». C’è un video di quel momento. In questi anni ha avuto vicina l’associazione dei familiari della strage di Viareggio, “Il mondo che vorrei”, e ha girato l’Italia: «Per parlare con le persone. Dal Vajont alla Costa Concordia, a Ustica. Io non ho colori politici, a me interessa che chi sta seduto in alto lavori nell’interesse del cittadino». Ha istituito il Trofeo Giuppy Black Dj, col nome d’arte di Giuseppe, militare ma anche noto dj. Dal suo computer ha estratto pezzi inediti con cui ha creato un disco. L’ha donato ai partecipanti di una delle tante manifestazioni per ricordarlo. «Questa sentenza non è una sentenza sua o mia, perché i morti non hanno più bisogno di sentenze, è per i figli di questo Paese che crolla. Bisogna credere nella verità e non arrendersi mai. Dopo che ti ammazzano un figlio, di cosa devi avere paura? Lo scriva, mi raccomando: lui era il sole e non ha sprecato neanche un istante della sua vita».
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2021. Il necrologio e le sue ultime volontà scritte con cura, predisponendo ogni particolare di quel cospicuo regalo - un lascito di circa 25 milioni di euro - a Genova, ai suoi ospedali, agli enti di misericordia, ma anche a Ong e istituti di ricerca. Edmonda Marisa Cavanna, professoressa liceale di Lettere in pensione, si è spenta a 96 anni il 9 dicembre nella sua casa in via Giordano Bruno, nel quartiere Albaro del capoluogo ligure. Qualche giorno prima di andarsene, aveva chiamato un suo amico tra i più vicini, Gino Noceti, dirigente della banca Passadori, per chiedergli un'ultima cortesia: «Carissimo, dopo che non ci sarò più porti per favore alla redazione del Secolo XIX quella busta che vede sullo scrittoio. Contiene l'elenco di tutti quelli che vorrei ringraziare e a cui ho voluto bene». In primis «la lunga schiera degli ex allievi», si leggeva sul necrologio vergato da sé, in calligrafia elegante. Poi «un riconoscente abbraccio a tutte le mie amiche e al personale di casa» e anche - ma salutandoli come «nonna Marisa» - agli «amatissimi Gingi e Zakaria», i figli della sua badante che lei, mai sposata e senza figli, considerava come nipoti. Sorprendente, la successiva apertura del testamento, letto lo scorso 18 dicembre: le 13 pagine - ha raccontato l'Ansa - contenevano il minuzioso dettaglio della destinazione della sua eredità: dalla stessa badante - una signora che da quarant' anni si prendeva cura di Marisa «sempre dandole del lei» e che ha ricevuto 3,8 milioni di euro - ad Amnesty International. Gran parte del ricavato della vendita dei gioielli di famiglia e della bella villa in riva al mare, oltre che del «cash» in banca, andrà a due ospedali di Genova. Cinque milioni al Gaslini e una somma analoga è per il Galliera il cui direttore generale Adriano Lagostena parla di «generosità unica». La prof ha però impartito tassative disposizioni: il lascito «non è per la normale amministrazione» ma per «la ricerca e l'acquisto di apparecchiature». E poi altri soldi per onlus sostenute dalla sanità ligure, come il «Fondo malattia renale del bambino» e l'«Associazione neuroblastoma», e per enti ecclesiastici cittadini come la «Provincia religiosa San Benedetto». La signora Cavanna, assai religiosa, aveva sangue blu, veniva da una casata del patriziato di Venezia, quella dei Contarini, che tra i vari rami vanta otto dogi. È alla nipote Mirella che la zia - «augurandole una vita serena» - ha affidato i «documenti della nobile famiglia da cui discendiamo». Non è noto come dalla Serenissima gli avi di Marisa siano approdati ai domini della Superba, «so solo che sua madre, una Contarini, ha sempre vissuto a Genova ed è seppellita a Staglieno» racconta ora il dottor Noceti, esecutore testamentario delle volontà dell'insegnante e che nel 2019 ha ricevuto dal Colle il riconoscimento della «Stella al merito del lavoro». Il bancario parla di «una donna che ora è facile definire straordinaria: ma lei era davvero così. Gli occhi le si illuminavano se per strada incontrava i suoi ex studenti che la salutavano festosi». Il testamento versa pure quattro milioni a varie Ong tra cui Amnesty, Amici senza frontiere e Save the Children. Al «Don Orione» di Genova una voce femminile si commuove al telefono al ricordo «di quella generosità sempre mostrata da Marisa finanziando, magari con donazioni da 100 euro, le nostre "Borse del pane" preparate per i più bisognosi». Nelle pagine fitte fitte delle ultime volontà compaiono anche pensieri soltanto apparentemente minori, «come l'affitto che deve essere pagato per sei mesi a tutto il personale di casa» e quella raccomandazione per la sua Gingi, la nipote prediletta, di «un aiuto e un'attenzione speciale». Poi come se fosse secondario, la prof ha concluso così: «Dovesse servire, dono i miei organi».
Tommaso Fregatti per “la Stampa” il 26 febbraio 2021. Le prime segnalazioni alle centrali operative arrivano da passanti che transitano sul lungomare o da chi, complice il bel tempo e il clima mite di questo anticipo di primavera, si gode qualche ora di sole e relax su spiagge e scogliere. E i recuperi avvengono a tempo di record con motovedette e sommozzatori «per evitare che i corpi raggiungano la riva», spiega uno dei soccorritori. Il mare da ieri pomeriggio inizia a restituire le salme del crollo del cimitero di Camogli, mentre alcuni resti cominciano dolorosamente a essere preda di pesci e gabbiani. Le correnti, come già evidenziato nel tragico caso della contessa Francesca Vacca Augusta il cui corpo nel 2001 da Portofino venne recuperato in Costa Azzurra, spingono in Liguria da sempre verso ponente. Per questo i ritrovamenti di salme e feretri precipitate dalla falesia lunedì pomeriggio avvengono nello specchio acqueo tra il levante di Genova e Celle Ligure in provincia di Savona. La prima segnalazione è delle 14.40. È primo pomeriggio quando a mezzo miglio dalla spiaggia di Vesima tra Genova e Arenzano c' è il primo avvistamento. Il secondo è davanti al Monumento di Quarto dedicato alla partenza dei Mille. «Sotto costa», scrive la capitaneria nella relazione di servizio. Che sta a significare a pochi passi dalla scogliera da dove partì Garibaldi. A Quinto, invece, nella piazza sul mare dei giardini Rusca vicino agli scogli, non emergono resti umani ma parti di bare finite in mare nel crollo del cimitero. Le notano alcune mamme mentre controllano i propri figli che giocano sulla scogliera. Come a Celle Ligure dove un pescatore scorge dalla riva quel che resta di un feretro. Le operazioni di recupero vengono condotte dai vigili del fuoco e della capitaneria di Porto. Ora, però, si apre la partita di cosa fare di quelle salme che sono state ritrovate lontano dal cimitero crollato. Perché tecnicamente trattandosi di «salme non identificate» occorre seguire il protocollo che si applica ogni volta che viene ritrovato un cadavere senza nome. Ecco la procedura: la salma viene presa in carico dalla polizia mortuaria che porta il corpo all' istituto di medicina legale dove viene messo a disposizione dell' autorità giudiziaria. Spetterà dunque al pubblico ministero di turno decidere come operare e stabilire le procedure per l' identificazione. Anche perché, come primo accertamento, bisogna confermare che il corpo recuperato arrivi realmente da quelli precipitati in mare nel crollo del cimitero di Camogli. E che non si tratti di un altro caso, di un decesso per altri motivi o circostanze. Se sul corpo non vengono trovati elementi utili all' identificazione si può procedere con il prelievo del Dna o l' analisi delle impronte digitali per arrivare a dare un nome al cadavere. Passaggi che rendono ancora più pesante il clima che grava su questa vicenda. Per valutare tutte le possibili situazioni, si vagliano anche le eventuali denunce di scomparsa arrivate in queste ultime ore alle forze dell' ordine. Se invece viene confermato che si tratta di una delle salme del cimitero di Camogli (in un caso accanto al corpo è stato trovato un pezzo di legno che si ipotizza essere una parte di una bara) si lavora in stretto contatto con il Comune e la Protezione civile che hanno l' elenco delle duecento bare finite in mare per dare un contributo all' identificazione. E riuscire a recuperare tutte le salme finite in acqua. Attualmente, oltre quelle di ieri, sono dieci le salme recuperate dal mare.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)
· Succede in Emilia Romagna.
Bologna e il complesso delle 7 chiese. Angela Leucci l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale.
Preghiere, riti e suggestioni del complesso delle 7 chiese a Bologna: il luogo in cui si è cercato di ricreare il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Nel centro di Bologna ci sono moltissimi beni culturali da ammirare. La Dotta è un vero coacervo di storia, con le sue architetture suggestive che raccontano vicende realmente accadute, leggende e usanze. Alcune di queste sono strettamente religiose e sono legate a un’affascinante complesso architettonico di tipo religioso, quello di Santo Stefano, detto anche il “complesso delle 7 chiese”.
Che cos’è il complesso di Santo Stefano
Si tratta letteralmente di un complesso di 7 chiese legate l’una all’altra da spazi all’aperto, tra cui un chiostro e un cortile, dedicato a Santo Stefano, primo martire della Chiesa Cattolica. Le singole chiese sono invece dedicate al Crocefisso, al Sepolcro, ai Santi Vitale e Agricola, alla Trinità e, a esse, si aggiungono il chiostro, la cripta e la cappella della Benda. In quest’ultima è conservato un pezzo di tela, con il quale - secondo la vulgata della Chiesa - la Madonna avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la passione.
L’idea alla base delle 7 chiese era ricreare un ambiente, interno ed esterno, che riuscisse a rappresentare i luoghi più importanti del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Tanto che esiste, ad esempio, il cortile di Pilato: qui troviamo molti elementi a forte impatto simbolico, dalla vasca calcarea che rappresenta il catino in cui Ponzio Pilato si lavò le mani dopo aver condannato a morte Gesù, fino a una statua in pietra di un gallo, il cosiddetto “gallo di san Pietro”, in riferimento all’apostolo che rinnegò Cristo prima di udire il gallo cantare tre volte.
L’ideazione del complesso delle 7 chiese venne, secondo la tradizione, da san Petronio, protettore di Bologna e, durante la prima metà del IV secolo presule della città. La costruzione della prima chiesa iniziò poco dopo la morte del santo, nel V secolo, ma nel tempo il complesso dovette subire diverse ricostruzioni e restauri.
Tra le tante opere d’arte, come dipinti e statue all’interno delle chiese, ci sono dettagli molto interessanti che continuano a riguardare il simbolismo relativo alla Passione e alla Morte di Gesù Cristo. Nella chiesa del Santo Sepolcro, per esempio, c’è un pezzo di pietra del vero Santo Sepolcro, quello di Gerusalemme, e oltre alle colonne che sorreggono le volte, ce n’è una in marmo nero fuori allineamento: è la colonna della Flagellazione, la cui visita tra l’altro permette di guadagnare 200 anni di indulgenza come riporta un’iscrizione posta su essa.
Le usanze religiose legate al culto
Le usanze più caratteristiche sono sicuramente legate proprio alla basilica del Sepolcro, la cui porta viene aperta solo da Pasqua per tutta la settimana successiva, dopo che si è tenuta la messa con i Cavalieri del Santo Sepolcro. Secondo la tradizione, le persone strisciavano all’interno per pregare le reliquie di san Petronio, che tuttavia intorno al 2000 furono traslate nella chiesa bolognese dedicata al santo. Ma ci sono dei riti speciali che riguardavano future madri e lavoratrici peripatetiche.
Le donne incinte infatti, nel giorno di Pasqua, giravano intorno al Santo Sepolcro per 33 volte, fermandosi ogni volta a pregare: le 33 volte rappresentano gli anni di Cristo. Successivamente si recavano nella chiesa della Trinità per pregare davanti all’affresco della Madonna Incinta.
Le meretrici, nello stesso giorno, rivolgevano la loro preghiera - da sempre e per sempre segreta - a Maria Maddalena. Un tempo la cultura popolare riteneva Maddalena stessa un'adultera, ma la critica contemporanea riconosce in lei non solo di essere stata una discepola di Cristo, ma anche la protagonista di una vicenda e di una parabola. Nel vangelo di Giovanni si parla infatti di un’adultera che sta per essere lapidata e, secondo i critici, sarebbe proprio Maria di Magdala. Analogamente, la sua immagine è assimilabile, nel vangelo di Luca, al personaggio della parabola della buona samaritana - perché le samaritane risentivano spesso di pregiudizi legati alla loro vita.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Andreina Baccaro per corrieredibologna.corriere.it il 14 novembre 2021. Un noto locale tra Bologna e San Lazzaro dove il venerdì sera si fa festa: si mangia, si balla, si beve. Ai tavoli facoltosi imprenditori, avvocati, notai, qualche sportivo, uno stilista e ragazze bellissime in vena di divertirsi. È uno degli organizzatori, imprenditore 46enne molto conosciuto nel mondo della movida bolognese perché in passato ha gestito anche una nota discoteca, a invitare giovani ragazze che sa essere disposte a concedersi per qualche grammo di cocaina o qualche regalo.
La ricostruzione degli inquirenti
È così che funzionano le sue serate secondo i carabinieri del nucleo investigativo e il pm Stefano Dambruoso che, dopo aver chiuso il cerchio sul giro di festini a base di sesso e coca di Villa Inferno, negli ultimi mesi hanno indagato su un altro filone, partito proprio dalle dichiarazioni di una delle testimoni che aveva ricostruito una serata nella villa dell’imprenditore Davide Bacci, dove finì anche una minorenne. La teste in questione, una 25enne, ha raccontato di essersi trovata a Villa Inferno in compagnia del 46enne, di aver visto molti personaggi facoltosi della città accompagnati da ragazze molto giovani, ma anche che il suo accompagnatore, che organizza un altro genere di serate del tutto lecite, nei suoi party fa invece incontrare offerta e domanda, tra ospiti facoltosi a caccia di sesso e cocaina, e giovani donne disposte a concedersi in cambio di droga e regali.
I frequentatori delle feste
Le sue feste sono frequentate anche ex appartenenti alle forze dell’ordine, qualcuno ancora in servizio, poi uno stilista, un notaio, agenti immobiliari, avvocati e imprenditori. La stessa versione è stata fornita anche da altre quattro o cinque ragazze che frequentano le serate. Nei mesi scorsi sono state sentite decine di persone, tutti facoltosi frequentatori della serate e la versione sarebbe sempre la stessa. Per questo il 46enne è indagato per spaccio e favoreggiamentodella prostituzione. Dalle intercettazioni sarebbe emerso un quadro abbastanza chiaro: gli uomini prenotano un tavolo e gli chiedono «mi raccomando, mettici le ragazze», ma anche polvere bianca.
Il giallo della morte di uno sportivo bolognese
Ma non è finita: perché indagando e sentendo i testimoni i carabinieri sono venuti a conoscenza delle voci che circolano sulla morte di uno sportivo bolognese, stroncato alcuni anni fa da un infarto proprio al termine di una serata. L’ipotesi è che a causare l’arresto cardiaco possa essere stata proprio una dose di cocaina ceduta da qualcuno dello stesso giro della nuova inchiesta. Nonostante il tempo trascorso, anche per quella morte sospetta è stato aperto un fascicolo per morte in conseguenza di altro reato e spaccio, in cui c’è un indagato. Sull’inchiesta sui party in cui girano cocaina e giovani escort, un altro terremoto che fa tremare la Bologna della notte dopo Villa Inferno, c’è stata invece una strana fuga di notizie, arrivata all’orecchio dell’indagato principale e sulla quale non è escluso che gli inquirenti vogliano vederci chiaro.
Davide Brullo per “il Giornale” il 22 agosto 2021. Il ponte di Tiberio è lì da duemila anni. Terminato nel 21 dopo Cristo, si erge sopra uno specchio d'acqua. Congiunge il centro di Rimini al Borgo San Giuliano: i cinque archi si riflettono nel fiume realizzando cinque sfere perfette, che ipnotizzano. Tale è Rimini: eterna e fugace, concreta e fasulla. Un'illusione. Sul ponte, probabilmente, Tiberio non passò mai: alle godurie romagnole preferiva il tedio di Capri, dove «si lasciò andare a delitti e atti infamanti», ricorda Tacito. Rimini conserva importanti vestigia imperiali l'arco di Augusto, l'Anfiteatro, dove si sognano tigri, la statua di Giulio Cesare, che di qui passò dando lo start alla guerra civile, alea iacta est , ma importano a nessuno: tutti vanno in spiaggia, chiappe al vento, tra una milizia di brandine. Il genio dei riminesi è noto: sono stati capaci di vendere la cosa più brutta che hanno. Il mare. Un secolo fa a Rimini arrivò pure Ezra Pound. Non gli importava il mare: era affascinato da Sigismondo Pandolfo Malatesta, grande cavaliere d'armi vissuto nel XV secolo, signore della città, condottiero contro tutti, sconfitto dalla propria audacia. Rimini appare, trasfigurata, nel primo ciclo di Cantos (VIII-XI) e nei canti in italiano (LXXII-LXXXIII), sfatti da dolore («Rimini arsa e Forlì distrutta../ Dove il teschio canta/ Torneranno i fanti, torneranno le bandiere»). Il Malatesta piacque a un altro scrittore provocatorio Rimini concupisce balordi, banditi, reietti , Henry de Montherlant, che intorno alla vita strabiliante del cavaliere scrive la pièce più bella, Malatesta, appunto. A Rimini, in un vicolo che si chiama «Gioia» che tutto dice per effervescenza mistica lavora, in solitudine, l'editore Raffaelli: ha in catalogo una collana poundiana, ha pubblicato il Malatesta di Montherlant nella versione di Camillo Sbarbaro. Barba aguzza, posa carbonara, apre le porte del suo antro editoriale a chi gli va. Forse è il più raffinato tra gli editori italiani, i suoi libri sono aristocraticamente introvabili. Dominata dai «poteri rossi» pur con diverse gradazioni alcoliche, tra PCI, PDS, PD dacché l'Italia è una Repubblica, Rimini è felliniana e palazzinara, mazziniana e clericale, sbruffona, ambigua. Andrea Gnassi classe 1969, Sindaco/tiranno di sinistra ha rifatto il lungomare, per la gioia dei turisti equini, e ricostruito il Teatro Galli, inaugurato da Giuseppe Verdi nel 1857, disfatto dalla Seconda guerra. Ricorda vagamente Gabriele d'Annunzio, che a Rimini come Casanova veniva come un lampo a soddisfare i vizi e a copulare con Eleonora Duse. Quest' anno, dopo un principato decennale, si va a elezioni, galvanizzate dalla defenestrazione del vicesindaco, Gloria Lisi, figurina del PD che ha scelto di farsi una lista propria, fuori dalle pastoie della sinistra. Rimini è il luogo dove l'azzurro si piglia a morsi, l'istinto primeggia sulla ragione e l'estate è per sempre. Rimini è lo spazio alchemico dove si deve essere altro da sé: il dominio del caos, l'opera del carnevale, il regno di Joker. Pier Vittorio Tondelli è l'autentico Arconte della gnosi riminese. «Voglio una palude bollente di anime che fanno la vacanza solo per schiattare e si stravolgono al sole e in questa palude i miei eroi che vogliono emergere, vogliono essere qualcuno, vogliono il successo, la ricchezza, la notorietà, la fama, la gloria, il potere, il sesso. E Rimini è questa Italia del sei dentro o sei fuori», scrive, reclamando una poetica. Rimini uscì per Bompiani nel 1985, con un lancio pazzesco; i manifesti lo celebravano come «Il romanzo dell'estate», Tondelli, labbra lascive e sguardo caustico, era il taumaturgo della letteratura italiana dell'epoca: inventava mode. Lo scandalo incoronò l'evento editoriale. Il 23 giugno del 1985 Tondelli avrebbe dovuto presentare il libro a Domenica In, alla corte di Pippo Baudo. La partecipazione salta. Il motivo lo spiega Tondelli: «alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come nell'80 Altri libertini turbò l'allora magistrato de L'Aquila Bartolomei, fino a spingerlo al sequestro». Le vendite levitano. La presentazione di Rimini il più brutto dei libri di Tondelli, epocali ma sopravvalutati accade al Grand Hotel, il 5 luglio, con Roberto Dago D'Agostino a fare da arbiter elegantiarum: «A un certo punto, tutto pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi (gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto) ha sempre rappresentato per me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi». Di quegli anni, oggi, a trent' anni dalla morte di Tondelli, non restano che un paio di film dimenticabili Rimini Rimini di Sergio Corbucci e Abbronzatissimi e l'etica incontinente della dissipazione. Le folle sono tornate a Rimini: tuffarsi nella calca è un'esperienza spirituale più profonda che immergersi nel Gange o battezzarsi nel Giordano. Scopri chi sei un altrove e percepisci che il corpo è tutto, cioè cenere. Aveva ragione Tondelli, «Rimini è l'Italia intera, lo specchio della società italiana». Valerio Zurlini, ne La prima notte di quiete (1972), l'ha vista come un trattato di nebbie, una resa, riassunta nel volto di Alain Delon e nella trasognata bellezza di Sonia Petrovna, specie di dolce Ade. Per capire la contraddizione di questo luogo fatale, bisogna andare a Covignano, il colle alle spalle di Rimini, da cui l'Adriatico pare una lamina orfica. Quell'altura è zona sacra: vi sorge un santuario molto amato, la Madonna delle Grazie. Poco più in là, si eleva l'Abbazia di Scolca: è lì dal 1418, ed è magnifica l'Adorazione dei Magi del Vasari; la Madonna emerge dalla pala come un fuoco bianco. Proprio a Covignano nasce l'epopea della festa, l'epica delle discoteche, dove il corpo, ostia profana, si ostenta, si lecca, si mangia, nell'abominio fecale dell'era cannibale. Negli anni Settanta, lassù, Gianni Fabbri ha aperto il Paradiso, «punto di riferimento per il divertimento notturno in tutta Italia». Lo frequentava, accompagnato dal fratello di Gianni, Paolo Fabbri, insigne semiologo, anche Umberto Eco. Il «Re delle notti d'Europa» stava con Grazia, la figlia di Licio Gelli, il guru della P2: lei, 32 anni, morì in un incidente stradale, nel 1988; alla guida della Mercedes 560 c'era lui, Fabbri, salvo per miracolo, amava la velocità. Gianni Fabbri muore nel 2004, quando la Riviera della notte è morta da tempo; l'anno scorso scompare il fratello Paolo. Vive, ancora, piuttosto, Mario Guaraldi, nei recessi di Covignano. Si muove con il bastone, coltiva l'orto, contorto dal male. Cinquant' anni fa ha fondato la casa editrice che porta il suo nome. Nel 1983 ha organizzato, nello stesso Grand Hotel sotto assedio tondelliano, la presentazione di E la nave va di Fellini: il rinoceronte nella barca, forse, è l'emblema sintetico e violento dell'incongruo riminese. «L'ultima prova è il sospetto. Tutti ti trattano come una merda e tu sospetti di tutto, di tutti. Anche che questo sia vero», mi dice Guaraldi. Pare un profeta assiso sul baratro. Il giorno, a Covignano, dura un attimo di più che altrove, quasi trattenesse il respiro; è come una rete, la luce, a strascico.
Rosalba Carbutti per il “Resto del Carlino” il 26 giugno 2021. «Non ho partecipato alle primarie. E alle elezioni amministrative non voterò Matteo Lepore. Dice di essere di sinistra, ma mi pare più che altro un assessore al marketing. Ormai non ci casco più». Claudio Levorato, presidente di Manutencoop, holding di controllo del gruppo Reekeep, e una vita nel mondo cooperativo, lo chiamano 'l'eretico'. Oggi, con Lepore candidato del centrosinistra, si schiera. Ma non con lui.
La sua "eresia" arriva fino a votare il centrodestra?
«Ancora a fare queste distinzioni. Destra, sinistra, centro. Penso che serva a Bologna una persona indipendente, capace, di spessore. In grado di mettere insieme tutte le eccellenze che abbiamo. Imprese diventate internazionali, un'università di grande prestigio, il centro meteo, il super cervellone del Tecnopolo. Ecco direi che Andrea Cangini lo vedrei adatto a tenere insieme tutto questo».
Ma lei non era di sinistra?
«Non sono 'di sinistra'. Sono 'dannatamente di sinistra'. Ma da quando non c'è più la sede del partito in via Barberia, non frequento più. La sinistra per come la intendo io cerca il bene complessivo. La differenza era tra una sinistra statalista e una destra liberista. Ma ormai si può dire davvero che c'è questa distinzione?
Non voglio essere amaro come Giorgio Gaber, ma ora ciò che conta sono le caratteristiche della persona. Un tempo, forse, era l'etichetta che rappresentava il contenuto. Adesso ognuno l'etichetta se la dà per sé».
Il fatto che Cangini, oltre ad essere ex direttore di Qn e Carlino, sia senatore di Forza Italia non le crea 'problemi' politico-ideali?
«Lui è indipendente da chi lo sponsorizza. Il mio giudizio è sulla persona, non su chi ci mette il cappello sopra. E Cangini non credo sia uno che si faccia mettere in testa alcun cappello. Pure in Forza Italia è riuscito a costruirsi un profilo autonomo. Senza contare un altro aspetto molto importante: è molto in sintonia con la città».
Lepore, invece, crede non sia autonomo? Durante la campagna elettorale ha anche attaccato alcuni poteri pre-costituiti...
«Rischio di ripetermi. Ma quello che dissi prima dei gazebo, lo ribadisco oggi. C'è un rapporto 'viziato', ormai, tra politica e imprese. Non c'è più quella cinghia di trasmissione propria del Pci. Prima la politica era il 'grande timoniere' delle scelte del mondo cooperativo. Oggi c'è un rovesciamento».
Che cosa intende?
«Il Pd è "prigioniero". Prigioniero di un gruppo di potere minuscolo che si allarga a singoli soggetti che si accontentano delle "briciole"».
Il Pd non era l'erede del Pci?
«Il Pd è un partito liquido, come si dice oggi. Il Pci è morto senza testamento. Qualsiasi somiglianza se mai ci fosse è irriconoscibile».
A quale gruppo di potere si riferisce?
«Unipol e il suo presidente, Pierluigi Stefanini. Il sistema è quello delle 'porte girevoli' e Lepore ne fa parte. All'assessore che è stato un dirigente di Legacoop ne ho anche parlato, raccontando le malegrazie che ho subito. Ma lui si è limitato a dirmi che "io sono in conflitto". È un ragazzo con dei numeri, ha verve, ma non posso tralasciare 'con chi va'».
Lepore ha preso un sacco di voti ai gazebo...
«L'esito non poteva che essere quello. Ma al di là dei proclami, credo che Isabella Conti abbia meglio rappresentato la cultura di sinistra che conosciamo in città. L'ho trovata più in continuità con tutto ciò che ha fatto grande Bologna».
Dica la verità, alle primarie ha votato Conti...
«Non ho votato ai gazebo. Non ci credo a questa competizione. Non so che cosa farà la Conti. Spero non torni a fare solo la sindaca di San Lazzaro...».
L'area moderata che ha votato Isabella potrebbe 'spostarsi' su un nome alternativo a Lepore? «Cangini è un esponente dei moderati. Del resto non erano di anima moderata anche i grandi sindaci Guido Fanti e Renato Zangheri?».
Dario Del Bufalo per ilgiornaledellarte.com il 3 giugno 2021. A cento anni dalla nascita di Federico Zeri, la storia del suo disgraziato lascito all’Università di Bologna (che spudoratamente ha anche istituito un Comitato Nazionale per le sue Celebrazioni) si comprende meglio se si fa una visita alla Villa di Mentana, che lo storico dell’arte aveva lasciato in eredità all’ateneo bolognese perché diventasse una specie di campus di specializzazione per laureati in Storia dell’arte. Oggi la proprietà è in totale abbandono, ed era stata messa in vendita all’asta presso il sito del Demanio. Dell’intenzione di donare la sua Villa come centro studi, con tutti i suoi fantastici documenti fotografici e moltissimi libri specializzati e rari (una specie di macchina del tempo dell’arte), Zeri aveva già parlato nel 1965 con Roberto Longhi, poi con l’Accademia di Francia e infine trovò (nel 1997) un accordo con il rettore di Bologna, Roversi Monaco, che gli promise anche un vitalizio. Alla fine da Bologna ricevette solo una laurea honoris causa e dopo la sua morte ebbe il più grande tradimento dall’Alma Mater, cioè lo svuotamento dalla Villa dei suoi 80mila volumi d’arte e soprattutto il trasferimento dell’enorme fototeca di più di 300mila immagini, soltanto la metà delle quali ad oggi sono state messe online sul sito web della Fondazione e le altre 150mila fotografie dove sono e chi le gestisce? Per l’importanza del personaggio, dei documenti, dei libri, delle fotografie e degli appunti, la raccolta della Villa doveva essere vincolata quando Zeri era ancora in vita e dunque diventare inamovibile e rimanere, come desiderava lui, tutto nella struttura di Mentana. L’abbandono della Villa di Mentana aveva già dato i suoi nefasti risultati nei primi anni della sua donazione a Bologna. Oltre al degrado della struttura, progettata dall’architetto Busiri Vici, del giardino e del frutteto, ora si aggiunge una grave perdita, con la sparizione registrata dai Carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale di circa 20 epigrafi dall’importante lapidario: quasi 600 lastre in marmo che furono vincolate tardivamente solo nel 2014 e che Zeri collezionò in decenni di ricerche e acquisti sul mercato antiquario e su quello privato o clandestino; sembra infatti da una ricerca che almeno 50 lapidi di questa raccolta risultino come «mancanti» da altre collezioni o depositi privati e pubblici senza essere state mai denunciate direttamente come rubate. Essendo queste epigrafi murate nelle strutture della casa e del giardino, fanno parte integrante dell’immobile, così che Bologna non ha potuto portarsele via e dunque le ha abbandonate con la proprietà. Una delle tante frasi di Federico Zeri è illuminante, più di ogni altra, sul tragico destino del suo lascito: «Tra i tanti paradossi italiani c’è quello che noi abbiamo il più ricco patrimonio artistico del mondo occidentale affidato alla più inetta amministrazione pubblica del mondo occidentale».
Bernini a Quarta Repubblica su Mescolini: Tinelli annuncia azioni legali. Da reggionline.com il 16 febbraio 2021. “Non sono mai stata iscritta al Pd né ad altri partiti politici”, dichiara seccamente l’ex presidente dell’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia. L’avvocato reggiano Celestina Tinelli annuncia azioni legali in riferimento alle parole pronunciate ieri sera nel corso della trasmissione tv di Rete4 “Quarta Repubblica”, condotta da Nicola Porro, da parte dell’esponente di Forza Italia Giovanni Paolo Bernini.
Bernini, che fu coinvolto nell’inchiesta Aemilia con l’accusa di corruzione elettorale, venendo tuttavia prosciolto per intervenuta prescrizione, ha accusato la Tinelli di avere “sostenuto” e addirittura “imposto”, per conto del Pd la nomina di Marco Mescolini a Procuratore Capo di Reggio nel 2018. “Non sono mai stata iscritta al Pd né ad altri partiti politici”, dichiara seccamente Celestina Tinelli, ex presidente dell’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia.
Bernini fa il nome di chi avrebbe “imposto” Mescolini a capo della Procura di Reggio Emilia. L’Avv. Tinelli annuncia azioni legali. Da nextstopreggio.it il 16 Febbraio 2021. Ospite dal giornalista Nicola Porro nella puntata di ieri sera di Quarta Repubblica, l’ex assessore forzista di Parma Giovanni Paolo Bernini, finito nell’inchiesta Aemilia e poi assolto, ha creato suspence per alcuni minuti durante la trasmissione dicendo di sapere chi avrebbe fatto pressioni per avere Marco Mescolini a capo della Procura di Reggio Emilia. L’ex politico di Forza Italia era un fiume in piena: evidenziando ripetutamente il rapporto con l’ex togato Palamara e le rivelazioni che lo stesso gli avrebbe fatto, denunciava a gran voce intrighi e commistioni fra politica e magistratura italiana. Incalzato dal giornalista Nicola Porro sul nome misterioso che avrebbe portato alla nomina di Mescolini, Bernini ad un certo punto ha dichiarato serafico: “Palamara mi ha detto che Celestina Tinelli fu l’esponente politico a nome del Partito Democratico che impose lui e non altri. Voi devete chiedervi perchè lui e non altri….Mescolini nel processo Aemilia ha tralasciato un fiume di intercettazioni ambientali e telefoniche che investono esponenti del PD”. Non si è fatta attendere la replica della diretta interessata, Celestina Tinelli, che riportiamo integralmente. “Ieri sera durante la trasmissione televisiva Quarta Repubblica andata in onda su Rete 4, condotta dal giornalista Nicola Porro, trasmissione cui non partecipavo, sono stata inopinatamente citata dal sig. GiovanniPaolo Bernini, che non mi conosce, come l’ “esponente del PD”, che a suo dire, per conto del partito avrebbe “fortemente sostenuto” ed anzi di più “imposto” la nomina del Procuratore Marco Mescolini a Reggio Emilia. Ciò ha affermato, con particolare enfasi, dopo avere riferito di avere più volte invitato il PD a uscire allo scoperto e citando Luca Palamara quale fonte di tale asserzione. E’ noto che il sig. Bernini, politico parmense, conduce da mesi contro il dott. Mescolini una campagna mediatica, che a Reggio Emilia ha trovato un certo ascolto e risalto e che, evidentemente, abbisogna di sempre nuova linfa, di cui non intendo fare parte. Non sono mai stata iscritta al PD né ad altri partiti politici. Non sono componente di Enti del Comune di Reggio Emilia. Non ho nulla da nascondere; non ho mai esercitato una funzione contraria a legge e ordine pubblico e non ho in alcun modo alterato i procedimenti diretti a nominare i superiori rappresentanti della magistratura. Sono sempre stata al mio posto e se richiesta ho formulato delle osservazioni di ordine tecnico. Non mi sono mai fatta portatrice presso il dott. Palamara o altri esponenti del CSM di interessi di alcun partito. Ho lavorato sempre per l’avvocatura e in generale per la giustizia, sfido chiunque a dire che ne ho avuto vantaggi indebiti. Siccome si è proceduto inaudita altera parte, voglio sperare che come tardiva emenda da parte vostra cessi qualsiasi chiachiericcio sul mio conto. Quanto alla figura del dott. Marco Mescolini, nessuna città che fosse consapevole della portata delle attività che hanno condotto al maxiprocesso contro la ndrangheta, sarebbe stata meno che onorata dall’averlo quale Procuratore e attorno a ciò, in un paese normale, non dovrebbe costruirsi alcuno scenario illecito, a meno che non si voglia delegittimarlo e indebolirlo, come tristemente avvenuto ad altri magistrati scomodi. Ciò detto, poiché il danno nei miei confronti è stato perpetrato, anticipo che è mia intenzione promuovere azione civile nei confronti dei responsabili”. Celestina Tinelli
Mescolini e i suoi nemici: l’approfondimento di Tg Reggio. Gabriele Franzini su reggionline.com il 6 febbraio 2021. Il Consiglio superiore della magistratura sta valutando la posizione del procuratore capo di Reggio, oggetto di un procedimento per incompatibilità ambientale. Come e perché si è arrivati a questo punto.
Prima puntata. Il Consiglio superiore della magistratura sta valutando la posizione del procuratore capo di Reggio Marco Mescolini. Sul conto del magistrato c’è un procedimento per presunta incompatibilità ambientale, in cui è confluito anche l’esposto presentato da quattro sostituti procuratori. Questa sera cominciamo un approfondimento di TG Reggio per cercare di capire come e perché si è arrivati a questa situazione. 26 settembre 2018, Tribunale di Reggio: cerimonia di insediamento di Marco Mescolini nell’incarico di procuratore capo. La nomina da parte del Csm, con un voto pressoché plebiscitario, risale al 4 luglio, quasi tre mesi prima. Tutti sembrano contenti: Mescolini, naturalmente, ma anche i vertici del Tribunale, i rappresentanti delle istituzioni, delle forze dell’ordine, gli avvocati e i colleghi del nuovo procuratore capo. Da quel giorno sembra passato tanto tempo. Ma in quell’inizio autunno di due anni e mezzo fa, Mescolini è l’eroe dell’inchiesta Aemilia. 52 anni, originario di Cesena, in magistratura dal ’96, Mescolini è approdato alla Direzione distrettuale antimafia nell’aprile 2010, e subito, sotto l’impulso e il coordinamento del procuratore di Bologna Roberto Alfonso, ha condotto un’inchiesta sul radicamento della criminalità organizzata in Emilia. Un’inchiesta destinata a fare storia e culminata il 15 gennaio 2015 in un’ordinanza del gip di Bologna Alberto Ziroldi nei confronti di 203 persone, 68 delle quali accusate di associazione mafiosa. L’indagine ha svelato l’esistenza di una cosca di ‘ndrangheta con base a Reggio, ne ha individuato i capi e i ‘soldati semplici’, ha alzato il velo sui patrimoni accumulati illegalmente e sulle complicità nel mondo degli affari, delle professioni e delle forze dell’ordine, ha messo in luce i rapporti con alcuni politici. Un mese dopo l’insediamento di Mescolini, il 24 ottobre 2018, la Cassazione mette il sigillo al processo Aemilia celebrato con rito abbreviato a Bologna. E una settimana più tardi i giudici Caruso, Beretti e Rat emettono la sentenza di primo grado del processo che si è tenuto a Reggio con rito ordinario, in cui Mescolini ha rappresentato l’accusa in aula insieme alla collega Beatrice Ronchi. Quaranta persone condannate nel primo caso, 116 nel secondo per oltre 1.200 anni di carcere. E’ il punto più alto della parabola del magistrato romagnolo. Poi le cose impercettibilmente cominciano a cambiare.
Mescolini e i suoi nemici: le inchieste e i rapporti con i sostituti in Procura. Gabriele Franzini su reggionline.com il 7 febbraio 2021. Dopo la nomina a procuratore capo e le sentenze sui diversi tronconi del processo Aemilia, nell’ottobre del 2018, il magistrato è sugli scudi. Ma lo scenario inizia a cambiare.
Seconda puntata. Il primo anno di Marco Mescolini alla guida della Procura di Reggio è intenso. Il 5 novembre 2018 Francesco Amato, condannato nel processo Aemilia ma resosi latitante, tiene in ostaggio per un’intera giornata i dipendenti dell’ufficio postale di Pieve Modolena. Il 9 febbraio 2019 i tre figli di Amato vengono fermati con l’accusa di essere gli autori degli spari contro diversi ristoranti a fine di estorsione. Sempre in febbraio diventa di dominio pubblico un’inchiesta sull’assegnazione di incarichi da parte del Comune di Reggio che coinvolge alcuni dirigenti ed ex dirigenti dell’amministrazione locale. Il 13 giugno circa 70 agenti della Guardia di finanza perquisiscono il municipio alla ricerca di documenti su alcuni appalti, di cui si sospetta l’irregolarità: 15 gli avvisi di garanzia, che raggiungono tra gli altri il vicensindaco Matteo Sassi a l’assessore Mirko Tutino. Due settimane dopo, il 27 giugno, esplode la bomba delle indagini sugli affidi in Val d’Enza: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti finisce ai domiciliari. Un’attività frenetica, insomma. E’ proprio in questi frangenti, però, che in Procura si verificano attriti sempre più frequenti tra il procuratore capo e alcuni sostituti. Il clima cambia, i rapporti cominciano a logorarsi, le divergenze si acuiscono. Scelte, tempistiche, considerazioni di opportunità, dichiarazioni pubbliche sul significato delle indagini dividono alcuni magistrati da Mescolini. Su questo scenario si innesta un elemento imprevisto: la pubblicazione, a fine maggio 2020, sul Resto del Carlino, degli scambi di messaggi via WhatsApp tra Mescolini e Luca Palamara. Messaggi che risalgono a due anni prima, nei quali Mescolini, all’epoca in corsa per la guida della Procura di Reggio, chiede lumi Palamara, consigliere del Csm, sugli ostacoli che incontra la sua nomina e gli chiede di darsi da fare per rimuoverli. Le chat con Palamara offrono lo spunto, nell’agosto 2020, per una serie di articoli pubblicati da Il Riformista. Il quotidiano ripesca un’informativa dei Carabinieri del 2010 e la tristemente famosa velina dei Servizi segreti del 2012. Si tratta di documenti di cui hanno già ampiamente riferito i mezzi d’informazione reggiani più di quattro anni prima, all’inizio del 2016, contenenti accuse prive di riscontri a Luca Vecchi, alla moglie, la dirigente comunale Maria Sergio, e all’ex assessore Ugo Ferrari. Queste carte, infarcite di falsi grossolani, diventano lo strumento per minare la credibilità di Mescolini. L’artefice della più importante inchiesta sulla ‘ndrangheta al Nord viene accusato per paradosso di avere insabbiato le indagini sulle cosche. Perché l’avrebbe fatto? E’ quello che vedremo in un prossimo servizio.
Mescolini e i suoi nemici: l’estate calda del 2020 e l’attacco del centrodestra. Gabriele Franzini su reggionline.com il 9 febbraio 2021. L’affondo di Maurizio Gasparri e di altri 12 senatori di Forza Italia, prima ancora quello del piacentino Tommaso Foti (deputato di Fratelli d’Italia), ma l’offensiva più insidiosa non arriverà da ambienti politici.
Terza puntata. Nella seconda puntata del nostro approfondimento sulle vicende interne alla Procura siamo arrivati all’estate del 2020, quando il centrodestra sferra il proprio attacco al procuratore capo. Il 20 agosto 2020 13 senatori di Forza Italia, guidati da Maurizio Gasparri, annunciano un’interrogazione su Mescolini al Ministro della Giustizia. Già più di un anno prima, il 18 giugno 2019, Tommaso Foti, deputato piacentino di Fratelli d’Italia, aveva presentato un’interrogazione per chiedere l’invio di ispettori alla Procura di Reggio. Stavolta però Forza Italia chiede senza giri di parole l’avvio di un’azione disciplinare nei confronti di Mescolini, “il cui operato – scrivono i firmatari dell’interrogazione – sta recando danno evidente alla reputazione della magistratura”. Se si pensa che l’indagine sulla ‘ndrangheta in Emilia condotta da Mescolini viene portata ad esempio in tutta Italia, l’attacco appare paradossale. Ma di cosa viene accusato Mescolini? In sostanza, di avere indagato esponenti del centrodestra come Giuseppe Pagliani e Giovanni Paolo Bernini, ma di aver evitato di fare altrettanto con esponenti del Pd. In altre parole, il magistrato agirebbe in base a pregiudiziali politiche. Gran parte delle argomentazioni contro l’artefice dell’inchiesta Aemilia arriva da un libro di Giovanni Paolo Bernini. Esponente di Forza Italia, ex presidente del Consiglio comunale di Parma, Bernini si considera una vittima di Mescolini. Nell’inchiesta Aemilia Bernini fu accusato inizialmente di concorso esterno in associazione mafiosa. In seguito il reato fu derubricato in corruzione elettorale. Nel 2016 il gup del Tribunale di Bologna Francesca Zavaglia giudicò provato un versamento di denaro da parte di Bernini allo ‘ndranghetista Romolo Villirillo in cambio del suo sostegno nella campagna elettorale del 2007. Ma il reato fu dichiarato estinto per prescrizione. Nel maggio 2019, alla vigilia delle Europee, la Commissione parlamentare antimafia, sulla base della segnalazione della Procura di Parma, indicò Bernini tra i “candidati impresentabili”, in seguito alla condanna per corruzione emessa nel marzo dello stesso anno dalla Corte d’appello di Bologna per una mazzetta incassata su un appalto comunale. Ma mentre Mescolini è nel mirino del centrodestra, contro il magistrato prende forma un’operazione ben più insidiosa. Un’operazione che non nasce in ambito politico, ma nei corridoi della Procura.
Mescolini e i suoi nemici: i contenuti dell’esposto al Csm e la politica. Gabriele Franzini su reggionline.com il 10 febbraio 2021. Al centro soprattutto la gestione dell’inchiesta sugli appalti in Comune e il numero di indagati, la scelta di fare la perquisizione dopo il ballottaggio per l’elezione del sindaco e non dopo.
Quarta puntata. Cosa c’è scritto nell’esposto contro il procuratore Mescolini presentato al Csm da quattro sostituti? Questa domanda è al centro della quarta puntata del nostro approfondimento sulla situazione interna alla Procura. Il 14 agosto 2020 Luciano Varotti, ex giudice della sezione fallimentare di Reggio, passato al Tribunale di Bologna, pubblica su internet un intervento nel quale sostiene che i magistrati che si scambiavano messagi con Palamara minano la credibilità della magistratura. Mescolini non viene nominato, ma il riferimento è evidente. Varotti non si limita alle valutazioni generali, ma passa in rassegna gli strumenti tecnici per rimuovere il procuratore capo, a partire dalla norme sul trasferimento d’ufficio per incompatibilità. Ed è proprio questo che accade: in procura a Reggio prende forma un esposto al Csm contro Mescolini. Lo firmano quattro sostituti: Isabella Chiesi, Valentina Salvi, Giulia Stignani e Maria Rita Pantani, compagna nella vita del giudice Varotti. I contenuti dell’esposto sono segreti. Chi ha potuto leggerlo, racconta che lo scambio di messaggi con Palamara vi ha un ruolo marginale. Le quattro firmatarie rileggerebbero alcuni atti di Mescolini in chiave politica. Al procuratore capo verrebbe contestata ad esempio l’assenza a una riunione di lavoro per partecipare a un’iniziativa pubblica con Stefano Bonaccini, un paio di settimane prima delle elezioni regionali del 2020. Quel giorno, il 7 gennaio, Mescolini si trovava effettivamente nello stesso posto di Bonaccini, al Teatro Valli, ma per partecipare alle celebrazioni del Tricolore, ospite d’onore il presidente del Parlamento Europeo. Il cuore dell’esposto sembra essere però la gestione dell’inchiesta sugli appalti del Comune di Reggio. Le autrici muoverebbero rilievi sui reati contestati e sul numero delle persone indagate, che a loro giudizio avrebbe dovuto essere maggiore, coinvolgendo altri esponenti della Giunta oltre al vicesindaco Sassi e all’assessore Tutino. Anche la perquisizione in Comune per acquisire documenti, per le firmatarie dell’esposto, avrebbe dovuto essere fatta prima del ballottaggio del 9 giugno 2019. Vinse la linea del procuratore capo: gli indagati furono 15 e la perquisizione si svolse quattro giorni dopo il ballottaggio. Ma Chiesi, Pantani, Salvi e Stignani, nell’esposto, avanzerebbero il dubbio che le scelte di Mescolini possano essere state condizionate da considerazioni politiche. Se queste sono le tesi alla base della richiesta di trasferimento, è possibile valutare il fondamento delle accuse? E’ quello che proveremo a fare nella prossima puntata.
Mescolini e i suoi nemici: procura divisa sull’inchiesta appalti in Comune. Gabriele Franzini su reggionline.com l'11 febbraio 2021. La vicenda che ha fatto da detonatore ai contrasti fra il procuratore capo Mescolini e quattro sostituti è stata la gestione dell’indagine e la scelta di eseguire la perquisizione dopo il ballottaggio elettorale.
Quinta puntata. Nell’autunno del 2018, non appena insediatosi come procuratore capo, Marco Mescolini chiese ai colleghi quali fossero le indagini più importanti su cui stavano lavorando. Tra le altre, gliene fu indicata una su alcuni bandi del Comune di Reggio, che secondo la Guardia di Finanza erano congegnati su misura per il vincitore predestinato. L’inchiesta era iniziata nel 2016, ma due anni dopo era di fatto ferma. Il nuovo procuratore chiese di riprenderla in mano e, per rafforzare il pool investigativo, chiamò come consulente tecnico l’ingegner Domenico Romaniello, che già aveva lavorato con lui nell’inchiesta Aemilia. La Procura aveva fatto uso di intercettazioni telefoniche e ambientali, ma dal punto di vista delle procedure amministrative la Guardia di Finanza aveva semplicemente scaricato i documenti dal sito internet del Comune. Il consulente chiamato da Mescolini fece presente la necessità di acquisire gli originali, insieme ad appunti, bozze e così via. Proprio sulla perquisizione in Municipio si consumò una frattura all’interno della Procura. Le due pm titolari delle indagini, Valentina Salvi e Giulia Stignani, che un anno dopo saranno tra le firmatarie dell’esposto al Csm contro Mescolini, volevano agire subito. Ma si era nel giugno 2019, alla vigilia del ballottaggio per il Comune, e il procuratore capo ritenne che non vi fosse l’elemento dell’urgenza: perché mandare 70 finanzieri in Comune pochi giorni prima del voto per un’indagine vecchia di tre anni? La perquisizione si svolse dunque il 13 giugno 2019, quattro giorni dopo il ballottaggio. In Procura c’erano idee diverse anche su altri aspetti dell’inchiesta. Le pm Salvi e Stignani pensavano che si dovessero contestare ulteriori ipotesi di reato, indagando un maggior numero di persone, magari prosciogliendone alcune in una fase successiva. Mescolini fu di avviso diverso. In prima battuta gli indagati furono 15. Nel luglio 2020, con l’avviso di conclusione delle indagini, il numero delle persone coinvolte salì a 26, dei quali 7 tra dirigenti e funzionari del Comune. Nel tempo si è però attenuata la portata dell’inchiesta. Inizialmente il vicesindaco Sassi, l’assessore Tutino e il presidente della Asp Leoni erano stati accusati di turbativa d’asta. La posizione del primo è stata archiviata, per Tutino resta solo la presunta rivelazione di segreto d’ufficio, per Leoni il falso ideologico.
Mescolini e i suoi nemici: la politica e la ‘ndrangheta. Gabriele Franzini su reggionline.com il 12 febbraio 2021. Nuova puntata dell’approfondimento di Tg Reggio sugli attacchi al procuratore capo di Reggio Emilia. La genesi delle inchieste della Dda su Pagliani e Bernini e il giudizio dei tribunali.
Sesta puntata. Il centrodestra accusa il procuratore capo Mescolini di aver messo sotto inchiesta senza motivo Giuseppe Pagliani e Giovanni Paolo Bernini, ma di non aver sviluppato gli indizi e gli spunti investigativi che, nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta, chiamavano in causa esponenti del centrosinistra. Ci sono elementi per ritenere fondata questa tesi? Quanto al primo aspetto – cioè il coinvolgimento di Pagliani e Bernini, visto come una persecuzione giudiziaria – l’affermazione non tiene conto di un fatto essenziale. La Dda non indagava su Pagliani: la Dda “inciampò” in Pagliani intercettando Alfonso Paolini, poi condannato per associazione mafiosa. Pagliani aveva contatti telefonici con Paolini, incontrava i fratelli Sarcone e Pasquale Brescia ed è per questo che finì nell’indagine. Allo stesso modo Bernini, ex assessore ed ex presidente del Consiglio comunale di Parma, finì nell’inchiesta non perché la Dda di Bologna lo intercettava. La Dda di Bologna ricevette da quella di Catanzaro intercettazioni dello ‘ndranghetista Romolo Villirillo nelle quali quest’ultimo diceva che Bernini gli aveva promesso soldi in cambio di appoggio elettorale. Il centrodestra però argomenta anche che Mescolini avrebbe trascurato gli atti dell’inchiesta che porterebbero al Pd. Mescolini non indagava da solo, ma faceva parte di un pool di quattro magistrati coordinato dal procuratore generale di Bologna, Roberto Alfonso. Il lavoro di questo pool, solo per limitarsi al troncone principale del processo Aemilia, ha superato ormai l’esame di quattro processi e della Cassazione. Cinque corti, decine di giudici. Alcune sentenze indicano ulteriori spunti di indagine, altre – come quella emessa dei giudici Caruso, Beretti e Rat – stigmatizzano la “passività e inconsapevolezza” di alcuni politici e amministratori. Ma nessuna di queste sentenze dice che l’accusa ha indagato in una sola direzione o che ha trascurato notizie di reato. C’è di più: già nel 2016, Bernini presentò esposti dello stesso tenore al Csm e al procuratore generale della Cassazione: né l’uno né l’altro hanno ritenuto che vi fossero elementi per trasmettere l’esposto alle Procure competenti per nuove indagini.
Tinelli: "Azioni legali contro chi mi accusa". L’ex presidente dell’Ordine degli Avvocati: "Non mi sono mai fatta portatrice verso Palamara di interessi di alcun partito". Pubblicato il 17 febbraio 2021 da Alessandra Codeluppi su ilrestodelcarlino.it. "Poiché il danno nei miei confronti è stato perpetrato, anticipo che è mia intenzione promuovere azione civile nei confronti dei responsabili". Celestina Tinelli, ex presidente dell’Ordine degli Avvocati di Reggio, reagisce duramente alle accuse lanciate da Giovanni Paolo Bernini di Forza Italia: "Non mi sono mai fatta portatrice verso Palamara o altri esponenti del Csm di interessi di alcun partito", ribadisce la Tinelli. Lo scontro nasce dall’attacco lanciato da Bernini durante una puntata di "Quarta Repubblica" su Retequattro. "Questo nome, Celestina Tinelli, è certificato da Luca Palamara - ha detto Bernini -. Lui mi disse che Tinelli, a nome del Pd, impose Mescolini e non altri come procuratore capo di Reggio. Come mai? Perché Mescolini in "Aemilia" tralasciò un fiume di intercettazioni ambientali e telefoniche che investono esponenti Pd, prendendo invece due di Forza Italia". Bernini, ex assessore di Parma di Forza Italia, prosciolto in ‘Aemilia’, lancia gravi accuse anche contro Mescolini, sul quale la Prima commissione del Csm ha dichiarato l’incompatibilità ambientale, parere che sarà sottoposto al vaglio del plenum. Nella trasmissione tv tra gli ospiti c’era Alessandro Sallusti, autore del libro ‘Il sistema’, lunga intervista all’ex togato romano, al centro dello scandalo delle nomine pilotate dei magistrati. Nel volume di Sallusti, Palamara dice: "La nomina di Mescolini fu fortemente sostenuta dal Pd locale". Su questo punto, Sallusti ha svelato in tv un retroscena: "Nella prima stesura del libro Reggio non era neanche entrata. Poi Palamara ha insistito perché mettessi il caso Parma legato a Reggio, dicendo che era un caso politico enorme, il più emblematico delle interferenze del Pd sul Csm per avere un procuratore piuttosto di un altro". Tinelli preannuncia battaglia legale: "È noto che Bernini conduce da mesi contro Mescolini una campagna mediatica che a Reggio ha trovato un certo ascolto e risalto che, evidentemente, abbisogna di sempre nuova linfa e di cui non intendo fare parte". Sull’appartenza politica, scrive: "Non sono mai stata iscritta al Pd nè ad altri partiti. Non sono componente di enti del Comune di Reggio". E ancora: "Non ho nulla da nascondere e non ho alterato i procedimenti diretti a nominare i superiori membri della magistratura". Respinge le illazioni: "Ho sempre lavorato per l’avvocatura e in generale per la giustizia: sfido chiunque a dire che ho avuto vantaggi indebiti". E difende Mescolini: "Nessuna città che fosse consapevole della portata delle attività che hanno portato al maxiprocesso contro la ‘ndrangheta, sarebbe stata meno che onorata dall’averlo quale procuratore. Attorno a ciò, in un Paese normale non dovrebbe costruirsi alcuno scenario illecito, a meno che non si voglia delegittimarlo e indebolirlo, come tristemente avvenuto ad altri magistrati scomodi".
Guido Berardis: “sconcertato dal sistema e dalla presunzione di colpevolezza alla Piercamillo Davigo”. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Quarta Repubblica di lunedì 15 gennaio ha gettato un ulteriore sasso nello stagno limaccioso del “sistema”. Quello della governance della magistratura italiana descritta da Luca Palamara. Nell’omonimo libro intervista-confessione a firma di Alessandro Sallusti. Facile prevedere riflessi sul CSM dopo le rivelazioni dell’esponente parmigiano di FI Giovanni Paolo Bernini. Che Palamara ha confessato essere stato perseguitato dalla magistratura. Il direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti, ospite della trasmissione di Nicola Porro, confortato dalle testimonianze del magistrato Carlo Nordio e di Alessandro Sallusti, ha ripetuto il suo appello. Il “sistema” è molto più grave della P2. E c’è l’assoluta e urgente necessità della costituzione di una Commissione Parlamentare d’inchiesta. Con gli stessi poteri coercitivi e d’indagine dell’Autorità giudiziaria. Compreso l’utilizzo della polizia giudiziaria. Che dovrà fare luce sui fatti denunciati oltre dieci anni fa anche da Francesco Cossiga (che definì l’ANM un’ “associazione eversiva di tipo mafioso”) e pubblicamente confessati oggi da Palamara. Ho voluto parlare del “sistema” dal punto di vista dello stato di diritto, che è uno dei pilastri dell’Unione Europea. E l’ho fatto con l’ex Presidente di Sezione e Giudice emerito del Tribunale dell’Unione Europea, Guido Berardis. Uno dei maggiori esperti italiani di diritto dell’Unione Europea. Già Direttore alla Direzione Generale del Mercato Interno presso la Commissione Europea, ma anche membro del gabinetto dell’allora commissario europeo alla Concorrenza Mario Monti. Berardis, oggi in pensione, nel suo percorso professionale conta anche un’esperienza quale ufficiale di complemento della Guardia di Finanza. Dopo quanto emerso dal libro di Alessandro Sallusti sulla confessione-intervista di Palamara, come si può rispondere alla domanda “Quis custodiet ipsos custodes?” Questa citazione, tratta dalle Satire di Giovenale, pur nata in un contesto ben diverso e anche giocoso, racchiude tutta la questione dell’ormai indispensabile riforma della magistratura, nel nostro paese come in altri. Se i giudici fossero Arcangeli, il problema non si porrebbe nemmeno, il Signore, nella sua onniscienza e onnipotenza, saprebbe bene cosa fare. Ma così non è. Come diceva un celebre giudice della Corte Suprema americana, «Non si è giudici perché si è infallibili. Si è infallibili, perché si è nominati giudici». Osservazione molto sottile, che conduce ad interrogarsi su uno dei miti delle democrazie moderne, quello della fede infinita nella magistratura, unico potere sacro e intoccabile. Al punto che, se anche Dio intervenisse, Gli verrebbe detto di farsi i fatti suoi. Quindi non si può più avere fede nella giustizia? Si deve certo avere fede nella Giustizia, concetto irrinunciabile in ogni società. Non se ne deve avere per forza in chi la amministra. Già in epoca romana, esisteva l’istituto della provocatio, che dava diritto a qualsiasi civis romanus di provocare ad populum il magistrato che volesse infliggergli una sanzione. Un tribunus interveniva per portare la questione davanti ad una assemblea legislativa o al collegio dei tribuni. È vero che il magistratus romano disponeva di una più ampia gamma di poteri, anche politici. Più tardi, l’introduzione dell’Habeas Corpus rispondeva a questo medesimo tipo di preoccupazione, per controbilanciare il potere anche politico di chi poteva decidere di imprigionare qualcun altro. Ulteriore passaggio, la codificazione illuministica della triade «Potere legislativo», «Potere esecutivo» e «Potere giudiziario» e della loro indipendenza reciproca, nella Francia pre-rivoluzione. Triade che, in Italia, sembra essere completamente saltata da almeno tre decenni. Purtroppo. Anche se tengo a precisare che ho l’intima convinzione che, nel nostro paese, la stragrande maggioranza dei magistrati facciano il loro lavoro secondo scienza e coscienza, spesso in condizioni deprecabili e non raramente a rischio della vita. Non possiamo però negare l’esistenza di derive che sembrano incontrollabili. Il concetto di indipendenza e di autonomia è progressivamente scivolato verso l’idea della magistratura come entità assiomaticamente superiore, sostituibile a qualunque altro potere. Una sorta di nuova religione, di casta non eletta e autoreferenziale, totalmente immune, insindacabile e sovrana. Ora, anche ad un osservatore distratto, l’esperienza italiana degli ultimi decenni mostra chiaramente tutte le derive di una magistratura vittima di un vero e proprio delirio di onnipotenza. Un delirio di onnipotenza che possiamo quantificare in 60 milioni di presunti colpevoli? Le statistiche parlano di più di 27.000 errori giudiziari dal 1990 in poi, senza che nessun magistrato sia stato chiamato a risponderne. Sono sotto gli occhi di tutti le numerose e continue entrate a gamba tesa della magistratura nella vita politica italiana. Si badi bene, che la magistratura tenga d’occhio comportamenti dei politici è, di per sé, cosa buona e giusta. Ma sono davvero troppi i casi in cui l’accusato, per di più dopo lunghi anni di processi, è stato alla fine assolto per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato. Che si sappia, nemmeno un richiamo all’ordine per i PM responsabili, malgrado gli ingenti e spesso irreparabili danni provocati agli ingiustamente accusati. Lei è stato un giudice del Tribunale dell’Ue, noto per il suo grande equilibrio. Cosa pensa della deriva giustizialista del “sistema” confessato da Palamara? Che rimango scandalizzato quando un giudice come Pier Camillo Davigo si permette di dire in televisione che «non esistono innocenti, ma soltanto colpevoli su cui non sono state ancora raccolte prove. Tutti quelli che in questo paese dicono di essere garantisti, pensano soltanto a garantire i diritti dei delinquenti», e nessuno, dico nessuno, ha avuto nulla da ridire, pur essendosi toccato il fondo, e anche oltre… Il problema essenziale della giustizia in Italia è la totale assenza di veri contrappesi al potere dei magistrati.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Da leggo.it il 14 dicembre 2021. Era il 15 dicembre 2001 quando, dopo 12 anni di lavoro, fu scongiurato il pericolo del crollo della torre di Pisa. Con il grido liberatorio: «La Torre è salva», si annunciava la riapertura al pubblico. Dopo 20 anni, la Torre di Pisa, con 295 scalini per 53 metri di altezza, non rischierà di crollare per almeno trecento anni e forse molti di più. Per onorarla, giovedì sarà ricordata la sua rinascita dall’Opera Primaziale, l’istituzione che da secoli sorveglia e tutela i capolavori di Piazza dei Miracoli e dal Comune di Pisa. E saranno anche diffusi i nuovi dati della salute della Torre, che si è raddrizzata di quasi mezzo metro. Al Corriere della sera, il direttore tecnico dell’Opera della Primaziale, l’ingegner Roberto Cela, spiega: «È ancora tenuta sotto stretta osservazione da un gruppo di sorveglianza diretto dal professor Salvatore Settis, già direttore della Normale, che si riunisce 4 o 5 volte l’anno per valutare i dati del monitoraggio. Gli ultimi sono ottimi: il campanile sta ancora recuperando in modo lieve la pendenza». Adesso l’Opera Primaziale sta definendo con il ministero dei Beni Culturali e la direzione generale del Patrimonio un accordo per monitorare il monumento via satellite, che sarà complementare con il sistema tradizionale che utilizza i molti sensori di diversa natura dislocati sul monumento ma anche sul prato di Piazza dei Miracoli. «A breve sul campanile saranno anche di nuovo installati i ponteggi, progettati e realizzati appositamente per il restauro del monumento, per iniziare un piano di manutenzione sui marmi e i capitelli della Torre», annuncia l’ingegner Cela. In quel noto 15 dicembre del 2001, alla riapertura della Torre, c'erano cento giornalisti da tutto il mondo e non si stancarono di salire e scendere a caccia dell’angolo più nascosto, del particolare che facesse notizia. La prima a varcare l’antico portone fu una turista spagnola, Maria Carmen Navarro, che allora aveva poco più di vent’anni, faceva l’infermiera a Barcellona. Quando arrivò in cima al campanile fu assalita dalle vertigini: «Mi gira la testa — dichiarò sorridendo – ma non so se per l’altezza o per l’emozione».
Piazza dei Miracoli a Pisa: leggende e curiosità dalle origini ai giorni nostri. Teresa Barone il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. La celebre Piazza dei Miracoli a Pisa nasconde misteri e leggende ancora molto sentite: ecco le più note, dal fantasma di Galilei alle impronte del diavolo. Capolavoro del romanico pisano, Piazza dei Miracoli a Pisa è uno dei monumenti più famosi al mondo e deve la sua fama soprattutto alla torre pendente, il campanile della cattedrale alto 57 metri e caratterizzato da una evidente inclinazione che si può chiaramente percepire anche percorrendo la lunga scalinata interna. Le leggende e gli aneddoti legati al complesso monumentale non mancano, sebbene non si celi alcun mistero dietro questo celebre campanile, la cui pendenza è dovuta semplicemente al cedimento del terreno sottostante. Disseminati in vari angoli della piazza, in realtà, si possono individuare alcuni dettagli particolarmente misteriosi che hanno animato diverse credenze popolari, molto in voga ancora oggi.
Le impronte del diavolo
Pare che il diavolo abbia lasciato le sue impronte sul marmo della Cattedrale di Santa Maria Assunta, che si staglia al centro di Piazza dei Miracoli. Sul lato Nord, situato di fronte al cimitero monumentale, è possibile notare una fila di piccoli fori disposti in verticale abbastanza evidenti: si dice che il diavolo abbia voluto lasciare i segni dei suoi artigli sulla struttura di cui voleva impedire la costruzione, prima di essere cacciato via dalla forza divina.
Quanti sono i buchi lasciati dalle unghiate del diavolo? Anche il numero di questi segni è avvolto dal mistero, infatti sembra proprio che sia impossibile contarli con precisione: ripercorrendoli più volte, infatti, non si ottiene mai la stessa cifra.
La lucertola di bronzo e il rito dei maturandi
Si dice che toccare la lucertola a due code scolpita nel bronzo che arricchisce la porta centrale della Cattedrale di Pisa, davanti al Battistero, rappresenti un portafortuna efficace per gli studenti che si apprestano a sostenere l’esame di maturità.
Una tradizione molto antica e legata proprio alla particolarità di questo piccolo animaletto scolpito, in possesso di due code e simbolo di abbondanza e fortuna. È un rito molto radicato da compiere esattamente “cento giorni” prima dell’esame di Stato, tuttavia attualmente è vietato avvicinarsi e toccare la porta bronzea per ragioni di tutela e conservazione. Ai maturandi non resta che optare per riti scaramantici alternativi, come fare il giro del Battistero o della Cattedrale saltellando su una gamba sola.
Il fantasma di Galileo Galilei
Nel lontano 1583 un giovane Galileo Galilei riuscì a elaborare la sua teoria sull’oscillazione del pendolo proprio all’interno del Duomo di Pisa, mentre osservava una grande lampada sospesa. Dalla cima della torre, invece, lo scienziato pisano portò avanti alcuni esperimenti relativi alla caduta di oggetti con pesi differenti.
Il legame con Piazza dei Miracoli è quindi innegabile, tanto da alimentare un mistero di cui si parla ancora oggi: il suo fantasma si aggirerebbe tra la Cattedrale e il Campanile, richiamando anche l’attenzione dei turisti.
La storia del nome
Un’ultima curiosità sulla spettacolare piazza riguarda l’origine del nome: a chiamare il complesso monumentale Prato dei Miracoli (successivamente diventato Piazza dei Miracoli) è stato Gabriele D’Annunzio nel suo romanzo del 1910 (“Forse che sì forse che no”): a colpire il poeta è stata la bellezza e l’originalità dell’insieme monumentale, tanto da definirlo miracoloso. Teresa Barone
Pietro Mecarozzi per “Domani” il 3 dicembre 2021. Una corazzata di oligarchi russi sta conquistando la Maremma toscana. Si tratta di famiglie vicine al presidente Vladimir Putin, imprenditori tra i più ricchi della Russia, potenti faccendieri e uomini di stato. Tutti collegati a doppio filo con il governo di Mosca, tutti con processi o crimini di caratura internazionale alle spalle. Come ad esempio la famiglia Rotenberg. Arcady e il fratello Boris Rotenberg sono gli oligarchi russi considerati più vicini a Putin, sono suoi amici personali. In particolare Arcady, ex compagno di judo del presidente russo. Con la caduta dell'Unione Sovietica e poi l'ascesa al potere di Putin, i due fratelli Rotenberg diventano miliardari grazie a società appaltatrici dei colossi petroliferi o direttamente gestendo le controllate statali.
LA FAMIGLIA ROTENBERG
Arcady e Boris Rotenberg vengono sanzionati dagli Stati Uniti nel 2014, a seguito dell'annessione della Crimea dopo la guerra civile in Ucraina, per aver foraggiato le truppe russe. A quel punto, per sfuggire alle sanzioni, tutta una serie di società offshore dei due fratelli passano a Igor Rotenberg (figlio di Arcady), che nel 2018 finisce anche lui nella lista nera Usa. Queste società offshore sono il bancomat con cui Igor Rotenberg ha fatto shopping sulle coste maremmane. Attraverso una piramide di aziende, che parte dalla Immobiliare case dell’Olmo srl e Case dell’Olmo società agricola srl e arriva alla Costa Ligure Anstalt e alla Highland Ventures Group, Igor è proprietario di un mega-rustico con eliporto, laghetto abusivo (secondo le planimetrie comunali) e 220 ettari di oliveto all’Argentario, del valore dichiarato di 18 milioni. E una seconda villa sulla spiaggia, nella pineta di Roccamare, a Castiglione della Pescaia. Non finisce qui. Secondo le testimonianze delle vittime e le carte del processo tutt’ora in corso a Grosseto, Igor si è spinto oltre, portando a fallire una società di domotica toscana: la Eggzero di Nicola Tinucci. Otto anni fa Eggzero firma un grosso contratto per le sue ville in Maremma. Le ristrutturazioni sono costosissime, la ditta anticipa le spese fidandosi di quel ricchissimo cliente. Ma all'improvviso da Mosca non arriva più un soldo. Igor chiude tutti i collegamenti con la Eggzero, mettendo in campo ogni sorta di ostacolo, ma soprattutto saccheggiando progetti, idee e quanto era stato costruito all’interno delle due ville da Tinucci, e incaricando successivamente un’altra società italiana di finire i lavori. Una bizza da oligarca, sfociata però in furto di proprietà intellettuale. A oggi gli unici imputati nel procedimento sono i dirigenti della società subentrata alla Eggzero, ma in uno scambio di e-mail le due più fidate collaboratrici di Rotenberg riferiscono che sarebbe lo stesso oligarca a decidere le sorti della società di domotica. Poco distante dalla villa all’Argentario di Rotenberg, c’è la la proprietà di German Khan, comproprietario dell'Alfa-Bank russa e gestore di diverse attività in Europa attraverso la holding LetterOne. Khan è stato citato come finanziatore alla stregua del Cremlino nel dossier che ha denunciato il fiume di soldi provenienti dalla Russia a favore di Trump durante le elezioni del 2016. La precedente amministrazione del Comune di Monte Argentario per la ristrutturazione della super villa si è messo in tasca solo di oneri di urbanizzazione circa 600mila euro giratigli da una società di Khan con sede nelle Isole Vergini, la Towntowers properties, e da un’altra società sempre intestata al magnate russo altri 50 mila euro per la realizzazione delle panchine sul lungomare di Porto Santo Stefano. Anche a Fonteblanda, paesino a due passi dal più noto Talamone, un altro oligarca ha trovato casa. Il nome è protetto da un sistema di scatole cinesi, ma secondo le visure camerali, l’acquisto della storica villa è stato fatta dal Weitried gmbh, un fondo austriaco collegato con la società Burgau Estate. La Burgau fino a pochi anni fa era diretta da Reinhard Proksch un faccendiere austriaco molto controverso che, come dimostra un documento inedito, nel 2013 fu coinvolto nelle indagini delle autorità dei mercati finanziari per dei passaggi sospetti di fondi russi alle sussidiarie ucraine. L’acquirente in questo caso ha adottato una strategia differente, nascondendosi tra i cavilli amministrativi italiani, come spiega una dipendente dello studio commercialista di Grosseto che ha seguito l’affare: «Il fondo ha incaricato lo studio per creare una società italiana ad hoc con un prestanome per l’oligarca russo», spiega la donna.
IL DIRIGENTE E L’EX MINISTRO
I magnati russi con i loro rubli dalle origini incerte proliferano anche a Porto Ercole, dove in tempo record sono state erette sei ville da un’immobiliare intestata a uno dei pezzi grossi della Gazprom, Mityushov Aleksei, e una super villa a picco sul mare da Alexander Tynkovan, re dell’elettronica di consumo in Russia. C’è poi Konstantin Nikolaev, che possiede La madonnina società agricola srl e i vigneti di bolgheri attraverso la Cetrezza trading ltd, con sede in Cipro, paradiso fiscale. Il nome di Nikolaev è comparso nel Russia Gate accanto a quello di Maria Butina, la spia russa arrestata nel 2018 con l’accusa di aver tentato di creare dei canali di comunicazione secondari tra il Cremlino e Donald Trump. Dal 2011 al 2020 invece la Villa Il Tesoro di Valpiana nella campagne di Massa Marittima avrebbe dovuto esserci uno splendido agriturismo. Ma secondo le indagini della Guardia di finanza di Grosseto, l’attività ricettiva non veniva svolta, essendo la Villa l’abitazione privata del magnate russo Mikhail Abyzov, ex ministro di Putin oggi in carcere.
L’AEROPORTO
Come arrivano in Maremma questi soggetti? C’è l’aeroporto di Grosseto. Roman Trotsenko, il signore degli aeroporti russi (ne possiede 14), è l’azionista numero uno di Seam, la società che gestisce lo scalo. L’oligarca russo si è stabilito in Maremma, in una super villa a Cala Civette, vicino Castiglione della Pescaia, risulta coinvolto nei Panama Papers e nel 2018 compare nel cosiddetto “rapporto del Cremlino”, ossia la Putin List con i più temibili oligarchi russi. Curiosamente l’aeroporto grossetano, scalo militare prima del suo arrivo, nonostante il bassissimo cabotaggio ha vantato una linea diretta per ben 5 anni con Mosca.
Firenze capitale, un disastro dimenticato. Luca Bocci il 18 Novembre 2021 su L'Arno-Il Giornale. L’accusa che viene spesso rivolta a noi toscani è quella di essere fin troppo innamorati della nostra storia, tanto da renderci degli inguaribili conservatori, pronti a salire sulle barricate per difendere anche il più insignificante cimelio del passato. La risposta tipica del toscano medio gronda superbia e malcelato disprezzo: “Se la vostra regione non facesse pena, lo fareste anche voi” – e via di sberleffi e prese per i fondelli. Per come la vediamo noi non è una questione di campanilismo. La nostra storia, anche quella minore del più piccolo dei paesini sperduti tra le colline, merita di essere difesa sì perché è straordinaria, ma soprattutto perché è nostra, è quello che ci rende quello che siamo. Sì, forse saremo un attimo innamorati del nostro passato perché il presente non ci entusiasma, perché ricordare quando eravamo il centro dell’universo culturale ed economico stuzzica il nostro orgoglio, ma non ci vediamo niente di male. Eppure questa difesa ad oltranza della toscanità sembra fermarsi di fronte ad un evento particolare, peraltro uno dei più significativi che abbia mai coinvolto la nostra regione. Si litiga ancora oggi per la battaglia di Montaperti o per la repressione della Seconda Repubblica Pisana, cittadine vicine si rinfacciano torti vecchi di sette secoli ma ben pochi parlano di quando Firenze divenne la capitale del neonato Regno d’Italia. Ma come? I fiorentini che perdono un’occasione per vantarsi della propria superiorità? Qualcosa non torna. Sebbene tutti l’abbiamo studiato a scuola, i pochi anni che videro la città del Giglio assurgere al ruolo di capitale d’Italia sono sempre trattati come una nota a margine, una bizzarria della storia, una breve parentesi tra l’Unificazione e la breccia di Porta Pia. Niente di più sbagliato. Gli anni di Firenze capitale ebbero enormi ripercussioni sulla città e sull’intera regione, cambiando per sempre il volto della culla del Rinascimento e lo stesso carattere dei fiorentini. Ecco perché, questa settimana, abbiamo deciso di raccontarvi la storia di Firenze capitale, un disastro che molti preferiscono dimenticare. Qualcuno di voi ricorderà dalle lezioni di storia come la cosiddetta “questione romana” fosse la principale patata bollente che i dirigenti dell’Italia unita avevano sul tavolo. Se patrioti e nazionalisti consideravano Roma la “capitale naturale” del nuovo stato, la stessa Francia che aveva aiutato i Savoia a cacciare gli Austriaci non ne voleva proprio sapere. Napoleone III, principalmente per tenersi buoni i conservatori cattolici della Francia profonda, si era erto a protettore del Papa, alternando discorsi roboanti ad invii di truppe armate fino ai denti nella Città Eterna. La guarnigione francese era un vero e proprio affronto all’indipendenza del neonato stato unitario, una questione che andava risolta al più presto. Dopo lunghe trattative, il 15 settembre 1864 si giunse ad un accordo tra Francia e Italia, i cosiddetti accordi di Fontainebleau. Napoleone III avrebbe ritirato le truppe a protezione del Papa solo quando il Regno d’Italia avesse accettato di non invadere lo Stato della Chiesa. Il nuovo governo Minghetti provò disperatamente a vendere questi accordi come una grande vittoria, ma nel giro di qualche giorno il più controverso degli accordi segreti a corollario fu reso di pubblico dominio, causando costernazione e scandalo. Entro sei mesi Torino non doveva essere più la capitale del regno, senza se e senza ma. La reazione nella città fu ben peggiore di quella che ci si poteva aspettare. Il 20 migliaia di persone si riunirono in centro al grido di “Roma o Torino”, mettendo in serio imbarazzo le autorità torinesi. Quando il giorno dopo una folla ancora più imponente occupò Piazza San Carlo, la reazione della polizia fu inevitabile. La protesta pacifica degenerò in una vera e propria guerriglia urbana che continuò per due giorni. Il bilancio fa rabbrividire: 59 morti, 187 feriti, molti dei quali poliziotti. Il bagno di sangue a Torino fu il colpo di grazia per il governo Minghetti ma non era che la punta dell’iceberg. L’opposizione al cambio di capitale non era una questione di pancia, aveva radici economiche e politiche molto solide. Da un lato c’era la burocrazia statale, in gran parte piemontese, che non voleva saperne di cambiare casa. Dall’altro le potenti lobby economiche, che avevano tratto enormi profitti dall’unificazione della penisola e non volevano certo perdere gli appalti per la nuova capitale. Nonostante l’opposizione, il governo era con le spalle al muro. Una capitale andava trovata e in fretta. Tre le possibili opzioni, ognuna con vantaggi e svantaggi: Bologna, Firenze o Napoli. La corte, che aveva sempre guardato con malcelata invidia la splendida reggia di Caserta, avrebbe preferito la città partenopea ma le forze armate non erano molto entusiaste. Una città sul mare sarebbe stata difficile da difendere, viste le condizioni non ottimali della flotta italiana. Per non parlare poi del brigantaggio e dei lealisti borbonici che continuavano ad infiammare buona parte del Sud Italia. Meglio evitare. Bologna sarebbe stata più facile da difendere e vicina al cuore industriale della nuova nazione ma fino a pochi anni prima era stata sotto il controllo del Papa. Spostarvi la capitale sarebbe stato visto come un affronto. Firenze rimaneva quindi l’unica opzione, un punto d’incontro naturale tra il nord ed il sud della penisola. Non mancavano però i detrattori, tra i quali molti toscani. Bettino Ricasoli, dalle pagine del suo nuovo giornale “La Nazione”, non nascondeva i propri dubbi. Lo spostamento della capitale all’ombra del Duomo era “una tazza di veleno che ci tocca sorbire”. Giosuè Carducci era altrettanto pessimista. “La Convenzione di settembre e le sue conseguenze hanno creato uno stato di cose che i piemontesi aborrono, che i toscani non si aspettavano, non desideravano, né l’han caro…”. C’era anche qualche sostenitore, ma non certo entusiasta. Lo stesso Massimo d’Azeglio, padre della patria piemontese, sembra provare a fare buon viso a cattivo gioco. Se proprio non si poteva traslocare a Roma, Firenze andava bene, visto che è il centro della lingua ed è alla giusta distanza dalle estremità della penisola. Il suo panegirico sembra una difesa d’ufficio. Firenze è “popolata di uomini ingegnosi, temperati, civili. Il governo potrebbe trovarci salubre e sicuro ambiente”.
In mancanza di migliori alternative, il trasferimento fu approvato, ma non fu certo tranquillo. Il 30 gennaio 1865, data del primo grande ballo del nuovo anno, una folla inferocita provò a forzare l’ingresso di Palazzo Reale. Per evitare il massacro di pochi mesi prima, furono fatte convergere truppe dal resto della città ma non servì a molto. La protesta, al grido di “reggia da vendere, padrone da appendere”, salì rapidamente di tono quando gli invitati iniziarono ad arrivare. La folla, raccolta a ridosso del cancello palagiano, passò dai fischi ad una fitta sassaiola nel giro di pochi minuti. Le carrozze fecero quindi marcia indietro, attirando l’attenzione del “re soldato”, che osservò il caos dalle proprie finestre. Quando arrivò l’ordine di disperdere la folla, costi quel che costi, l’ordine degli ufficiali di avanzare fu ignorato dai soldati della Guardia Nazionale, che rimasero immobili, baionetta in canna, senza fare fuoco. Il bagno di sangue fu evitato, ma il gran ballo fu un fallimento totale. Nemmeno i fedelissimi della corona, i Cavalieri della Santissima Annunziata, se la sentirono di forzare il blocco – un’umiliazione senza precedenti per casa Savoia. Vittorio Emanuele II non la prese benissimo. Il giorno dopo, accompagnato solo dal Presidente del Consiglio Alfonso La Marmora, in una vettura scoperta e senza scorta, uscì dal palazzo e si trasferì al castello di Moncalieri, uno schiaffo morale alla popolazione torinese che l’aveva tradito. Dopo 302 anni era il tramonto definitivo dell’antica corte sabauda. I piani per il trasferimento a Firenze furono accelerati, scegliendo una data simbolica per l’addio a Torino, il 3 febbraio, lo stesso giorno in cui Emanuele Filiberto, l’eroe di San Quintino, al braccio della consorte Margherita di Valois, nel 1563, era entrato solennemente nella nuova capitale del ducato sabaudo. Transitando per Piacenza e Bologna, e poi sulla ferrovia Porrettana da poco inaugurata, Vittorio Emanuele II giunse alla stazione di Firenze alle dieci e mezza di sera, accompagnato oltreché da La Marmora, dal ministro dell’istruzione barone Natoli, e da quasi tutti i componenti delle sue case civili e militari. La cronaca del giornalista Ugo Pesci merita un posto d’onore nelle pagine della propaganda di governo. Ve ne riproponiamo i passaggi più significativi. “L’orribile stazione di Firenze fu sfarzosamente illuminata e addobbata per ricevere degnamente il re. Tutti i senatori e i deputati della ‘nuova capitale’, le autorità civili, militari e municipali, oltre a moltissimi dei più ragguardevoli cittadini, per ore si erano assiepati sulla banchina del binario per attendere frementi l’arrivo del sovrano. E Vittorio Emanuele “fu gradevolmente sorpreso e commosso della affettuosa accoglienza che, specie a quell’ora, non si aspettava”. Per manifestare più eloquentemente i suoi sentimenti, “con insolita effusione”, in un raro slancio di tenerezza, il “re soldato” abbracciò “il più onorando fra i presenti, il vecchio e cieco senatore Gino Capponi”. Poi cominciò il tripudio nelle strade di Firenze; le entusiastiche acclamazioni della folla; la scenografia sfarzosa con le vie che conducevano dalla stazione a Palazzo Pitti – “alcune delle quali molto anguste” – illuminate, imbandierate e gremite di popolo festante; le legioni della Guardia nazionale schierate in pompa magna a fare ala al corteo. E in via Tornabuoni era tale la ressa che la carrozza reale dovette procedere a rilento, circondata poi dai soci del Club dell’Unione e del Casino Borghese – “vale a dire dai rappresentanti della nobiltà e della migliore borghesia” – che, “torcetti di cera” in mano, fecero strada al monarca verso la sua nuova residenza alle pendici della collina di Montecucco. Giunto alla reggia, Vittorio Emanuele, a causa delle “insistenti acclamazioni del popolo”, fu obbligato più volte ad affacciarsi dal balcone. E “la mezzanotte era già suonata da un pezzo, quando tacquero i festosi rumori di quella spontanea e affettuosa accoglienza”. Salvata la faccia, il primo re d’Italia non ci mise molto a dileguarsi dalla sua nuova capitale. Il giorno dopo era già nella tenuta di San Rossore, vicino Pisa, impegnato in una battuta di caccia. I fiorentini non la presero benissimo, ma si abituarono in fretta…Ci volle qualche tempo per sistemare le varie istituzioni in città. La famiglia reale si prese Palazzo Pitti, mentre la Camera occupò il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, dove peraltro si era stabilito anche il ministero degli Esteri. Il Senato prese possesso degli Uffizi, mentre il Presidente del Consiglio e il ministero degli Interni furono costretti a spartirsi Palazzo Medici Riccardi. La prima seduta del nuovo parlamento avvenne il 18 novembre 1865, inaugurando ufficialmente la nuova capitale. Le cose andarono decisamente meno lisce quando si trattò di trovare posto alle varie ambasciate dei paesi stranieri e ai corpi diplomatici in arrivo da Torino. Lo stesso Ugo Pesci, nel suo libro del 1904 “Firenze Capitale” traccia una serie di brillanti ritratti dei ministri e di alcuni consiglieri delle varie legazioni, offrendo tuttavia scarsi indizi per localizzare le sedi. Diverse centinaia di diplomatici trovarono alloggio nelle ville dei dintorni, altri in città, dove ovviamente erano le legazioni. Nessuno ricorda bene dove si stabilirono i vari ambasciatori. La legazione francese era in Corso Italia, ma il barone Joseph de Maleret aveva preso in affitto “un vasto terreno del nuovo palazzo che nell’ultimo Lung’Arno verso le Cascine aveva costruito e molto onorevolmente adornato di belle pitture e di mobili Madama Dauguerre, moglie di un olandese da lungo tempo qui domiciliato”. Nel giro di qualche mese, buona parte dei palazzi più prestigiosi della capitale furono presi d’assalto dalle varie legazioni. I Britannici finirono in via dei Servi, nel palazzo Niccolini, i prussiani in via del Proconsolo, in palazzo Pazzi della Congiura, i russi in via Ghibellina, nel palazzo Baldinucci e così via. Alcune delle residenze private degli ambasciatori ospitarono eventi sociali sfarzosi certo non comuni all’ombra del Duomo. Uno sfarzo che fece sicuramente storcere il naso all’aristocrazia fiorentina, incapace di reggere il passo rispetto ai gonfi portafogli delle varie legazioni straniere. Tutti si resero presto conto che la struttura medievale di Firenze non era certo in linea con le tendenze del tempo. Fino a quando era rimasta una sonnecchiosa città di provincia, le strade che avevano visto i maestri del Rinascimento camminare andavano benissimo, ma ora che gli occhi di tutta Europa vi erano puntati, non sembravano più così affascinanti. Nel giro di pochi mesi fu ingaggiato un architetto di grido, Giuseppe Poggi e fu dato il via ad un piano di lavori senza precedenti, che cambiò per sempre il volto di Firenze. Le mura antiche, che erano riuscite a sopravvivere a fior di assedi, furono demolite, lasciando posto a quegli ampi viali che oggi sono costantemente pieni di macchine in fila. Una volta copiati i boulevard parigini, ci voleva anche un bel piazzale panoramico. Nacque così Piazzale Michelangelo. Le Cascine, fin dal medioevo erano state sempre usate come piazza d’armi dove far esercitare la milizia cittadina. Ora sarebbero diventate la copia in piccolo del Bois de Boulogne, un polmone verde inconsueto e malvisto dai fiorentini. A cosa serve un parco in città? Ci sono le colline vicino, le ville in campagna! Niente da fare, il parco venne fatto lo stesso. I lavori si moltiplicarono ovunque, con giardini che prendevano il posto di palazzi antichi ed ogni genere di offesa al volto medievale della città. La cosa che però preoccupò molto i fiorentini fu il fatto che di gente nuova iniziò ad arrivarne parecchia. Nel giro di pochi anni la popolazione e la superficie della città crebbero del 58%, un vero e proprio boom immobiliare, caotico, non pianificato. I cantieri causarono più di un problema ai fiorentini ma oltre ai disagi le conseguenze peggiori colpirono le loro tasche. Gli affitti aumentarono dal 50 al 75% in pochi anni, trascinando con sé i prezzi del cibo e degli altri generi di prima necessità. Per non parlare poi dei costi degli enormi lavori pubblici che stavano rivoluzionando la città. La corte ed il governo centrale promisero che avrebbero contribuito ma non specificarono mai come e quanto. Alla fine il governo cittadino fu costretto ad alzare le tasse ma non riuscì comunque ad evitare enormi voragini in bilancio che avrebbero perseguitato Firenze per decenni. Carlo Collodi, il padre di Pinocchio, fu uno dei primi a capire che l’ossessione di rifare il volto di Firenze sarebbe stata una iattura non solo per la città del Giglio ma per l’intera Toscana. Come il suo Grillo Parlante, anche lui fu ignorato. Si continuò a spendere e spandere, fino a quando il peso dei debiti costrinse il comune di Firenze a dichiarare bancarotta. Poco male, dissero i soliti ottimisti. Ci penserà il governo ed il re a ripianare i debiti. Certo, come no… chi visse sperando morì non si può dire. Alla fine, quella che era stata pensata come la capitale eterna del nuovo regno, durò solo sei anni, travolta da eventi avvenuti molto lontano. Dopo la vittoria sull’Austria-Ungheria nella guerra del 1866, i rapporti con la Francia volsero rapidamente al peggio. Nel 1867, dopo che i volontari di Garibaldi furono sconfitti a Mentana dalle forze papali e da truppe non regolari francesi, Napoleone III denunciò il trattato di Fontainebleau riaprendo di colpo la questione romana. Alla fine a precipitare gli eventi non furono i patrioti italiani ma le truppe prussiane di Von Moltke, che misero fine al secondo impero francese nel 1870. La disfatta francese lasciò mano libera all’Italia, che il 20 settembre dello stesso anno occupò la Città Eterna, completando di fatto l’unificazione della penisola. Da quel momento il destino di Firenze fu segnato. Dopo che la legge sulle guarentigie fu firmata dal governo Lanza, la strada per il passaggio della capitale a Roma fu spalancata, con pesanti conseguenze in tutta la Toscana. Così com’erano venuti, burocrati, militari e diplomatici lasciarono la città del Duomo, seguiti da banchieri, industriali e chi più ne ha più ne metta. Il nuovo trasloco fu una catastrofe per i palazzinari che si erano pesantemente indebitati per costruire dal nulla centinaia di nuovi appartamenti. Le bancarotte si sprecarono, mettendo a rischio più di una banca locale. Interi quartieri appena costruiti si svuotarono in pochi mesi, mentre per i palazzi più prestigiosi in centro ci vollero decenni prima di trovare nuovi inquilini. I fiorentini furono colpiti duramente ma ostentarono la massima indifferenza. In quei mesi difficili, divenne popolare un detto, esempio massimo della protervia degli abitanti della città del Giglio. “Torino piange quando il Prence parte, / e Roma esulta quando il Prence arriva. / Firenze, culla della poesia e dell’arte, / se ne infischia quando giunge e quando parte.”. In fondo, al fiorentino medio l’arrivo di così tanti foresti aveva dato fastidio più che altro. La sua città gli era sempre andata benissimo com’era, senza bisogno che arrivassero stranieri a trasformarla a loro immagine e somiglianza. A pagare il prezzo più alto furono invece gli entusiasti della prima ora, quelli che avevano creduto fermamente che la nuova era gli avrebbe portato ricchezze e prestigio inimmaginabili fino a pochi anni prima. Nessuno però pagò un conto così salato come il sindaco di Firenze Ubaldino Peruzzi. Proprio lui che era stato il principale sponsor dei grandi lavori pubblici fu colto in contropiede quando il governo nazionale fece sapere ai fiorentini che, alla fine, sarebbero stati loro a dover pagare tutti i debiti. Roma andava rifatta e le casse del governo piangevano miseria. Visto che “noblesse oblige”, l’ultimo rappresentante di una delle più grandi famiglie fiorentine fece buon viso a cattivo gioco, offrendosi di pagare di tasca propria buona parte dei debiti del comune. Cosa dite? La solita sparata ad uso della stampa? Il solito furbastro di politico che fa grandi promesse prima di trovare una scappatoia? Eh no, gente, il buon Ubaldino non era il solito politico toscano. Non solo promise di pagare di tasca propria, ma lo fece sul serio. Pagò tutto quel che poteva pagare, svendendo le proprietà di famiglia pur di salvare la faccia. Alla fine morì senza il becco d’un quattrino ma con la reputazione intonsa. D’altro canto non era la prima volta che la sua famiglia veniva fregata da un governo. Cinque secoli prima, i Peruzzi ed i loro alleati Bardi dirigevano la banca più potente d’Europa. Dopo aver finanziato le guerre e le spese pazze di monarchi e principi vari, commisero l’errore di fidarsi della parola del Re d’Inghilterra. Edoardo III si era appena imbarcato nella faida col Re di Francia che sarebbe diventata la Guerra dei Cent’anni ed aveva bisogno di grosse somme di denaro per evitare di dover concedere altro potere ai baroni del regno e costruire una grande alleanza. La banca fiorentina gli concesse una somma enorme, che alcuni stimano in quasi due milioni di fiorini ma quando gli alleati comprati a caro prezzo lasciarono Edoardo III da solo, fu costretto a rimandare il pagamento dei propri debiti. Alla fine, caso più unico che raro, furono i Peruzzi, che dichiararono bancarotta nel 1343, in quello che sarebbe diventato il più grande sconquasso finanziario del basso medioevo. Proprio vero che chi non conosce la storia è costretto a ripetere gli stessi errori. Firenze capitale, insomma, fu un disastro senza precedenti ma marcò comunque un passaggio chiave nella storia dell’unità d’Italia. Se fino al 1864 molti Italiani erano convinti che i Piemontesi volessero imporre i propri valori e le proprie abitudini sul resto della penisola, le cose iniziarono a cambiare quando la corte si trasferì a Firenze. I torinesi non si erano mai sentiti italiani e non nascondevano il proprio disprezzo per i “cugini”. La contessa di Sambuy ebbe a dire che “l’Italia dovrebbe stare dov’è. Nel nostro piccolo Piemonte stavamo benissimo senza questi fratellastri”. Il presidente del Senato dell’epoca ebbe a dire che i torinesi “si vantavano di non essere italiani. Volevano essere diversi, si sentivano un misto tra le tradizioni italiane e francesi”. L’ordine e la calma del Piemonte erano in aperto contrasto con il carattere del resto della penisola. Fino a quando Torino fu al timone della nuova nazione, la frattura tra piemontesi ed italiani non fece che allargarsi. Il trasferimento a Firenze consentì alle varie anime di incontrarsi ed iniziare il lungo e complicato cammino verso un’identità nazionale condivisa. Un passo importante che però ebbe conseguenze pesantissime su Firenze e sul resto della regione. Il costo dei grandi lavori pubblici fu una palla al piede per la città ed il circondario, bloccando sul nascere l’industrializzazione della regione. C’è chi dice che fu proprio questo ritardo a far perdere alla Toscana il treno della crescita nei confronti del triangolo industriale del Nord. Altri invece pensano che i grandi lavori resero Firenze più vivibile, meno provinciale, una città dal respiro europeo che rimase quindi in grado di attirare turisti da tutto il mondo. Molti fiorentini continuano a pensare che queste grandi opere abbiano ucciso per sempre il carattere più genuino della città, quell’anima rinascimentale che male si accomuna alla modernità ottocentesca. C’è anche chi dice che il boom immobiliare distrusse per sempre il tessuto sociale cittadino, scavando un fossato tra il centro storico e le periferie. La discussione è ancora aperta ma una cosa è certa: a nessun fiorentino fa piacere ricordare quel periodo storico. Perché? Onestamente non saprei. Forse ai Fiorentini le cose vanno bene così. Gli stranieri vanno bene, ma con moderazione – preferibilmente con portafogli gonfi e pochi giorni per vedere tutto. Ministeri, ambasciate, meglio che stiano altrove – tanto, per loro, Firenze sarà sempre la capitale del mondo. E chi non la pensa come loro, peste lo colga. Luca Bocci
Toscana, oltre a Firenze c’è di più: lo dice il Times. Paolo Lazzari su L'Arno - Il Giornale l'11 novembre 2021. Firenze? No, thanks. Un’esternazione che rischia di essere seguita da una caterva di proverbiali insulti al divino, specie se la senti rimbalzare tra le pareti di un bar. Se però è il Times – il più autorevole quotidiano britannico e faro pulsante della stampa occidentale tutta – a sostenere che in Toscana c’è di meglio, allora quello che fino ad un attimo fa sembrava ciarpame discorsivo assume venature irriverenti, che preludono a pupille spalancate. Sì perché quando l’inviata Cathy Hawker è stata spedita per tre giorni nel Granducato, con la specifica missione di indovinare il posto migliore per acquistare una seconda casa e – why not? – trasferirsi direttamente a vivere, non ha avuto dubbi. Lucca, non il capoluogo, è la città ideale. Al punto che il suo pezzo si intitola proprio “Dimenticatevi Firenze: Lucca è la città più affascinante della Toscana, il posto dove tutti i britannici vorrebbero vivere”. Il che suona quantomeno singolare se si pensa che dentro alle mura ha soggiornato a lungo la sorella di Napoleone Bonaparte, nota per i suoi forsennati – e riusciti – sforzi per rendere la città quanto di più francese esistesse nel circondario. Ma i tempi, è noto, sono mutevoli. Succede così che la Hawker rimanga impigliata nel fascino impudente di una cittadina che conserva un centro storico di una bellezza contundente ed è circuita da placide colline punteggiate da ville sontuose e dimore più dimesse, eppure storiche. Accompagnata nel suo speciale tour da Alessandro Deghé, della Serimm Knight Frank Luxury Real Estate, la giornalista è rimasta certamente estasiata dalla bellezza che accompagna ogni pertugio cittadino e bucolico, ma è stato senz’altro un altro il fattore che l’ha persuasa a buttare giù l’insolente stroncatura fiorentina, in favore della città che vide nascere Giacomo Puccini. La qualità della vita, ladies and gentleman, assume un peso specifico di proporzioni cosmiche quando si tratta di acquistare una casa all’estero. E gli inglesi, giura Cathy, farebbero carte false sia per acquistare una seconda casa a Lucca dove rifugiarsi per ricaricare le pile (si mormora che il tempo medio di permanenza si aggiri tra i 3 ed i 6 mesi) che per trasferirsi direttamente a vivere, magari quando la carta d’identità comincia a diventare sgualcita. Ad agganciare l’inviata sarebbero stati anche gli eventi che accompagnano per diversi segmenti dell’anno Lucca, oltre all’estrema vicinanza con altre realtà ammiccanti e contraddistinte da un tenore di vita slow, quello che sembra mancare a Firenze, come l’avamposto scozzese di Barga, le suggestioni naturalistiche e gastronomiche della Garfagnana o la salsedine versiliese. Comunque la si metta uno dei più autorevoli mezzi di stampa del globo infligge un duro colpo a Palazzo Vecchio e dintorni, vezzeggiando una città che sembra percorsa dai requisiti principalmente inseguiti dall’elitario target British: tranquillità, bellezza e decoro, spruzzati da una discreta dose di attività. Il nativo lucchese – per il quale l’atteggiamento critico e poco propulsivo verso quel che non accade in città prevale sovente sui lati positivi – forse non l’avrebbe mai detto. Il londinese Times però sentenzia altrimenti e forse, per una volta, va benissimo così.
Fabrizio Boschi per "il Giornale" il 17 maggio 2021. Il Pd fa finta di nulla. A un mese dallo scoppio dello scandalo a seguito dell'inchiesta sui fanghi di scarto delle concerie in Toscana, tutti sono ancora al loro posto come se l' affare non li riguardasse. La sindaca di Santa Croce sull' Arno (Pisa) Giulia Deidda (Pd), grande regista di tutta la faccenda, da un mese tace e non ci pensa nemmeno a dimettersi. Si è sempre rifiutata di commentare l' inchiesta che la vede indagata con l' accusa di associazione a delinquere per presunti reati di traffico di rifiuti e inquinamento relativi allo smaltimento di scarti tossici interrati illegalmente in varie zone della Toscana. Il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, che proprio ieri era in visita nel Comprensorio del Cuoio a fare quello che gli riesce meglio, inaugurare l' hub vaccinale di Fucecchio, fa finta di nulla e s' impicca alle travi delle sue stesse contraddizioni. Parla di un' industria sana aggredita dalla 'ndrangheta. Continua con la favoletta dell' economia circolare, alla quale non crede più nessuno. Ma ignora il fatto che la 'ndrangheta è stata solo l' esecutore materiale, il mandante è l' industria toscana. E il Pd è rimasto lì, a fare il palo. E che dire del suo capo di gabinetto Ledo Gori, indagato con l' accusa di corruzione per atti contrari ai doveri d' ufficio, accusato di aver favorito i conciari in cambio di pressioni su Giani per riconfermarlo? Secondo i pm è stato l'anello di congiunzione tra il sistema criminale gestito dagli imprenditori del comparto conciario in odore di mafia e la politica. Giani afferma che la riconferma è stata una sua libera scelta. E allora perché lo ha prima sospeso e poi licenziato con decreto del 30 aprile «valutato il danno all' immagine derivante all' amministrazione regionale in ragione della gravità dei fatti contestati»? La verità è che questa brutta storia rischia di azzerare i vertici del Pd, soprattutto in Toscana, che resta una delle poche roccaforti della sinistra ancora in piedi in Italia. E di sicuro mette in cattiva luce l'amministrazione del pisano Enrico Letta, alla guida del partito da appena due mesi. A stare con il fiato sul collo del Pd da settimane è addirittura il Domani, un giornale non certo di destra, di proprietà di Carlo De Benedetti, che un giorno sì e l' altro pure fa le pulci ai compagni di merende, tirando fuori carte ed intercettazioni. Pubblica gli stralci di alcune telefonate tra la Deidda e il presidente del Consorzio Aquarno, Lorenzo Mancini, che dimostrano come i politici erano a conoscenza dei pericolosi veleni fin dal luglio 2018. «È vent' anni che lo fanno e nessuno ha mai detto nulla...», dice Mancini. Ieri un editoriale sull'«ostinato silenzio» del Pd, «incomprensibile» e «giustificato con l' ipocrita formula che mescola a sproposito il garantismo e il rispetto per il lavoro della magistratura». La notizia, infatti, è accertata dai fatti, si tratta di cose note a tutti da 20 anni, non nei reati ipotizzati. Il triangolo perverso tra industria, ambiente e politica è già dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio. Non c' è bisogno di attendere gli esiti dell' inchiesta per sapere che da anni sono in pericolo la salute dei toscani e i posti di lavoro nelle concerie. Uno scandalo che investe in pieno il Pd nella sua terra d' origine, il quale è stato a guardare inerme mentre si spargevano illegalmente veleni per la regione con la scusa di salvare seimila posti di lavoro e, soprattutto, 2,5 miliardi di fatturato. Ciò non sarebbe potuto accadere senza la distrazione degli amministratori di Comuni, Province e Regione. Ma il Pd finge di non sentire.
Pd, fanghi di scarto delle concerie: Toscana, l'inchiesta-bomba che può travolgere il partito di Enrico Letta. Libero Quotidiano il 17 maggio 2021. Il Pd toscano rischia di saltare per l'inchiesta sui fanghi di scarto delle concerie della regione guidata dal dem Eugenio Giani. A un mese dallo scandalo tutti i dem toccati dallo scandalo restano al loro posto. Come se la cosa non li riguardasse. Non si è mossa di un millimetro dalla sua poltrona la sindaca di Santa Croce sull'Arno (provincia di Pisa) Giulia Deidda (Pd), "grande regista di tutta la faccenda", riporta il Giornale. Indagata con l'accusa di associazione a delinquere per presunti reati di traffico di rifiuti e inquinamento relativi allo smaltimento di scarti tossici interrati illegalmente in varie zone della Toscana, a dimettersi non ci pensa nemmeno. E il governatore Giani fa finta di nulla, parla di un'industria sana aggredita dalla 'ndrangheta, senza dire che "il mandante" è l'industria toscana. C'è poi il suo capo di gabinetto Ledo Gori, indagato con l'accusa di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio, accusato di aver favorito i conciari in cambio di pressioni su Giani per riconfermarlo. Giani sostiene che la riconferma è stata una sua libera scelta. E allora perché lo ha prima sospeso e poi licenziato con decreto del 30 aprile "valutato il danno all'immagine derivante all'amministrazione regionale in ragione della gravità dei fatti contestati"? Insomma, una brutta storia questa che rischia di cancellare i vertici del Partito democratico proprio nella sua roccaforte e di mettere in imbarazzo il pisano segretario del Pd Enirco Letta. Il quotidiano Domani, che non è certo un giornale di destra, continua a tirare fuori carte e intercettazioni che dimostrano come i politici erano a conoscenza dei pericolosi veleni fin dal luglio 2018. Lo scandalo travolge in pieno il partito proprio nella sua terra d'origine ma al momento il Pd fa finta di nulla.
SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera" l'11 maggio 2021. Viva l'Ogliastra, il mare dell'Ogliastra, il pane pistoccu dell'Ogliastra! Ma ha senso che un'entità locale con un terzo degli abitanti del quartiere romano di ponte Milvio, di questi tempi, diventi una provincia con addirittura due capoluoghi, Tortolì e Lanusei, che svetta in coda, si fa per dire, con 5.283 anime? Eppure la Regione Sardegna tira diritto. E punta in questi giorni a rendere operativa la riforma votata tre settimane fa per fare dell'isola la terra con più capoluoghi provinciali d'Italia e forse del pianeta: dodici. Uno ogni 133.000 abitanti. Erano tre, una volta, le province sarde. Cagliari, Sassari, Nuoro. Nel 1974 fu aggiunta Oristano. Nel 2001, con il governatore berlusconiano Mauro Pili, ne arrivarono (con operatività dal 2005) altre quattro: Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio. Spazzate via tutte e quattro dal referendum del 2012, trionfalmente passato (il quorum era basso: un terzo degli aventi diritto) con il 97% dei voti. Uno smacco. Corretto nel 2016 con l'istituzione della Città metropolitana di Cagliari (che con sedici comuni del circondario arrivava quasi a un terzo dei sardi) e la fusione del territorio restante più quello del Medio Campidano e di Carbonia-Iglesias uniti nella nuova provincia del Sud Sardegna. Fin qui la (tormentata) storia recente. Ma poteva la maggioranza di Christian Solinas eletta nella primavera 2019 dal centrodestra e dal Psd'A storicamente di sinistra ma spostato ora dall'altra parte, rinunciare a mettere mano una volta di più al pasticcio? Certo, non era facilissimo per la destra (il cui governatore forzista Ugo Cappellacci si era battuto nel 2011 «per l'abolizione delle Province») e più ancora per la Lega (lo stesso Roberto Calderoli, uomo di punta leghista per le riforme, aveva proposto da ministro «non la soppressione completa» ma di tutte quelle province «che non raggiungono i 300 mila abitanti») fare dietro-front sulla tanto invocata volontà popolare. Ma come rinunciare a una distribuzione di poltrone a tanti clientes, distribuzione spacciata perfino in questi mesi di pandemia e di vacche magre per una scelta democratica di apertura al dialogo in quei territori? E così, mentre la pubblica opinione aveva la testa fissa sulle angosce del coronavirus, dei morti quotidiani, delle residenze per anziani, la maggioranza a guida lego-sardista è andata avanti anche su temi meno prioritari. Come l'abnorme gonfiamento degli organici dello staff della presidenza e della giunta con un'impennata di costi che secondo le opposizioni potrebbe superare complessivamente i sei milioni di euro, l'assegnazione al nuovo Segretario Generale di uno stipendio di 285.600 euro (46.600 più di quello dato al capo dello Stato, 14 volte il Pil pro capite dei sardi) o la soppressione dell'Asl unica voluta nel 2017 dall'allora governatore Francesco Pigliaru (scelta assai contestata) per ripristinare le otto vecchie aziende sanitarie (Cagliari, Sassari, Sulcis, Nuoro, Gallura, Ogliastra, Oristano, Medio Campidano) con dotazione allegata di otto direttori generali, otto direttori sanitari, otto direttori amministrativi eccetera eccetera...La meno comprensibile, però, anche per la sconfessione del risultato referendario di qualche anno fa, è la scelta di scombussolare ancora una volta le competenze territoriali. Con la nascita dopo Cagliari di un'altra Città metropolitana (Sassari), la conferma delle province di Nuoro e Oristano e il sostanziale ripristino, con un'etichetta ritoccata, delle province soppresse dopo la consultazione popolare. Ed ecco la «circoscrizione territoriale della Provincia del Nord-Est Sardegna, con capoluogo nei Comuni di Olbia e Tempio», quella «dell'Ogliastra con capoluogo nei Comuni di Tortolì e Lanusei», quella «del Sulcis Iglesiente, con capoluogo nei Comuni di Carbonia e Iglesias» e quella «del Medio Campidano, con capoluogo nei Comuni di Sanluri e Villacidro». Totale otto enti provinciali (solo due con più dei 300 mila abitanti teorizzati dalla Lega Nord prima della metamorfosi salviniana) per un totale di dodici capoluoghi. Un bel po' di poltrone presidenziali distribuite provvisoriamente in tempi brevi («entro e non oltre trenta giorni dalla scadenza del termine») dalla «Giunta regionale con propria deliberazione, su proposta dell'Assessore competente in materia di enti locali» fino «all'insediamento degli organi di governo la cui elezione», anche se non è ancora chiara la formula, «deve svolgersi entro il 31 dicembre 2021». Purché le nuove assegnazioni stiano bene a tutti: il Comune di Genoni, ad esempio, ha via via traslocato nell'ultimo secolo (amministrativamente) dalla provincia di Cagliari a quella di Nuoro, di Oristano, della Provincia del Sud e infine a quella di Cagliari. Tutto ok? Può darsi. Sennò i consigli comunali possono optare all'unanimità per cambiar provincia. O fare un referendum. C'è chi dirà: «Ecco un esempio di democrazia!». Vedremo. Certo è assai diversa la scelta della giunta sardo-leghista sulle concessioni balneari. Ricordate? I sette comuni di diverso colore politico (Arzachena, Olbia, Posada, Loiri-Porto San Paolo, Cagliari, Quartu e Orosei) che si erano opposti alla mega-proroga fino al 2033 voluta dal primo governo giallo-verde, proroga totalmente condivisa dal governo Solinas, furono commissariati. Ma con la legge 12 aprile 2021 n. 7 che fissa le nuove province, la Regione va oltre. E tra le proteste dell'opposizione trainata dal Gruppo Progressisti, ha deciso di cambiare la «legge regionale n. 9 del 2006 in materia di demanio marittimo» sottraendo una volta per tutte ai comuni sardi la competenza su quelle concessioni da anni al centro di un braccio di ferro tra l'Europa e l'Italia. D'ora in avanti, dice la nuova legge, «la disciplina (...) e l'adozione degli atti generali di indirizzo per la redazione dei Piani comunali di utilizzazione dei litorali» e «il rilascio di tutte le concessioni sui beni del demanio della navigazione interna, del mare territoriale e del demanio marittimo non attribuite allo Stato spettano alla Regione Sardegna». E le direttive dell'Europa? Bah... Intendiamoci: porre questo tema spinosissimo oggi, alla vigilia delle vacanze agognate dai turisti ma più ancora dagli operatori, dopo mesi così pesanti, non sarebbe proprio il caso. Ma da qui all'eternità...
SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Viaggio alla scoperta delle specialità enologiche locali. Benvenuti nelle Marche: regione all’avanguardia del green e del vino. Vittorio Ferla su Il Riformista il 23 Maggio 2021. Una terra ai confini dello Stato Pontificio così come del Sacro Romano Impero. Una Toscana meno nobile o lo sbocco a mare dell’Umbria. Un punto di passaggio dal Sud al Nord, lungo la dorsale adriatica. No, troppo poco per definire le Marche. Basterebbe soffermarsi sulla produzione vitivinicola per apprezzare la straordinaria ricchezza e complessità di questa regione. Il territorio – che unisce le pianure alle dolci colline e le creste di montagna al mare – offre alla vite un habitat pedoclimatico favorevolissimo. Più di venti tipi di vini di altissima qualità, incluse le denominazioni di origine controllata (doc) e garantita (docg), per accontentare tutti i palati. Il lavoro certosino dei viticultori, molti dei quali dediti all’agricoltura sostenibile. Per fare di tutto ciò un sistema territoriale coeso, «le Marche, tra le regioni più bio in Europa in rapporto alla superficie vitata, hanno siglato il Patto per il distretto biologico unico che diventerà la più grande area europea attenta allo sviluppo di una pratica sostenibile e alla salute dei consumatori». A parlare è Alberto Mazzoni, il direttore dell’Istituto marchigiano di tutela vini (Imt), che ricorda con orgoglio: «Le Marche del vino hanno una fortissima identità green e occupano la terza posizione tra le regioni a maggior concentrazione bio in vigna (34% sul totale vigneto), dietro a Calabria e Basilicata». Anche per questo l’Imt è in prima linea per la realizzazione di una banca dati italiana del vino biologico, visto che l’Italia «rappresenta un quarto degli ettari vitati bio nel mondo, ma ancora non abbiamo una banca dati sul settore per osservare il fenomeno dalla produzione al confezionamento e alla vendita», aggiunge Mazzoni. A questo connotato “verde” si aggiunge un’alta qualità agronomica, enologica e organolettica dei vini, a un prezzo assai competitivo, un ulteriore valore aggiunto per il consumatore che fa delle etichette di quest’area una alternativa eccellente a quelle più blasonate di altre parti d’Italia. Da dove dovrebbe cominciare, dunque, un viaggio alla scoperta delle Marche del vino? Qualche bella dritta viene dai digital tasting che l’Imt propone in questi mesi alla stampa italiana ed estera, da marzo a giugno, e che ha visto anche la partecipazione del Riformista. Il suggerimento è quello di partire dalle chicche, dai i vitigni meno noti, quelli che più difficilmente si trovano fuori dalla regione. Tra i bianchi, per esempio, merita attenzione la Ribona dei Colli Maceratesi, uva squisitamente locale, vinificata spesso in purezza. La Ribona, nel suo piccolo, ha sempre giocato la carta dell’immediatezza: fresca, delicatamente minerale, sapida, piacevole. Da qualche tempo, le sue caratteristiche spingono alcuni produttori lungimiranti e curiosi a diversificare le tecniche di vinificazione. Gli obiettivi? Aumentare l’estrazione aromatica e testare le capacità di invecchiamento. Il risultato è confortante, al punto che, nel futuro della denominazione, c’è il progetto di realizzare una riserva per esaltare la longevità di quest’uva sorprendente. Promossi dall’Imt, gli assaggi recenti delle etichette di alcune cantine della zona – Conti degli Azzoni, Boccadigabbia, Saputi, Fattoria Forano, Fontezoppa, Cantina Sant’Isidoro – ci raccontano un vitigno dotato di freschezza, struttura, potenzialità aromatiche, dolcezza, caratteristiche che conferiscono un’ampia versatilità: vini spumanti e fermi giovani, vini dagli affinamenti più lunghi, passiti. Tra i rossi, poi, è un must la Lacrima di Morro d’Alba, vitigno risalente al Medioevo, coltivato nella provincia di Ancona. A partire dal colore brillante e dalle sfumature violacee, la Lacrima fa storia a sé: vero e proprio succo d’uva, fresco, delicato, floreale. Un mix di aromi di fragola, ciliegino, more di rovo, mirtilli, viola e violetta per un sorso asciutto ma senza spigoli, perfetto per degustare specialità marchigiane come il salame lardellato di Fabriano o il Ciauscolo o i piatti al ragù di animali di cortile. Grazie alla finezza dei tannini, può perfino accompagnare il brodetto di pesce all’anconetana. L’area di produzione è piccola ma propone etichette di valore come, per esempio, quelle delle cantine Lucchetti, Tenute Cesaroni, Stefano Mancinelli e Marotti Campi. Ci sono poi i cavalli di battaglia della regione. Come il Montepulciano che, nelle Marche, raggiunge una splendida espressione nella denominazione del Rosso Conero. Da provare le etichette di Marchetti, Conte Leopardi, Umani Ronchi, La Calcinara, Moroder, Fattoria Le Terrazze. Il Rosso Conero è un vino superbo, specie nella versione riserva, capace di stare al passo di etichette sopravvalutate e di offrire al consumatore un rapporto qualità prezzo davvero imbattibile. Il vitigno principe della regione resta però il Verdicchio. Un vitigno completo, che raggiunge livelli eccelsi in tutte le tipologie, con dei picchi assoluti nei vini fermi. Lo confermano gli assaggi della denominazione Castelli di Jesi Classico Superiore. A partire dalla storica cantina della famiglia Bucci, c’è davvero l’imbarazzo della scelta: Moncaro, Marotti Campi, Lucchetti, Socci e Santa Barbara. Un cenno particolare merita il Verdicchio di Matelica – denominazione minore solo per le quantità – meno strutturato ma più brillante, gioioso e sulfureo rispetto all’altro. Al top della gamma di Matelica sono i vini di Casa Lucciola, La Monacesca, Borgo Paglianetto, Belisario, Villa Collepere, Tenuta Colpaola. Verdicchio dei Castelli di Jesi e Verdicchio di Matelica chiudono il 2020 con un incremento esponenziale dell’imbottigliato: rispettivamente +36,9% e +14,8% secondo Valoritalia. Il Verdicchio Castelli di Jesi ha sfiorato i 190mila ettolitri tra Doc e Docg, 51mila in più rispetto al 2019. Bene anche l’imbottigliato del Matelica: 19mila ettolitri contro i 16.500 dell’anno precedente. Un risultato senza precedenti nella storia dei due prodotti simbolo di una regione sempre più a trazione bianchista. Ormai da anni, centinaia di etichette del Verdicchio marchigiano raggiungono i massimi punteggi delle guide enologiche italiane e internazionali. Non a caso, per i marchigiani, il Verdicchio è il miglior vino bianco fermo d’Italia. Se pensate che sia solo campanilismo, beh, assaggiatelo…Vittorio Ferla
SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede a Roma.
Viterbo, dai cunicoli degli etruschi alla segregazione del conclave. Angela Leucci il 18 Novembre 2021 su Il Giornale. Viterbo è una città affascinante, con radici storiche medievali ancora presenti: qui, al di sopra dei cunicoli etruschi, furono sequestrati i cardinali. Viterbo è una città ricca di Storia e di storie. Ed è anche un centro in cui gustare cacciagione e vini locali, che costituiscono un connubio enogastronomico irrinunciabile quando si visita il territorio. Dotata di un centro storico medievale, in cui la conservazione dei luoghi è ragguardevole, la bellezza di Viterbo risiede nel fascino di queste storie, nel profumo della cucina in queste strade, nel calore della gente di una provincia di confine, ancora nel Lazio ma protesa verso la Toscana.
Viterbo sotterranea
Come illustra Tesori di Etruria, Viterbo sotterranea è costituita da un fitto reticolo di cunicoli, cui si accede da piazza della Morte e che si estende per tutto il centro storico e anche oltre. Questo sotterraneo ebbe, in epoche differenti, funzioni diverse.
Pare infatti che gli Etruschi furono i primi a servirsene, iniziando gli scavi al fine di trovare l’acqua e trasportarla da un punto all’altro della città. Ma in epoca medievale i perimetri dei cunicoli furono ampliati, diventando al tempo stesso un modo per raggiungere molto in fretta altri luoghi oppure come via di fuga in caso di assedio. Successivamente rappresentarono un nascondiglio sicuro per ladri e criminali.
Il conclave infinito
Una delle pagine di Storia che vedono protagonista la popolazione viterbese è l’elezione papale del 1268-1271. Alla morte di Clemente IV, i cardinali iniziarono infatti a riunirsi in conclave all’interno del Palazzo dei Papi, facendo rientro ogni sera alle loro sedi. Il conclave si rivelò tuttavia piuttosto lungo, anche a causa del “gran rifiuto”, per utilizzare un termine contenuto nella Divina Commedia riferito a un altro Papa, di alcuni religiosi, come il priore Filippo Benizi e il generale francescano Bonaventura da Bagnoregio, autore di significativi saggi teologici tra cui l’“Itinerarium Mentis in Deum”.
Il 1 giugno 1270, i viterbesi, esausti della situazione iniziata due anni prima, presero così la drastica decisione di rinchiudere i cardinali nel Palazzo dei Papi, dapprima in una stanza poi nel resto dell’edificio, riducendo loro la fornitura di cibo e bevande. Ma il conclave continuò, almeno fino a quando, l’11 marzo 1271 Enrico di Cornovaglia fu ucciso dal cugino Guido di Montfort mentre partecipava alla messa nella chiesa di San Silvestro a Viterbo. Questo spinse i cardinali a un’effettiva accelerata, che culminò il 1 settembre 1271 con l’elezione del nuovo papa Tedaldo Visconti, cioè Gregorio X.
Piazza della Morte
“Parce sepulto” scrive Virgilio nell’Eneide, raccontando di Polidoro, ucciso a tradimento e lasciato non completamente sepolto con le frecce ancora conficcate nel corpo. Significa: "Risparmia chi è morto". Quest’espressione è diventata emblematica della pietas dell’eroe Enea, pietas che a sua volta è diventata in Italia un valore nazionale. Il seppellimento dei morti rappresenta infatti un punto importante della civiltà italiana e un esempio di pietas in tal senso si trova proprio nella storia della città di Viterbo.
In questa città si trova infatti piazza della Morte, dove ha sede la chiesa di San Tommaso e una suggestiva fontana, tra le tante di Viterbo. Il nome definitivo della piazza fu attribuito nel XVI secolo, in onore di una confraternita che operava proprio nell’attigua chiesa. Si tratta della Confraternita dell’Orazione e della Morte, che si occupava di seppellire gli insepolti, ossia persone che all’epoca erano classificate come “indesiderabili” all’interno della società, come eretici e prostitute. Esiste una vulgata secondo cui qui operava il boia per le esecuzioni capitali, ma in realtà si tratta di una fake news molto, molto antica.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
L'aiutino al magistrato. Lo Voi a Roma, lo sponsor di Pignatone e l’hotel a 5 stelle: il racconto (incompleto) di Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Novembre 2021. Dopo circa due anni e mezzo, il Consiglio superiore della magistratura è tornato sui propri passi: proponendo Francesco Lo Voi a procuratore di Roma. Il nome del procuratore di Palermo, infatti, era già uscito il 23 maggio del 2019 quando la Commissione per gli incarichi direttivi per la prima volta aveva affrontato il dossier sulla successione di Giuseppe Pignatone. Quel giorno Lo Voi aveva preso un solo voto, quello del togato di Area Mario Suriano. Le nomine dei magistrati, soprattutto quelle dei procuratori, talvolta sfuggono alle logiche correntizie. Lo Voi, infatti, esponente di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, era stato votato da un magistrato della sinistra giudiziaria, il gruppo che quando si trattò di discutere la sua nomina a procuratore di Palermo aveva invece fatto le barricate. «È uno che dorme in hotel cinque stelle mentre i suoi colleghi sono qui in trincea a spalare fango», disse il pm anticamorra Antonello Ardituro, un magistrato di Area, in occasione della sua nomina riferendosi al fatto che Lo Voi in quel momento prestava servizio a Eurojust a Bruxelles. Di Lo Voi come procuratore di Roma si discusse molto in quel periodo. Palamara, due giorni prima del voto, il 21 maggio del 2019, parlando con il collega Luigi Spina, disse di essere lui ad aver aiutato Pignatone a portare Lo Voi a Palermo, accennando anche al ricorso che Lo Forte (Guido, procuratore di Messina, bocciato dal Csm, ndr) aveva fatto contro questa nomina. «C’è pure Pignatone in mezzo… vabbè.. e meglio che non ti racconti…», disse Palamara a Spina non sapendo di essere ascoltato con il trojan. Per sapere a cosa si riferisse Palamara bisognerà aspettare la pubblicazione del libro Il Sistema scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. «Pignatone mi rivela di avvertire degli strani movimenti intorno a questa vicenda e di temere che anche il Consiglio di Stato possa dare ragione a Lo Forte», scrive Palamara. «La pratica – prosegue l’ex magistrato – finisce alla quarta sezione, nel frattempo presieduta da Riccardo Virgilio, che nei racconti di Pignatone è a lui legato da rapporti di antica amicizia». Palamara racconta poi dell’incontro fra Lo Voi e Pignatone una mattina presso la sua abitazione: «Dopo aver lasciato sul tavolo i cornetti che mia moglie ha comprato per gli ospiti, mi allontano per preparare il caffè. Li vedo parlare in maniera molto fitta e riservata. Quando torno a tavola la discussione riprende su tematiche di carattere generale». «Di questo incontro parlo direttamente con Francesco Lo Voi nel mese di gennaio del 2016, in occasione di una sua venuta a Roma. Ci incontriamo nel Caffè Giuliani in via Solferino nei pressi del Csm. Poche settimane dopo arriva la sentenza di Virgilio, favorevole a Lo Voi. Che potrà così insediarsi alla procura di Palermo», aggiunge quindi Palamara. Un episodio poco noto è, invece, la testimonianza di Nicola Russo, il relatore di quella sentenza, davanti al gip del tribunale di Roma Gaspare Sturzo il 5 maggio del 2018. Russo e Virgilio sono stati appena arrestati per corruzione in atti giudiziari. Russo, verbalizza il giudice, afferma di aver ricevuto nel tempo «diverse segnalazioni da generali della guardia di finanza e magistrati».
«Chi sono i giudici che si sono raccomandati?», domanda il pm Giuseppe Cascini, ora consigliere del Csm di Area.
«Sono colleghi, anche pubblici ministeri che lei conosce bene», risponde Russo.
«Io sono interessato a sapere chi sono», replica secco Cascini sentendosi toccato da vicino. Russo nicchia e non risponde.
«Quindi non ci vuole dire chi sono questi magistrati?», insiste Cascini.
«Mi sono pervenute segnalazioni», la risposta generica di Russo.
Cascini, allora, torna alla carica: «Io vorrei che fosse messo a verbale che è stato chiesto di indicare i nomi e che non li vuole fare. Punto e basta».
L’avvocato di Russo si intromette: «Il pm deve sempre trovare una cosa negativa».
Tocca a Sturzo buttare acqua sul fuoco: «Una frase detta così può essere interpretata con la volontà di coprire qualcuno e allora è giusto che il pm faccia domande precise. Il suo cliente non intende fare nomi. Se ci sarà altro il pm andrà a vedere, il discorso finisce qua». Ed è finito veramente quel giorno. A meno che Palamara e Russo non vogliano prima o poi raccontare quello che sanno.
Paolo Comi
Perfetto uomo del compromesso. Chi è Francesco Lo Voi, il nuovo procuratore di Roma. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Novembre 2021. Trasversale, senza spigoli, poco amante della polemica alla Piercamillo Davigo, lontano dai riflettori se non proprio indispensabile, Francesco Lo Voi è il magistrato che accontenta tutti. Ed è perfetto, dunque, per ricoprire l’incarico di procuratore di Roma. Le correnti della magistratura hanno trovato in lui l’uomo del compromesso, quello capace di mettere tutti d’accordo e garantire i delicati equilibri interni (ed esterni) di piazzale Clodio. Quando venne nominato procuratore di Palermo nel 2014, ad iniziare dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano e per finire a Silvio Berlusconi passando per Matteo Renzi, il gradimento della politica era stato unanime. Lo Voi, fino a quel momento membro italiano di Eurojust scelto dal governo Berlusconi, su indicazione dell’allora Guardasigilli Angelino Alfano, anch’egli siciliano, aveva battuto la concorrenza di Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, e Guido Lo Forte, procuratore di Messina, sulla carta più titolati. A differenza dei due colleghi, Lo Voi infatti non aveva mai diretto un ufficio giudiziario. Per Lo Voi, proposto in Commissione per gli incarichi direttivi del Csm da Elisabetta Alberti Casellati (Forza Italia) e dal togato di Magistratura indipendente Claudio Maria Galoppi, esponente della sua corrente, in Plenum votarono per la prima volta in maniera compatta i laici di tutti gli schieramenti (dal Pd al M5s). «Vorrei che tra i criteri di scelta del nuovo capo ci fosse quello di nominare un procuratore disposto a confermare la sua condivisione del processo per la trattativa e dei pm che lo gestiscono», aveva messo le mani avanti alla vigilia del voto l’aggiunto palermitano Vittorio Teresi. Il timore principale fra le toghe del capoluogo siciliano era che potesse in qualche modo raffreddare il furore che accompagnava l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Il Fatto Quotidiano, fra i principali supporter del processo trattativa, spara da subito a palle incatenate contro Lo Voi. La sua nomina a Palermo è viziata dalla politica, dicono dal Fatto, che ha voluto “commissariare” la Procura di Palermo. E spara a palle incatenate anche la sinistra giudiziaria che spingeva per Lari. Lo Voi è «uno che dorme in hotel cinque stelle (a Bruxelles) mentre i suoi colleghi sono qui in trincea a spalare fango», dirà il togato progressista Antonello Ardituro in Plenum. La sinistra giudiziaria cambierà idea nel 2019 quando Lo Voi fece domanda per Roma. «Cascini (Giuseppe, aggiunto a Roma ed esponente di punta della sinistra giudiziaria al Csm) mi disse che loro non avevano assolutamente nessuna voglia di votare Viola (Marcello, procuratore generale di Firenze, ndr), volevano a tutti costi votare Lo Voi», racconterà Antonello Racanelli, ex segretario nazionale di Magistratura indipendente. Dopo aver lavorato come sostituto a Palermo con Gian Carlo Caselli, dove si occupa di mafia, contribuendo all’arresto e alla condanna all’ergastolo di molti boss, da Totò Riina a Leoluca Bagarella, Lo Voi viene trasferito alla Procura generale del capoluogo siciliano. Passerà alla storia il suo rifiuto di rappresentare la pubblica accusa nel processo d’appello a Giulio Andreotti. Eletto al Csm, nel 2006 appoggia Piero Grasso nella corsa alla Procura nazionale antimafia contro il suo ex capo Caselli. E, soprattutto, vota Giuseppe Pignatone come nuovo procuratore di Palermo. Il legame fra i due diventa fortissimo. «Lo Voi? Aveva meno titoli e meno anzianità degli altri: e infatti ha vinto», commentò sarcastico Antonio Ingroia. «Perché ha vinto? Perché al Csm contano di più le regole della politica rispetto a quelle del diritto”, aggiunse l’ex pm. Lari e Lo Forte presentarono ricorso contro la sua nomina. Il tar inizialmente aveva dato ragione ai due. Il Consiglio di Stato, invece, ribaltò la decisione. Paolo Comi
Pronunciare lungo i bordi. La permalosità dei romani e l’incomprensibile strascicato di Zerocalcare. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Novembre 2021. Per dovere sociale ho visto la prima puntata della serie Netflix di cui parlano tutti. E ho trovato la conferma che a Roma pensano davvero che quello scempio della logopedia sia italiano corretto. Mi sono persa tutto il dibattito culturale su Parasite, e quindi non so se all’epoca qualcuno avesse detto che certo, non fosse stato dialogato in una lingua così ostica, avrebbe incassato ancora più soldi; e se a quel qualcuno i coreani offesi avessero risposto ma come ti permetti, il coreano lo capiscono tutti. Confesserei d’averlo all’epoca visto sottotitolato, non temessi che qualche coreano di Roma (ce ne saranno, no?) s’adontasse. La prima volta che ho capito che esistevano le lingue straniere ero alle elementari, seduta sul tappeto del salotto, a guardare con mia madre l’ultimo ritrovato della tecnologia: nastri vhs. Giacché il lettore ce l’avevano ancora in pochissimi, non esistevano aziende italiane che producessero cassette di film. Il negozio di elettrodomestici davanti a casa nostra smerciava nastri artigianali (non ho mai capito come ottenesse i film). La confezione era di cartoncino bianco, il titolo era scritto a penna. I primi a entrare in casa furono E.T., My Fair Lady, Ricomincio da tre, e le commedie di Eduardo (quindi nel Novecento il teatro già veniva filmato: pensa te, che modernità). Non ricordo se mia madre stesse guardando Troisi o De Filippo, quando mio padre passò da quella stanza, diede un’occhiata schifata al televisore, e disse: io non capisco una parola. Sì, lo so: poderosa metafora dell’incomunicabilità matrimoniale tra un brianzolo e una molisana, anticipo di Vita mortale e immortale della bambina di Milano, ma a sessi invertiti. Nel romanzo di Domenico Starnone (lo pubblica Einaudi) è la bambina milanese a esprimersi correttamente, e l’io narrante dell’autore ad avere quei favolosissimi dialoghi con la nonna terrona, «un giorno che mi sentivo triste e le avevo chiesto: commesefàammurí. Lei, che stava spennando la gallina appena uccisa con un gesto brusco e una smorfia disgustata, mi aveva risposto distrattamente: temiéttestisentèrrennúnrispíricchiú. Avevo chiesto: chiú? Aveva detto: chiú». Ma ci stiamo distraendo, non vorrei che perdessimo di vista la piccina – non quella di Starnone, la piccina me. Quella che, sebbene nata e cresciuta in terra di tortellini, era poliglotta senza saperlo. La prima volta che ho capito che esisteva la dizione, avevo appena iniziato il liceo. Un amico mi disse immusonito che mi aveva citofonato (in quegli anni ci si presentava a casa altrui con una disinvoltura che mi vengono i brividi a ripensarci) e gli avevano detto che non c’ero. «Mi ha risposto una napoletana: mi prendi per il culo?». Ero impreparata a questa vibrante accusa, ma abbastanza certa di non convivere con napoletani. Chiesi a papà. «Ma la mamma ha l’accento napoletano?» «Ma no, al massimo un po’ di accento del sud». Mia madre parlava come Biscardi, ma cosa vuoi che ne sapesse mio padre. Lo capii un paio d’anni dopo, frequentando le mie prime lezioni di dizione. La cosa più difficile, spiegò l’insegnante, era sentire l’accento sbagliato. Lei diceva agli allievi che si diceva «perché», non «perchè», raccontò, e quelli rispondevano belli sereni: «E io che ho detto? “Perchè”». Poi mi sono trasferita a Roma, e ho capito che i romani sono davvero convinti che esista l’impero. Se prendi un taxi e dai l’indirizzo in italiano, il tassista non penserà mai tu viva lì ma abbia conservato una dizione civile: penserà tu sia una turista alla quale far fare il giro più largo. Quando sei a Roma, devi fingerti romana. Cioè – nei loro codici – italiana, giacché il romano è inconsapevole di parlare romano. È convinto che quella roba lì che parla lui, quello strascinamento fonetico, quello scempio della logopedia sia italiano corretto. Emanuele Salce, figlio di Luciano Salce la cui madre, Diletta D’Andrea, si mise con Vittorio Gassman quando Emanuele era molto piccolo, racconta un’infanzia stremante in cui lui romanamente ciancicava le parole, e Gassman ripeteva un po’ furente un po’ sfinito: «Le finali!». Capirai, far chiudere l’ultima sillaba a un romano. Poi cosa, levare i portici a una bolognese? Tutto questo per dire che mi sembra molto interessante la campagna promozionale di Strappare lungo i bordi – ultima produzione italiana di Netflix, disegnata da Zerocalcare – ma non avrei mai guardato la serie: se avessi voluto passare i miei cinquant’anni a guardare cartoni animati, avrei fatto dei figli. Ne ho vista una puntata per capire di cosa si sarebbe parlato nei giorni successivi, e ho pensato tutto il tempo a quell’«io non capisco una parola» della mia infanzia. Certo che quel che dicevano i disegnetti sullo schermo lo capivo, ma io mica faccio testo: ho vissuto a Roma diciassette anni, se non avessi capito il romano sarei morta di fame per incapacità di comprendere cosa mi stavano chiedendo alla cassa del supermercato. Naturalmente i romani, che si prendono sul serio in modi che i parigini in confronto praticano il basso profilo, si sono offesissimi per il mio aver notato che, fuori Roma, ci vorranno i sottotitoli. È un’ovvietà: ho molti amici di fuori Roma, dicono di non capire Propaganda – che in confronto al cartone di Netflix sembra una messinscena di Strehler – figuriamoci se capiscono un fumettista che si mangia le parole. Se questa vicenda la sceneggiassi io, a Zerocalcare verrebbe naturale scandire come Carmelo Bene, ma si sforzerebbe di sembrare di borgata: le mancate sillabe finali, come le felpe col cappuccio, servirebbero a dire al suo pubblico «Sono sempre uno di voi». Sarebbe peraltro una sceneggiatura ad alto tasso di verosimiglianza: per uno che ha fatto il liceo allo Chateaubriand, fare quello che è a casa sua solo nelle periferie disagiate è una prova d’attore degna di Marlon Brando. Giovedì, mentre tra gli sfaccendati social vedevo crescere il numero degli indignati in-quanto-romani, in-quanto-fan-di-Zerocalcare, e anche in-quanto-elettori-di-sinistra (giuro: uno mi ha scritto che il mio era un attacco a Zerocalcare, artista di sinistra: ma quelli che hanno deciso di sottotitolare Gomorra altrimenti incomprensibile ai non-napoletani, quelli di che schieramento parlamentare saranno?), ho pensato che per fortuna ce l’aveva già spiegato Starnone. «Madre e figlia si parlavano come nei libri o alla radio, causandomi una specie di languore non per il senso delle parole, che da tempo ho dimenticato, ma per il loro suono incantatore, cosí diverso da quello di casa mia, dove si parlava soltanto dialetto». Non era stizza, non era il solito tamponamento a catena dell’internet, non era eccesso di tempo libero sprecato male: era languore, che li aveva presi per incantamento.
Dagospia il 18 novembre 2021. Dal profilo Twitter di Federico Fubini. Come previsto: dopo il premio per fare il lavoro normale, gli addetti ai rifiuti di Roma strappano quello per non "ammalarsi" (360 euro per zero assenze in 50 giorni, 260 per 3 assenze). Meno faccio più mi devi pagare per fare quindi faccio anche meno così mi devi premiare di più. Il bonus più grottesco è quello da 200 euro per chi, addetto alle pulizie di Roma, non si mette in malattia per più di una settimana nelle prossime sei. Bontà sua. Non fosse un insulto ai romani che lavorano davvero e pagano le tasse comunali più alte d'Italia, sarebbe da ridere. Il premio per “non ammalarsi” agli addetti alle pulizie nella capitale più sporca d’Europa che ha avuto migliaia di morti Covid, decine di migliaia a lottare in ospedale per la vita, migliaia di malati oncologici ad aspettare le cure x mesi, è un’offesa al comune senso di umanità
Rifiuti a Roma, Ama offre bonus ai netturbini per aumentare tasso di presenze. Angelo Piazza su tg24.sky.it il 189novembre 2021. È stato sottoscritto ieri un accordo tra Ama, la municipalizzata dei rifiuti di Roma, e le organizzazioni sindacali dell'azienda a sostegno del piano straordinario di pulizia, richiesto dal sindaco Roberto Gualtieri e varato da Roma Capitale, che mira a ripulire la città entro la fine dell'anno. L’intesa, che scatterà il 22 novembre e terminerà il 9 gennaio, vuole potenziare le attività di igiene urbana incentivando l'aumento del tasso di presenza da parte dei dipendenti Ama attraverso un bonus in busta paga. “Chi non farà alcuna assenza - si legge in una nota dell’azienda - avrà il maggiore incentivo”, pari a 360 euro lordi. E poi via a scalare: 260 euro lordi per chi si assenterà per un massimo di tre giorni da qui al 9 gennaio, 200 euro lordi per chi farà al massimo cinque giorni di assenza. Nessun incentivo, invece, per chi supererà questa soglia. Un accordo che punta dunque ad abbattere l’assenteismo e che, come riporta Repubblica, mette in campo tre milioni di euro. E non sono mancate le polemiche.
Il comunicato di Ama
L’intesa è stata curata dai nuovi direttori Generale, Maurizio Pucci, e vice direttore, Emiliano Limiti, e “segna il nuovo corso delle relazioni industriali del vertice appena rinnovato. L’accordo - spiega la municipalizzata - riguarda tutti i turni di lavoro dei giorni feriali e mira a incentivare i tassi di presenza in tutti i comparti operativi (sedi di zona, autorimesse, officine, impianti, ecc.) per aumentarne la produttività ed efficienza in questo particolare periodo. L'incentivo stabilito è legato alle maggiori presenze garantite. Chi non farà alcuna assenza avrà il maggiore incentivo". In particolare, l’accordo “coinvolge esclusivamente i lavoratori idonei a tutte le attività previste (raccolta, pulizia, spazzamento, rimozione micro-discariche, ecc.) dal piano straordinario di pulizia e a tutte le operazioni di igiene urbana da qui a fine anno. Per rinforzare e potenziare le varie linee operative e le presenze anche nei giorni festivi, sarà siglato un secondo accordo per il quale le parti si incontreranno nuovamente entro la fine di novembre", conclude Ama.
Roma, Angelo Piazza nominato amministratore unico pro tempore di Ama
"Crediamo che sia stato fatto un primo passo importante, dove con uno sforzo comune si gettano le basi per risolvere alcune criticità, e al tempo stesso si creano meccanismi di valorizzazione per chi realizzerà sacrifici straordinari”, commentano il segretario generale della Fit-Cisl del Lazio, Marino Masucci, e il coordinatore Igiene Ambientale della Fit-Cisl del Lazio, Massimiliano Gualandri. Soddisfatto anche il neo Amministratore Unico di Ama, Angelo Piazza: "Ringrazio le organizzazioni sindacali per il contributo importante rappresentato da questo accordo e ringrazio fin d'ora i lavoratori di Ama che in questa fase stanno dispiegando un impegno straordinario per la città”.
Roberto Gualtieri fa ricco il suo staff. Stipendi alle stelle: oltre 200mila euro al capo di gabinetto. Pier Paolo Filippi su Il Tempo il 15 novembre 2021. Quanto a bellezza tra i due uffici non c’è confronto, da una parte lo splendore di Palazzo Senatorio in Campidoglio con affaccio mozzafiato sui Fori Imperiali, dall’altra il cemento del palazzone "fantozziano" di via Cristoforo Colombo. Se poi ci si aggiunge anche un cospicuo aumento di stipendio, allora cambiare lavoro si rivela una fortuna. A fare tombola, passando dalla Regione Lazio a Roma Capitale è Albino Ruberti, nuovo capo di gabinetto «ceduto» dal governatore Nicola Zingaretti al neo sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Per il suo nuovo incarico, infatti, si metterà in tasca il massimo consentito dalle norme, oltre 200mila euro l’anno di cui 69mila di indennità ad personam, circa 14mila in più di quanto percepiva in Regione per ricoprire lo stesso ruolo. Un bel colpo per il 53enne figlio dell’ex ministro dell’Università Antonio Ruberti, che sembra possedere un fiuto particolare per le buone occasioni se già nel 2010, quando era amministratore delegato di Zètema, finì al centro delle polemiche insieme agli altri alti dirigenti del Campidoglio e delle partecipate per gli stipendi faraonici. Ma Ruberti non è l’unico ad aver pescato il biglietto giusto della lotteria. Dello staff più ristretto del nuovo primo cittadino di Roma, infatti, fanno parte anche Giulio Bugarini e Cristina Maltese, entrambi di provenienza Pd. Il primo, consigliere comunale uscente, è stato accanto a Gualtieri per tutta la campagna elettorale ed è stato nominato capo della segreteria con uno stipendio di oltre 113mila euro all’anno, 20mila in più di Salvatore Romeo, primo capo segreteria di Virginia Raggi, il cui stipendio in seguito alle polemiche fu ridotto da 120mila a 93mila euro. Stessa cifra percepirà Cristina Maltese, già presidente del Municipio XII due consiliature fa e adesso nominata segretaria particolare da Gualtieri. Impietoso in questo caso il confronto con chi l’ha preceduta, Fabrizio Belfiori, il giovane segretario particolare della Raggi, il quale guadagnava appena 42mila euro all’anno. È invece di 180mila euro all’anno lo stipendio che prenderà il nuovo city manager (direttore generale) del Comune: 62 anni, dal 2014 amministratore delegato del Poligrafico e Zecca dello Stato, Paolo Aielli è l’uomo scelto da Gualtieri per attuare gli indirizzi e gli obiettivi del Campidoglio secondo le direttive impartite dal sindaco. La cifra percepita per il suo incarico è la stessa che l’ex sindaca Raggi aveva accordato a Franco Giampaoletti, ora dg di Atac. Lo spirito «francescano» della lotta alla casta, alimentato dall’onda grillina di 5 anni fa ma non solo, ormai insomma è un ricordo lontano. Dopo anni giocati in difesa la politica torna al contrattacco, come dimostra anche l’adeguamento delle indennità dei sindaci previsto da una norma contenuta nella manovra varata dal governo Draghi, grazie alla quale i Comuni potranno alzare gli stipendi dei primi cittadini portandoli nel caso dei sindaci delle Città metropolitane e dei Comuni sopra i 500mila abitanti allo stesso livello di quelli percepiti dai presidenti di Regione.
Roma, all’Ama adesso è record di malati. Valentina Dardari il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Dall’entrata in vigore del Green pass, reso obbligatorio per accedere al posto di lavoro, le assenze per malattia sarebbero cresciute del 25%. E l’Inps non fa visite fiscali. Una strana epidemia sembra aver interessato l’Ama di Roma, e si sarebbe propagata proprio dal giorno di entrata in vigore del Green pass, obbligatorio per accedere al posto di lavoro. Le assenze per malattia sarebbero cresciute del 25%, come ha riferito a Il Messaggero l’amministratore unico, ormai uscente, Stefano Zaghis.
Roma in ginocchio anche per il Green pass
L’azienda pubblica deve quindi ora fare i conti anche con il problema delle assenze per malattia, che si va ad aggiungere ai già innumerevoli problemi esistenti, uno su tutti gli impianti fuori città che accettano solo una parte dei camion che arrivano con i rifiuti da smaltire. E così le strade della Capitale assomigliano sempre più a una discarica a cielo aperto, con sacchi dell’immondizia sui marciapiedi e nelle vie. Nessuna zona di Roma esclusa. Per questo problema, già esistente da parecchio tempo, il sindaco neoeletto, Roberto Gualtieri, avrebbe promesso ai suoi cittadini di far sparire la spazzatura dai quartieri entro Natale. Tempo restante: meno di due mesi.
Tralasciando questa urgenza, che sembra poter trovare a breve una soluzione, ecco comparirne subito un’altra. Dall’entrata in vigore del Green pass per accedere al posto di lavoro sono arrivati tantissimi certificati di malattia che certo non aiutano a liberare la città dai rifiuti. Zaghis ha spiegato:“La città non sarebbe in queste condizioni se non ci fosse anche il tema del Green pass e l'aumento delle malattie”. Ha poi continuato snocciolando i numeri: “Mediamente le assenze in questa settimana e in quella passata sono aumentate del 25%, addirittura la prima settimana, quando è scattato l'obbligo, erano cresciute del 35%”.
L'Inps non fa visite fiscali: mancano i medici
Situazione che ha portato la municipalizzata, che conta più di 7mila dipendenti, a chiedere le visite fiscali. Ma non è così facile. L’amministratore unico ha infatti precisato: “Le abbiamo chieste, certo. Ma l'Inps è sommerso da questo tipo di domande da parte delle aziende, perché è un problema che riguarda tante società, non solo Ama. Il risultato è che ne abbiamo ottenute pochissime, di visite, qualche decina al massimo”. Il problema per Zaghis non è la certificazione verde, strumento in questo momento necessario, come lui stesso ha asserito, perché “lo Stato ha deciso che la priorità in tempi di pandemia è la vaccinazione, ma paghiamo anche questo, una minore disponibilità di persone, che impatta sul servizio”.
Per motivi di privacy non ci sono stime ufficiali sui netturbini che ancora non hanno ricevuto il vaccino ma, a sentire i sindacati, sarebbero tra il 15 e il 20%. Anche l'Inps di Roma e provincia non se la passa bene: ci sarebbero solo 130 medici per i controlli, comprese le verifiche dell'invalidità. Neanche Napoli intende più aiutare la Capitale. Lo scorso agosto l’ormai ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ora al suo posto c’è il demo-grillino Gaetano Manfredi, aveva promesso:“Siamo pronti a ricevere 150 tonnellate di rifiuti al giorno dalla Capitale”. Ma subito dopo il voto ecco fare marcia indietro. “Ci hanno comunicato che non riceveranno le tonnellate da Roma. In Campania i nostri camion non sono mai andati” ha reso noto Zaghis.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
I "grandi" immersi nella "grande bellezza". Lorenzo Vita il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Roma appare la scenografia perfetta di un summit in cui tutti sembrano svestire i panni di leader per essere turisti tra le strade della capitale. E la cancel culture sparisce di fronte alla Bellezza. Il lancio della monetina nella Fontana di Trevi segna una delle tappe finali del G20 di Roma. Un vertice che ha l'ambizione di dare un futuro migliore al mondo, ma che per farlo sembra ripartire dal passato, da quel flusso eterno che ha nella capitale tra i suoi simboli migliori e noti. Un punto di partenza o forse una lezione viva e a cielo aperto che i leader del mondo sembrano apprezzare. Immersi nella storia e nella "grande bellezza", come un set cinematografico che riporta Roma a essere città universale, i capi di Stato e di governo girano tra incontri e passeggiate solitarie come turisti affascinati dalla capitale prima ancora che leader con gli occhi del mondo puntati addosso. L'etichetta cede il passo ai gusti, l'importanza dell'incontro arretra di fronte a quello che sembra il vero protagonista del G20: il luogo. Boris Johnson visita privatamente al Colosseo e all'alba di oggi i Fori Imperiali. Jair Bolsonaro si concede passeggiate tra San Pietro e Castel Sant'Angelo. Angela Merkel, che si appresta a lasciare il trono di Berlino a Olaf Scholz, guarda con meraviglia quella fontana dove ha appena lanciato la monetina e tocca l'acqua con le mani come una turista qualsiasi: non una cancelliera, ma una turista come tante che si aggira per le vie di Roma. Narendra Modi e Joe Biden "passano il ponte" e incontrano Francesco, ma con quel senso di visita più personale che pubblica, è Biden il cattolico più che Biden il presidente a voler incontrare Sua Santità. E nella notte da "Doce Vita", Emmanuel Macron e consorte, come Johnson e Charles Michel, scelgono di camminare di notte per le vie di Roma, tra ristoranti tradizionali e passeggiate che qualcuno azzarda anche "romantiche". Se l'immagine tradisce un messaggio, allora forse quello che traspare da questo incontro romano è che ad attrarre i leader del mondo resta sempre l'eterno e il bello. Turisti prima di essere leader, si aggirano per Roma come osservatori che si godono un "Grand tour", pensando davvero di essere nella scenografia di un film e non in un summit che potrebbe decidere questioni fondamentali della società di oggi. Invece la capitale, che tutto assorbe, tutto abbraccia e tutto riesce a sedimentare, sembra quasi scansare questioni momentanee di fronte all'eterno. Tutto passa in secondo piano. Anche i problemi. Forse è solo un'inquietante e per certi versi divertente impressione: ma Roma sembra il set ideale per incontri in cui non si deve e non si può litigare. Oziosa e "cinematografica", la città eterna accoglie gli ennesimi leader della sua storia come accoglieva nobiluomini per il Grand Tour. Mostra la sua parte migliore, annichilisce chiunque pensi di poter contare più di imperatori e Papi, copre quel senso di caos e disordine che la quotidianità fa dire a tanti romani che qualsiasi altra città sarebbe migliore. Un sedativo potente di fronte a un mondo in ebollizione: un divano per mettersi comodi mentre intorno va in scena il disastro. Un film che piace ai turisti: il tipico film che racconta una Roma che non esiste se non nei cuori e nei sogni di tutti, quasi che i romani siano veramente assorti tra le rovine e le chiese e non tra lavoro, traffico e disordine. Eppure, nel rischio di vedere questi leader come tanti "Nerone" che suonano la cetra mentre la città brucia (falso storico che però ormai è diventato icona), un sorriso ce lo strappa proprio questa Roma. Funestati da mode passeggere, influencer, grida scandalizzate per revisionismi e "cancel culture", il mondo si rasserena. C'è qualcosa di più importante, è fuori e prima di tutti. E torniamo tutti a sentirci "nani sulle spalle di giganti". Oppure semplicemente turisti di passaggio in chi ha già visto e assistito a tutto.
Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta tra cuore e testa. Ho scritto un libro: "L'onda turca"
Antonio Crispino per il “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2021. Il Comune di Roma ha un tesoretto di un miliardo di euro che gli deriva dai canoni di locazione che dovrebbe riscuotere per gli immobili di sua proprietà concessi in affitto. Per la precisione, è il monte dei crediti che vanta nei confronti di persone che non pagano o non hanno mai pagato nulla pur occupando legittimamente un alloggio comunale. Peccato, però, che ben 481 milioni di questi soldi siano considerati non più esigibili. È passato talmente tanto tempo che ormai l'amministrazione ha perso le speranze e nemmeno prova più a riscuoterli. Li giudica irrecuperabili poiché i primi atti interruttivi della prescrizione sono stati inviati solo a febbraio 2011. Si tratta di inquilini che hanno maturato un debito monstre, in un caso addirittura di 237 mila euro. Non sempre sono persone indigenti, anzi. Nel caso citato l'inquilino dichiara un reddito annuo di 98 mila euro. E non è l'unico. A pochi passi dalla Basilica di San Giovanni in Laterano abita la signora Rosa, nome di fantasia, che pur guadagnando 68 mila euro l'anno da oltre trent' anni ha deciso di non pagare più l'affitto al Comune. Vive lì dal 1978, originariamente l'alloggio era stato assegnato a una zia a cui è subentrata. Non ricorda quando è stata l'ultima volta che ha pagato un bollettino di conto corrente tant' è che il suo debito sfiora i centomila euro. «Perché non pago? Qui tutti i lavori di ristrutturazione li ho dovuti fare di tasca mia. Vede? Ho cambiato i pavimenti, gli infissi, le porte, tutto di tasca mia. L'Ater non è mai venuta nemmeno quando è crollato il soffitto sulla testa di mia figlia piccola». Il mantra è sempre il solito, lo raccontano tutti gli inquilini morosi: «Poiché il Comune non fa manutenzione ci arroghiamo il diritto di non versargli un euro». Nell'anagrafe degli inquilini si scoprono storie incredibili. Come quella del signor M.D.L., titolare di alberghi a Capri e in Val D'Aosta ma assegnatario di un alloggio popolare a Roma. Oppure quella di G.A., noto proprietario di una catena di supermercati che nonostante le sue ville sparse tra Palermo e Trapani ha avuto bisogno di una casa popolare nella capitale. Poi ci sono quelli che pur abitando in zone assolutamente centrali come Piazza Navona, il Lungotevere, i Fori Imperiali, hanno la fortuna di un affitto concordato a pochi euro. In via del Gonfalone, a pochi metri da Castel Sant' Angelo, il signor Agostino paga 42 euro al mese per un bilocale. Era il badante della vecchia assegnataria e dopo la morte ha preso il suo posto. Si schermisce, sminuisce il valore immobiliare della zona: «Ma no, questa è una brutta zona, ormai interdetta ai più. Lo stesso appartamento era un fienile, se lo vede carino è perché l'ho sistemato io nel tempo». Per un monolocale a 50 metri da casa sua, sempre al piano terra, un'agenzia immobiliare chiede 900 euro al mese. E mentre parliamo è un via vai di turisti con il trolley. «Non ho paura dello sfratto, ho 75 anni, qui abito da una vita e potrei anche avere patologie che impediscono di mandarmi via». Ci confida di essere in trattativa con il Comune per l'acquisto. «Io più di 50 mila euro non lo pago, farebbero bene a regalarceli questi appartamenti, è l'unico modo che il Comune ha per poter rientrare di qualche spesa». Infatti è la linea che le ultime amministrazioni cittadine hanno adottato vista l'impossibilità di far cassa. Come è successo con dei magazzini in via Carlo Cattaneo, di fronte alla stazione Termini di Roma. Fino all'anno scorso Roma Capitale incassava un affitto di 1,31 euro al mese. All'inizio di quest' anno li ha venduti. Non è possibile sapere a quanto poiché il Dipartimento Patrimonio e Politiche Abitative non ha mai risposto alle nostre richieste di informazioni. Molto spesso i dati catastali riportati sul sito del Comune sono errati o incompleti, bisogna ricostruire con fatica dove sono gli appartamenti e chi li abita. Non è difficile credere che ben il 13% degli alloggi pubblici siano occupati abusivamente (percentuale che salirebbe al 22% nel centro storico). Dagli elenchi pubblici, ad esempio, risulta che al secondo piano di piazza Navona 69 ci sia un bilocale, invece si trova al 68 ed è al quinto piano. L'aspetto interessante è che chiunque lo abiti paga al Comune 13,73 euro al mese. Ci aiuta a ricostruire la vicenda Francesco De Micheli, ex consigliere con Gianni Alemanno. Il suo nome risulta ancora sul citofono perché nel 2013 gli fu assegnato un altro appartamento (all'epoca Roma Capitale ne possedeva altri che poi ha venduto) come delegato del sindaco per le Politiche agricole. «Nel 2013, al termine del mio incarico, lasciai l'appartamento, non so perché ci sia ancora il mio nome fuori da quel portone. Ricordo che l'Amministrazione ne possedeva anche altri e già all'epoca si mormorava per i canoni molto bassi che erano stati concessi agli inquilini». Ironia della sorte, De Micheli è titolare di un'agenzia immobiliare. «Se è corretto l'importo indicato sulle tabelle comunali 13 euro al mese per un bilocale a piazza Navona sono ridicoli. Ristrutturato quell'immobile frutterebbe almeno 1.300 euro al mese». Nelle maglie di una simile gestione non poteva non inserirsi la criminalità. Secondo gli inquirenti e le forze dell'ordine ci sono interi quartieri come San Basilio e Acilia dove i clan (per lo più Spada, Bevilacqua e Moccia) organizzano le «assegnazioni» degli alloggi popolari per gestire meglio il traffico e lo spaccio di droga. Il 17 settembre scorso per sgomberare cinque appartamenti occupati da affiliati al clan Moccia è stato necessario mettere in campo cento uomini tra carabinieri, poliziotti e Polizia municipale che all'alba hanno eseguito gli sfratti a Tor Bella Monaca. Nella cosiddetta «Torre della Legalità» altrettante famiglie avevano occupato abitazioni destinate a qualcuno di quei 13.500 in lista di attesa per un alloggio pubblico. Si ritiene che lo abbiano fatto con il placet di Giuseppe Moccia, pregiudicato che dal tredicesimo piano gestiva anche il traffico di droga. Nel suo appartamento, infatti, sono state trovate dosi di hashish, tutto l'occorrente per il confezionamento della droga e 30 mila euro in contanti, probabilmente frutto dello spaccio. Moccia era legittimo assegnatario della casa ma si era dichiarato indigente, da vent' anni non pagava l'affitto accumulando un debito di 70 mila euro che gli è valso lo sgombero.
Case popolari a Roma, in città diecimila abitazioni sono occupate da abusivi. Antonio Crispino su Il Corriere della Sera il 24 ottobre 2021. A Roma ci sono 13.856 famiglie in lista d’attesa per un alloggio comunale. Il 51% di queste sono composte da uno o due persone, la restante parte sono nuclei composti da tre o più familiari. È una differenza non da poco visto che le assegnazioni (sempre in numero molto basso) vengono decise dando precedenza alle famiglie più numerose poiché le case disponibili sono quelle anni ’70, con metrature molto grandi (sono il 41%) mentre scarseggiano gli appartamenti di piccolo taglio. E questo consente agli ultimi arrivati di scavalcare chi invece è in attesa da anni. Ma c’è chi non lo accetta e se non può o non vuole attendere tempi biblici, spesso invano, occupa abusivamente gli alloggi.
Le case in centro
Stime del 2016 indicano in circa 10mila gli alloggi popolari presi d’assalto in questo modo, la maggior parte si trova nel centro storico. Alla fine della prossima settimana si calcola che verranno occupati in media cinque o sei appartamenti e questo nonostante gli investimenti dell’Ater per installare sistemi antintrusione che avvisano qualora venga violata la serratura. Un problema a cui negli anni scorsi si è cercato di porre rimedio con l’ennesima sanatoria. Una legge regionale del luglio 2020, infatti, consente a chi ha occupato casa - fino al 23 maggio 2014 - di rimanerci. Parliamo di occupazioni fatte nelle circa 75mila case popolari (gestite tra Comune di Roma e Ater) per accedere alle quali ci sarebbero dei regolamenti e dei requisiti da rispettare. Poi c’è un’altra fetta di patrimonio immobiliare pubblico per la quale non è chiaro quali siano i criteri per accedere. Sono gli alloggi di cui abbiamo parlato in questi giorni, quelli con affitti stracciati in pieno Centro e gestiti direttamente dal dipartimento Politiche abitative capitolino. Rientrano in questa tipologia l’appartamento di piazza Navona a 13 euro al mese, quello di via dei Fienili a 67 euro al mese così come quello in viale Giuseppe Mazzini a 23 euro al mese.
L’accordo inutile
«Dieci anni fa i sindacati inquilini firmarono un accordo per ricontrattualizzare tutti gli inquilini aggiornando i canoni di affitto e mandare via chi non aveva diritto, ma il comune di Roma non ha mai scritto nessun regolamento su come si accede in queste case. Così ci si è affidati alla discrezionalità del dipartimento Patrimonio che ha locato a chi voleva e ai prezzi che voleva» denuncia Massimo Pasquini, già presidente dell’Unione inquilini, che negli anni scorsi propose anche di disdire i contratti di affitto (anche in presenza di disabili o anziani) o di non rinnovarli nei casi in cui si trattasse di canoni irrisori. Rincara la dose l’attuale segretario dello stesso sindacato, Guido Lanciano: «La sindaca Raggi non ha voluto applicare l’accordo firmato con Marino che prevedeva un sensibile aumento per chi aveva un reddito alto e canoni calmierati per quelli più bassi». Fatto sta che mentre l’Ater si affanna a sgomberare gli alloggi occupati (da giugno ne ha recuperati una quindicina) poi il Comune non procede alle assegnazioni. Così facendo gli alloggi restano vuoti il tempo necessario per essere rioccupati, molto spesso dai clan mafiosi romani e non solo. Durante l’amministrazione comunale guidata da Marino c’era una task force dedicata agli sgomberi. Non se ne sa più nulla.
Antonio Crispino per "corriere.it" il 24 ottobre 2021. In via dei Fienili, 60 il Comune di Roma possiede due appartamenti. In quello al secondo piano ci abita una signora anziana, disabile, che da sempre ha concordato un canone di affitto molto basso, ritenuto adeguato alla sua condizione di salute: 286 euro all’anno, poco più di 20 euro al mese. Ormai da tempo i funzionari del Comune cercano di convincerla a trasferirsi in un altro alloggio più periferico ponendo rimedio a quello che è considerato un errore di gestione degli immobili comunali. Infatti, via dei Fienili è quella strada che affaccia proprio sul Parco archeologico del Colosseo. Salendo all’ultimo piano del palazzo al civico 60 si ha una veduta spettacolare sul Foro Romano, l’area archeologica che testimonia il cuore pulsante dell’antica Roma. Se il Comune affittasse quell’appartamento a prezzo di mercato non incasserebbe meno di 1.400-1.500 euro al mese e, infatti, l’idea del Dipartimento Politiche Abitative sarebbe quella di reinvestire questi soldi nelle politiche sociali, sicuramente riuscirebbero ad aiutare più persone. Tuttavia, ogni proposta è sempre stata rigettata al mittente. «Ho sempre abitato qui e da qui non me ne vado», risponde la signora da dietro al portantino di ingresso che non apre mai se non quando arriva l’assistente sociale, anche perché il condominio non è dotato di ascensore e le scale sono molto ripide. Così, anche l’inquilina al piano terra, anch’ella con un canone agevolato (67 euro al mese) le fa eco: «Se è riuscita a restare lei non vedo perché dovrei andarmene io».
Debito da 237 mila euro
Se l’amministrazione capitolina non riesce a fare tesoro del suo patrimonio immobiliare non è solo a causa di gestioni come queste ma anche perché non ha un’anagrafe degli inquilini e degli immobili aggiornata e non riesce a stabilire con certezza chi abita in un determinato alloggio. Così succede che chi dovrebbe lasciare un appartamento (perché ormai non ne ha più i requisiti) continua ad occuparlo. Se non lui, i suoi parenti. E chi dovrebbe pagare il canone concordato semplicemente non lo fa. Ecco perché i crediti del Comune — al 31 agosto scorso — ammontano a 1.064.870.403 euro. Tra i morosi ci sono persone assolutamente in grado di pagare, come la signora R.S. che nell’ultima dichiarazione dei redditi ha riportato entrate per 182 mila euro. Nonostante tutto ha aperto un contenzioso con Ater (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale pubblica del Comune di Roma) per affitti non versati che raggiungono la somma stratosferica di 113 mila euro. E c’è chi ha fatto peggio. Il signor O.A. con un reddito di 98 mila euro all’anno ha un debito con l’Ater di 237 mila euro, in pratica non ha mai pagato una rata. Somme che l’Ater pensa ancora di poter incassare e che a settembre scorso ha inserito in un piano speciale di recupero delle morosità. L’ennesimo piano messo a punto nel corso degli anni che dovrebbe portare a entrate pari a 330 mila euro. Tanti soldi ma non quanti il Comune di Roma considera ormai persi: 481.944.357 euro.
Alberghi a Capri
Una verifica, infine, andrebbe fatta su coloro che occupano gli alloggi pubblici ma non ne hanno più titolo, ad esempio perché hanno superato la soglia di reddito prevista dal regolamento comunale. Chi, come il signor M.D.L. è proprietario di alberghi a Capri o come A.G. titolare di una catena di supermercati in Sicilia, non dovrebbe avere diritto a una casa popolare. Passeggiando per le strade di Cortina d’Ampezzo e arrivati al Largo delle Poste si trova un raffinato negozio di parrucchiere per donne. Per un taglio si parte da 80 euro e si accede solo su prenotazione, anche prima del Covid. La stessa catena di coiffeur si trova a Roma, in via di Ripetta. Qui è passata l’alta società di Roma, da Marta Marzotto a Marina Ripa di Meana passando per gli Agnelli, i Benetton e i Montezemolo. La moglie del parrucchiere ha un alloggio popolare nelle case Ater in via del Commercio, 12.
I Casamonica
Nei rari casi in cui l’Ater o il Comune riescano a rientrare nella disponibilità dell’immobile non si procede a una nuova assegnazione. Questo lo ha capito bene la mafia romana che ne approfitta sistematicamente. Nel quartiere Spinaceto, precisamente in via Salvatore Lorizzo, è Romolo Casamonica a fare il bello e il cattivo tempo. Decide lui gli appartamenti da occupare. La settimana scorsa gli agenti della Polizia Locale hanno liberato una decina di alloggi, uno dei quali occupato dalla sua compagna e un altro da una ragazza al settimo mese di gravidanza. «È incredibile il numero di appartamenti che abbiamo trovato occupato da donne incinte», dicono dall’Ater. E, in effetti, è il sistema adottato dagli Spada, Casamonica, Bevilacqua. Vanno alla ricerca delle case popolari vuote, di notte sfondano la porta e ci mettono dentro una donna in gravidanza o una coppia di anziani, più difficili da sgomberare. La domanda a cui il Comune non risponde è: come mai ci sono alloggi vuoti nonostante le 13 mila persone in lista di attesa? Basti pensare che le case sgomberate il 17 settembre scorso e sottratte agli uomini del clan Moccia nella cosiddetta Torre della Legalità a Tor Bella Monaca ad oggi sono ancora vuote e in attesa di assegnazione.
La notte del ghetto di Roma: il grande racconto di Alberto Angela. Il 16 ottobre 1943 le SS invadono il Portico di Ottavia e catturano più di 1000 persone tra cui 200 bambini. Solo in 16 si salveranno. Ecco il racconto di quelle ore. Per non dimenticare mai. Alberto Angela su La Repubblica il 15 ottobre 2021. Roma, 15 ottobre 1943, poco prima della mezzanotte cade una pioggia sottile sulle strade vuote. L'umidità si srotola sul selciato come un tappeto sottile e si arrampica sui muri delle case. Dietro quei muri, occhi spalancati di persone - donne, uomini, bambini - spaventate dal rumore improvviso di spari e di detonazioni. Più della paura è l'incredulità a stringere una morsa al collo degli abitanti dell'ex ghetto di Roma.
Storia. Qual è l'origine della parola ghetto? Dal I secolo avanti Cristo alla storia moderna e contemporanea una parola accomuna tutte le epoche: ghetto. Ecco da dove nasce. Da Focus.it. La parola ghetto è utilizzata a partire dall'inizio del sedicesimo secolo: deriva dal veneziano "ghèto", che significa fonderia - il luogo dove si "gettava" il metallo. Il termine in un primo tempo designava perciò il quartiere delle fonderie a Venezia, che era anche quello dove si erano stabiliti gli ebrei. In seguito con la stessa parola sarebbero stati indicati i quartieri abitati, più o meno coattivamente, dagli ebrei. Il principio del ghetto è però di gran lunga anteriore alla coniazione del termine. Infatti già nel I secolo avanti Cristo i romani praticavano la segregazione razziale separando gli ebrei dal resto della popolazione. Il Medio Evo, dal canto suo, convalidò questo stato di fatto e accentuò ulteriormente la discriminazione relegando gli ebrei ai mestieri della finanza, che all'epoca erano considerati degradanti. Sebbene la segregazione degli ebrei sia stata abolita al tempo della Rivoluzione francese, i nazisti ricrearono un ghetto a Varsavia, dove fecero confluire mezzo milione di Ebrei, poi deportati nei campi di concentramento. In Italia i ghetti furono decine, da Firenze a Ferrara, da Modena a Venezia, da Ancona a Mantova, da Trieste a Gorizia. Per tre secoli, dal '500 all'800, la vita nei ghetti fu segnata da ogni possibile vessazione: pagare le guardie interne, esercitare due soli mestieri (commerciare stracci e prestare denaro, quest'ultimo perché vietato ai cristiani), portare un segno distintivo, assistere alle prediche conversionistiche, mantenere la casa dei catecumeni (gli ebrei convertiti). Le restrizioni variavano a seconda delle circostanze politiche o economiche, dei rapporti tra Stati e Chiesa. In alcune città, come Milano, un ghetto non ci fu mai perché agli ebrei era vietato soggiornarvi. A Livorno, invece, i Medici concessero agli ebrei ogni libertà perché con i loro commerci arricchivano la città. Nel 1569 Pio V ordinò agli ebrei dello Stato della Chiesa, salvo quelli di Roma e Ancona, di lasciare le loro terre. Molti emigrarono negli Stati vicini, altri si rifugiarono nelle due città e nei loro nomi rimase il ricordo di quella espulsione: Di Cori, Di Nepi, Ravenna, Modena, Tagliacozzo. L'ultimo ghetto, a Roma, fu abolito nel 1870 sebbene l'area intorno alla Sinagoga venga ancora chiamato così. E fu soprattutto in quella zona che la mattina del 16 ottobre 1943 le SS iniziarono il rastrellamento degli ebrei romani per deportarli ad Auschwitz.
Il vestitino di Emma deportata nel lager. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2021. Aveva due anni, fu una delle 1024 persone rastrellate dal ghetto il 16 ottobre del ‘43: morì ad Auschwitz con suoi i genitori. Elisabetta invece riuscì a salvare i suoi tre bimbi grazie a un tassista. Siamo nella mattinata del 16 ottobre del 1943. In tutta Roma, non solo al ghetto, gli ebrei vengono sequestrati dai nazisti. Vengono portate via dalle loro case 1024 persone. Tra di loro 200 bambini. Torneranno in sedici. Una sola donna e nessun bambino. Ieri è stata presentata con la comunità una nuova iniziativa del Museo della Shoah che ha installato nella sua sede e dal 27 gennaio renderà disponibile in rete una mappa interattiva della deportazione di ottobre. Dal sequestro delle persone alla loro permanenza al collegio militare, dal viaggio verso lo sterminio al ritorno dei sopravvissuti. Memoria non solo della grande Storia ma delle storie di quegli esseri umani la cui vita fu spezzata quel giorno del 1943.
Il vestitino della cuginetta
Lorella Zarfati un giorno, dopo la morte di sua nonna Emma Ajò Calò, ha trovato in un cassetto della sua casa una federa ingiallita dentro la quale c’era un vestitino da bambina. Era quello della sua cuginetta, Emma di Veroli, e le era stato donato quando aveva compiuto quaranta giorni. La bambina era del 1941. In quel maledetto ottobre aveva dunque due anni. Sua mamma era una ragazza di 23 anni. Si chiamava Grazia Ajò Di Veroli e si era sposata con Mario. Erano una coppia bella, di ragazzi che sognavano il futuro. Quella mattina Mario e la bimba sono nella piazza di Monte Savello. I tedeschi li prendono e li caricano sui camion della deportazione. Nel caos di quei momenti qualcuno avverte Grazia che scende da casa disperata alla ricerca dei suoi cari. Li vede sul mezzo tedesco e non ci pensa un istante, chiede di salire per restare con loro.
Destinazione Auschwitz
Tutti cercano di mettersi in salvo, Grazia, ragazza ebrea, non può immaginare di sopravvivere senza suo marito e sua figlia. Come tutti gli altri arriveranno ad Auschwitz, dopo la breve permanenza al collegio Militare e il lungo viaggio nei vagoni piombati. Giunti al campo di sterminio la mamma e la figlia verranno passate subito per la camera a gas. È trascorsa solo una settimana da quella mattina nel ghetto. Mario, invece, distrutto dal dolore e dalla fatica, morirà qualche mese dopo. Anche il padre di Grazia ed Emma, si chiamava Giacobbe, verrà ucciso ad Auschwitz-Birkenau. Era un ambulante, uno dei tanti mestieri che gli ebrei, dopo le infami leggi del 1938, non potevano più esercitare. Fu arrestato nell’aprile del 1944 e portato a Fossoli. Di lì poi trasferito con i viaggi della morte al campo di sterminio, dal quale non è mai tornato.
La follia nazista e il collaborazionismo fascista
Se si scorre l’elenco delle vittime della deportazione del 16 ottobre si troveranno ripetuti i cognomi di famiglie sterminate dalla follia nazista e dal collaborazionismo fascista. In molti quartieri di Roma case sono state svuotate, e persone sono sparite, inghiottite dalla macchina di morte dell’occupante. A Roma dunque si sapeva cosa stava succedendo. Lo sapevano certamente i fascisti, che collaborarono attivamente. Assai probabilmente Mussolini era stato informato ed aveva dato il suo assenso visto che il giorno prima aveva ricevuto, come risulta dall’elenco delle udienze a Villa Feltrinelli, i vertici dell’occupazione tedesca come il generale Wolff, comandante supremo delle SS in Italia, e Moellhausen. console generale di Germania. Difficile pensare che i due rappresentanti del Fuhrer gli abbiano taciuto l’operazione che da lì a poche ore avrebbe preso il via.
Emanuele di Porto, che a 12 anni non rivide più la madre
Ma c’erano anche italiani veri. Lavoratori che in quelle ore rischiarono la pelle, come faceva chi per scelta aveva deciso di combattere dalla parte della libertà. Emanuele di Porto, che allora aveva dodici anni, disubbidì alla madre che gli aveva ordinato di restare a casa. Lei sarebbe corsa ad avvertire degli eventi il padre che dalle tre del mattino era al lavoro alla Stazione Termini. Ma Emanuele disobbedì, scese in strada e vide la madre già sequestrata sul camion. «Ero affacciato alla finestra. Ho visto quando l’hanno presa e costretta a salire su un camion. Sono corso da lei e sono salito sul mezzo ma mi ha spinto giù dal camion. Non l’ho più vista». Salirà su un tram, una delle «circolari», e dirà al fattorino quello che sta accadendo al ghetto. E così per due giorni interi quel ragazzino resterà seduto accanto ai bigliettai che, pur cambiando di turno in turno, si tengono vicino quel bimbo che non conoscono. Rischiano, mossi solo da pietà.
I malandrini di Trastevere
Lorella Zarfati racconta di una sua zia, Elisabetta Ajò, che, saputo quello che stava succedendo alla sua famiglia e alla comunità, prese i suoi tre bambini e si mise su Via Marmorata, nel quartiere di Testaccio. Fermò un taxi e disse, forse imprudentemente, al guidatore che era ebrea e che non sapeva dove andare. Il tassista non la denunciò, non incassò le cinquemila lire della delazione, ma la tenne per tutto il giorno sulla sua auto. Le fece girare Roma e poi la sera la portò a casa e la fece dormire con i tre bambini in cantina. La nonna di Lorella riuscì invece a sopravvivere alla razzia perché si riparò nell’appartamento che stava al primo piano dell’edificio in cui suo padre esercitava il mestiere di sfasciacarrozze. Era una casa di tolleranza. Ma la tenutaria le ricoverò e la sera, quando arrivavano i nazisti per divertirsi, nascondeva la famiglia in uno sgabuzzino con la raccomandazione del silenzio assoluto. I «ladri e le puttane» diceva Lucio Dalla. E nel racconto di Lorella entrano così anche i malandrini di Trastevere. Suo nonno paterno Pellegrino Zarfati quella mattina del 16 ottobre vide due macchine nere e scorse i camion in strada. Prese la famiglia e scapparono su per i tetti. Ma non sapevano come sopravvivere. Allora si rivolse al ladro del quartiere, il più celebre, e gli chiese dei soldi in cambio del poco oro sfuggito alla colletta fatta dalla comunità ebraica per ottemperare alla richiesta — all’inganno — dei nazisti che obbligarono gli ebrei romani a pagare in cambio della promessa salvezza della vita. Il ladro guardò Pellegrino e rifiutò l’oro. Gli diede il corrispettivo in soldi ma non volle nulla in cambio. Il nonno di Lorella gli disse che non sapeva se sarebbe tornato. Anzi, non sapeva se sarebbe sopravvissuto. Il ladro di Trastevere gli disse solamente: «Zarfati, tu devi tornare, perché mi devi restituire i soldi».
Corviale, la periferia di Roma con l’astensionismo record. «Qui la politica viene solo a fare le sfilate». Doveva essere una città nella città. Ma è diventato solo un luogo di solitudini. «Ci sono quaranta libri di architettura su questo posto e neanche uno di sociologia. Di cosa abbiamo bisogno? Di un progetto». Francesca Mannocchi su L'Espresso il 19 ottobre 2021. Miriam voleva diventare una parrucchiera. Di quel desiderio, oggi, resta il ciuffo viola dei capelli. Ha tre figli, Mattia di otto anni, Michelle di sei e il più piccolo, Manuel, di tre. Sono due anni che prova a iscriverlo al nido ma non c’è posto, così le sue giornate trascorrono prendendosi cura di lui finché i grandi sono a scuola e poi prendendosi cura di tutti, in casa. Perché i soldi per gli sport e le attività pomeridiane a casa di Miriam non ci sono. Suo marito fa il muratore, in nero, porta a casa più o meno ottocento euro al mese. Arrivano a 1.300 con gli assegni familiari. Tolto l’affitto, le bollette, la spesa, qualche soldo da mettere da parte per l’assicurazione della macchina e gli imprevisti, non resta niente. Per questo Miriam oggi evita anche di andare al mercatino di quartiere, il sabato, coi bambini. È stanca di dire sempre «purtroppo questa cosa non si può fare». Fino allo scorso anno, prima che suo marito perdesse metà dei lavori saltuari che faceva, il welfare di casa era sua nonna. Bussava la mattina, due volte a settimana dopo essere andata a fare la spesa e lasciava la frutta e un po’ di carne per i bambini. Di tanto in tanto anche un po’ della pensione. Il Covid-19 l’ha portata via la scorsa primavera, oggi al quattordici del mese Miriam fa i conti con trecento euro che le restano da spendere prima che il mese finisca: «Ho bisogno di lavorare, mi accontenterei di tutto, le pulizie, lavare le scale. Sono stanca di dire ai bambini che non possiamo dargli quello che desiderano». L’ultima volta che ha fatto un viaggio è stato dieci anni fa, tre giorni in viaggio di nozze a Venezia. Poi niente più vacanze, qualche giorno d’estate al mare a Ostia, partendo la mattina e tornando la sera. Il futuro per lei è il sogno di portare i bambini al mare in vacanza d’estate «come tutti gli altri» e magari, un giorno, avere un pezzo di terra da coltivare invece di avere intorno il cemento. Miriam vive a Corviale. Qui è nata, cresciuta, qui è rimasta a vivere dopo il matrimonio. Alla parola «politica» le si irrigidisce il viso. «La politica dovrebbe dare modo a una donna come me di portare i bambini a fare una passeggiata e comprare loro un gelato. La politica invece oggi mi obbliga a dire ai miei figli, sempre, mamma e papà non se lo possono permettere. La politica, a Corviale, viene solo a fare le sfilate». Due settimane fa, al primo turno, l’affluenza a Roma rispetto al 2016 è crollata. Ed è crollata soprattutto in periferia. Nel decimo municipio (Ostia e Acilia) e nell’undicesimo (Magliana e Corviale), l’affluenza è stata del 46 per cento, cinque punti meno di cinque anni fa. Allora la sindaca uscente Virginia Raggi aveva raccolto rispettivamente il 76 per cento e il 68 per cento delle preferenze nei due municipi. Di quel voto che univa speranze e proteste, oggi, a Corviale resta la disillusione. Nato quarant’anni fa per garantire un alloggio a chi a Roma ancora viveva nelle baracche, Corviale è oggi un luogo di solitudini. Un edificio imponente, lungo un chilometro e alto nove piani, che è valso alla struttura il nome di Serpentone. L’architetto Mario Fiorentino l’aveva progettato dicendo di essersi ispirato agli acquedotti romani che si stagliavano nella campagna romana. Voleva creare una città nella città, avrebbe dovuto, nell’idea iniziale di urbanistica a scopo sociale, dare alloggio a quattromila famiglie e offrire loro luoghi di aggregazione a cui sarebbero seguiti i servizi, mezzi pubblici, scuole, teatri, biblioteche. Un nuovo modo di pensare l’alloggio, un nuovo modo di pensare la periferia. Qualcosa, però, nell’urbanesimo collettivo di Corviale è andato storto e, già nella metà degli anni Ottanta, la gran parte dei luoghi pensati come luoghi aggregativi, il quarto piano destinato idealmente a negozi e spazi comuni, erano stati occupati abusivamente, perché a Roma la politica ha smesso di pensare all’edilizia popolare. Anche Adriano Sias è nato e cresciuto qui. Quando era ragazzino doveva fare chilometri a piedi per arrivare a scuola. Poi le lotte degli abitanti hanno fatti sì che a Corviale arrivassero i mezzi pubblici, le fermate dell’autobus, la biblioteca. Oggi è presidente dell’associazione Inquilini Corviale e osserva la regressione del quartiere: «Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila avevamo un centro permanente di incontro, una biblioteca, la Banca del Tempo, un centro di formazione professionale che ora è in disuso, ci piove dentro. C’era il mercato, ma l’hanno chiuso. La scuola dovrebbe essere ristrutturata, è chiusa pure quella». Cammina lungo la via che costeggia il Serpentone: «Guarda là, se vuole costruire il privato trovi un palazzo di sei piani pronto in sei mesi, lo Stato, il padrone di casa della gente che vive nelle case popolari, invece, è assente». Oggi Corviale non è più densamente popolato come prima, chi ha potuto farlo è andato via. Anche Adriano è andato via, qualche centinaio di metri più in là: gli spettava una casa popolare grande, «ma non c’è cura qui e non volevo far crescere i ragazzini con la sensazione che hai una casa di cento metri quadrati ma sei solo, perché il cemento ti mangia l’anima». Restano molti anziani, qui, spesso murati in casa per giorni interi, perché gli ascensori sono vandalizzati dalle gang del quartiere, «gli anziani chiamano l’Ater e si sentono rispondere che le segnalazioni sono aperte e si vedrà, così un pensionato che vive al nono piano può aspettare anche quattro mesi per un tecnico che ripari gli ascensori. Forse non trovano Corviale sulla mappa, forse, come i politici, per arrivare qui hanno bisogno del Gps», dice senza celare un’amara ironia. Adriano dice che tutti quelli che arrivano a Corviale parlano del palazzo, e non parlano mai delle persone: «Ci sono quaranta libri di architettura su questo posto, e non c’è un libro di sociologia. Ma qui ci vivono le persone. Il cemento si è mangiato la vita, le storie delle persone». Cammina lungo i corridoi al piano terra che uniscono le torri e ripete molte volte: «Lo senti quanto pesa il cemento? E sai che succede sotto questo peso? Che si ammutoliscono le voci e la voce di chi vive qui, se non la vieni a cercare, non esce. Questo è, o almeno dovrebbe essere, il dovere della politica, venire qui a cercare le voci che non escono, che, se non vengono ascoltate, restano voci di solitudini». Nel 2016, a cavallo della precedente campagna elettorale, Salvatore Monni, professore associato presso il dipartimento di Economia a Roma 3, Keti Lelo, ricercatrice di storia economica a Roma 3 e Federico Tommasi, dirigente all’Agenzia delle entrate ed esperto del Comitato economico e sociale europeo a Bruxelles, hanno fondato il sito Mapparoma. La narrazione di Roma che li circondava non corrispondeva alle loro ricerche di studiosi, così hanno unito il rigore scientifico alla passione civile e oggi, dopo cinque anni, le loro ricerche sono diventate un libro, “Le mappe della disuguaglianza, Una geografia sociale metropolitana”, uscito per Donzelli Editore. I numeri non ingannano e i numeri sanno anche essere descrittivi, il risultato è il resoconto di una città diseguale non solo in termini di reddito ma soprattutto in termini di opportunità. Scrivono gli autori: «A Roma convivono due città: una capace di cogliere le opportunità della crescita. E una esclusa da tale sviluppo. Una città dove i tassi di scolarizzazione somigliano più a quelli del nostro Mezzogiorno più profondo che a quelli che ci aspetteremmo nella capitale d’Italia». La Roma disegnata dalle mappe dei tre analisti è una città in cui le opportunità dipendono dall’ambiente in cui vivi, e in cui la distanza dal centro era, resta e diventa sempre più una distanza sociale. In cui allontanarsi dal centro della città significa non avere accesso ai mezzi pubblici su ferro, ai cinema, alle attività culturali e agli spazi di aggregazione. Una città in cui lo scarto della scolarizzazione può raggiungere differenze enormi: il 42 per cento dei residenti laureati ai Parioli, a fronte del 5 per cento di Tor Cervara. Uno scarto di otto volte. Vivere nella Roma delle disegualianze significa vivere in una città in cui l’urbanizzazione esponenziale non corrisponde a una reale crescita demografica e in cui, sempre più spesso, famiglie giovani, economicamente fragili, tendono ad allontanarsi da zone sempre meno abbordabili. Il risultato di questa urbanizzazione sono quartieri isolati, cittadelle di cemento circondate da campi agricoli in cui gli unici luoghi di incontro sono i centri commerciali. Quartieri di solitudini in cui la carenza di opportunità porta isolamento, che a sua volta porta alla radicalizzazione del conflitto sociale, che a sua volta porta alla discriminazione. Di fronte al lotto uno del Serpentone c’è un grande cancello. Sopra c’è scritto: «Vince solo chi custodisce». È la sede del Calciosociale di Corviale, l’ha pensato Massimo Vallati, un passato in curva, poi in polizia, fino al 2005, quando realizza che quello che ha visto fino a quel momento non corrisponde all’idea di sport che ha in testa e che segue parole chiave diverse: accoglienza, rispetto delle diversità, della corretta crescita della persona e del rapporto sano con la società. Oggi il Campo dei Miracoli non è solo una scuola di calcio per i ragazzi di Corviale, è la porta a cui bussa chi ha bisogno di un supporto legale, di un aiuto per una doccia, un pacco di pasta, il luogo di aggregazione di vulnerabilità tenute insieme da una visione pedagogica dello sport. Qui ragazze e ragazzi tirano calci al pallone seguendo regole rivisitate: non esiste l’arbitro, ogni giocatore deve imparare a essere responsabile, il calcio di rigore viene battuto dal giocatore meno forte, non ci sono squadre più forti, tutti hanno la stessa possibilità di vincere. È da questo spazio aperto a tutti i bambini e le bambine del Serpentone, che Massimo Vallati osserva la città: «Roma oggi è una città in cui nascere in un quartiere o in un altro significa avere meno istruzione, contrarre meno malattie, avere un’alta o bassa aspettativa di vita. Questa è la Roma che va a votare, una città il cui il tuo destino è legato alla fortuna di nascere in un quartiere centrale o in periferia». Ha accanto Romina, è sola con tre figli, sua madre malata e alcolizzata li ha sbattuti fuori di casa. Una delle case popolari di Corviale. Da cinque giorni dorme sulle sedie del pronto soccorso all’ospedale Umberto I e i suoi figli ospiti da parenti. Fa la cassiera, guadagna 800 euro e ne spende 250 di benzina per arrivare al supermercato dall’altra parte di Roma. Nessuno le affitta una casa, d’altronde non avrebbe un soldo per la caparra. Ha bussato alla porta del Calcio Sociale per un aiuto, una doccia. Di lui si fida, perché i suoi figli da anni giocano gratis a pallone al Campo dei Miracoli. In più di dieci anni Massimo ha ascoltato i proclami della politica, un apparente, rinnovato interesse per le periferie, eppure, dice, «a questo interesse spesso corrispondevano finanziamenti sbagliati, soldi usati male dai professionisti della rendicontazione. Per ripensare la città serve una visione, un’idea che superi la campagna elettorale, qui la gente non sta aspettando qualcuno che vinca le elezioni, nemmeno Churchill rimetterebbe in sesto Roma in cinque anni, questi pezzi di Roma hanno bisogno di qualcuno che abbia un progetto per la città per i prossimi venti o trent’anni. Non solo per la campagna elettorale che finisce».
Lorena Loiacono per leggo.it il 27 ottobre 2021. Sono andati a votare e, una volta rimasti soli nell’urna, hanno deciso di non indicare né il nome del sindaco prescelto, né la lista e neppure la preferenza per uno o più dei candidati al consiglio comunale. Può succedere, certo, ma questa volta sembra essere accaduto in intere sezioni elettorali (circa 1.000 votanti l’una) dove, in base ai verbali, tutte le schede sarebbero uscite senza alcuna indicazione di voto. Incredibile a credersi, tanto che stanno già partendo i ricorsi da parte dei candidati esclusi per una manciata di voti dall’aula consiliare Giulio Cesare. Negli allegati del documento dell’Ufficio centrale per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale, infatti, ci sono gli elenchi delle sezioni che hanno presentato i verbali con i voti andati a vuoto. “Nel corso delle operazioni – si legge nell’allegato A – l’Ufficio ha riscontrato la presenza di un numero elevatissimo di verbali che presentavano anomalie. In decine di verbali di sezione non sono stati compilati i prospetti dei voti, pur emergendo che le operazioni di scrutinio erano state compiute”. L’ufficio elettorale ha così ritenuto necessario completare i dati acquisendo quelli presenti in altri atti, come nelle tabelle di scrutinio. Lascia perplessi l’alto numero di verbali “sballati”: l’elenco riportato dall’ufficio elettorale segnala ben 204 sezioni, con verbali non completati, quasi una su 10 rispetto alle 2600 totali. Qualche esempio? Le 21 sezioni senza i voti di preferenza, 6 sezioni senza voti di lista e di preferenza e 27 sezioni addirittura senza i voti ai candidati sindaco, i voti di lista e le preferenze per i consiglieri. Nell’ultimo caso, considerando che ogni sezione ha 1000 elettori circa e che ha votato il 50%, praticamente secondo i verbali ci sarebbero stati 13.500 cittadini che sono andati a votare per lasciare tutti insieme la scheda del Comune tutta in bianco. I verbali si riferiscono al primo turno, quando non solo si è deciso chi sarebbe andato al ballottaggio ma anche le liste dei consiglieri: alcuni sono rimasti fuori per pochi voti e ovviamente faranno ricorso.
"Ma rimango a disposizione di Roma". Enrico Michetti si dimette da consigliere dopo 2 settimane: “Continuerò a offrire il mio contributo civico”. Gianni Emili su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. “Resterò sempre e comunque a disposizione di Roma Capitale per quelle che sono le mie specifiche competenze e senza che ciò comporti alcuna spesa a carico delle casse comunali”, ha spiegato Enrico Michetti, ex candidato del centrodestra come sindaco di Roma sconfitto da Roberto Gualtieri che lascia la carica di consigliere comunale dopo sole due settimane dalla nomina. Il tribuno concentrerà nel suo ruolo di presidente della Fondazione Gazzetta Pubblica Amministrazione: “La mia decisione di dimettermi dalla carica di consigliere comunale nasce dalla sempre più pressante consapevolezza dell’importanza di continuare ad assicurare in via prioritaria la formazione, l’aggiornamento e l’assistenza ad amministratori e funzionari pubblici. Un ambito a cui dedicherò il massimo impegno per proseguire il percorso di valorizzazione delle risorse umane della Pubblica Amministrazione”. “In tal modo – continua l’ex consigliere – anche nella qualità di presidente della Fondazione Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana, potrò continuare ad offrire un contributo civico alla buona amministrazione, indubbiamente superiore rispetto a quanto potrei garantire ove assumessi il ruolo politico di consigliere di opposizione. Nel ringraziare infinitamente tutti coloro che mi hanno sostenuto resterò, con pieno senso di responsabilità, sempre e comunque a disposizione di Roma Capitale per quelle che sono le mie specifiche competenze e senza che ciò comporti alcuna spesa a carico delle casse comunali”, conclude Michetti. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha affermato di non essere pentita della scelta di Michetti come candidato “ma dei tempi di scelta dei candidati sindaci del centrodestra sì… Non ho nulla da dire sui profili dei nomi, ma sui tempi invece…”. Lo ha detto Giorgia Meloni al ‘Salone della Giustizia 2021’. Fratelli d’Italia ha anche sostenuto la campagna di Michetti con un esborso complessivo per la campagna elettorale di 150mila euro mentre dalla Lega non sarebbe arrivato alcun contributo. Gianni Emili
alenda: "Al mio posto entra giovane preparato"
Di Battista contro Michetti e Calenda, veleno sui ‘no’ al Consiglio: “Se ne fregano dei cittadini”. Gianni Emili su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Alessandro Di Battista contro gli ex candidati a sindaco di Roma Enrico Michetti e Carlo Calenda che, sottolinea l’ex pentastellato, “per mesi hanno fatto dichiarazioni d’amore nei confronti di Roma. Hanno detto di avere soluzioni fantasmagoriche, di volersi impegnare con il massimo ardore” e che hanno poi rinunciato al ruolo di consigliere comunale. “Calenda – scrive Di Battista – ha ‘esplorato’ quartieri popolari provando l’ebrezza di superare le colonne d’Ercole della Ztl. Michetti si è impegnato a ripetere a pappagallo ogni massima meloniana. Il tutto, dicevano, per il bene di Roma. Stronzate – sottolinea l’ex M5S –. “Calenda e Michetti hanno rinunciato al ruolo di consigliere comunale. Vi hanno chiesto i voti ma di quei voti se ne fregano. Zero rispetto nei confronti dei cittadini. I cittadini e le loro sofferenze non sono il fine della loro attività politica ma il mezzo di ipotetiche scalate. Ai ‘politicanti’ non interessa nulla della politica. Per costoro la politica è solo arrivismo e i veri rappresentanti dell’anti-politica sono proprio loro!”, scrive su Facebook. “Cuore Di Panna – risponde al post di Di Battista il leader Di Azione, Carlo Calenda –, in Consiglio Comunale, dove potrei stare anche rimanendo parlamentare europeo, faro’ entrare un ragazzo giovane che ha coordinato il programma. Persona seria e preparata. Se riesci a scrivere la domanda Di assunzione potrei chiedergli Di prenderti come assistente. Potresti cosi’ sperimentare l’ebrezza Di un lavoro vero. Buon cazzeggio“. Gianni Emili
Centrodestra Roma, Rampelli durissimo con Michetti: "Danno all'intera coalizione". Il Tempo il 30 ottobre 2021. La scelta clamorosa di Enrico Michetti di rinunciare al seggio in Consiglio comunale ha scatenato dure reazioni nel centrodestra. Il candidato sindaco di Roma sconfitto da Roberto Gualtieri, si è infatti dimesso dall’incarico di consigliere comunale per continuare nella sua attività di direttore della Gazzetta Amministrativa, periodico che si occupa di consulenze legali agli enti locali. Michetti ha spiegato che continuando con la sua attività "potrò continuare ad offrire un contributo civico alla buona amministrazione, indubbiamente superiore rispetto a quanto potrei garantire ove assumessi il ruolo politico di consigliere di opposizione". Il commento forse più duro della giornata è quello del vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli, di Fratelli d’Italia. "Apprendo delle dimissioni di Enrico Michetti dalla carica di consigliere comunale, decisione che mi risulta personale e non concordata con alcuno, tanto meno con me - come si va raccontando - o con la Federazione romana di FDI, artefici di una battaglia senza risparmio in suo sostegno. Se mi avesse richiesto un parere avrei dichiarato l’inopportunità di tale scelta e il danno che si sarebbe arrecato alla credibilità dell’intera coalizione", si legge nella nota diramata da Rampelli. "Michetti è stato scelto anche per le sue storiche battaglie sociali, di opposizione a Raggi, Conte e Zingaretti fatte attraverso i microfoni di Radio Radio, emittente romana d’assalto - continua l'esponente di FdI - Non solo dunque per le sue competenze amministrative. Era per questo conosciuto al pubblico romano, per le sue sferzate al potere, lo stare dalla parte dei cittadini, non certo per le consulenze nei piccoli comuni del reatino o per le sue lezioni universitarie a Cassino, in provincia di Frosinone - aggiunge -. Avrebbe pertanto svolto benissimo il suo ruolo di oppositore, da vero "tribuno del popolo". Sono sicuro che la maggioranza dei 375mila romani che gli hanno assegnato il mandato a rappresentarli l’hanno fatto pensando che sarebbe stato un buon sindaco ma anche un buon consigliere comunale". "In democrazia chi si candida a ricoprire un ruolo sa bene che in caso di sconfitta deve onorare il mandato. In questo panorama c’è comunque una buona notizia che riguarda il subentro di un già consigliere comunale, Federico Rocca, persona laboriosa e competente che avrebbe meritato l’elezione immediata anche perché sostenuto da un mare di bravissimi militanti e dirigenti apicali di FDI. Per questo festeggiamo compatti la meritata conquista del sesto seggio in Campidoglio", conclude Rampelli.
DAGONOTA il 31 ottobre 2021. Volete sapere il vero motivo delle dimissioni di Enrico Michetti dal consiglio comunale di Roma? Ovviamente non c’entra la sua disperata voglia di “continuare ad assicurare la Formazione, l’aggiornamento e l’assistenza ad amministratori e funzionari pubblici”, cioè la scusa ufficiale che ha accampato l'ex tribuno di "Radio Radio", con l’ennesima supercazzola. Le dimissioni di Michetti sono state gentilmente richieste da Giorgia Meloni e dal cognato Francesco Lollobrigida per far posto al primo dei non eletti di Fratelli d’Italia, come scrive oggi sul “Fatto quotidiano” Giacomo Salvini: “Rocca è espressione dell'ala romana vicina a Lollobrigida, marito di Arianna Meloni (sorella di Giorgia), mentre gli eletti in Consiglio fanno riferimento a Rampelli”.
Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2021. Roma Giovedì pomeriggio Enrico Michetti confida ad alcuni amici: «Non me la sento di stare in consiglio comunale». A quel punto c'è chi cerca di fargli cambiare idea, di dissuaderlo: «Enrì, aspetta: prova sei mesi e poi decidi... Innescheresti solo ulteriori polemiche». Non c'è verso, però. L'avvocato amministrativista non intende recedere: «No, no, basta...». La scelta dunque di non indossare la maglia di consigliere capitolino è fatta. Il confronto con il suo staff porta al post di Facebook di ieri. Nel testo non si troverà traccia dei malumori delle scorse settimane, degli scontri con gli alleati di coalizione per la sua campagna incentrata sull'antica Roma. «La mia decisione di dimettermi - argomenta - nasce dalla sempre più pressante consapevolezza dell'importanza di continuare ad assicurare in via prioritaria la formazione, l'aggiornamento e l'assistenza ad amministratori e funzionari pubblici». E ancora: «In tal modo - anche nella qualità di presidente della Fondazione Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana - potrò continuare ad offrire un contributo civico alla buona amministrazione, indubbiamente superiore rispetto a quanto potrei garantire ove assumessi il ruolo politico di consigliere di opposizione». Dopodiché l'aspirante sindaco della Capitale ringrazia tutti quelli che lo hanno sostenuto, e assicura di essere «a disposizione di Roma Capitale per quelle che sono le mie specifiche competenze». Non aggiunge altro. Si conclude così la discesa in campo di questo avvocato amministrativista, ai più sconosciuto, scelto da Giorgia Meloni per la corsa al Campidoglio dopo il no di Guido Bertolaso, finito sotto i riflettori per le uscite radiofoniche sulla Shoah e i soccorritori di Rigopiano e poi ancora per una serie di gaffe. Cui poi si aggiunge una fascinazione per Roma Caput mundi, dimenticando le ragioni per cui era stato scelto: la pulizia della città, il nodo dei trasporti. Ma lui non riesce a trattenersi: «Riporterò Roma a essere la città dei Cesari, dei grandi papi, della cultura, della scienza». E ancora: «Nessuna civiltà è stata pari a quella di Roma, che dopo Giulio Cesare sembrava tutto finito, poi è arrivato Ottaviano Augusto». Anche gli antichi egizi finiscono nel mirino: «I grandi Cesari e i papi non avrebbero mai costruito le piramidi perché non erano di pubblica utilità, costruivano ponti, strade, acquedotti, anfiteatri per il benessere dei cittadini». Tutto finito, adesso. Lascia lo scranno al primo dei non eletti di Fratelli d'Italia, Federico Rocca. E torna ad indossare i panni del tecnico. Al più animerà Radio Radio. Tuttavia la sua non è un'uscita indolore. Non a caso Maurizio Gasparri, alto dirigente di Forza Italia, si dice sorpreso: «Francamente non ci pare una scelta rispettosa degli elettori e delle forze politiche che gli sono state accanto». Anche la Lega borbotta. «Non si può essere credibili se dopo aver perso una battaglia ci si ritira» affonda la deputata del Carroccio Barbara Saltamartini. Di parere avverso la meloniana Rachele Mussolini: «Ha scelto con senso responsabilità». Esplode la coalizione di centrodestra. «Non sappiamo se siano peggio le dimissioni di Michetti, nemmeno comunicate, o le imbarazzanti dichiarazioni di chi cerca di difendere questa fuga dal Campidoglio» sbotta in una nota il coordinamento romano degli azzurri. In tutto questo Michetti non si scompone, si tiene a distanza dall'ultima polemica che lo riguarda. E con i suoi amici tira un sospiro di sollievo e dice: «Torno al mio lavoro e di sicuro nessuno mi darà più del fascista. Io sono un democristiano».
F.D.F. per il "Corriere della Sera" il 19 ottobre 2021. Ci mette più di un'ora Ilario Di Giovambattista, direttore editoriale di Radio Radio, in diretta dal comitato di Michetti a Tor Marancia, prima di dire che la corsa a sindaco di Roma l'aveva vinta Roberto Gualtieri. Dalle 14 a oltre le 16 di ieri il conduttore - spin doctor di Michetti - parla a ruota libera delle polemiche su Juve-Roma sull'emittente che ha lanciato «il tribuno» e lo ha sostenuto per tutta la campagna elettorale. Alle 15.30 il conduttore prova a fare intervenire Diego Bianchi di Propaganda live che stava registrando con la solita telecamerina: «Vieni Diego, tu che sei della Roma: come va?». «Beh, dipende - risponde Bianchi malizioso -. A me molto bene. A te male male...». Di Giovambattista incassa la bordata con eleganza: «Vorrei capire da voi - dice ai radioascoltatori - se Roma e Juve rischiano davvero di non centrare la Champions...». Dopo le 16, quando la sconfitta di Michetti non è più in dubbio, Di Giovambattista mette le mani avanti: «Vorrei fare un grande in bocca al lupo a Gualtieri che mi auguro si avvarrà della grande esperienza di Enrico Michetti. È il momento della pacificazione».
Filippo Ceccarelli per "la Repubblica" il 19 ottobre 2021. Problema: ci ricorderemo un giorno di Enrico Michetti? Negli ultimissimi giorni, ormai esausto e tramortito dalla sarabanda e dall'ambaradan della campagna capitolina, gli avevano messo in calendario, poveraccio, nientemeno che una gita in mongolfiera. Quando maneggiano gli "esterni", gli uomini e le donne dei partiti manifestano una certa dose di inusitato sadismo, per cui prima li proclamano "tribuni", poi ne fanno carne di porco, con rispetto parlando, e poi addirittura li vorrebbero spedire fra le nuvole. Per cui, imbacuccato come un esquimese e non si capiva bene in compagni di chi, da Tor di Quinto Michetti sarebbe asceso nel gelido cielo dell'Urbe risvegliando un sogno poetico degno di Fellini. Ma niente: al momento di volare, vento avverso e Michetti è restato a terra, per la delizia dei presagi e la gloria delle metafore. Adesso è facile dirlo e ci si sente anche un po' in colpa a infierire, ma tutto fin dall'inizio è andato così male che viene da chiedere agli strategoni del centrodestra come fosse possibile prevedere altrimenti. Candidatura non solo improbabile, raffazzonata e temeraria, ma decisa per vie traverse, capolavoro di orgoglio tignoso e autolesionistico. Esito scontato o, come ha detto lui, «laconico». In due parole: sacrificio umano. Conoscendo il pollaio del centrodestra, si può immaginare che trovandosi Salvini e Meloni in disaccordo su tutto, abbiano finito per accordarsi sul nulla, o quasi. E insomma, c'era questo conduttore radiofonico che piaceva tanto ad Arianna Meloni, sorella, e al cognato Lollobrigida; pare di vederli a casa loro, deliziati dalle arguzie di Michetti, reazionario del genere «si stava meglio quando si stava peggio», imperatore del luogo comune, uno che la sa lunga e non manca di esibirlo pure al cenone di Natale. Però affabile e «pre-pa-ra-tissimo!». Fra capriccio e casualità, il brivido del casting ha sostituito le antiche trafile: «Prendiamo Michetti!». Preso. Meloni (soy Giorgia) disse: «È Mister Wolf»; Salvini non si oppose; lo sventurato rispose. Era maggio inoltrato quando pronunciò il suo primo grido di battaglia: «Bisogna tornare ai fasti della Roma dei Cesari e dei Papi». I romani sono naturalmente scettici riguardo ai guai della loro città, ma in parecchi si chiesero chi fosse questo dei "fasti". Al che Francesco Storace, che è un uomo spiritoso, ne sottolineò la modesta fama con un mini-apologo: «Ieri ero a San Pietro e tutti si chiedevano chi fosse quello vestito di bianco vicino a Michetti». E insomma, posto che la divinità infila le dita negli occhi di quelli che vuole affossare, il campaign management michettiano scelse di cavalcare proprio la scarsa popolarità del preteso tribuno e in attesa dei fasti, tappezzò Roma di manifesti recanti l'enigma: «Michetti chi?». E peggio, perché nello sforzo di farlo smettere con gli antichi romani e i loro acquedotti «meravijosi», nessuno si preoccupò di cancellare le tracce che l'aspirante sindaco aveva lasciato negli archivi di Radio Radio, un tesoro di vanità stentorea e ciarliera su temi ultrasensibili: contro i vaccini, sull'igiene del saluto romano, la Wehrmacht, Hitler, il Papa e i limiti professionali della gente di colore. Hai voglia poi con le scuse! Peccato solo non siano emerse anche le intemerate a favore di chi, improvvisandosi delatore, denunciava i coltivatori di cannabis sul terrazzino di casa. In compenso venne fuori come Michetti, che a suo tempo faceva comunella con il segretario del Pd, avesse distribuito materiale propagandistico indovina di chi? Di Gualtieri. Pure il resto è spasso. Programma scopiazzato, ma con originale progettualità storico-baracconesca a base di gladiatori, bighe, crociati, trionfi imperiali, simulazione dell'assassinio di Giulio Cesare, processione di vestali, evvài. Rimane irrisolto l'interrogativo iniziale sulla persistenza di Michetti nella memoria. Se le bolle della politica evaporano in fretta, la realtà è sempre più grave delle chiacchiere e degli strepiti che le danno forma e sostanza.
Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 19 ottobre 2021. Dai, Enrico, non fare così. Smettila. Ti prego. La Meloni, no. Escluso. Non viene. Santo Cielo, Enrì. I capricci, alla tua età? (pochi minuti dopo le 16: exit poll già con numeri definitivi, sconfitta tremenda, impossibile rimontare uno scarto del 20%). Ma quello di Enrico Michetti non è un capriccio. Al martirio della conferenza stampa non vuole essere solo. Minaccia di restare a casa. Occhi lucidi e forastici, lui che li ha sempre avuti pieni di efferata bontà, tipo quello del quarto piano che incontri in ascensore, come va, come non va, bisogna dire al portiere di annaffiare meglio le aiuole, eh? Però alla fine lo convincono, lo infilano in macchina e allora pallido e teso arriva qui, nella sede del suo comitato, in un tramonto grigio tra palazzoni e prati brulli, due isolati dietro il bar dei Cesaroni, la Garbatella di Giorgia, con l'autista che imbocca la rampa e lo scarica davanti al garage. Cordone sanitario. Niente domande dei cronisti. L'ordine è: deve parlare un minuto, due frasi (la prima, strepitosa, è: «Elezioni con esito laconico»), si alza e lo portate via. Lo accoglie un gruppetto di sguardi gelidi. Tutti di Fratelli d'Italia. L'assenza di Lega e Forza Italia dice, più o meno, questo: l'avete scelto voi, la sconfitta è vostra (Matteo Salvini, su Roma, non ha entrature, eccetto quelle di Claudio Durigon: e si era così prudentemente rimesso alla volontà degli alleati; il Cavaliere aveva invece sponsorizzato, con forza, Guido Bertolaso: ma Bertolaso, cinque anni fa, durante l'ultima campagna elettorale, ebbe una botta di genio e disse alla Meloni, candidata, di pensare ad allattare e a fare la mamma; un episodio che lei stessa, con amarezza, ricorda anche nel suo ultimo libro). Settimane di totale incertezza. Poi, una mattina di giugno, il deputato Paolo Trancassini se ne uscì entusiasta: «Tranquilli, il candidato giusto ce l'ho io». Lui, ipnotizzato, Michetti se lo sentiva tutti i giorni, un sermone dietro l'altro, tra spregiudicato buon senso e contundente mitezza, sulle frequenze di una emittente locale, Radio Radio. Trancassini ne parlò poi con Arianna, la sorella di Giorgia. Arianna, adesso, è chiusa in una stanza. Trancassini, mentre si vede sfilare davanti il corpo di Michetti diretto in conferenza stampa, è chiuso in se stesso. Uno straccio (provate a immaginare cosa può avergli detto la Meloni quando ha realizzato il genere di candidato che le aveva propinato). Restano pagine indimenticabili: il Professore, nei primi comizi, attacca subito con il mantra della competenza, con i romani che sono meravijosi, e poi prosegue a parlare di bighe e di acquedotti, di legioni invincibili, ha un'appiccicosa fascinazione per Roma Caput Mundi e per i grandi papi («Quando ci si pone davanti al cuppolone, cosa ci appare? Quel colonnato che sembrano due braccia aperte»). Allora lo mettono seduto e gli dicono: Professore caro, ti abbiamo candidato a sindaco di una città in macerie, infetta e infestata da cinghiali, istrici e tori impazziti, strangolata dal traffico, con le fiamme che divorano bus e ponti storici e tu devi farci il piacere di smetterla con Cicerone e proporre invece idee e soluzioni possibilmente realizzabili. Lui, mortificato, accetta il consiglio. Ma, a raffica, iniziano a schizzare fuori i contenuti pelosi dei suoi predicozzi radiofonici. Frasi tragiche sulla Shoah (la comunità ebraica fa saltare la visita al Ghetto della Meloni), oppure sui soccorritori di Rigopiano («C'era gente di colore, servivano persone competenti»). All'ultimo confronto su Sky con Roberto Gualtieri, gli chiedono: sui diritti civili, Roma, come le appare? Lui: «Una città stupenda. Diciannove miei amici provenienti da Barcellona hanno appena trascorso una vacanza bellissima. Alla fine sono ripartiti dicendomi entusiasti: sui bus abbiamo sempre viaggiato gratis!» (in realtà, non avevano pagato il biglietto). Campagna elettorale complicatissima. Quelli dell'ufficio stampa, scortandolo con aria cimiteriale verso i microfoni. «Speriamo non faccia altri casini» (la Meloni sta per cominciare a parlare nella sede di via della Scrofa). Trancassini - ex talent scout del partito - si appoggia al muro, esausto. Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera ed ex campione di nuoto, resta distante ma a gambe divaricate, le braccia muscolose conserte, la mascella vibrante e disgustata. Chiara Colosimo, consigliere regionale, volendo fare carriera, resta in un corridoio laterale. Il Professore è costretto a sedersi da solo. Mai visto uno più solo. (Si avvicina un tizio dello staff. Foto sul cellulare, pubblicità del Mulino Bianco: «Michetti, il biscotto dorato al forno»).
Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 ottobre 2021. "Enrico lascia stare: Roma è cosa loro. Fanno di tutto per attaccarti. Lascia stare". Dai microfoni di Radio Radio, l'emittente romano che ha lanciato Enrico Michetti, questa mattina è partito l'appello alla resa. A lanciarlo Ilario Di Giovambattista, patron di Radio Radio e da sempre sponsor del candidato di centrodestra. Durante la trasmissione Accarezzami l'anima, uno spazio mattutino che prima era occupato da Michetti, Di Giovambattista si è rivolto a Michetti. Gli ha consigliato di gettare subito la spugna. Perché tutto complotta contro il tribuno.
Da radioradio.it l'11 ottobre 2021. Che l’Italia sia uno dei Paesi occidentali con il sistema mediatico più orientato verso gli organi politici è fattuale, risaputo e anche teorizzato a livello accademico. Mai, però, si sarebbe potuto immaginare un incollamento tale da giustificare un vero e proprio accanimento nei confronti di un candidato avverso a gran parte della stampa nostrana. È quello che vede travolto in queste ore il professor Enrico Michetti, passato dall’essere proveniente dalla “destra, destra, destra, forse neofascista” (Gruber, Otto e Mezzo, La7) ad aver pronunciato “frasi antisemite” in un articolo risalente al febbraio 2020 (Andrea Carugati, Il Manifesto), fino all’essere “pilotato da Radio Radio, l’emittente dei No Vax” (Lorenzo D’Albergo, la Repubblica). In verità già prima della sua discesa in campo, alle prime voci di candidatura, l’esperto amministrativista era stato oggetto della propaganda di quotidiani, tv, radio. “La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti, il professore che Meloni vorrebbe candidato sindaco di Roma”, titolava il Fatto Quotidiano nella fasi calde della scelta da parte del centrodestra. E come non dimenticare la farsa instaurata sul saluto romano più igienico, che “in una delle sue trasmissioni a Radio Radio il possibile candidato di Fratelli d’Italia a sindaco di Roma ha rivalutato in tempo di Covid” (Marina de Ghantuz Cubbe, la Repubblica/Roma). Così il “tribuno della Radio” (altra definizione che voleva essere dispregiativa) è stato bersagliato negli ultimi mesi. Sul costante attacco che verosimilmente si consumerà fino al ballottaggio del 17 e 18 ottobre è intervenuto in diretta il direttore Ilario Di Giovambattista a “Accarezzami l’Anima”. Ecco le sue parole. “Io sono molto preoccupato perché in questa campagna elettorale io ho avuto la conferma di quello che già pensavo: in Italia c’è una stampa della quale mi vergogno. Io vorrei raccontarvi quello che è successo ieri, credo che ormai le cose siano abbastanza chiare. Guardate il titolo di Repubblica di oggi: "l’uomo nero contro le città". Io sono molto preoccupato perché Roma deve essere cosa loro. Roma è cosa loro, nessuno può azzardarsi da persone perbene a entrare in un agone politico. Siamo a una settimana dal voto e per fortuna non hanno trovato nei confronti di Michetti che negli ultimi 30 anni ha aiutato soprattutto i sindaci di sinistra. Vi giuro: io ho paura. Ho paura perché se i cittadini si informano attraverso la stampa, attraverso i mainstream, purtroppo siamo un Paese truffato. È una stampa truffatrice, una stampa della quale mi vergogno. Non c’è niente di deontologico nella stampa italiana, si salvano in pochi, ma veramente in pochi. Sono tutti sotto un padrone, soprattutto politico. Non vedo l’ora che finisca questa settimana, perché tanto ho capito come la stanno mandando. Ho capito come la stanno indirizzando. Anche la manifestazione di Piazza del Popolo: erano tutti fascisti vero? Se decine di migliaia di persone sono tutte fasciste allora si dovrebbero interrogare i nostri capi. Sanno bene che non è così. Sanno bene a un certo punto è successo qualcosa, forse li hanno chiamati loro. Non ci possiamo permettere di parlare di niente, di niente, zero. Io ho capito come vogliono mandarle le elezioni, fossi il professor Michetti mi ritiro. Io sto invitando ufficialmente il professor Michetti a farli vincere così. Enrico ritirati, non sono degni di te. Dammi retta, è cosa loro, ti distruggono. Io sono spaventato. E chiedo veramente a Enrico Michetti: Enrico ritirati, falli vincere. Roma è cosa loro, se non vincono questa volta vanno fuori di testa. Se la sono già venduta, già spartita. È inutile. È tutto apparecchiato. È tutto fatto. Però di mezzo ci sono i cittadini. L’unica speranza sono i cittadini, ma se i cittadini si informano attraverso questa stampa corrotta è la fine. Ecco perché in Italia tante cose non vanno, perché hanno creato un sistema. Il sistema politico-giornalistico è una delle cose più marce, più schifose del nostro Paese. Non voglio avere proprio niente a che fare con questa feccia”.
Da corriere.it il 9 ottobre 2021. Si arricchisce di giorno in giorno la fauna dello zoo della capitale e spopola sui social il video postato da Luca Telese di un istrice che passeggia tra le auto in via Cipro a Roma. «Ma che cavolo è questo coso?»: si chiede il giornalista, ma i romani ormai assuefatti alla condivisione degli spazi con ogni tipo di «bestia» (dopo le famiglie di cinghiali, cosa sarà mai un istrice solitario?) hanno placidamente segnalato alle autorità competenti la presenza del grosso roditore. Sì, non è altro che un roditore più grosso...Sul posto sono intervenuti i vigili urbani che — dopo alcune peripezie — sono riusciti a catturare l’istrice. La bestiola piena di aculei, intanto, visibilmente impaurita e spaesata, prima di essere privata della libertà pare sia entrata in alcuni negozi lungo via Cipro, in direzione di piazzale Clodio nel centrale quartiere Prati, per poi essere catturata da una pattuglia della polizia locale che a sua volta ha affidato alla Lipu la sua custodia. Lungo l’elenco di precedenti «bestiali». Di oggi la notizia che a Roma in tanti sono costretti a portare l’auto in officina a causa dei topi che si riparano nei vani motore e rosicchiano i cavi di rame. Fioccano le lettere di denuncia sui violenti banchetti dei gabbiani che planano sui sacchi di rifiuti marcescenti abbandonati nel centro storico (e sappiamo bene non solo lì) dove la densità di ristoranti e bar rende l’accumulo di rifiuti un’emergenza. Grande scalpore mediatico anche i 13 cinghiali che di giorno, il 21 settembre, hanno attraversato la trafficata via Trionfale riuscendo a fermare il flusso di automobili per regalare un altro video virale in pochi minuti.
Striscia la Notizia, un incubo nella metro di Roma: roba da terzo mondo, che imbarazzo per Virginia Raggi. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. La sindachessa di Roma, ancora per poco, sarà Virginia Raggi. Già, domenica e lunedì, dopo il ballottaggio, calerà il sipario sulla parabola della grillina in veste di prima cittadina delle Capitale. Parabola assai poco gloriosa: si pensi infatti che al primo turno non soltanto è rimasta fuori dal ballottaggio, ma è addirittura arrivata quarta, alle spalle anche di Carlo Calenda. Insomma, un fiasco totale. E parlando di fiaschi, ecco che Striscia la Notizia mostra uno degli ultimi "flop" dell'amministrazione capitolina. Insomma, uno degli ultimi flop che, seppur indirettamente, può essere attribuito a M5s e Raggi. Si parla infatti delle metropolitane di Roma, nel dettaglio della stazione di Roma Termini, una delle principali. L'inviato Capitan Ventosa, infatti, mostra come a causa delle modifiche alla viabilità interna alla stazione dovute alle norme anti-Covid per evitare assembramenti, muoversi nella metrò di Roma sia... impossibile, un rebus. Indicazioni contraddittorie, cartelli che segnalano luoghi inesistenti, grossolani errori. Il tutto per la disperazione dei viaggiatori, che interpellati dall'inviato di Striscia manifestano tutto il loro dissenso.
Roma, "che cavolo è questo coso?". Dopo i cinghiali, lo "scherzo della natura": apparizione sconvolgente. Libero Quotidiano l'8 ottobre 2021. "Ma che cavolo è questo coso?". La domanda, su Twitter, se la pone Luca Telese, condividendo un video da Roma. A spasso tra le auto, annusando l'asfalto, spunta un grosso istrice. Dopo i cinghiali scatenati di questi mesi, si arricchisce dunque l'esotica "fauna urbana" della Capitale, metropoli sempre più selvaggia. La mesta, malinconica fine della consigliatura a 5 Stelle, con l'addio della sindaca grillina Virginia Raggi ormai a un passo (tra meno 10 giorni infatti si voterà il ballottaggio e la città passera a uno tra Enrico Michetti del centrodestra e Roberto Gualtieri del Pd) registra un'altra sorpresa degna di finire su trasmissioni televisive come Quark o Geo&Geo. Il video condiviso da Telese diventa subito virale, ma non solo per il bizzarro contenuto. Molti utenti infatti hanno deciso di prendere molto sul serio la domanda del giornalista, assaltandolo e insultandolo, criticandolo per "l'ignoranza" dimostrata. In realtà, l'istrice non è esattamente un animale sconosciuto e l'intento di Telese era evidentemente ironico, ma tant'è, sui social non è materia per tutti. E c'è pure chi azzarda commenti decisamente fuori luogo come questo: "Ecco. Se a Telese i virologi gli dicono che quell'istrice è la mutazione della variante delta del coronavirus che circola e minaccia la collettività, lui ci crede". Al diretto interessato, non resta che far buon viso al cattivo gioco: "Infatti ero convinto che fosse così".
Mattia Feltri per “La Stampa” il 6 ottobre 2021. Cammino anzi saltello. E canticchio: che sensazione di leggera follia sta colorando l'anima mia. Ah, Lucio Battisti è sempre qui, a porgermi le chiavi del cuore. Canticchio all'aria corroborante d'ottobre, mentre cinque anni fa sotto un cielo plumbeo, cattivo, i militanti meloniani e salviniani salivano al Campidoglio in nome del popolo a gridare fuori la mafia dal Comune. Era il Comune in cui s' era rinserrato il sindaco Ignazio Marino, arreso alla follia collettiva, e dunque sì, diceva, la mafia è entrata in queste stanze ma per sloggiare me. Poi il suo partito lo portò in pellegrinaggio di borgata in borgata a chiedere scusa per non aver riconosciuto la mafia a prima vista, e in una tale melma chi ci sguazzava come un pescetto nella boccia erano i cinque stelle. Beppe Grillo chiedeva alla gente onesta la forza di disinfestare la città, Luigi Di Maio invitava i cittadini a consegnargli notizie di stampo mafioso in busta chiusa, e in cambio dell'anonimato, Alessandro Di Battista esortava le persone perbene di Pd e Forza Italia ("ce ne sono!") a mandargli delazioni via mail, ché ci avrebbe pensato lui a ripulire la "Repubblica filomafiosa". Arrivarono pure i giornalisti americani a cercare le coppole e le lupare sotto la statua di Marco Aurelio, ma per fortuna passano anche le sbronze e no, la mafia non si era impadronita dell'amministrazione comunale, era una colossale e scema calunnia. Ma intanto sotto quel cielo plumbeo e cattivo, a liberarci dai padrini era stata eletta Virginia Raggi. Questo, cinque anni fa. Va sempre peggio: che sciocca espressione. E che sensazione di leggera follia sta colorando l'anima mia.
Virginia Raggi e il capolinea della (testarda) sindaca alle elezioni comunali di Roma 2021, tra gaffe e giravolte. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2021. Testarda più di un sampietrino, Virginia ci ha provato fino all’ultimo a rabberciare il suo strappo col resto del mondo. Cinque anni fa prese il 67% al ballottaggio, ora è al 20%. A Roma si chiama «romanella»: un rattoppo alla buona, come quelli su certe buche. Testarda più di un sampietrino, Virginia ci ha provato fino all’ultimo a rabberciare il suo strappo col resto del mondo. «Non mollo, sono l’unica a tenere testa alle corazzate del centrodestra e del centrosinistra», sibila alle otto della sera comparendo ectoplasmatica al comitato elettorale. Ma cinque anni fa la corazzata grillina era lei, con un largo 35% al primo turno e un clamoroso 67% al ballottaggio. Ora balla attorno al 20%, triste, solitaria y final, insidiata dall’esordiente Calenda, con un tweet di Fratelli d’Italia che maramaldeggia: «Ciao, Virgi’» . Sicché vien voglia di difenderla: se non fosse per i gabbiani, i cinghiali e tutto lo zoo imbizzarrito che ci ha attirato in città la sua consiliatura. Al seggio ha anche litigato un po’ con la scheda-lenzuolo, «piegarla non è facilissimo» e le hanno risposto con ghigno piddino: «Lei è l’unica che non si può lamentare». Va così, quando va male (e va persino a fuoco il «Ponte di Ferro» sul Tevere , come nel finale esagerato di una brutta serie tv: l’ennesimo complotto, sussurrano i più sospettosi e astuti, che anni fa paventarono la congiura dei frigoriferi abbandonati fuori dalle discariche). Si maligna che finanche Conte le abbia remato contro, a fari spenti, bramando lo scranno parlamentare di Gualtieri nel collegio del centro storico. «I big trattengono il fiato, è il grande momento per togliersela dalle scatole», sussurrava poche ore fa un ex compagno di strada, uno dei molti da lei scaricati in questi cinque anni più accidentati della Cristoforo Colombo cariata dai pini. Grillo le ha intonato il de profundis fingendo di sostenerla quando, da remoto, venerdì sera alla Bocca della Verità, le ha assicurato «tu non sparirai se perdessi la carica di sindaco». Non proprio Al Pacino in Ogni maledetta domenica. L’ultima romanella (fallita) della Raggi è stata, dunque, negare sé stessa. Con la promessa di una mancetta, tanto deprecata nella forma degli 80 euro renziani: «Se sarò rieletta, taglierò le bollette coi soldi dell’Acea». E, addirittura, con l’abbandono del caro pauperismo: i soldi non sono più lo sterco del demonio, così lei alza le braccine filiformi e grida «daje!» quando un Di Maio trasmutato in banchiere draghiano annuncia al pueblo grillino dell’ultimo comizio che è stata «lanciata la candidatura di Roma Expo 2030, e saranno 40 miliardi di euro!». Daje: come Marino, come Mourinho, il grido di battaglia fasullo della romanità esagerata e, nello specifico, tradita, visto che cinque anni fa la Raggi ci ha fatto perdere le Olimpiadi e le opere che ne sarebbero derivate per mera «ostinazione ideologica» (copyright di Giovanni Malagò, cui impose un’umiliante anticamera e che oggi è dieci volte più popolare di lei grazie ai miracoli sportivi tricolori). Diffidente fino alla paranoia (i cronisti la chiamano la «carina dalle unghie retrattili», con sessismo magari involontario che lei ricambia con avversione ostentata), certo presentata al peggio dalle prime frequentazioni professionali in studi legali vicini a Previti e dalle omissioni curricolari, Virginia pare sin dall’inizio una donna sotto assedio. Sembra sempre costretta a guardarsi da consiglieri maschili decisi a sopraffarla e se ne protegge suscitandone sempre di nuovi. Così ecco Daniele Frongia o Salvatore Romeo; ecco Raffaele Marra, poco raccomandabile Mister Wolf, utile, tuttavia, a tenere a bada lo straripante assessore economista Marcello Minenna; ecco l’avvocato Lanzalone, coi suoi pasticci giudiziari da riempirci uno stadio, per uno stadio che mai vedremo a Tor di Valle. Tra i rari giornalisti non odiati si nasconde un consigliere occulto, distante ma decisivo come Marco Travaglio; e soprattutto compare l’ultima voce di dentro, Teodoro Fulgione, già cronista parlamentare e poi portavoce ascoltato e temuto (lo chiamano «Richelieu» o «il sindaco») cui viene attribuita buona parte nella dirompente scelta della ricandidatura: con essa la Raggi spezza il possibile accordo Cinque Stelle-Pd facendo strame del limite grillino dei due mandati, manda ai matti l’ormai governista Grillo e in solluccheri il guevarista Di Battista e, da ultimo, pone il proprio capo sul ceppo in questa serata elettorale in cui tutto crolla. Pesa nel Web, «tra chi non è romano», dicono i detrattori. E 22 mila voti nella corsa al comitato dei garanti Cinque Stelle ne fanno «la reginetta del nostro microcosmo», infieriscono. Magra consolazione. Aggrappata all’unico leale appiglio dell’ultimo anno (non a caso donna, la forte e indipendente Federica Angeli) Virginia ha tentato l’impossibile romanella di convincerci che il problema di Roma siano gli Spada e i Casamonica (tristi epifenomeni della città carogna) e non il traffico demenziale, gli allagamenti, il verde abbandonato (i giardinieri negli anni Ottanta erano 2500, oggi 347), i bus introvabili o in fiamme, la metro infinita, le scale mobili rotte, una qualità della vita infame che l’ha scaraventata al 99esimo posto su 100 in un sondaggio dell’anno scorso sul gradimento dei sindaci e, infine, l’immondizia, autentico brand della casa. La Raggi ne è così consapevole da consegnare alla storia un colloquio indimenticabile con l’amministratore dell’Ama, Bagnacani, «i romani si affacciano alla finestra e vedono la merda». Ma in pubblico ci racconta di averla risanata, l’Ama, mentre è la municipalizzata della mondezza mai rimossa a infettare noi. Si autoproclama «sindaca delle periferie» (che l’hanno in gran parte abbandonata) e rivela che il suo vero rimpianto è non avere costruito «la funivia di Casalotti». In questo tuffo nell’assurdo a poco serve rivangare gaffe memorabili (una per tutte, la cupola del Colosseo), abbagli omerici (persino sulla data delle elezioni nel sito del Comune), la giostra straniante di assessori e dirigenti trombati, i surreali conciliaboli sul tetto del Campidoglio per timore di microspie. Nell’ora più buia le resta accanto il marito martire, Andrea Severini , che l’ha immortalata in una serie Facebook, «31 giorni con Virginia», mentre fa colazione, porta la spesa, cucina: una specie di sequel del Salvini di Morisi se oggi la cosa non apparisse offensiva.
Filippo Ceccarelli per repubblica.it il 5 ottobre 2021. Sindaco o sindaca? "Chiamatemi Virginia" rispose il primo giorno, con un sorriso. E quindi: addio, Virginia. L'epicedio o canto di lutto è un genere letterario che non ammette gioia, ovviamente, né sollievo, né rancore. Mancheranno, è vero, accompagnamenti di danze e suoni di flauti, ma l'aver perso a Roma, al netto dell'amarezza, farà bene soprattutto a lei, Raggi, che è giovane (42) e molto ancora potrà fare per sé e forse anche per gli altri. Sono stati cinque anni di fatiche pazzesche, sofferenze, sberleffi, tradimenti. In un articoletto dell'autunno del 2018, come dire a metà consiliatura, si legge che aveva già accumulato 360 denunce e perso 14 chili. Una volta, durante un interrogatorio, è svenuta. Non si vuole far del pietismo, ma è pur vero che il potere si è rivelato con lei, più che severo, crudele. Nel giorno della fine corre la memoria visiva al trionfo, quando arrivò in Campidoglio a bordo di un'automobilina elettrica; per poi affacciarsi su quel magnifico balcone da cui, diceva Rutelli, "è facile perdere la testa". Una figurina sopraffatta da una solitudine di cielo, pietra, abisso e splendore. Ci scappò anche una lacrima, immagine in seguito tornata utile al meme terminale e riepilogativo: "Era meglio se restavo a fa' le fotocopie allo studio di Previti". Addio Raggi. I romani, d'altra parte, non li ha mai conquistati. Si avvertiva nei suoi modi un che di algido, un'intermittenza emotiva che buttava ora sul risentito, ora sull'infastidito; quasi certamente era paura, la più giustificabile alla luce dei risultati, ma anche e sciaguratamente, della scarsa qualità umana delle persone che si era scelta. "Gentarella", come si dice qui, nel migliore dei casi, altrimenti gentaccia. Ma soprattutto: Roma si è rivelata un affare immensamente più grande di lei che ne ignorava la curva catastrofica e forse nemmeno possedeva la percezione culturale dei suoi terribili guasti. In campagna elettorale - e perciò troppo tardi e con troppa enfasi - s'è detta "innamorata pazza", ma chi poteva crederci? Nessun altro sindaco - e le si fa un complimento - è mai stato così incapace di simulare e dissimulare. Anche se nessuno, in tutta onestà, può pensare che abbia privilegiato il suo tornaconto o la sicurezza personale. Scorrono le foto di questi anni: in fuga sul tetto del Campidoglio, molto bella in abito Gattinoni all'Opera, bellicosa nella cerimonia dell'abbattimento delle villette Casamonica (quella notte dormì con il sacco a pelo in ufficio), sul terrazzino di casa durante il lockdown a tagliare i capelli al marito, anche lui molto autentico, però anche un po' querulo. Certo, al netto del fervore elettoralistico, dei cantieri dell'ultim'ora e delle inaugurazioni presciolose, i problemi dell'Urbe sono rimasti quelli di sempre, alcuni pure aggravati. Una volta, camminando a via del Corso, è inciampata anche lei in una buca (poco dopo è toccato anche a Grillo). Tutti i soliti guai sono continuati ad andare nel peggiore dei modi, la manfrina delle discariche, l'immondizia per strada, il traffico impossibile, la metro che si rompeva, i bus che prendevano fuoco, i dipendenti capitolini premiati e scontenti, le bare insepolte, gli ambulanti predatori, il culto delle ciclabili deserte, i monopattini dappertutto, i centurioni...Altro che la mancata teleferica, altro che Spelacchio! Pure i terribili poeti romaneschi ci si sono messi, trombette di vittimismo: "Virgì, Roma nun te merita!". In verità Virgì ha dedicato più tempo al cambio degli assessori (16, forse 17), alla girandola delle poltrone e a marketing della sua immagine che alle piaghe dell'Urbe. Considerati i poveri voti di ieri, non è servito a nulla darci dentro coi social, ondeggiando tra buffi siparietti domestici (a un certo punto anche un cagnolino) e baldanzose semplificazioni tipo "voglio", "pretendo", la gladiatora, la combattente, ma via! Nel frattempo, il Colosseo sbagliato, la ridicola targa di Azelio Ciampi, i topi, i gabbiani, i cinghiali, la moria degli storni e dei pesci. Negli ultimissimi giorni della campagna si è regalata un tango col casquè. Anche lì, sulla pista, sembra di vedere una figurina in lontananza che si abbandona, finalmente. Non è detto che sia un male per Virginia aver perso. Non è detto che tutto questo non servirà a qualcosa di meglio.
Mattia Feltri per "la Stampa" il 5 ottobre 2021. La grande rivoluzione se ne va nel soffio di vento di un quinquennio: Chiara Appendino e Virginia Raggi si eclissano in una mestizia opposta all'euforia catartica con cui albeggiarono su Torino e Roma. Nel tempo abbiamo loro rimproverato di tutto, e in particolare la rinuncia più spesso a petto in fuori, talvolta per inadeguatezza, a qualsiasi ipotesi di grande opera, le Olimpiadi estive o invernali, il nuovo stadio, impianti di smaltimento rifiuti, fossero collaudati o di nuova generazione, ma loro ci guardavano di sbieco e ghignanti, poiché era nei presupposti: le grandi opere - ecco il messaggio scalcagnato e affascinante - sono roba dei grandi affari e dunque delle grandi ruberie, sono la mefistofelica menzogna delle élite per depredare il popolo. Noi, dicevano, organizzeremo la rivoluzione delle piccole opere, saremo le filosofe del piccolo cabotaggio, saremo le campionesse della piccola, ovvia, quotidiana buona amministrazione che sottrarrà le periferie dal saccheggio e dal dominio del centro ricco e altezzoso. Avrebbero dovuto fare delle periferie luoghi di nuovo inaudito splendore, doveva anzi bastare uno schiocco di dita, era così evidente e così facile, ma cinque anni dopo le periferie sono ancora lì, se non un passo indietro: rifiuti dove c'erano rifiuti, buche dove c'erano buche, emarginazione dove c'era emarginazione, distanza dove c'era distanza. Tutto finito. Nelle periferie si registrano i più alti tassi d'astensionismo: la gente se n'è rimasta a casa a salutare col silenzio la sbornia e la grancassa dell'ultimo imbonitore. Il grillismo, quel tipo di grillismo, è volato via in un soffio di vento.
La sconfitta della sindaca uscente. C’era una volta Virginia Raggi, dal plebiscito al quarto posto in cinque anni. Fulvio Abbate su Il Riformista il 5 Ottobre 2021. C’era, forse, una volta Virginia Raggi. Occorre, ancora forse, adesso immaginarla mentre fa ritorno a via Cassia, tra Giustiniana e Ottavia, dal coniuge amorevole, che l’ha, giustamente, fiancheggiata, thermos in mano, anche nei momenti più accidentati della sua esperienza di amministratrice dell’Urbe. Al momento, tuttavia, mentre lo spoglio è in corso, Virginia può contare sul conforto morale di Antonio Padellaro, pronto a offrirle, d’ufficio, una via di fuga onorevole, spiegando che su di lei, destino ingiusto, si sono accaniti “tutti i poteri forti, e nessun giornale mai, tolto uno, a sostenerne l’impresa”. Appare ora sostanza discutibile anche la narrazione della discontinuità rispetto al degrado pregresso e circa lo sfascio conclamato della Capitale. Da lei già conquistata in modo plebiscitario, miracolistico, con il traino del Movimento 5 Stelle. La Raggi subito benedetta, allora, da un Beppe Grillo, antipapa affacciato a una finestra sul Foro di Traiano, lo stesso luogo che il pittore Peter Blume, negli anni Trenta, seppe raffigurare come allegoria di una città stracciona e insieme domicilio di fantasmi osceni. A poco sembra essere servita la vicinanza di chi segnalava che nella città d’ogni pasticciaccio brutto, e perfino mafioso, lei, la Raggi, almeno questo, diversamente dai “soliti politici”, sì, che Virginia, “non ha mai rubato, e ti pare poco?”. Alla fine del carosello equestre rionale sembra tuttavia plasticamente accertato che, nella sua travagliata esperienza in Campidoglio, abbiano pesato, ma sono supposizioni non meno fantasmatiche trattandosi sempre di Roma, le cataste di immondizia mai smaltita, i servizi urbani invisibili agli occhi di chi attende un semplice 60 sotto le paline; in centro così come oltre il Raccordo Anulare. A dispetto perfino dell’Atac, risanata nei suoi bilanci, come più volte la sindaca ha rivendicato con puntuto orgoglio personale. E ancora, su tutto, la sensazione di una città irredimibile, condizione un tempo esclusiva dei luoghi prossimi alle terre desertiche meridionali, assente a ogni minimo minuto mantenimento, ciò che ogni governo urbano dovrebbe garantire ai residenti, oltre ogni ostacolo burocratico. Pretendere, in nome dei diritti di cittadinanza, ciò che retoricamente è detto con semplicità decoro. Assente nel centro storico così come nelle periferie disperse oltre i confini ufficiosi di viale Palmiro Togliatti, memoria toponomastica delle remote ormai “giunte rosse”. Il passante che ieri sera si fosse trovato in via Veneto, feticcio decomposto di una tramontata età dell’oro della Dolce vita, si sarebbe accorto dell’abbandono: vetrine spente nel sudiciume dei destini della cessata attività e i cespugli a crescere ovunque. Chissà però se basterà questo dato visibile a occhio nudo per spiegare il cupio dissolvi della candidata grillina. La storia della sua giunta, western capitolino, sit-com post-clientelare, ha mostrato avvicendamenti, defezioni, piccoli scandali, disconoscimenti di chi, almeno inizialmente, veniva indicato come “braccio destro”, e a nulla, forse, sembrano essere servite le parole della sindaca sempre lì a mostrare se stessa come paladina di discontinuità, d’essere stata l’Unica a scegliere eroicamente di abbattere le costruzioni abusive dei signori Casamonica. Non sarà neppure necessario ricorrere, immaginandone la possibile uscita di scena, alla metafora del rogo del Ponte dell’Industria, vestigia della città del tempo del sindaco Nathan, che collegava l’originaria area dei Mercati generali di via Ostiense con l’insediamento commerciale popoloso di piazzale della Radio e Viale Marconi. Di sicuro però, chi quell’istmo era costretto a praticarlo, attraversando il ponte segnato pure dal ricordo di un eccidio nazifascista, al momento di mettere la scheda nell’urna nulla esclude che non abbia con soddisfazione decretato l’addio per sempre a Virginia. Certo, a Roma non ci sono problemi poiché non ci sono soluzioni, nulla può essere toccato senza scatenare la rivolta di tassisti e commercianti, e a poco vale che la città sia un unicum monumentale irripetibile, dunque da proteggere perfino in armi. Ai suoi sostenitori segnati da pervicacia nipponica, asserragliati nella giungla grillina, probabilmente resterà il retropensiero che proprio quell’incendio a ridosso delle elezioni sia un atto doloso. Ancora di più facendo caso al nome dell’imperatore Nerone risorto per l’occasione in una lista degna del genio di Ettore Petrolini. Quest’ultimo, provando a raccontare il proprio possibile imminente decesso, riportando le parole del medico che gli garantiva invece un quadro clinico dove “tutto è a posto”, concedeva: “Bene, si vede che così muoio guarito”. Peccato che la Roma di Virginia Raggi sia trapassata giorno dopo giorno, senza mai dare un fremito di ritorno al respiro ordinario. Le rimarrà, forse, la cocciuta convinzione di avere fatto bene a rifiutare una possibile seconda Olimpiade. I cinici potranno invece dire che nel tracollo di Virginia Raggi, Roma specularmente appare sempre più provincia di Ciampino. Peccato ancora che lei, diversamente da Umberto di Savoia, lasciando il Palazzo Senatorio, non potrà nominare nessun conte o semplice assessore della Scaletta o della stessa Ciampino capitale. C’era una volta Virginia Raggi: piazza della Consolazione, si innalza invece come possibile, questa volta sì, metafora per coloro che dovranno darle conforto, ha luogo alle spalle del Campidoglio, tra Rupe Tarpea e la chiesa omonima dove, anni addietro, Alberto Sordi ricevette l’investitura ufficiale di vigile, pizzardone, ad honorem. C’era una volta Virginia Raggi lo abbiamo già detto? Ballottaggio o meno.
Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
(AGI il 5 ottobre 2021) Dopo il 40% dello spoglio, in testa alle preferenze per l'Assemblea Capitolina nel voto per le comunali a Roma c'è la consigliera uscente Rachele Mussolini, candidata nella lista Fdi. Finora la Mussolini ha totalizzato circa 3.400 preferenze ed attualmente risulta la più votata in città davanti a Maurizio Veloccia e Sabrina Alfonsi del Pd, che si attestano al momento rispettivamente a 2.700 e 2.500 voti. Nel 2016 la consigliera aveva ottenuto 657 preferenze ed era stata eletta nella lista civica di Giorgia Meloni. Rachele è figlia di Romano Mussolini, uno dei figli del dittatore fascista Benito. (AGI)
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per la Repubblica il 5 ottobre 2021.
Rachele Mussolini, (Fratelli d'Italia), lei è la consigliera più votata a Roma.
(…)
Il suo cognome è più un vantaggio, militando a destra, o un peso?
«Ho imparato sin da bambina a conviverci. A scuola mi additavano, ma poi è venuta fuori Rachele e la persona prevale sul proprio cognome, per quanto pesante. Ho molte amiche di sinistra. Una ha certamente votato per me».
(…)
Che rapporti ha con sua sorella Alessandra Mussolini?
«Non ci sono grandi rapporti. Mio padre si è risposato. Io sono l'unica figlia nata nel 1974 dalle seconde nozze». Si chiama come la moglie del Duce. Che ricordi ha di sua nonna? «Pochi frammenti. L'andavo a trovare a Villa Carpegna. Avevo cinque anni quando è morta».
Pensa che le sue preferenze siano una risposta dei militanti all'inchiesta di Fanpage?
«Mi hanno votato per quel che posso fare per la città di Roma».
Ma dell'inchiesta cosa pensa?
«Le stesse cose che ha già detto Giorgia Meloni».
Si riconosce o disconosce i protagonisti filmati?
«Sono sempre stata pudica, equilibrata. Le pose colorite non mi sono mai piaciute».
Cosa intende con colorite? L'esaltazione del Ventennio?
«Sì, mi hanno sempre lasciata perplessa. Anche mio padre era così. Se uno gli faceva il saluto romano lui si schermiva».
Lei l'ha mai fatto il saluto romano?
«No».
Però va a Predappio.
«Lì è sepolto mio padre».
Due anni fa i social l'hanno bloccata per il fiocco nero postato nell'anniversario della morte di Benito Mussolini.
«È mio nonno. Quel fiocco aveva un valore esclusivamente familiare».
Trattandosi del Duce non ha giocoforza una coloritura politica?
«No».
Ma del fascismo che giudizio dà?
«Per affrontare l'argomento dovremmo parlarne fino a domani mattina. Preferisco discutere della città di Roma».
Perché Michetti è stato ritenuto da più parti un candidato non all'altezza per Roma?
«Invece è la persona giusta. Ha dalla sua una grandissima competenza».
E di Virginia Raggi cosa pensa?
«L'ho spesso difesa, quando veniva attaccata sul piano personale. Sul piano politico la boccio completamente. Per dirne una: aveva promesso la differenziata al 70 per cento, e l'ha lasciata al 45».
Roma, incendio nel deposito Atac di via Prenestina: 30 autobus distrutti dalle fiamme. Debora Faravelli il 05/10/2021 su Notizie.it. Roma, incendio nel deposito Atac di via Prenestina: 30 autobus distrutti dalle fiamme. Diversi autobus sono andati distrutti a causa di un incendio scoppiato nel deposito Atac di via Prenestina a Roma: si indaga sulle origini del rogo. Nuovo incendio a Roma nella notte tra lunedì 4 e martedì 5 ottobre 2021, durante la quale un rogo si è sviluppato nel deposito Atac di via Prenestina distruggendo una trentina di autobus. I Vigili del Fuoco hanno spento le fiamme e sono al lavoro per la messa in sicurezza dell’area interessata. I fatti hanno avuto luogo intorno alle 4:15 per cause ancora da accertare. Secondo quanto riportato dall’account dei VDF, l’incendio ha coinvolto circa 30 autobus prevalentemente alimentati a metano e fortunatamente non si sono registrati. “Da circa un’ora continui scoppi e folte coltre di fumo nero. In azione le squadre di soccorso. Sembra maxi incendio“, ha scritto su Twitter un utente insieme ad altri che hanno allegato video in cui si sentono sirene ed esplosioni. Atac, l’azienda municipalizzata che si occupa dei trasporti nella Capitale, ha subito attivato le indagini interne per chiarire le ragioni dell’accaduto e sul posto si sono recati, oltre ai pompieri, i Carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia di Roma Montesacro per effettuare i rilievi del caso e avviare le indagini. Non ci sono ipotesi al momento sulle origini del rogo.
Da corriere.it il 3 ottobre 2021. In un video i danni provocati dal devastante incendio che ha distrutto il Ponte delle Industrie di Roma. Le immagini riprese dal drone mostrano la passerella di servizio crollata a causa delle elevate temperature generate dalle fiamme.
(ANSA il 3 ottobre 2021) - Sarebbero partite e alimentate dalle sterpaglie le fiamme che ieri sera hanno coinvolto il Ponte dell'Industria a Roma. E' quanto si ipotizza al momento. L'incendio, sviluppato nella parte sottostante al ponte, si sarebbe poi propagato a cavi elettrici ed alcune tubature del gas avvolgendo poi il ponte. Si attende la relazione tecnica dei vigili del fuoco per avere un quadro più preciso. Sulla vicenda indagano i carabinieri. Tre locali sono stati evacuati a scopo precauzionale nella notte per il maxi rogo che ha coinvolto il ponte dell'Industria a Roma. Non si segnalano intossicati ne' feriti. La prima pattuglia intervenuta è stata dei Carabinieri della Compagnia Trastevere che era casualmente in transito. Le fiamme sono state spente dai vigili del fuoco. Sulla vicenda indagano i carabinieri. La Procura di Roma è in attesa di una prima informativa dalle forze dell'ordine in relazione all'incendio che questa notte ha danneggiato il Ponte dell'Industria, noto come "Ponte di ferro". Dopo l'arrivo dell'incartamento i magistrati procederanno alla formale apertura del fascicolo di indagine. Le fiamme hanno interessato la zona del passaggio dei cavi e delle condotte del gas. Sul luogo sono intervenuti vigili del fuoco e carabinieri. L'indagine dovrà accertare l'origine dell'incendio che in poche ore ha avvolto l'intera struttura danneggiandola gravemente. "Bisogna bonificare sulle sponde del Tevere, togliere insediamenti e sterpaglie". A ripeterlo alcuni cittadini che vivono in zona Ostiense dove nella notte si è sviluppato il maxi incendio che ha interessato il ponte dell'Industria. "Non è la prima volta che partono da lì gli incendi e non sarà l'ultima se rimarrà in stato di abbandono", dice Annamaria che si ferma a guardare con il marito da lontano il ponte distrutto dal rogo. In tanti stanno arrivando nella zona del ponte stamattina per guardare a distanza i danni e scattare qualche foto. "E' incredibile che abbia preso fuoco un ponte di ferro - dice Mario - ci sarò passato centinaia di volte". (ANSA).
Cala il sipario sull'era Raggi sotto il segno del complotto. "Incendi contro i 5 Stelle". Domenico Di Sanzo il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Finisce così come era iniziata. Con un complotto. Finisce così come era iniziata. Con un complotto. E se nel 2016 secondo Paola Taverna c'era in atto una macchinazione «per far vincere il M5s a Roma e poi togliere i fondi al Comune per farci fare brutta figura», nell'ultima notte prima delle elezioni del 2021 è stato appiccato un incendio per far perdere Virginia Raggi. Certo, gli esponenti grillini non lo dicono proprio così chiaramente, ma fanno intendere che dietro il rogo che ha buttato giù parte del Ponte dell'Industria (più noto come Ponte di ferro) in zona Ostiense - Marconi ci sia l'ennesima «manina» che trama per sabotare il Movimento. Una costante, quella dei complottismi, nel mondo pentastellato, soprattutto durante gli ultimi cinque anni di giunta Raggi. Ma partiamo dall'ultima teoria, abbozzata nel giorno del silenzio elettorale. «Vederlo così stringe il cuore», dice la sindaca a caldo in un video girato nei pressi del ponte in fiamme. Si fa notare il vicesindaco Pietro Calabrese. «Accade oggi, quando a Roma si vota per la riconferma di Virginia Raggi a sindaca della Capitale», scrive su Facebook adombrando sospetti. Calabrese racconta di un «quinquennio con incendi di tutti i tipi, mentre veniva ripristinata la legalità». Una ritorsione? D'altronde, per Marco Travaglio e il M5s dell'epoca, era frutto di un regolamento di conti da parte di oscuri «poteri forti» anche l'emergenza rifiuti tra il 2016 e il 2017. I cassonetti strabordanti erano la vendetta per il no della Raggi alle Olimpiadi del 2024. Variazione sul tema rifiuti, a febbraio di quest'anno la sindaca aveva parlato di «emergenza pilotata». Tutta colpa del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, allora segretario del Pd. E ora, davanti al seggio elettorale, trafelata, la prima cittadina spiega: «Aspettiamo l'esito delle indagini». In un tweet aggiunge il pepe del complottismo. «Io non mollo. Amo Roma», hashtag #SonoScomoda. La cospirazione basta evocarla, senza coprirsi di ridicolo parlandone apertamente. Infatti i social abboccano. «Lo hanno incendiato per screditarla», è il pensiero di tanti fan della Raggi. E c'è anche chi insinua un golpe, «un violento colpo di mano». Paolo Ferrara, consigliere comunale uscente e di nuovo in corsa, dice che «ci sono persone che temono che sia un incendio doloso». Comunque «non lasceremo spazio alla criminalità», conclude. Il deputato M5s Mario Perantoni, presidente della Commissione Giustizia, parla di «gravi interferenze della destra», rea di strumentalizzare il disastro. Ripetono il concetto i deputati Angela Salafia e Vittoria Baldino. «Non possiamo escludere nessuna pista soprattutto in un momento così delicato per la città di Roma che proprio oggi va al voto», semina dubbi la senatrice Giulia Lupo. Niente di nuovo, per chi ha avuto modo di seguire il M5s a Roma. Per cui persino l'ondata di dimissioni di assessori cinque anni fa era un intrigo delle lobby. Le attese interminabili alla fermata dell'autobus? «C'è un disegno», spiegava Raggi appena eletta a proposito delle inefficienze dell'Atac, la municipalizzata dei trasporti. E i bus bruciavano in strada per opera di chissà quale inquietante manovratore. Difficile però raggiungere le vette toccate sul «complotto dei frigoriferi» del 2016. Di fronte alla marea di materassi ed elettrodomestici abbandonati in giro, ecco la risposta della sindaca: «Mai visto tanti rifiuti pesanti abbandonati per strada. Mi sembra strano». Non poteva che finire com'era cominciata. Domenico Di Sanzo
Collega Ostiense a Marconi. Incendio sul Ponte di Ferro a Roma, crollata parte della struttura: blackout e panico a Ostiense. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. È stato spento l’incendio che ha colpito il ponte dell’Industria, meglio conosciuto come il Ponte di Ferro, scoppiato ieri sera a Roma. Crollata parzialmente la struttura, i detriti caduti nel fiume Tevere, e diversi blackout segnalati in zona. Nessun ferito. Le fiamme erano visibili anche da molto lontano. L’incendio, si leggeva nel tweet dei vigili del fuoco, “sta interessando della vegetazione e alcuni ricoveri di fortuna. Coinvolta anche una condotta del gas. Non risultano al momento persone coinvolte”. A preoccupare ora sono i problemi che interesseranno la viabilità. Il ponte di fine ‘800 collegava i quartieri Ostiense e Marconi, entrambi molto popolosi. In zona vivono circa 350mila persone. Le fiamme sono divampate intorno alle 23:00 fino a tarda notte. La zona era molto frequentata come sempre per i numerosi locali dell’Ostiense frequentati soprattutto da giovani. Decine di vigili del Fuoco, coordinati sul posto dal comandante provinciale Francesco Notaro, sono rimasti all’opera fino all’alba per controllare le fiamme domate e spente poco prima dell’una. Il Ponte di Ferro è una struttura storica, completata nel 1863 da una società belga per collega la ferrovia Civitavecchia-Roma alla Stazione Termini. Da chiarire se la struttura è stata danneggiata irreversibilmente. Al Campidoglio, Comune di Roma, è stato istituito il Comitato Operativo Comunale per affrontare le conseguenze dell’incidente. È già certo che la struttura resterà inagibile per giorni intanto. “Al momento quello che possiamo dire è che stringe il cuore vedere un pezzo di storia ridotto così – ha detto la sindaca Virginia Raggi arrivata sul posto durante le operazioni di spegnimento – Già domattina (oggi, ndr) è stato convocato il comitato comunale per vedere i servizi, gas e luce. E poi bisogna vedere la stabilità strutturale. Dopo cercheremo di lavorare sulla riapertura della viabilità. Per ora l’importante è che non risultano persone ferite. Ci sono accertamenti in corso”. I testimoni spiegano come è proprio la viabilità a preoccuparli, già da domani, lunedì, oltre che i blackout che hanno colpito all’improvviso circa 200 famiglie. Nessun danno per il presidio dei pompieri che si trova proprio sotto la struttura. In corso le indagini per capire le cause del drammatico incendio, un rogo senza precedenti. Una prima ipotesi riguardava le tubature del gas che si trovano nella zona, quindi le gallerie di servizio che contengono cavi elettrici e fibre ottiche. Forse un cortocircuito. I vigili del fuoco e alcuni media fanno riferimento alle baracche proprio nei pressi del ponte. Non si esclude neanche un atto doloso in queste ore. Le indagini delle forze dell’ordine sono coordinate dai carabinieri della compagnia Trastevere e della stazione Porta Portese e del Nucleo investigativo anti-incendio dei vigili del fuoco sono solo all’inizio. Sarebbero scattate le ricerche di una o più persone che si trovavano sotto il ponte: le fiamme sarebbero partite dalla boscaglia e hanno coinvolto la zona sovrastante. Panico per diverse ore in zona, con le persone a fuggire dai locali notturni e i residenti scesi in strada allarmati. Subito si sono formate numerose code sulle strade che portano al ponte. “Assurdo, eravamo appena uscito per bere qualcosa proprio nei pressi del ponte – racconta a Il Riformista una testimone – mentre mi stavo preparando per scendere è saltata la luce. Dal terrazzo abbiamo cominciato a vedere il fumo. Quando siamo scesi abbiamo visto che stava cominciando a crollare. Un delirio”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
La struttura potrebbe aprire tra mesi. Incendio sul ponte di ferro a Roma: le cause, il crollo, i black out, le modifiche al traffico. Andrea Lagatta su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. Questa mattina Roma si è svegliata sotto shock. Le immagini dell’incendio divampato sullo storico ponte dell’Industria, che per tutti i romani è il “ponte di Ferro”, fanno il giro del web. Tra sgomento e perplessità sulle cause ancora da accertare, si paventa l’ipotesi che la struttura, che collega i due quartieri Marconi e Ostiense, potrebbe riaprire tra mesi. “Ci vorrà tempo, sono in corso ora i sopralluoghi. Non possiamo però dare una tempistica esatta”, spiegano all’AGI fonti dei vigili del fuoco al lavoro da questa notte insieme ai carabinieri e agli uomini della polizia locale di Roma Capitale che si stanno occupando del traffico veicolare e delle deviazioni, visto che il Ponte è chiuso in un tratto. E questo significherà pesanti ripercussioni sul traffico cittadino, deviato su strade limitrofe, come via Ostiense, viale Marconi, via Ettore Rolli. Il ponte quindi rimane chiuso, mentre sono state interdette le banchine del fiume Tevere e la pista ciclabile nel tratto in prossimità del ponte. Proseguono gli accertamenti. Sul ponte è in corso in questa fase una prima verifica statica da parte dei vigili del fuoco. Verranno eseguiti anche complessi accertamenti sulla staticità dei metalli. Alle verifiche seguiranno poi i lavori di riadeguamento degli impianti e il ripristino delle parti crollate, ovvero le gallerie dei servizi. I tecnici del Comune spiegano che è crollata una passerella laterale che porta i cavi delle utenze. La sindaca di Roma Virginia Raggi è arrivata al Coc, Centro operativo comunale per avere aggiornamenti dopo l’incendio che ha interessato il Ponte di ferro. Ieri notte Raggi si è recata sul luogo dell’incendio ed ha attivato immediatamente il Coc di Roma Capitale per ripristinare i servizi.
Via la corrente elettrica
Nella serata di ieri, mentre le fiamme avvolgevano la struttura, è scattato un block out elettrico nelle zone limitrofe. Un portavoce Italgas informa che “Dalle verifiche condotte già nelle prime ore della mattinata, le condotte del gas che corrono lungo il ponte di ferro all’Ostiense, prontamente isolate chiudendo le valvole a monte e a valle, non hanno subito danni dall’incendio né lo hanno alimentato. Il servizio di distribuzione del gas nella zona prosegue regolarmente e non ha subito interruzioni”.
La dinamica
“Abbiamo sentito uno scoppio, la puzza di gomma bruciata e di gas. Subito è andata via la luce e siamo scesi in strada”. E’ questo il racconto di uno dei condomini di un palazzo di riva Ostiense, a pochi metri dal ponte dell’Industria, danneggiato dal rogo della scorsa notte. “Si sono sentite anche delle grida di aiuto venire dagli accampamenti lungo il Tevere – racconta un altro – poi abbiamo visto le fiamme. Pian piano abbiamo visto il rogo crescere e avvolgere il ponte”. L’incendio è stato spento nella notte grazie all’intervento dei Vigili del Fuoco.
Dalle sterpaglie sotto il ponte dell’Industria, una lingua d’asfalto larga 7 metri e lunga 131, è divampato un incendio che sale su fino agli alberi, fino alle forniture dei sottoservizi, ai cavi di corrente e alle tubazioni del gas che corrono su una struttura di metallo al lato del ponte. Mezz’ora dopo il crollo del ponte: un pezzetto alla volta, in piccole scintille, e poi via, un tonfo nell’acqua, mente continua a bruciare. Crollata parzialmente la struttura, i detriti caduti nel fiume Tevere, e diversi blackout segnalati in zona. Nessun ferito.
Le fiamme erano visibili anche da molto lontano. Lo storico ponte, costruito nel 1863, era già andato a fuoco nel 2013, ma con conseguenze migliori. Allora, ero andato a fuoco un rifugio di fortuna sulla sponda del fiume. Da anni i residenti del quartiere chiedono una bonifica della zona. “Bisogna bonificare sulle sponde del Tevere, togliere insediamenti e sterpaglie”. A ripeterlo alcuni cittadini che vivono in zona Ostiense. “Non è la prima volta che partono da lì gli incendi e non sarà l’ultima se rimarrà in stato di abbandono”, dice Annamaria che si ferma a guardare con il marito da lontano il ponte distrutto dal rogo. “E’ incredibile che abbia preso fuoco un ponte di ferro – dice Mario – ci sarò passato centinaia di volte”. Andrea Lagatta
Ponte di Ferro, dal progetto dei papi all'eccidio nazista: là sopra è passata la storia. Corrado Augias su La Repubblica il 3 ottobre 2021. Costruito nel 1862-63 come passaggio ferroviario, è diventato il simbolo dell'industrializzazione, per poi finire abbandonato a se stesso, sulle rive del Tevere. Con lui è bruciato un pezzo della Capitale. Bastano le date per capire l'importanza simbolica del Ponte di Ferro nella storia di Roma. Siamo nel 1862, regna papa Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti. Il dominio temporale della Chiesa è in evidente declino. L'anno prima, marzo 1861, a Torino è stato proclamato il regno d'Italia che il pontefice, sgomento per la massa di incombenti novità, ha così commentato: "Da lungo tempo si chiede al Sommo Pontefice che si riconcilii con il progresso e con la moderna civiltà.
La sorpresa del Papa e l'eccidio delle partigiane. E quella passerella resa celebre anche da Totò.
Massimo Malpica il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Costruito in Inghilterra, il ponte fu assemblato a Roma e inaugurato nel 1863. I romani lo conoscono bene perché è tanto trafficato quanto stretto. Centotrentuno metri da una sponda all'altra, ma appena 7,25 metri di larghezza, con la parte carrabile ancora più ridotta dalla presenza dei marciapiedi. Ma il Ponte dell'Industria, avvolto dalle fiamme la notte tra sabato e domenica, non è sempre stato uguale. La capitale del fresco Regno d'Italia era ancora Torino, in quel 1863, quando le sponde del Tevere tra i quartieri di Portuense e Ostiense erano ancora amministrate dallo Stato Pontificio, e con la benedizione del Papa vennero unite dal «ponte di ferro», come i romani lo hanno sempre chiamato, tirato su in circa un anno con materiale di ferro e ghisa costruito in Inghilterra e assemblato poi da una società belga nella Città Eterna, su piloni di ghisa e calcestruzzo. In origine il Ponte dell'Industria era un ponte ferroviario, destinato a unire la Roma-Civitavecchia, inaugurata nel 1859, alla nascente stazione di Roma-Termini, costruita proprio in quel biennio 1862-63. All'inizio le campate centrali si potevano sollevare, per consentire ai battelli la navigazione del Tevere, e l'operazione venne fatta anche alla presenza di Pio IX che, con un sorprendente fuori programma, si presentò per il passaggio del primo convoglio ferroviario, il 24 settembre 1863. Poi, quasi esattamente sette anni dopo, arrivò la presa di Roma, e il ponte continuò il suo lavoro al servizio dei treni del Regno d'Italia fino a quando, 110 anni fa, nel 1911, i binari furono trasferiti su un altro ponte. Il Ponte di Ferro però non andò in pensione, ma venne riconvertito al traffico di veicoli e pedoni, e subì il primo restyling. Oggi solo i piloni che lo sorreggono sono ancora quelli originali e nel suo secolo e mezzo abbondante di vita il ponte ne ha vista passare di acqua sotto di sé e anche sopra di eventi non ne sono mancati. Il più drammatico risale al 7 aprile del 1944, quando dieci donne che avevano partecipato a un «assalto» popolare al mulino Tesei, un forno che riforniva l'esercito tedesco, spinte dalla carenza di cibo e dalla fame, vennero sorprese dalle SS, furono trascinate fino alle transenne del ponte e fucilate lì sul posto, come ricorda una lapide posta quando, mezzo secolo più tardi, quella strage dimenticata tornò alla luce. Dodici anni dopo, invece, a gennaio del 1956, fu Totò a camminare su quel ponte, vestendo i panni del portiere Antonio Bonocore durante le riprese de «La banda degli onesti». L'attore napoletano sta per buttare la valigia con il materiale per falsificare le banconote che gli era stata consegnata in punto di morte da un condomino del suo palazzo proprio affacciandosi sopra la passerella crollata l'altra notte per l'incendio, ma subito dopo cambia idea avviandosi alla sua carriera di falsario improvvisato. Ora quel ponte storico è inagibile. E mentre i romani scelgono il futuro sindaco, l'unica certezza è che per tornare a percorrerlo bisognerà aspettare un bel po'. Massimo Malpica
Le piaghe incurabili di Roma e l'eterno ritorno di Nerone. Vittorio Macioce il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La città brucia ancora, tra marcio e disillusione. Il Tevere è zona franca. Si respira aria di disfatta. Brucia. È una notte d'ottobre e le luci di Roma si spengono una dopo l'altra seguendo la traccia del fiume, da Sud a Nord, lì dove comincia la Magliana fino all'isola Tiberina. Le fiamme si vedono da lontano e illuminano il cielo di un rosso scuro che sa di sangue rappreso, come se fosse il sacrificio di un Dio, troppo antico per avere ancora qualcosa da dire e sgozzato come si fa con i maiali e poi lasciato a dissanguare. Ma come fa a bruciare un ponte di ferro? È una domanda che in tanti ripetono d'istinto, perché queste travi di metallo che disegnano un'architettura di fuoco stupiscono perfino i romani. Che succede? È uno spettacolo innaturale. Il ponte collega Ostiense e Portuense e lo chiamano «di ferro» perché quando lo hanno costruito segnava l'arrivo della modernità. Sta lì dai tempi di Pio IX, precisamente dal 1863, quando l'Italia aveva smesso da poco di essere solo un'espressione geografica, ma Roma era ancora papalina. Il nome ufficiale è ponte dell'Industria, che a Roma ha sempre l'eco della beffa, sotto ci sono le baracche e le sterpaglie e i rifiuti di chi da questa città eterna non si aspetta più nulla, perché Roma sa essere spietata con chi non conosce nessuno e ha smesso di stare in fila nella processione dei clientes. I segni dell'industria sono lo scheletro del Gazometro, un cilindro alto quasi novanta metri, una torre spogliata di cui restano solo le ossa di metallo. Era il sogno del sindaco Nathan, ma a finirlo fu Mussolini nel 1936 e il suo gas alimentava le luci della città. Era il più grande d'Europa e adesso lo raccontano come un esempio di archeologia industriale, come se fosse un piccolo Colosseo del Novecento, in una zona che tutti quelli che arrivano per governare indicano come da riqualificare. Ci stanno pensando le fiamme. È così in fondo che l'Urbe parla. Brucia, brucia Roma. Brucia così forse qualcuno se ne accorge. Brucia come ai tempi di Nerone. Brucia come si fa con gli eretici, nel segno di Giordano Bruno, perché almeno lui aveva ragione. Qui tutto torna e tutto si perde e solo il fuoco lascia il segno. Brucia per purificare il marcio e la disillusione. Brucia per dare agli aruspici qualcosa da dire, per oscurare i raggi delle stelle o per nutriti della tua anima selvaggia, risvegliata dai lupi, dai cinghiali, dalle zoccole e dai gabbiani, da questa metropoli immobile e assediata, che non si sa dove comincia e dove si chiude, dove finisci per conoscere soltanto il tuo quartiere, perché spostarsi costa un tempo indefinito, ma troppo spesso superiore a un viaggio in treno per Milano. Solo che i romani a Milano non ci vogliono andare. Li spaventa il cielo, quello che quando guardi in alto non c'è. È un'ombra di grigio. A Roma il cielo è un'illuminazione, solo che non si specchia nel fiume. È il Tevere il dio sgozzato, il maiale che arde, sanguina e urla. È il padre rinnegato. È il mistero di questa Roma, capitale irrisolta e postmoderna. Quando è diventata rabbiosa e idrofoba? Ha un mare e non lo sa. Ha un fiume e non lo frequenta. Il Tevere è una zona franca. Non è vivibile. Non è la Senna. Non è il Tamigi. Non è certo il Danubio. Non è un centro di aggregazione, di cultura, di divertimento. Non ci si va per mangiare o per ammirare artisti improvvisati. Non c'è una rive gauche. Attraversa la città, come se fosse un impiccio, un confine ogni volta da superare, un'idea da asfaltare. L'estate sì, si risveglia come una parentesi di vita sospesa tra Trastevere e il Ghetto l'isola Tiberina, con l'ambizione ma realmente realizzata di farne una cittadella delle arti e delle storie, ma per il resto è terra di nessuno, dove al massimo ti avventuri per correre in solitudine nel tratto che va da Prati a Ponte Milvio. Il resto è un solco clandestino, una cicatrice, la terra dove gli invisibili trovano rifugio. L'approdo è lì, proprio sotto il ponte di ferro, dove il centro guarda la periferia, dove si apre la strada che porta a Ostia, il mare rifiutato e abbandonato, lì dove nascono e muoiono i sogni della nuova suburra, romanzo criminale di cappa e spada. Non arriva più il profumo del mare. La realtà è che Roma, come scrive Christian Raimo, non è eterna. Roma puzza. Non è una metafora. Roma puzza davvero. È sfatta e c'è la monnezza. È l'odore che senti appena arrivi e quello che ti resta quando vai via. Vittorio Macioce
La notte di terrore: "Temevamo saltasse tutto". E adesso la viabilità rischia il caos fino a Natale.
Stefano Vladovich il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Oltre 180 famiglie al buio, senza acqua né gas. Stabilità della struttura a rischio. In fiamme il Ponte dell'Industria. Il rogo doloso, alimentato dalle sterpaglie e dalla spazzatura, in meno di un'ora fa collassare sul Tevere una delle due passerelle in metallo con le condutture del gas e dell'energia elettrica. Paura e caos nei due quartieri addossati al «ponte di Ferro», come lo chiamano i romani da oltre 150 anni, Ostiense e Marconi. L'incendio scoppia alle 23,30 di sabato quando, nelle strade della movida del porto fluviale, centinaia di persone ammassate fra i locali e gli stand di una manifestazione di street food, sentono un boato. Subito dopo l'incendio, alimentato dai rovi, dall'erba secca e dai cavi di gomma. «Abbiamo sentito un'esplosione - raccontano i testimoni corsi sul vicino ponte della Scienza per filmare il disastro -, poi le fiamme. Abbiamo temuto che saltasse tutto». Mentre dalla caserma di via Marmorata partono i primi mezzi dei vigili del fuoco, il traffico di auto non si ferma e dal vecchio Gazometro si dirige verso il ponte in fiamme. Sono i carabinieri di Trastevere, di pattuglia, i primi a intervenire. «Chi correva a piedi, chi faceva inversione di marcia - raccontano altri testimoni -. Nessuno, sulle prime, ha bloccato le auto che da piazzale della Radio andavano verso la via Ostiense e viceversa». Mentre i pompieri spengono le fiamme, black out in tutta la zona. Oltre 180 famiglie restano al buio, senza acqua e gas. In fuga i senzatetto che vivono sotto il ponte in giacigli di fortuna. «Dagli accampamenti - racconta un residente - sentivamo grida di aiuto. Poi abbiamo visto le fiamme avvolgere il ponte». «Abbiamo temuto che ci fossero delle vittime fra i clochard - spiegano gli agenti di Roma capitale -, fortunatamente quando i sommozzatori hanno fatto il sopralluogo, via fiume, non hanno trovato nessuno». Fra immondizia, coperte e avanzi di cibo sono state sequestrate tre bombole di gas gpl, utilizzate dai senzatetto per cucinare e scaldarsi. I pompieri devono attendere l'interruzione dell'energia elettrica per avere la meglio sulle fiamme. Alle due l'incendio è spento, anche se il fumo e l'odore di plastica bruciata si sentiranno fino al mattino per tutta Roma. Caos viabilità in tutto il quadrante sud est della capitale almeno fino a Natale, forse anche oltre. La sindaca Raggi sul posto assieme al presidente dell'VIII Municipio Amedeo Ciaccheri. Il ponte viene chiuso in attesa delle verifiche strutturali e del ripristino dei cavi di Acea e Italgas. «Le ripercussioni sulla mobilità della zona saranno pesanti» chiosa Ciaccheri. «Ci stringe il cuore vedere un pezzo di storia ridotto così - dice la sindaca Raggi mentre le fiamme avvolgono ancora la struttura -. Dopo i servizi, bisognerà valutare la stabilità strutturale per la riapertura». Per tutta la notte migliaia di romani hanno assistito al disastro. Alle 4 il vecchio ponte è dichiarato inagibile, interdetta la ciclabile e il traffico dei natanti. Stefano Vladovich
Il sospetto sul rogo di Roma: da dove sono partite le fiamme. Luca Sablone il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Quel sospetto sull'origine dell'incendio: le fiamme sono state innescate dalle bombole di gas di alcuni senzatetto? Si va verso l'apertura del fascicolo di indagine. L'incendio, un'altissima colonna di fumo visibile per chilometri, poi il crollo. Una lingua di fuoco sul Tevere nelle scorse ore ha destato fortissima preoccupazione: alla fine una grossa parte del ponte dell’Industria, meglio conosciuto a Roma come ponte di Ferro, ha ceduto. La domanda di fondo resta la stessa e i dubbi non sono ancora stati sciolti: da cosa sono state innescate le fiamme? Stando alle prime rilevazioni, non è da escludere che l'incendio possa essere partito da alcune strutture abusive sulle sponde del Tevere.
Il sospetto sui senzatetto.
Il sospetto è che le cause possano riguardare proprio le bombole e gli accampamenti dei senzatetto sotto al ponte: possibile che il rogo sia divampato mentre tentavano di riscaldarsi o di cucinare? Al momento si tratta semplicemente di ipotesi, visto che si stanno compiendo tutti i rilievi per comprendere se si sia trattato di un episodio accidentale o doloso.
I vigili del fuoco, dopo aver domato le fiamme, hanno iniziato una serie di verifiche nell'area coinvolta dall'ancendio. Gli accertamenti riguardano il complesso sistema di tubazioni elettriche e del gas interessato dal rogo. Dalle verifiche effettuate nelle prime ore della mattinata risulta che le condotte del gas che corrono lungo il ponte di Ferro "non hanno subito danni dall'incendio né lo hanno alimentato". Lo comunica un portavoce di Italgas.
Possibili deformazioni?
L'incendio che ha avvolto il ponte di Ferro a Roma ha fatto crollare una sezione lunga circa sette metri di una passerella che corre sotto la struttura e che serviva per la manutenzione e il passaggio di cavi elettrici. A spiegarlo è stato Francesco Notaro, comandante dei vigili del fuoco della Capitale, il quale ha fatto sapere che sono state già notate "delle possibili deformazioni". Ma per fare chiarezza in tal senso serviranno ovviamente un sopralluogo e altre verifiche del caso.
Lo stesso Notaro non ha escluso che il rogo possa essere stato scatenato dalle bombole di gas usate da alcuni senza dimora che si erano creati alloggi di fortuna proprio lungo la passerella andata distrutta. Molto alta la temperatura raggiunta dalle fiamme, alimentata dal rivestimento di gomma dei cavi elettrici. Interi quartieri, da Ostiense a Monteverde, sono rimasti al buio per buona parte della notte; ora l'Acea sta ripristinando le utenze dell'elettricità saltate.
Verso l'apertura delle indagini
Nelle prossime ore sarà depositata alla procura di Roma un'informativa. A quel punto i magistrati potranno procedere formalmente all'apertura del fascicolo di indagine per accertare l'origine del rogo. "Siamo qui dalle due di stanotte. Otto ore di rilievi. È caduta una passerella laterale che porta i cavi della corrente e dell'acqua. Ora partiranno le indagini sui materiali. Il sopralluogo non è terminato", hanno dichiarato a LaPresse i tecnici del dipartimento Sviluppo infrastrutture e manutenzione urbana del comune di Roma.
Le reazioni
Non sono mancate le reazioni politiche. Sul posto Virginia Raggi, sindaco di Roma: "Stiamo cercando di capire cosa è successo, oggi c'è stato un incontro. Io non mollo Roma, vado avanti". Roberto Gualtieri del centrosinistra nella notte ha raggiunto il primo cittadino con cui ha avuto uno scambio di battute. A prendere parola è stato anche Carlo Calenda. "Scene apocalittiche per fortuna senza feriti", si è limitato a commentare il candidato di Azione. Invece Enrico Michetti del centrodestra ha preferito rispettare il silenzio elettorale: "Io non commento neanche l'incendio di ieri. Il silenzio è il silenzio".
Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura.
Brucia il Ponte dell'Industria: "Rogo doloso tra le baracche". Ecco tutte le denunce ignorate. Stefano Vladovich il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Incendio doloso. È il reato ipotizzato dalla Procura di Roma, in attesa dell'informativa dei carabinieri e della relazione dei vigili del fuoco per aprire ufficialmente il fascicolo d'indagine. Incendio doloso. È il reato ipotizzato dalla Procura di Roma, in attesa dell'informativa dei carabinieri e della relazione dei vigili del fuoco per aprire ufficialmente il fascicolo d'indagine. A provocare il rogo delle sterpaglie, propagato alle tubature e alle passerelle, un colpo di vento su un fornello a gas, un mozzicone di sigaretta o la mano di qualcuno che voleva fare una strage? Fra le ipotesi al vaglio degli inquirenti anche il corto circuito dei cavi elettrici che passano lungo il ponte. Oltre agli esperti dei vigili del fuoco al lavoro anche i tecnici del Nucleo Investigativo dei carabinieri di via In Selci, che hanno fatto un sopralluogo sui resti crollati del ponte dell'Industria.
Un disastro che si poteva evitare soprattutto dopo il precedente rogo del 2013. «Peggio di Nerone», commenta il deputato forzista Sestino Giacomoni. Questa volta, però, non sono le case fatiscenti dell'antica Subura a finire in cenere. Duemila anni dopo è l'incuria a mettere in ginocchio la città. Un disastro annunciato: dall'incendio provocato da un cucinino dei clochard che vivono sotto il ponte dell'Industria, nel febbraio di otto anni fa, alle decine di denunce dei comitati di quartiere e degli amministratori locali. «Sgomberate la baraccopoli, bonificate il ponte dalle erbacce», gridavano. Tutte inascoltate. Fino a ieri quando ancora una volta qualcuno ha appiccato il fuoco, volontariamente o accidentalmente, alla giungla di rami secchi che avvolgeva il «ponte di ferro». E i romani ancora una volta dovranno arrangiarsi su percorsi alternativi. Almeno fino al restauro e alla messa in sicurezza dello storico attraversamento sul Tevere. Mesi, nella migliore delle ipotesi. Il primo a lanciare l'allarme, all'indomani del precedente incendio, è l'ex vicepresidente dell'XI Municipio Marco Palma. «Ho scritto decine di mail in pec a vigili del fuoco, polizia municipale, assessorato - racconta Palma, attuale capogruppo di FdI -, ma a parte una risposta della Regione non abbiamo ottenuto nulla». Nel 2019 il Municipio viene sfiduciato venendo meno la maggioranza sulla preferenziale di via Portuense, fortemente voluta dal Campidoglio nonostante il parere negativo del parlamentino. È la stessa Raggi ad assumersi l'onere di commissario straordinario, incarico poi «mollato» all'ex presidente Mario Torelli, suo facente funzioni. Il degrado del ponte, fra sgomberi e nuove occupazioni, rimane. Il 3 febbraio 2013 Palma invia una prima denuncia in Campidoglio: «Si chiede se cavi e tubazioni necessitano di condizioni di sicurezza superiori rispetto alle occupazioni dei senza fissa dimora a ridosso e sottostanti il ponte». Nessuna risposta. Passano gli anni, la situazione arriva a livelli critici. Il 28 marzo 2021 la segnalazione all'assessore al verde pubblico Laura Fiorini e alla sindaca: «In via Pacinotti, all'imbocco del ponte dell'Industria, erbacce alte un metro e mezzo». Il 30 marzo vengono inviate alla Raggi foto e nuove segnalazioni del degrado del ponte circondato dalle sterpaglie. Non accade niente. Palma, appoggiato dai comitati di quartiere, torna alla carica. Una nuova denuncia viene inoltrata alla Regione Lazio, al Prefetto, al presidente della Pisana Zingaretti, alla sindaca Raggi. Nel documento si parla del totale abbandono degli argini del Tevere «da anni occupati dai senza fissa dimora, alimentando condizioni di abusivismo e attività inquinanti a discapito dei luoghi e del fiume stesso». La risposta della Regione è uno scaricabarile: «Le competenze dell'Autorità Idraulica non contemplano attività mirate al ripristino di situazioni di degrado urbano. La problematica si identifica nella presenza di senza fissa dimora con realizzazione di insediamenti precari». Stefano Vladovich
Da "Ansa" il 4 ottobre 2021. Nell'informativa inviata in Procura dalle forze dell'ordine intervenute per l'incendio che ha gravemente distrutto il Ponte di Ferro a Roma sono state allegate anche alcune foto da cui emergerebbe che le fiamme sarebbero partite da un fornelletto a gas in un giaciglio di fortuna presente sotto il ponte. Il procedimento è stato affidato al procuratore aggiunto Giovanni Conzo. L'indagine punta a chiarire le cause del rogo e non è escluso che verrà affidata una consulenza tecnica. Al momento sembra quindi tramontare l'ipotesi del corto circuito. Una indagine per incendio colposo e delitti contro la pubblica improduttiva è stata aperta dalla Procura di Roma. Il fascicolo è stato avviato dopo una prima informativa di carabinieri e vigili del fuoco. Intanto è stata disposta una nuova circolazione oggi nelle zone di Ostiense e Marconi a Roma con il ponte dell'Industria chiuso a causa del maxi incendio che lo ha interessato la notte di sabato. Al momento si registrano rallentamenti che sarebbero in linea con il traffico abituale, ma stamattina molte scuole sono chiuse a causa delle elezioni. Punto di collegamento tra due quartieri popolosi della città, la chiusura del ponte avrà inevitabili ripercussioni sul traffico in quel quadrante di Roma. Per questo il Comando Generale della polizia ha previsto un rafforzamento dei servizi di viabilità nella zona con diverse pattuglie nelle aree limitrofe e nei principali snodi di viabilità che incidono sull'area.
Laura Larcan per "il Messaggero" il 4 ottobre 2021. Un senso profondo di amarezza, che sfocia nella rabbia. Le voci la trattengono a stento. Parlano di «immagini choc», di «ferita profonda», di «dolore», «di aria irrespirabile», di «puzza acida di bruciato». Un De profundis collettivo. Sono i tanti cineasti, attori e registi, personaggi legati al Ponte dell'Industria («preferisco chiamarlo ponte di ferro», ripetono come un mantra), monumento ottocentesco sull'Ostiense, figlio della Roma Capitale, di un Risorgimento industriale e scalpitante, aggredito dal fuoco sabato notte, e danneggiato dal crollo parziale della struttura laterale. «Sono state ore di ansia, di un'angoscia quasi emotiva, tutto quel fuoco che sembrava divorarlo, era impressionante. La luce andata via per il black out, l'odore forte di bruciato nell'aria», racconta l'attore Filippo Nigro, il Cinaglia della serie cult Suburra. Lo conosce bene quel ponte di ferro. Sono anni che abita in questo quartiere segnato dallo skyline delle arcate in ferro e ghisa del ponte dolorante e dal Gazometro. Cittadino dell'Ostiense. Casa e lavoro, per Nigro, visto che la zona è spesso set naturale per film e serie televisive. Tante le scene girate non lontano dal ponte. A partire da Le Fate Ignoranti di Ferzan Ozpetek. «Fa rabbia. Io abito a dieci metri da lì, ci passo sempre con la bicicletta. Le condizioni dell'area del ponte sono sotto gli occhi di tutti, e non vorrei scadere nella facile retorica, perché Roma la voglio difendere sempre, anche quando attraversa periodi storici in cui è difficile difenderla, ma il degrado è talmente evidente...È così da tempo, e si è acuito negli anni». Sabato notte l'allarme gliel'ha dato il figlio, fuori con un amico, con una telefonata: «Papà, il nostro ponte va a fuoco, un inferno», ricorda Nigro. Incredulità totale. Ieri mattina, ha preso la sua bicicletta ed è corso a vedere con i propri occhi. Insieme a tanti residenti. «Di fronte a quello spettacolo, mille pensieri. Può essere questo il simbolo di Roma?», commenta. Non poteva che essere addolorato lo stesso regista Ferzan Ozpetek, che proprio qui abita da anni, e sempre qui è tornato a girare la serie tratta dal suo capolavoro Le Fate Ignoranti. «Che dolore! Era molto trascurato da tempo. Spesso ci passavo a piedi e lo sentivo non sicuro. Mi mancherà tanto tanto. Ci mancherà». Cuore di una Roma moderna, costruito nel 1862 per collegare la ferrovia di Civitavecchia alla stazione di Roma Termini, il Ponte di Ferro rappresenta un monumento icona di questo quadrante romano, collegando strategicamente l'Ostiense alla Portuense, da via del Porto Fluviale a via Pacinotti. Da romano e sempre sensibile alle sorti della sua città e del suo patrimonio storico, Alessandro Gassman commenta: «L'unica cosa che posso dire è che chi conosce Roma, perde ricordi belli. Peraltro il ponte si appoggia sul Lungotevere Vittorio Gassman. Spero possa essere rimesso a posto da chi avrà l'incarico di governare questa città». Il regista Daniele Luchetti conosce bene la zona: «Standoci sotto ti rendi conto davvero di cos' è questo monumento e della realtà che lo circonda. Io ci passo spesso in bicicletta con mio figlio - spiega l'autore di Lacci e Mio fratello è figlio unico - Ti accorgi di una parte della città che è ritagliabile, priva di collegamenti. Brandelli di una Roma industriale che si rischiano di perdere. Mi piacerebbe che si approfittasse di questo momento tragico per ripensare a questa Roma sepolta, che non deve essere vista come un'architettura a perdere, ma un valore storico aggiunto da collegare al tessuto della città». Parla di «immagini terribili», l'attrice Claudia Gerini. «Per chi conosce Roma e vive a Roma l'immagine del ponte avvolto dalle fiamme è stato un duro colpo. Quel luogo rappresenta un pezzo importante del paesaggio romano. E vedere quel crollo nel Tevere ha fatto davvero effetto. Sembra quasi simbolico. In una città, in un paese, dove i ponti non dovrebbero crollare». Sospira, la Gerini. «Guardi, proprio ieri sono andata a visitare il Colosseo - continua l'attrice - un luogo che restituisce al pubblico la netta percezione di come i padri antichi di questa città abbiano costruito all'insegna della magnificenza, di come siano stati maestri nel creare monumenti complessi perché durassero. Ecco, io mi auguro che questi fatti terribili possano scrollare le coscienze di coloro che dovranno amministrare questa città, che deve restare magnifica e deve conservare il suo patrimonio».
Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 4 ottobre 2021. L'ultima volta che li hanno visti era il 20 settembre scorso. Poche persone, che avevano trovato rifugio sotto le arcate del Ponte di Ferro. Avevano dormito sulle brandine ora ridotte a scheletri anneriti dal fuoco, e avevano anche cucinato, usando pentole che i pompieri hanno tirato su dalla cenere. Per accendere il fuoco avevano sfruttato bombole del gas che i soccorritori hanno trovato integre, con i rubinetti chiusi. Segno che non c'è stata alcuna perdita, né voluta né accidentale. In un angolo sono state scoperte anche un paio di taniche da 20 litri, con il tappo. All'interno nessuna traccia di liquido infiammabile, ma solo acqua, raccolta dalle fontanelle pubbliche sempre per cucinare e per lavarsi. Così, almeno fino a due settimane fa, viveva una decina di senzatetto, forse immigrati dell'est Europa, anche se non si esclude che in passato al Ponte di Ferro abbiano «abitato» punkabbestia, nomadi fuoriusciti dagli sgomberi dei campi, sbandati (anche romani, con precedenti di polizia oppure con problemi psichici), spacciatori. Soprattutto sul greto dal lato di viale Marconi, quello completamente distrutto dall'incendio di sabato notte. Nessuna traccia di bambini o comunque minorenni. Un insediamento per pochi, come del resto sono le centinaia di bidonville che si sono formate negli ultimi mesi proprio sulle sponde del Tevere: il Comune ne ha censite circa 130, ma verso la Magliana e forse anche più avanti ce ne potrebbero essere anche di più. Nella maggior parte dei casi gli occupanti, come del resto quelli del Ponte di Ferro, non sono stanziali: si muovono da un campo all'altro, si scambiano baracche e suppellettili, dopo ogni sgombero cercano nuovi ripari. I carabinieri della compagnia Trastevere stanno cercando gli ultimi che hanno vissuto all'ombra della struttura metallica. A metà settembre c'erano, non è detto però che sabato notte fossero davvero lì sotto, anche se pompieri e militari dell'Arma hanno trovato le loro cose. Gli investigatori si sono mossi ad ampio raggio e hanno setacciato diversi accampamenti. Poi hanno interrogato alcune persone che frequentavano l'insediamento, al centro di una mezza discarica, fatta di rifiuti e cartoni gettati anche da chi in zona ci vive e ci lavora. C'è chi non ha alcuna occupazione, chi si arrangia anche raccogliendo ferro nei cassonetti da rivendere agli sfasci, chi tira avanti chiedendo l'elemosina, chi lava i vetri delle auto agli incroci sul lungotevere. In passato c'erano anche parcheggiatori abusivi. Una comunità composita, che a volte si ritrova nelle mense dei poveri della zona, ma più spesso quando ormai è buio sempre sotto il Ponte di Ferro. Oppure sotto il ponte della ferrovia di Ettore Rolli, proprio a due passi, verso Porta Portese. All'inizio di settembre il sottopasso è stato danneggiato da un incendio doloso che ha distrutto un dormitorio per clochard. All'epoca si parlò di un regolamento di conti fra senzatetto proprio per l'occupazione di quel passaggio pedonale, al centro delle proteste ripetute dei residenti, stufi di assistere impotenti al degrado quotidiano del quartiere. Reazione simile a quella di sabato notte, anche se per il momento appare prematuro - considerato che fino a questo momento la pista dolosa appare la meno accreditata - ipotizzare un collegamento fra l'incendio al ponte e quello del sottopasso.
Emiliano Bernardini e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 4 ottobre 2021. Le fiamme che divorano e squarciano la notte avvolgendo quasi per intero il ponte di Ferro tanto caro ai romani. Le famiglie che vivono a pochi metri e si riversano in strada, spinte dalla paura. Il giorno dopo, in quest' angolo di Roma, resta quel forte odore di bruciato e una dinamica ancora da chiarire. A lavoro per risalire all'origine dell'incendio, che sabato sera intorno alle 22.20 ha fatto accendere come una torcia l'infrastruttura che collega due popolosi quartieri - Marconi e Ostiense -, i carabinieri della Compagnia Trastevere, i militari del Nucleo investigativo di via In Selci attivati dalla Procura e i vigili del fuoco. Si esclude il dolo: nessuno ha appiccato quell'incendio ma resta da individuare il punto di origine. Sabato sera poco dopo le 22.20 la centrale operativa dei vigili del fuoco riceve una chiamata: «Sta bruciando il ponte dell'Industria». Partono le squadre mentre sul posto si fermano durante un controllo del territorio anche i militari dell'Arma. Le operazioni di spegnimento vanno avanti fino all'una e trenta di notte quando il rogo viene definitivamente domato e si passa a scandagliare l'area circostante, a partire da quell'insediamento abusivo fatto di brande, materassi, sedie, pentole e fornelli che insiste proprio sotto al ponte, sul lato del quartiere Marconi, all'altezza di via Antonio Pacinotti, da cui potrebbero essere partite le prime fiamme. Qui i vigili del fuoco troveranno due bombole a gas e non si esclude che, «per cause accidentali, l'incendio sia partito da quest' area», spiega il Comandante provinciale dei vigili del fuoco Francesco Notaro. Un terrapieno a circa 2.50 metri dalla conduttura dei servizi che poi crollerà sotto il peso del fuoco. Alcuni residenti parleranno di un'esplosione: «uno scoppio e poi le fiamme». Lì tra quei giacigli di fortuna è tutto bruciato: sedie, reti, materassi, scarpe e pentole a riprova che in quest' area gli sbandati non ci andassero solo a dormire. I carabinieri sequestrano la zona e acquisiscono anche le immagini di videosorveglianza di alcuni impianti posti sui palazzi di via Pacinotti. Alcuni testimoni diranno di aver visto, negli istanti precedenti al rogo, delle persone transitare per quest' accampamento di fortuna dal quale già diversi anni fa, partì un incendio che non riuscì a raggiungere il ponte solo per le cattive condizioni atmosferiche dettate dall'inverno. Tra le ipotesi, però, ce n'è anche un'altra, ovvero quella per cui il rogo sia partito dal centro del ponte a causa di un corto circuito e che poi si sia propagato per 131 metri investendo anche l'area occupata abusivamente. «Stando all'analisi di alcuni elementi - confida un investigatore - e facendo una ricerca su fonti aperte, ci sono immagini scattate subito dopo l'inizio dell'incendio che lo vedono propagarsi dal centro del ponte». La certezza arriverà solo al termine delle verifiche tecniche mentre oggi due informative saranno trasmesse alla Procura che molto probabilmente aprirà un fascicolo per incendio colposo. Di certo l'estensione dell'incendio non è stata causata dalle condutture del gas. Ieri a valle dei primi rilievi l'Italgas faceva sapere che: «le condotte del gas che corrono lungo il ponte di Ferro, prontamente isolate chiudendo le valvole a monte e a valle, non hanno subito danni dall'incendio né lo hanno alimentato. Il servizio di distribuzione del gas nella zona prosegue regolarmente e non ha subìto interruzioni». Il ponte di Ferro è affumicato ma è ancora in piedi. A crollare il corridoio dei servizi. Per questo tre interi quartieri sono finiti al buio. Ancora incerti i tempi per la riapertura. I vigili del fuoco sostengono che il calore sprigionato dalle fiamme ha recato danni e dunque è necessario intervenire subito sulla struttura che al momento non rischia il tracollo. Molti residenti sabato si sono accorti di quanto stava accadendo perché è saltata la luce. «Stavo guardando la tv e all'improvviso si è spento tutto. Ho provato a smanettare con il contatore, poi ho guardato fuori per vedere se l luce fosse saltata solo a me così ho capito quanto stava succedendo» racconta il signor Filippo, 68 anni, che abita a poche centinaia di metri del ponte dell'Industria. Decisamente più scioccante la notte di chi abita proprio sopra il ponte. Su via Pacinotti ci sono due condomini molto grandi. «La luce è mancata per almeno mezzora. I vigili del fuoco ci hanno citofonato per avvertirci dell'incendio e soprattutto per sapere se avevamo auto nei paraggi. Per paura siamo scesi tutti in strada. Abbiamo passato la notte qui» rivela Antonella. Il buio è durato poco raccontano quasi tutti i residenti ma «la paura ci si è infilata addosso». Questo il sentimento più diffuso tra chi sabato è stato svegliato dalle fiamme.
Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 5 ottobre 2021. Un video e due foto. Immagini dalle quali si evince che l'incendio è divampato alla base del Ponte di Ferro. E si è propagato in pochi istanti alle strutture vicine, comprese le canaline che contenevano cavi elettrici, fibre ottiche e tubature del gas. Una galleria di servizio lunga quasi 150 metri, avvolta da guaine in gomma e bitume, che ha fatto da combustibile per alimentare il rogo di sabato notte. Ma alla base dell'incendio che ha devastato uno dei ponti ai quali i romani sono più affezionati c'è stato un episodio accidentale. Niente dolo, quindi, ma un braciere utilizzato dai senzatetto accampati sotto il ponte per illuminare quell'anfratto dove dormivano in sette-otto e per cucinare. È questa la convinzione del procuratore aggiunto Giovanni Conzo che ieri mattina ha riunito i vertici provinciali di carabinieri e Vigili del fuoco per fare il punto delle indagini, proprio nel giorno in cui è stato aperto un fascicolo per incendio colposo e delitti contro la pubblica incolumità. Contro ignoti, almeno per ora, perché i clochard in questione non sono stati ancora rintracciati. Nell'informativa presentata dai carabinieri del Reparto operativo e del Nucleo investigativo di via in Selci, accompagnata dalla relazione tecnica dei pompieri, ci sono due fotografie scattate da chi indaga quando l'incendio non era stato ancora spento: si vede una sorta di braciere, appunto, forse un fornelletto artigianale, con una fiamma viva e vicino alcune pentole annerite dal fuoco, fra di esse anche una a pressione. Ci sono pure tizzoni, legno che arde, forse preso dalle sponde del Tevere, in quel tratto di fiume, soprattutto dal lato di viale Marconi, poi ridotte a una distesa carbonizzata. Insomma, poco prima delle 23 di sabato qualcuno ha acceso quel fuoco che potrebbe poi essergli sfuggito di mano proprio a ridosso dell'inizio della canalina di servizio che in quel punto si infilava nel terreno mentre dalla parte opposta saliva sotto la passerella pedonale schiantata al suolo dopo essere stata deformata dal calore sprigionato dall'incendio. Dal video fornito dai sommozzatori dei Vigili del fuoco, che hanno il loro storico presidio in via del Porto Fluviale, proprio sulla sponda opposta, quella dal lato del quartiere Ostiense, e registrato dalle telecamere di sicurezza puntate sul fiume (dove i pompieri hanno gommoni e barconi per il soccorso) si percepisce prima un bagliore sempre sotto il Ponte di Ferro, quindi si vedono fiamme sempre più violente alzarsi dall'insediamento abusivo che è stato distrutto dal rogo. La conferma che tutto è cominciato da quella parte, un luogo dove già in passato ci sono state bonifiche delle sponde, con la rimozione di baracche e giacigli di fortuna. Ma nulla è cambiato, tutto è tornato come prima. Degrado allo stato puro, aggravato - come ha denunciato l'Ama - da discariche formate non soltanto dai rifiuti prodotti dalle persone accampate ma anche dagli esercizi commerciali della zona, con i titolari che gettano cartoni e altro oltre il parapetto del lungotevere senza rispettare la raccolta differenziata ma nemmeno le più elementari regole della civile convivenza. Uno scenario che d'altra parte per i romani non è purtroppo una novità, visto che sono centinaia gli insediamenti clandestini che si sono formati negli ultimi mesi lungo il corso del Tevere, spesso in zone inaccessibili per i veicoli delle forze dell'ordine, come nelle anse «morte», verso Acilia e Ostia, raggiungibili soltanto via fiume. Ecco perché non si esclude che già nelle prossime settimane l'argomento sarà affrontato in un Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, per mettere a punto un piano d'intervento complessivo, con i vertici delle forze dell'ordine, per riqualificare intere aree ormai abbandonate. Intanto però già si pensa al futuro del Ponte di Ferro, ora completamente transennato per impedire l'accesso ai tanti curiosi che continuano ad affollare il lungotevere per scattarsi selfie con la struttura annerita dalle fiamme: nei prossimi giorni saranno effettuati sopralluoghi per iniziare a pensare a un restauro, dopo l'ok dei Vigili del fuoco che hanno dichiarato il ponte inagibile ma recuperabile. Ma ci vorranno mesi. I romani sperano non anni.
Michela Allegri per "il Messaggero" l'8 ottobre 2021. Un disastro provocato dall'incuria, dal degrado. Segnalazioni ignorate, così come gli allarmi lanciati dai residenti per denunciare il pericolo: tutti sapevano che l'accampamento abusivo di clochard sotto il Ponte di Ferro si era da tempo trasformato in una favela sulle sponde del Tevere, con erba alta, sterpaglie, fuochi accesi per cucinare, bombole e fornelletti da campeggio, scatoloni utilizzati come riparo dalla pioggia. Nessuno è intervenuto. E adesso la mancanza di manutenzione rischia di costare caro ai responsabili del Campidoglio che avrebbero dovuto curare l'area e proteggerla dalla devastazione. Il procuratore aggiunto Giovanni Conzo, nell'ambito dell'inchiesta sul rogo del ponte, indaga anche per verificare come mai l'area fosse stata praticamente abbandonata. E non è escluso che alle ipotesi di incendio colposo e delitti contro la pubblica incolumità possa affiancarsi anche un altro titolo di reato, relativo alle mancanze della pubblica amministrazione, che potrebbero avere contribuito ad alimentate il fuoco che nella notte tra sabato e domenica ha divorato il Ponte dell'Industria, nel quartiere Ostiense.
IL BIVACCO Nella prima informativa che i carabinieri del Nucleo investigativo e della compagnia di Trastevere hanno depositato in Procura viene spiegato che le fiamme sarebbero partite proprio dalla favela: un fornelletto da campeggio acceso e utilizzato per cucinare avrebbe fatto esplodere una bombola, oppure una pentola a pressione. I clochard cha hanno allestito il bivacco - si tratta di sette o otto persone - sono fuggiti e gli investigatori sono al lavoro per identificarli. Ma le indagini puntano anche a ricostruire le possibili responsabilità del disastro dal punto di vista amministrativo. Da un monitoraggio effettuato due settimane prima del disastro era stata confermata la presenza di senza tetto, accampamenti abusivi e una specie di discarica a cielo aperto, con scatoloni e rifiuti. Alla fine del 2020 i Vigili del fuoco avevano anche denunciato il pericolo: la favela metteva a rischio la sicurezza dell'area, soprattutto per la presenza di diverse persone accampate. La relazione era stata inviata alla Regione, anche se la pulizia extra delle banchine spetterebbe al Comune.
LE COMPETENZE Il problema è che, da sempre, sulla questione delle competenze relative al Tevere, regna il caos: se ne occupano diciotto uffici diversi. Delle sponde si occuperebbe il demanio della Regione Lazio, del corso dell'acqua si prende cura l'Autorità di bacino. Per la gestione delle piene e dei barconi interviene la Capitaneria di Porto, mentre il pronto intervento è affidato al Distaccamento fluviale dei Vigili del Fuoco e la sicurezza è in mano alla Polizia Fluviale. Nel dicembre del 2017, però, la sindaca Virginia Raggi ha inaugurato l'Ufficio speciale Tevere, che si sarebbe dovuto occupare di «ponti di attraversamento sul Tevere, parapetti, manutenzione, pista ciclabile, opere di sostegno dei ponti». Nella pagina di presentazione veniva specificato che «le attività di manutenzione, valorizzazione, sviluppo e tutela delle acque ed aree spondali, prospicienti il corso del fiume Tevere rappresentano una priorità per l'Amministrazione Capitolina». Tra gli obiettivi raggiunti, veniva sottolineata la creazione del «Gruppo di monitoraggio dell'Ufficio speciale Tevere, finalizzato ad attualizzare lo stato conoscitivo delle sponde e delle aree golenali del fiume».
Che cos'è la Suburra? Sinonimo di quartiere malfamato, al punto da aver dato il titolo di film e serie tv "crime", la Suburra era il cuore della Roma malfamata, ma tollerata dal potere. Da Focus.
Suburra era soprattutto il cuore dell’altra Roma, quella dei bordelli e delle bettole poco raccomandabili, tollerate dal potere e dai ricchi. Focus
“…Alla libidine atroce
Ogni strada era suburra”
Così si legge nel libro primo delle Laudi di Gabriele D’Annunzio, dove il termine suburra è usato nel suo significato letterario di quartiere malfamato: e proprio questo era nell’antica Roma Suburra, in latino Subura, la zona dell’Urbe che corrisponde all’attuale Quartiere Monti, a ridosso dei Fori Imperiali, non lontano dalla stazione Termini e dal Quirinale.
UN QUARTIERE POCO RACCOMANDABILE. Tra le sue strade strette, sporche e rumorose a partire dal III secolo a. C. si svolgeva la vita quotidiana della Roma popolare abitata da teatranti, gladiatori e cortigiane. Di tutti i quartieri popolari di Roma, Suburra era il più malfamato e il più pericoloso: qui si trovavano le bettole più malfamate, rifugio di prostitute, ladri e ogni genere di fuorilegge. Dopo il tramonto, camminare tra le sue strade era una sfida al destino: i delitti erano all’ordine del giorno e chi era costretto ad attraversare il quartiere lo faceva scortato da schiavi armati e muniti di fiaccole. Anche per questo, e per proteggersi dai ripetuti incendi della Suburra, i ricchi romani al potere si erano limitati a far erigere un muro attorno al quartiere, ottenendo l’effetto di accentuare il dislivello tra Roma e Suburra, la cui etimologia - secondo alcuni - rimanderebbe proprio alla posizione “sub urbe”, cioè più bassa rispetto a quella della città. Ma come tutti i luoghi popolari, anche la Suburra ebbe le sue celebrità: vi nacquero Giulio Cesare (100 a. C. - 44 a. C.) e il poeta Marziale (40-104).
A LUCI ROSSE. Ma Suburra era soprattutto il cuore dell’altra Roma, quella dei bordelli e delle bettole poco raccomandabili, tollerate dal potere e dai ricchi che nel quartiere a luci rosse si recavano per soddisfare la propria lussuria. Le visite di Valeria Messalina (25-48), moglie dell’imperatore Claudio, erano proverbiali. Raccontano i biografi Svetonio e Tacito che si travestiva da prostituta (bastava togliersi la stola delle matrone e indossare una parrucca rossa) per recarsi nel quartiere, dove si concedeva a ripetizione. Durante le sue uscite hard in incognito usava un nome fittizio: Lisisca, ovvero “donna-cagna”. Si racconta che si presentasse nei bordelli con i capezzoli dorati, con il trucco pesante caratteristico delle prostitute, per offrirsi a marinai e gladiatori. Nerone (37-68), invece, vi si recava travestito da poveraccio per saggiare gli umori del popolo sul suo governo (al tempo non esistevano i sondaggi).
SUBURRA OGGI. L’anima popolare del quartiere Monti, dove ancora esiste Piazza Suburra, ha resistito nei secoli, per tutto il Medioevo e il Rinascimento, fino al restyling di Roma di fine ottocento, successivo alla Breccia di Porta Pia. Ma dove Papi, invasori e architetti si sono arresi, è arrivata la gentrificazione, che ha fatto della vecchia Subura romana un luogo alla moda, anche per la sua posizione centrale. Dell’antica Suburra ormai resta solo il valore nominale di “insieme dei quartieri più malfamati di qualsiasi grande città”, che ne ha anche fatto il titolo di un libro sulla Roma criminale, da cui sono nati un film e la serie tv di Netflix.
24 ottobre 2017 Eugenio Spagnuolo su Focus.
(ANSA il 30 settembre 2021) "Sto preparando anche una squadra di esperti nazionali e internazionale per aiutarmi sul Pnrr". Lo annuncia la sindaca di Roma Virginia Raggi a L'Aria Che tira su La7. Si va, come spiega la prima cittadina, dall'imprenditore Paolo Scudieri a Oscar Farinetti (fondatore di Eataly) dall'ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio all'ex ministra Paola Pisano, da Christophe Babin, ad di Bulgari, a Angelo Consoli, "che è' il portavoce del Nobel dell'Economia Jeremy Rifkin". Sono persone che in questi anni si sono avvicinate a me, mi hanno già' iniziato a supportare a cui chiedo consigli. Il rapporto è già avviato", aggiunge.
Da iltempo.it il 30 settembre 2021. Paolo Liguori fa secca Virginia Raggi. Il giornalista di Mediaset è ospite della puntata del 29 settembre di Stasera Italia, programma di Rete4 condotto da Barbara Palombelli, e bacchetta pesantemente la sindaca di Roma per il suo operato nella Capitale: “A quattro giorni dalle elezioni trovo poco elegante infierire sulla Sindaca, lo sappiamo che non è stata una buona sindacatura. Dico solo una cosa, che mi ha colpito più di tutte, l’incoerenza, il passaggio da una posizione ad un’altra con una grande faciloneria. Lei ha detto no alle Olimpiadi a Roma dicendo che sarebbero state le Olimpiadi del mattone e della speculazione, poi ieri lei ha applaudito all’annuncio di Mario Draghi sull’Expo. Io ho applaudito a quell’annuncio, ma avrei voluto pure le Olimpiadi, che saranno una grande occasione per Milano. Questo passaggio di posizioni è dovuto a fatti radicalmente cambiati in Italia e a Roma? Oppure ci tratta da bambini?”.
Da liberoquotidiano.it l’1 ottobre 2021. Una bombetta prima del voto a Roma. Una bombetta sganciata da Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, nella puntata del programma in onda su Rete 4 nella serata di giovedì 30 settembre. Un servizio girato nelle periferie della capitale che per certo imbarazzerà il sindaco uscente, Virginia Raggi, la grillina che sta tentando il bis. Del Debbio introduce il servizio spiegando che "nelle periferie, anche rom, ringraziano a modo loro i politici. Abbiamo trovato una signora rom che fa un ringraziamento particolare, singolare ai politici". O meglio, un ringraziamento particolare proprio alla sindachessa con le cinque stelle. E così ecco nel servizio la signora rom, la quale prima punta il dito: "Non mi danno lavoro sindaci e politici. Per questo rubo, io non sono onesta. Rubo per mantenermi e vado avanti: vestiti, scarpe, soldi, quello che mi capita. Dentro alle case? No, per strada. Mi hanno arrestato ma mi lasciano, lo sanno tutti. Mi hanno arrestato milioni, miliardi", confessa candidamente. Dunque riprende: "Di politici qui ne vengono milioni e miliardi, tutti razzisti contro i rom. Anche Virginia Raggi? No, la Raggi no. La ringraziamo che non va contro i rom: dà case popolari, aiuta i rom. Ringraziamo la Raggi: unica lei per Roma, numero uno a Roma", conclude la signora rom. Insomma, dopo aver ammesso di rubare e di essere quasi impunita, un bel "grazie" alla sindaca grillina. Un "grazie" di cui, supponiamo, Virginia Raggi avrebbe fatto volentieri a meno.
Da liberoquotidiano.it il 30 settembre 2021. "Trasmissione vergognosa. Perché tanto accanimento contro Virginia Raggi?". Il M5s attacca il programma di Barbara Palombelli Stasera Italia su Rete 4 per il "trattamento ricevuto" dalla sindaca di Roma che ha dovuto rispondere alle domande - anche scomode - di Paolo Liguori, Massimiliano Fuksas, Veronica De Romanis e, ovviamente, della conduttrice. Come riporta il sito TvBlog le osservazioni e le critiche sono state molte, a cominciare dalla rinuncia alle Olimpiadi. "Le abbiamo regalate alla Francia", osserva Fuksas. "Le Olimpiadi non costano, sono pagate quasi interamente dal Coni, in più in Francia ci sono delle attrezzature, non si deve costruire. Ci vogliono le idee ma anche molta capacità della politica". "Cinque anni fa disse che sarebbero state le Olimpiadi del mattone, della speculazione. Ieri ha invece applaudito all’annuncio della candidatura di Roma all’Expo da parte di Draghi", affonda il direttore di TgCom24. La Raggi quindi cerca di difendersi rivendicando gli interventi realizzati dalla sua giunta: "La ripresa è iniziata, i grandi gruppi di investimento stanno venendo a Roma. Le aziende partecipate ce le hanno lasciate devastate. Abbiamo risanato Atac e abbiamo comprato nel frattempo 900 nuovi autobus". Una frase che lascia di sasso la De Romanis: "Ma lei parla di una città che non è Roma". E la Raggi ribatte: "Io la città la giro tutti i giorni e vado in periferia". Ma la professoressa insiste: "Lei prende i mezzi pubblici? Non prende l’autobus, forse è lì che si capisce l’inefficienza". Domande che non sono state gradite dal M5s: "Trasmissione vergognosa", tuonano i pendastellati, "chiedendole con insistenza se prende l’autobus, si sono dimenticati che la sindaca è sotto scorta. Questa non è informazione", concludono nel vano tentativo di coprire la figura barbina rimediata dalla sindaca in trasmissione. Già, meglio dar contro alla Palombelli...
Virginia Raggi, rosso da oltre 122 milioni: i numeri che condannano il sindaco di Roma. Libero Quotidiano il 28 settembre 2021. Il successore di Virginia Raggi, a meno che questa non verrà rieletta, dovrà mettersi le mani nei capelli. Nonostante la sindaca di Roma vanti risultati eccezionali nella gestione dei conti del Comune di Roma, i documenti ufficiali rivelano l'esatto opposto. La Cinque Stelle aveva ereditato un rendiconto attivo dal predecessore Francesco Paolo Tronca (commissario straordinario fino al giugno 2016). Rendiconto dilapidato in pochissimo tempo. Nel 2016 - scrive il Tempo - il risultato era positivo di oltre 277 milioni di euro. Salvo poi l'anno successivo diventare di 110 milioni di euro. Le preoccupazioni si sono fatte più consistenti nel 2018, quando la giunta della grillina ha chiuso il ciclo gestionale con un buco di 41,6 milioni di euro. Non è andata meglio nel 2019, quando la perdita era pari a 62,4 milioni. Per non parlare poi dell'anno successivo che ha visto la Capitale fare i conti con la batosta coronavirus. L'ultimo consuntivo disponibile sul sito del Comune di Roma si è chiuso infatti con un rosso di 122,6 milioni di euro. A spiegare quanto accaduto ci pensa direttamente l'organismo di revisione comunale: "Rispetto al risultato economico conseguito nel 2019 si rileva una perdita di 122 milioni di euro. In peggioramento rispetto al 2019, dovuto al risultato negativo della gestione straordinaria (-159 milioni rispetto al 2019) non adeguatamente compensato dai valori positivi delle altre gestioni", si legge a pagina 44. Insomma i numeri smentiscono quanto va dicendo la Raggi e il Movimento 5 Stelle. Solo il 5 agosto scorso la prima cittadina affermava tutta orgogliosa: "Ancora una volta possiamo dire che i conti di Roma sono in ordine e che si torna a investire per il rilancio della città". Sarà, ma le cifre dicono ben altro.
Raggi chiede scusa a Marino: «Gesti che non rifarei». Raggi, a distanza di anni dal dramma politico e personale dell'ex sindaco, mette una pezza, ricordando il suo impegno per Roma. Il Dubbio il 25 settembre 2021. «Caro Ignazio Marino, ho letto con attenzione le tue parole. Come te, amo profondamente Roma, la nostra città. E mi trovo d’accordo su diverse delle idee da te proposte. L’esperienza maturata in questi anni mi ha portata a chiederti scusa per alcuni gesti che non rifarei e a poter dire con contezza che da sindaco avevi provato ad avviare un cambiamento che questa città richiede». Un commento ad un post su Facebook. Così Virginia Raggi, sindaco uscente della Capitale, chiede scusa ad Ignazio Marino, ex sindaco messo alla gogna dal suo stesso partito, salvo poi essere riabilitato dalle sentenze. Una caduta, la sua, che portò all’ascesa del M5S a Roma, dopo un periodo di commissariamento e la parentesi di “Mafia Capitale”, finita anch’essa in fumo alla prova delle aule giudiziarie. Raggi, a distanza di anni dal dramma politico e personale di Marino, mette una pezza, ricordando l’impegno dell’ex sindaco a Roma. «Provato – continua Raggi – perché il percorso fu interrotto a causa della “congiura di palazzo” ordita dal Pd romano in uno studio notarile: consiglieri in fila, senza il coraggio di una votazione in aula, per mandare a casa il sindaco della Capitale d’Italia.Una pagina da dimenticare dalla quale, in questi giorni, lo stesso Pd romano prova maldestramente a prendere le distanze: sono le stesse persone che ora si sono ricandidate e dicono di voler proseguire il cammino che, come dici, hanno volutamente interrotto anni fa. In questi anni ho appreso che il tempo è galantuomo e che è possibile cambiare idea: è segno di maturità e umiltà. Ma si deve anche avere credibilità, quella che manca a chi falsamente ora si professa “dispiaciuto”. Io mi batto per cambiare Roma. Lo faccio ogni giorno da cinque anni a questa parte. Come tu non hai timore di fare il nome di chi ti ha tradito, io voglio dirti che adesso è il momento di dimostrare il nostro coraggio e portare avanti queste idee insieme. Per Roma. Per i nostri cittadini». Sul suo profilo Facebook Marino aveva scritto un lungo post-riflessione sulla tornata elettorale. «Sono stato molto combattuto nel decidere se scrivere questa riflessione. Per settimane mi sono chiesto se volevo davvero espormi alle critiche che naturalmente genererà. Alla fine ho deciso di fare ancora una volta ciò che sento giusto e non quello che mi sembra più conveniente – ha scritto -. Prima di esserne messo alla porta, io fui un orgoglioso fondatore del Partito Democratico e addirittura corsi per la segreteria nazionale. Credevo che potesse rappresentare una straordinaria opportunità per l’Italia, accogliendo gli aspetti migliori dell’eredità culturale e valoriale del Partito Comunista di Enrico Berlinguer e della Democrazia Cristiana di Aldo Moro. Nel solco di questo pensiero ho messo tutto il mio impegno quando ho avuto responsabilità istituzionali, nel Parlamento e in Campidoglio». «Non conosco la visione del Partito Democratico sui temi che riguardano l’umanità e il pianeta nell’unico tempo che conta, il futuro, e ho la sensazione che una visione condivisa di valori non la abbia – continua Marino -. Su questo posso essere in errore. Invece, anche a causa delle diffamazioni subite e dei 25 (venticinque) procedimenti giudiziari a cui venni sottoposto dopo la mia rimozione da Sindaco, ma anche per il mio profondo amore per Roma, ho sempre seguito le vicende romane. I partiti fondatori del Pd ebbero un ruolo importante nella Capitale dal momento in cui la legge elettorale affidò ai cittadini la scelta dei Sindaci. Quel ruolo, sorprendentemente, si esaurì proprio contemporaneamente alla fondazione del Pd, con la vittoria elettorale di Gianni Alemanno. Dal 2008 il Pd ha svolto a Roma un ruolo di opposizione. Sono incerto se questo sia dovuto alla incapacità di riconoscere le proprie debolezze oppure alla determinazione di conservare una fetta di potere anche se progressivamente ridotta». «Sulla base del mio programma di idee – ha aggiunto – stavo lavorando con mille ostacoli, fino a quando un gruppo di “Onorevoli Consiglieri” ha deciso di tradire quel progetto di trasformazione che avrebbe fatto bene alla città. Un gruppo di persone che non ha neanche avuto il coraggio di votare una sfiducia ma si è rifugiato nello studio di un notaio. È poco serio che il Pd candidi adesso quelle stesse persone ad amministrare Roma. Non posso essere silente di fronte a questa ennesima giravolta di chi pensa al potere come un sostantivo e non come un verbo: poter fare, poter cambiare, poter costruire. Devo riconoscere che, inaspettatamente, Virginia Raggi ha voluto pubblicamente chiedere scusa per alcuni azioni ingiuste e ingenerose. Credo che si tratti di scuse vere: l’esperienza e la riflessione nella vita portano a valutare se stessi e a maturare. D’altra parte coloro che agirono sottraendo ai Romani il diritto di giudicare non hanno mai avviato un dibattito sulle loro azioni ed, evidentemente, le ritengono irrilevanti se questo non impedisce alle loro coscienze di ricandidarsi».
Lorenzo D'Albergo per repubblica.it il 28 settembre 2021. Testimoniò contro Ignazio Marino nell'ormai celebre caso degli scontrini. Ora è uno dei volti della lista civica per Virginia Raggi, la sindaca che negli ultimi giorni ha provato in ogni modo a intestarsi l'eredità politica del predecessore. Un'operazione sempre più difficile, vuoi per la precisazione dello stesso Marino sul post che ha mandato in visibilio il Campidoglio pentastellato ("ho accettato le scuse di Raggi, ma il mio non era un endorsement elettorale") che per quest'ultima candidatura. Già, perché con la prima cittadina grillina corre Carmelo Ciraulo, il cameriere della Taverna degli Amici che il 27 luglio 2013 servì all'allora primo cittadino e alla moglie un Jermann Vintage Tunina. Una bottiglia da 55 euro che entrò nella storia politica della Capitale e soffiò sulla bufera degli scontrini, lanciando la polemica che portò alla travagliatissima fine della consiliatura del chirurgo dem. Oggi Ciraulo lavora nello stesso ristorante in piazza Margana (che nel frattempo ha cambiato il suo nome in Angelino) e il suo cuore batte per Raggi. "È venuta spesso da noi a pranzo. Come tanti sindaci, perché siamo a due passi dal Campidoglio. A un certo punto mi ero anche messo in testa di aiutarla con una lista in suo favore. Ha lavorato tantissimo in questi anni, con la stampa sempre contro. Mai un trafiletto a favore, nessuno gli riconosce mai nulla. Per me invece è stata bravissima", dice il cameriere. A 54 anni ha deciso di buttarsi in politica e farsi avanti tanto per un posto da consigliere in Comune che al XIV Municipio: "Mi hanno chiesto una mano per riempire anche la lista in Circoscrizione. Se Virginia sa che ero il cameriere di Marino? No, non credo", ci pensa un po' su Ciraulo. Che, però, ricorda bene la convocazione della Guardia di Finanza e l'ora passata in caserma per la cena dell'ex sindaco: "Sono convinto che lo abbiano fatto fuori per altri motivi. Se ci ripenso ora, mi rammarico. Ma ho fatto il buon cittadino. Era il 18 dicembre 2015. Ho tirato fuori la verità davanti alla polizia tributaria e confermato tutto. Mi chiesero l'orario della cena e di riconoscere la commensale di Marino. La sentenza d'assoluzione? Ci rimasi malissimo. Alla fine diceva che era solo stato incapace a usare una carta di credito". Fine dei ricordi. Ora ci sono le Comunali e un'ultima settimana di passione. Bisogna muoversi, Ciraulo lo sa: "Voglio organizzare un evento elettorale, spero che venga anche Virginia. Sapete... qualche focaccia, un brindisi. Come finirà? Non lo so. Un tempo seguivo di più, ero più movimentista. Ero contro il Pd e Renzi. Ora, però, penso al Comune". Santini e volantini sono stati già stampati. Ora manca solo il programma: "Non sono mai stato tanto ferrato. Non mi metto a trattare di temi complessi come i trasporti e la gestione dei rifiuti, Atac e Ama. Io voglio semplicemente una città più verde e più smart. E ovviamente voglio che i politici stiano più vicino ai commercianti". Di sicuro, dalle parti di piazza Margana, sono di casa.
Selvaggia Lucarelli per “Il Fatto Quotidiano” il 26 settembre 2021.
Cinque anni fa, quando Virginia Raggi fu eletta sindaca di Roma, il marito Andrea Severini scrisse la famosa lettera d'amore che scatenò quel misto di tenerezza e ilarità riservato solo a certe ingenuità sentimentali. Oggi, a pochi giorni dalle nuove elezioni amministrative, mentre quell'epistolare "Mi manchi, ti proteggerò sempre", ci provoca ancora un sorrisetto cinico, Andrea è tornato. E ha fatto di più: una pagina Facebook, "31 giorni con Virginia", dove per 31 giorni (3 settembre-3 ottobre) racconta le faticose giornate della moglie in campagna elettorale. Soprattutto narra i suoi rari ritorni a casa, con lei che a mezzanotte si mette a fare jogging sulle scale del condominio o a cucinare piatti per cui è evidente che andrebbe commissariata almeno la sua cucina. Quando chiamo Andrea, ecologista dichiarato, è in bicicletta.
Come nasce quest'idea bislacca della pagina "31 giorni con Virginia"?
«Volevo raccontare Virginia in modo naturale, senza passare attraverso lo staff della comunicazione. Molti giornalisti mi chiamano dubitando che sia una mia idea, ma è così. Sono matto di mio».
Un po' lo sospettavo.
«Ecco, se ti ricordi la lettera che le ho scritto quando fu eletta…»
E chi se la dimentica. Comunque, se Virginia si è avvicinata alla politica lo deve soprattutto a lei, giusto?
«Ci siamo conosciuti e innamorati più di 20 anni fa all'associazione per la pace nel mondo. Abbiamo cominciato a frequentare un comitato di quartiere, io seguivo Beppe Grillo, ci siamo iscritti al Movimento e poi è andata come sapevo già».
Cioè?
Che lei è stata più forte di me.
Alle Comunali del 2013 vi eravate candidati entrambi.
«Sì, io ho preso 120 voti, una cosa simile. Lei una marea.
Come commentaste la cosa?
«E che vuoi commentare, era più brava di me e mi sono arreso. Ho continuato a fare l'attivista».
Tra gli avversari di oggi chi la innervosisce di più?
«Gualtieri, perché fa parte dell'ala più vicina a noi e dice falsità senza proporre nulla, vergognoso». La verità: lei e Virginia, la sera a letto, vi ritrovate a parlare di cinghiali?
«I cinghiali sono mica una cosa facile come sembra, il sindaco non può occuparsi del contenimento, lo deve fare la regione».
Lei dipinge sua moglie come una specie di eroina. Poi però posta la foto di lei che cucina zucca ripassata e Philadelphia. Si rende conto?
«Diciamo che sono più bravo io in cucina, lei sperimenta».
Niente da contestare neanche in cucina?
«Ma come faccio, non ho il coraggio, con tutto quello che fa».
C'è qualcosa che è colpa della Raggi nella vostra vita?
«Il disordine. Su questo mia moglie è una cosa incredibile, un vero macello. Lascia documenti e buste per tutta casa, lo studio sta esplodendo».
Vostro figlio Matteo che dice?
«Si sta appassionando alla politica. Chiede più parchi giochi alla mamma».
Bello essere figlio di un sindaco e dire "mamma mi fai un parco?".
«Sì, ma qui evitiamo il conflitto di interessi, non nascerà un parco a Ottavia, il nostro quartiere, perché l'ha chiesto Matteo».
Lei nella pagina Facebook su Virginia si dipinge come l'ultima ruota del carro in casa. Racconta che perfino il cane Puffo le sta a distanza.
«Il nostro cane, preso al canile, mi odia. Si fa accarezzare solo quando c'è Virginia a tavola».
Pure il cane ha deciso che Virginia è prima nella scala gerarchica?
«Voglio pensare che abbia avuto problemi con un padrone che mi somigliava.
Pubblica foto di sua moglie col pigiamone di flanella "alla Fantozzi", come dice lei. Gira sempre così?
«Sì, ma con la vita che fa, come si può pretendere che stia in tiro, tutta truccata?»
D'accordo, ma la tristezza delle foto di Virginia che mangia una pizza rossa scondita nel cartone specificando che "è la sua pizza preferita"?
«Non solo non vuole la mozzarella, ma la taglia tutta a piccoli rombi e la mangia con la forchetta».
Un po' da ossessiva compulsiva.
«E il bello è che ha contagiato anche mio figlio».
S' è mai lamentato di qualcosa con lei?
«No. Ho sposato lei e la causa. Qualche volta le dico "potevi avvertire che avevi cenato!", ma in linea di massima organizzo tutto io per non affaticarla ulteriormente».
Scrive che appena sale in macchina con lei sua moglie si addormenta all'istante "tipo Cicciobello Rock quando lo inclini un po'". Neanche di questo si lamenta?
«Pensi, mi dà pace vederla dormire in macchina, mi sembra una delle poche volte in cui si affida a me totalmente».
Avete avuto una crisi anni fa, quando fu eletta sindaca.
«L'ho riconquistata, conta questo».
Come ha fatto?
«Le ho fatto sentire che c'ero, con pazienza. Siamo tornati insieme senza neppure accorgercene, con naturalezza».
Cosa vi aveva allontanati?
«Lei non stava più bene con me, succede. Ha avuto bisogno di allontanarsi, ha vissuto tre mesi in un'altra casa, ma poi abbiamo capito che siamo fatti l'uno per l'altra».
Senta, se sua moglie viene rieletta ci dobbiamo aspettare un'altra lettera?
Ci stavo giusto pensando oggi, può essere.
Altre idee se vince?
Magari faccio un video nudo. Non so se questa promessa porterà voti. In effetti.
Veronica Di Benedetto Montaccini per tpi.it il 24 settembre 2021. Nella Grande Bellezza della politica romana siamo di fronte a un paradosso capitale: i due candidati a sindaco che, secondo i sondaggi, si giocheranno l’elezione al ballottaggio del 18 ottobre sono stati fino a poco tempo fa “quasi amici”. Nel 2019 il candidato del centrodestra Enrico Michetti sostenne l’ex ministro del Pd Roberto Gualtieri alle elezioni Europee. Le prove dell’endorsement sono nelle chat pubblicate in esclusiva sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale – TPI, in edicola da venerdì 24 settembre. Dai testi su WhatsApp si vede che Enrico Michetti non solo si fece inviare il materiale elettorale dell’allora eurocandidato dem presso la sede della Gazzetta amministrativa, ma addirittura assicurò al suo attuale avversario come minimo “una cinquantina di voti”.
Marina de Ghantuz Cubbe per "la Repubblica - Edizione Roma" il 21 settembre 2021. Sesterzi, narcotest per gli eletti al Comune, sostegno ai medici obiettori di coscienza, internalizzazioni da una parte e liberalizzazioni dall'altra, cancellazione del debito pubblico di Roma Capitale. I programmi dei 17 candidati " minori" alle amministrative del 3 e 4 ottobre, toccano i temi caldi come i trasporti e i rifiuti ma sono anche ricchi di proposte peculiari. Come quella di Gilberto Trombetta, giornalista professionista che corre con Riconquistare l'Italia: il candidato vuole utilizzare una moneta complementare all'euro e ha già preparato i fac- simile delle banconote. Quella da un sesterzo ha impresso il viso di Sora Lella fino ad arrivare a 50 sesterzi accompagnati dal ritratto di Alberto Sordi. Anche REvoluzione civica di Monica Lozzi, presidente uscente del VII municipio, propone una moneta complementare insieme a una maggiore autonomia dei municipi, al completamento delle opere di urbanizzazione, incentivi per la riduzione dei rifiuti e Ama municipale. Il tema del lavoro occupa un grande spazio nei programmi dei candidati: sono per l'internalizzazione degli operatori che lavorano per il Comune tramite ditte esterne Trombetta, Micaela Quintavalle che corre con il Partito Comunista ed Elisabetta Canitano alla testa di Potere al Popolo. PaP mette inoltre in discussione « la logica del debito che va ristrutturato o cancellato per uscire dal ricatto». L'ex assessore all'Urbanistica Paolo Berdini, anche lui tra gli esponenti della galassia dei partiti di sinistra scesi in campo per le comunali, gli immobili in disuso del Comune ad alloggi popolari. Dall'altra parte della barricata c'è Andrea Bernaudo che con i Liberisti italiani chiede la messa a gara dei servizi. Accanto alle privatizzazioni, anche la trasfor-mazione dei campi rom in camping dove i nomadi possono stazionare per tre mesi, un anno se hanno figli. A chi è in attesa del permesso di soggiorno, invece, Fabiola Cenciotti del Popolo della famiglia vuole far fare lavori socialmente utili. Nei primi punti del programma anche il « sostegno ai medici obiettori di coscienza » , il no alle unioni civili e al gender nelle scuole. Tutt' altra visione sui temi sociali ha Fabrizio Marrazzo del Partito Gay che propone carte di identità con la dicitura Madre e Madre e Padre e Padre e un monumento per Lgbt+ deportati ( e dimenticati insieme a Sinti e Rom). Ancora: Margherita Corrado (ex 5s) di Attiva Roma è per lo stop al consumo di suolo, la valorizzazione del patrimonio archeologico e culturale e digitalizzazione del patrimonio documentale prodotto da Roma Capitale. L'ex sindacalista Rosario Trefiletti, candidato con Italia dei Valori punta sui giovani con agevolazioni per chi intraprende iniziative imprenditoriali e attraverso il recupero di immobili in disuso del Comune per creare spazi di incontro. Infine il programma in XII tavole di Sergio Iacomoni ( lista Nerone), prevede il taglio del posto a 15 consiglieri comunali per far spazio ai presidenti di municipio in Assemblea capitolina e il narcotest per gli eletti in Campidoglio. Per quanto riguarda Francesco Grisolia di Sinistra rivoluzionaria, Gian Luca Gismondi del Movimento idea sociale, Luca Teodori di 3V ( tre verità), Cristina Cirillo del Pci, Giuseppe Cirillo del Partito delle buone maniere e Paolo Oronzo Magli del Movimento Libertas il programma non è reperibile.
Da liberoquotidiano.it il 16 settembre 2021. Al termine del suo mandato da sindaco di Roma mancano ormai un paio di settimane, ma le brutte figure della gestione della Capitale da parte di Virginia Raggi sono macchie indelebili sulla pelle dei romani. Il nuovo attacco alla città che si prepara ad andare al voto per eleggere il nuovo numero uno del Campidoglio è arrivato da un articolo apparso sulla versione newyorchese di TimeOut, nota rivista di viaggi e riferimento di mezzo mondo per gli spostamenti. Nel suo pezzo Will Gleason centra il focus sulla Grande Mela: “Al sondaggio hanno partecipato otre 27mila cittadini di centri urbani situati in diversi continenti riguardo a una vasta gamma di argomenti. Oltre alle tematiche trattate negli anni precedenti, comprese le condizioni dei ristoranti e della vita notturna, quest’anno il sondaggio si è focalizzato in particolar modo sull’impegno profuso dalle comunità locali, sugli spazi verdi e sull’impegno per la sostenibilità. E se New York ha ottenuto voti alti in numerosi campi, classificandosi nella top 5 delle città, oltre a essere dichiarata la città più entusiasmante del mondo, ha raggiunto un assai più negativo traguardo. È infatti attualmente ritenuta una delle città più sudicie del mondo”. E chi riesce a far peggio di New York? Soltanto Roma e Bangkok, al secondo posto dopo la capitale d’Italia. Secondo un vasto numero di viaggiatori all’ombra del Colosseo si trova la peggiore sporcizia del mondo: un triste primato di cui non bisognerebbe andare tanto fieri.
Michele Serra per “la Repubblica” il 30 agosto 2021. A Roma, in una strada del quartiere Prati, non proprio una borgata, il margine del marciapiede è finemente orlato di cacche di cane. Sono centinaia, di epoche difformi, da quelle fresche, appena deposte, a reperti quasi essiccati. Disdegnate dai ratti e dai gabbiani, queste deiezioni organiche sarebbero destinate, per natura, ad arricchire il terreno di elementi nutritivi. Ma sono impossibilitate a farlo perché non è il terreno, è l'asfalto che ne sostiene il peso e ne perpetua la forma. L'annosa discussione sulla catastrofe dei rifiuti a Roma è fatta di infinite voci: discariche intasate oppure mal gestite oppure obsolete e comunque sempre nel posto sbagliato, raccolta inefficiente, cassonetti così malconci da essere essi stessi rifiuti, mafie che ingrassano sul disastro, amministrazioni complici e inette, convogli di monnezza che vanno e vengono in cieco disordine: dando l'idea complessiva di un disastro maestoso, immane, accumulato dall'alba dei tempi, con costi smisurati e responsabilità talmente stratificate, da Romolo a Raggi, che la colpa va spalmata nei millenni, da Romolo a Raggi. Benissimo. Ma se uno porta a cagare il cane per la strada e non si china a raccogliere il prodotto, i conti sono presto fatti e la soluzione presto detta. Esistono confezioni da 500 sacchetti a 10 euro. Il costo di ogni raccolta differenziata di cacca di cane ammonta, dunque, a due centesimi di euro al giorno. Quattro centesimi nel caso il cane sia di intestino vivace e la faccia al mattino e alla sera. È tanto? È poco? Vogliamo chiedere il rimborso al Comune? Il finanziamento europeo? Ma soprattutto, vogliamo chinarci e pulire? A' zozzi!
Lorenzo De Cicco per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 7 ottobre 2021. La politica dovrà rinunciare a Nadia Bengala, ex miss Italia, intramontabile valletta di Iva Zanicchi a Ok, il prezzo è giusto. Ha tentato la scalata al Campidoglio, candidandosi in una lista civica della sindaca Raggi. Non è andata benissimo: «Ma non è vero che ho preso 7 voti, come dicono in giro. Erano 20». Ha le prove, per smentire le malelingue: «Mi hanno mandato le foto della scheda, anche se non si dovrebbe fare. Ho i messaggi sul cellulare». Ai suoi 20 elettori dispiacerà quindi: «Sarà l'ultima volta che mi candido - confida - la politica non è cosa per me». Considerato il bottino elettorale, la battuta viene facile: come si dice in questi casi, non l'hanno votata nemmeno i parenti. «Non ho molti parenti a Roma», replica lei, per nulla tramortita dal tonfo delle urne. E gli amici? I vicini di casa? «La verità è che non ho fatto campagna elettorale, molti amici neanche lo sapevano». Non c'è ombra di delusione, semmai un sospetto: «È scandaloso che si voti con le matite e non con la penna: così i voti si possono cancellare». Il complotto del lapis però non la cruccia. Anzi, si dice sollevata: «Quando ho accettato la candidatura mi chiedevo: se poi prendo tanti voti, che faccio?». Ora avrà una preoccupazione in meno.
Maria Egizia Fiaschetti per corriere.it il 29 agosto 2021. Il desiderio di fare politica non è un vezzo estemporaneo, ma una passione che non aveva trovato ancora l’opportunità di concretizzarsi. Per Nadia Bengala, 59 anni, ex Miss Italia nel 1988 (la prima eletta grazie al televoto), l’occasione che cercava da tempo è arrivata con Virginia Raggi, che ha deciso di sostenere alle prossime comunali candidandosi in una lista civica (apartitica) di donne. Nel 2009 l’ex modella e attrice si era già messa in gioco - alle Europee si era presentata nel collegio di Pescara con La Destra di Teodoro Buontempo e Francesco Storace - ma era risultata la prima dei non eletti: «Poteva essere una bella esperienza, ma sono stata abbandonata a me stessa. Non ho fatto incontri pubblici, tranne il primo, diciamo che mi hanno un po’ usata... Serviva per raccogliere più voti possibile, è stata una parentesi...».
Come ha conosciuto Virginia Raggi?
«Ci siamo conosciute a una cena elettorale dove lei parlava e le persone potevano rivolgerle delle domande, ma io ero già una sua sostenitrice. Ci sono alcune cose del M5S che non mi piacciono, mentre non c'è nulla che non mi piaccia in lei».
Cosa non le piace del M5S?
«Ultimamente il Movimento mi ha molto delusa, in particolare per alcune posizioni che trovo incoerenti. Non sono d’accordo con questi sbarchi continui di centinaia di persone che dobbiamo mantenere e fanno soltanto danni... Non sono razzista, tutt’altro, mio padre è sempre stato esterofilo... ma quando un fenomeno diventa un eccesso che danneggia l’Italia... Aiutiamo queste persone nel loro Paese, facciamo investimenti… Se ne può parlare, ma quello che sta succedendo non mi piace».
Quando si è avvicinata ai Cinque stelle?
«Nel 2012 credevo molto nel cambiamento e ho votato M5S. Il punto è che troppa gente aveva paura, tanti non hanno osato e non si è arrivati all’esplosione di cambiamento che avremmo voluto, si è dispersa l’energia degli inizi... Quando senti di non avere forza poi cominci a cadere nelle trappole, non credi più fortemente negli obiettivi che avresti voluto raggiungere».
È successo anche a Raggi?
«Quando Raggi fu eletta, all’inizio non ero totalmente entusiasta. La vedevo spaesata e pensavo: “Una persona normale, pulita, la mangeranno viva...”. Un po’ è stato così, ma lei ha resistito a tutti gli attacchi con determinazione e spirito di sopportazione. Sta facendo bene il suo lavoro, ma i media fanno passare il messaggio che sia incompetente… Sfido chi l’ha preceduta, cosa hanno fatto?».
Quali meriti le riconosce?
«Ha abbattuto le villette dei Casamonica: pazzesco, nessuno aveva mai avuto il coraggio di farlo. Lei lentamente, con il metodo giusto, ci è riuscita rischiando in prima persona».
In estate la città ha sfiorato l’ennesima emergenza rifiuti e molte criticità non sono ancora state risolte.
«La sindaca può anche raccogliere la spazzatura ma se non sa dove buttarla dove la mette, la tiene dentro casa sua? Perché, invece di boicottarla, la Regione non realizza gli impianti?».
Dopo il no all’Olimpiade, con la bocciatura di Eurovision Roma ha perso un’altra occasione di rilancio sulla scena internazionale.
«Se la struttura che più si avvicinava ai parametri del bando, un padiglione della Nuova Fiera di Roma, non andava bene non è certo colpa della Raggi. Che faceva, la fabbricava di notte? Forse chi l’ha progettata avrebbe dovuto tenere conto di questi requisiti e ragionare in prospettiva, magari copiando i modelli europei. Ecco, quando vedo queste ingiustizie, questo accanimento, prendo a cuore la situazione e mi sento di appoggiare una persona che so che ha lavorato bene senza sperperare denaro».
Se venisse eletta, di cosa le piacerebbe occuparsi?
«Se potessi, vorrei dare una mano nella cultura e nello spettacolo. Raggi è stata criticata per non aver organizzato molti eventi, io ne ho realizzati parecchi con la mia società e ho anche scritto format per la tv insieme con un amico: prima li hanno bocciati, ma poi li hanno prodotti senza nemmeno apportare troppe modifiche...».
Lorenzo De Cicco per ilmessaggero.it il 28 agosto 2021. Ex miss, registi, vecchie glorie del calcio. E big che si sfilano. Nei partiti è l'ora delle liste. Entro una settimana tocca consegnare le firme e l'elenco dei candidati per le comunali. Nei comitati sono ore febbrili, fra trattative a vuoto e volti conosciuti da mettere in pista. L'ultimo ingaggio nella civica del centrodestra, dopo l'ex giallorosso Antonio Di Carlo, è Pippo Franco. L'ex cabarettista del Bagaglino, 80 anni, correrà nella lista personale di Enrico Michetti. «Voglio rilanciare la cultura di Roma», dice.
Da che ruolo, da assessore? «Beh certamente il mio indirizzo è quello, un indirizzo artistico, sono stato anche pittore e ho fatto il liceo artistico. Come assessore posso pure essere d'aiuto».
Anche la sindaca sta limando le liste. Ne schiererà addirittura 6, per tentare di acciuffare il mandato bis. Un inedito per il M5S, che fin qui ha sempre corso in solitaria. Ma stavolta non basta. In un cartello femminista, chiamato «Con le donne per Roma», correrà Nadia Bengala, ex miss Italia (nell'88) e valletta del mitologico Ok il prezzo è giusto con Iva Zanicchi. In lista ci sarà anche il regista e scenografo Massimo Spano, l'autore, tra le altre cose, di Agosto, con Sabina Guzzanti e Massimo Wertmüller, che racconta proprio uno spaccato di periferia romana. Per la sindaca uscente, ci sarà anche una lista moderata, Roma decide (il capolista dovrebbe essere l'avvocato Paolo De Persis) e un cartello Sportivi per Roma, che terrà dentro rappresentanti di palestre e del mondo dell'associazionismo romano. La civica personale Per Virginia invece sarà capeggiata da un'altra Raggi, Gabriella, dirigente comunale di lungo corso, storica capo-segreteria della grillina in questi anni a Palazzo Senatorio. Ieri sera, Raggi ha cenato con Massimo Ferrero, presidente della Sampdoria, che ha elogiato il suo lavoro. «Se entrerò in politica? Come dice la canzone, lo scopriremo sorridendo...», ha replicato il viperetta.
Fronte Pd: non si è riusciti a trovare un big come capofila per i candidati al Consiglio comunale. L'ex ministra Beatrice Lorenzin alla fine ha detto no alla corsa per l'Aula Giulio Cesare ma avrà comunque un ruolo, come presidente del comitato elettorale di Roberto Gualtieri.Nelle ultime settimane aveva declinato l'invito anche Alessio D'Amato, l'assessore alla Sanità di Zingaretti, forte del consenso per la gestione dell'emergenza Covid e dei vaccini. Capolista allora sarà Sabrina Alfonsi, mini-sindaco uscente del I Municipio («scelta per ordine alfabetico», maligna chi non l'apprezza molto nel partito). Secondo in lista l'ex calciatore della Roma di Liedholm Ubaldo Righetti e poi Stefano Marongiu, l'infermiere dello Spallanzani premiato da Mattarella nel 2015 per avere combattuto l'ebola in Sierra Leone. Carlo Calenda - che non ha problemi di liste: ne ha solo una, messa su insieme ai renziani - oggi sarà in campagna elettorale in trasferta, a Santa Marinella. Ieri il leader di Azione se l'è presa con Radio Radio, l'emittente che aveva come speaker proprio Michetti (che continua ad essere ospitato quasi ogni giorno). Un conduttore, ha twittato l'ex ministro dello Sviluppo, «ha detto che sfonna Calenda, in senso fisico, perché non si può prendere in giro Michetti. Verificheremo se è ammissibile che una radio faccia campagna elettorale parlando del nostro simbolo e del nostro candidato. Lasciandogli il microfono in esclusiva e a volontà e lanciando minacce fisiche agli altri candidati».
Pippo Franco sarà candidato alle amministrative a Roma al fianco di Enrico Michetti. Debora Faravelli il 28/08/2021 su Notizie.it. L'attore romano Pippo Franco sarà candidato alle elezioni comunali di Roma in una lista civica a sostegno di Enrico Michetti (centrodestra). L’attore Pippo Franco scende in campo alle elezioni comunali di Roma nella lista civica a sostegno del candidato di centrodestra Enrico Michetti: “Lo conoscevo da tempo, abbiamo molti amici in comune e ci siamo ritrovati nella sua campagna elettorale per una serie di circostanze”. Intervistato dal Corriere della Sera, Franco ha spiegato di essersi confrontato con Michetti e di aver accettato l’invito ad entrare a far parte della lista civica a suo sostegno pensando di poter dare il suo contributo per quanto riguarda il lato artistico. “L’importanza di Roma, città esempio nel mondo per l’arte, deve essere valorizzata. Io vengo da quel contesto, nasco come pittore e musicista, ho studiato al liceo artistico e all’Accademia di belle arti e per tre anni ho disegnato fumetti”, ha spiegato. Quanto alla riflessione aperta da Carlo Calenda, anch’egli candidato come primo cittadino della Capitale, sul museo unico della storia di Roma all’interno dei Musei Capitolini (progetto in parte condiviso anche da Sgarbi), Franco l’ha definita una proposta innovativa ma il suo sguardo è più ampio e rivolto all’intera città: “Non esiste un luogo come Roma, ha una tale storia… purtroppo non viene valorizzata come dovrebbe. Penso al cinema, ai festival, a come incrementare l’attività di registi, poeti, artisti, scrittori”.
Pippo Franco candidato a Roma: assessore alla Cultura? A chi gli chiede se gli piacerebbe fare l’assessore alla Cultura, ha risposto di voler solo essere utile manifestando quello che penso. Se poi per i giochi del destino gli verrà proposto, valuterà pur ammettendo che “il mio indirizzo è quello, sono stato anche pittore e ho fatto il liceo artistico quindi come assessore posso pure essere d’aiuto”. Quanto alla valutazione sugli ultimi cinque anni di amministrazione pentastellata a Roma, ha preferito non esprimere alcun commento.
Pippo Franco candidato a Roma: le elezioni precedenti. Non è la prima volta che Pippo Franco si candida per entrare a far parte della vita pubblica. Già nel 2006 si era proposto alle elezioni politiche al Senato con la lista Democrazia Cristiana per le Autonomie nella circoscrizione del Lazio. La lista non raccolse però più dello 0,7% dei consensi. Nel 2013 ha invece partecipato alle primarie di Fratelli d’Italia raccogliendo 205 voti tra gli iscritti.
Lo sbadato post della responsabile ai Grandi Eventi. Eurovision, la gaffe colossale dell’assessora di Roma: “Il 90% delle persone non sa cosa sia”. Redazione su Il Riformista il 26 Agosto 2021. L’esclusione della Capitale per l’approssimativa presentazione delle strutture che avrebbero dovuto ospitare la prossima edizione dell’Eurovision 2022 continua ad essere argomento di discussione. Veronica Tasciotti assessora allo Sport, Turismo e ai Grandi Eventi di Roma decide di sfogare sul suo personale account Facebook tutta la sua frustrazione dopo le critiche ricevute dall’amministrazione pentastellata. “E da oggi tutti esperti di grandi eventi, di Eurovision che il 90% delle persone non sa neanche cosa sia, di altezze e carichi dei pesi, di bid book e di impianti”, scrive in un post. A leggere questo pensiero sembra che la Tasciotti non si ricordi che lo scorso maggio a Rotterdam in Olanda, a vincere la più importante competizione di musica a livello europeo arrivata alla 65ª edizione è stata una band romana, i Maneskin. Una gaffe colossale proprio per il ruolo che ricopre e per cui forse, è la persona che ha più responsabilità nel fallimento dell’esclusione di Roma dalla corsa per l’assegnazione della prossima edizione di Eurovision. Il post si conclude con le emoji (faccine) che si sbellicano dalle risate era indirizzato a chi in questi giorni ha criticato il suo operato e anche a chi ne ha scritto, A un commento che chiede le spiegazioni dello sfogo infatti l’assessora scrive come risposta: “Ah no niente basta leggere i giornali degli ultimi 2 gg. Tutti esperti”.
Il PalaEur è prenotato e la Nuova Fiera di Roma ha il tetto basso. Eurovision, Roma esclusa e Raggi massacrata. Bordoni: “Fuggono tutti dalla Capitale”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Superficialità, inadeguatezza o solo sfortuna della giunta di Virginia Raggi. Secondo i suoi uomini, e donne, si è trattato solo di una mancata coincidenza tra settimane obbligate dall’Ebu e arene già prenotate emersa dopo un lavoro alacre e svolto al meglio. L’annuncio di oggi del presidente dell’Assemblea Capitolina Marcello de Vito tra le fila di Forza Italia minaccia un’interrogazione immediata sull’esclusione di Roma dalla lista delle città finaliste candidate a ospitare l’Eurovision Song Contest che torna in Italia nel 2022 grazie alla vittoria dei romanissimi Maneskin. La Capitale si è candidata per ospitare la kermesse ma, per mancanza di spazi adeguati, non è stata selezionata. La struttura perfetta sarebbe stata quella del PalaEur, ma sia per la questione del tetto a volta sia perché nei giorni dell’Eurovision è prenotata per un grande appuntamento con Notre Dame de Paris che non si sarebbe potuto ricollocare il Campidoglio ha abbandonato l’idea. Così Roma Capitale ha proposto le strutture della Nuova Fiera di Roma in cui, però si scopre che per pochi metri l’altezza del soffitto non era conforme allo standard richiesto. Veronica Tasciotti fresca di nomina ad assessore allo Sport e ai Grandi Eventi di Roma Capitale cerca di giustificare le erronee strutture proposte parafrasando sulla sua pagina Facebook la risposta negativa dell’organizzazione alla candidatura: “Gli organizzatori ci hanno scritto, complimentandosi per la bontà della nostra proposta e per l’impegno profuso nel cercare una soluzione alternativa, che purtroppo, in termini di impianti, non c’era. Ciò detto, era nostro dovere proporre la Capitale per l’edizione 2022 dello show, e abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per concretizzare quest’omaggio ai Maneskin, e alla nostra città. Li ospiteremo al Circo Massimo il prossimo luglio 2022, per far sentire loro il calore e l’abbraccio di Roma”. Il caso diventa così politico e Roberto Gualtieri, candidato sindaco per il centrosinistra, si scaglia contro la gestione del dossier: “Un’altra prova di superficialità e inefficienza dell’amministrazione Raggi. Nonostante i Maneskin, esponenti della scuola musicale romana, con la loro vittoria dell’edizione 2021, abbiano conquistato per l’Italia il diritto di ospitare l’edizione 2022. Ma Raggi e i suoi tecnici hanno presentato un solo sito agli organizzatori dell’Ebu (Unione Europea di Radiodiffusione): un padiglione della Nuova Fiera di Roma che non risponde ai requisiti richiesti, fra cui l’altezza minima. Un sito quindi bocciato già in partenza. (…) Roma è stata scartata come Sanremo, Acireale, Alessandria, Genova, Palazzolo Acreide. Con la sindaca Raggi nessuno spazio né agevolazioni per i giovani artisti e talenti romani, nessuna possibilità per i romani di ospitare e vivere un grande evento internazionale. Questa città e i suoi talenti meritano di più!”. Anche Marcello de Vito, candidato alle scorse comunali con il M5S e presidente dell’Assemblea Capitolina, col suo nuovo ruolo di esponente di punta di Forza Italia scrive: “Abbiamo presentato con Forza Italia Roma Capitale una interrogazione urgente, affinché la sindaca riferisca subito per iscritto. È assurdo e inaccettabile che la sindaca Raggi e la Giunta abbiano perso l’Eurovision Song Contest perché non sono riusciti a trovare una location adatta a Roma. Non è neppure pensabile che ora l’evento sia ospitato da altra città italiana (in lizza Milano, Torino, Bologna, Pesaro e Rimini), dopo che il nostro paese aveva conseguito il diritto ad ospitarlo proprio grazie ai Måneskin, gruppo romano! (…) Questa è mancanza di volontà, mancanza di determinazione, mancanza di impegno, altro che grandi eventi! L’ennesimo smacco provocato alla nostra città da una giunta letteralmente inadeguata. Albergatori ed operatori economici ringraziano. Speriamo che questo 3 ottobre giunga presto, prima che facciano altri danni”. “L’ultimo fallimento della Giunta Raggi – dice in una nota il consigliere capitolino in forza alla Lega-Salvini Premier, Davide Bordoni – quel grumo di immobilismo, incapacità politica e burocrazia che ha reso Roma la Capitale europea meno attrattiva, facendo scappare tante aziende dalla nostra città. L’alternativa c’è. Con MichettiSindaco daremo ai romani una guida politica per attrarre i grandi eventi internazionali e creare nuove opportunità di sviluppo economiche e culturali”. Riccardo Annibali
Filippo Ceccarelli per repubblica.it il 17 agosto 2021. Boh. Che fine avrà fatto l'atto approvato quasi all'unanimità dal Consiglio comunale ormai diversi anni fa per sostenere, valorizzare e promuovere “la tradizione della cucina romanesca”? Boh. E a quali conseguenze ha portato la riabilitazione postuma del poeta Ovidio, anch'essa plebiscitariamente decretata nell'aula Giulio Cesare del Campidoglio in era pre-Covid e in complesso gemellaggio con la città di Sulmona, patria dell'illustre concittadino esiliato senza un regolare processo duemila e più anni orsono? Boh. Si colloca poi ai primi posti, nel nutrito catalogo dei misteri, l'iniziativa delle pecore – qualcuno disse anche delle capre - “taglia-erba”. Fu uno dei biglietti da visita della sindaca Raggi. A riguardarla a distanza di tempo – non si dirà nemmeno col senno di poi – si capisce che la fiabesca soluzione degli animali giardinieri ha lasciato dietro di sé vane giustificazioni esterofile, perché pare che in diverse capitali del mondo si faccia qualcosa del genere, e una gran messe di spiritosaggini social. Di recente qualcosa di nuovo è accaduto al disastratissimo e anche non proprio ben frequentato Servizio Giardini della Capitale, forse qualche assunzione e l'acquisto di qualche mezzo, ma di pecore o capre nulla più si è saputo. Per cui, ancora: boh. Dall'eco pascolo l'incertezza monosillabica, tipica dello scetticismo capitolino, si estende anche alla sorte del meno promozionato e ridicolizzato progetto degli “agro asili”, che a occhio avrebbero dovuto coinvolgere i bambini – centinaia? migliaia? boh - in una specie di educazione ambientale, ma appunto, e di nuovo, vai a sapere il destino di quella decisione. Le elezioni si avvicinano, ma si resisterà alla tentazione di buttarla in politica. Troppo facile, forse, e insieme troppo stravagante se solo si pensa che l'altro giorno la candidata vicesindaca del centrodestra, Matone, si è lanciata in una campagna contro i monopattini e per la tutela della Vespa. Perché a tutto c'è quasi sempre una spiegazione che trascende gli opposti interessi, i valori, a voler essere generosi, e gli schieramenti; e di solito la sociologia, o la psicologia, o la scienza, o l'astrologia o i tarocchi finiscono per dispiegarla, questa spiegazione, talvolta persino convincente. Ma qui a Roma c'è qualcosa che non torna. Qualcosa di continuo ed eclatante che consuma immaginazione, tempo, energie ed impone di approvare delibere, firmare convenzioni, studiare bandi, approvare progetti di fattibilità tecnica, produrre rendering e pubblicarli su notiziari Rai, siti e piattaforme elettroniche e più su queste ultime si mena scandalo e ne ride, più si insiste e si rilancia questa coazione a ripetere cose che non solo non servono, ma poi non si fanno. Il caso più istruttivo è quello della funivia Battistini-Casalotti, che già apparve un costoso miraggio: ebbene, qualche mese fa l'amministrazione ne ha proposta una seconda Eur-Villa Bonelli, e per giunta smontabile. Tutto manca di complessità e profondità, quindi subito evapora e svanisce, e tuttavia in un ecosistema entro cui la politica e anche l'informazione vivamente persistono. Ciò nondimeno, la vocazione all'oblio trova qui a Roma, nel suo basso perenne, nella sua approssimazione e anche nei suoi inesorabili sghignazzi il suo luogo di elezione. Il problema antico, reale, drammatico dei rifiuti, per dire, l'incessante ricerca di un'alternativa alla discarica di Malagrotta, i camion della monnezza della capitale che girano ingloriosamente per l'Italia. Ecco, chi si ricorda che a un certo punto il rimedio contro la puzza che promanava da un certo disgraziato sito prescelto (e poi messi in attesa, quindi perdutosi nella memoria) venne comunque identificato in una salvifica “barriera odorifera”? O che intorno al Tmb del Salario si pensò di far nascere un parco fluviale, ma ci pensò un incendio a incenerire il proposito? È come se l'addio alle scale di valori e ai criteri di distinzione e valutazione, la scomparsa delle competenze, lo smarrimento dell'agenda di governo, la fine dei confini tra gli ambiti avessero creato una realtà altra; nella quale, a sua volta, la vita pubblica si è fatta suggestiva e porosa. L'istantaneità, l'abbondanza e l'eccesso alimentano questa arcana fuga nell'Altrove. L'altro giorno, in attesa del Sacro Grab, il Grande Raccordo Anulare delle Biciclette, sulla Nomentana il Comune ha installato un totem luminescente che registra il numero di biciclette e calcola quante tonnellate di C02 vengono risparmiate. E sarebbe pure una cosa buona, se non rientrasse nelle meraviglie usa e getta del full screen – o forse boh.
Pd, la denuncia di Repubblica: "I dem di Roma rubano i giornali", articoli gratis per tutti gli iscritti. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 02 agosto 2021. L'accusa è gravissima ma ben circostanziata: il Partito democratico è "tecnicamente un ladro". In particolare si tratta del Pd romano e la denuncia proviene nientemeno che dalla cronaca locale di Repubblica, che si affida alla breve requisitoria di Giuliano Foschini. Titolo: «Se anche il Pd deruba i lavoratori». Svolgimento, in estrema sintesi: sul proprio canale Telegram, i democratici capitolini offrono ai loro iscritti «l'intera rassegna stampa del Comune di Roma»... centinaia di pagine con dentro una lunga selezione di articoli provenienti da vari giornali, tutti naturalmente protetti da copyright. «Si tratta di un reato. E anche piuttosto grave», osserva Repubblica, è cioè un furto appesantito dalla non trascurabile aggravante che a perpetrarlo con tale spudorata leggerezza è «un partito asseritamente di sinistra». Sicché la brutta faccenda non configura soltanto «un reato ma è anche un calpestio volgare del lavoro, della passione di migliaia di persone (giornalisti, poligrafici, tipografi, edicolanti) che svolgono, ciascuno nel migliore dei modi possibili, un mestiere che in qualche modo è anche un servizio pubblico, un sostegno della democrazia».
Il j' accuse è assai pesante: l'intera catena del valore dell'informazione, dall'ideatore al distributore, cade vittima di un brigantaggio quotidiano contro il quale Repubblica evoca a giusto titolo l'intervento della Guardia di Finanza. E che i colpevoli siano proprio gli esponenti del principale partito italiano di sinistra, colti a pubblicare «gratuitamente e integralmente quello che invece si dovrebbe comprare», rappresenta un desolato spunto in più per riflettere sui fondamentali di una denuncia sinceramente democratica che travalica la cronaca minuta. In attesa di leggere o ascoltare le spiegazioni dei dirigenti più alti in grado (il compagno Enrico Letta non ha ancora preso gli opportuni provvedimenti?), dobbiamo intanto accontentarci delle scuse del capogruppo dem all'assemblea capitolina, Giulio Pelonzi, che ha fatto ammenda e chiuso in tutta fretta il canale telematico. Ora, premesso che la pratica di rubacchiare online le prime pagine o gli articoli della stampa nazionale e straniera è divenuta una prassi diffusissima e sempre più difficile da estirpare, è bene sottolineare come la circostanza in questione confermi con forza inesorabile l'avvenuto scollamento tra la classe dirigente democratica e il mondo del lavoro intellettuale. Passi per gli operai, che da almeno un quarto di secolo votano in larga maggioranza a destra, l'ultima ridotta della sinistra asserragliata nei centri storici metropolitani era rappresentata dal variegato paesaggio giornalistico e da quello della selezionata intellighenzia degli scrittori impegnati; sebbene giornali se ne vendano pochi, libri meno ancora e pure la tv non si senta molto bene. Ma a ben vedere la proditoria rapina via Telegram si combina in modo perfetto con la recente cooptazione di Fedez in qualità di maître à penser della ditta, ovvero con la sopraggiunta sostituzione del desueto intellettuale organico gramsciano con il più contemporaneo cantante e influencer, nonché marito della influencer Chiara Ferragni. Non saremo certo noi, qui, a rimpiangere i bei tempi andati in cui i militanti del Pci - di cui il Pd vuoi o non vuoi è erede più o meno legittimo - volantinavano per strada le copie dell'Unità, il quotidiano di partito la cui diffusione serviva a scolpire di giorno in giorno il verbo dell'ideologia marxista. Oggi, in definitiva, anche l'egemonia del pensiero è divenuta un sogno astratto soppiantato dalla fluidità di genere. Ogni genere. E può dunque accadere che a squadernare il tradimento inflitto ai lavoratori sia il giornale ora posseduto dagli Agnelli ma editato fino a pochi anni fa da Carlo De Benedetti, la famosa tessera numero uno (ricordate?) del nascente Partito democratico. È la farsa che si fa storia nel suo ultimo atto: compagni che sbagliano, capitalisti che se ne accorgono e giocano ai supplenti... mondi avviati parallelamente al crepuscolo.
Zingaretti, è attacco terroristico. (ANSA il 2 agosto 2021) "Stiamo difendendo in queste ore la nostra comunità da questi attacchi di stampo terroristico. Il Lazio è vittima di un'offensiva criminosa, la più grave mai avvenuta sul nostro territorio nazionale". Lo ha detto il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. "Non conosciamo la matrice dell'attacco e tutte le ipotesi sulla matrice sono al vaglio degli investigatori", ha poi precisato Zingaretti. Ha poi aggiunto che "la definizione (dell'attacco, ndr) non è dato saperla".
Attacco hacker: fonti, escluso accesso a storia sanitaria. (ANSA il 2 agosto 2021) Gli hacker che hanno attaccato il Ced della Regione Lazio non avrebbero avuto accesso alla storia sanitaria dei milioni di cittadini che sono inseriti nel database del sistema sanitario regionale. Lo si apprende da qualificate fonti della sicurezza secondo le quali l'attacco, per quanto riguarda la parte sanitaria, ha colpito il sistema prenotazioni Cup e a quello delle prenotazioni vaccinali. Non ci sarebbe stato un travaso di dati sanitari, anche se i pirati sarebbero comunque entrati in possesso di diversi dati anagrafici. Non sarebbe stata toccata l'infrastruttura informatica che riguarda il bilancio e la protezione civile. Quanto al riscatto, sottolineano sempre le fonti, i pirati informartici non avrebbero al momento quantificato la loro richiesta in maniera esplicita anche se, in casi analoghi avvenuti in altri paesi, le richieste sarebbero passate da poche centinaia di migliaia di euro fino a 10 milioni. Per entrare nei sistemi, gli hacker avrebbero utilizzato le credenziali di un amministrativo sul quale sarebbero già stati svolti accertamenti che avrebbero escluso ogni sua responsabilità.
Attacco hacker: non formalizzata richiesta riscatto. (ANSA il 2 agosto 2021) "Non è stata formalizzata alcuna richiesta di riscatto rispetto a quanto è avvenuto". Così il presidente del Lazio, Nicola Zingaretti, in merito all'attacco hacker al Ced della Regione e alle notizie che erano emerse nelle ultime ore riguardo ad una richiesta di riscatto da parte dei pirati informatici. (ANSA).
Regione, indagini per capire modalità furto password. (ANSA il 2 agosto 2021) "Tutti i protocolli di sicurezza da parte delle figure professionali e dei sistemisti sono stati rispettati. Non c'è stato nessun tipo di alleggerimento. Come gli hacker siano entrati in possesso di credenziali per avere privilegi è motivo di indagini". Così i tecnici della Regione Lazio in merito alla modalità con cui gli hacker si sono infiltrati nel sistema per sferrare un attacco informatico al Ced della Regione.
Attacco hacker: esperto, in blitz così anche ipotesi talpa. (ANSA il 2 agosto 2021) "L'idea che ci siamo fatti al Clusit è che l'attacco hacker contro la Regione Lazio si configuri esclusivamente come attività criminale, non legata ad aspetti di tipo ideologico. Niente no vax ma cybercrime puro, finalizzato ad ottenere un riscatto in forma di bitcoin. Non ci sono evidenze di attività di social engineer e phishing, quindi dietro tutta la storia potrebbe esservi una persona che conosce bene i sistemi della Regione, con una consapevolezza tecnica ben specifica. Non sorprenderebbe l'esistenza di una talpa, anche esterna. Visto l'interesse sui vaccini, ulteriori attacchi sono attesi un po' ovunque, dentro e fuori dal Paese". Lo dice all'ANSA Gabriele Faggioli, presidente del Clusit, l'Associazione italiana per la sicurezza informatica. "Il fatto di cronaca rende ancora più importante l'ipotesi di un cloud nazionale - aggiunge l'esperto - con l'opportunità di accentrare le infrastrutture e le applicazioni critiche. In questo modo si potrà creare un network difensivo aggiornato e pronto a rispondere agli attacchi, prevenendoli. Anche perché gli aggressori hanno strumenti informatici più avanzati di chi si difende ed è la collaborazione che può fare la differenza. Non è un caso se si sia preso di mira un sito oggi fondamentale per una parte di popolazione italiana, dove la necessità di tornare preso operativi è la priorità. Pagando per un riscatto si alimenta quel circolo vizioso che tiene in piedi l'economia dei ransomware. Sin da marzo 2020, il mondo sanitario è stato messo pesantemente sotto attacco. Ai criminali non interessa fermare questo o quel vaccino, ma solo recuperare quanti più soldi possibili. Lo scenario legato alla pandemia è quello che porta maggiori vantaggi ed è lì che continueranno a rivolgersi nel prossimo futuro", conclude Faggioli.
Da Ansa.it il 2 agosto 2021. «Stiamo difendendo in queste ore la nostra comunità da questi attacchi di stampo terroristico. Il Lazio è vittima di un'offensiva criminosa, la più grave mai avvenuta sul nostro territorio nazionale». Lo ha detto il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. «Gli attacchi sono ancora in corso. La situazione molto è seria e molto grave». Lo ha detto il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, spiegando che nella notte c'è stato un altro attacco ma è stato respinto sena ulteriori danni.
Hacker Regione Lazio, nessun dato rubato. Zingaretti: “Peggior cyber attacco di sempre in Italia”. Redazione su Il Riformista il 2 Agosto 2021. “Stiamo difendendo in queste ore la nostra comunità da attacchi di stampo terroristico. Il Lazio è vittima di un’offensiva criminosa, la più grave mai avvenuta sul nostro territorio nazionale” spiega il governatore. La campagna vaccinale va avanti ma sono sospese le prenotazioni anche se gli “attacchi ancora in corso e la situazione è grave”. Nella notte c’è stato un secondo episodio ma è stato respinto e ad ora, spiegano Alessio D’Amato, assessore regionale alla salute “possiamo assicurare che nessun dato sanitario è andato rubato, ma sono stati bloccati quasi tutti i file del Ced” (Centro di Elaborazione Dati ndr). La Polizia postale è al lavoro per individuare i responsabili del malware che ha paralizzato non solo la campagna vaccinale, anche se D’Amato fa sapere che il ritardo nell’inserimento dei dati per il Green Pass è di sole 12 ore, ma anche le attività degli appalti pubblici e perfino il sito istituzionale. Un attacco che, secondo gli esperti al lavoro in queste ore, sembra sia certo essere arrivato dall’estero, e causato da un virus ransomware infiltrato nel Centro elaborazione dati della sede principale in via Cristoforo Colombo. “Sono totalmente infondate le notizie di una richiesta di riscatto” ha proseguito il presidente della Regione, “Intanto la Regione ha avviato la migrazione su cloud esterni dei servizi essenziali sanitari, così da renderli disponibili quanto prima”. “Mi permetto da presidente di questa istituzione di fare un appello – dice Zingaretti – ora ancora con più determinazione dobbiamo andare avanti e non rallentare. Come sapete da ieri il 70% della popolazione adulta è vaccinata e il nostro obbiettivo è quello di concludere la campagna vaccinale nella nostra regione”. I dati finanziari e i dati del bilancio non sono stati toccati. Appena tutto sarà ripristinato, dice Zingaretti, “intendiamo dare priorità assoluta a servizi nel campo della salute, 112 e Ares 118 sono attivi e non sono mai stati interrotti così come i numeri della sala operativa della protezione civile”.
Dagonews il 2 agosto 2021. Lo ha detto Zingaretti. La situazione è molto seria e grave. Pirati informatici hanno attaccato la Regione Lazio, prendendo in ostaggio i dati di tutti i cittadini, tra cui quelli delle più alte cariche dello Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Mario Draghi, che si sono vaccinati a Roma, e di molti rappresentanti della classe dirigente. Nelle loro mani gli hacker hanno così i dati sulle vaccinazioni, ma non solo. Ormai da quasi 48 ore i nostri servizi di intelligence, aiutati da quelli di altri paesi, stanno lavorando per risolvere il problema. L’indagine è seguita sia dagli specialisti del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche sia dagli 007 del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica. Anche se non è stato un attacco sofisticato, potrebbe avere effetti devastanti. Per ripartire serviranno giorni, forse settimane, e infatti il sito della Regione è ancora irraggiungibile. L’attacco non è la mossa di uno Stato straniero, anche se potrebbe essere partito dalla Germania (non è esclusa una triangolazione per depistare le indagini). Più che per rubare i dati è stato lanciato per arrecare danno e sabotare la rete. Per questo una delle piste è quella dei no vax. Il timore però è che i dati sanitari della classe dirigente italiana possano essere venduti sul mercato nero. Gli hacker si sono introdotti nel sistema informatico della Regione non attraverso una mail, ma da una postazione lasciata aperta sul portale Lazio Crea. Una dimenticanza oppure una finestra lasciata appositamente aperta? Si indaga. Da lì gli hacker hanno inserito un malware comune, artigianale, e che si trova a poche centinaia di euro. Siccome il nostro sistema di protezione è debole, il malware è riuscito ad arrivare fino al Ced, il Centro di elaborazioni dati della Regione. Per bloccare il virus i tecnici hanno dovuto spegnere il Ced. Questa notte all’1.30 è stato fatto un tentativo di riaccendere i server, ma è arrivato subito un nuovo attacco malware. Il timore è che una volta fatto ripartire, i dati possano essere cancellati o resi inutilizzabili. Anche perché i criminali hanno reso inutilizzabili anche i dati presenti nel backup effettuato in automatico al momento dell’attacco, tanto che non si esclude che il virus si trovi proprio all’interno delle coppie di sicurezza del sistema. Quello che rende la situazione ancora peggiore è il fatto che l’intera attività della Regione Lazio è interessata dal malware, che ha in pratica raggiunto ogni settore, compresso quello degli appalti pubblici. Gli hacker hanno chiesto un riscatto, lasciando un indirizzo mail a cui pagare, ma senza indicare l’importo. Gli hacker potrebbero anche mettere la propria chiave d’accesso all’asta in una dark room, cioè vendere l’ostaggio (i nostri dati) a una banda di sequestratori più cattivi per chiedere un riscatto ancora più alto. Oppure i criminali potrebbero essere pronti a incenerire i dati.
Rosalba Castelletti per "la Repubblica" il 3 agosto 2021. I pirati informatici responsabili degli attacchi con richieste di riscatto da milioni di dollari che stanno mettendo in crisi aziende e governi in tutto il mondo hanno un'isola felice. E si chiama Russia. Non solo operano in un ecosistema russofono, ma godrebbero del tacito benestare delle autorità moscovite che li proteggerebbero da ogni persecuzione giudiziaria fin tanto che non colpiscano obiettivi nella Federazione o nei Paesi alleati. Così sostengono gli esperti di sicurezza informatica, a dispetto delle scrollate di spalle del presidente Vladimir Putin che, interpellato dal suo omologo statunitense Joe Biden nel corso del vertice a Ginevra, aveva liquidato le accuse come «ridicole» e «assurde». E, a ulteriore scudo dei corsari, la Costituzione russa vieta l'estradizione dei suoi cittadini verso altri Paesi. I primi bucanieri informatici a farsi notare erano stati gli hacker di Nobelium (nome ispirato all'elemento chimico No della tavola periodica) quando, l'anno scorso, avevano sfruttato le vulnerabilità del software Orion di SolarWinds per compromettere un centinaio di compagnie statunitensi, incluse Microsoft, Intel e Cisco. Allora Washington accusò apertamente la Russia di aver orchestrato l'assalto informatico e approvò sanzioni puntando il dito contro i Servizi di intelligence internazionale (Svr). Gli stessi a cui farebbe capo Cozy Bear, o Apt29 (dove Apt sta per Advanced persistent threat, minaccia avanzata persistente), responsabile in passato di attacchi contro ministeri di Paesi Ue. A muoversi più di recente sono invece vere e proprie gang di cyberfilibustieri che infettano le reti col solo scopo di chiedere riscatti a sei zeri. Almeno 45 milioni di dollari sinora nel 2021, stando alle stime di Atlas Vpn. Di questi, almeno 13 sarebbero stati estorti dal solo gruppo Wizard Spider, il Ragno Stregone, dietro alle minacce Trickbot, Conti e Ryuk. La banda DarkSide, Lato Oscuro, lo scorso maggio avrebbe ricevuto ben 9 milioni per "liberare" Colonial Pipeline, uno dei principali sistemi Usa di oleodotti, prima di dichiarare la fine delle sue operazioni. Mentre tre settimane dopo la brasiliana Jbs, la più grande azienda di lavorazione delle carni, avrebbe sborsato 11 milioni al gruppo REvil, Diavolo dei Ransomware, legato anche all'attacco a Kaseya che serve oltre 40mila clienti negli Usa e nel mondo. Non ci sono prove che i pirati del Ragno Stregone e del Lato Oscuro o che i Diavoli del Ransomware facciano capo al Cremlino. Quel che è certo è che sono localizzati all'interno dei confini Russi e che i loro codici escludono dai loro obiettivi computer con lingua predefinita in cirillico. A testimonianza di un patto implicito con le autorità che danno loro protezione in cambio di immunità dagli attacchi. O di mazzette o lavoretti sporchi gratis. Perciò il New York Times domenica insisteva in un editoriale: «La chiave è costringere Putin ad agire». Quando il sito di REvil è misteriosamente scomparso, non è parso un caso che pochi giorni prima Biden avesse chiesto a Putin d'intervenire. Anche se esperti sostengono che ora operi insieme ai fuggiaschi di DarkSide sotto il nome, BlackMatter, Materia Nera, mentre altri ipotizzano che a sbarazzarsene siano stati gli stessi Usa. Il problema è che Putin difficilmente rinuncerà a quella che, complice o meno che sia, è diventata una preziosa leva di negoziazione. Più grande è il danno, più - pensa - Washington alzerà la posta pur di garantirsi la sua cooperazione. E «seppure la Russia diventasse un territorio ostile - avverte Brett Callow, analista di Emsisoft, e con lui diversi esperti di cybersicurezza - cominceremmo a vedere operatori in Brasile, Nord Corea o altrove». I pirati informatici troveranno sempre una loro isola felice.
Da tgcom24.mediaset.it il 3 agosto 2021. "Il grave attacco cibernetico al sito della Regione Lazio e, in particolare, l'attività della polizia postale nell'opera di contrasto dell'attività criminale, le modalità di attacco e i suoi principali obbiettivi" sono stati al centro dell'audizione al Copasir del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. Il ministro ha anche illustrato la "recrudescenza del fenomeno, che negli ultimi mesi ha colpito sia attività pubbliche sia private".
(ANSA il 3 agosto 2021) - "Entro 72 ore verranno ripristinate le funzionalità per le nuove prenotazioni di vaccino, con le medesime modalità di prima. È in corso una trasmigrazione e la deadline è quella delle 72 ore". Lo ha detto a Sky TG24 Alessio D'Amato, assessore alla Sanita della Regione Lazio, parlando degli effetti dell'attacco hacker che ha colpito la Regione. "Le somministrazioni in questi giorni non si sono mai interrotte - ha aggiunto -, secondo le prenotazioni precedenti che erano state prese, per cui non c'è mai stata l'interruzione della campagna vaccinale".
(ANSA il 3 agosto 2021) - Saranno anche i pm dell'antiterrorismo ad indagare sul violento attacco hacker alla Regione Lazio. In procura a Roma ieri pomeriggio è arrivata una prima informativa della Postale. Il procuratore Michele Prestipino ha affidato gli accertamenti anche ai magistrati che si occupano dei reati informatici coordinati dal sostituto Angeloantonio Racanelli. Nel fascicolo si procedere contro ignoti. Contestati vari reati tra cui accesso abusivo a sistema informatico e tentata estorsione. Il procedimento coinvolge i due pool di pm alla luce del fatto che l'attacco, ancora in corso, ha colpito un sistema informatico complesso come quello del Lazio anche dal punto di vista del profilo dei dati sensibili e personalità dello Stato a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del premier Mario Draghi.
(AGI il 3 agosto 2021) - L'attacco hacker al portale della Regione Lazio e le aggressioni subite dalle forze dell'ordine che presidiano i cantieri della Tav. Sono questi i temi, tra gli altri, che il Copasir intende affrontare e approfondire tra oggi e domani. Si comincia alle 13 con l'audizione del ministro dell'Interno, il prefetto Luciana Lamorgese e si prosegue domani alle 14 con quella del direttore del Dis, l'ambasciatore Elisabetta Belloni.
(ANSA il 3 agosto 2021) "Questa notte i sistemi informativi della Regione Lazio hanno subito e respinto l'ennesimo attacco, resta massima l'attenzione e la collaborazione con le autorità competenti per ripristinare la sicurezza". Lo comunica in una nota la Regione Lazio. (ANSA).
(ANSA il 3 agosto 2021) Nel fascicolo avviato dalla Procura di Roma, in relazione all'attacco hacker alla Regione Lazio, viene contestata anche l'aggravante delle finalità di terrorismo. Tra le fattispecie ipotizzate dai pm, coordinati dal procuratore Michele Prestipino, anche danneggiamento a sistema informatici. In base a quanto accertato al momento dagli inquirenti, l'attacco sarebbe partito dall'estero con rimbalzo in Germania. Chi indaga vuole accettare anche la matrice del blitz informatico. (ANSA).
(ANSA il 3 agosto 2021) "Entro 72 ore verranno ripristinate le funzionalità per le nuove prenotazioni di vaccino, con le medesime modalità di prima. È in corso una trasmigrazione e la deadline è quella delle 72 ore". Lo ha detto a Sky TG24 Alessio D'Amato, assessore alla Sanita della Regione Lazio, parlando degli effetti dell'attacco hacker che ha colpito la Regione. "Le somministrazioni in questi giorni non si sono mai interrotte - ha aggiunto -, secondo le prenotazioni precedenti che erano state prese, per cui non c'è mai stata l'interruzione della campagna vaccinale". (ANSA).
Jaime D'Alessandro per "la Repubblica" il 3 agosto 2021.
Come viene organizzato un attacco?
L'operazione contro la Regione Lazio è stata studiata fin nei minimi dettagli. Se così non fosse, significherebbe una fragilità informatica imperdonabile per una struttura simile. Chi organizza attacchi di questa portata in genere ha ben chiaro quali sono le risorse della vittima: dai computer ai server, dai sistemi di sicurezza alle terze parti che collaborano a stretto contatto e che sono spesso l'anello più debole.
Come scatta la trappola?
Nella stragrande maggioranza dei casi, concorre un errore umano. Un dipendente riceve una mail con un link o un documento allegato in apparenza innocuo o proveniente da una fonte nota, un fornitore ad esempio che a sua volta è stato hackerato. Aperto il documento, il virus prende possesso prima della macchina e poi della rete aziendale. Non sempre si tratta di attacchi che mirano a richiedere un riscatto, possono "limitarsi" a copiare informazioni. Nel 2020, gli attacchi cyber messi a segno globalmente erano prevalentemente malware (42%), virus, tra i quali spiccano i cosiddetti ransomware (29%) come quello usato contro la Regione Lazio.
Cos'è un ransomware?
È una tipologia di virus che limita o impedisce l'accesso ai dati contenuti sul dispositivo infettato. In pratica tutte le informazioni di un'azienda e a volte la copia delle stesse contenute nei server, vengono criptate e diventano illeggibili. Quello usato contro la Regione Lazio è della tipologia Lockbit 2.0, molto veloce a criptare le informazioni. Gli attaccanti a quel punto chiedono un riscatto offrendo in cambio di riportare i file allo stato originale.
Perché l'attacco scatta di notte?
Il virus in genere viene inoculato prima. L'attacco parte di notte perché il personale si potrebbe accorgere di anomalie di giorno.
Se si paga, si ha la garanzia di avere indietro le informazioni?
No. Alcuni gruppi hacker si fanno un vanto della loro "correttezza" una volta che hanno ricevuto quel che volevano. Eppure Secondo il State of Ransomware Report 2021 di Sophos, solo l'8% delle vittime ottiene poi il ripristino totale delle informazioni criptate. In genere si arriva al massimo al 65% di quel che esisteva prima dell'attacco.
A quanto ammonta di media il riscatto chiesto?
Dipende dalla stazza e dall'importanza della vittima. La media nel 2021 è stata di 90mila euro. Le cifre chieste più di frequente non superano i 10mila euro, ma in certi casi si possono raggiungere diversi milioni o decine di milioni di euro.
Quali altri danni produce un attacco importante?
Il danno medio era di 594mila euro nel 2020, diventati poi 1,5 milioni nel 2021. Questo include il tempo delle persone coinvolte per risolvere il problema, il ripristino delle infrastrutture, le perdite finanziarie.
Perché il riscatto viene chiesto in bitcoin?
Essendo una moneta virtuale, un codice alfanumerico che qualsiasi agenzia di cambio di criptovalute può convertire in denaro, è molto difficile da tracciare. Specie poi se il conto dove versare la cifra richiesta è in qualche paradiso fiscale, dal quale poi viene subito spostata su altri conti fino a sparire senza lasciare tracce.
Adesso indaga anche l'antiterrorismo. Attacco hacker Regione Lazio, al vaglio un pc di un dipendente in smartworking. Serena Console su Il Riformista il 3 Agosto 2021. L’attacco informatico al Ced (Centro elaborazione dati) della Regione Lazio sarebbe riuscito grazie alla “violazione di un’utenza di un dipendente in smartworking“. Non ha dubbi l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato che, intervistato da Italian Tech, ha affermato come il sistema sia stato colpito in un momento di smartworking, quando il livello di allerta si abbassa. Ma l’elemento che preoccupa di più le autorità è che “è stato criptato anche il backup dei dati. I dati non sono stati violati ma sono stati immobilizzati”, ha confermato D’Amato a Italian Tech. A preoccupare le autorità è la banca dati degli oltre 5,8 milioni di cittadini residenti nella regione Lazio. Sul caso la Procura di Roma ha aperto un fascicolo. Si procede per diversi reati tra cui l’accesso abusivo a sistema informatico e la tentata estorsione, con l’aggravante delle finalità di terrorismo. Tra le fattispecie ipotizzate dai pm, coordinati dal procuratore Michele Prestipino, anche danneggiamento a sistema informatici.
Attacco hacker alla Regione Lazio, il sito per le vaccinazioni è k.o. Il sito della Regione Lazio è ancora sotto la morsa dell’attacco dei pirati del web, che hanno preso di mira il Centro elaborazione dati regionale, provocando il blocco del portale Salute, con il sistema di prenotazioni Cup, e della rete vaccinale. Un’operazione iniziata nella notte tra sabato e domenica, quando i pirati informatici sono riusciti a inserire nel sistema un ransomware, che cripta i dati, ossia li rende illeggibili.
Audizione al Copasir. L’attacco probabilmente arriva dall’estero, rimbalzando in Germania, ma è ancora troppo presto per conoscere il punto da cui è stata lanciata l’azione. Il potente attacco ha messo in allarme i reparti della Difesa. Per questo, c’è attesa per l’audizione di oggi al Copasir della ministra dell’Interno Lucia Lamorgese, mentre domani ci sarà l’intervento di Elisabetta Belloni, a capo del Dipartimento per le informazioni della sicurezza.
Per il timore che i dati sensibili finiscano nelle mani dei pirati informatici, il Consiglio regionale del Lazio ha sospeso i sistemi informatici collegati a tutti i servizi sanitari. Stop quindi alle prenotazioni di vaccini ma anche di tutte le visite ospedaliere attraverso i sistemi Cup e Recup, stop agli screening programmati e alla fatturazione elettronica. Bisognerà attendere anche per scegliere e revocare il proprio medico di base. Per il rilascio del green pass, a pochi giorni dalla sua entrata in vigore, l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato ha dovuto ammettere che ci saranno rallentamenti “rispetto alle modalità usuali” a causa dell’attacco hacker. Mentre si lavora per ripristinare il ced regionale, D’Amato ha rassicurato i cittadini affermando che nessun dato sanitario è stato trafugato. Probabile il ripristino del servizio entro 72 ore, quando i cittadini potranno nuovamente prenotare per ricevere il vaccino anti Covid. Lo ha affermato questa mattina D’Amato a Sky Tg24, che ha però puntualizzato: “Restano sospese le prenotazioni per le visite specialistiche ambulatoriali e pagamento ticket, che entro la settimana dovrebbero riprendere – ha spiegato l’assessore – Mentre è regolarmente funzionate tutto quello riguarda la rete di emergenza e urgenza”.
“Atto terroristico”. Conferme sul tema arrivano anche dal Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti che, intervenuto questa mattina ad Agorà Estate su Rai 3, ha sottolineato che “Nessun dato sanitario o finanziario è stato trafugato. Tutti i dati sono in sicurezza ora vanno trasferiti su altre piattaforme”. L’attacco hacker al Ced del Lazio è, secondo il presidente della Regione Zingaretti, “un atto terroristico” di enorme gravità. Quanto accaduto desta la preoccupazione dei vertici della Regione che, però, guardano all’obiettivo della campagna vaccinale, che va avanti. Zingaretti ha lanciato un appello a chi ha già la prenotazione di presentarsi all’hub per ricevere la prima o seconda dose del siero. “Stiamo lavorando giorno e notte: contiamo nei prossimi giorni di far partire il portale delle prenotazioni”, ha detto Zingaretti in merito ai tempi di ripristino dei portali della Regione Lazio. Perché anche questa notte sono proseguiti gli attacchi informatici che, però, sono stati tutti respinti. Resta massima l’allerta. La Regione Lazio, in una nota, rassicura sulla messa in sicurezza dei dati. “Allo stesso tempo sono stati isolati e messi in sicurezza in appositi cloud tutti i dati dei servizi che non sono stati attaccati, come i dati sanitari – si legge nella nota -. Attualmente, si ricorda ancora una volta, che sono attivi i servizi della protezione civile, del 118, del 112 e del centro trasfusionale. I dati del bilancio regionale sono in sicurezza ed entro la fine di agosto saranno riattivati anche i sistemi di pagamento regionale. Questa notte i sistemi informativi della Regione Lazio hanno subito e respinto l’ennesimo attacco, resta massima l’attenzione e la collaborazione con le autorità competenti per ripristinare la sicurezza”. Dallo staff del presidente escludono la possibilità di pagare un riscatto. Al momento non è stata avanzata alcuna richiesta, ma resta un’ipotesi al vaglio degli investigatori perché, ha precisato il presidente del Lazio ad Agorà Estate, “questo genere di cyber attacchi prelude appunto a una richiesta di riscatto o alla vendita all’asta dei codici sulle dark room”. L’attacco però apre un dibattito sulla lenta corsa alla digitalizzazione che il nostro Paese ha fatto negli ultimi anni. “Quanto accaduto dimostra che l’Italia è in ritardo sul digitale, dobbiamo correre sulla cybersecurity”, ha affermato Zingaretti.
“La pandemia ha alimentato il fenomeno dei cyber attacchi”. “Il crimine digitale non ha le classiche delimitazioni. La Rete ha travolto i confini, tanto più che gli attacchi vengono commessi in una realtà transnazionale, con la sovrapposizione di diversi sistemi legislativi e differenti norme sul trattamento dei dati. Fondamentale è la collaborazione internazionale”. A spiegarlo, in un’intervista al quotidiano ‘La Stampa’, è Nunzia Ciardi, direttore della polizia postale e delle comunicazioni che, interpellata sull’attacco ai sistemi informatici della Regione Lazio, ha sottolineato come al momento sia “prematuro affermare con certezza la provenienza geografica di un attacco, perché esso può partire da un Paese per poi passare a un altro prima di arrivare a destinazione”. Una valutazione che è frutto dell’analisi fatta nel corso di questi anni, con l’aumento degli attacchi cyber che si è registrato soprattutto durante la pandemia di Covid-19. Secondo Ciardi, “La pandemia ha infatti impresso un’accelerazione a un settore che era già in salita. Tra smart working, didattica a distanza, spesa online è aumentato a dismisura il numero delle operazioni nel web e questo ci ha reso più esposti e più vulnerabili. Anche perché navighiamo con connessioni non sicure”. Quindi spiega: “Dal 2019 al 2020 gli attacchi alle infrastrutture del nostro Paese sono lievitati del 246 per cento. E non va bene neanche per pedopornografia e adescamenti online, con crescite del 130 per cento”. Serena Console
Zingaretti: "Il più grave attacco nella storia della Repubblica". Perché gli hacker hanno attaccato il sito della Regione Lazio e che riscatto chiedono. Claudia Fusani su Il Riformista il 3 Agosto 2021. «L’attacco è ancora in corso», il sistema è «spento per evitare danni più gravi», siamo alle prese con «il più grave attacco nella storia della Repubblica», la matrice «è sconosciuta», è un attacco «terroristico» ma «non riuscirà a fermare la campagna vaccinale e l’erogazione del green pass» che al momento è «solo rallentata di qualche ora». Le parole del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti riecheggiano alle tre del pomeriggio di un infuocato agosto. Sono parole che rassicurano ma anche terrorizzano. E improvvisamente nella prima domenica d’agosto anche l’Italia tocca con mano il significato del vaticinio di molti esperti di settore: «La prossima sarà un pandemia informatica con effetti economici più gravi di quella del covid». Il vero rischio per il mondo non sono i virus come il coronavirus ma quelli che attaccano i sistemi informatici cui sempre di più abbiamo affidato le nostre vite. Gli attacchi informatici sono purtroppo sempre più diffusi – non solo in Italia – l’Europa sta facendo il possibile per proteggersi, il Recovery fund destina una parte importante di risorse per questo e anche l’Italia, pur con un colpevole ritardo di tre anni, ha dato il via all’Acn, l’agenzia nazionale per la cybersicurezza (votata alla Camera, avrà il via libero definitivo in settimana dal Senato). Ma l’attacco plurimo al Ced della Regione Lazio, al di là della stretta cronaca criminale, assume una valenza politica e sociale speciale: gruppi no vax e no pass sono, al di là dei numeri assoluti, particolarmente aggressivi e non c’è dubbio che l’attacco abbia provocato un danno alla campagna vaccinale visto che è stato disattivato il Portale della Salute Lazio e il sistema delle rete vaccinale su cui viaggiano le prenotazioni e l’erogazione del Green pass. Ora, nulla mette insieme l’attacco cyber al Ced della regione Lazio con le piazze no vax e con la marcia squadrista che una settimana fa è andata sotto casa del sindaco di Pesaro Matteo Ricci. Ed è sicuramente una coincidenza il fatto che Zingaretti e Ricci siano politici targati Pd. Enrico Borghi, deputato dem e membro del Copasir, parla però di «fatto estremamente grave perché è stata attaccata una delle istituzioni simbolo dell’efficienza della campagna vaccinale nel nostro Paese e una delle istituzioni che nelle sue banche dati possiede dati sensibili e personali delle più alte cariche dello Stato». Motivo per cui domani il Copasir sentirà in audizione la dottoressa Belloni, direttore del Dis e il prefetto Franco Gabrielli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’intelligence che insieme al ministro Colao ha scritto la legge istitutiva di Acn.
Attacco hacker alla Regione Lazio, il sito per le vaccinazioni è k.o. La polizia postale, guidata dalla dottoressa Nunzia Ciardi, e il cyber zar Roberto Baldoni che guida il dipartimento cybersicurezza del Dis (uno dei due sarà nominato a breve direttore della Acn), stanno in queste ore incrociando dati per capire l’origine del cyberattacco. Oltre che per ristabilire il servizio mettendolo in sicurezza. Le evidenze al momento sono poche ma preziose. Il malware (il software cattivo) o il virus arriva dalla Germania, informazione che non esclude triangolazioni visto che il luogo sorgente dell’attacco non sempre corrisponde a quello che pianifica l’attacco e che può essere ovunque. Nel mirino ci sono i paesi dove la produzione di malware e ransomware è pane quotidiano, Russia e Cina ad esempio. Un secondo elemento è che nonostante sui monitor del Ced Lazio siano apparse alcune indicazioni, non si tratta di un furto di dati con estorsione, cioè con richiesta di riscatto (ransomware). Lo ha escluso “categoricamente” Nicola Zingaretti in conferenza stampa. Pur avendo colpito il Centro Cup e quello per i vaccini, «non sono state sottratte storie sanitarie» e quindi informazioni anagrafiche sui cittadini, e neppure dati bancari. Gli hacker non sono quindi in possesso di merce da scambiare e su cui chiedere riscatti. Hanno però creato sicuramente un danno. Non è la prima volta nell’ultimo anno, né in Italia né in Europa. La sequenza di attacchi segue tempistiche precise che coincidono per i passaggi più difficili di questa pandemia. Da marzo 2020 sono stati attaccati in sequenza l’ospedale San Raffaele a Milano (marzo 2020) e lo Spallanzani a Roma (aprile 2020), due centri sanitari cruciali nell’analisi dei dati sul Covid. Con l’estate gli attacchi sono cessati. Per poi riprendere in Germania (settembre 2020) alla clinica sanitaria di Dusseldorf e a dicembre, il più clamoroso, quando è stata attaccata la banca dati dell’Ema in Olanda. Furono sottratti i dati relativi al processo di approvazione di Pfizer. Eravamo tutti in attesa che Ema desse il via libera al vaccino (24 dicembre). Questi tipi di attacchi possono avere due diversi attori: entità statuali, cioè Stati che vogliono rubare dati preziosi; hacktivisti come il gruppo Lulzsec che rivendicò l’attacco al San Raffaele. Le indagini della polizia postale in queste ore stanno cercando di capire se ci sono link tra i gruppi che nel deep web in queste settimane stanno organizzando le piazze no vax e no pass in Italia. Le stesse che poi hanno ordinato di andare in missione sotto casa del sindaco Ricci a Pesaro.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Arturo Di Corino Bruno Ruffilli per "la Stampa" il 3 agosto 2021. L'attacco ransomware ai sistemi informativi della Regione Lazio non è il primo e non sarà l'ultimo nel nostro Paese. Cominciato nella notte tra sabato e domenica, è stato così grave da bloccare le prenotazioni per la vaccinazione anti-Covid di una delle regioni che procedono più velocemente e questo ha fatto subito gridare al complotto. Criptovalute per riavere i dati Lo strumento usato è un ransomware, un software malevolo che blocca l'uso dei dati e dei sistemi compromessi fino al pagamento di un riscatto (ransom, da cui il nome). Il ransomware può funzionare come un lucchetto che impedisce l'accesso a tutti dati, o cifrarne solo alcuni e renderli inutilizzabili, dopo che gli attaccanti li hanno copiati o distrutti. I criminali quindi contattano le vittime e assicurano che dopo il versamento del riscatto tutto tornerà alla normalità. Il riscatto è di solito commisurato alle possibilità economiche dell'azienda e viene richiesto in criptovalute, monete digitali più difficili da tracciare di quelle comuni. Di norma i criminali tendono a mantenere la loro parola, costruendosi una sorta di buona reputazione che permette loro di mantenere vivo il business. Tuttavia il pagamento non costituisce mai una garanzia di riavere i dati: può succedere che le vittime non ricevano i codici per sbloccare file e sistemi oppure finiscano in liste di pagatori scambiate nei forum del Deep Web, trasformandosi così in prede abituali. E non c'è alcuna garanzia che i dati ottenuti illegalmente non siano comunque utilizzati. Il software in affitto Negli ultimi mesi molte realtà italiane sono state oggetto di questi attacchi: il settore tessile, manifatturiero, della meccanica di precisione, della motoristica e dell'alimentare, aziende legali e assicurative. Le aree geografiche più colpite sono state il Nord-Ovest, la motor valley e la food valley nella Pianura padana. L'anno scorso erano stati presi di mira campioni dell'industria nazionale come Enel, Carraro, Campari Group. I cybercriminali hanno nomi singolari che trasferiscono ai loro strumenti e viceversa: Avaddon, Conti, Egregor, Maze, DoppelPaymer, REvil, Darkside eccetera. Gli ultimi due sono saliti alla ribalta per aver bloccato l'erogazione di energia in Texas e la distribuzione delle carni della multinazionale JBS. Il ransomware è tra gli strumenti di cybercrimine più diffusi e più dannosi. Secondo l'ultimo rapporto Ibm, per le aziende italiane il costo medio di un attacco è passato da 3,19 a 3,61 milioni di dollari, un aumento del 13,5%. Ma il record spetta agli Usa, con oltre 9 milioni di dollari. Così i sindaci di decine di comuni americani hanno stretto un patto contro i ransomware per decidere di non pagare riscatti ed evitare di incentivare queste aggressioni. Forse l'aiuto di una talpa Il ransomware che ha obbligato le autorità laziali a spegnere tutti i sistemi informatici sembrerebbe il Lockbit 2.0, un malware progettato per esfiltrare, cioè rubare, le informazioni sensibili immagazzinate in un dispositivo infetto, che sia un computer o un server. In genere viene attivato quando si cliccano documenti sbagliati o link nelle email, soprattutto quelle che arrivano da mittenti di cui ci fidiamo. E potrebbe aver colpito il cuore della sanità laziale passando attraverso l'account di un fornitore, forse - ma siamo nel terreno delle ipotesi - anche con il contributo di una talpa. La nuova versione di Lockbit, aggiornata poche settimane fa, è uno strumento criminale tra i più efficienti. Al pari di altri ransomware simili, viene distribuito come software as a service, cioè come «software a consumo», o in affitto: realizzarlo è difficile, ma può usarlo chiunque abbia un minimo di competenza informatica. Il software è ingegnerizzato per non colpire i Paesi dell'Est Europa, e le gang che finora lo hanno impiegato per colpire l'Italia sono spesso di origine russa. Anche un precedente attacco di Lockbit, risalente al 22 giugno nei confronti dell'azienda energetica Erg, ci conduce a un indirizzo russo. Ma le preoccupazioni per questo attacco non finiscono qui. Mentre fino a qualche tempo fa le gang del ransomware avevano dichiarato che non avrebbero colpito aziende e servizi sanitari, l'episodio della Regione Lazio apre uno scenario nuovo e pericoloso. Rubare i dati vaccinali di una popolazione, infatti, potrebbe avere un valore non solo monetario.
Attacco hacker in Lazio, ultimatum di 72 ore: attivata trattativa per il riscatto. Debora Faravelli il 05/08/2021 su Notizie.it. La Regione Lazio ha 72 ore di tempo per decidere come comportarsi dopo l'attacco hacker: nella richiesta di riscatto è contenuto anche un ultimatum. Gli hacker che hanno perpetrato un attacco al sistema informatico della Regione Lazio hanno lanciato un ultimatum di 72 ore, passato il quale non è chiaro cosa potrebbe accadere: il conto alla rovescia era contenuto nella richiesta di riscatto inviata dai pirati della rete. Gli esperti non escludono che ad attivare la richiesta di riscatto sia stato il meccanismo interno al malware, che in mancanza di una risposta da parte delle vittime ha fatto partire l’ultimatum per costringerle a prendere una decisione in un tempo prestabilito. Il timore è comunque che si possano perdere definitivamente tutti i dati cifrati dagli incursori, compresi quelli dell’unico backup di rete fatto dalla Regione Lazio che si è trovata senza copie dell’enorme database violato. La Postale sta intanto continuando le indagini per chiarire questo aspetto. A lasciare perplessi è anche il contenuto del messaggio fatto trovare nel virus che comincia con un amichevole “Hello Lazio!”, che potrebbe dimostrare una scarsa conoscenza dell’obiettivo colpito. Nel testo, tutto in inglese, si legge che i file sono criptati: “Non provate a modificare o rinominare nessuno di essi perché potrebbe subentrare una perdita di dati piuttosto seria”.
Giuseppe Bottero per "la Stampa" il 4 agosto 2021. «È successo una domenica. C'era un flusso anomalo di dati dai server italiani verso Zurigo: nel giro di un'ora e mezza abbiamo spento tutto. Per un mese non abbiamo avuto modo di usare i processi informativi in azienda». È una mattina di novembre quando Bob Kunze-Concewitz, l'uomo che ha portato Campari nel futuro, si trova catapultato negli Anni Sessanta. Niente reti, comunicazioni scritte a mano, ordini che si bloccano, fatture da recuperare. Gli hacker hanno colpito, ed è uno choc. Lo stesso che, più o meno in quel periodo, vive una serie infinita di aziende italiane. Dal cibo di Eataly - che si è vista paralizzare l'e-commerce, ma è riuscita a tenere aperti i negozi - all'energia dell'Enel, i cyberpirati fanno pochissimi prigionieri. «Qualcuno, a un certo punto, ha messo nel mirino la nostra rete per ottenere un riscatto. Siamo riusciti a bloccarlo in tempo» racconta Alberto Soresina, l'uomo a cui Unieuro, il gruppo leader nella distribuzione di elettronica di consumo ed elettrodomestici ha affidato la costruzione di uno scudo digitale. «Abbiamo isolato gli asset principali - spiega - ma l'attacco può arrivare in qualunque momento. Ormai nessuno si può più collegare ai nostri sistemi prima di essere identificato». Il Coronavirus che ha sconvolto tutto ha alzato un velo sulla debolezza informatica del Paese. «L'Italia è sul podio degli Stati che subiscono più offensive. Questo è dovuto alla scarsa consapevolezza delle piccole e medie imprese - ragiona Valerio Rosano, Country Manager Zyxel, multinazionale nata Taiwan specializzata in wireless e sicurezza che ha la sede italiana principale a San Mauro Torinese -. Mentre si è ormai consolidata la coscienza dell'importanza degli strumenti digitali, la cybersecurity è ancora vista come una spesa e non come una necessità». Il prezzo da pagare è altissimo: 7 miliardi l'anno, dice la società specializzata Innovery. «Spesso nella pubblica amministrazione e nelle grandi aziende non si rispettano le misure base della sicurezza e c'è un diffuso analfabetismo informatico - conferma l'esperta Fabiana Lanotte -. Anche dove esiste un portale super sicuro, solo per fare un esempio, il rischio diventa altissimo se non vengono custodite bene le password». Chi ha affrontato un attacco, come i dipendenti della multiutility Iren, racconta di archivi dei clienti impossibili da raggiungere, di una centrale del pronto intervento scollegata dalla rete, della difficoltà di spedire e ricevere messaggi di posta elettronica. Un blackout. E l'obiettivo è sempre quello: il riscatto. «Abbiamo resistito a una doppia pandemia» ragionava a metà luglio Kunze-Concewitz, che dopo la paura ha «investito tanto» e trasferito «tutto in cloud con sistemi di autenticazione per la sicurezza ancora più potenti». Nei giorni della grande offensiva si può incappare in blocchi anche senza essere i bersagli. Alla Miroglio di Alba, nel Cuneese, hanno pagato i contraccolpi di un fornitore di software, finito sotto scacco. Un imprenditore che lavora con gli Stati Uniti racconta come un cliente del Michigan, all'improvviso, abbia congelato tutti i lavori commissionati. «Ci hanno spiegato che non potevano accendere neanche la luce. Tutto era partito da un file excel ricevuto via mail, che aveva fermato il sistema della centrale di co-generazione, capace di produrre sia riscaldamento sia energia elettrica». Il costo per uscire dall'incubo: più di centomila dollari. «L'ultimo attacco rischiava di paralizzarci», dice Andrea Maspero, a capo del gruppo che, in questi mesi, è impegnato nel restyling degli ascensori della sede dell'Onu a Ginevra. Dopo lo spavento, prosegue, «abbiamo digitalizzato e automatizzato tutti i processi che consentono anche le operazioni di manutenzione da remoto. Abbiamo cercato di cogliere l'occasione per riorganizzare l'azienda». Già, serve un approccio completamente diverso. Ma è complesso, specie in un Paese alle prese con diseguaglianze croniche. «Il 75% dei 3850 Comuni montani italiani ha ancora il server sotto la scrivania - riflette Marco Bussone, presidente dell'Uncem-. Solo il 25 per cento dei Comuni montani è andato in cloud. E solo il 5 per cento ha scelto la fibra appena posata collegando i municipi. Siamo molto preoccupati». Di fronte c'è un nemico di difficile da fermare. «L'anno passato, con gli attacchi agli ospedali, ha reso ancora più evidente che i criminali non hanno alcuna remora, nessuna etica - commenta Gabriele Faggioli, legale e amministratore delegato di Partners4innovation oltre che presidente del Clusit -. Tutto quello che può essere fatto per ottenere denaro sarà fatto. Con buona pace dell'impatto degli attacchi sulla vita delle persone».
Valentina Errante Cristiana Mangani per "il Messaggero" il 4 agosto 2021. Se fosse stata un'azione terroristica con fini politici o ideologici, la rivendicazione potrebbe arrivare sabato 7 agosto, a una settimana dalla diffusione del virus che ha mandato ko il Centro elaborazione dati della Regione Lazio, criptando i riferimenti personali di milioni di cittadini, paralizzandone le attività e, con molta probabilità, copiando tutte le informazioni in memoria (non soltanto quelle relative alla Sanità). Come usano fare i criminali informatici. Ma è molto più probabile che i pirati del web abbiano agito a scopo estorsivo. E allora, calcolano gli investigatori sulla base di esperienze pregresse, per una simile mole di dati, potrebbero chiedere un riscatto di 5 milioni di euro in bitcoin. Sono questi i due scenari sullo sfondo dell'attacco hacker contro i server virtuali della Regione. Almeno secondo le modalità con cui agisce chi si serve di Ransom.EXX, una famiglia di virus che entra nei sistemi informatici, li infetta e, mentre cripta i dati trasformandoli in stringhe di numeri e sillabe, li copia. Per poi venderli. Come accaduto con i 2 gigabyte di documenti del Consiglio nazionale del Notariato, hackerato pochi mesi fa. Intanto l'assessore Alessio D'Amato annuncia che venerdì riprenderanno le prenotazioni per i vaccini.
VENDITA DEI DATI Lo stesso potentissimo virus è già stati utilizzato contro altre istituzioni italiane. E, nel caso in cui le vittime non abbiano avviato la trattativa per ottenere la chiave di decriptazione con il pagamento del riscatto, le informazioni carpite sono state vendute sul dark web. A marzo, il Consiglio nazionale del Notariato ha subito un attacco informatico, la richiesta di criptovaluta è rimasta senza seguito e sulla rete sono finiti tutti i dati. Anche l'Ateneo di Tor Vergata ha dovuto fare i conti con un'aggressione, costata ai vertici dell'università, la diffusione delle informazioni personali del Rettorato. Ieri, la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese è stata ascoltata dai componenti del Copasir. Ci vorranno «anni» per recuperare i dati, ha chiarito. La gravità dell'hackeraggio ai server della Regione è «senza precedenti», perché è stato reso inutilizzabile, il backup. Lamorgese ha sottolineato che il fenomeno dei cyber-attacchi continua a crescere e quindi, c'è la «necessità di agire con urgenza per elevare il livello di sicurezza». La stessa urgenza che ha dato lo sprint in Senato al provvedimento che istituisce l'Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Il testo approvato sarà al prossimo Cdm, per permettere al premier Mario Draghi di nominarne i vertici, che la legge mette alle sue dirette dipendenze. La necessità di un Sistema articolato si è resa quantomai necessaria, anche perché, negli ultimi mesi, molte realtà italiane hanno dovuto fare i conti con attacchi hacker, soprattutto nel Nord Ovest del Paese. E l'allarme continua a essere molto elevato: attraverso le password di accesso del dipendente di LazioCrea, che era in smart working, i cyber criminali potrebbero assestare altri colpi nei confronti di enti e istituzioni. Nei mesi scorsi hanno già sabotato i sistemi di importanti società dell'energia, della farmaceutica e di fornitori di servizi e-mail. Le credenziali di accesso dell'amministratore di Frosinone sono, infatti, collegate, a una grande società specializzata in servizi di sviluppo software, che offre consulenza a molte istituzioni, e che sarebbe stata all'origine dell'attacco.
ASL E OSPEDALI Dal Cnaipic (Centro nazionale anticrimine informatico) avvertono: «Ci sono grossi rischi per le società di gestione di Asl e ospedali». Sistemi che - a giudicare dalla scarsa barriera di difesa della Regione Lazio - hanno mostrato tutta la loro debolezza. In questo momento, poi, secondo gli investigatori, ad agire sarebbero due attori differenti, e questo spiegherebbe perché i vari attacchi siano avvenuti da software leggermente diversi tra loro. Il virus Lockbit 2.0 per le aziende e un Ransom.EXX per la Regione. Il primo ha una sua precisa caratterizzazione, perché è confezionato da cyber criminali e poi rivenduto in cambio di una quota dei riscatti ottenuti. Non si può escludere, infatti, che il soggetto originario abbia forzato l'accesso al sistema per poi rivendere la chiave ad altri e diversi attori. Ed è per questo che la procura di Roma che sta indagando sui diversi episodi, ha deciso di schierare anche il pool di magistrati dell'Antiterrorismo, ipotizzando, oltre alla tentata estorsione, l'aggravante della finalità terroristica.
La "falla" in Engineering. Lazio scarica su Leonardo. Stefano Vladovich il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. La Pisana difende LazioCrea e accusa la società che smentisce. Il buco nei sistemi di protezione. Tutto ruota attorno ai file di log. Ovvero alle tracce lasciate dai pirati informatici che sabato notte hanno «sfondato» le porte della sanità regionale del Lazio gabbando i sistemi di sicurezza. A tre giorni dall'hackeraggio del portale pubblico con i dati di tutti i residenti della Regione, gli inquirenti, polizia postale e Digos, lavorano giorno e notte per ricostruire, a ritroso, il percorso effettuato per entrare nel pc lasciato acceso da un funzionario della Asl di Frosinone. Poche certezze, fra queste: il dirigente non era in smart working e il terminale era al suo posto, ovvero in ufficio. L'uomo non stava navigando e nessuno è entrato direttamente nel sistema di accesso al pc. Dalla presidenza del consiglio regionale precisano che non si tratta di una sbadataggine, il computer può anche restare acceso ma senza le credenziali non si accede a nulla. Insomma, nessuno si è introdotto fisicamente nella struttura stessa. «Il pc è come una finestra lasciata aperta ma con le sbarre davanti. I pirati hanno divelto quelle da remoto» aggiungono. Le indagini, coordinate dalla Procura di Roma, puntano soprattutto a stabilire se si sia trattato o meno di un atto estorsivo. Nessuna richiesta di riscatto, come temuto nelle prime ore della violazione. A rischio, però, i dati di tutta la popolazione, comprese personalità da «allerta uno», come il presidente della Repubblica. Il trojan utilizzato per schiavardare il sistema di LazioCrea, un malware detto ransomware cryptolocker, sarebbe passato attraverso la società che si occupa proprio della sicurezza di tutto il portale regionale con il data base di milioni di assistiti, la Engineering. Ma su questo gli investigatori non parlano. Tutto top secret, anche se da ieri a supportare la polizia sarebbero arrivati nella capitale esperti informatici dell'Europol e dell'Fbi. Obiettivo: trovare gli autori, o l'autore, del cyberattacco prima che i dati criptati possano finire nelle mani sbagliate. La Pisana, dal canto suo, assicura che nulla è andato perso e il Ced, nonostante sia spento, conserva ogni singolo dato. Per altri giorni, almeno fino alla fine della prossima settimana chiarisce l'assessorato alla Sanità, non sarà possibile scaricare on line cartelle cliniche, accedere a prenotazioni di visite e vaccini, ottenere il green pass vaccinale. Soprattutto collegarsi con il Centro di Prenotazione Unica. «Gli utenti potranno farlo - spiega l'assessorato - recandosi di persona ai Cup di ospedali e poliambulatori». Da oggi per i residenti della Asl 1 sarà operativo il sistema di prenotazione telefonica temporaneo per visite ed esami con classe di priorità U e B. Una decisione, quella di chiudere ogni accesso web, che riporta indietro negli anni ma necessaria per far lavorare la polizia e mettere al sicuro dati sensibili che, probabilmente, gli hacker non hanno fatto in tempo a rubare. Braccio di ferro sulla responsabilità dei sistemi di sicurezza. La Regione difende LazioCrea e spiega che era «affidata a Leonardo tramite convenzione Consip». La società smentisce: «Non abbiamo mai avuto la gestione operativa dei servizi di monitoraggio e di protezione cyber di LazioCrea. Finora abbiamo erogato esclusivamente servizi di governance per la progettazione di un Security operation center (Soc) per definire processi e procedure nonché supporto per quanto riguarda la normativa sulla protezione dei dati personali». Stefano Vladovich
Antonella Aldrighetti per "il Giornale" il 4 agosto 2021. «Saranno ripristinati i servizi per la prenotazione dei vaccini e l'anagrafe vaccinale entro 72 ore». Così LazioCrea, l'azienda in house della Regione Lazio deputata alla gestione informatica e digitale del portale dell'ente territoriale informa, con un messaggio postato ieri pomeriggio su Facebook, i cittadini laziali dopo il blackout dell'intera rete internet. Senza troppi preamboli o dettagli, e senza neppure le scuse. Già, il blasone ne avrebbe risentito considerando che i dipendenti sono tutti assunti a chiamata diretta e indicati dalla politica. Una struttura elefantiaca che da quanto si evince dal bilancio regionale è costata all'erario, già lo scorso anno, 83 milioni di euro, così l'anno in corso e in previsione anche il prossimo. Da sommare, almeno per quest' anno altri 5,5 milioni di promozioni culturali. All'attivo vanta almeno 1.500 persone che si dovrebbero occupare meticolosamente di attività tecnico-amministrative, informatiche e di strategia digitale ma che potrebbero anche non avere le competenze adatte visto che un seppur sofisticato malware, ha mandato in tilt l'intera piattaforma senza che alcun sistema di difesa l'abbia protetto: un attacco partito dal pc di un dipendente di Frosinone in smart working. Ai vertici societari troviamo l'avvocato Luigi Pomponio sia in qualità di presidente del Cda che come ad: per la prima carica percepisce 20mila euro, per la seconda 110mila. È lui l'uomo di punta di LazioCrea cui, lo scorso anno, la regione ha chiesto di creare una piattaforma per gestire le prenotazioni dei vaccini: il sistema ha funzionato fino a 4 giorni fa. Ma ora per colpa di chi avrebbe dovuto allestire una schermatura idonea a tenere fuori malaware e cryptolocker la rete è stata violata. Infatti non si è trattato di un attacco al server sanitario come inizialmente qualcuno in Regione avrebbe voluto far credere, non solo. Tutta la rete a essere messa in ginocchio, compresa la posta elettronica e i fax collegati via internet. Tra consiglio regionale, presidenza e giunta per comunicare con l'esterno ciascuno usa il proprio smartphone e la propria rete internet. Tutto il resto è saltato. «Dal 2014, anno della fondazione di LazioCrea, per far funzionare l'azienda sono state impegnate decine di migliaia di euro allo scopo di semplificare i processi interni. Si potrebbe giustificare un blocco della piattaforma di 1 o al massimo 2 ore e non di giorni e giorni tira dritto Davide Barillari, consigliere regionale del Gruppo Misto - Bisogna fare chiarezza sul contratto di servizio con LazioCrea e verificare se ci sono delle penali quando si mettono a rischio dati sensibili di cittadini e altrettanto dati di importanza nazionale riferiti alla Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio». Sulla stessa lunghezza d'onda anche il sindacato Fials, che esprime preoccupazione sulla varietà di dati sensibili che in questo momento potrebbero andare persi: «Chi utilizza la rete per il proprio fascicolo sanitario, chi per gli esami clinici e i medici di famiglia che si collegano alla piattaforma regionale, tutti devono essere tutelati». Tuttavia a oggi ancora non è chiaro cosa sia successo all'intero server. «Manca solo l'ipotesi di un attacco da Marte perché da quando è accaduto il blocco della piattaforma Zingaretti ha messo sul tavolo tutte le ipotesi più surreali», chiosa il deputato della Lega Massimiliano Capitanio. E tra gli interrogativi rimane anche quello di come è stato gestito negli anni un ipotetico backup dei dati.
A. V. per "Libero quotidiano" il 6 agosto 2021. Milioni di mascherine acquistate da una ditta specializzata in lampadine, forniture di camici pagati e mai arrivati a destinazione mentre il personale medico e infermieristico del Lazio doveva fronteggiare i mesi durissimi della pandemia, e ora anche lo scandalo degli hacker che avrebbero violato un sistema informatico costato circa 25 milioni di euro. Ci sono molti interrogativi ai quali la Regione Lazio di Nicola Zingaretti dovrebbe rispondere, l'ultimo dei quali riguarda Laziocrea, la società ora al centro della vicenda dei pirati informatici su cui starebbe indagando l'Antiterrorismo, la polizia postale e perfino l'Fbi. Ma che cos' è esattamente Laziocrea? In teoria si tratta di una società, interamente partecipata dalla Regione Lazio, che l'affianca nelle attività tecnico-amministrative, informatiche e di strategia digitale, per gli addetti lavori, una newco frutto della fusione tra le società regionali LAit spa, specializzata in innovazione tecnologica, e Lazio Service spa, società di servizi ad alto valore aggiunto. In realtà ora si scopre che deve occuparsi anche di promozione delle bellezze del territorio del Lazio, di sagre paesane, serate dal vivo con mercatini e di spettacoli sul litorale laziale. Secondo quanto scrive l'edizione romana del quotidiano La Repubblica, a Laziocrea sarebbe arrivata un'iniezione di liquidità pari a 3.5 milioni di euro. Fondi che, da statuto, andrebbero spesi per la famigerata cybersicurezza e che invece potrebbero essere finiti in attività di tutt'altro tenore. A lanciare il sospetto sono, soprattutto, i consiglieri di Fratelli d'Italia che, carte alla mano, hanno tirato fuori un emendamento che prova lo stanziamento dei 3,5 milioni per la promozione culturale del Lazio. «Ma non sarebbe stato meglio investire questi soldi per rafforzare i sistemi di sicurezza?», ha chiesto la consigliera regionale di Fdi, Chiara Colosimo. «Qualcuno alla fine dovrà dirci la verità su questa vicenda», ha dichiarato. E nel mirino dei meloniani è finito Daniele Leodori, vicepresidente della Regione nonché firmatario del discusso emendamento nel quale, si ribadisce, non si fa cenno di cybersicurezza. Alla Pisana, sede del consiglio regionale del Lazio, è scoppiata, dunque, la polemica con il centrodestra ad attaccare sulla gestione opaca dei soldi e il Partito democratico a tentare una difesa imbarazzata. Alla fine lo stesso Leodori ha dovuto ammettere che sì, il finanziamento di 3,5 milioni di euro, contenuto nel collegato approvato dal Consiglio c'è, ed è stato pensato per la valorizzazione del patrimonio regionale e prevede quindi anche l'intervento sui sistemi informatici. Ma di tale intervento, per ora, non c'è traccia. Da registrare inoltre che Laziocrea è presieduta da Luigi Pomponio, nel Cda dal 2020, premiato proprio pochi giorni fa, a fine luglio, da Zingaretti e dall'assessore D'Amato insieme agli altri dipendenti della società «per il grande impegno nella lotta contro il Covid-19». Al personale di Laziocrea sono andati attestati di riconoscimento e varie benemerenze. Neanche una settimana dopo, lo scandalo degli hacker penetrati da un pc di un dipendente.
Valentina Errante per "il Messaggero" il 6 agosto 2021. Sono circa le 14 quando avviene il miracolo: il back up dei dati criptati dall'attacco informatico al Centro elaborazione dati della Regione Lazio è salvo. L'assortita squadra fatta dagli uomini dell'Fbi e di Europol, dai tecnici della polizia postale, dagli esperti di Leonardo ha raggiunto il risultato insperato. Aggirare il ransomware, il virus (che include anche una richiesta di riscatto) che aveva criptato tutti i dati del sistema. Il governatore Nicola Zingaretti lo annuncia poco dopo. Ripartono le prenotazioni dei vaccini (che in poche ore sono già tremila) e adesso la Regione Lazio tenterà di tornare alla normalità. La situazione resta complessa, ma i segnali sono incoraggianti. Gli esperti avrebbero recuperato tutti i dati memorizzati al 30 luglio, cioè 24 ore prima dell'attacco dei cyber criminali. Sullo sfondo resta il giallo della trattativa e del riscatto, per ottenere la chiave di decriptazione, dal link attivato mercoledì sera, con un countdown che sarebbe scaduto domani alle 23. Quando i dati sottratti all'amministrazione potrebbero essere diffusi nel dark web. Mentre emerge che l'attacco degli hacker è avvenuto in due fasi e non ha riguardato solo l'account di un dipendente regionale di Frosinone in smartworking, ma anche quello di un amministrativo.
IL BACKUP Secondo quanto riferito, dopo cinque giorni di lavoro ininterrotto, gli esperti sarebbero riusciti ad estrarre dai server infettati le copie di backup aggirando il virus e raggiungendo i dati del backup bloccati dal sistema infettato. «Stiamo verificando analizzando la consistenza dei dati per ripristinare nel più breve tempo possibile i servizi amministrativi e per i cittadini». I tecnici sarebbero riusciti a creare un sistema identico a quello compromesso che prima gestiva le informazioni, nel quale hanno riversato il backup salvato in una macchina Vtl (virtual tape library) di ultima generazione. Sullo sfondo di una soluzione inattesa per tutti, restano alcuni nodi da sciogliere. Dall'attivazione del link dei pirati informatici, ai dati sottratti. Dagli accertamenti è emerso che gli hacker, che hanno infettato il Ced della Regione Lazio, sono entrati nel sistema alle 20,42 del 31 luglio, attraverso il computer di un dipendente in smartworking a Frosinone. Ma, alle 22.40 dello stesso giorno, ci sarebbe stato un altro attacco, attraverso un account di tipo amministrativo, che avrebbe dato ai cyber criminali il potere di effettuare operazioni privilegiate, infettando il Ced. Gli hacker avrebbero continuato agire per l'intera notte, fino alle 7,21 del 1 agosto. Le indagini sono ancora in corso, ma è emerso che il file trojan Enotet è penetrato almeno in 135 macchine, quelle rese inservibili, però, alla fine, sono state almeno 3000. Il nodo, però, riguarda i dati rubati: non si sa quali siano le informazioni sottratte, che possano ancora essere diffuse sul dark web in cambio di criptovaluta o utilizzate dagli hacker. Si tratta del secondo step dell'attacco informatico, che, di prassi, viene messo in atto una settimana dopo l'aggressione come prima rivendicazione. Nella tempistica dell'attacco alla Regione Lazio la deadline è il 7 agosto.
IL CONTATTO Di fatto, nella pagina di rivendicazione, chi ha infettato il sistema con il ransom, come accade sempre, ha dato anche indicazioni per la mediazione, ossia per pagare un riscatto e ottenere la chiave di decriptazione dei dati. Un responsabile di Lazio Crea avrebbe dovuto collegarsi al link suggerito, lasciando un contatto email, attraverso un provider svizzero che cripta i messaggi, sulla rete Tor. Un network decentralizzato costituito da alcune migliaia di server sparsi in tutto il mondo. Quel link si sarebbe reso attivo mercoledì sera. Non è chiaro se da solo o per mano di qualcuno, a meno di 24 ore dal recupero dei dati. I tecnici avrebbero trovato da soli la chiave, nonostante le loro stesse previsioni, e non avrebbero pagato un riscatto che, in base a un'analisi approssimativa, eseguita sulla mole di dati a rischio, ammontava a circa 5milioni di euro in bitcoin. La scadenza dell'ultimatum è domani. Bisognerà attendere. I pirati del web potrebbero ancora utilizzare i dati. Intanto, alla Regione è vietato usare il wifi.
Valentina Errante e Aldo Simoni per “Il Messaggero” il 7 agosto 2021. Il countdown è scaduto ieri sera alle 23. E per tutta la notte i tecnici della postale hanno sorvegliato il dark web, per verificare se i dati sottratti alla Regione durante l'aggressione siano in vendita o disponili. L'ultimatum dei cyber criminali, generato in automatico dal ransomware, il virus che chiede anche il riscatto, era chiaro: non chiamate la polizia e non tentate di intervenire sul sistema, i file potrebbero essere cancellati. L'orologio a margine della schermata segnava il tempo rimasto, contando anche i secondi. Fino alle 23 del 6 agosto. Ieri, intanto, Nicola B., il dipendente di 61 anni della Regione Lazio, che attraverso il suo account ha aperto le porte del Ced del Lazio agli hacker, è stato sentito dagli uomini della postale e del Cnaipic (La centrale contro il crimine informatico) per tre ore. Ha negato di essersi collegato con siti pericolosi e anche che altri familiari avessero accesso al computer. E' apparso tranquillo, ma, poi, quando è stato chiamato dal suo capo ufficio, ha iniziato a sentire il cuore che andava all'impazzata: «Sono in un tritacarne», ha detto, mentre avvertiva un dolore acuto al petto. Adesso è ricoverato all'ospedale di Frosinone. Il suo pc, in queste ore, viene passato ai raggi x. Si va indietro, si cercano tracce. A ritroso, attraverso i link, i siti e gli indirizzi Ip che si sono collegati al computer.
L'INTERROGATORIO L'impiegato, che lavora nell'Area Enti Locali, ha ripercorso davanti alla polizia, minuto per minuto, il lavoro svolto al computer tra sabato e domenica. «Stando a casa - ha detto - mi capita spesso di lavorare anche di notte, tra le 2 e le 3. Magari mi sveglio e comincio a smaltire le pratiche o ad anticipare il lavoro. La notte tra sabato e domenica ero a casa da solo con mia moglie. Mio figlio era al mare e, tra l'altro, non conosce nemmeno la mia password. Il computer era spento e avevo spento anche la ciabatta. Domenica, primo agosto, ho usato il pc, poi, intorno alle 19.30, ho chiuso tutto».
LA RIVENDICAZIONE Adesso ci si aspetta una mossa dagli hacker, che avevano invitato l'amministratore dell'azienda a contattarli: «Nel caso tu non abbia il diritto di parlare a nome di questa azienda, non provare a contattarci. Qualsiasi contatto non autorizzato aumenterà l'importo del riscatto», si legge nella schermata comparsa dopo la prima comunicazione con la quale i cyber criminali avevano annunciato l'attacco e la criptazione del file. Il messaggio continuava: «Possiamo condividere queste informazioni solo con la persona autorizzata. Queste misure sono necessarie per mantenere la piena riservatezza del nostro accordo». E ancora: «Puoi consultarti con qualcuno del tuo ufficio informatico, questo ci aiuterà ad evitare ogni futuro fraintendimento. I tuoi file sono stati criptati con la crittografia più recente. Ricorda che qualsiasi tentativo di modifica e tentativo di rinominare i file crittografati causerà un grave danno ai documenti». La trattativa prevedeva una prova: «Inviaci il tuo indirizzo email e carica uno dei file crittografati, quando il file verrà caricato, la cartella di caricamento sarà eliminata. Questo file verrà decifrato come prova, per dimostrarti la capacità di decriptare gli altri file. Non ti daremo un'altra possibilità di decifrare un file e lasciare email».
IL RISCATTO Il messaggio generato automaticamente dal virus continua: «Non provare nemmeno a imbrogliarci, ti contatteremo quando ci invierai un file prova. Dopo il pagamento, tutti tuoi dati verranno decriptati. Devi risponderci in un giorno altrimenti l'importo del riscatto verrà aumentato, ma avrai un'altra opportunità per caricare il file di test. Ti preghiamo di non contattarci tramite Gmail, Yahoo, Hotmail, Live, parliamo solo in inglese. La scelta migliore è Protonmail: i tuoi server di posta possono bloccare i nostri messaggi». Infine, l'invito a non chiamare la polizia: «Attenzione non chiamare la polizia, perché bloccherà tutti i tuoi conti bancari per impedire il pagamento. E poiché tu non sarai nelle condizioni di pagare, tutti i tuoi messaggi crittografati andranno perduti. Tieni presente che hai un tempo limitato per prendere una decisione Quindi, hai una possibilità adesso. Se vuoi ripristinare i tuoi dati contattaci ora». Nessuno sarebbe stato contattato, i dati sono stati recuperati. E così, questa notte, gli hacker potrebbero davvero avere diffuso le informazioni rubate. La polizia postale è in allerta.
Lazio, è scaduto l'ultimatum. Ricoverato l'uomo del pc bucato. Stefano Vladovich l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. I Servizi al lavoro sul caso: giallo sul riscatto in criptovaluta. Sentito il dipendente di LazioCrea: malore davanti ai pm. Roma. Una settimana dall'attacco hacker alla Regione Lazio. Si contano i danni, a cominciare dalla banca dati nelle mani dei cyber-estorsori, per continuare con la paralisi delle prenotazioni online per il vaccino Covid-19. Nuovi interrogatori, in Procura, alla ricerca di una talpa, di un responsabile suo malgrado, «colpevole» di aver spalancato le porte del Ced regionale ai pirati informatici che sabato 31 luglio si sono introdotti nel sistema facendolo crashare, non prima di aver immesso un virus, un ransomware, e copiato dati di sei milioni e mezzo di italiani. È stato ricoverato all'ospedale di Sora, dopo un malore, il dipendente della Regione, non della Asl di Frosinone, interrogato in questura dagli agenti del Cnaipic, Centro nazionale anticrimine informatico. L'uomo lavora nella sede distaccata della Ciociaria, in via Francesco Veccia. Qui, due giorni prima dell'attacco finale, gli hacker sarebbero entrati nel suo pc, forse con una e-mail contenente un trojan. Il ransomware avrebbe poi lavorato sotto traccia fino a sabato notte, quando ha aperto agli hacker l'accesso al portale regionale per copiare il back-up lasciato in rete, prima di criptarlo. Gli inquirenti, che indagano per accesso abusivo al sistema informatico, tentata estorsione e danneggiamento al sistema informatico con finalità di terrorismo, lo avrebbero incalzato con mille domande. Il pc era acceso? A chi avrebbe fornito le credenziali per accedere alla postazione? Sul portatile la schermata nera inviata dai pirati con le prime «istruzioni» da seguire per riavere i dati in chiaro. «Se chiamate la polizia vi bloccheranno i conti e metteremo in rete gli account», si leggeva. L'uomo, Nicola B., 61 anni, nega tutto. «L'ho spento come sempre e scollegato persino alla rete elettrica», avrebbe assicurato agli agenti. «Le mie credenziali? Non le ho mai date a nessuno, neanche mio figlio le conosce», ha fatto mettere a verbale. Il caldo torrido, il terrore che possa aver dato lui, inconsapevolmente, il via libera ai criminali fanno il resto. Entrato in auto diretto al paese vicino, ha sentito il cuore battere a mille. Una corsa al pronto soccorso per un attacco di tachicardia e il ricovero per accertamenti. Su di lui il peso di un sistema di sicurezza pieno di falle. A cominciare dall'archivio che qualcuno ha lasciato collegato a internet. Non lo fa mai nessuno, tranne la Regione Lazio. Fra i mille dubbi di una storia paradossale, il più grave attacco a un'istituzione pubblica in Italia, restano troppi punti oscuri. Intanto: i servizi hanno sborsato, in criptovaluta ovviamente, la somma chiesta dai pirati? Una prassi oramai consolidata per molte aziende private costrette a pagare per tornare in possesso di dati preziosi. È accaduto, fra gli altri, agli americani dell'oleodotto di Colonial attaccato da DarkSide, ai giapponesi della Toshiba, al creatore di Facebook. Ne esce indenne solo chi appronta un protocollo «salvagente» in caso di attacco. La Regione Lazio non lo ha fatto, nonostante abbia recuperato i dati «inchiavardati», estraendoli da un secondo back-up parallelo, se li è visti scippare da un'organizzazione criminale probabilmente russa o bulgara. E i responsabili della cybersecurity della Pisana? Ancora non è chiaro chi siano, probabilmente vari partner che hanno lavorato scollegati per creare l'intero sistema. La società Leonardo si è già dichiarata estranea proprio sul fronte della sicurezza. LazioCrea avrebbe partecipato ad alcuni progetti ma ancora non se ne conoscono i dettagli. Engineering infine, tirata in ballo dalla stessa presidenza del consiglio regionale, nega ogni coinvolgimento sulla questione. «Engineering non fornisce servizi di infrastruttura o di sicurezza alla Regione Lazio, che si appoggia per questo ad altri operatori», ribadisce l'azienda. Stefano Vladovich
Giuseppe Scarpa per “Il Messaggero” l'8 agosto 2021. Per ora i dati sensibili di 5,8 milioni di residenti nel Lazio non sono stati messi in vendita nel dark-web. Ad oggi non ci sarebbe stata alcuna conseguenza dopo l'ultimatum dei pirati informatici scaduto venerdì sera alle 23.00. Nel frattempo, però, la pagina con il link dove gli hacker fornivano istruzioni sull'aggressione cyber e il pagamento del riscatto è stata rimossa dagli stessi attaccanti. Hacker che avrebbero agito, probabilmente, dall'est Europa. Gli scenari a questo punto sono differenti. Prima di tutto occorre capire quale fine faranno i dati, ammesso che siano stati esfiltrati. Potrebbero essere cancellati, in tal caso non ci sarebbe nessun problema e, se sono stati effettivamente salvati, come ha fatto sapere la Regione Lazio, il sito potrebbe presto funzionare a pieno regime. Nella peggiore delle ipotesi le informazioni potrebbero essere riversate nel dark web e piazzate al miglior offerente, i ramswonware d'altro canto funzionano proprio in questo modo. In questo caso i dati di quasi sei milioni di persone, comprese le massime cariche istituzionali, potrebbero essere oggetto di compravendita. In tal caso aver eseguito il back up da parte della Regione risolverebbe solo la metà dei problemi. Ovvero il possesso dei dati ma non la questione di un'eventuale divulgazione.
Stefano Vladovich per "Il Giornale" l'8 agosto 2021. Una settimana dall'attacco hacker alla Regione Lazio. Si contano i danni, a cominciare dalla banca dati nelle mani dei cyber-estorsori, per continuare con la paralisi delle prenotazioni online per il vaccino Covid-19. Nuovi interrogatori, in Procura, alla ricerca di una talpa, di un responsabile suo malgrado, «colpevole» di aver spalancato le porte del Ced regionale ai pirati informatici che sabato 31 luglio si sono introdotti nel sistema facendolo crashare, non prima di aver immesso un virus, un ransomware, e copiato dati di sei milioni e mezzo di italiani. È stato ricoverato all'ospedale di Sora, dopo un malore, il dipendente della Regione, non della Asl di Frosinone, interrogato in questura dagli agenti del Cnaipic, Centro nazionale anticrimine informatico. L'uomo lavora nella sede distaccata della Ciociaria, in via Francesco Veccia. Qui, due giorni prima dell'attacco finale, gli hacker sarebbero entrati nel suo pc, forse con una e-mail contenente un trojan. Il ransomware avrebbe poi lavorato sotto traccia fino a sabato notte, quando ha aperto agli hacker l'accesso al portale regionale per copiare il back-up lasciato in rete, prima di criptarlo. Gli inquirenti, che indagano per accesso abusivo al sistema informatico, tentata estorsione e danneggiamento al sistema informatico con finalità di terrorismo, lo avrebbero incalzato con mille domande. Il pc era acceso? A chi avrebbe fornito le credenziali per accedere alla postazione? Sul portatile la schermata nera inviata dai pirati con le prime «istruzioni» da seguire per riavere i dati in chiaro. «Se chiamate la polizia vi bloccheranno i conti e metteremo in rete gli account», si leggeva. L'uomo, Nicola B., 61 anni, nega tutto. «L'ho spento come sempre e scollegato persino alla rete elettrica», avrebbe assicurato agli agenti. «Le mie credenziali? Non le ho mai date a nessuno, neanche mio figlio le conosce», ha fatto mettere a verbale. Il caldo torrido, il terrore che possa aver dato lui, inconsapevolmente, il via libera ai criminali fanno il resto. Entrato in auto diretto al paese vicino, ha sentito il cuore battere a mille. Una corsa al pronto soccorso per un attacco di tachicardia e il ricovero per accertamenti. Su di lui il peso di un sistema di sicurezza pieno di falle. A cominciare dall'archivio che qualcuno ha lasciato collegato a internet. Non lo fa mai nessuno, tranne la Regione Lazio. Fra i mille dubbi di una storia paradossale, il più grave attacco a un'istituzione pubblica in Italia, restano troppi punti oscuri. Intanto: i servizi hanno sborsato, in criptovaluta ovviamente, la somma chiesta dai pirati? Una prassi oramai consolidata per molte aziende private costrette a pagare per tornare in possesso di dati preziosi. È accaduto, fra gli altri, agli americani dell'oleodotto di Colonial attaccato da DarkSide, ai giapponesi della Toshiba, al creatore di Facebook. Ne esce indenne solo chi appronta un protocollo «salvagente» in caso di attacco. La Regione Lazio non lo ha fatto, nonostante abbia recuperato i dati «inchiavardati», estraendoli da un secondo back-up parallelo, se li è visti scippare da un'organizzazione criminale probabilmente russa o bulgara. E i responsabili della cybersecurity della Pisana? Ancora non è chiaro chi siano, probabilmente vari partner che hanno lavorato scollegati per creare l'intero sistema. La società Leonardo si è già dichiarata estranea proprio sul fronte della sicurezza. LazioCrea avrebbe partecipato ad alcuni progetti ma ancora non se ne conoscono i dettagli. Engineering infine, tirata in ballo dalla stessa presidenza del consiglio regionale, nega ogni coinvolgimento sulla questione. «Engineering non fornisce servizi di infrastruttura o di sicurezza alla Regione Lazio, che si appoggia per questo ad altri operatori», ribadisce l'azienda.
REGIONE LAZIO, IL SITO DI NUOVO IRRAGGIUNGIBILE E ZINGARETTI TACE…Il Corriere del Giorno il 10 Agosto 2021. Nel dark web web dove si trovano annunci di ogni tipo, ed informazioni in vendita anche a mille euro, gli investigatori al lavoro sull’assalto ai server della Regione Lazio stanno monitorando la situazione, sospettando che prima o poi i dati del Lazio, che non sono ancora in circolazione, verranno messi in vendita. Altro che riparazione e ripristino dei servizi entro poche ore… il sito della Regione Lazio è di nuovo ko e il governatore Nicola Zingaretti è completamente in confusione. O vi è stato un nuovo un attacco hacker e non viene raccontato oppure il sistema informatico tanto “strombazzato” da Zingaretti è una vera e propria schifezza. Al momento non funzionano i servizi digitali e persino le mail. In Regione si naviga letteralmente a vista ed è praticamente impossibile collegarsi con la Regione Lazio che è il “cuore” politico della Nazione. Da parte dell’ente regionale laziale, nel numeroso staff del presidente Zingaretti nessuno parla, tutto tace, non vi è alcuna traccia di informazioni, e si trovano solo e soltanto persone che si lavano le mani ben attenti a tenere le bocche cucite. Tutto ciò mentre ci sono servizi che vanno erogati, bandi di prossima scadenza, e domande da porre. Zingaretti ha sinora sparato ad alzo zero cercando qualcuno su cui scaricare colpe politiche e gestionali della Regione Lazio. prima contro gli hackers spacciati come terrorismo, per poi passare nei giorni successivi a dichiarazioni trionfali “tutto a posto, siamo fortissimi, ricominciamo a lavorare”. In realtà i fatti non stanno esattamente come Zingaretti vorrebbe lasciare intendere, mentre invece sarebbe necessario comunicare e possibilmente con la dovuta serietà necessaria quanto sta accadendo per davvero alla Regione Lazio. Anche perchè quel sito della Regione Lazio lo pagano anche i contribuenti…Inoltre oltre al danno, vi sarebbe anche una vera e propria beffa. L’indagine avviata dal Garante della privacy sull’attacco al sistema informatico della Regione Lazio potrebbe portare con una maxi-multa, in quanto come ben noto il trattamento e la protezione dei dati personali sono una materia molto delicata. La pandemia sembra aver dato ancora più voglia di rischiare agli hacker, che hanno effettuato una serie interminabile di attacchi informatici. Nei forum frequentati dagli hackers è partita la caccia alle informazioni conservate nei database della Regione Lazio. per i quali esiste già una lunga fila di acquirenti, pronti a pagare per avere una copia dei file trafugati. Su Raidforums.com, alla voce “trading”, c’è una discussione aperta sul Lazio. Quattro utenti si dicono già da ora disponibili a pagare per avere “Covid informations” e “medical data” ma per fortuna sinora, le risposte però non sono fortunatamente soddisfacenti. Altri hanno offerto per giorni nomi e cognomi di 7,2 milioni di vaccinati italiani, con tanto di mail, codice fiscale e Asl di appartenenza, salvo poi scomparire dalla circolazione. Al momento i dati sul Lazio, probabilmente utili per essere poi rivenduti a case farmaceutiche, non sono ancora saltati fuori. Negli ultimi due anni, soltanto a Roma, sono finiti nel mirino oltre alla Regione Lazio, l’Università di Tor Vergata, il Consiglio Nazionale Forense e la Sittel, una società specializzata in telecomunicazioni con sede a Roma. I loro dati sono ormai pubblici, diffusi e disponibili nel dark web (cioè il web occulto, regno delle illegalità). Nel dark web web dove si trovano annunci di ogni tipo, ed informazioni in vendita anche a mille euro, gli investigatori al lavoro sull’assalto ai server della Regione Lazio stanno monitorando la situazione, sospettando che prima o poi i dati del Lazio, che non sono ancora in circolazione, verranno messi in vendita.
SIAMO SICURI CHE SIANO HACKER RUSSI? Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 10 agosto 2021. I pirati informatici, dopo aver bucato l'account del dipendente di Frosinone della Regione Lazio, hanno infettato i pc di un centinaio di altri colleghi. Tra cui quello di un amministratore di rete. Essenziale per portare a compimento e con successo l'attacco. Così gli hacker sono riusciti a impadronirsi del sito, acquisire le informazioni e dare il via al ricatto. Inoltre i cybercriminali avrebbero portato a compimento la loro missione - ricostruiscono inquirenti e investigatori - appoggiandosi anche ad un server negli Stati Uniti. Per questo motivo i magistrati Gianfederica Dito e Luigi Fede hanno inoltrato una rogatoria agli Usa. I pm hanno aperto un fascicolo per accesso abusivo, danneggiamento di sistemi informatici di pubblica utilità e tentata estorsione.
L'INDAGINE Andando a ritroso la Polizia Postale vorrebbe scoprire da dove tutto è partito. Un compito per niente facile dal momento che la rete Tor, quella su cui lavorano gli hacker, è in grado di rimbalzare tra più server mascherando l'Ip. L'Ip è una sorta di targa di riconoscimento e in assenza dell'Internet Protocol address diventa davvero complicato dare un nome e un cognome ai pirati informatici. Ad ogni modo il Cnaipic sta lavorando senza sosta per cercare di venire a capo di un'aggressione, portata a termine il primo agosto, che in Italia non ha precedenti. Nel frattempo Engineering Ingegneria Informatica, la società che fornisce servizi di sicurezza informatica - tra i suoi clienti c'è anche la Regione Lazio - ha presentato una denuncia in procura per accesso abusivo al sistema informatico. Di fatto la stessa società aveva spiegato in una nota che il 5 agosto (pochi giorni dopo l'attacco alla Regione Lazio) era stata rilevata «una possibile compromissione di credenziali di accesso ad alcune VPN di clienti, subito avvertiti individualmente».
I DATI Per ora i dati sensibili di 5,8 milioni di residenti nel Lazio non sono stati messi in vendita nel dark-web. Ad oggi non ci sarebbe stata alcuna conseguenza dopo l'ultimatum dei pirati informatici scaduto venerdì sera alle 23.00. Sabato la pagina con il link dove gli hacker fornivano istruzioni sull'aggressione cyber e il pagamento del riscatto è stata rimossa dagli stessi attaccanti. Hacker che avrebbero agito, probabilmente, dall'Est Europa. Gli scenari a questo punto sono differenti. Prima di tutto occorre capire quale fine faranno i dati, ammesso che siano stati esfiltrati. Potrebbero essere cancellati, in tal caso non ci sarebbe nessun problema e, se sono stati effettivamente salvati, come ha fatto sapere la Regione Lazio, il sito potrebbe presto funzionare a pieno regime. Nella peggiore delle ipotesi le informazioni potrebbero essere riversate nel dark web e piazzate al miglior offerente, i ramswonware d'altro canto funzionano proprio in questo modo. In questo caso i dati di quasi sei milioni di persone, comprese le massime cariche istituzionali, potrebbero essere oggetto di compravendita. In tal caso aver eseguito il back up da parte della Regione risolverebbe solo la metà dei problemi. Ovvero il possesso dei dati ma non la questione di un'eventuale divulgazione.
IL DARK WEB La polizia postale continua a svolgere accertamenti e controlli nella rete oscura. Non è escluso che ci possa essere un collegamento tra chi ha colpito il sito della Regione il primo agosto e chi ha provato, nei giorni scorsi, a mettere sotto attacco il brand di moda Ermenegildo Zegna. In una nota di sabato il gruppo ha confermato di essere stato oggetto di un «accesso non autorizzato ai propri sistemi informatici» annunciando di avere informato le autorità. «Non appena la società ha appreso l'accaduto ha messo in atto le azioni necessarie a garantire la sicurezza della propria rete». Gli inquirenti stanno analizzando una serie di dati mettendo a confronto i vari blitz di questo tipo avvenuti in Italia nelle ultime settimane. La metodologia utilizzata dall'organizzazione criminale potrebbe rappresentare, infatti, una sorta di «firma». Attacchi simili, con la stessa tecnica e modalità, sarebbero stati messi a segno anche a livello mondiale, gli esperti indicano quello che ha colpito le reti governative brasiliane, il Dipartimento dei trasporti del Texas (TxDOT), Konica Minolta, IPG Photonics e CNT dell'Ecuador.
Alessio Lana e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2021. Maze, una sigla semplice. Una sigla che per almeno due anni è stata l'incubo delle aziende pubbliche e private, dei governi, di multinazionali come Canon, Lg, Xerox. Un gruppo di hacker in grado di bloccare sistemi, rubare dati, ricattare società e privati. Un gruppo pericoloso che per primo ha utilizzato la strategia del «name & shame», letteralmente nominare e svergognare. Il primo novembre 2020 ha dichiarato «chiuso il progetto» in grande stile, con un comunicato stampa pubblicato online in cui sottolineava che non ci sarebbero stati successori. Ma non è scomparso. Anzi. Già qualche mese prima della resa, un'altra banda, addirittura più capace e potente, era comparsa sulla scena: Egregor. In un anno ha sferrato oltre 200 attacchi e gli analisti ritengono possa essere lo schermo per gli affiliati di Maze. E poi ce ne sono tanti altri perché questa Ransom Mafia , come è stata definita, ricalca il mondo criminale «analogico»: individui che si riuniscono in gang, formano e sciolgono alleanze, si raggruppano in cartelli. A raccontare la guerra ormai diventata globale è un rapporto riservato dell'intelligence italiana che ricostruisce le strategie di questi cybercriminali, i loro obiettivi, le loro origini. Contiene nomi e date di una battaglia di cui l'Italia ha visto gli effetti più evidenti con l'assalto contro la Regione Lazio. Ma riporta soprattutto un dato che fa ben comprendere quale sia la posta in gioco: nel 2019 sono stati pagati 9,7 miliardi di euro per impedire ai criminali di bloccare i sistemi aziendali e diffondere le informazioni riservate, nel primo quadrimestre del 2021 questa cifra ha già raggiunto i 17 miliardi di euro. Un attacco ransomware utilizza questi virus telematici per «limitare l'accesso al sistema informativo degli utenti e crittografare il disco rigido». I file diventano illeggibili dal legittimo proprietario che per sbloccarli ha bisogno di una specifica chiave crittografica. Ed è a questo punto che scatta il ricatto. Generalmente sullo schermo dei computer attaccati compare un avviso che invita ad aprire una pagina dove si trovano le istruzioni per il pagamento, nella maggior parte in criptovalute. Per i meno esperti c'è anche un'assistenza clienti multilingue. Ma già dalla fine del 2020 la strategia si è evoluta, diventando ancor più subdola. Generalmente «l'operazione prevede che prima di procedere con la cifratura dei dati presenti nel sistema possa essere effettuata un'esfiltrazione di tutte le informazioni - spiegano gli analisti -. Fino allo scorso anno gli attacchi ransomware prevedevano quasi esclusivamente la crittografia dei dati che venivano resi indisponibili a tempo indeterminato. Nell'ultimo anno si è aggiunta la divulgazione dei dati nel dark web». È questa la «rivoluzione» di Maze, la «double extortion» (doppia estorsione): se non paghi per avere la chiave crittografica o tenti di aggirare il riscatto mettiamo i tuoi dati online. Dai brevetti alle informazioni dei clienti o degli utenti, tante informazioni sensibili rischiano di diventare pubbliche. Così si stima che tra il 50 e il 70 per cento delle vittime, alla fine, pagano. Finora gli attacchi ransomware hanno colpito gestori delle reti energetiche e telefoniche, scuole e ospedali ma anche società quotate in Borsa. Hanno ricattato aziende di piccolo e medio livello che la pubblicazione dei dati avrebbe annientato e colossi industriali disponibili a pagare pur di mettere al sicuro le informazioni riservate. Ma soprattutto hanno trattato direttamente con i governi, proprio come avviene quando le formazioni terroristiche catturano gli ostaggi. Secondo l'ultimo rapporto The State of Ransomware 2021 di Sophos, la maggior parte degli attacchi arriva da Russia, Cina e Corea del Nord ma ci sono altri focolai in Vietnam, Ucraina, India. I più clamorosi sono stati sferrati dal gruppo Revil nel 2021. In marzo hanno chiesto al colosso taiwanese Acer 42 milioni di euro. In aprile la medesima cifra a un partner di Apple per non diffondere segreti industriali. Subito dopo hanno preso di mira JBS Foods, che ha subito una richiesta per 9,3 milioni di euro, e in luglio, tramite il fornitore Kaseya, sono penetrati nei sistemi di numerose aziende chiedendo un totale di 59,5 milioni di euro. Alcune imprese hanno pubblicamente ammesso gli assalti. Nel maggio scorso la Colonial Pipeline, oleodotto che rifornisce la costa orientale degli Stati Uniti, ha pagato 3,7 milioni di euro al gruppo DarkSide per recuperare i propri dati e con l'intervento dell'Fbi ne ha poi recuperati 1,9. In Italia, il 6 agosto, il Gruppo Zegna ha rivelato di «non aver ceduto al ricatto». In realtà la lista di chi, nel nostro Paese, è stato colpito e ha pagato oppure è riuscito a fermare il ransomware è lungo, ma gli investigatori raccomandano di non diffonderla proprio per non dare vantaggi ai criminali e soprattutto enfatizzare la loro attività illecita. Qualche settimana fa Pay2Key, che ha matrice iraniana, ha pubblicato un post con l'elenco delle ditte colpite in Israele: Portnox, Israel Aerospace Industries, Habana, InterElectric, Mt, InfiApps e gli analisti ritengono si tratti «di un attacco con immediata finalità economica ma soprattutto una minaccia per gli interessi geopolitici di Stati attraverso le loro infrastrutture critiche». Da una parte le gang hanno un peso anche nelle relazioni internazionali. Come riportato dal New York Times , l'improvvisa scomparsa dei russi Revil in luglio, proprio dopo aver messo a ferro e fuoco gli Stati Uniti, è da attribuire a un accordo mirato tra Joe Biden e Vladimir Putin. Dall'altra si muovono anche come vere e proprie aziende. Premiano l'innovazione e lavorano per tenere alta la reputazione: se qualcuno riesce a riottenere i dati senza pagare è un problema, si diventa poco credibili. Sono organizzazioni ben strutturate, con decine di sviluppatori e macchinari e così, per ammortizzare i costi, hanno ideato il Ransomware as a service (Raas), «una variazione dei modelli di business rispetto a chi vende software legali», come spiegano gli analisti. Gli autori offrono il loro ransomware su licenza permettendo agli acquirenti di aggiungerlo ai propri attacchi. Esattamente come un software aziendale. In cambio chiedono una provvigione «tra il 20 e il 30 per cento dei riscatti pagati», possono rivendicare più vittime e quindi accrescere la fama della propria opera. E più il ransomware funziona più criminali lo vogliono. Come un qualsiasi prodotto di successo.
Bruno Ruffili per "la Stampa" il 6 agosto 2021. «No, dall'Italia non ci è arrivata ancora nessuna richiesta di aiuto», spiega Jo De Muynck, responsabile Operational Coordination Unit dell'Enisa, European Union Agency for Cybersecurity. Parla dell'attacco informatico alla Regione Lazio che dalla scorsa domenica ha bloccato la campagna vaccinale. «Per ora è un caso nazionale, e di solito ci occupiamo di attacchi su larga scala, che coinvolgono più Paesi. C'è stata qualche comunicazione, comunque, e siamo pronti a dare una mano». Su 18 persone del suo team, 4 vengono dall'Italia: «Il nostro lavoro - spiega - è coordinare le attività dei vari Stati, degli organi e delle agenzie dell'Unione Europea quando si tratta di affrontare incidenti informatici».
Come funziona l'Enisa?
«La struttura di cyber sicurezza dell'Unione Europea ha tre livelli. Uno è quello tecnico, ovvero la rete dei vari CSIRT (Computer Security and incidents Response Teams) nazionali, cui spetta il compito di affrontare casi come quello del Lazio. Per incidenti di grandi dimensioni e impatto maggiore esiste una rete chiamata CyCLONE (Cyber Crisis Liaison Organization Network), che cerca di mitigarne l'impatto il più rapidamente possibile. Poi c'è il livello politico e strategico. Noi facciamo in modo che le informazioni raccolte siano accessibili a tutti i Paesi della Ue».
Esistono linee guida europee che prevedono specifiche misure di sicurezza informatica?
«Sì, la normativa NIS, cui presto farà seguito la NIS 2, chiede di predisporre misure di cybersecurity per i servizi essenziali, ma spetta a ciascuno Stato definire il livello di sicurezza minimo e quali i servizi essenziali».
Ad esempio quelli sanitari, che all'inizio sembravano esclusi dagli attacchi di criminali informatici, per una sorta di etica. Qualcosa sta cambiando?
«Il Covid e la pandemia sono stati un fattore scatenante, per i criminali informatici era un'occasione quasi troppa bella per essere vera. Stanno diventando più opportunisti, non c'è più spazio per i buoni principi. L'ultimo attacco su vasta scala al settore sanitario c'è stato in Irlanda, ma i criminali alla fine hanno fornito loro stessi la chiave per liberare i file compromessi, rinunciando al riscatto. Probabilmente perché hanno ricevuto molta attenzione da parte della stampa, e agli occhi dell'opinione pubblica quell'attacco appariva come particolarmente odioso».
Il ransomware sta diventando sempre più comune ultimamente. È un business?
«Il software si può affittare, quindi non è indispensabile essere grandi esperti per poterne disporre. Ne nasce un'economia sommersa e molto organizzata, dove diverse bande si dividono il mercato. È vero che questi attacchi stanno crescendo, ma stanno anche diventando molto più mirate le richieste di riscatto».
È il caso di pagare?
«Consigliamo sempre di non farlo perché sono organizzazioni criminali e non c'è nessuna garanzia che pagando la situazione si risolva. E anche se si risolvesse, non è detto che non possa arrivare un nuovo attacco. Ma il consiglio più utile è di prepararsi ad eventualità del genere, ad esempio con un backup offline. Ci sono misure semplici da adottare per evitare che questi attacchi possano accadere».
E dal suo osservatorio può dire da dove arrivano?
«Non sempre. Gli incidenti informatici, in generale, provengono di frequente dalle stesse regioni, ma è molto difficile individuare esattamente da dove. L'attribuzione è qualcosa di molto delicato e molto difficile. Anche quando tutti i segnali potrebbero portare verso la Russia, ad esempio, dietro potrebbe esserci un altro Stato che ha interesse ad addossare la colpa alla Russia».
A muovere i criminali informatici è il denaro o l'ideologia?
«Un incidente di sicurezza informatica significa per definizione che dietro c'è qualcosa di malevolo, quindi una o più persone o uno Stato. Quasi sempre la ragione è economica, ma a volte abbiamo le prove che c'è la mano di una nazione, e si tratta di cyberterrorismo».
Col Covid-19 è cresciuto il lavoro a distanza: ha reso le organizzazioni più vulnerabili agli attacchi informatici?
«Non so se sono aumentate le vulnerabilità, ma penso che ci sia uno spostamento degli attacchi verso verso i sistemi usati per il lavoro remoto, come le Vpn e altre piattaforma di collaborazione online».
Ma se una grande azienda è colpita ha l'obbligo di rendere pubblico l'attacco, quando ne va della sicurezza di altre organizzazioni?
«La direttiva NIS obbliga gli operatori dei servizi essenziali a segnalare incidenti significativi. Ma a parte l'obbligo, penso che sia sempre meglio per un'azienda essere trasparente su ciò che accade in termini di fughe di dati o incidenti, perché aiuta anche i clienti a far fronte a eventuali conseguenze. Se c'è stato un incidente si verrà a sapere prima o poi».
Quale paese europeo sta facendo di più per la sicurezza informatica?
«È difficile da dire. Se si guarda all'Ue in generale, ora abbiamo strutture e meccanismi che non avevamo in passato, stiamo lavorando per cercare di raggiungere una migliore sicurezza informatica in tutta la Comunità e combattere insieme il crimine informatico. Ogni Paese sta progredendo col proprio ritmo, ma finalmente andiamo nella giusta direzione».
Floriana Bulfon per "la Repubblica - Edizione Roma" il 4 agosto 2021. Zero coordinamento, investimenti insignificanti in sicurezza, prodotti inadeguati alle esigenze, mancanza di controllo. Come se gli acquisti di computer, software, assistenza e connessioni avvenissero a caso, senza una regia: lo scenario perfetto per presentarsi senza difese davanti ai pirati del web. Una settimana fa, la Corte dei Conte ha pubblicato una relazione sulle spese informatiche della sanità della Regione Lazio. Un dossier dettagliato che descrive le modalità di gestione dei sistemi di Asl, ospedali, policlinici universitari, 118 e certifica le fondamenta scricchiolanti su cui è stato realizzato l'attacco che ha paralizzato i server della sanità laziale. Nel biennio 2018-2019 i magistrati mettono nero su bianco «l'acquisto di moduli che risultano mal programmati e scoordinati » , forniture non integrate con «pluralità di differenti applicativi e di diverse ditte fornitrici dei software, dell'assistenza e della manutenzione, pur trattandosi di enti aventi medesime caratteristiche e simili necessità » , ritardi su « progetti da diversi anni in cantiere» mentre aumentano i costi per integrare, implementare e tentar di risolvere quel che non si è coordinato. La protezione non sembra una priorità. In tutto il mondo già si correva a blindare i server e anche in Italia il dibattito sulla minaccia cyber era intenso, ma negli uffici della Regione Lazio sembrano prendersela comoda: stando al rapporto, solo nel secondo semestre 2019 compare la voce di spesa « avvio attività attinenti la sicurezza». Entrando nei singoli uffici, si scopre che la Asl Roma 1 è l'unica a fare un investimento consistente: spende tre milioni in due anni per ottenere una sorveglianza. Poche altre la imitano, badando a risparmiare: la Roma 5 si limita a 300mila euro; l'ospedale San Giovanni ne stanzia 115 mila mentre lo Spallanzani si muove già nel 2018. Ma le risorse destinate complessivamente sono irrisorie se paragonate agli oltre 190 milioni in acquisti che la Corte dei Conti definisce « ridondanti » e « poco consoni alle esigenze». I magistrati chiamano in causa LazioCrea, la società in-house della Regione nata proprio per coordinare la progettazione e la gestione dei sistemi informatici. A dirigerla dal maggio 2019 c'è Luigi Pomponio. Laurea in giurisprudenza, specializzazione in diritto dell'economia dell'impresa alla Luiss. Una carriera tutta romana: nel 2001 inizia organizzando il concorso ippico di Piazza di Siena e da lì salta a ricoprire il ruolo di coordinatore della segreteria dell'onorevole Antonio Maccanico fino al 2013. Per quasi vent' anni ha lavorato anche come dirigente dell'Opera laboratori fiorentini ed è stato nel CdA di Civita Fandango e Incoming Liguria, società di servizi nel settore turistico. La parte tecnica invece è sotto il controllo di Maurizio Stumbo. Laurea in ingegneria a Cosenza, poi per qualche anno consulente di Accenture, viene assunto in Regione dove scala ogni posizione. LazioCrea è stata protagonista della corsa per lanciare una piattaforma autonoma per la prenotazione dei vaccini in tempi record: «In Poste erano indietro e noi volevamo partire al più presto, abbiamo preferito fare da soli » spiegava a Repubblica l'assessore alla sanità del Lazio Alessio d'Amato. Ora però i giorni di paralisi causata dall'attacco e l'assenza di un valido backup - ossia una copia dei dati - mostrano tutti i limiti del sistema adottato. Secondo i giudici contabili, la Regione si è mossa tardi e male nel costruire una difesa dagli attacchi. "Sprechi e spese ridondanti".
Attacco hacker? Nel Lazio si aumentano le pensioni. Francesca Galici il 6 Agosto 2021 su Il Giornale. Nel pieno dell'attacco che ha colpito la Regione il consiglio regionale ha votato l'aumento delle pensioni per chi in passato è stato europarlamentare. Gli occhi del Paese sono sulla Regione Lazio, che nei giorni scorsi ha subito un gravissimo attacco hacker ai suoi sistemi. Mentre le altre Regioni e la Pubblica amministrazione si interrogano su quali siano i reali rischi per i sistemi del Paese e mentre gli investigatori cercano di capire come sia potuto accadere, la giunta di Nicola Zingaretti ha approvato l'aumento delle pensioni per i consiglieri regionali. La maggioranza del Consiglio regionale laziale, formata da esponenti del Partito democratico e del Movimento 5 stelle, ha approvato un provvedimento che incrementa i privilegi dei consiglieri con un passato nell'Europarlamento. L'emendamento è stato portato in Aula lo scorso martedì a firma di Daniele Leodori, vice di Nicola Zingaretti. Fonti della Regione, come riferisce il quotidiano Domani, spiegano che la votazione è stata effettuata quasi al termine dei lavori, durati 8 ore. Inoltre, l'emendamento non era stato preventivamente discusso nelle commissioni e, nel pieno di un attacco informatico, per i consiglieri non è nemmeno stato possibile farsi un'idea sulla proposta. Una situazione anomala, al di fuori di ogni ratio logica, che ha destato qualche dubbio anche tra gli stessi consiglieri. "Per chi non conosceva questa materia, è stato come votare un emendamento al buio. Con il sito della Regione fuori uso, chi voleva non aveva modo di informarsi. Si potrebbe pensare a una mossa in malafede", dice qualcuno a Domani con la garanzia dell'anonimato. Nonostante il suo partito sia nella maggioranza, chi si espone senza maschere è Francesca De Vito, consigliere regionale in quota M5s: "Ritengo scandaloso che alle 19.27 la giunta tiri fuori un emendamento economico del genere, specialmente quest' anno con la crisi economica dovuta all'epidemia, e specialmente con questo attacco informatico drammatico che abbiamo subito". La votazione dell'emendamento D17/3 agisce sulla legge regionale che nel 2019 ha approvato all'unanimità il taglio del 35% dei vitalizi per 250 consiglieri per un totale di quasi 7 milioni di euro risparmiati per le casse della Regione. L'aumento porterà qualche centinaio di euro in più nelle pensioni dei consiglieri. L'emendamento di Leodori non ha ottenuto l'unanimità dei votanti e, com'era prevedibile, l'opposizione ha dato il suo voto contrario con grande sdegno. A parlare è stata Chiara Colosimo, consigliere regionale eletta tra le fila di Fratelli d'Italia: "Ci sono due pure coincidenze: il silenzio assoluto e il voto favorevole dei grillini. Ma a voler essere cattivi ne troviamo anche una terza dalle parti del presidente". Ma dal M5s spiegano che questo emendamento non porterà aumenti tangibili negli emolumenti dei consiglieri "che hanno anche un altro trattamento pensionistico, ma verrà tassata al 40 per cento solo la parte eccedente ai 516 euro della seconda pensione: in caso contrario, i consiglieri con doppio vitalizio stati penalizzati e portati a rinunciare a uno dei due". Così ha spiegato a Domani Devid Porrello, consigliere M5s.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Lei, signor Nicola, si chiama come Zingaretti, il presidente della Regione.
Coincidenza curiosa, non trova?
«Volete sapere se Zingaretti mi ha chiamato dopo che è scoppiata la bomba? No, non l'ha fatto. Ma neanche il mio capo ufficio. Gelo totale. Da una settimana mi sento come isolato, emarginato, solo due-tre colleghi si sono avvicinati per farmi coraggio, per chiedermi come sto. E sì che sto male, sono preoccupato, sono spaventato».
Subito è scattato l'allarme terrorismo, anche l'Fbi pare collaborerà alle indagini...
«Sì, in queste ore ho letto davvero di tutto: hacker russi, cinesi. Boh! Ma a me finora non è venuta a interrogarmi nemmeno la polizia postale. Un tecnico del Ced lunedì è entrato, ha smontato il computer e l'ha portato via. Da quel momento il buio. E io non riesco ancora a capire come sia potuto succedere. E perché proprio a me».
Lo sa che girano le voci più assurde e inquietanti?
«Eccome no, lo so bene, ogni giorno mi ronzano intorno colleghi affamati di gossip».
Gli hacker sarebbero entrati perché lei, o suo figlio, stavate visitando di notte un sito porno. E ancora: i pirati avevano le password...
«Siti porno? È pazzesco, mio figlio poi la notte dell'intrusione, tra sabato e domenica se ho capito bene, era addirittura al mare, perciò figuratevi. E poi lui non conosce le mie password. Sapete? Malgrado tutto io resto tranquillo, perché penso che la polizia postale comunque ha preso i computer e potrà vedere da sola tutti i movimenti che ho fatto. Troverà anche qualche foto, ma niente di compromettente: cene con amici, immagini di mia moglie. Quante chiacchiere inutili: vendermi le password? Nemmeno per un milione di bitcoin e sì che ci sistemerei la famiglia! Ma io sono uno che non ha mai preso una multa in vita sua: ricordo che quando lavoravo ancora alla Provincia di Frosinone chiesi ai tecnici se potevano abilitarmi per leggere il sito Dagospia, perché è un sito che mi diverte molto, ma poi mi sentii quasi in colpa all'idea di navigare durante l'orario di lavoro e lasciai perdere».
Ma allora perché hanno bucato proprio lei?
«Non lo so, forse perché a casa lavoro in orari strani, mi sveglio alle 3 di notte e comincio a smaltire le pratiche più diverse: bolli auto, rimborsi elettorali ai Comuni, invio email ai colleghi per anticipare il lavoro del mattino dopo. Lo smart working però è vulnerabile, la rete di casa è più fragile di quella aziendale. In azienda, faccio un esempio, ci sono 50 computer che come 50 barchini viaggiano tutti lungo lo stesso fiume e arrivano al mare. In smart working invece succede che i 50 barchini seguano ciascuno il proprio corso ognuno con il suo Ip e magari un corso è più accidentato dell'altro, può esserci una deviazione improvvisa, una secca. Ed ecco che per un hacker diventa facile entrare, se ha già puntato l'obiettivo. In questo caso, la Regione Lazio. Magari era già entrato da qualche altra parte e aspettava solo la porta giusta. La mia. Ricordo che accadde pure alla Provincia di Frosinone, mi pare nel 2012: un attacco hacker di Anonymous, in quel caso però dopo due giorni l'allarme rientrò, i file per fortuna erano stati salvati sui server».
E se invece l'intrusione fosse avvenuta in ufficio?
«Mah, noi in ufficio abbiamo un promemoria. C'è scritto così: Prima di uscire controllare sempre la presa della ciabatta, controllare la presa della macchina del caffè, la presa del frigorifero, togliere le chiavi dall'armadio (perché qualche volta è sparito anche qualcosa) e infine spegnere le luci. Insomma la sera spegniamo tutto, non solo i computer. L'unica distrazione che mi concedo è cercare ogni tanto su YouTube le canzoni di Franco Califano o di Pino Daniele e poi mettermi a lavorare con loro in sottofondo. Saranno entrati così? Boh, io sto sempre molto attento alle mail farlocche, chessò quelle che ti dicono che ti si è svuotato il conto, anzi non le apro nemmeno, le cestino direttamente. Sto pensando alle mie debolezze: consulto, per esempio, un tutorial sempre su YouTube che ti spiega come lavorare con i fogli di Excel, che poi sono la mia vera passione. Di sicuro sabato 31 luglio di notte dormivo e domenica primo agosto ho lavorato da casa nel pomeriggio e ricordo che non avevo neppure il computer in carica, poi intorno alle 19.30 ho chiuso tutte le piattaforme e ho spento. Poi, il lunedì, mi hanno chiamato dalla Regione: hanno bucato il suo account, spenga subito il computer. Così è iniziato l'incubo».
Umberto Rapetto per “infosec.news” il 7 agosto 2021. Siamo in bilico tra l’abuso della credulità pubblica e il procurato allarme. Comunque la si voglia rigirare, la patetica storia degli hacker alla Regione Lazio ondeggia pericolosamente tra l’entusiastico “abbiano recuperato tutto” e il rassicurante “dai, non è successo nulla”. Probabilmente la cabina di regia della comunicazione dell’ente pubblico ritiene di aver dinanzi una platea di rintronati o, peggio, di “boccaloni” pronti a bersi le stravaganti e contraddittorie versioni dell’accaduto che si susseguono in rapida sequenza nella sbigottita incredulità di chi davvero ne sa qualcosa e nella insofferenza di chi – dotato di normale buon senso – è semplicemente stufo di vedersi rifilare un racconto differente ogni mezza giornata. Non si spara – mai come in questo caso – sulle ambulanze. Si potrebbe cannoneggiare ad alzo zero contro la Regione Lazio, ma la Convenzione di Ginevra vieta barbare manifestazioni di sopruso su chi non è in condizione di difendersi. Considerato che Zingaretti e i suoi, al netto degli aspetti drammatici della vicenda, hanno alimentato la cornucopia di “meme” che sono piovuti sui social e su WhatsApp nel più simpatico nubifragio umoristico degli ultimi tempi, ho pensato che meritino clemenza o – quanto meno – la diluizione di un immaginario processo “in piccole rate”, ciascuna incentrata su un singolo addebito. Questo benevolente pensiero induce ad affrontare – anche per la chiarezza che si deve agli attoniti lettori già sufficientemente disorientati – un tema per volta e ad attribuire l’assoluta priorità alla misteriosa questione del “backup”.
Le fantomatiche copie di salvataggio. Quando si è constatato il naufragio informatico, i comuni mortali hanno immaginato scialuppe virtuali di salvataggio, ovvero il fatidico (anche se scontato) ricorso alle copie di “backup”, ovvero al duplicato degli archivi elettronici realizzato con serrata periodicità per fronteggiare qualsivoglia emergenza determinata da un guasto tecnico o da un’azione dolosa. Chi sferra un attacco ransomware somiglia a chi piazza una bomba ad orologeria e sa bene quando far scoppiare un ordigno. A differenza di chi costituisce il bersaglio, il bandito non procede in maniera dilettantesca anche quando non fa parte di una vera e propria organizzazione criminale. Persino il più babbeo dei malfattori sa di dover provocare l’esplosione digitale nel momento in cui il suo “target” avvia le operazioni di copia: in questo modo il malandrino procede alla cifratura indebita del patrimonio informativo preso di mira e fa in modo che la copia di salvataggio sia estratta da un originale già danneggiato. Chi è davvero del mestiere, oltre a conoscere perfettamente queste dinamiche e correre ai ripari con procedure di sicurezza in grado di evitare questo genere di dramma, esegue ripetutamente copie di salvataggio e ne conserva i relativi esemplari “offline”, ovvero non collegati a Internet. A farla semplice (perché semplice lo è davvero) un previdente amministratore di sistema – in casi del genere – avrebbe potuto contare sulla disponibilità di più copie di salvataggio, quella del giorno precedente, di due giorni prima, di tre e così a seguire. Quei dischi – irraggiungibili dai malvagi pirati informatici perché riposti in cassaforte – avrebbero consentito la pressoché immediata “ripartenza” nel giro di poche ore, giusto il tempo per verificare l’integrità del backup più recente possibile.
Diciamo che la sicurezza non era la priorità. Una settimana di blackout dovrebbe indurre chi gestisce il sistema informatico a dare una coraggiosa prova di autocoscienza. Se il team (in cui si intrecciano “interni” alla Regione, fornitori e subappaltatori) avesse un briciolo di dignità procederebbe ad un harakiri collettivo in diretta streaming. Dopo le dichiarazioni dei politici dell’ente pubblico che hanno ammesso l’avvenuta criptazione dei dati e anche della copia di backup, la Regione ha resuscitato John Belushi e ha ritenuto di giocare la carta delle “cavallette”. Per chi non ha visto (cosa gravissima) “The Blues Brothers”, parliamo della più bizzarra elencazione di scuse per giustificare una riprovevole mancanza. Dopo tutti questi giorni salta fuori – nello stupore della popolazione sorpresa dal miracolo – che il backup non era stato cifrato, ma solo cancellato e che grazie ad un software provvidenziale è riemerso dalle sue ceneri, pardon, dal cestino… L’incredibilità del rinvenimento è talmente palese che persino Ignazio Marino, rimpianto sindaco della Capitale, ha ritenuto di dover twittare “Spero di sbagliarmi ma questo back-up che si materializza dopo sei giorni dall’incursione degli hackers e il salvataggio con software USA somiglia molto al pagamento di quasi 5 milioni di dollari in bitcoins per recuperare il controllo dell’oleodotto Colonial negli USA…”. Se il contribuente interessa sapere, e sapere davvero, se è stato pagato un riscatto cui fortunatamente ha fatto seguito la ricezione delle chiavi per sbloccare tutto (i criminali potevano anche intascare la cospicua somma e non spedire l’ “antidoto”), a me (e non solo a me) interessa capire come ci siano voluti sei giorni (e non sei minuti) per capacitarsi che il backup non era criptato, ma cancellato così come ha dichiarato un noto consulente (probabilmente al servizio anche di LazioCrea, visto che specifica di parlare con puntuale autorizzazione della Regione).
“Vi prego, lapidatemi…”. Un tweet memorabile, infatti, sfidando le pernacchie di tanti utenti del social cinguettante, avrebbe dato la notizia con il tono da biglietto di partecipazione nuziale o da fiocco azzurro o rosa: “Confermo con gioia che la Regione Lazio ha recuperato i dati senza pagamento di riscatto. Non decifrando i dati ma recuperando i backup che non erano stati cifrati ma solo cancellati. Ma lavorando a basso livello i tecnici di LazioCrea hanno recuperato tutto.”
Erano le 19 e 26 del 5 agosto. Le reazioni sono immediate. Si va dal “A me, me pare na strun**ta ?” di Maox17 al “Quindi sono bastate le Norton Utilities?” di WineRoland. Luca Corsini scrive “In attesa di un post-mortem (spero pubblico) questa mi sa tanto di supercazzola” e Alessandro Wilcke aggiunge “Caspita, avremmo potuto esportare i nostri tecnici negli USA per evitare loro di pagare il riscatto per l’oleodotto criptato di qualche settimana fa”. I commenti caustici non si sprecano e a questi si aggiungono subito gli ancor più divertenti tweet di chi si complimenta per l’ardimentosa opera dei tecnici. Quello di Wilcke è uno spunto interessante. Eh già, se quelli di LazioCrea sono così bravi perché non trasformano questa prodigiosa capacità di recuperare tutto in un business? Potrebbero avere un mercato che li attende…
Edoardo Izzo per "la Stampa" il 5 agosto 2021. La cyber-emergenza scatenata dall'attacco hacker al Ced della Regione Lazio dilaga ben oltre i confini nazionali e riscoperchia una triste realtà: nessun sistema è protetto al cento per cento rispetto alla pirateria informatica, e trovare il cerotto utile a mettere in sicurezza le reti informatiche mondiali sarà molto difficile. Così da ieri ci sono anche gli agenti dell'Fbi statunitense e quelli dell'Europol, centro europeo per la criminalità informatica, a collaborare con la Polizia Postale nell'inchiesta coordinata dal procuratore di Roma Michele Prestipino e dal procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli per i reati di accesso abusivo a sistema informatico, tentata estorsione e danneggiamento ai sistemi informatici. Tutti aggravati dalla finalità di terrorismo. La richiesta di riscatto, che in questi casi può raggiungere cifre a sei zeri, è arrivata sui pc dell'Ente con una schermata nera e un beffardo «Hello Lazio» con cui esordisce il messaggio. Il virus cripta le informazioni e contestualmente le copia. Per sbloccare la situazione i pirati telematici indicano un link che una volta cliccato apre la trattativa per il pagamento. La situazione resta, quindi, «complessa e soggetta ad evoluzione», assicurano fonti qualificate. Nel mirino di chi indaga, anche la ricerca di eventuali analogie con altre intrusioni informatiche con ransomware cryptolocker avvenute in Italia e anche all'estero. Un'allerta esplicita per fenomeni già ampiamente evidenziati a livello mondiale e in particolare in Europa: il cybercrime è cresciuto in modo esponenziale soprattutto durante la pandemia, sia in quantità che in grado di sofisticazione; secondo gli ultimi dati raccolti dalla commissione Ue - che ha in cantiere due proposte legislative tese ad affrontare i rischi attuali e futuri online e offline - gli attacchi hacker nel 2020 sarebbero aumentati del 75%, avendo sotto tiro soprattutto ospedali e strutture sanitarie. Sul versante interno l'ansia resta condivisa: «Fronteggiare a 360° il rischio cybernetico oggi rappresenta una delle priorità per la sicurezza nazionale e locale», ha affermato ieri Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza delle Regioni, chiedendo uno sforzo congiunto governo-Regioni e investimenti appropriati da inserire anche nel Pnrr. Sulla vicenda ha mantenuto i riflettori accesi anche il Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che dopo aver ascoltato martedì il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese ieri ha sentito in audizione il direttore generale del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), l'ambasciatrice Elisabetta Belloni, e il vicedirettore, Roberto Baldoni. «Ci è stata fornita una ricostruzione ampia e circostanziata dell'evento, chiarendone le dinamiche, l'impatto, le possibili conseguenze, e prospettando le misure di contrasto più efficaci da adottare», ha reso noto il presidente del Copasir, Adolfo Urso (FdI). Contenuti vincolati al segreto ma «possiamo dire che anche l'intelligence si è mossa subito per capire come contrastare meglio e nel contempo l'amministrazione sta agendo per ripristinare in efficienza il sistema». A testimoniare lo sforzo gigantesco che il Lazio sta affrontando per recuperare la funzionalità del sistema è l'assessore regionale alla Sanità, Alessio D'Amato, in prima linea in questa bufera: «Entro 3 giorni riprenderanno le prenotazioni dei vaccini e Anagrafe Vaccinale Regionale; a seguire Asur-Anagrafe Sanitaria Unica Regionale, cuore dell'Anagrafe Sanitaria condivisa con le anagrafi locali e aziendali; poi Fse-Fascicolo Sanitario Elettronico; e infine entro metà mese il nuovo sistema Cup per la gestione delle prenotazioni di esami e visite», ha spiegato. Garantendo anche che «l'attacco informatico non ha avuto alcuna ripercussione su tutta la rete ospedaliera e dell'emergenza-urgenza e nessun dato sanitario è stato sottratto». Bonifica e ripristino - secondo una nota della Regione - sono al momento affidati al Next Generation Soc del Gruppo Leonardo, ingaggiato da Laziocrea sin dalle prime battute dell'attacco hacker attraverso il Cyber Crisis Management Team (Ccmt) per identificare le modalità di compromissione, eradicare la minaccia e seguire il ripristino dei sistemi. La Regione cerca di correre ai ripari, mentre proprio ieri qualche 5 Stelle ha pensato bene di rispolverare un dossier della Corte dei Conti su falle e carenze regionali sul fronte informatico, segnalando risorse inadeguate, scarsi investimenti e assenza di regia.
Valentina Errante per "il Messaggero" il 5 agosto 2021. Mancava la doppia password di autenticazione e con molta probabilità la chiave, per quell'unico livello di accesso e riconoscimento previsto dal sistema, era memorizzata. Al momento, un solo dato è certo: la porta di ingresso dei criminali informatici al cuore virtuale della Regione Lazio, è stato il pc di un funzionario, in smart working dalla sua casa di Frosinone. Il dipendente di Lazio Crea, società in house della Regione, non è ancora stato interrogato dalla polizia postale, impegnata da giorni nell'impresa titanica di decriptare i codici di numeri e sillabe che hanno sostituito con numeri e sillabe tutte le informazioni contenute nel Centro elaborazione dati dell'amministrazione. Operazione alla quale stanno collaborando anche la nostra intelligence, Fbi ed Europool. Al momento non sembra esserci soluzione alla decifrazione dei dati. I criminali informatici hanno invitato il Lazio a una trattativa attraverso un link. L'intenzione manifesta è di non cedere a una richiesta di riscatto. Ma ieri, dalla pagina con la quale gli hacker invitavano alla trattativa su un riscatto in cambio della chiave di decriptazione, si sarebbe attivato un countdown di 72 ore. Dopo le quali, se non fosse dato seguito alla mediazione, non si sa cosa accadrà e se tutti i dati dell'amministrazione, che sono criptati, saranno cancellati o venduti sul dark web.
LA CHIAVE DI ACCESSO Quando domenica gli esperti della polizia postale hanno individuato la porta d'ingresso di Ransom Exx, il virus che ha criptato tutte le informazioni, probabilmente copiando i dati, l'uomo, che è uno degli amministratore della rete, ha detto ai colleghi di avere sempre rispettato tutti i protocolli previsti. Ma probabilmente è in quei protocolli la falla. Non si sa ancora se il virus sia arrivato attraverso un sito sul quale il dipendente di Lazio Crea è andato a finire navigando in rete, mentre era collegato con il Vpn, ossia la rete virtuale riservata e privata attraverso il quale un computer è connesso a un sistema chiuso. O se alla postazione, nella notte tra il 3 luglio e il primo agosto, ci fosse suo figlio o un familiare. Di certo la porta della Regione era aperta, forse la password era memorizzata e, come ha rilevato la Postale, per il Vpn non erano previsti due passaggi di identificazione. Misura prevista dalle basilari norme di sicurezza. Il virus sembra possa arrivare dalla Russia, ma sono solo ipotesi: l'Ip può rimbalzare su server che si trovano in altri paesi rispetto alla reale posizione degli hacker.
ALTRI ATTACCHI Non trova al momento conferma, invece, l'ipotesi che l'attacco degli hacker sia collegato a quello, molto meno pesante, subito da Engineriing spa, il colosso specializzato nello sviluppo di Software con il quale Lazio Crea ha un contratto. Le cui credenziali sarebbero state vendute sul web per 30mila euro in bitcoin la notte del 30 luglio, poco più di 24 ore prima dell'attacco al Ced del Lazio, e che avrebbe consentito anche l'ingresso al sistema del colosso del petrolio Erg, che in effetti ha subito un'aggressione informatica, anche se contenuta, e a quello di una grossa spa delle costruzioni. Secondo le informazioni della rete, i dati sottratti a Erg potrebbero essere diffusi dai pirati informatici il prossimo 14 agosto. Ma i virus che hanno aggredito le altre società sono diversi rispetto a quello che ha infettato il sistema della Regione.
LA POLEMICA Mentre gli esperti di Fbi, Europol e polizia postale tentano di trovare la chiave di decriptazione, sfruttando l'esperienza di altri attacchi avvenuti con ransomware cryptolocker, alla Regione è entrata in azione il Cyber Crisis management team, del quale fanno parte anche i tecnici di Leonardo. Sullo sfondo una sottile polemica dopo le dichiarazioni dell'assessore alla Sanità del Lazio Alessio D'Amato che, nel primo pomeriggio ha messo in risalto l'intervento degli esperti della società, che fa capo anche al ministero dell'Ecomomia, sottolineando come da due anni Leonardo fosse supervisore per la cyber di Lazio Crea. Un'affermazione alla quale il colosso dell'aerospazio ha replicato a stretto giro: «Leonardo non ha mai avuto la gestione operativa dei servizi di monitoraggio e di protezione cyber di Laziocrea». Intanto il consiglio del Notariato che ha subito un furto di dati la scorsa primavera precisa che non si è trattato di un attacco di hacker.
Dal Corriere.it il 5 agosto 2021. Qualcuno ha attivato nella giornata di mercoledì il conto alla rovescia nella richiesta di riscatto inviata dagli hacker che domenica notte hanno paralizzato tutte le attività della Regione Lazio gestite dal sistema informatico con un ransomware. È quanto è emerso nel corso del pomeriggio, rimbalzato dall’edizione del Tg1 delle 20. Nella comunicazione informatica contenuta nello stesso malware che ha creato danni enormi non alla rete sanitaria regionale, e di conseguenza alla campagna vaccinale, sarebbe contenuto anche un ultimatum di 72 ore, quindi entro la giornata di sabato prossimo, passato il quale non è chiaro cosa potrebbe accadere. Si teme che in questo modo si possano perdere definitivamente tutti i dati cifrati dagli incursori, anche quelli dell’unico backup di rete fatto dalla Regione Lazio che si è trovata in pratica senza copie dell’enorme database violato dopo aver clonato le credenziali di un amministratore di sistema residente a Frosinone che stava utilizzando il pc aziendale in smart working per scopi privati. Non si esclude tuttavia che ad attivare la richiesta di riscatto sia stato proprio il meccanismo interno al malware, che in mancanza di una risposta da parte delle vittime, fa partire il conto alla rovescia per costringerle a prendere una decisione in un tempo prestabilito. Le indagini della Postale proseguono intanto a tutto campo per chiarire anche questo aspetto dell’intricata vicenda cominciata domenica notte con il blitz degli hacker nel sistema Ced della Regione, nella palazzina C della sede in via Cristoforo Colombo. Ma a lasciare perplessi è il contenuto del messaggio fatto trovare nel virus che comincia con un amichevole «Hello Lazio!», che potrebbe dimostrare una scarsa conoscenza dell’obiettivo colpito - e anche la portata di quello che è stato colpito - visto che si tratta della Regione e non di un’azienda privata. In più il messaggio è tutto in inglese: «I vostri file sono criptati, non provate a modificare o rinominare nessuno di essi perché potrebbe subentrare una perdita di dati piuttosto seria. Qui sotto c’è il vostro link riservato con tutte le informazioni su questo evento (usate la piattaforma Tor) - quella che immette nel torbido mondo del dark web - e non divulgare questo link per mantenere riservato quello che sta accadendo».
Carlo Pizzati per “La Stampa” il 6 agosto 2021. Una rete di disinformazione e di propaganda a favore della Cina è riuscita a infiltrarsi nei social network di tutto il mondo grazie all’intelligenza artificiale, al furto di profili in Bangladesh e in Turchia e alle tecniche più avanzate di comunicazione digitale. Ma a causa anche di grossolani errori grammaticali in inglese, tipici del traduttore automatico online e di chi non ha dimestichezza con la lingua utilizzata negli attacchi, la squadra di propagandisti è stata smascherata dal «Centre for Information Resilience» britannico. Erano più di 350 i falsi profili il cui obiettivo era gettare discredito su oppositori e critici del governo cinese e disseminare un ingannevole messaggio di largo sostegno online per le politiche di Pechino. L’obiettivo era delegittimare sui social americani le politiche occidentali e promuovere immagine e influenza cinesi in America e in Europa. Nei loro post, gli anonimi agenti della propaganda difendevano la politica cinese nello Xinjiang, negando le evidenze sulla persecuzione dei musulmani uiguri e cercando di spostare l’attenzione sul fatto che gli Stati Uniti hanno avuto la schiavitù e che in America continuano ad esserci violazioni di diritti umani, come nel caso dell’afroamericano George Floyd, soffocato durante l’arresto da un poliziotto poi condannato per l’omicidio. Il network faceva circolare anche vignette un po’ datate e grottesche del tycoon cinese in esilio Guo Wengui, critico del regime cinese, della denunciatrice anticorruzione Li-Meng Yan, oltre che dell’ex consulente di Donald Trump, Steve Bannon. La rete clandestina operava su Twitter, Facebook, Instagram e YouTube con una tecnica già conosciuta chiamata «astroturfing», cioè una campagna fittizia di opinione di massa che funziona così: un falso profilo lancia una presunta notizia o una denuncia sociale, poi altri profili falsi ritwittano, ri-postano o rilanciano il contenuto, dando così l’impressione che quel tema abbia un seguito reale e voluminoso sia di «mi piace» che di commenti, mentre invece è solo una manovra di comunicazione. È così che si crea un’influenza sui temi, cercando di scalare le tendenze del giorno utilizzando sempre gli stessi hashtag. Ed è questo uno dei modi per manipolare, o tentare di manipolare, l’opinione online. È proprio grazie all’impiego di queste tecniche che gli esperti del Cir sono riusciti ad individuare una ricorrenza sistematica negli hashtag, scovando a uno a uno i falsi profili, denunciati poi ai gestori dei network che hanno sospeso gli account. Anche perché c’era un altro dettaglio a denunciarli. Difatti chi intesseva questo piano di propaganda ha utilizzato anche false foto-profilo generate con l’intelligenza artificiale grazie al nuovo framework SytleGAN. Le foto di fantasmi mai esistiti, creati con un collage dal software, servivano a eludere il procedimento di identificazione. Gli account aperti da veri utenti (molti in Bangladesh e in Turchia), poi ceduti, o rubati individuando la password, erano invece più facilmente smascherabili poiché si poteva risalire all’identità e capire che il profilo non era più gestito dal vero proprietario, anche perché d’improvviso cambiava la lingua utilizzata nei post. Invece con le foto generate dall’intelligenza artificiale si pone un ostacolo ulteriore allo smascheramento. Ma i programmi, per quanto avanzati, hanno dei punti deboli. Il più ovvio è che gli occhi dei finti proprietari generati dall’AI sono sempre alla stessa altezza, nell’inquadratura della foto-profilo. Tirando una riga dritta tra le foto dei profili sospetti all’altezza degli occhi è stato facile individuare subito che erano dei falsi. E mettere fine a questo network di spammers di propaganda politica pro-Pechino.
La Terza guerra mondiale? Di certo è qualcosa di grosso. Il futuro è incerto, come nel 1938…Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Agosto 2021. La guerra di Troia non si farà, proclamava dalle scene teatrali Jean Giraudoux. E quando la guerra arrivò la chiamarono la drole de guerre, la funny war o la buffa guerra. Tutti si erano dichiarati guerra, Hitler se ne andava a zonzo con le sue armate colpendo qualsiasi luogo da cui sprizzasse petrolio, ma in fondo la vera guerra non c’era ancora e quando arrivò quasi nessuno ci voleva credere: morire per Danzica era davvero una stupida idea, ma vedrai che gli inglesi faranno la pace coi tedeschi che sono anche cugini, figurati poi gli americani che producono solo film western. E invece finì come finì. Quella fu una guerra poco annunciata, molto realistica, e più che una guerra fu la più grande tragedia che l’umanità ricordi. Quando ero bambino o anche adolescente quando si parlava della guerra, la gente intendeva la Prima guerra mondiale, quella chiara, combattuta da una parte dall’altra e poi vinta. La Seconda guerra mondiale era solo un incubo. E come sarà la terza? Ce ne sarà una terza? Per la prima volta il mondo delle grandi potenze ha conosciuto settantacinque anni di pace, salvo le guerre intermedie che non sono mai cessate. Ma dovunque ci fosse il rischio della bomba atomica, la guerra si è fermata. Ma oggi? Quando vediamo gli hackers che attaccano la Regione Lazio e pensiamo che si tratti di odiosi sprovveduti no-vax, veniamo smentiti dai servizi segreti perché in realtà si tratta di attacchi militari condotti con mezzi militari su obiettivi militari quali sono l’organizzazione di uno Stato, i suoi servizi, i suoi ascensori, aeroplani banche bancomat autostrade ponti treni scuole ospedali reti stradali. Tutto sta avvenendo nel mare del Sud della Cina, ma noi specialmente in Italia facciamo finta che quella zona del mondo non esista. Eppure, persino la Merkel, una signora così restia a mandare persino dei vigili urbani a fare le esercitazioni della Nato in Polonia, ha spedito una nave da guerra nel mare della Cina del Sud per recapitare il seguente avvertimento: la Germania non tollera che la Cina si appropri del mare del Sud della Cina, perché non è della Cina ma è di tutta la comunità internazionale. Anche gli inglesi hanno mandato la loro super potente porta aerei Queen Elizabeth The Second. Emmanuel Macron ha mandato le navi francesi dopo averle mandate anche nell’Egeo a schierarsi con la Grecia contro la Turchia. La Francia non perde mai d’occhio gli scenari internazionali. Quanto al Giappone, tre giorni fa ha rilasciato una strabiliante dichiarazione con cui si avverte la Cina che Tokyo considera Taiwan un’isola protetta per i propri interessi e che qualsiasi limitazione della sua sovranità sarà considerata dal governo giapponese come un atto di guerra. Il Vietnam? Il glorioso Vietnam comunista si schiera anch’esso dalla parte degli americani con l’Indonesia e le Filippine, l’Australia e il Borneo. Secondo George Friedman che è il miglior forecaster, quello delle previsioni del tempo che nel corso dei decenni si è trasformato nel massimo previsore degli eventi della storia, la Cina ha ormai eguagliato gli Stati Uniti con una potenza navale pari a quella americana per qualità e quantità. Ciò vuol dire che Cina e Stati Uniti sono due avversari di pari forza? No, questo non si può dire, perché nessuno è in grado di valutare l’efficacia e l’efficienza delle forze armate cinesi dal momento che non hanno una storia pregressa né di sconfitte né di vittorie navali. A Pechino si sono fabbricati un giocattolo all’altezza delle loro aspirazioni, ma hanno un handicap. L’handicap sta nel fatto che gli Usa potrebbero, se lo volessero (e per ora non ne hanno intenzione) bloccare tutti i porti cinesi sul Mar della Cina e impedire l’uscita e l’arrivo di qualsiasi nave. Questo i cinesi lo sanno e purtroppo per loro non hanno una contromossa altrettanto efficace. Altra grande novità: in queste ore si stanno svolgendo modernissime esercitazioni comuni tra russi e cinesi di aria, mare, terra e spazio. Bisogna sempre ricordare che la prossima guerra si combatterà sui computer e sulla Luna, tra satelliti come Guerre Stellari. Cinesi e russi sembrano uniti in un’unica forza militare che però non è una alleanza. L’altro campo di battaglia che coinvolge queste potenze è l’Afghanistan dove talebani stanno riconquistando le posizioni abbandonate e la Cina ha già fatto sapere di essere per la prima volta interessata a quel grande snodo su cui nell’ottocento andavano a morire i piccoli soldati cantati da Kipling nel poemetto The little British Soldier: «se sei ferito e sperduto nelle pianure dell’Afghanistan e già vedi le donne che arrivano con i loro coltelli per fare a pezzi quel che rimane di te, allungati fino al tuo fucile e fatti saltare le cervella e vai dal tuo Dio come un soldato». Si chiamava allora “Il grande gioco” tra Russia, impero inglese, poi tedeschi, americani. Questi attori sono in parte scomparsi ma arrivano i cinesi che, d’altra parte sono ovunque in Africa dove costruiscono ponti, strade, scuole, ospedali, servizi di polizia e sanitari e indebitano ogni paese perché sono di manica larga nel vendere aiuti, ma sono esattori implacabili dei loro creditori. L’Africa sta diventando una colonia cinese ma non è un mercato sufficiente per assorbire quanto ai cinesi serve per avere ciò che loro occorre. Ciò che a loro occorre è certamente una pace con gli Stati Uniti, ma nuove condizioni. Tuttavia, e questo è un elemento attuale di guerra reale, i cinesi hanno fatto qualcosa che mai prima d’ora fin dai tempi di Tucidide un paese bellicoso aveva fatto: hanno indicato qual è il loro primo obiettivo militare. Il primo obiettivo militare della Repubblica popolare cinese è Taiwan. Taiwan formalmente è un’isola che appartiene alla Cina continentale, dunque alla Repubblica popolare, ma non lo è mai stata fin dai tempi dell’occupazione giapponese negli anni Trenta. E non ha alcuna intenzione di diventarlo. Taiwan in questi giorni ha accolto esperti americani andati a insegnare come installare ed usare i missili Patriot, cosa che ha mandato ulteriormente in bestia Pechino. Fin dagli anni Cinquanta Pechino rilascia comunicati alla radio da cui si apprende che la cosiddetta Taiwan è una provincia continentale cinese. Prendere Taiwan non è un’impresa logisticamente facile: 200 km di mare devono essere assaltati con mezzi anfibi e una volta sbarcati dopo l’accanita resistenza taiwanese devono poter installare delle teste di ponte e far funzionare un rifornimento continuo di uomini e mezzi dalla Cina continentale. Questi rifornimenti sono vulnerabili e se gli Stati Uniti decidessero di intervenire colpirebbero nei rifornimenti più che nelle basi su Taiwan. L’isola è diventata importantissima perché è l’unica produttrice di alcuni tipi di microchip con cui sono fatti i nostri telefonini e la maggior parte delle attrezzature elettroniche militari. Solo a Taiwan hanno i metalli adatti e la tecnologia per farli. Molte di queste aziende sono dislocate negli Stati Uniti ed altre in Giappone punto ma il grosso sta lì e Pechino lo vuole. Tuttavia è stranissimo che Pechino abbia annunciato quale sarebbe la prima mossa a sorpresa- attaccare Taiwan- che però non sarebbe una mossa a sorpresa. E tutti sono ormai d’accordo a non lasciar correre. Ma se le cose restano come sono oggi, la Cina perde la faccia e il regime perderebbe la fiducia dei suoi cittadini che, per quanto coatti militarizzati, sembrano concedergliela. Ma la Cina anche due altri gravi problemi: il primo è che manca una popolazione maschile sufficiente per garantire la nascita di nuove generazioni. La sciagurata politica di Mao di un figlio solo ha condotto all’affogamento ai piedi del letto di tutte le neonate femmine per mezzo secolo sicché non esistono bambine e poi non esistono donne, quindi, non esistono mogli e madri in Cina, e non nascono i figli che dovrebbero nascere. Inoltre, la popolazione cinese come anche quella africana e asiatica in generale dà segni di contrazione spontanea nelle nascite. La seconda è la crescita esponenziale di uno spirito nazionalista di conquista che si esprime non soltanto nella vocazione militare, ma anche nella voglia revanscista di supremazia persino nelle arti, che spinge il governo cinese e i suoi funzionari ad esplorare il resto del pianeta e considerarlo una sua possibile provincia da cui imparare ogni tecnica per poi riprodurla sulla madre patria, ma con un sostanziale di disprezzo nei confronti degli altri. Una larga parte della Cina si sente americana perché ha studiato in America, parla inglese e vive addirittura in città cinesi dal nome americano, con negozi e ristoranti americani, ma al tempo stesso è totalmente cinese: sono quei milioni di americani cinesi nati e vissuti in America che poi hanno scelto la Cina. I cinesi sono i migliori hacker del mondo insieme ai russi. Nessuno può batterli e insieme sono scatenati in una serie di miglioramenti ed esercitazioni delle loro capacità di penetrazione nei sistemi di cui quello della Regione Lazio che abbiamo visto in questi giorni potrebbe, anche se non ne abbiamo assolutamente le prove per ora, essere un esempio tipico. Come disarticolare un sistema sanitario programmato, come creare il terrorismo attraverso la mancanza di sanità, facendo saltare gli appuntamenti medici di qualsiasi genere, come far crollare la fiducia nei servizi, nei trasporti, nelle scuole, negli ospedali nelle strade nei mercati che distribuiscono cibo. Ultimo elemento: la Cina sta affrontando una nuova ondata di Covid partendo proprio dalla zona di Wuhan dove l’epidemia è nata e ha ripreso azioni drastiche di cui si ignora l’entità, essendo sicuro che le informazioni che finora la Cina ha dato sono totalmente non controllate e probabilmente non vere. Gli Stati Uniti non sono sicuri della migliore posizione da prendere e così l’Europa. Oggi come nel 1938 il mondo si trova di fronte a un futuro incerto, in cui prevale negli animi quello che allora si chiamava l’appeasement: l’appeasement, la certezza che alla fine la pace prevarrà e quello fu lo spirito di Monaco quando l’inglese Chamberlain e il francese Daladier, ospitati da Mussolini a Monaco, firmarono carte false pur di salvare la pace guadagnandosi disprezzo e scherno di Churchill che sibilò: «Avete sacrificato l’onore per la pace ed avrete entrambe le cose: il disonore e la guerra!». Oggi i tempi non sono quelli, la storia non si ripete mai nemmeno sotto forma di farsa, ma certamente siamo alla vigilia di qualcosa. Nessuno sa dire che cosa, anche se le previsioni sono tutte sotto i nostri occhi. Ma non abbiamo esperienza e strumenti per prevedere. Sappiamo solo che qualcosa di troppo grosso sta accadendo da tempo e che va sempre peggio. Non abbiamo idea di che cosa hanno in mente i giocatori. Intanto da un giorno all’altro possono venir meno i servizi essenziali e tutto quello che sappiamo dire è che ci sono dei cattivi hacker in giro, un po’ come gli acari tra le lenzuola o nei tappeti per i quali occorrerebbe ogni tanto una buona passata di aspirapolvere. Ma l’aspirapolvere come metafora è una pessima scelta perché l’ultima volta fu a Hiroshima e da allora si è preferito evitare. Ma oggi? Non solo non abbiamo strumenti per decifrare, ma ci lesinano anche le notizie, il che aggiunge allarme ad allarme.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Lorenzo De Cicco per "Il Messaggero" il 5 agosto 2021. Non sono ragazzini in felpa; né smanettoni ideologizzati ispirati da Anonymous. Qui l'ideologia c'entra poco. C'entrano i soldi. Vagonate di soldi. L'organizzazione dei nuovi hacker - ma forse sarebbe meglio chiamarli col loro nome, cybercriminali - ricalca quella delle cosche: c'è una gerarchia, colonnelli, truppe, compiti ripartiti. Un reparto progetta i bacilli digitali che infettano le reti, mentre altri, come un braccio armato, mettono in pratica l'attacco. A volte sono soggetti diversi: c'è chi progetta solo i virus e chi, attraverso un intermediario, li compra per attaccare in proprio un bersaglio definito. Ma spesso i due piani si mischiano. È un unico soggetto, con più articolazioni, a seguire da cima a fondo l'operazione: le «gang», nel linguaggio degli hacker. Chi è riuscito a penetrare nei server della Regione Lazio? Nella ransom note, la richiesta di riscatto, non c'è una firma. «Hello Lazio!», scrivono i cybercriminali, avvertendo che i file sono stati criptati e che per non danneggiarli bisogna seguire una procedura. La indicherebbe un link, che gli esperti di LazioCrea, la società informatica della Pisana, non hanno voluto cliccare. Ma alcuni siti specializzati internazionali l'hanno analizzato. Il portale statunitense BleepingComputer, attraverso l'«onion Url» - per farla molto semplice: l'indirizzo nel dark web - ha ricondotto l'operazione alla «RansomExx gang», che ha sviluppato il virus RansomExx, uno dei più famosi ransomware in circolazione, cioè i virus con richiesta di riscatto. La RansomExx gang, riporta sempre il sito americano specializzato in sicurezza informatica, ha già colpito in altri continenti, soprattutto negli Usa e in Sudamerica. Nel mirino sono finite «le reti governative del Brasile, il dipartimento dei Trasporti del Texas, la Cnt (Corporación Nacional de Telecomunicación) dell'Ecuador».
E ancora: una multinazionale giapponese che si occupa di sistemi di intelligenza artificiale, un altro colosso della manifattura della fibra laser che opera tra Stati Uniti, Germania, Italia e Russia. Il contesto in cui è partito l'attacco che ha messo kappaò i sistemi informatici della Regione della Capitale sembra essere quello delle reti criminali sovrannazionali. «RansomExx è sia il nome di un prodotto, un virus che chiede il riscatto, che un gruppo criminale», spiega Roberto Setola, direttore del Master in Homeland Security al Campus Biomedico di Roma. Al di là della ricostruzione di BleepingComputer, sposata ieri anche da altri portali specializzati, è ancora presto per stabilire se in questo caso la gang abbia pianificato l'attacco «o abbia solo venduto il prodotto-virus a terzi», dice Setola. Quel che è certo è che ci troviamo difronte a «strutture internazionali, ramificate, ampie», è convinto Corrado Giustozzi, esperto di sicurezza cibernetica, ex consulente dell'Agenzia per l'Italia Digitale e membro, dal 2010 al 2020, dell'Advisory Group dell'Agenzia dell'Unione Europea per la Cybersecurity. «Sono reti organizzate, funzionano in modo simile alle cosche, a volte collaborano tra loro, a volte sono in competizione. Vivono riciclando i riscatti milionari. Spesso in partnership con la criminalità organizzata comune, di cui possono anche essere costole di diretta emanazione. Pensiamo alla mafia russa, che ha un proprio battaglione di hacker». Alcuni di questi gruppi hanno sede in ex hangar militari in Asia, capannoni dove lavorano 40-50 persone per le reti di medie dimensioni. Mentre per quelle più grandi possono essere anche il doppio. Riccardo Meggiato, consulente in cyber-security, è convinto, per le modalità con cui è stato messo in atto, che l'attacco sferrato al Lazio abbia avuto origine «in Russia o in Cina, comunque in Asia. Ho letto di un collegamento con la Germania, ma lì al più può essere rimbalzato il segnale». Anche se si tratta di malware sofisticati, può bastare poco perché s'infiltrino nelle reti protette: «Nell'80% dei casi - riprende Setola dell'università Campus - il virus penetra per l'imprudenza di un dipendente».
Attacco hacker, chi sono i terroristi e cosa vogliono davvero: il virus più pericoloso, perché l'Italia rischia di capitolare. Renato Farina su Libero Quotidiano il 04 agosto 2021. L'Italia è sotto attacco. Il luogo dell'operazione è una delle strutture più delicate dal punto di vista della sicurezza nazionale: la Regione Lazio. Il commando di terroristi (questa è la parola usata da Nicola Zingaretti) ha perforato il sistema informatico e si è impadronito, bloccandolo, del piano di vaccinazione contro il Covid. È come se una mano nemica e guantata avesse afferrato il cuore pulsante da cui dipende la salute di cinque milioni di persone e lo strizzasse a piacere. Quel che è accaduto e sta accadendo non è un affare che riguardi le alte sfere, come siamo sempre indotti a pensare quando si parla di aggressioni informatiche, da analfabeti digitali come sono gran parte degli italiani di una certa età. Non è come quando salta la corrente, dopo di che tutto si aggiusta grazie a un bravo tecnico. È un atto di guerra del nuovo tipo. Due domande. Perché l'Italia? Siamo pronti a difenderci? 1. Una banda armata di competenze tecnologiche elevatissime ha puntato il nostro Paese, ha individuato il ventre molle, ha compreso che poteva manomettere il comparto avanzato da cui dipende la fiducia della nazione e la crescita economica (la lotta alla pandemia), nonché impadronirsi di dati delicatissimi (le cartelle sanitarie dei nostri vertici politici, ma anche elementi generali sulla salute di una porzione significativa degli italiani).
DATI SENSIBILI
Abbiamo assistito nei mesi e nelle settimane scorse alle violente bordate tirate dal presidente degli Stati Uniti d'America contro la Russia e la Cina, sospettate di condurre direttamente i bombardamenti cyber o di lasciare mano libera a entità specializzate nel minare i nodi strategici dell'energia e del vettovagliamento alimentare (ricavandone milionari riscatti e seminando sfiducia), nonché condizionare con invasioni di false notizie l'opinione pubblica per indebolire le istituzioni. Per la prima volta a essere in totale balìa di queste forze criminali non è una multinazionale privata, ma di fatto un'istituzione nevralgica di uno Stato sovrano. L'Italia dà fastidio. Non c'è dubbio. Siamo cresciuti in maniera esagerata quanto a prestigio sulla scena politica, ma non è tanto merito di un uomo solo, e cioè Draghi, quanto per la dimostrazione complessiva di questo nostro popolo così vituperato di tirarsi su, riprendendo con risorse interiori che parevano perdute, un ruolo di leadership europea. Si dice che gli attacchi possano provenire dalla Germania, ma è una ipotesi, e a sua volta questa aggressione potrebbe essere semplicemente transitata da lì. Di certo, per una volta Zingaretti ha ragione e sa quel che dice quando la definisce "azione terroristica". Dunque non è malavita che ha fatto i master, ma c'è un disegno. Il terrorismo ha per scopo la destabilizzazione. 2. Questo attacco ci trova impreparati. Non abbiamo nessuno scudo predisposto contro questi proiettili perforanti. La colpa è anzitutto culturale. Diciamocelo. Sembra ai profani (quanti? L'80% degli italiani?) qualcosa di impalpabile, dunque in fondo marginale, questo attacco cibernetico all'Italia in corso da due giorni. Magari se ce lo chiede un intervistatore diremmo che sì, sappiamo che è grave. Ma mentiamo, in fondo non ci crediamo. Non vediamo scorrere il sangue, il sequestro non riguarda persone in carne e ossa, ma informazioni, archivi, dati organizzativi. Per questo non riusciamo ad allarmarci nel profondo. Questo è capitato alla nostra classe politica e governativa salvo pochi illuminati che si sono però presto arresi. Nel 2014 Matteo Renzi prese l'iniziativa di istituire un'agenzia e investimenti per qualche centinaio di milioni onde approntare un'armatura difensiva. Una inezia. Gli Usa negli stessi giorni investivano cento volte tanto. Ma fu bloccato lo stesso, per le solite beghe su chi avrebbe dovuto controllare quell'ambito. E dire che dieci anni fa si erano già contati un centinaio di imboscate dei pirati informatici. Adesso con il governo Draghi si è cominciato a mettere su un'agenzia di cyber sicurezza. I fondi sono adeguati. Il sottosegretario con la delega in questo settore delicatissimo e urgente, Franco Gabrielli, ha dato un paio di interviste, prima al Riformista e poi ieri a Repubblica, in cui prospetta grandi cose. «Con questo decreto noi vogliamo mettere in sicurezza le strutture esistenti e quelle che nasceranno. Per far ripartire l'Italia è necessario anche metterla in sicurezza sotto il profilo del cyber».
SIAMO IN RITARDO
Dal dire al fare c'è di mezzo un vuoto che durerà anni. Non basta assumere bravi muratori. Ci vuole un progetto e del tempo per tirare su questa barriera. E nel frattempo? In piena confusione istituzionale, il Copasir, l'organismo parlamentare che si occupa di servizi segreti, convoca per informarsi la neo-direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), Elisabetta Belloni, per rispondere sulla materia incandescente. Peccato che nel frattempo Franco Gabrielli abbia portato via al Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza) quell'agenzia in fieri. Intanto converrà rafforzare le nostre alleanze nel settore: con gli alleati occidentali, please. Fino a poco tempo fa strizzavamo l'occhio alla Cina.
Mondo sull'orlo delle cyber-guerre. Le armi micidiali dei nemici invisibili. Gli hacker che hanno attaccato la Regione Lazio, anziché dei pirati più o meno solidali con i no vax, sono forse agenti di spionaggio e di sabotaggio legati a potenze straniere? Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 4 agosto 2021. Gli hacker che hanno attaccato la Regione Lazio anziché essere come si poteva pensare in un primo momento dei sabotatori piu o meno solidali con i no vax, sono molto più probabilmente agenti di spionaggio e di sabotaggio internazionale legati a potenze straniere. Sembra un’enormità, detta così e in fondo lo è. Ma l’enormità sta nel fatto che l’ipotesi è assolutamente realistica. Quale potrebbe essere la potenza straniera interessata a sabotare la sanità della Regione Lazio e a far saltare gli appuntamenti per le vaccinazioni e anche le normali visite di controllo?
Per poter rispondere questa domanda dovremmo immaginarci su una macchina del tempo che ci consentisse di guardare il pianeta terra così com’è abitato oggi nell’agosto 2021 ma con occhi diversi probabilmente provenienti dal futuro. Cosa scopriremmo? Scopriremmo che l’intero mondo e sull’orlo di non una ma almeno cinque possibili scenari di guerra in Estremo oriente, Medio Oriente, Mediterraneo, Ucraina, Bielorussia e persino Polonia ciascuna delle quali potrebbe scoppiare così come potrebbe essere dimenticata. Secondo il grande storico greco Tucidide, le guerre scoppiano quando tutti ne parlano e dicono che sta per scoppiare una guerra. Questo sarebbe secondo l’antico filosofo della storia il trigger ovvero l’innesco delle guerre reali: tutti hanno paura, tutti si armano, tutti vedono nemici, tutti sono pronti alla zuffa e alla rappresaglia di quale le guerre scoppiano.
Ma quale guerra sta per scoppiare oggi? Naturalmente non abbiamo la più pallida idea, se davvero gli hacker hanno attaccato la Regione Lazio seguitano ad attaccarla sono o non sono agenti di guerra: per ora si sa che non ci sono comportati come gli hacker che si impossessano di documenti sensibili e poi si fanno pagare il riscatto attraverso bitcoins ed altre monete virtuali. Per ora quelli che hanno attaccato la sanità laziale non hanno chiesto nulla e seguitano ad agire. Non si sono impossessati dei dati sensibili riguardante la sanità, la situazione sanitaria delle personalità che vivono nel Lazio, compreso il presidente della Repubblica, il presidente del consiglio, ministri e grandi e funzionali dello Stato civili e militari. Per ora non risulta. I nostri servizi segreti sono partiti all’attacco un po’ alla cieca e il Parlamento si accinge a votare per l’istituzione di una specifica branca del controspionaggio che si occupi soltanto degli attacchi cyber. Ma inutile negare che si sta brancolando nel buio. Siamo attaccati, non sappiamo da chi ma peggio ancora non sappiamo perché. Chi potrebbe essere? Guardiamo un mappamondo qual è la zona più calda?
Certamente il mare del Sud della Cina dove la Repubblica popolare cinese dichiara sempre più fermamente la sua intenzione di impossessarsi dell’isola di Taiwan che formalmente fa parte della Cina continentale ma politicamente non lo è fin dagli anni ‘30 quando fu occupata dai giapponesi. Quell’isola è oggi uno dei più grandi produttori di microchip per i telefoni cellulari e per tutti gli armamenti del mondo, è un una spina nel fianco nella Repubblica popolare cinese perché ha instaurato un regime ultrademocratico pacifista e leggermente libertario, così da trarre consensi da ogni parte del mondo mentre la Cina accumula i mezzi necessari per un attacco anfibio che per poter riuscire dovrebbe costituire una mazzata militare di proporzioni sconosciuta delle guerre precedenti. Nel frattempo, il Giappone si è proclamato protettore dell’isola di Taiwan ha dichiarato per bocca del suo governo che considererà un atto di guerra qualsiasi attacco alla antica colonia di Formosa. L’Indonesia sul piede di guerra, il Vietnam comunista è un fermo alleato degli americani contro la Cina, Le Filippine sono ai ferri corti con Pechino e l’Australia sta riesaminando tutte le sue difese contraeree. Direte voi: ma che c’entra tutto questo con l’hackeraggio alla Regione Lazio?
Non lo sappiamo e bareremmo se dicessimo di saperlo. Ma sta di fatto che stanno accadendo nel mondo cose molto gravi molto minacciose di cui non troviamo molte tracce sui nostri giornali e telegiornali, sicché di fatto non ne sappiamo quasi nulla. Ma sono queste le situazioni che potrebbero farci trovare da un giorno all’altro coinvolti in una guerra mondiale combattuta con sistemi del tutto ignoti alle nostre capacità cognitive e alla memoria, di cui l’arma cibernetica che consiste nel disarticolare un intero stato sabotando i suoi computer.
Gli hacker di Stato, ben più potenti di quelli anarchici, hanno la possibilità di non far atterrare gli aerei, non far partire i treni, bloccare gli ospedali, bloccare gli stipendi, le banche, i bancomat e le carte di credito, bloccare le stazioni di servizio, le metropolitane gli ascensori con le persone dentro, ed ogni cosa che elettrica od elettronica. Un bombardamento cibernetico ha una potenza di fuoco infinitamente superiore a quella di un bombardamento fatto con l’uso degli esplosivi e anche delle piccole armi nucleari.
Un eventuale caos inflitto con armi cibernetiche porterebbe automaticamente a centinaia di migliaia di morti e forse a milioni, per l’impossibilità raggiungere persone in pericolo, curare i feriti, semplicemente andare nei luoghi. E di questo che si tratta? Ripeto lo possiamo soltanto sospettare e di fatto è sospettabile. Che cosa vediamo? Alcune novità: la prima è che la Federazione russa di Vladimir Putin ha stretto un nuovo accordo militare con la Cina popolare e in questo momento mentre leggete si stanno svolgendo numerose esercitazioni militari, sia navali che terrestri ed aeree; Naturalmente, cibernetiche. I russi sono formidabili in questo tipo di attacchi. Ma i cinesi non gli sono da meno. Non sono i Paesi che hanno creato internet, ma sono quelli che lo sanno sabotare in maniera più efficiente e con maggior competenza e determinazione. C’è poi la situazione della Bielorussia, per la quale Putin si dice pronto alla guerra pur di non perdere il buffer state, lo stato cuscinetto che se parla Russia dell’Europa occidentale, per non dire dell’Ucraina che chiede a gran voce di entrare formalmente nella Nato altro evento che il Cremlino considererebbe un casus belli. L’attuale amministrazione di Washington è molto più spericolata della precedente repubblicana del detestato Donald Trump e anche molto più imprudente. Le iniziative americane contro la Cina sono notevoli e quelle contro la Russia sono ancora più aggressive. Recentemente il presidente degli Stati Uniti ha chiamato il presidente della Federazione russa un killer. Non era mai accaduta una cosa del genere nella storia delle relazioni diplomatiche. Ma non è successo nulla. Putin, intervistato in televisione, disse che aveva trovato la cosa piuttosto divertente dal momento che la parola killer in russo è molto popolare perché è tratta dal linguaggio di Hollywood e quindi se qualcuno dà del killer a qualcun altro in genere lo fa per scherzare come se avesse una Colt 45 e un cappello texano in testa. La realtà non c’è nulla da scherzare. Le sanzioni applicate alla Russia hanno provocato una crisi economica gigantesca in quel paese, in cui non si produce di fatto null’altro che energia da vendere a prezzi di mercato, i quali variano secondo la situazione del Medio Oriente per cui da oltre settanta anni il prezzo del petrolio sale o scende avvantaggio o a svantaggio della Russia secondo lo stato politico militare del Medio Oriente. Oggi la situazione del Medio Oriente è molto compromessa. La situazione del Mediterraneo è estremamente conflittuale perché il turco Erdogan e decisissimo a prelevare petrolio dalle acque dell’egeo greco e a mantenere la sua presenza in Libia insieme ai russi. L’Iran è fortemente scosso dalle sue dimostrazioni interne e dunque il governo di Teheran e incline a rifugiarsi nel dramma della politica estera per contenere la crisi interna ciò che significa che la le possibilità di una guerra aumentano anziché decrescere. Possono essere questi i retroscena degli attacchi al Lazio? Vorremmo poter assicurare che no, sono tutte sciocchezze, ma invece possiamo e anzi dobbiamo dire che è perfettamente possibile, anzi probabile.
Francesco Malfetano per "Il Messaggero" il 4 agosto 2021. Hanno nomi che sembrano usciti direttamente da un poliziesco mal riuscito (REvil, DarkSide, Wizard Spider, Astro); non si ha idea di chi le componga o quale sia l'identità celata dietro strani nickname; hanno il loro quartier generale in Paesi poco collaborativi con le indagini internazionali e, soprattutto, non hanno alcuno scrupolo. Sono le ransomware gang e stanno mettendo a ferro e fuoco i sistemi informatici di mezzo mondo. Attaccano senza remore multinazionali, piccole aziende, comuni, compagnie assicurative, aeroporti, università, istituzioni e ospedali paralizzandone computer, server, backup e tutto ciò che è connesso ad internet. Come? Si introducono nella rete delle aziende scoprendone una falla, sfruttando i canali preferenziali ceduti dalle stesse a dei fornitori o acquistando delle credenziali rubate in precedenza sul dark web. A quel punto prendono in ostaggio tutti i dati, crittografandoli e rendendoli illeggibili. Perché? L'unico ed esclusivo obiettivo è far soldi chiedendo un riscatto in cryptovalute per la chiave che permette di decodificare le informazioni bloccate. Il caso della Regione Lazio, che pure smentisce qualunque richiesta economica, in pratica è solo la punta dell'iceberg. L'operatività di queste bande di cyber criminali è esplosa dall'inizio della pandemia. Al punto che per i ricercatori dell'azienda di sicurezza Blackfog, i danni causati da questo genere di attacchi raggiungerà entro fine anno il valore di 6 trilioni di dollari. Cioè 6 miliardi di miliardi, l'equivalente del Recovery plan degli Stati Uniti. E sono proprio gli Usa il Paese più colpito da questi hacker specializzati. A giugno, il produttore di carne JBS, che alleva e macella oltre un quinto di tutta la carne bovina consumata dagli statunitensi, ha pagato un riscatto di circa 9 milioni di euro. Nello stesso mese il più grande gasdotto del Paese, il Colonial Pipeline, ha pagato 3,6 milioni di euro per riottenere il possesso dei sistemi dell'azienda dopo che per giorni l'intera costa orientale a stelle e strisce era rimasta paralizzata dalla carenza di carburante. Qualunque azienda connessa è vulnerabile, anche se punti deboli sono considerate le imprese di medie dimensioni perché hanno entrate sufficienti per renderle un obiettivo redditizio ma non abbastanza grandi da avere team dedicati alla sicurezza informatica. Dietro questi attacchi ci sono professionisti, non sempre affiliati, che si coordinano per identificare gli obiettivi, infiltrarsi nelle reti ed estorcere informazioni preziose. Ma al centro di tutto ci sono le ransomaware gang appunto, che costruiscono e gestiscono il software malevolo che rende possibili gli attacchi. Alcuni usano questo malware per estorcere le vittime, mentre altri offrono ransomware-as-a-service (RaaS), aiutando altri criminali a prendere di mira organizzazioni specifiche. La Russia è considerato il quartier generale più importante, ma negli anni attacchi di questo tipo sono stati identificati come riconducibili a cyber criminali di base in Cina, Iran, Est Europa e Corea del Nord. Le tracce più consistenti portano a San Pietroburgo e Mosca. Non a caso il cirillico, l'alfabeto russo, è comunemente usato nei forum in cui i ransomware si trovano in vendita o anche nei codici sorgente che strutturano il software (alcuni dei quali codificati proprio per non attaccare in Russia). Anzi, secondo diversi esperti, questi attacchi sono tollerate dal governo russo. Non può essere solo un caso se a fine luglio i due gruppi più importanti protagonisti degli attacchi negli Usa, REvil e DarkSide, sono scomparsi. Addirittura hanno abbandonato al loro destino aziende con cui stavano trattando richieste di riscatto. E lo hanno fatto pochi giorni dopo il 9 luglio, cioè quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in un colloquio telefonico durato un'ora con Vladimir Putin ha alzato la voce: «Prenderemo tutte le misure necessarie per difendere da questa continua minaccia il popolo americano». Dieci giorni e dei due gruppi, pure molto sfacciati nel pubblicizzarsi, non c'è più traccia. O meglio, per qualcuno gli ex membri sarebbero già operativi, riuniti sotto una nuova bandiera apparsa sul Dark Web negli ultimi giorni di luglio: Black Matter. Un gruppo da cui gli esperti si aspettavano un primo imponente attacco.
Alessio Lana per il "Corriere della Sera" il 2 agosto 2021. I ransomware sono il nuovo Eldorado del cybercrimine, dei finissimi sistemi di attacco di cui il Lazio è solo l'ultima vittima. Secondo le stime sono in piena crescita, rappresentano il 67% degli attacchi informatici, al ritmo di uno ogni 11 secondi. Un crimine redditizio, con le richieste di riscatto passate da una media di 115mila dollari nel 2019 ai 312mila dell'anno successivo per un totale, nel solo 2020, di 20 miliardi.
1 Cos'è un ransomware?
È una minaccia informatica che infetta un sistema e poi richiede il pagamento di un riscatto (ransom) per poter tornare a utilizzarlo, spiega Riccardo Meggiato, esperto di sicurezza informatica e consulente forense. Tutti i file all'interno del sistema, che può essere un computer o un'intera rete di una o più aziende, vengono crittografati così da essere illeggibili dal legittimo proprietario e il codice di sblocco viene dato solo previo pagamento.
2 E il CryptoLocker che ha colpito la Regione Lazio?
È una varietà di ransomware. Ideato nel 2013, nel tempo si è evoluto diventando una vera e propria «famiglia».
3 Perché viene definito «attacco silenzioso»?
Perché non ci si accorge di essere stati infettati finché non si arriva alla richiesta di riscatto. Il ransomware cripta i dati partendo dai meno utilizzati così l'utente può continuare a usare il computer. Poi, quando ne mancano pochi, riavvia la macchina, finisce di crittografare, e quando questo si riaccende, non compare più il sistema operativo ma la richiesta di riscatto. Ci possono volere da una decina di minuti a delle ore.
4 Come si paga?
La schermata che compare alla fine del processo contiene istruzioni dettagliate per il pagamento. La valuta utilizzata è il bitcoin e spesso ci sono anche «servizi clienti» che aiutano nella transazione.
5 Cosa succede se non si paga? Le aziende spesso hanno dei sistemi di backup che gli permettono di recuperare i dati bloccati e aggirare il ransomware. I criminali però minacciano di diffondere quei dati che spesso contengono informazioni sensibili come per esempio dei brevetti.
6 Come si diffonde?
Tramite un link o un allegato in una mail che vanno cliccati. Sono di ottima fattura, difficile accorgersi della truffa.
7 Quanto è il riscatto?
Dipende dall'obiettivo. Chi crea ransomware studia anche per settimane la sua vittima, ne conosce il fatturato e a chi guadagna di più chiede di più. Il record finora è di 70 milioni di dollari.
8 Chi li crea?
Sono prodotti soprattutto in Cina, Taiwan, Vietnam, Ucraina e Russia da vere e proprie aziende che possono avere anche un'ottantina di sviluppatori.
9 Quanto costa?
I vecchi ransomware sono disponibili gratuitamente ma sono poco efficaci. Quelli professionali hanno un costo di sviluppo intorno a centomila euro e il prezzo di vendita varia in base al riscatto che si può chiedere. Il produttore crea un pacchetto ransomware più riscatto che viene venduto ad altri criminali in esclusiva o tramite licenze per più usi.
10 Come difendersi?
I ransomware sono così variegati che al momento non c'è un protocollo di difesa univoco. Il metodo migliore è addestrare il personale delle aziende a riconoscere le minacce sul nascere. Ci sono poi dei software che riconoscono se ci sono dei processi crittografici in corso ma devono evolvere continuamente per stare al passo con i ransomware.
Da leggo.it il 9 agosto 2021. Uno dei luoghi più belli del mondo. Ma non solo: anche uno dei più visitati. Qualche giorno fa è stato teatro del G20 della Cultura e le foto del Colosseo con tutti i potenti del Mondo ha fatto il giro del pianeta. Incantando tutti per bellezza e fascino. Ma non tutto quello che luccica è oro. Perché, come da tempo viene denunciato, intorno al Colosseo di splendore ce ne è poco. Invece di conservare l'area circostante al monumento simbolo della Capitale come un "salotto", l'impressione è che venga abbandonato a se stesso. Sporcizia, abbandono, ambulanti abusivi, false guide turistiche, bagarini. Un panorama intollerabile. Anche l'allontanamento di diversi persone accampate da tempo a Colle Oppio non ha risolto la situazione che rimane di degrado e abbandono. Pochi giorni fa, proprio in un'intervista concessa a Leggo, la sottosegretaria Borgonzoni, ha raccontato del tavolo istituito proprio per cercare di risolvere questi problemi. Tavolo operativo a cui ha partecipato la polizia municipale, il ministero e la prefettura. Si prospetta un maggior controllo della zona, anche con l'ausilio di agenti in borghese, mini daspo e uso di telecamere.
Simone Canettieri per "il Foglio" il 5 agosto 2021. Vive in una cabina telefonica. Perché sa che nessuno le entrerà in casa, nemmeno per sbaglio. Il più banale dei non luoghi del Novecento è abitato da una donna che si trascina in un lungo presente. Da tre mesi – pioggia, solleone, vittoria degli Europei, oro nei cento metri alle Olimpiadi – sta lì. Occupa solo un lato dei tre di cui è composta la cabina vetrata senza porte. E’ invisibile. Nonostante abbia deciso di mettere le tende in via XX Settembre, all’incrocio di via Goito, dove passa l’economia italiana, tra ministero e Cassa depositi e prestiti. E’ una donna di quarant’anni, sembra. Si sa da radio-quartiere, e si vede, che dovrebbe venire dall’Africa. Ma chissà poi che giri avrà fatto prima di piazzarsi qui. Ha i capelli rasati. E si cura. Sì, ci tiene. Ed è un paradosso, certo, nell’antologia delle anime perse che vivono per strada nella capitale. L’altro ingresso della sua casa lo ha adibito a ripostiglio dove vi conserva i panni e le taniche di acqua che va a riempire a una fontanella poco distante. Vuole lasciare il meno possibile sguarnita la sua tana con i cartoni, le buste, una coperta, un cuscino. Quasi tutti i giorni si mette a fare il bucato. Che poi stende sulla recinzione di uno dei tanti cantieri eterni di Roma (si tratta di un punto informazioni del Comune che attende di essere inaugurato da anni, ma prima di ottobre, questa volta, ci sarà il taglio del nastro). La donna che vive nella cabina sta male. Urla parole sconnesse nella sua lingua che nessuno conosce. Lo fa di mattina presto, appena si sveglia, prima di mettersi in ordine. E’ il suo buongiorno a un mondo che se ne infischia e va di corsa: a piedi, sullo scooter, in auto, in autobus, sul monopattino. Tutti la lambiscono, nessuno la vede. Lo sguardo su di lei dura una manciata di secondi tra commiserazione e sdegno. Non si merita nemmeno una foto da postare su Welcome to favelas (per fortuna) perché nel disagio conserva una cifra di dignità. E quindi non farebbe ridere. Nel pomeriggio, di nuovo, si mette al centro di questa isoletta piazzata tra due vie, trasformato in un parcheggio per motorini. E ricomincia: sembra imprecare, rimanda fulmini su in cielo. Articola discorsi e urla. Ce l’ha con qualcuno, chissà. La sentono dai palazzi umbertini: “Rieccola”. La donna non vuole essere disturbata. Non chiede soldi. Non le interessa l’elemosina. E’ impossibile per i passanti e per i suoi vicini di casa – perché questo ormai sono – avvicinarla. Come stai? Serve aiuto? Risposta: urla e sguardi persi nel vuoto. Al massimo un gesto sbrigativo. Non chiede una coppetta alla gelateria là di fronte o un tozzo di pane al ristorante a pochi metri. E’ una delle tante virgole di disagio che si trovano Roma, la città che tutti accoglie e tutti alla fine fa disperdere. Ogni tanto spipacchia una sigaretta. Non sono mozziconi raccolti per terra. A volte beve una birra. Ma senza la cadenza del vizio. Mai vista maneggiare un cellulare. Se dovesse telefonare le basterebbe alzare la testa dal suo giaciglio e, spicci alla mano, impugnare la cornetta. Ma telefonare a chi? Di notte, prima di trovare il sonno, riprende il suo sfogo udibile nel raggio di cento metri. Poi si sdraia con i piedi fuori dalla cabina e la testa dentro, al riparo. Forse potrebbe esplodere da un momento all’altro. Forse potrebbe rimanere lì, con le sue abitudini e le sue urla cadenzate, fino alla fine del dell’autunno. Ha bisogno di aiuto. I vigili del quartiere la osservano come se fosse una macchina parcheggiata lì da tanto tempo. I servizi sociali del Comune non si sono mai visti. Chissà se è vaccinata. Il suo bagaglio a cielo aperto non contempla mascherine. Anche se non ne ha bisogno. Si è imposta da sola l’autoisolamento. Chissà se ha paura del Covid. Chissà se qualcuno prima o poi affronterà la sua storia: per capire, per curarla. E’ una pantera. Ha lineamenti duri, ma eleganti. Non ispira sentimenti di pietà, aiuto e misericordia. Nemmeno in chi dovrebbe averne di professione. E’ lasciata lì, alla mercé della città incarognita, come lei, forse di più. Una Roma che va veloce e tutto risputa. Che non vede più l’utilità delle cabine telefoniche, figuriamoci se abitate.
Lorenzo D'Albergo per roma.repubblica.it il 5 agosto 2021. Le immagini dei cassonetti stracolmi di rifiuti fanno il giro del mondo. Poi c’è la piaga dei flambus. Completano il quadro i parchi ridotti a giungle urbane. E che dire delle buche che, ostinate, continuano a fare capolino nonostante l’operazione #Stradenuove del Campidoglio grillino? Vista da palazzo Senatorio, la corsa ostacoli a cui sono quotidianamente costretti i romani deve sembrare una passeggiata. L’ultima relazione sulle performance degli uffici capitolini racconta infatti una città modello, una metropoli in cui un’efficientissima amministrazione ha completato con successo il 94,31% dei propri compiti. Il rapporto 2020, appena vidimato dalla giunta Raggi, è decisivo per la distribuzione dei 36 milioni di premi legati alle prestazioni dei dipendenti di Roma Capitale. Fondi messi in palio dalla stessa giunta grillina con una delibera dello scorso 30 dicembre e pronti a essere distribuiti in un ultimo slancio di generosità nei confronti degli impiegati comunali. Nessuno escluso: sfogliando le 98 pagine del dossier, nell’anno della grande pandemia fioccano gli 8, i 9 e i 10 in pagella. Qualche esempio. Al capitolo trasporti, nonostante gli incidenti raccontati dalle cronache cittadine, sarebbe stato pienamente raggiunto (100 punti su 100) l’obiettivo di garantire la salvaguardia della pubblica incolumità e la sicurezza stradale dei romani. Poi il miglioramento dei trasporti per i disabili: obiettivo raggiunto al 96,28%. Non ditelo a chi, costretto in sedia a rotelle, rimane intrappolato in metro o non riesce a trovare un bus dotato di pedane. Bisogna invece turarsi il naso di fronte al 100, voto tondissimo, assegnato all’attuazione del Piano materiali post consumo. Il Comune nel 2020 avrebbe “efficientato la raccolta differenziata riducendo la produzione di rifiuti indifferenziati, migliorato la capacità di trattamento dei rifiuti organici, potenziato la presenza delle isole ecologiche e degli impianti di riciclo per singole filiere, migliorato la raccolta differenziata dei materiali dannosi per l’ambiente”. Lo stesso vale per la “la pianificazione strategica e il coordinamento delle attività finalizzate all’incremento della raccolta differenziata e alla riduzione della produzione dei rifiuti”. Ancora un pienissimo 100 per il “miglioramento della vivibilità urbana”. Tutto in ordine, dunque. Quella scattata dalla direzione generale del Campidoglio è una fotografia che rasenta la perfezione. Giusto qualche defaillance qui e lì. Proprio come lo scorso anno: anche nel 2019 i voti erano stati alti, altissimi. E poco importa delle lamentele dei romani. Che, complice il lockdown portato in dote dal coronavirus, pesano sempre meno nelle valutazioni del comune: istanze, reclami e segnalazioni inviate ai vari canali del Comune sono scese dalle 190.052 del 2019 alle 144.156 del 2020. Quindi via ai premi. Pure se gli atti sono scritti sempre peggio. Dopo anni con un margine di errore del 10%, lo scorso anno sono risultati fallati più del 16% dei documenti prodotti dagli uffici di Roma Capitale.
Francesco Storace per iltempo.it il 5 agosto 2021. Carlo Cottarelli, economista di rango, va all’attacco di Virginia Raggi. E lo fa su una questione delicata, che riguarda i nostri soldi. La sua fonte è Repubblica, da cui apprende che “il comune di Roma ha deciso di distribuire 36 milioni di premi legati alle prestazioni dei dipendenti. Tra i risultati raggiunti sono citati la sicurezza dei trasporti pubblici e la migliore gestione dei rifiuti. Ma vivono in un’altra città?”. Ovviamente, si scatena un diluvio di commenti sui social. Anche perché molti si chiedono come sia possibile premiare lo smart working e se è questo il sistema pentastellato. Però è anche vero, e qui Cottarelli rischia di esagerare, che da un economista come lui ci si attendono dettagli seri. Perché la cosiddetta produttività non è uguale per tutti, perché va da qualche decina di euro a migliaia. Dipende anche dalle mansioni, dalle qualifiche. A meno che non si tratti di dirigenti, il che farebbe arricciare più di qualche naso. E comunque sarà bene che la Raggi tenti di spiegare di che si tratta. Perché siamo sotto elezioni, tutto diventa più sospetto, e diciamo che il suo MoVimento politico da testo sul tema delle strumentalizzazioni. E poi perché se è vero che i “premi” riguardano trasporti e rifiuti, probabilmente c’è da chiarire con esattezza e dettagli i perché e i percome di un’iniziativa siffatta. Se la sindaca non lo fa merita lei un premio, quello di migliore faccia di bronzo della Capitale, perché pensare di remunerare la qualità dei servizi di trasporto e di raccolta dei rifiuti di Roma è qualcosa di impensabile, soprattutto a livello dirigenziale.
Massimo Gramellini per il Corriere della Sera l'11 settembre 2021. T. G., come di certi rapper, di te si conoscono solo le iniziali, ma bisogna ammettere che sei una donna capace di realizzare i tuoi sogni. Quanti lascerebbero un posto di lavoro sicuro per andare ad aprire un B&B alle Canarie? Molti, a chiacchiere. Solo che tu lo hai fatto davvero: all'inizio della pandemia, prendendo in parola chi sui giornali suggeriva di sfruttare lo choc per cambiare vita. Hai smesso di timbrare il cartellino dell'Atac - un'azienda di Roma che si occupa di trasporto urbano con risultati alterni, però sempre pieni di passione: non per nulla i suoi mezzi prendono spesso fuoco - ma, da vera romantica, non te la sei sentita di rompere del tutto e hai scelto di tenere aperto un canale di comunicazione con il tuo passato. Dalle Canarie inviavi all'Atac i certificati medici in cui ti davi malata, così da permettere ai contribuenti italiani di continuare a finanziare il tuo stipendio e quindi il tuo sogno: una (doppia) vita in vacanza a spese nostre. Saresti stata la furbetta perfetta, T.G., se non avessi ceduto alla tentazione di vantartene sui social, postando foto di aperitivi al tramonto e piscine vista mare. Ci è voluto del tempo, ma alla fine qualcuno a Roma ha cominciato a sospettare che tu non spedissi quelle immagini dalla fermata dei bus di Tor Pignattara. Guardiamo il lato positivo: si era sempre sostenuto che la faccia tosta fosse una prerogativa maschile e invece, almeno in questo campo, si procede speditamente verso la parità.
Lorenzo De Cicco per il Messaggero - Roma l'11 settembre 2021. «Qui è un paradiso, c'è il sole tutto l'anno, ma tante isole sono stupende, vogliamo parlare della Sardegna?». Direttamente da Puerto Rico de Gran Canaria, T. G., la capostazione dell'Atac «in malattia» dal marzo 2020, col B&B nelle isole subtropicali, non sembra troppo sorpresa dalla telefonata del cronista. La partecipata dei trasporti del Campidoglio, dopo un anno e mezzo di referti medici (e soprattutto, dopo la scoperta dell'attività parallela come proprietaria di una casa vacanze vista oceano), ha deciso di metterla alla porta: «Ma ho tutti i certificati in regola», replica lei, col tono di una che non si darà per vinta. Il soggiorno a Las Palmas con lo stipendio dell'Atac? È stata tutta una coincidenza, dice lei. «Mi sono rotta la gamba qui, pensi, appena arrivata sull'isola, all'inizio del 2020. Una casualità. Sono scivolata dalle scale, stavano facendo alcuni lavori». Quindi è in malattia da un anno e mezzo per una frattura? «Che devo fare, purtroppo... Adesso sto facendo la fisioterapia. Con la pandemia qui si era bloccato tutto, ancora stiamo in allerta 4 per il Covid, non ho potuto iniziare prima. Ho anche la spalla storta! Ho il gesso». Ma su Whatsapp sfoggia come immagine del profilo una bella foto con vista sul porto di Gran Canaria, e il gesso non c''è... «È una foto vecchia, di qualche anno fa». Sarà una riabilitazione lunga? «Mi ha beccato che sono uscita dalla terapia acquatica (la telefonata è alle 9 di sera, ndr), ma ho almeno altre 15 sedute. Sa, decide l'ortopedico, perché ho ripreso ora le cure». Alle Canarie non è arrivata proprio per caso. «Ho due case di proprietà. Il mio compagno è spagnolo, ma lui gira per il mondo, è pilota». Lei invece è stipendiata per passare il turno nelle stazioni delle ferrovie e della metro, a Roma. Che c'entra il B&B in un arcipelago dell'Atlantico? «Ho una casa vacanze, registrata con tutti i permessi, ma con la pandemia non è facile affittare. Non affitto più». In realtà sulla pagina della struttura, dove compariva fino a ieri mattina il numero di cellulare della capostazione, ci sono annunci recenti, l'ultimo è del 2 agosto. Tra le foto di una jacuzzi, di un brindisi sulla terrazza fronte mare, della piscina a sfioro. «Sì, ma quella della foto non è la piscina reale. È mia figlia che mi aiuta, fa marketing». Farà ricorso contro l'Atac se procedono con la sospensione e poi col licenziamento? «Innanzitutto all'Atac devono dire le cose vere - ribatte la capostazione - Perché i certificati medici ci sono, non capisco cosa abbiano contestato». Messaggio chiaro: il posto se lo tiene stretto. «Vedremo se applicano la legge oppure no. Io per il momento sono concentrata solo sulla mia salute. E ho un bel panorama per rimettermi, no?».
Lorenzo De Cicco per “il Messaggero - Cronaca di Roma”il 10 settembre 2021. Vuoi mettere i turni da capostazione all'Atac con le palme di Playa Puerto Rico, nell'arcipelago della Canarie? T. G., 50 anni, non ha avuto dubbi. A febbraio 2020, un attimo prima del lockdown, ha fatto i bagagli e si è imbarcata alla volta delle isole subtropicali. Via la divisa grigia della municipalizzata dei trasporti, molto meglio i panni da tenutaria di una casa vacanze con vista sull'oceano e una piscina a sfioro. Sembra il finale perfetto di un reality show, della serie: mollo tutto e cambio vita. Peccato per un particolare: all'Atac la capostazione, per un anno e mezzo, ha continuato a spedire una valanga di certificati medici. E così, mentre si svegliava tutte le mattine tra i motoscafi e le spiagge bagnate dalle acque cristalline, col sole mite perfino a Natale, la partecipata del Campidoglio ha continuato a liquidarle lo stipendio, credendola in malattia. Chissà per quanto sarebbe andata avanti così, con l'assegno mensile foraggiato dai contribuenti romani (Atac incassa ogni anno oltre mezzo miliardo di euro dal Comune, più i ristori dell'emergenza Covid). Ma l'hanno tradita i social. O meglio: la voglia di esibire la nuova vita. Su Facebook infatti la dipendente «malata» sfoggiava gli agi della nuova day-routine a Las Palmas. Tra piscine e bagnasciuga. Una carrellata di foto con panorami mozzafiato. È la legge dei social: se vai in un posto da sogno senza concederti nemmeno un post, è come se non ci sei stato. «Benessere... è la parola chiave!!», scriveva allora T., con l'emoticon di un cactus tropicale. E promuoveva quella che sembrerebbe essere la sua casa vacanze: «Voglia di mare, di sole e relax? What else? Che altro? Contattaci per informazioni». Con link allegato del bed and breakfast. Il tutto in un posto che il sito web ufficiale del turismo dell'isola, reclamizza così: «Cos' è la prima cosa che vedi la mattina quando ti alzi dal letto? L'oceano? Un mare blu steso come una moquette nel salotto? Una distesa di onde che arrivano al porto tra motoscafi, barche per la pesca del marlin blu e barche per avvistare i delfini? Se la risposta è sì, è molto probabile che sei a Puerto Rico, nel sud di Gran Canaria. Uno dei luoghi con il miglior clima di tutta la Spagna». Niente a che vedere con certe stazioni scalcinate delle ferrovie urbane. Atac a un certo punto ha mangiato la foglia. E partendo dalle immagini postate su Facebook, la Direzione del Personale ha avviato un'indagine interna. È stata contattata anche l'Inps ed è venuto fuori che sia alla municipalizzata che all'ente di previdenza non erano mai stati consegnati certificati medici originali, ma solo copie. E questo ha fatto partire la prima azione disciplinare per «atti non conformi». Alla donna è stato contestato anche il doppio lavoro, per via del B&B, espressamente vietato dal regolamento aziendale. La capostazione è già stata sospesa. Ma il procedimento è ancora aperto. Ed è probabile che si chiuda con un licenziamento. Così l'addetta dell'Atac potrà finalmente dedicarsi a tempo pieno, come del resto già fa, alla vita alle Canarie. Ma senza lo stipendio pagato dai romani.
È guerra al Tar e ai "botticellari". Dai bus ai rifiuti in fiamme, la Raggi vede altri colpevoli: “Solo casi di autocombustione?” Andrea Lagatta su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Con il vento in poppa verso le amministrative, la barca amministrativa della Sindaca di Roma Virginia Raggi si dirige verso la deriva. L’ultimo sondaggio commissionato all’istituto nazionale di ricerche Demopolis da Citynews, che vede un gradimento tra il 18 e il 24 per cento per la Sindaca uscente del M5S, conferma quanto sia difficile per la prima cittadina della Capitale conquistare la fiducia dei romani. Scelte impopolari, scivoloni istituzionali e degrado urbano, seguito da rimbalzi di responsabilità tra Comune e Regione, sono stati gli elementi che hanno caratterizzato l’amministrazione Raggi.
L’ipotesi di autocombustione. Il timore di abbandonare il Campidoglio spinge la Raggi a fare un passo indietro e puntare il dito anche su ignoti e presunti responsabili di nefandezze di cui la prima cittadina dovrebbe rispondere. Questa mattina la Sindaca della Capitale, intervistata da Radio Cusano Campus, ha avanzato l’ipotesi che gli incendi di diversi mezzi del trasporto pubblico capitolino, come gli autobus dell’Atac, non siano riconducibili all’autocombustione. E su questo, ha specificato la Sindaca ai microfoni di Radio Cusano Campus, è stato aperto un fascicolo in Procura. La prima cittadina certamente riconosce che il parco mezzi dell’Atac abbia anche autobus che hanno macinato migliaia di chilometri sulle strade della Capitale per venti anni, ma si lancia in idee che ricordano la deresponsabilizzazione. “Sugli autobus in fiamme so che c’è anche la Procura sopra, quindi non mi pronuncio. Non si possono avere autobus di 20 anni e li stiamo sostituendo, ma ci è venuto il dubbio e quindi sia noi che Atac siamo andati in Procura a sporgere denuncia. È un po’ singolare, come il rogo del Tmb Salario o quello bloccato per fortuna a Rocca Cencia o i mille cassonetti andati a fuoco. Sono tutti fenomeni di autocombustione?”, ha domandato la prima cittadina, sollevando il dubbio sull’ipotesi dolosa dell’incendio del Tmb Salario. La Sindaca Raggi sostiene di aver evitato il fallimento dell’azienda municipalizzata, esito che senza il suo intervento sarebbe stato inevitabile. “Sono stati fatti tanti passi avanti. Atac era oltre il fallimento. Il tpl deve servire la collettività e a Roma il tpl deve arrivare anche nelle periferie, in quelle tratte che non sono remunerative. Abbiamo salvato l’azienda con un piano concordato con il tribunale, abbiamo salvato le famiglie dei dipendenti Atac e contemporaneamente abbiamo iniziato a comprare nuovi autobus per sostituire autobus di 20 anni fa“, ha dichiarato. Sempre sul tema del trasporto pubblico, la Sindaca ha poi parlato dei lavori della linea C della metropolitana, questa volta rivolgendosi ai precedenti governi: “Stiamo lavorando sulla metro C per farla arrivare fino a Clodio e bisognerebbe capire perché il precedente Governo non ce l’ha finanziato e lo stesso Gualtieri, che oggi magnifica, non ce l’ha finanziata e ora dice "servono fondi per le metro". Ricordo che era ministro delle Finanze”, riferendosi all’avversario in corsa al Campidoglio.
Caos rifiuti. Immancabile il tema dei rifiuti, sul quale c’è un rimbalzo di responsabilità tra Comune e Regione. È ancora in bilico la riapertura della discarica di Albano, che dovrebbe occuparsi della raccolta e dello smistamento dei rifiuti dei romani. Raggi sottolinea che il piano della Regione Lazio sia da rifare dal momento che Zingaretti “ha chiuso tutte le discariche da Colleferro ad Albano fino a Roccasecca: non lo dico solo io, lo dice anche il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani che questo piano è tutto da rifare”. Ma le parole della prima cittadina di Roma hanno alimentato la viva polemica tra giunta regionale e quella capitolina. L’assessore regionale al Ciclo dei Rifiuti, Massimiliano Valeriani, è intervenuto sul tema, definendo la Raggi ‘spregiudicata’: “Dispiace sentire ancora una volta la sindaca Raggi parlare di mancanza di collaborazione tra istituzioni. Si rivela una persona molto spregiudicata che antepone se stessa agli interessi di Roma – si legge in una nota dell’assessore – In questi anni la Regione ha sempre aiutato concretamente il Comune di Roma nella gestione dei Rifiuti. È stata invece spesso la sindaca a rifiutare il nostro sostegno, ricorrendo contro nostre decisioni o perdendo finanziamenti regionali utili alla gestione dei Rifiuti”. Valeriani evidenzia quelli che sono i fallimenti della prima cittadina in merito al piano Rifiuti “che si basava sulle previsioni fatte proprio dalla sindaca sul raggiungimento del 70 per cento di differenziata nel territorio comunale. Invece, anche su questo, l’amministrazione capitolina ha fallito producendo una diminuzione negli anni della raccolta differenziata fino ad arrivare ad un misero 40 per cento”, ha concluso l’assessore.
Lo Stadio della Roma. La Sindaca volge lo sguardo verso il futuro e già guarda a nuovi progetti. Il Giubileo 2025, l’Expo 3030 e la realizzazione dello Stadio della Roma sono tre impegni in grado di cambiare l’aspetto della città. Proprio sull’arena che dovrà portare il nome del club giallorosso, la Sindaca ha affermato a Radio Cusano Campus che l’amministrazione ha già iniziato le nuove interlocuzioni e a breve ci sarà la presentazione del progetto”, ha spiegato Raggi, in merito al nuovo stadio della Roma dopo la revoca dell’interesse pubblico sul progetto di Tor di Valle. “Nei Friedkin ho colto una grande determinazione unita a una grande capacità di analisi, tant’è vero che quando sono arrivati hanno studiato il progetto di Tor di Valle per mesi prima di decidere se andare avanti o meno. Poi hanno detto che quel progetto non gli interessa perché sono interessati allo stadio e non a tutto ciò che c’era intorno perché, ricordo, il progetto di Pallotta era un quartiere costruito con la legge sugli stadi, e l’impianto rappresentava il 14 per cento del milione di cubature totali – ha ricordato la sindaca – Venuto meno l’interesse della AS Roma abbiamo quindi dichiarato l’improcedibilità di quel progetto: si apre ora una nuova strada e adesso siamo in attesa di ricevere la nuova proposta della Roma, ci mettiamo più che a disposizione“, ha concluso la sindaca, confermando che adesso la Roma pensa alla costruzione del nuovo stadio in un’altra area.
Guerra con i "botticellari". I provvedimenti adottati dalla giunta capitolina rischiano inoltre di raccogliere il malcontento dei “botticellari”. Lo scorso 5 luglio la Sindaca aveva firmato l’ordinanza che vietava la circolazione dei veicoli a trazione animale le cosiddette “botticelle” per tutti i mesi estivi fino al 30 settembre per tutelare la salute dei cavalli. Il provvedimento, però, il 9 luglio, è stato sospeso dal Tar, dopo il ricorso presentato dagli operatori del settore. Ma la battaglia del Campidoglio per la tutela dei cavalli romani continua. La Sindaca di Roma ignora i ricorsi dei vetturini al Tar del Lazio e al Consiglio di Stato e, con la nuova ordinanza del 27 luglio, blocca nuovamente le botticelle e tutti i veicoli trainati da equidi. A renderlo noto è l’Organizzazione internazionale protezione animali (Oipa), che sottolinea come il nuovo provvedimento preveda che i cavalli potranno circolare fino al 30 settembre soltanto dopo le 18 e solo se la temperatura rilevata dalla stazione meteo di Roma Urbe risulterà inferiore ai 26 gradi centigradi. Ma la misura non riguarda solo le botticelle: l’ordinanza vieta anche “ogni attività di trazione o trasporto con equidi”. Non è esclusa l’ipotesi che anche questa volta i vetturini ricorrano al Tar, ponendo a rischio la salute degli animali. Andrea Lagatta
Estratto dell'articolo di Sergio Rizzo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 agosto 2021. Il vento è cambiato, ripeteva Virginia Raggi all'indomani della strepitosa vittoria elettorale del 2016. E la sindaca di Roma, prima donna ad avere l'onore di ricoprire un incarico così importante, ne aveva tutte le ragioni. Mai un solo partito, il suo, aveva avuto tanti consensi, al punto da conquistare la maggioranza assoluta del consiglio comunale. Ventinove posti su quarantotto, con l'opposizione ridotta a un ruolo di comprimaria, e più depressa che agguerrita. Ma accadeva cinque anni fa. In tutto questo tempo il vento non ha smesso di soffiare, purtroppo per lei in direzione contraria. Il gruppo del Movimento 5 stelle si è via via assottigliato fino a ridursi a 19 consiglieri. Con il risultato che la giunta ora in minoranza non riesce a far passare più niente. L'ultimo fallimento, nell'ultima riunione ordinaria di questo consiglio, martedì scorso, è stato quello del riordino delle partecipate chiesto dalla Corte dei conti. Che pure presentava non pochi elementi di stravaganza, come la proposta di fondere le farmacie comunali (a proposito non dovevano essere vendute?) con la società Zetema che si occupa di mostre e iniziative culturali. Oltre un terzo dei consiglieri grillini ha mollato, e chiunque abbia una minima conoscenza delle dinamiche politiche sa che una proporzione del genere, sia pure in un sistema nevrastenico come il nostro, non si può considerare fisiologica. Bensì patologica.
Da “il Giornale” il 25 luglio 2021. Ennesima gaffe del Campidoglio a guida Virginia Raggi. L'ultima ieri: un cartello di lavori in corso avvisava i romani che via Agostino De Petris sarebbe rimasta chiusa. Esatto: non Depetris ma De, staccato Petris. Che non è nessuno. Non certo lo statista, otto volte presidente del Consiglio del regno d'Italia negli anni Settanta dell'Ottocento. Con i nomi il Comune di Roma non ci becca proprio. Solo in giugno comparve la targa commemorativa di Carlo Azeglio Ciampi con lo strafalcione: Carlo Azelio, senza «g». La storia dev' essere proprio uno scoglio per la Raggi. In una recente conferenza magnificò il Cupolone del Colosseo, mentre nel suo spot elettorale arrivò a mettere la foto dell'arena di Nimes al posto del Colosseo. Gaffes su gaffes: ma il suo mandato sta per scadere.
Daniele Autieri per “la Repubblica – ed. Roma” il 25 luglio 2021. La vita mondana di una certa borghesia romana - insegna Jep Gambardella, il protagonista della Grande Bellezza programmato non solo per essere il " re delle feste", ma per "farle fallire" - si consuma sulle terrazze. Quelle che la sindaca Virginia Raggi ha frequentato in questi giorni prima da festeggiata, quindi da madrina di una cena elettorale organizzata per la sua rielezione. Dopo la polemica sul party del Bernini Bristol, organizzato e pagato dal suo collaboratore Roberto Sorbello nell'hotel di proprietà di Bernabò Bocca, autorizzato ad un ampliamento della struttura proprio dall'assemblea capitolina il 21 aprile scorso, scoppia adesso un nuovo caso. Giovedì sera oltre cento sostenitori della Raggi hanno pagato 150 euro a persona per partecipare all'evento " Una cena per Virginia", con aperitivo di benvenuto e menu di quattro portate selezionato da uno chef stellato. Il tutto sulla terrazza dell'hotel The Hive in via Torino, con vista sui tetti del centro storico. Di fronte alla rappresentante della famiglia Chin, proprietaria della struttura, che sedeva al suo stesso tavolo, alle 23,40 la Raggi ha preso la parola terminando il suo discorso elettorale intorno alla mezzanotte. Quello che la prima cittadina ignorava (o forse semplicemente riteneva di poco conto) è che su quella terrazza è vietato tenere eventi all'aperto di notte, una decisione presa dallo stesso Comune di Roma al termine di una battaglia che ha visto coinvolti oltre 100 cittadini esasperati per i rumori e gli schiamazzi. Il 21 luglio del 2020 il dipartimento delle Attività Culturali del Campidoglio scrive al I gruppo Trevi dei vigili urbani a seguito delle segnalazioni di alcuni residenti. Nella lettera i tecnici del Campidoglio comunicano ai rappresentanti della polizia locale che « per l'hotel The Hive agli atti di questo dipartimento non risulta rilasciata alcuna autorizzazione». E ancora: « Al fine dell'eventuale adozione di provvedimenti sanzionatori, si chiede al gruppo di polizia locale di verificare e comunicare a questo ufficio se nel locale suddetto venga svolta, e con quali modalità, attività di pubblico spettacolo». Il 12 agosto è il dipartimento Tutela Ambiente a inviare un alert al Corpo di polizia locale, chiedendo di vigilare «sull'osservanza delle disposizioni contenute nella delibera che prescrive per le attività di somministrazione di cibi e bevande in cui venga effettuata diffusione musicale, che la stessa debba essere esercitata esclusivamente all'interno del locale con porte e finestre chiuse». Come confermano le testimonianze di molti residenti, raccolte da Repubblica in queste ore, gli interventi della Polizia locale sono stati tutt' altro che tempestivi e le attività all'aperto non si sono mai interrotte. «Addirittura - racconta un cittadino - una sera al termine dell'intervento degli agenti, la festa è ripresa senza problemi con tanto di fuochi d'artificio». Storie di ordinaria inciviltà cittadina che assumono un interesse speciale dal momento in cui a beneficiare della terrazza è la prima cittadina di Roma, la stessa che - attraverso i suoi uffici - ha chiesto alla polizia locale di vigilare e intervenire. Un'istituzione che non fa rispettare le norme da lei stessa varate è già un atto grave, ma un'istituzione che addirittura arriva a violarle è il colmo. Soprattutto durante un discorso elettorale in cui per 20 minuti vengono sciorinate le magnifiche gesta compiute negli ultimi quattro anni dalla sindaca e dalla sua amministrazione.
Giovanni Tizian per “Domani” il 23 luglio 2021. La festa di compleanno offerta alla sindaca di Roma Virginia Raggi da un consulente, suo fidato collaboratore, sta diventando un caso politico alla vigilia della campagna elettorale. Dopo l’articolo di Domani è intervenuto Carlo Calenda, in corsa per il Campidoglio alle prossime elezioni comunali, con un attacco durissimo: «Se avessi dato una festa, pagata da un consulente del Comune, in un hotel a 5 stelle di un imprenditore a cui è stata rilasciata (per fortuna) un’autorizzazione edilizia, sarei stato lapidato, Renzi direttamente arrestato, Berlusconi fucilato. I Cinquestelle, invece, si sono solo evoluti. Tanto». Dopo di lui Andrea Romano, deputato del partito democratico: «La sindaca Raggi chiarisca al più presto se c’è stato conflitto d’interessi sul suo fastoso party di compleanno. La storia è questa: un imprenditore ottiene dalla Sindaca di Roma il via libera all’ampliamento del proprio albergo. Pochi giorni dopo quello stesso imprenditore ospita in quello stesso albergo il fastoso party di compleanno della stessa Sindaca, “offerto” dal Capo del Cerimoniale della stessa Raggi (quello, per intenderci, ancora al suo posto dopo la targa sbagliata al Presidente Ciampi). Tutto regolare? Raggi chiarisca al più presto: Roma non merita l’affronto di quest’ultimo conflitto d’interessi in salsa 5Stelle». L’inchiesta del nostro giornale sulla festa per i 43 anni ha rivelato che a pagare l’evento è stato Roberto Sorbello, capo del cerimoniale del Campidoglio scelto e nominato da Raggi nel 2017, al centro delle polemiche di recente per il refuso (mancava una g) sulla targa dedicata all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La cifra donata dall’ex segretario del cerimoniale della Camera dei deputati si aggira tra i 5mila e i 6mila euro. «Un prezzo di mercato», hanno assicurato dalla struttura alberghiera. Sorbello, contatto prima dell’articolo, non aveva voluto dire la cifra esatta perché sarebbe stato un gesto inelegante nei confronti della sindaca che ha ricevuto il regalo. La versione ufficiale di Sorbello è che «un gruppo di amici ha voluto fare la sorpresa al sindaco, ciascuno di noi ha messo una quota ed essendo io il decano del gruppo ho voluto pagare con carta di credito nella massima trasparenza». Resta da capire perché Sorbello durante la prima telefonata con Domani non era stato così chiaro ed esplicito, «non è proprio così», ripeteva di continuo rispondendo alla nostra richiesta di replica sul pagamento della cena e sulla cifra spesa. Solo dopo un’oretta ha richiamato con le idee molto più chiare e con una versione che sembrava studiata con il Campidoglio. Al party sul terrazzo dell’hotel 5 stelle erano presenti tra gli altri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l’ex presidente del Consiglio e nuovo leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte. Pesi massimi del partito di Raggi che hanno dato un sapore di campagna elettorale alla serata conviviale con una cinquantina di invitati. La location scelta dal capo del cerimoniale per la «festa a sorpresa» (così l’hanno definita Sorbello e l’entourage di Raggi) è l’hotel di proprietà di Bernabò Bocca, che per la serata dal sapore di campagna elettorale, seppure non ufficialmente tale, ha incassato tra i 5 e i 6mila euro. La società titolare della struttura si chiama Sina Spa ed è la stessa che nel 2018 aveva presentato allo sportello unico per le attività ricettive del Comune di Roma l’istanza «finalizzata all’acquisizione dei pareti necessari per la realizzazione degli interventi di ristrutturazione edilizia relativi all’accorpamento della struttura ricettiva Bernini Bristol». Dopo un lungo iter, con qualche intoppo e pareri non sempre concordanti di tutti gli attori istituzionali coinvolti, il 21 aprile 2021 l’assemblea capitolina dichiara l’interesse pubblico dell’intervento proposto dalla società Sina Spa proprietario del Bernini e perciò dà il via libera all’ampliamento. Ventuno i voti favorevoli, tra questi la sindaca Raggi. Una settimana fa nelle sale dell’hotel benedetto dal comune di Roma Raggi è stata invitata per inaugurare i lavori. «La presenza della sindaca Raggi è la testimonianza dell’attenzione delle istituzioni verso il nostro settore», aveva detto il titolare Bocca il giorno in cui aveva annunciato l’approvazione della pratica urbanistica a favore della struttura che gli permetterà di avere una cinquantina di camere in più. Per questo la festa di Raggi nell’ albergo di lusso che ha ottenuto il via libera dal Comune, grazie al quale amplierà il business, è ritenuto da alcuni un conflitto di interessi evidente. Al contrario chi è vicino alla sindaca esclude qualsiasi tipo di conflitto, perché non c’è stato alcun favoritismo nei confronti della proprietà. Resta da capire il ruolo di Sorbello in tutta questa faccenda che sta creando più di qualche imbarazzo alla prima cittadina pronta a correre per il secondo mandato. Abbiamo fatto notare, per esempio, all’esperto capo del cerimoniale Sorbello che Raggi è un’amministratrice pubblica e che lui è soggetto, seppure collabori a titolo gratuito, al regolamento comunale che disciplina la condotta dei dipendenti, i quali non possono né ricevere né fare regali superiori a una certa soglia, indicata in 150 euro. «Non c’è alcun profilo di illegalità», replicano dal Campidoglio, «era una festa privata non era un evento elettorale». La tesi di fondo è che essendo una festa privata e non di raccolta fondi per la campagna elettorale ogni profilo di opacità scompare. E sia Sorbello sia la sindaca sarebbero esonerati dal dichiarare il regalo da 5 mila euro e più come donazione liberare alla politica. Al di là del codice penale o di norme sui finanziamenti c’è una questione di opportunità politica. L’opportunità, cioè, di presenziare a un party pagato da un collaboratore, che in questi anni è stato in ballo per ottenere altre nomine politiche con l’appoggio della giunta. E c’è un altro aspetto di non poco conto. Sorbello ha dichiarato a Domani che ha pagato lui ma la somma è stata messa assieme da un gruppo di amici, chi sono? Impossibile saperlo, «non è corretto rivelare i nomi», si è giustificato Sorbello. Come non torna, del resto, la versione della festa a sorpresa fornita dal capo del cerimoniale e dal Campidoglio. è lo stesso Sorbello a far scricchiolare questa tesi quando di fronte alla domanda come fosse stato possibile organizzare un evento all’insaputa di una sindaca che è soggetta a misure di protezione ha risposto: «Beh, certo, nei due giorni che hanno preceduto la serata al Bernini era un pò meno a sorpresa».
Giovanni Tizian per “Domani” - ARTICOLO DEL 22 LUGLIO 2021. Festa con conflitto di interessi. Inizia così la campagna elettorale di Virginia Raggi, che scalda i motori e, insieme al M5s, crede nel secondo mandato. Intanto si gode l'estate e il compleanno appena compiuto. Il party con una cinquantina di persone alla sindaca di Roma è stato gentilmente offerto da suo un fedelissimo collaboratore: Roberto Sorbello. La location scelta per festeggiare i 43 anni della prima cittadina è suggestiva e molto cara: la terrazza dell'hotel cinque stelle Bernini Bristol, in una delle zone più prestigiose di Roma, di proprietà dell'imprenditore, ex senatore di Forza Italia e presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, che solo una settimana fa, con al fianco la prima cittadina, aveva annunciato ai giornalisti giunti nell'hotel il via libera all'allargamento della struttura grazie al voto del consiglio comunale della capitale che autorizzava, dopo un iter durato anni e alcuni pareri non sempre favorevoli, l'ampliamento. Il fatto di festeggiare nella struttura dell'imprenditore che ha ottenuto una pratica edilizia favorevole ha fatto storcere il naso a molti. C'è chi sospetta che possa rappresentare un conflitto di interessi, chi parla di inopportunità. L'entourage della sindaca, invece, non vede alcun profilo di anomalia, anche perché il party in terrazza vista panoramica è stato pagato e non offerto. Presenti il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l'ex presidente del Consiglio e nuovo leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte, quasi a benedire l'assaggio della campagna elettorale che sarà. Non poteva mancare il presidente della Lazio Claudio Lotito. E poi l'attrice Nancy Brilli, un altro ex ministro come Alfonso Pecoraro Scanio. Il noto avvocato Pieremilio Sammarco, maestro di Raggi avvocata. C'era anche l'ambasciatore Pietro Sebastiani, e il prefetto di Roma Matteo Piantedosi. Paga Sorbello Di certo sappiamo che l'hotel di Bernabò Bocca ha incassato tra i 5 e i 6mila euro. «La presenza della sindaca Raggi è la testimonianza dell'attenzione delle istituzioni verso il nostro settore», aveva detto Bocca il giorno in cui aveva annunciato l'approvazione della pratica urbanistica a favore della struttura che gli permetterà di avere una cinquantina di camere in più. A offrire il party dei 43 anni a Raggi è stato Roberto Sorbello, di cui si sa pochissimo. Sconosciuto ai più, è stato nominato collaboratore diretto della sindaca nel marzo 2017 a titolo gratuito. È il capo del cerimoniale del Campidoglio, finito al centro delle polemiche di recente per il refuso (mancava una g) sulla targa dedicata all'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Una figuraccia che ha tenuto banco per giorni sui social network e che ha portato a sanzionare una dipendente dell'ufficio toponomastica. Identico ruolo Sorbello lo ha ricoperto per molto tempo alla Camera. La cifra sborsata dall'ex segretario del cerimoniale della Camera dei deputati, «molto legato all'ex presidente Pier Ferdinando Casini» sostengono fonti interne a Montecitorio, si aggira tra i 5mila e i 6mila euro. «Un prezzo di mercato», assicurano dalla struttura alberghiera. Sorbello non vuole dire la spesa esatta, «non sarebbe elegante dirle quanto ho speso visto che si tratta di un regalo di compleanno per Virginia Raggi», spiega a Domani, e fornisce la sua versione: «Un gruppo di amici ha voluto fare la sorpresa al sindaco, ciascuno di noi ha messo una quota ed essendo io il decano del gruppo ho voluto pagare con carta di credito nella massima trasparenza». Da quanto risulta a Domani una cena sulla terrazza del Bernini Bristol con 50 persone (tante quante erano la sera del compleanno di Raggi) varia da 65 a 90 euro per persona, a seconda del menù selezionato. E quindi si va dai 3 ai 4,5mila euro. Regalo elettorale? Facciamo notare a Sorbello che Raggi è un'amministratrice pubblica e che lui è soggetto, seppure collabori a titolo gratuito, al regolamento comunale che disciplina la condotta dei dipendenti, i quali non possono né ricevere né fare regali superiori a una certa soglia, indicata in 150 euro. «Non c'è alcun profilo di illegalità», replicano dal Campidoglio, «era una festa privata non era un evento elettorale». Secondo lo staff di Raggi perciò il fatto che fosse un party privato e non di raccolta fondi per la campagna delle comunali esonera la sindaca e chi ha fatto il regalo di compleanno da oltre 5mila euro a dichiarare tale versamento come contributo elettorale. Amici suoi Tutto regolare, dunque, per il Campidoglio. Di certo però resta bizzarro il comportamento del collaboratore di Raggi, in passato indicato come papabile per una nomina comunale nel consiglio di amministrazione dell'Auditorium di Roma e per una candidatura poi saltata. Alla prima telefonata ricevuta dal nostro giornale, Sorbello aveva molta fretta di riattaccare. Ha solo trovato il tempo di dirci che sul pagamento della cena «non è proprio così» come dicevamo. Salvo poi ricontattarci e fornirci la stessa versione dello staff della sindaca Raggi confermando il pagamento con carta di credito e aggiungendo il dettaglio del regalo collettivo. Sui nomi degli altri generosi pagatori Sorbello preferisce sorvolare per garantire la privacy. Sorbello, come ha ammesso lui stesso, conosce il proprietario del Bernini, l'imprenditore Bernabò Bocca, «l'ho incontrato molti anni fa e poi l'ho visto quando ha accolto la sindaca all'hotel», spiega il capo del cerimoniale del Campidoglio. Nessun rapporto particolare, assicura. «È stata solo una festa a sorpresa», ripete Sorbello. Resta un altro mistero in questa storia da estate elettorale romana. Sarà stato complicato organizzare un party a sorpresa mantenendo riservata la cosa vista la presenza del prefetto di Roma e dell'arrivo della sindaca, soggetta a misure di protezione: «Beh, certo, ma infatti nei due giorni precedenti era un po' meno a sorpresa», conclude Roberto Sorbello
Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per roma.repubblica.it. l'1 luglio 2021. Corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Con queste accuse la polizia e la Guardia di Finanza di Latina hanno arrestato il dirigente della Asl locale Claudio Rainone e il segretario provinciale del Pd, Claudio Moscardelli, coinvolti in un'inchiesta su presunti concorsi truccati. L'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari è stata disposta dal gip del Tribunale. Rainone, tra l'altro, era stato raggiunto da analoga misura cautelare lo scorso 21 maggio.
(ANSA l'1 luglio 2021) Corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Con queste accuse la polizia e la Guardia di Finanza di Latina hanno arrestato il dirigente della Asl locale Claudio Ramone e il segretario provinciale del Pd, Claudio Moscardelli, coinvolti in un'inchiesta su presunti concorsi truccati. L'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari è stata disposta dal gip del Tribunale. Ramone, tra l'altro, era stato raggiunto da analoga misura cautelare lo scorso 21 maggio. Le indagini delegate dalla Procura di Latina alla Sezione anticorruzione della Squadra Mobile e al Nucleo di Polizia Economico finanziaria della Guardia di Finanza si riferiscono in particolare alle irregolarità riscontrate nel concorso per 23 posti di collaboratore amministrativo professionale indetto da Asl di Frosinone, Latina e Viterbo. Già il 21 maggio scorso, in seguito alle prime indagini, venivano posti ai domiciliari Claudio Rainone e Mario Graziano Esposito, rispettivamente presidente e segretario della commissione per il concorso, con l'accusa di falso e rivelazione di segreto d'ufficio. In particolare emergeva che Rainone, nei giorni precedenti alla prova orale, rivelava gli argomenti che sarebbero stati oggetto di esame. Le indagini, inoltre, hanno consentito di identificare 6 concorrenti che hanno beneficiato delle 'soffiate' e per questo indagati a vario titolo per abuso d'ufficio e rivelazione di segreti d'ufficio. I nuovi approfondimenti investigativi hanno permesso di riscontare come due di questi candidati venivano segnalati da un politico locale, il quale con lo stesso dirigente dell'Asl di Latina s'impegnava, in cambio, a promuovere la sua promozione a direttore amministrativo dell'azienda sanitaria, incarico che in effetti ha rivestito quale facente funzioni dal dicembre 2020 ad Aprile 2021. Rainone, in veste di presidente della commissione, rivelava ai candidati gli argomenti che avrebbe proposto alla prova orale, nonché ritardava l'approvazione della graduatoria dello stesso concorso al fine di posticiparla rispetto alla sua nomina di direttore amministrativo, in modo tale da potere individuare lui stesso i luoghi di destinazione lavorativa dei neo assunti.
Il vizietto del Pd sui concorsi truccati: arrestato Moscardelli, segretario provinciale di Latina. Paolo Lami giovedì 1 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Claudio Moscardelli, segretario provinciale del Pd a Latina, e Claudio Rainone classe 1962, dirigente Asl di Latina, sono finiti agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte irregolarità riscontrate nella procedura concorsuale riguardante il concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura a tempo indeterminato di 23 posti di collaboratore amministrativo professionale cat. D, indetto in forma aggregata tra la Asl di Frosinone, Latina e Viterbo. A Moscardelli sono contestate le accuse di corruzione in concorso e istigazione alla rivelazione di segreti di ufficio. Ed è stato arrestato perché, per il giudice, esiste il pericolo di reiterazione reato e quello dell’inquinamento delle prove. Intercettati, Moscardelli e il presidente della Commissione parlavano, addirittura, di “nostro concorso”. Un atteggiamento spregiudicato che restituisce perfettamente qual’è il concetto di meritocrazia del Pd e il suo rispetto delle regole e delle istituzioni. Secondo i magistrati di Latina, le domande d’esame del concorso Asl venivano comunicate al telefono prima dell’orale. Secondo l’ordinanza, il giorno prima del concorso, Moscardelli inviò i numeri di 2 candidati al presidente. L’ordinanza del giudice di Latina che ha spedito agli arresti Moscardelli svela anche che l’episodio non è un fatto isolato ma fa parte di un metodo consolidato tant’è che il direttore del reclutamento della Asl, Rainone, ha gestito due concorsi in modo illecito. Ed anche per Rainone il giudice ipotizza il pericolo di reiterazione del reato e il rischio di inquinamento delle prove. Il 21 maggio scorso Rainone e Mario Grazieno Espositi, rispettivamente presidente e segretario della commissione per il concorso, erano stati arrestati e indagati per falso e rivelazione di segreto d’ufficio poiché era emerso che il dirigente Asl, nei giorni precedenti alla prova orale, aveva rivelato gli argomenti che sarebbero stati oggetto di esame. Successivamente gli investigatori delle Fiamme Gialle avevano identificato con certezza 6 concorrenti, che hanno beneficiato di quelle rivelazioni e che erano stati indagati a vario titolo per abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. I nuovi approfondimenti investigativi hanno ora permesso di riscontare come due di questi candidati venivano segnalati da Moscardelli, il quale con lo stesso dirigente dell’Asl di Latina s’impegnava, in cambio, a promuovere presso la Regione Lazio, la sua nomina a Direttore Amministrativo dell’Asl, incarico che in effetti Raimone ha rivestito quale facente funzioni dal mese di Dicembre 2020 al mese di Aprile 2021. In tale contesto, Rainone, in veste di presidente della commissione rivelava ai candidati gli argomenti che avrebbe proposto alla prova orale, nonché ritardava l’approvazione della graduatoria dello stesso concorso al fine di posticiparla rispetto alla sua nomina di Direttore Amministrativo, in modo tale da potere individuare lui stesso i luoghi di destinazione lavorativa dei neo assunti. Resta ora da capire il passaggio successivo: chi garantiva dentro alla Regione Lazio, guidata da Zingaretti, al segretario provinciale del Pd, la nomina di Rainone?
“Desidero ringraziare la Procura di Latina e le Forze dell’Ordine per la celerità delle indagini relative al concorso Asl – dice il consigliere regionale di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Trasparenza e Pubblicità della Regione Lazio, Chiara Colosimo. – Quanto emerso è senza dubbio sconcertante, soprattutto per l’uso spregiudicato delle Istituzioni. Insieme alle anomalie emerse sul concorso di Allumiere, sembra essere confermato non come un singolo caso, ma come una modalità ben strutturata e radicata sulla quale ci auguriamo sarà sempre la magistratura ad accertarne la reale consistenza. Da parte continueremo a vigilare e a denunciare le situazioni che ci appaiono poco chiare e trasparenti”. Preso in contropiede dalla imbarazzante faccenda, Letta ha cercato di metterci una pezza a colori nominando l’ex-viceministro degli Interni, ora deputato e responsabile Pd per l’Immigrazione, Matteo Mauri, commissario del Partito Democratico della provincia di Latina mentre la Commissione nazionale di garanzia del Pd sospendeva dal partito Claudio Moscardelli. Ma oramai la frittata è fatta.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 21 luglio 2021. Ma siamo sicuri che, a bombardare Roma, non siano stati i nazisti? O magari gli aragonesi in combutta con i cartaginesi? Lecito chiederselo dopo l'ennesima gaffe di Virginia Raggi, classico esempio di sindaco che amministra una città, senza conoscere alcunché sia della città che della sua storia. Due giorni fa, in occasione del 78° anniversario del bombardamento sulla Capitale, in particolare sul quartiere di San Lorenzo, la Raggi ha scritto in un tweet: «Roma è e sarà sempre antifascista. Ho deposto una corona per commemorare il 78° anniversario del bombardamento che nel 1943 colpì San Lorenzo e altri quartieri della città. Un evento drammatico che non dobbiamo dimenticare perché senza memoria non c'è futuro». Peccato sia stata lei la prima a dimenticarsi di un dettaglio non trascurabile: a bombardare Roma non furono mica i fascisti, ma gli americani. In molti glielo hanno ricordato su Twitter sbeffeggiandola: «Ma almeno leggiti Wikipedia!», «La Raggi gnaa fa proprio, eh», «Padroneggia la storia come l'attività amministrativa», «Pensa che ero fermamente convinto l'avessero bombardata gli Americani, che erano antifascisti». Il dramma è che, all'ignoranza, la Raggi associa l'accecamento ideologico (autoindotto, per compiacere i salotti buoni e il pensiero buonista), cosicché finisce per vedere il mostro fascista dovunque, anche dove non c'è. Del resto non è la prima volta che il sindaco, insieme al suo staff, scambia fischi per fiaschi e vede cose che voi romani neanche immaginate... perché non esistono. In un video promozionale della Ryder Cup di golf a Roma, pubblicato sul profilo Facebook della Raggi, i collaboratori del sindaco non si accorsero che, al posto del Colosseo, c'era l'Arena di Nîmes, che dalla Capitale dista qualcosa come mille chilometri...Quando non lo scambia con altri anfiteatri, la Raggi confonde il Colosseo con la Basilica di San Pietro, robba da ggniente, come direbbero a Roma. Presentando qualche giorno fa un altro torneo di golf, l'Open d'Italia, ha detto testualmente: «Dal green dell'Open si può ammirare, guardando bene, anche la cupola del Colosseo, uno scenario davvero eccezionale e straordinario». Già, la Cupola del Colosseo. E noi che pensavamo fosse un anfiteatro a cielo aperto. Se a volte la Raggi aggiunge cupole, altre volte toglie consonanti. Risale a un mese e mezzo fa la scena imbarazzante del sindaco impossibilitato a inaugurare davanti al presidente Mattarella la targa dedicata a Carlo Azeglio Ciampi, perché al nome Azeglio mancava una «g»: si era accorciato in «Azelio». Peggio del buco era solo la toppa: dal Cerimoniale del Campidoglio facevano sapere che la targa non era stata scoperta perché «seriamente danneggiata». Non era vero, l'unico danno era l'offesa alla memoria di Ciampi. Il vizio di voler cambiare la storia, forse perché consapevole che alla storia lei non passerà mai se non come peggior sindaco, la Raggi non l'ha mai perso. Già a inizio giugno era incappata in un primo errore sul bombardamento di Roma, sbagliando la data: «Ho incontrato a Porta San Paolo», aveva scrit Il bombardamento di Roma durante la Seconda guerra mondiale avvenne il 19 luglio del 1943, ad opera di bombardieri statunitensi delle forze aeree alleate del Mediterraneo. L'attacco fu sferrato la mattina: la città subì pesanti danni materiali e numerose perdite umane. San Lorenzo fu senza dubbio il quartiere più colpito dai bombardieri americani. Le 4.000 bombe (circa 1.060 tonnellate complessive) sganciate sulla città provocarono circa 3.000 morti e 11.000 feriti, di cui 1.500 morti e 4.000 feriti per l'appunto nel solo quartiere di San Lorenzo to in un tweet, «il partigiano Mario Di Maio, testimone del bombardamento di San Lorenzo avvenuto il 19 maggio del 1943». Ma che maggio, era luglio... Lo scorso anno si era invece sbarazzata senza fare un plissé di Romolo e Remo: aveva modificato il tradizionale appuntamento dell'Estate Romana, sostituendolo con il nome bruttissimo Romarama e adottando come logo, in modo inspiegabile, al posto della lupa una gatta rosa. Con questi presupposti la Raggi probabilmente si candida alla più sonora sconfitta elettorale di un sindaco uscente. Ma, al contempo, vista la sua padronanza in storia e geografia, si propone seriamente al ruolo di leader dei 5 Stelle: dovrà solo fare un corso accelerato, per apprendere da Gigino Di Maio che la Russia si affaccia sul Mediterraneo e che Pinochet fu il dittatore del Venezuela, da Manlio Di Stefano che gli abitanti del Libano si chiamano libici e da Alessandro Di Battista che Napoleone vinse nella celebre battaglia di Auschwitz. Naturalmente combattendo contro i fascisti.
Dagospia il 25 giugno 2021. Da "Belve". Protagonisti della nuova puntata di Belve - condotto da Francesca Fagnani, in onda questa sera (venerdì 25 giugno), alle 22.55 su Rai2 - sono il sindaco di Roma Virginia Raggi e l’ex premier Matteo Renzi. Virginia Raggi: dopo il processo sono diventata meno manichea, ho chiesto scusa a Marino e ci sentiamo e confrontiamo su molti temi. I colpi bassi dal movimento. Della Lombardi non me ne frega nulla…I colpi bassi li ha ricevuti più dall’esterno del Movimento o più dall’interno? chiede Francesca Fagnani a Virginia Raggi, ospite di Belve. “Devo rispondere per forza?”. Sia sincera. “Dico equamente”. Con Roberta Lombardi c’è un’inimicizia storica, incalza Fagnani. “Acqua passata”, replica raggi. Acqua passata? Siete amiche? “No, acqua passata nel senso che non me ne frega niente. A me, figuriamoci agli altri. Non me ne importa nulla”. Una telefonata di Roberta Lombardi non le è arrivata nemmeno quando il processo a suo carico si è concluso positivamente per lei. Che valutazione le dà? “Nessuna, nessuna proprio”. Però Lombardi è una voce importante, una che rispetto alla sua ricandidatura a Roma ha detto: per me la Raggi non è una vincente. “È la sua opinione...”, chiude caustica Virginia Raggi. Poi Fagnani ricorda a Raggi quando, nel 2015, portò le arance in Campidoglio per dileggiare l’allora sindaco di Roma investito da un’inchiesta giudiziaria. Lei è stata rinviata a giudizio però è finita bene. Ha ripensato a quando voi chiamavate la presunzione di innocenza la “presunzione di indecenza”? “Beh, non è un caso che io abbia chiesto scusa a Ignazio Marino per la vicenda delle arance. Sicuramente prima ero molto più manichea, ma a un certo punto mi sono resa conto che i processi si celebrano nelle aule giudiziarie”. Ha chiesto scusa personalmente a Marino, lo ha chiamato? “Sì, adesso ci sentiamo…”. C’è un buon rapporto? “Sì, assolutamente”. La consiglia ogni tanto? “Beh, sicuramente ci confrontiamo su una serie di temi”. Questo è un grande ripensamento. “Questo è uno scoop!”, commenta ridendo Virginia Raggi. Poi a Francesca Fagnani il sindaco Raggi confessa di non avere “Piani B” in caso di mancata rielezione a sindaco, ricorda i momenti più duri al Campidoglio, parla delle buche di Roma, dei consigli di Maurizio Costanzo e liste civiche a suo sostegno già pronte, svela alcuni dettagli segreti del rapporto politico con Beppe Grillo, critica apertamente il Codice degli appalti, che un tempo rappresentava un totem per il moVimento 5 Stelle. Davanti alla conduttrice di Belve la sindaca non si risparmia nemmeno sugli aspetti privati della sua vita. Ricorda il titolo del quotidiano Libero sulla “Patata bollente”, le gratuite allusioni sessuali su di lei (“Non ho nemmeno il tempo per avere tutti questi amanti”) e rivendica i 27 anni trascorsi accanto al marito, con il quale è tornato a stare dopo una crisi. Indomabili, ambiziose, sempre all’attacco e mai gregarie, alle 22.55 i protagonisti di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e debolezze delle protagoniste. Feroci e fragili, al tempo stesso.
Giada Oricchio per iltempo.it il 27 giugno 2021. Se Virginia Raggi fosse una belva, sarebbe “la lupa simbolo di Roma e capobranco dei miei cuccioli che sono i cittadini di Roma”. Inizia in maniera soft l’intervista one-to-one con la padrona di casa Francesca Fagnani e si capisce subito che la sindaca, ricandidatasi per il secondo mandato, ha un’aria diversa: è rilassata, sta meno sulla difensiva, non è imbalsamata e non dà la solita sensazione di essere distesa su un letto di chiodi da fachiro. Un diktat del suo nuovo consulente alla comunicazione Maurizio Costanzo: “Mi ha consigliato di essere più me stessa, più la Virginia persona e in questo ha ragione. Risulto molto fredda nelle interviste perché sono sempre in modalità kombat, in realtà sono una persona tranquilla e disponibile”. Virginia Raggi ritiene di non aver fatto male nei primi 5 anni di amministrazione di Roma: “I cinghiali sono un tema italiano. Sono arrivati anche a Formello il cui sindaco è leghista e in Liguria. Se ne devono occupare le Regioni (come la spazzatura, nda). Noi sindaci chiediamo che vengano sterilizzati. Ho subito tanti attacchi in questi anni. La targa sbagliata, la foto dell’Arena anziché del Colosseo...era sempre colpa mia, sono cresciuta a pane e mazzate e ho fatto la corazza. Ho ricevuto colpi bassi dentro e fuori dal Movimento in maniera uguale. Non le faccio i nomi, tanto gli amici che hanno tradito lo sanno perfettamente. Però non ho mai pensato di mollare, non ho mai pensato "non ce la faccio, basta", ma ho pensato spesso "caspita, è difficile, ce la farò?". La sindaca ammette che non ripeterebbe il gesto delle arance per il suo predecessore Marino (“adesso ci confrontiamo su un sacco di temi”) e che “se avessi avuto soldi, avrei fatto di più. Mi sono ritrovata tanti debiti”. Quando la Fagnani le domanda delle buche che tappezzano la Capitale, la prima cittadina di Roma commette uno scivolone imperdonabile: “Eh sì, la discussione dei miei avversari si è incentrata sulle buche, tema di alta caratura politica” e la conduttrice la gela: “Beh ma c’è gente che c’è morta, io non scherzerei tanto...non mi sembra il caso, non è argomento secondario. Buche, autobus in fiamme, il caos per la pioggia intensa e anche la vicenda dei parenti che non hanno potuto seppellire i cari”. Imbarazzo e borbottio per il passo falso. Meglio parlare d’altro, ad esempio del titolo del quotidiano Libero “patata bollente”: “Siamo in causa, con Feltri ci vedremo la prossima settimana in tribunale. All’inizio sono stata male, mi attribuivano relazioni con tutti gli uomini che passavano per il Campidoglio e io pensavo "non ho nemmeno il tempo per avere tutti questi amanti"...marito sto scherzando! E’ stata dura”.
Articolo del “Washington Post” dalla rassegna stampa di “Epr Comunicazione” il 30 settembre 2021. In un affollato parcheggio di un negozio di alimentari vicino a Roma, un branco di cinghiali si è messo alle calcagna di una donna che trasportava borse piene di cibo dal negozio alla sua auto. Gli ungulati hanno morso le buste della spesa mentre la donna si muoveva tra i veicoli, cercando di seminare i suoi inseguitori. Alla fine, è fuggita lasciando cadere la spesa e guardando come quattro cinghiali adulti e diversi cuccioli piombavano sul cibo, scodinzolando mentre divoravano il pasto. L'incidente, immortalato in un video postato su Facebook a maggio, mostra solo una vittima delle orde di cinghiali che sono scesi nella regione che circonda la capitale d'Italia negli ultimi mesi. I cinghiali hanno rovistato nell'immondizia, hanno trotterellato negli ingorghi e infastidito gli scolari. Le bestie si sono anche infiltrate nella politica locale a Roma, dove i candidati in una prossima corsa a sindaco si sono scambiati la colpa per l'infestazione di cinghiali durante la campagna – riporta il Washington Post. Più di 5.000 cinghiali vivono a Roma e dintorni, ha riferito l'Associated Press. Gli animali spesso restano nei parchi della città, dove rimangono nascosti tra gli alberi e gli arbusti. Ma i cumuli di spazzatura non raccolta, un problema che affligge la città da anni, li ha recentemente attirati nelle strade di Roma. Allo stesso tempo, la popolazione di cinghiali è cresciuta rapidamente negli ultimi anni, e i suini sono stati avvistati avventurarsi nel territorio umano più spesso. Nel 2019, il governo locale del Lazio, una regione che comprende Roma e la sua campagna circostante, ha autorizzato un programma per intrappolare i cinghiali in gabbie allestite nei parchi cittadini, ha riferito l'AP. I funzionari hanno anche suggerito di abbattere almeno 1.000 cinghiali ogni anno per mantenere la popolazione sotto controllo. I cinghiali camminano impavidi tra le auto bloccate nel traffico e implorano persino gli avanzi delle famiglie riunite nei cortili delle scuole. Ma distruggono anche i raccolti in campagna e spargono spazzatura per le strade della città. I cinghiali sono stati anche conosciuti per attaccare e persino uccidere le persone. I cugini selvatici del maiale domestico hanno persino fatto irruzione nella politica locale. Il primo settembre, la sindaca di Roma Virginia Raggi ha citato in giudizio il governo regionale del Lazio per i suoi presunti fallimenti nel controllare l'esplosione della popolazione degli animali, che ha portato a quella che lei ha chiamato "un'invasione di cinghiali" nella capitale. In risposta, i funzionari del Lazio hanno accusato la gestione di Roma della Raggi di aver attirato le bestie in città. Ma la frustrazione dei romani per i bestioni non sempre prevale sulla loro empatia. L'anno scorso, la Raggi ha ordinato un'inchiesta ufficiale sul massacro di una mamma e dei suoi sei cuccioli dopo che la polizia aveva sparato agli animali nel cortile di una scuola lo scorso ottobre. Genitori e bambini avevano dato da mangiare alla famiglia di cinghiali all'inizio della giornata, e gli animalisti hanno protestato per l'uccisione degli ungulati. "Era una madre con i suoi piccoli, questo è terribile", ha detto l'anno scorso al New York Times Andrea Brutti, il funzionario capo per la fauna selvatica presso l'Ente Nazionale Italiano per la Protezione degli Animali. Mentre la Raggi, che è stata eletta nel 2016, si prepara per un'elezione questo fine settimana che determinerà se rimarrà in carica per un secondo mandato, i suoi avversari hanno usato il caos dei cinghiali per attaccarla. Roberto Gualtieri, che corre contro la Raggi, ha suggerito che il problema dei cinghiali è colpa del sindaco e ha chiamato la sua causa "uno scherzo", ha riportato Reuters. Un altro politico italiano la scorsa settimana ha preso in giro la Raggi, chiamandola "zoologa" e incolpandola della fauna selvatica che ha infastidito i residenti della capitale. "Cinghiali selvatici, ratti grandi come labrador, gabbiani assassini", ha detto Giorgia Meloni, leader del partito nazional-conservatore Fratelli d'Italia, mercoledì scorso, ha riportato Reuters. "Abbiamo visto tutto".
Vittorio Feltri smonta le balle di Virginia Raggi: "Roma? Una Ferrari pilotata dai cinghiali". Libero Quotidiano il 21 settembre 2021. Esiste un contenzioso tra Libero e la sindaca Raggi perché alcuni anni orsono un nostro articolo su di lei eletta di recente fu titolato così: "patata bollente", che in altri termini, i dizionari della nostra lingua sostengono trattasi di questione scottante. Non è quindi una espressione offensiva. Ma a parte questo dettaglio giudiziario, personalmente non penso che la prima cittadina romana sia peggiore di chi l'ha preceduta a capo del Campidoglio. Ha fatto quello che poteva, poco ma tutto quello che era lecito aspettarsi da lei, date le condizioni della capitale. Oggi, sorprendentemente ella dichiara: ho ricostruito Roma, trasformandola in una Ferrari, la macchina italiana più forte. Una affermazione impegnativa della quale è difficile trovare riscontro nella realtà. Infatti la splendida Città eterna paragonata alla formidabile vettura forse è pilotata dai cinghiali e dai gabbiani, i soli che diano una zampa alla cara Raggi a contenere la montagna di rifiuti che assedia l'Urbe. Nessun altro essere vivente si impegna a combattere contro la monnezza dilagante che soffoca vari quartieri. Il porcus singularis (definizione latina) è dunque una risorsa e la Raggi che giustamente la sfrutta quale squadra di spazzini efficienti, e non inclini a scioperare, dovrebbe apprezzarli e non combatterli quasi fossero nemici. Essi arrivano nei centri abitati che hanno bisogno di loro per essere ripuliti. Sono animali nervosetti solo quando si rendono conto che la loro prole è minacciata dall'uomo, per il resto sono docili e non costituiscono un pericolo per i cristiani che li rispettano. Cara madame sindaco il mio è un consiglio amichevole, si tenga buoni i cinghiali di cui ci si può fidare maggiormente che dei grillini e del Pd, il quale Pd amministra la regione ma non si è mai occupato del pattume scaricando ogni responsabilità su di lei, innocente. Non agisca come il cacciatore di Alessandria che imprudentemente ha sparato a un mammifero selvatico dei suidi, il quale essendo sopravvissuto al proiettile si è incavolato e ha fatto secco con una carica perfetta colui che ha premuto il grilletto. Mi dia retta, Virginia.
Cinghiali a Roma, Vittorio Feltri: "Perché Virginia Raggi non deve combatterli". Libero Quotidiano il 21 settembre 2021. La variante cinghiali sulla campagna elettorale a Roma. A pochi giorni dal voto, la sindaca Virginia Raggi potrebbe aver trovato il più insospettabile degli alleati politici. Ne è convinto Vittorio Feltri, che su Twitter commenta a modo suo, con irriverenza e sarcasmo, le notizie degli avvistamenti sempre più frequenti di facoceri in giro per la Capitale. Dopo l'aggressione subita da Massimo Lopez la scorsa settimana, a essere sorpresi da un branco di cinghiali sono stati i cittadini dei quartieri Trionfale e Camiluccia, zona semi-centrale, residenziale e vip-chic dell'Urbe. Diversi i casi: le bestie selvatiche sono state viste in via Igea, in via dei Giornalisti, in piazza Walter Rossi e addirittura in piazza della Balduina. L'ultimo avvistamento, come detto, tra via Trionfale e via Taverna, a pochi passi da via Torrevecchia. Una famiglia di cinghiali razzolava come fosse a casa propria, incurante dei passanti visibilmente terrorizzati. Il video pubblicato da Leggo.it è diventato subito virale, a testimonianza del degrado in cui versa la città amministrata dal Movimento 5 Stelle. Ma secondo Feltri, proprio i cinghiali potrebbero essere un aiuto inatteso per la sindaca uscente Raggi, ricandidata ma con poche speranze di arrivare perfino al ballottaggio. "Non deve combattere contro i cinghiali", spiega il fondatore di Libero su Twitter, perché paradossalmente "sono i suoi migliori collaboratori nella lotta ai rifiuti", altra piaga che affligge Roma e che secondo molti è il vero tallone d'Achille dell'amministrazione grillina. Vuoi vedere che l'assist casca a fagiolo?
Roma, passanti aggrediti e terrore per i cinghiali? Virginia Raggi, l'ultima vergogna: come "spiega" questa foto. Libero Quotidiano il 21 settembre 2021. Invasa dai cinghiali. Video di passanti terrorizzati dai branchi di bestie, attirati dai rifiuti. Roma è nel caos: monnezza e cinghiali, un binomio assurdo e che sta facendo parlare in tutto il mondo. Le ultime sconcertante immagini soltanto poche ore fa: una famigliola di bestiole che invadono la carreggiata (qui sotto il link), spaventando i passanti. E ancora, testimonianze di persone terrorizzate dalle stesse bestie quando portano il cane a passeggio la sera. E Virginia Raggi che fa? Accusa la regione. Sconcertante, ma vero. La sindachessa M5s, interpellata da Rtl, afferma: "Abbiamo oggettivamente una Regione che non ha lavorato". E ancora: "Siccome Roma è immersa e circondata da grandissimi parchi naturali e aree agricole, evidentemente se non si controlla la popolazione animale, che si continua a moltiplicare, sono sempre più frequenti le invasioni nelle aree urbanizzate. C'è una denuncia che ho presentato alla Regione Lazio", ha fatto sapere scaricando tutte le responsabilità, dunque, su Nicola Zingaretti. Insomma, l'invasione degli ungulati non sarebbe responsabilità sua, nonostante le continue segnalazioni, comprese quelle dei vip, da Claudia Gerini a Massimo Lopez, quest'ultimo inseguito da un cinghiale attratto dal sacchetto dell'immondizia che stava andando a depositare nei cassonetti, che non vengono svuotati. Ma la Raggi, come detto, non molla: "Sulla questione rifiuti ciascuno deve fare la sua parte", ha tuonato a Non Stop News. E ancora: "In Lombardia ci sono 30 impianti, tra inceneritori e discariche per smaltire la spazzatura. Nella regione Lazio ce ne sono solo due, di cui uno sta per chiudere. Un terzo l'ho aperto io con un provvedimento sostituendomi al presidente della Regione Lazio che non lo apriva". Per la Raggi, dunque, mancano le discariche. Certo, non si può negare. Ma possibile che la colpa non sia nemmeno in minima parte sua? Difficile, quasi impossibile.
Da Roma a Torino, sempre più cinghiali in città: ogni 48 ore un incidente stradale. Gli animalisti: «Gli abbattimenti non sono la soluzione». La Stampa il 21 Settembre 2021. Assolutamente urbanizzati, per niente spaventati non solo dagli uomini ma neanche dal traffico sostenuto di Roma. L'ultimo video virale tutto capitolino dei cinghiali, ormai quasi consuetudine in certi quartieri di Roma, ritrae una numerosa famigliola, almeno dieci cuccioli con mamma e papà, scorazzare in via Trionfale ai lati della carreggiata mentre passano auto e pedoni. Non è inconsueto per chi abita nella zona nord della città, Balduina, Cassia e appunto Trionfale, imbattersi nei cinghiali. Questa volta la scena, avvenuta verso le 17 di ieri, colpisce perchè la famiglia di cinghiali passeggia tra auto e pedoni. Qualche giorno fa una scena analoga era capitato nel cuore di Monte Mario dove genitori e alunni in attesa della campanella per entrare a scuola si sono ritrovati faccia a faccia con una decina di ungulati a spasso per via della Tenuta di Sant’Agata. Quattro grossi esemplari con al seguito alcuni cuccioli, tutti a loro pieno agio fra i clacson degli automobilisti nervosi e bambini e genitori con zaini in spalla e trolley alla mano. E se questa situazione si ripete sempre più spesso, ma in periodo elettorale entra al centro delle attenzioni dei duellanti politici che condividono i video della “passeggiata familiare”: «Via Trionfale, nel cuore di Roma… . Una famiglia di cinghiali passeggia tranquillamente tra le auto e le persone. Questa sarebbe la “continuità che la Raggi vorrebbe per la Capitale d'Italia?» scrive su Twitter Salvini. Messaggio molto simile quello di Calenda: «Non pensate sia arrivato il momento di sedervi a un tavolo e affrontare la questione?». Nei giorni scorsi Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, aveva bacchettato Raggi: «Roma è invasa dai rifiuti. Fra cinghiali e topi Raggi invece del sindaco ha fatto lo zoologo, può fare il direttore del Bioparco». Da parte sua la sindaca Raggi punta il dito verso Nicola Zingaretti sottolineando come la gestione degli ungolati sia a carica regionale: «Sulla questione cinghiali c'è una denuncia che ho fatto alla Regione Lazio, ma abbiamo una Regione che non ha lavorato su questo fronte. Se non si controlla la popolazione animale, che si moltiplica, saranno sempre più frequenti le invasioni. Sono stati anche gli stessi agricoltori a protestare». La Regione Lazio ricorda «ancora una volta che la responsabilità degli animali che si trovano fuori dai parchi è in capo ai comuni. Spetta dunque agli amministratori locali intervenire per contenere la presenza degli animali sulle strade e sul territorio cittadino al fine di salvaguardare la sicurezza della comunità». Per la Regione, inoltre, «negli ultimi anni la continua presenza di rifiuti nell'area urbana di Roma è certamente un fattore che ha favorito la presenza della specie, offrendo le risorse trofiche necessarie per riprodursi con maggiore efficacia».
Un problema non solo romano. Ma la questione di cinghiali in città è un fatto noto da tempo e non interessa solo la Capitale: con l'emergenza Covid si è registrato un aumento del 15% di cinghiali, con una stima di 2,3 milioni di unità in Italia. Una situazione, stima la Coldiretti, che porta a un incidente, dovuto a questi animali, ogni 48 ore con 16 vittime e 215 feriti registrati durante l'anno della pandemia. E poi ci sono i danni ai raccolti, con perdite per milioni di euro. In Piemonte si stimano circa 20mila esemplari, e le presenze in città come Torino non mancano, sia per le strade collinari che in quelle urbane. Sono almeno novemila in dieci anni gli assalti dei cinghiali in Lombardia che hanno devastato le campagne e provocato incidenti stradali. È quanto stima la Coldiretti lombarda sulla base dei dati regionali.
Anche la Liguria si sente assediata: sarebbero quasi 40 mila i cinghiali sul territorio regionale secondo le Confederazione Italiana Agricoltori. «Numeri improponibili ed insostenibili per l'agricoltura e per le aree interne. Non si parla ormai di rinaturalizzazione, ma di allevamento monospecie. Quando mai in Liguria abbiamo avuto una presenza di selvatici così intensa? A questi aggiungiamo daini e caprioli e il quadro è completo» denuncia Aldo Alberto, presidente di Cia Liguria che sottolinea la preoccupazione per la presenza di animali selvatici in aree rurali con conseguenze per le attività agricole.
In Toscana, a Gaiole in Chianti, nel Senese, nei giorni scorsi un branco di cinghiali ha devastato i giardini del parco giochi e della scuola in pieno centro città. E' quanto accaduto a distanza di due giorni con due diverse incursioni del branco. «Una situazione insostenibile non solo per il decoro urbano ma soprattutto per la sicurezza dei cittadini che sono esasperati e impauriti» spiega in una nota il sindaco Michele Pescini che ha scritto alla Regione Toscana chiedendo «che venga autorizzato un intervento tempestivo». «Non possiamo temporeggiare su questa vera e propria emergenza che potrebbe creare situazioni di pericolo per l'incolumità stessa delle persone, pertanto confidiamo nella pronta risposta della Regione».
Un problema che arriva anche sull’isola d’Elba dove le associazioni e aziende hanno chiesto in una lettera aperta un tavolo urgente con le istituzioni per risolvere il problema della proliferazione di questi animali che «negli ultimi 24 anni sono stati prelevati o abbattuti in 26.000 esemplari, oltre 1.000 all'anno. Ciò nonostante, la situazione è sempre andata peggiorando: una permanente condizione di danno che, periodicamente, assume le dimensioni di emergenza». Il comitato nato da associazioni e aziende ha prodotto uno studio in cui si evidenzia che ci sarebbe un'unica possibilità per risolvere una volta per tutte il problema, portare cioè a zero la presenza degli ungulati sull'isola.
Gli animalisti: l’abbattimento e la caccia non risolvono il problema. E l’elenco potrebbe andare avanti passando per le diverse regioni d’Italia, cambiano i numeri, ma la posizione è sempre la stessa: i cinghiali sono troppi, bisogna abbatterli. Una posizione/soluzione che non convince gli animalisti: «Da sempre la gestione delle popolazioni di animali selvatici, compresi i cinghiali, è affidata ai cacciatori e al piombo dei loro fucili. E da sempre i danni all’agricoltura imputati ai cinghiali sono in continua crescita, sebbene oramai dal 2005 possano essere cacciati 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno – sostiene la Lav (Lega Anti Vivisezione) – . Dopo più di quindici anni di caccia illimitata al cinghiale dovrebbe essere chiaro che il metodo venatorio è un fallimento sotto ogni aspetto, primo responsabile dell’incremento numerico dei cinghiali sul territorio ma questa evidenza sfugge alle amministrazioni regionali e nazionali che, sotto la pressione degli agricoltori, continuano a sostenere l’incremento della caccia senza alcuna analisi degli effetti da questa prodotti».
Due cinghiali a Torino: avvistati a passeggio vicino alla Gran Madre. I due ungulati in via Villa della Regina filmati dai passanti. Redazione online del Il Corriere della Sera il 21 settembre 2021. Torino come Roma. Due cinghiali sono stati avvistati e filmati da alcuni passanti nei pressi della Gran Madre, in via Villa della Regina, intorno alle 20 e 45. Scena a cui i romani sono abituati da tempo (sui social passa più di un video al giorno), i torinesi un po’ meno, anche se l’affaire cinghiali è decisamente avvertito nel resto della regione, con le proteste continue degli agricoltori. Proprio ieri, lunedì 20, un cacciatore è stato ucciso da un cinghiale. In quel caso però in un bosco dell’alessandrino, durante una battuta di caccia, e non sui luoghi della movida subalpina.
Roma, l'ufficio parallelo che annullava le multe ai vip: spunta anche la principessa. Tutti i nomi coinvolti. Libero Quotidiano il 15 giugno 2021. Si è risolto in un nulla di fatto lo scandalo ribattezzato "multopoli", un'inchiesta su oltre 132mila multe cancellate in maniera sospetta a Roma. Ma procediamo con ordine. Tutto è partito dalla denuncia di una funzionaria, Emma Coli, che qualche tempo fa aveva raccontato come tra i corridoi del dipartimento risorse economiche del Campidoglio migliaia di sanzioni venissero catalogate illegalmente come “improcedibili”. Secondo i pm esisteva una sorta di "ufficio parallelo, cioè un canale alternativo illecito, per gestire i discarichi in via clientelare". Negli atti dell'inchiesta viene chiamato in causa anche il presidente della Lazio: "La maggior parte dei beneficiari degli illeciti discarichi erano persone riconducibili ai gruppi imprenditoriali della famiglia Colaneri, in rapporti commerciali con il Pelusi, ed al signor Claudio Lotito". Tra le multe annullate in maniera “sospetta” - come riporta Repubblica - comparivano anche quelle fatte alla principessa Caterina Torlonia, all’imprenditore Ciampini e anche a Riccardo Brugia, il pregiudicato a servizio di Massimo Carminati. Nomi noti, insomma, che avevano contribuito ad alimentare il clamore mediatico nato intorno alla faccenda. Adesso però è arrivata l'assoluzione, perché le accuse mosse dai pm contabili non sarebbero supportate da elementi concreti. Il tribunale della Corte dei conti ha assolto Pasquale Pelusi e altri tre funzionari comunali indagati per aver fatto scomparire sanzioni per oltre 17 milioni di euro. E adesso sarà lo Stato a dover risarcire agli imputati circa 50 mila euro di spese sostenute durante il giudizio.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2021. Un bimbo di Crema si schiaccia due dita nella porta dell'asilo e viene indagata la sindaca Bonaldi. Dopo aver intercettato il bambino in pericolo con il suo sguardo laser, la novella Catwoman doveva balzare dal municipio all' asilo per fermare la porta prima che si chiudesse Hanno un po' ragione i sindaci a essere esasperati: stanno diventando come Malaussène, l'impiegato dei romanzi di Pennac, pagato (e pure poco, in rapporto alle rogne) per fare da capro espiatorio alle lamentele universali. Ci sono però faccende che spettano davvero ai sindaci, per esempio la messa in sicurezza delle strade. Ieri su Roma si è abbattuto l'ennesimo acquazzone caraibico. Corso Francia si è trasformato in un affluente del Tevere, mentre le piazze diventavano ridenti laghetti con automobili alla deriva e cassonetti stracolmi di immondizia che sguazzavano al posto delle anatre. Immagini che non mi azzarderò a definire da Terzo Mondo perché l'ultima volta che l'ho fatto mi scrisse l'ambasciatore di un Paese in via di sviluppo per dirmi che a casa sua quelle cose non succedevano più da tempo. Sarà pure vero, come sostiene il marito della sindaca Raggi, che imputarle 80 millimetri di pioggia furente è da sottosviluppati culturali, ma quando gli stessi millimetri cadevano cinque anni fa, l'allora candidata sindaca Raggi faceva la spiritosa sui social: «Domani piove, gonfiate i gommoni». E nei cinque anni successivi, oltre a non gonfiare i gommoni, non ha nemmeno pulito i tombini.
Maria Rosaria Spadaccino per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 10 giugno 2021. Ce lo dovevamo aspettare. La natura spinta fuori dalla porta rientra brutalmente dalla finestra e si vendica. Così nei posti più urbanizzati si assistono a scene «selvagge», come gli ormai familiari cinghiali che razzolano tra i rifiuti, i gabbiani che dilaniano colombi, i topi che saltano sui tavolini dei dehors e, peggio, tra i banconi di prodotti alimentari. Nutrie che nuotano tra ponte Sisto e ponte Sant' Angelo, mentre sull' argine tra ponte Testaccio e ponte Sublicio saltellano conigli (ma come ci sono finiti?), inseguiti da gatti randagi che non osano più sfidare topi oltre misura. Per non parlare del gregge di pecore che pascola sotto Ponte Marconi e ogni tanto, brucando, brucando decide di risalire fino al lungotevere Gassman attraversando la ciclabile, invadendo il marciapiede di lungotevere Pietrapapa. Con loro ogni tanto anche qualche capra fa una passeggiata nel traffico. «Stavo pedalando velocemente e mi sono trovato davanti capre e pecore - racconta Dino Pieri, residente nel quartiere - le ho scansate con difficoltà». I rettili (sedici le specie classificate in città), dobbiamo dirlo, sono più rispettosi e stanno al posto loro, anche se sulla ciclabile della Magliana conviene indossare calzettoni alti e protettivi sotto i pantaloni della tuta. E se vedete un essere strisciante a villa Ada, a villa Pamphilj è solo un biacco: un serpente innocuo, anzi utile visto che si ciba di topi e ratti. Lui conviene lasciarlo in pace. Non possiamo più lasciare in pace però (e non per colpa loro) gli ungulati sempre più assidui nelle nostre strade. La signora derubata della spesa nel centro commerciale di Formello e la passeggiata degli animali tra le tombe a Prima Porta sono solo gli ultimi episodi di «uno scherzo» della natura che sta diventando un problema. «Dobbiamo pensare che un animale in realtà non fa altro che fare una valutazione dei costi e dei benefici, tutta la sua esistenza è imperniata sul fatto che questa valutazione sia fatta e aggiornata: in città c' è da mangiare, sì; l' uomo dà fastidio, nient' affatto; c' è possibilità di rifugiarsi, sì; ci sono spazi: ci vado», spiega Francesco Petretti, presidente della Fondazione Bioparco - Roma è una città che ha un rapporto con il territorio agroforestale ancora molto forte perché è comune agricolo con dei cunei verdi rappresentati da parchi e ville che entrano fino al cuore della città. Prenderei la presenza della fauna selvatica come un fatto che in fondo questa città è una città verde, sta a noi fare in modo che questa loro presenza non diventi così invadente da crearci nocumento». Quindi da una parte c'è la sicurezza dei cittadini che devono poter uscire a passeggiare con il loro cane in tranquillità; dall' altra c' è la protezione della vita del cinghiale disciplinata da leggi e protocolli vari, sia regionali che comunali. Uno di questi, sottoscritto nel settembre del 2019 tra Regione, Comune e Città Metropolitana è stato variamente interpretato. Trasformandosi in una sorta di «scaricabarile» e non ha risolto il problema. E se da una parte c'è l'assenza d'intervento degli enti preposti, dall' altra ci sono anche i comportamenti malsani dei cittadini. A viale Trastevere un macellaio, a metà pomeriggio, era uso cibare i gabbiani cospargendo di carne i cassonetti dell'immondizia. Cosa accadesse al tramonto non si può raccontare.
Susanna Turco per "l'Espresso" il 14 giugno 2021. All' ombra della cupola dedicata a Don Bosco, la chiesa dove i Casamonica celebrarono il funerale show del boss Vittorio nell' agosto 2015, con la banda che suonava il Padrino e i petali di rosa dal cielo, Said, una quarantina d' anni, a Roma da quindici, in ottimo italiano, davanti alla pausa caffè al mercato Calisse spara, non richiesto, la sua scommessa, al barista de La dolce vita che lo guarda basito perché di politica non si interessa proprio: «Al cento per cento vince Calenda, sicuro. Raggi non la vuole nessuno, dopo quello che ha combinato. Posso scommetterci». Fine della storia, per lui non esiste nessun altro in campo: Roberto Gualtieri, dice, non si sa chi è (Enrico Michetti, il nome del centrodestra, è nemmeno evocato). Calenda, c' è da dire, ha appena finito qui il suo giro elettorale, con il consueto mini assembramento di gente che chiede cose, lascia biglietti da visita, regala semi, fogli con proclami, tisane ayurvediche, per risalire sul furgoncino blu foderato con la sua fotografia. Eppure Said restituisce l'immagine stralunata di una campagna elettorale quasi incredibile, ma simbolica, per lo stato dell' arte del centrosinistra, non solo a Roma, dove al momento il predestinato alla vittoria delle primarie, l'ex ministro Roberto Gualtieri, è una specie di stimato e timido burocrate che parla al massimo di «stazioni appaltanti» e «città policentrica», dove il Pd non si è mai liberato davvero delle scorie accumulate in questi anni, vive ancora nell'umidità di vicende come la caduta di Ignazio Marino (meccanismi che tende anzi a replicare, come vedremo) ed è sempre più lontano, preda di palpiti suoi, bilancini, correnti, inseguimenti col fantasma come quello dell' alleanza coi Cinque Stelle; una campagna elettorale dove l'unico che pare (se non altro per tattica) accanirsi a contendere il posto della sindaca è il mai quieto ex ministro, ex (eletto col) Pd al Parlamento europeo, che ora non partecipa alle primarie, ma capeggia un partito (Azione) che nei sondaggi non arriva al 4 per cento. Carlo Calenda, appunto. Il più longevo candidato alla carica di sindaco che la storia recente ricordi, dopo averci girato attorno a lungo (se ne parlava quando ancora stava seduto al Mise e litigava con la sindaca Raggi): quando a ottobre si voterà, l'ex capo dello Sviluppo economico avrà compiuto un anno di campagna elettorale, essendo sceso in campo, con fiuto eccezionale, giusto un attimo prima dell'inizio della seconda ondata del Covid-19. Questi otto mesi, oltre a litigare al tavolo del centrosinistra, Calenda li ha spesi fra l' altro in minuzioso censimento (27 gruppi di lavoro) dello stato dell' arte dei 15 Municipi di Roma: uno studio abbastanza sopra la media che ha fatto da base per il programma, è consultabile sul suo sito ed è per certi versi la disconferma del velleitarismo di cui da sinistra lo accusano. Se non altro, dà l'idea di essersi posto il problema di presentarsi come uno che conosca la città, con lo stesso ossessivo iperattivismo col quale, adesso che è in campagna elettorale, sta girando come una trottola per la città (oltrechè in tv), in carne ed ossa o in manifesto stile Batman agèe. Per strada, alle fermate metro, ma sopratutto sugli autobus, dove l'altro giorno la sua effigie ha già fatto la stessa fine dei mezzi pubblici: è andata ossia a fuoco. «Diciamo che i politici so' tutti particolarmente agitati, in questa fase: Calenda, che a sta cosa di Roma ci gira intorno da un po', me pare preparato, dà l'idea di sapere dove mette' le mani, se non altro», sintetizza Alfredo, dietro la sua storica edicola in piazza Scotti, a Monteverde Nuovo. È anche per questa via che Calenda (come era del resto nel programma) sta conquistando una parte dell'elettorato dem: la disperazione. Non è un caso che in mondi da sempre attorno al Pd comincino a spuntare segnali, se non altro, di ascolto, rispetto a una opzione che, se sul piano generale rappresenta una specie di prosecuzione del renzismo con altri mezzi (voto moderato, modello Draghi, eccetera), sul piano degli equilibri della città, dove Calenda in questi anni è stato presente al punto da fare anche lo scrutatore, alle ultime primarie per il segretario, nel 2019, finisce a fare da specchio per tanti delusi dem, anche magari senza trasformarsi in sostegno esplicito. «Roma, sul serio», ha ad esempio scritto, citando lo spot del leader di Azione, in un post su Facebook Paolo Masini, che lavorò con Walter Veltroni, è stato assessore di Ignazio Marino, ha organizzato migliaia di iniziative tra cui (con Achille Passoni) la manifestazione del Pd al Circo Massimo, nell' ottobre 2008. Un segno fra tanti di come la situazione si stia facendo bizzarra. Tale da disorientare persino un posto abituato a tutto come Roma, dove è normale che un forte acquazzone trasformi le strade in affluenti nel Gange, dove da anni gli autobus vanno a fuoco a un ritmo tale da fare statistica (7 in cinque mesi, 80 nel triennio, media in miglioramento), dove il ritorno alla vita post pandemia ha dato alla città un' ulteriore patina di tipo messicano che si aggiunge all' aria ripiegata e arresa che l' avvolge da tempo. E dalla quale quasi nessuno intende scuoterla. A farla semplice, si potrebbe dire infatti che sembra di essere al secondo tempo del film «c' è un complotto per far vincere a Roma i Cinque Stelle» (come disse nel 2016 Paola Taverna), salvo che stavolta per i romani, come giustamente ebbe a dire un anno fa Nicola Zingaretti, la ricandidatura di Raggi «non è una notizia: è una minaccia», ma dove tuttavia il candidato del Pd, o meglio del centrosinistra, incarna intere le ambivalenze di un fronte che non si capisce se non vuol vincere o non può. Se non può vincere o se non vuole. In parallelo alla campagna elettorale di Calenda, c' è infatti la campagna del parlamentare dem che è predestinato a vincere le primarie, in una procedura che non ha davvero nulla di competitivo, rappresenta più che altro una celebrazione, lineare, delle scelte operate dal partito (come testimonia, fra l' altro, il pronto ritiro di Monica Cirinnà): Roberto Gualtieri, ex ministro dell' Economia, storico, chitarrista appassionato di bossanova, intento in giri per la città con il piglio carnale e sognatore che chiarì a Mezz' ora in più: «Andrò a stringere mani? Beh io sono una persona schiva, mi piace il dialogo». E così, con l' occhio vagamente terrorizzato sopra la mascherina, soprattutto quando dopo il discorsetto si passa alla fase del dibattito, Gualtieri va facendo il giro tra la gente, come l'altro giorno al municipio Terzo, quello guidato da Giovanni Caudo. Preceduto da altoparlanti e microfoni (benedetta organizzazione di partito), tappe davanti al centro anziani, alla fermata della metro, alla panchina arcobaleno: il Pd citato praticamente mai, continui riferimenti a «l' intervista rilasciata al Corriere della Sera sui mancati investimenti di Roma». Perché Gualtieri non dice «Raggi»: dice Roma («Roma in questi anni non ha speso i soldi che aveva», «Roma non progetta», «Roma non investe»), in discorsi dove un addetto alla comunicazione si metterebbe le mani nei capelli (per parlare delle funivie parla di «sistemi a fune») e dove, a fronte di una domanda sulla corruzione, la risposta è una inedita difesa dei «burocrati sui quali si scaricano le colpe». Tutto da copione, insomma, tutto organizzato. Sempre le stesse facce a seguirlo, nelle varie tappe, come una festa itinerante. Sempre le stesse facce a sostenerlo. Il coordinatore della campagna è Mario Ciarla, già segretario dei Ds, il principale sponsor è Claudio Mancini, deputato e notabile del Pd laziale, definito da taluni come «l' uomo che decide il prossimo sindaco di Roma« (è anche, insieme con Goffredo Bettini e il segretario regionale Bruno Astorre, uno dei tre citati da Calenda come responsabili dell' immobilismo romano). Risultato. Sotto a un cielo plumbeo, davanti alla fermata metro Jonio, un passante si ferma incuriosito ad ascoltare il comizio di Gualtieri: «Ma questo chi è?», domanda. «E quello del Pd che je piacerebbe diventare sindaco di Roma», lo informa una signora con le perle. «Sì, je piacerebbe», le risponde quello, andandosene dopo qualche minuto. Ecco, il clima è questo. «Pòrogualtieri», è uno dei soprannomi che gli si trovano affibbiati sui Facebook, da elettori dem. Molto ha disamorato, del resto, la modalità di gestione del Pd, dove tutto fa tappo a tutto, e registrare scatti naturali in avanti è difficile. A tutti i livelli, secondo una linea però comune: la scarsa connessione coi territori. Che in questo tempo viene testimoniata e e capovolta o dalla denuncia della morsa asfissiante delle correnti, come ha fatto Nicola Irto in Calabria, oppure dagli exploit di candidati non scelti dal partito - che però di certe istanze e di certi territori sono magari interpreti migliori. Se a Torino ha fatto notizia il candidato della sinistra dem Enzo Lavolta, che ha raccolto 10 mila firme in pochi giorni, contro le 500 di soli iscritti presentate secondo il regolamento dal candidato scelto dal Pd Stefano Lo Russo (il partito in città conta 1300 iscritti) a Roma questo fenomeno, calmierato a livello di pretendenti al Campidoglio, si è prodotto nei municipi. Nel XIII, ad esempio, in una manciata di giorni la candidata civica Arianna Ugolini ha raccolto 1.020 firme, poche meno delle 1200 del Pd ufficiale per Sabrina Giuseppetti. Exploit ai quali corrisponde, comunque, una vita difficilissima. Perché poi, il candidato scelto dall' alto prevale. Ne sa qualcosa Emiliano Monteverde, assessore alle politiche sociali del primo municipio (uno dei due vinti dal Pd nel 2018), la cui candidatura alla presidenza come successore di Sabrina Alfonsi era considerata lo sbocco naturale e il riconoscimento di anni di apprezzato lavoro: Monteverde aveva già raccolto le firme necessarie quando, a 48 ore dalla scadenza per la presentazione delle candidature, il Pd ha paracadutato Lorenza Bonaccorsi, sottosegretaria alla Cultura nel governo Conte due, ex consigliera regionale con Nicola Zingaretti. Monteverde si è ritirato in buon ordine, per non spaccare il partito: dal giorno in cui l' ha annunciato, la sua pagina Facebook è inondata di commenti del mondo dem, anche di eletti come l' assessora al III Municipio Claudia Pratelli, indignati per la mossa. Non si contano quelli che giurano di non votare più il Pd. C' è chi già annuncia scheda bianca. C' è chi nota come questa sia peggio «della storia del notaio», quando nel 2015 gli eletti del Pd sfiduciarono il sindaco Ignazio Marino appunto davanti al notaio. E la campagna elettorale di Carlo Calenda, intanto, continua.
Fabio Rossi per "il Messaggero" il 17 giugno 2021. Sospeso per trenta giorni dal Pd per aver criticato Goffredo Bettini, con un post su Facebook. La disavventura è capitata a Enrico Sabri, giovane segretario dem nel Municipio XIV, che lo scorso 4 maggio aveva commentato una affermazione del fondatore del Partito democratico secondo il quale era «indispensabile» una alleanza con il M5S nelle grandi città. «Penso sia una delle pochissime volte che utilizzo il mio incarico qui, dove secondo me non è proprio - ha scritto sul social - Ma te lo devo proprio dire da segretario municipale del Pd di Roma, arrogandomi il diritto di parlare anche a nome dei poveri compagni delle altre città. Goffredo Bettini, mi hai un pochino scocciato». In realtà le ultime parole sono state modificate: nella prima versione il linguaggio era meno diplomatico. In base a questo post è stata attivata la commissione cittadina di garanzia del Pd che ha comminato la sanzione. Una decisione contro la quale Sabri ha già annunciato ricorso presso la commissione regionale, intravedendo nel provvedimento profili «procedurali» ma anche «di opportunità e di merito» a cui appellarsi per far prima sospendere e poi eventualmente revocare la decisione dell'organo di partito. Sabri, militante dem della Balduina, fa parte di Reds, la rete dei democratici e dei socialisti guidata da Dario Corallo, che si era candidato alla segreteria nazionale del partito nel 2019, al congresso vinto da Nicola Zingaretti. «Forse, invece che soffocare il dissenso e la critica, il partito dovrebbe imparare ad ascoltarlo altrimenti continueremo a perdere senza che quei geni dei nostri dirigenti abbiano capito il perché - commenta Corallo - Un partito di ciechi che fanno a sassate». Mentre impazza, «il dibattito sui candidati delle amministrative, a Roma accade una cosa curiosa - aggiunge Corallo - Accade che un segretario municipale (nonché caro amico), Enrico Sabri, scrive un post qui su Facebook dove dice che Goffredo Bettini ha scocciato, con le sue continue strategie e tattiche volte solo a nascondere il vuoto politico che rappresenta. Insomma, dice una cosa che molti pensano (o pensavano fino a che Zingaretti non è diventato segretario)». Nel partito sono in tanti a esprimere solidarietà al segretario del Municipio XIV. Compresa Claudia Daconto, responsabile comunicazione del Pd Roma: «Sono stata io a sollecitare pubblicamente Enrico Sabri a moderare i toni di un suo post di alcune settimane fa contro un dirigente nazionale del Partito democratico - commenta Daconto - La sua sospensione da parte della commissione di garanzia è una scelta che rispetto ma che considero sproporzionata. Mi auguro pertanto che si riunisca al più presto, anche entro le Primarie del 20 giugno, per deliberare il reintegro di Enrico nel pieno delle sue funzioni».
Lorenzo De Cicco per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. Il primo confronto tra i candidati del centrosinistra alle primarie (superflue) di domenica prossima va in scena nello scantinato di un palazzo occupato nel cuore di Roma, non lontano dalla stazione Termini: lo Spin Time, in mano agli antagonisti dalla fine del 2012. Oltre 16mila metri quadri, per due terzi condominio illegale, per il resto discoteca abusiva, con tanto di rave che tengono sveglio fino all' alba chi abita nei paraggi. Un business da oltre 250mila euro l'anno - calcoli pre-Covid - tra pigioni imposte sotto banco agli occupanti, il ristorante senza permessi, le feste illegali con alcolici spacciati perfino ai minorenni. Tutto al nero. Un «modello» a sentire alcuni candidati che hanno sfilato all' adunata di ieri pomeriggio. Di fatto, il primo dibattito in vista delle consultazioni tra i militanti di domenica, che ratificheranno la candidatura di Roberto Gualtieri a sindaco di Roma. Proprio l'ex ministro dell'Economia sembra il più imbarazzato quando mette piede nel sottoscala trasformato in auditorium. «Perché partire proprio in uno stabile occupato? È capitato... - risponde al cronista - Siamo stati invitati. Ma ne parlerò meglio durante l'intervento». E in effetti nei dieci minuti conclusivi, dopo un'ora di comizi sul palco da parte di leader e leaderini degli abusivi, Gualtieri prova a barcamenarsi tra i due opposti, le occupazioni e la legalità. «Sulla casa - dice - penso abbiamo il dovere di realizzare un patto per il diritto all' abitare e la legalità». Poi, strizzando l'occhio ad Andrea Alzetta detto Tarzan, ex consigliere comunale antagonista, promotore di svariate okkupazioni tra cui questa, afferma che «la vostra esperienza ce lo insegna, bisogna avere capacità di guardare al tema dell'abitare nel suo complesso» e arriva a sostenere, Gualtieri, che «c' è differenza tra un'occupazione che porta un'esperienza sociale e le occupazioni criminali». In ogni caso, chiosa l'ex ministro, il Pd è schierato contro il «piano sgomberi» voluto dall' ex prefetto di Roma, piano peraltro già formato lumaca, con gli interventi per liberare gli immobili spalmati in 7 anni e per giunta congelato dal blocco degli sfratti. «Noi crediamo nel modello casa-per-casa», è convinto Gualtieri.
Non è l'unico a mostrare un po' d' impaccio, allo Spin Time.
«Il primo dibattito in un palazzo occupato? Che dire...», risponde laconico Tobia Zevi. Il civico Paolo Ciani dice che «la legalità è un tema, ma dobbiamo essere presenti in ogni luogo dove ci invitano, diciamo comunque che la prima occupazione qui era più dura, dobbiamo trovare un equilibrio».
Altri candidati addirittura esaltano l'occupazione. Imma Battaglia, ex consigliera di Sel con Marino (che rimpiange, tanto che dal palco attacca il Pd che andò dal notaio), dice in premessa: «Stare qui mi restituisce il senso del mio impegno in politica». Cristina Grancio, ex grillina folgorata dai socialisti, si spella le mani quando qualcuno rievoca il cardinale Krajewski, l'elemosiniere del Papa che nel 2019 riattaccò la luce ai morosi.
«Non esiste l’immobile, esiste il cittadino», proclama. A meno che l'immobile non sia occupato, a quanto pare.
Giovanni Caudo, il controverso ex assessore di Marino, oggi presidente del III Municipio, celebra gli illegali: «Spin Time è lo spazio pubblico per eccellenza». Stesso mood per l'altro candidato della sinistra, Stefano Fassina. Alzetta si gode la sfilata Pd, lo vede come «un riconoscimento. Questo è un posto occupato e illegale - ammette candidamente - ma c' è la bellezza».
LE REAZIONI Com' era inevitabile, lo scivolone dem ha attirato gli attacchi del centrodestra. A partire da Giorgia Meloni: «Un palazzo occupato, sede di bivacco e di illegalità, diventa il luogo di confronto tra i candidati del centrosinistra - attacca la leader di FdI - Una vicenda sconcertante che lascia increduli. Mi chiedo con quale coraggio certe forze politiche che si candidano a governare la Capitale d' Italia possano erigere a simbolo chi fa dell'illegalità la propria bandiera».
Marco Pasqua per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. «Un luogo non sicuro», in cui vengono portate avanti «attività illegali». E' contenuto in una Pec il warning della Investire Sgr inviato, ieri mattina, a Prefettura, Comune, al commissariato di zona e al Pd, appresa la notizia del contestato dibattito per le primarie. Una mail ufficiale, partita per mettere in guardia chi aveva organizzato quell' incontro ma, soprattutto, chi vi avrebbe partecipato che lo stabile occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme è un posto dove non vengono rispettate le più basilari norme di sicurezza. Non solo, quindi, quelle relativa alla presenza di un adeguato numero di uscite di emergenza, che sono state sigillate (per impedire eventuali blitz da parte delle forze dell'ordine), ma anche quello sul numero degli estintori e sulla capienza dei luoghi. Per non parlare degli alloggi abusivi, con decine di bombole del gas usate dagli occupanti per cucinare e nei mesi invernali per riscaldare gli ambienti.
UNA ZONA FRANCA Una Pec inviata anche per evitare che la responsabilità di eventuali incidenti ricada sulla proprietà. Del resto, è dall' ottobre del 2012, che la Investire Sgr segnala a più riprese alle autorità quanto quel palazzo sia ormai diventato una zona franca, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, tra festini e attività di ristorazione abusiva. E dove, tanto per citare un caso, si continua a rubare l'energia elettrica dopo che, nel maggio 2019, l'elemosiniere del Papa ha rotto i sigilli apposti al contatore mentre gli occupanti pagano, ogni mese, un affitto ad un comitato che decide chi può e chi non può dormire tra quelle mura. Non solo. Da otto anni, la Investire, che per conto del Fondo Immobili Pubblici gestiva, prima dell'occupazione del 2012, la vendita dello stabile, deve continuare a pagare Imu e Tasi: da allora, secondo quanto si apprende, ha speso quasi un milione e mezzo di euro. Oltre al danno, la beffa. Come quando i vigili hanno inviato alla proprietà una lettera, in cui la invitavano a risolvere il problema dei clochard che dormivano nel porticato attiguo e, quindi, a tutelare il decoro. Complessivamente, sono almeno cinque gli esposti presentati alla Procura dalla Investire, sempre per chiedere uno sgombero di uno stabile che sarebbe dovuto diventare un hotel: se la trattativa, con un grande gruppo, fosse andata in porto, nel 2012, quel palazzo avrebbe dato lavoro ad oltre 150 famiglie. Oggi, ci vivono circa 400 persone - tanti immigrati ma anche diversi pregiudicati - sotto la guida di Andrea Alzetta, ovvero Tarzan, e di Paolo Perrini. Uno stabile di 8 piani complessivi, e due interrati, per quasi 17mila metri quadrati: il valore di mercato è stimato intorno ai 50 milioni di euro.
DUE DECESSI Nel corso degli anni, qui vengono registrati due fatti drammatici: nel gennaio del 2015, un nigeriano viene trovato morto (l'autopsia chiarirà che si è trattato di un decesso per cause naturali); l'anno dopo, a marzo, un marocchino si toglie la vita. Difficile controllare le attività illegali che avvengono nello stabile, nonostante le lamentele dei residenti, soprattutto in occasione delle feste abusive che vi vengono organizzate.
Mario Ajello per "il Messaggero" il 17 giugno 2021. Carlo Calenda, che impressione le ha fatto vedere il Pd che porta i suoi candidati sindaci di Roma in un palazzo occupato e celebra in quel luogo di illegalità le sue primarie?
«La trovo una cosa indegna. In questa città su 75.000 alloggi popolari, tra Ater e Comune, 12.500 sono occupati abusivamente. E' il 16 per cento. Una cifra mostruosa e intollerabile. C' è un problema gigantesco nella gestione dell'edilizia popolare e il Pd, e Gualtieri personalmente, sdoganano lo sconcio delle case occupate dicendo che le occupazioni per fini sociali sono positive. E' una posizione gravissima. E' la dimostrazione di una mancanza di senso della legalità inaccettabile per chi si candida a fare il sindaco di Roma. Un partito che aspira a governare questa città tifando per chi occupa abusivamente alcuni pezzi urbani fa un danno civile di proporzioni inaudite».
Si tratta di una deriva di estrema sinistra, o semplicemente demagogica, che trova la sua spinta dall' alto, fin dai vertici del partito guidato da Enrico Letta?
«Non so se è direttamente Letta a guidare questa linea, oppure se è la cultura diffusa di una parte della sinistra che civetta con l'illegalità, come nel caso di San Lorenzo: un quartiere diventato invivibile per i residenti. Vengono travestiti da iniziativa sociale gli abusi e gli arbitrii. E aggiungo questo: a Roma sistematicamente le liste di attesa per le case popolari vengono saltate e c' è il racket che gestisce interi palazzi. Gualtieri forse la prossima volta, invece di andare con 20 persone nel teatro di Tor Bella Monaca, dovrebbe farsi un giro nei palazzi di quel quartiere, alcuni dei quali sono nelle mani delle cosche malavitose».
Ma il Pd non deriva da un partito legge e ordine quale fu il Pci, che tra Stato e Br scelse meritoriamente il primo?
«Il problema è che il Pd ha perso la sua attenzione verso le persone più fragili. E quando dice mi vanno bene le occupazioni, non capisce che c' è gente che soffre le occupazioni. Mi sembra che quel partito non sia più in sintonia con quel pezzo maggioritario di cittadinanza che vorrebbe un'amministrazione normale e un presidio dello Stato e delle autorità locali costante e rigoroso. Del resto, tutta la campagna elettorale di Gualtieri è fatta all' insegna delle battaglie ideologiche. Sì alle occupazioni, no al termovalorizzatore di cui tutte le grandi città sono dotate per chiudere il ciclo dei rifiuti. E ancora: no ad Ama in Acea per costruire una multiutility moderna che esiste ovunque. Al momento non vedo a sinistra, e neppure a destra, alcuna idea concreta per gestire i problemi di Roma».
Il Pd è contrario al progetto sgomberi del prefetto. E lei?
«Io sono favorevole. E penso che la gestione separata tra Comune e Regione delle case popolari non può funzionare. Bisogna accorpare la gestione degli immobili in un unico ente. Levando dal Cda i politici trombati e interessati soltanto a politiche clientelari».
Se il prossimo sindaco sarà di sinistra, dunque Roma diventerà il paradiso delle occupazioni?
«Mi sembra evidente. Vedo troppa tolleranza verso l'illegalità delle occupazioni e la pessima qualità delle aziende municipalizzate. Del resto, la classe dirigente che sta dietro a Gualtieri, ma anche dietro a Michetti, è quella che ha paralizzato Roma in questi decenni».
C' è una scoria di anti-capitalismo novecentesco alla base della difesa delle occupazioni e del delirio benecomunista del tutto è di tutti?
«C' è un atteggiamento che considera il decoro urbano, nel suo complesso, come una politica di destra. Penso a interi quartieri ricoperti di scritte sui muri. Le lasciano lì per demagogia, infischiandosi che il degrado, la sporcizia e l'abbandono rendono la vita dei cittadini ancora più complicata. Di questa mancanza di rispetto per le persone non se ne può più».
Ma a proposito di sgomberi, il suo piano che cosa prevede?
«Il ripristino, ovunque, della legalità. E' in atto una sanatoria della Regione che prevede una regolarizzazione, se salda la morosità, di chi è all' interno di una casa da prima del 2014. Il principio sarebbe anche corretto. Se non fosse che in questa sanatoria si stanno infilando tutti, chi è residente da pochi mesi, chi ha la tripla casa. Quando sarò eletto sindaco, chiederò alla Regione la reale sussistenza dei requisiti».
Lei che sulle primarie romane è sempre stato criticissimo comunque non avrebbe mai pensato di vederle associate addirittura all' illegalità e al rifiuto del diritto di proprietà?
«Sono primarie nate per sancire una decisione già presa dall' alto. Non hanno neanche consentito un confronto pubblico tra candidati. Le correnti sono al lavoro in tutti i municipi così come i Caf per i voti elettronici. Sono davvero contento di esserne restato fuori».
Primarie di Roma, Mentana smaschera la farsa del Pd: “Sulla scheda fac-simile c’è solo Gualtieri”. Lucio Meo domenica 20 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. “Grande esempio di democrazia”, “successo enorme”, “hanno già votato in tanti”. Per sublimare il trionfo delle Primarie del centrosinistra a Roma, create ad hoc per sancire la designazione di Roberto Gualtieri come candidato a sindaco, sono scesi in campo, già dalle prime ore della mattinata, i vertici del Pd, Letta in testa, che teme per la sua poltrona. Peccato che il tutto, come capita quando c’è di mezzo la “macchina da guerra” del Pd, si sia trasformato molto rapidamente in una barzelletta. Alle accuse di strane anomalie nelle file e nelle conte si aggiunge la surreale vicenda delle schede realizzate dal Pd. Sul fac simile c’è solo il nome di Gualtieri: una caduta di stile incredibile, come se agli elettori del Pd dovesse essere preclusa perfino la possibilità di conoscere gli altri nomi, casomai avessero deciso di cambiare idea… Sulle primarie del Pd a Roma, “ci arrivano segnalazioni da alcuni seggi di leggerezze nei controlli dei documenti o addirittura di palesi violazioni. #primarie20giugno”, si legge nell’account Twitter del comitato di Giovanni Caudo, uno dei candidati alle primarie del centrosinistra a Roma. In tutto sono sette gli aspiranti candidati sindaco, tra liste civiche e partitiche: Imma Battaglia, Giovanni Caudo, Paolo Ciani, Stefano Fassina, Cristina Grancio, Roberto Gualtieri, Tobia Zevi. Militanti, iscritti e simpatizzanti potranno esprimere la propria preferenza recandosi ai gazebo disseminati sui territori municipali fino a stasera, domenica, alle 22: a votare sarà l’elettorato con un’età superiore ai 16 anni munito di carta di identità, tessera elettorale e un contributo di due euro. Possono votare anche i cittadini stranieri residenti. L’esito della consultazione tra gli elettori Dem sul destino del candidato sindaco di coalizione alle prossime Elezioni Comunali in autunno è scontato, vincerà Roberto Gualitieri e si griderà allo straordinario successo delle Primarie, ma ieri si è scoperto sulla scheda fac-simile e l’appello al voto lanciato dal Partito Democratico di Roma c’era solo il nome di Roberto Gualtieri. «Sono primarie aperte a tutto il Centrosinistra: possono votare le elettrici e gli elettori insieme agli stranieri residenti e ai minori che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età. Partecipa alle primarie, vota Roberto Gualtieri». Peccato che sulla scheda si sia solo il nome di Gualitieri, con la X sbarrata. Una scheda che ha scatenato l’ironia di Enrico Mentana: “Una sfida appassionante, anche se i nomi degli avversari mi sembrano molto scoloriti. Boomerang”. Qualcuno gli replica: “Ma il Pd non ha diritto a indicare il suo candidato?”. E Mentana: “Ma non costava nulla scrivere anche i nomi degli avversari…”. Indubbiamente.
Gualtieri e altri mille: portatori di voti e padroni di correnti, chi c’è dietro il candidato del Pd a Roma. L’ex ministro ha un profilo autorevole per fare il sindaco della Capitale, ma è assai debole politicamente, così si è consegnato ai dem di Roma, una sorta di partito indipendente, e al gruppo di Alessandro Onorato (ex Marchini), mentre il non amico Zingaretti vigila e i consiglieri regionali pretendono posti in giunta. Carlo Tecce su L'Espresso il 27 settembre 2021. Roberto Gualtieri, già parlamentare europeo e ministro del Tesoro, è il candidato del Pd a sindaco di Roma. Non è facile essere Roberto Gualtieri e sorbirsi opinioni, pareri, giudizi, accordi, lezioni, bilancini, spartizioni, tatticismi, imposizioni e poi sentirsi ancora Roberto Gualtieri. Più che il candidato a sindaco di Roma di una coalizione di centrosinistra con la targa un pochino camuffata del Pd, lo storico, già dalemiano, gramsciano, chitarrista Gualtieri è il candidato a sindaco di un patto di sindacato fra azionisti diversi, politici che si detestano, correnti che si mescolano. E l’unico modo per sopravvivere è non essere più sé stessi, ma essere un po’ di ciascuno. Il capolavoro l’ha fatto con la lista civica Gualtieri che porta il suo nome e il suo volto. Il padrone - per il bon ton di Lina Sotis sarebbe più adatto “animatore” o “fautore” - di questo contenitore elettorale si chiama Alessandro Onorato, quarantenne imprenditore, una dozzina di anni da consigliere di opposizione, cresciuto con i miti di Walter Veltroni e Pier Ferdinando Casini, le sfumature dunque, amico di famiglia, epigono e pupillo di Alfio Marchini, il mecenate della sinistra che per due volte ha puntato il Campidoglio sbagliando mira. Onorato è quel tipo di giovane adulto molto attivo che col tempo ha creato una rete, ha allenato la retorica e ha soluzioni per salvare Roma da qui al prossimo secolo ecologista o tornando indietro da qui all’invasione dei visigoti. Ha reclutato centinaia di candidati per i Municipi e il Campidoglio con una efficienza impressionante, ha preparato manifesti, campagne e iniziative con circa 100.000 euro raccolti tramite la schiera degli amici allargati, ha calcolato di valere almeno il 5 per cento, il necessario per blindare l’ingresso al ballottaggio del centrosinistra, e l’ha convertito, il 5 per cento, in 5 consiglieri e almeno un assessore, diciamo l’assessore Alessandro Onorato. Col mestiere che solo gli imprenditori prestati a vita alla politica praticano, ha presentato pulita e stirata la lista civica Gualtieri con un buon dosaggio di politici di professione, politici laici, avvocati, insegnanti, studenti e commercianti. E Gualtieri non c’entra, non ha deciso una riga: ha soltanto concesso in comodato d’uso il suo volto e il suo nome. Onorato è talmente affine al pensiero politico di Gualtieri che fino a due mesi fa stava per accamparsi col suo banchetto e i suoi volontari al fianco di Calenda. Un anno fa il lobbista Paolo Sarzana auspicava su Facebook: «Calenda sindaco, Alessandro assessore al bilancio». Capo della comunicazione di Teleperformance e già presidente di Assocontact (l’associazione degli operatori dei call center), oggi Sarzana è il tesoriere della lista civica Gualtieri. Dopo dieci anni da parlamentare europeo e un anno e mezzo da ministro del Tesoro, il professor Gualtieri è ancora una «così brava persona», appiccicosa espressione che trasuda sufficienza. Siccome fu oblato in politica con i voti degli altri, il Pd romano, che è un Pd autonomo, non controllato, spesso strafottente, vigila con sguardo premuroso su Gualtieri. I posti in lista dem li ha assegnati insieme con il deputato e tesoriere locale Claudio Mancini. A ogni riunione per convincere i più reticenti c’era Mancini. Quando non c’è Mancini, c’è un collaboratore di Mancini. In macchina il candidato a sindaco viaggia con i due agenti della scorta e il collaboratore di Mancini. Però l’abile Mancini e il gruppo del quartiere di Monteverde, da citare Fabio Bellini e altri scafati e capaci ex assessori regionali e consiglieri municipali, sono rivali del gruppo del presidente regionale nonché ex segretario nazionale Nicola Zingaretti. Allora Zingaretti ha distaccato Albino Ruberti, il suo capo di gabinetto, presso il comitato di Gualtieri e rivendica di aver risollevato le sorti di una candidatura a sindaco moscia e incolore. Gualtieri non è una scelta di Zingaretti, ma Ruberti è un messaggio inequivocabile di Zingaretti: non vincete senza di me, vi aspetto dopo le feste. Gualtieri ha raccontato due volte il suo programma. Una volta in più per dedicare uno spazio su misura a Eugenio Patanè, presidente della commissione regionale alle infrastrutture, erede del vasto bacino elettorale di Mario Di Carlo, che fu ispiratore di Francesco Rutelli sindaco nel ’93. E da buon antico rutelliano Patanè ha già prenotato un’eventuale poltrona in giunta, ai Trasporti ovvio, nel ricco mandato che si conclude appena dopo il Giubileo del 2025. Al comitato di Gualtieri, dopo una fugace visita nell’altra sede dismessa in centro, si interrogano sull’assenza di Michela Di Biase, scalpitante consigliera regionale (manca un anno alla scadenza) e moglie del ministro Dario Franceschini. Forma di tutela verso sé medesima che ambiva alla fascia di sindaco e ambisce a quella di vice o verso il marito che ha sempre ambizioni fresche. Chissà. Completate le manovre di totale inserimento nel Pd dopo l’icastica stagione nel centrodestra da Silvio Berlusconi ad Angelino Alfano, la deputata Beatrice Lorenzin, invece, svolge con impegno e dedizione, cioè comanda, il suo ruolo di coordinatrice della campagna elettorale. Sbatacchiato dalle fazioni di partito in feroce competizione, di mattina, a sera, oppure dopo ogni probante prestazione mediatica, Gualtieri si rifugia nel conforto di una telefonata a Goffredo Bettini, il narratore onnisciente delle faccende romane del centrosinistra. Bettini è una presenza intangibile, assai rispettata da fedeli e da reprobi del comitato di via di Portonaccio, che indirizza il dire e il fare di Gualtieri e si manifesta quando il candidato a sindaco esclama «pronto» e subito dopo «come sono andato?». In quel momento si compie il trasferimento di sapienza e di conoscenze che molti ignorano al comitato, ma che di sicuro è necessario per agguantare la vittoria. E se non basta, se le formule di Bettini non acquietano i dubbi, se manca una cifra, un numeretto, una nota bibliografica, Gualtieri ricorda di «chiedere a Marco». Si tratta di Marco Simoni, consulente economico a Palazzo Chigi nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, presidente della fondazione Human Technopole, l’istituto di ricerca per le scienze della vita generatosi dall’Expo di Milano. Il percorso di Simoni è semplice: voleva fare il sindaco, adesso forgia il sindaco. Aveva optato per Calenda, poi è atterrato sul più accogliente Gualtieri. Simoni ha gli strumenti e l’esperienza per fornire sostanza alla propaganda da comizio. Si occupa dei contenuti e risponde quando Gualtieri gli dirotta le richieste. Il Pd di Roma, segretario Andrea Casu candidato alle suppletive per la Camera a Primavalle e tesoriere Mancini non candidato però fondamentale, ha esercitato lo sforzo più grosso nel far conoscere Gualtieri ai romani, per spingerlo soprattutto oltre il collegio Roma 1, zona di sua elezione a deputato, zona a traffico limitato (ztl) per intenderci. Il Pd di Roma ha investito migliaia di euro in santini, cartelloni e promozione sui social. Come previsto dalle regole, la conduzione economica della candidatura è passata al mandatario elettorale: l’avvocato Gianluca Luongo, legale dei Democratici di Sinistra, di Massimo D’Alema e anche di Gualtieri, da ragazzo all’ufficio legislativo dei Ds al Senato e per un biennio capo di gabinetto di Alberto Maritati sottosegretario alla Giustizia. Luongo ha riscontrato la diffidenza degli istituti di credito che a lungo si sono rifiutati di aprire il conto al comitato elettorale di Gualtieri perché ormai la politica è considerata sconveniente e foriera di guai. Poi ci è riuscito seppur con alcune limitazioni: per esempio, ha spiegato, deve recarsi fisicamente in banca per un bonifico e non può usufruire dei servizi in digitale. Il comitato di Gualtieri ha una previsione di spesa di 290.000 euro e dispone già di un’eccellente liquidità per pagare un ampio organico, più di quaranta contratti. Non è facile essere Roberto Gualtieri compresso fra Onorato, Bettini, Mancini, Ruberti, Patanè, Simoni, Zingaretti, Franceschini, Lorenzin e altre decine e decine di assistenti che, certo, vogliono che vinca proprio lui. Sì, lui chi? Un Gualtieri a caso. Purché sia quello che hanno in mente loro.
Violazioni, documenti e schede: la solita farsa delle primarie. Francesca Galici il 20 Giugno 2021 su Il Giornale. Denunce di "palesi violazioni" ai gazebi delle primarie del Pd e di "censura" da parte dei candidati per la corsa a sindaco di Roma. In questa torrida giornata di giugno, i romani sono chiamati al voto per le primarie del centrosinistra. Sono 7 in tutto, tra liste civiche e politiche, i candidati sindaci per la corsa al Campidoglio e il favorito è Roberto Gualtieri, ex ministro dell'Economia e delle finanze durante il governo Conte bis. Gli altri sono: Imma Battaglia, Giovanni Caudo, Paolo Ciani, Stefano Fassina, Cristina Grancio, Tobia Zevi. A Gualtieri stanno tirando la volata gli esponenti politici del centrosinistra più in vista e sarà probabilmente lui il candidato sindaco di Roma che sfiderà Michetti, Raggi e Calenda. Tuttavia, alle primarie tutti i candidati hanno la stessa dignità, anche se si sono sollevate molte proteste da parte di alcuni dei 7 per comportamenti poco corretti. "Ci arrivano segnalazioni da alcuni seggi di leggerezze nei controlli dei documenti o addirittura di palesi violazioni. #primarie20giugno", si legge nel profilo Twitter del comitato elettorale di Giovanni Caudo. Ma la denuncia più forte arriva da Facebook da parte di Imma Battaglia e riguarda la campagna elettorale aggressiva messa in campo dal Partito democratico per le primarie di Roma in favore di Roberto Gualtieri. Tutti i candidati in questi giorni hanno promosso la propria candidatura, mostrando la scheda elettorale con i nomi dei 7 candidati e il segno di preferenza sopra quello che si chiede di votare.
Ma non il Partito democratico, che forse teme la debacle. Il principale partito del centrosinistra italiano ha deciso di "eliminare" tutti gli altri candidati e di lasciare solo il nome di Roberto Gualtieri nel facsimile di scheda elettorale per la promozione dell'ex ministro a sindaco di Roma. Una scelta che non è piaciuta a moltissimi simpatizzanti ed elettori ma, soprattutto alla candidata della lista civica Liberare Roma. "Ognuno sceglie come proporsi e come farsi apprezzare dal proprio elettorato. Se oscurare gli altri nomi è il vostro modo, alzo le mani. Ma voi, dovreste vergognarvi! Questo post è totalmente manipolatorio, e non riporta la verità, oltre a manifestare l’arroganza politica di un partito che non vuole, ancora una volta, mettersi in discussione. Siamo in 7, e la vostra censura è inqualificabile", ha tuonato Imma Battaglia. Dopo aver sottolineato di aver condotto una campagna elettorale davvero degna e democratica, Imma Battaglia ha quindi concluso: "Non è oscurando gli altri che si vince. Oscurare è dittatura. Andiamo a votare, nonostante tutto e nonostante tutti, per esercitare il diritto di voto (e ricordare a chi vuole nascondere i nomi di tutte e tutti è simbolo di fascismo)". Accanto alla voce di Imma Battaglia, sono state tantissime le critiche mosse al Partito democratico. "Avete criticato tantissimo i 5Stelle (di cui non ho simpatia e no, anticipo, non ho simpatia neanche per la destra, anzi, sono quelli che mi piacciono meno) perché la piattaforma era particolarmente facile da compromettere e perché i loro voti e le loro 'primarie' sono particolarmente manipolate e poi fate lo stesso? Ma la coerenza, dov'è?", si legge tra i tanti messaggi. O ancora. "Ma non vi vergognate? Non dico di fronte a secoli di civiltà politica, ma anche solo di fronte ai vostri elettori. Che post schifoso, che abisso etico".
Anche dalla Lega arrivano critiche per la gestione delle primarie ed è la deputata Sara De Angelis a far sentire la sua voce: "Parte male il centrosinistra: primarie pilotate, candidato che è un'anatra zoppa sin dall'inizio, zero programmi, tante chiacchiere. Gualtieri non è quello mandato a casa perché ha scritto - male - un PNRR che non faceva arrivare a Roma nemmeno un centesimo? Con quale faccia vorrebbe amministrare la Capitale? Sarà un piacere batterlo alle urne".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Primarie Pd, Roberto Gualtieri vince a Roma ma scoppia il caso: "Scheda sbianchettata" e l'accusa di brogli. Libero Quotidiano il 21 giugno 2021. Eccola, la democrazia del Pd: una bella scheda sbianchettata, con il solo nome di Roberto Gualtieri, manifesto perfetto di primarie che sia a Roma sia a Bologna hanno rasentato il flop (45mila partecipanti nella Capitale, 24mila in Emilia) e che soprattutto, politicamente, evidenziano l'impasse del centrosinistra. A Roma vince come prevedibile Gualtieri, ex ministro dell'Economia e candidato forte, con il 62% dei voti. A Bologna il candidato sindaco sarà l'assessore Matteo Lepore, che supera la renziana Isabella Conti, con un sofferto 55%. In entrambi i casi, la spuntano due uomini di apparato che però poco o nulla trascinano l'immaginario collettivo né danno l'idea di spinte rivoluzionarie, anzi. In più, sembra esserci un problema di trasparenza grosso come una casa. Aveva cominciato la Conti a denunciare come il Pd si fosse rifiutato sia di comunicarle i dati sui voti online sia di affidare l'analisi degli stessi a un auditing esterno. Insomma: le primarie sono del centrosinistra ma controlla tutto il Pd. Peggio ancora va sotto il Cupolone: il Partito democratico, sulle proprie pagine social, pubblica il classico post per spiegare come si vota. Piccolo intoppo: la foto è sì della scheda elettorale, ma il facsimile della scheda con 7 caselle per altrettanti contendenti è riempito con un solo nome. Indovinate? Quello di Gualtieri, ovviamente. Giusto qualche insulto tra i tanti commenti inviperiti, riportati anche dal Giornale: "Questa è dittatura! - denuncia della candidata Imma Battaglia, arrivata terza - Siamo in sette e la vostra censura è inqualificabile, nascondere i nomi di tutti è simbolo di fascismo". Altri elettori: "Vergogna", "Siete come i grillini", "Abisso etico". Il secondo arrivato, l'urbanista Giovanni Caudio, parla addirittura di "leggerezze ai seggi", adombrando l'ipotesi di brogli. E Carlo Calenda leader di Azione, sempre sui social, condivide la foto della scheda sbianchettata pro-Gualtieri e ironizza: "Alla voce primarie aperte. Un vero esercizio di democrazia. Daje". Da qualsiasi parte la si guardi, una pessima figura.
Okkupanti alle primarie. E scoppia la rissa al gazebo. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti il 20 Giugno 2021 su Il Giornale. A piazza Vittorio, nel rione Esquilino, in coda per votare alle primarie del centrosinistra anche decine di occupanti abusivi di Spin Time Labs. Caos sui documenti e allo stand volano gli stracci. "Perché tutte queste domande? Levatevi di torno". Gli inquilini del palazzo occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme, che qualche giorno fa ha fatto da palcoscenico al confronto tra i sette candidati alle primarie del centrosinistra, ci guardano con diffidenza. Qualcuno non ci pensa due volte a mandarci a quel paese. Nessuno di loro ha voglia di metterci la faccia. "Speriamo di essere regolarizzati", ci confida una donna curda, una delle poche a darci confidenza. "La speranza c’è, speriamo non siano le solite promesse elettorali”, spiega un giovane etiope che sogna un futuro lontano dalla palazzina occupata. Sono arrivati in forze, al gazebo allestito in piazza Vittorio Emanuele, e aspettano il loro turno per votare. Non c’è grande entusiasmo, la sensazione è che siano qui a sbrigare una pratica, sperando di cavarsela nel minor tempo possibile, e senza dare troppo nell’occhio. La maggior parte di loro non ha la cittadinanza italiana e, quindi, neppure la tessera elettorale. Ma questo non è un problema. Le regole dicono che per gli stranieri non occorre. "Gli inquilini dello Spin Time Labs sono ben inseriti nel rione, la loro partecipazione è un fatto positivo, il confronto con persone che vivono particolari situazioni di difficoltà è necessario perché la politica deve dare loro risposte", ci spiega Stefania Di Serio, consigliera dem del I Municipio e volontaria al banchetto del rione Esquilino. Peccato che, qualche attimo dopo, le belle parole lasceranno il posto alla cruda realtà. Ma andiamo con ordine. Il decreto Renzi-Lupi, bestia nera dei movimenti di lotta per la casa, stabilisce il divieto di residenza negli immobili occupati. Ecco perché, a chi si è trasferito nell'ex sede Inpdap dopo l’entrata in vigore del provvedimento, il Comune di Roma ha assegnato una residenza fittizia: via Modesta Valente. Il gazebo di riferimento per chi ha la residenza lì è quello di piazza di Santa Cecilia. Quando i volontari lo fanno presente, gli animi iniziano ad infiammarsi. Chi attende sotto il sole già da un po’ protesta. Le indicazioni fornite dai vertici di Action, l’organizzazione che nel 2013 si è impossessata dell'immobile, erano altre. Insomma, borbotta qualcuno: "I compagni hanno fatto un gran pasticcio, mobilitando decine di persone verso il gazebo sbagliato". "Ci hanno detto di venire qui e ora non ci fanno votare?", rumoreggia la folla. "Io mi sono stufata, adesso gli ribalto il tavolo. È una presa per il cu**. È allucinante, allucinante proprio, e vogliono pure i due euro", grida una donna sulla quarantina. Detto, fatto. In men che non si dica, il tavolo del gazebo viene letteralmente rovesciato addosso alla consigliera Di Serio ed ai volontari che la affiancano allo stand. Il gruppetto è sotto choc, ma Lorenzo Teodonio, presidente del seggio, minimizza. "La democrazia – sentenzia – è conflitto". Resta il rischio duplicati, anche se i volontari assicurano il contrario. Qualcuno, infatti, è riuscito comunque ad esprimere qui la sua preferenza, pur non avendone diritto. Chi ci dice che non lo rifarà anche nel proprio gazebo di riferimento? Il deputato Stefano Fassina, candidato di Leu, arriva sul luogo del misfatto quando è ormai tornata la calma. Lo ragguagliamo dell’accaduto e anche lui prova a metterci una pezza. "Quando metti le urne in piazza ed apri alla partecipazione può succedere. Mi sembra un episodio trascurabile visto che oggi andranno a votare migliaia di persone". È pronto a scommettere che la partecipazione degli occupanti sia genuina. "Non mi stupisce che siano qui, è il risultato di primarie aperte, come è giusto che sia, anche a chi non ha la cittadinanza italiana". Nessuna cooptazione, quindi. Non tutti però la pensano così. È un attivista del Pd a rivelarci a denti stretti che l’epilogo di stamattina era prevedibile. La trovata di chiamare a raccolta gli esponenti in lizza per le primarie in un fortino dell’illegalità, non è andata giù neppure ad alcuni dem. Sono rimasti in silenzio per non gettare altra benzina sul fuoco delle le polemiche sollevate da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ma ora qualcuno sbotta: "Non avrebbero dovuto prestarsi ad una cosa del genere, però per non perdere i voti della sinistra più radicale e dei centri sociali, ci è andato persino Gualtieri". Secondo il volontario le "truppe cammellate" inviate dai collettivi voteranno in massa per Imma Battaglia. "È stata lei ad organizzare l’incontro facendo peraltro una pessima pubblicità alle primarie". "Questa – conclude – è gente sfruttata, sotto schiaffo dei collettivi che li hanno presi e li hanno portati a votare, è normale che poi succedano certe cose".
Elena Barlozzari. Sono nata a Roma, in un quartiere dove i ruderi antichi dormono da secoli, imperturbabili da fare invidia. Invece io sono un’anima inquieta. Le suole delle mie scarpe mi raccontano molto meglio di qualche riga impilata. Se potessero parlare, probabilmente, chiederebbero pietà. Collaboro con Il Giornale.it dal 2016 e mi occupo soprattutto di cronaca, con qualche sconfinamento nella politica e negli esteri. La laurea in Giurisprudenza mi è servita moltissimo, a capire che l’avvocatura non fa per me. Sono giornalista pubblicista perché “è sempre meglio che lavorare”.
Alessandra Benignetti. Nata nel 1987, vivo da sempre a Roma, città che amo. Sono laureata cum laude in Scienze Politiche all'Università La Sapienza, giornalista pubblicista, moglie e mamma. Appassionata di geopolitica e relazioni internazionali, per il Giornale.it realizzo video reportage e inchieste seguendo da vicino i fatti di cronaca e l'attualità. Il mio obiettivo? Raccontare la realtà senza filtri e descrivere i fatti con obiettività, con uno sguardo sempre oltre il sipario.
Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 21 giugno 2021. Lo stato maggiore del Pd può tirare un sospiro di sollievo: a Roma e a Bologna non c' è stato il flop delle primarie come a Torino. Nella Capitale votano in 45 mila, nel capoluogo dell'Emilia-Romagna in 27 mila. E in entrambe le città il risultato è quello auspicato: a Roma vince Roberto Gualtieri, e a Bologna Matteo Lepore batte Isabella Conti 59,5 contro 40,5. E così Enrico Letta a sera, anche se nella Capitale partono le contestazioni sui numeri dei partecipanti al voto, può dire: «Bene! La prima scommessa è vinta. Le primarie a Roma e Bologna sono un successo di popolo. La vittoria di Lepore e Gualtieri dimostra che abbiamo avuto ragione a non avere paura di farle perché il popolo di centrosinistra è con noi. Avanti!». Certo, i dati della partecipazione, soprattutto a Roma non sono propriamente esaltanti, ma certamente molto meglio delle previsioni fatte al Nazareno. Il raffronto è quello con le precedenti primarie del 2016, quando i pd, demotivati, davano per scontata la vittoria di Virginia Raggi nella corsa al Campidoglio: allora i votanti furono 47.317, poi ulteriormente ridotti a 44.501 dopo un riconteggio delle schede bianche. E ieri sera nel giro di mezz' ora a Roma si è passati da 37 mila votanti a 40 mila, sino ai 45 mila finali. Ossia la stessa identica percentuale che il Pd romano va profetizzando da una settimana: quella che consente ai dem di dire che queste primarie sono andate meglio di quelle del 2016. Ma uno dei competitor di Gualtieri, Giovanni Caudo, il candidato sponsorizzato da Ignazio Marino, contesta quella cifra raggiunta in extremis in serata: «Saranno al massimo 37 mila». E su queste primarie, come è già successo in passato, cominciano a fioccare le contestazioni e a gravare i sospetti. Ma Gualtieri esorta: «Da domani tutti uniti, come l'Italia di Roberto Mancini». E al Pd si brinda. Letta chiama Gualtieri, Lepore e anche Conti. Andrea Orlando esulta: «Una bella vittoria, ora tutti insieme per far vincere il centrosinistra». E Nicola Zingaretti afferma: «Grazie Roma, il centrosinistra è più forte». Stavolta comunque, al contrario di quanto è avvenuto a Torino, la macchina comunicativa del partito si è mossa per tempo e con grande efficienza per evitare che si riparlasse di un flop. Prima Roberto Gualtieri ha messo le mani avanti: «Le primarie si stanno svolgendo in condizioni difficili. C' è caldo e c' è la partita». Dopo, quando mancavano ore ai dati definitivi dell'affluenza ai gazebo, il Pd cantava già vittoria. Enrico Letta, che ha votato alle cinque e un quarto di pomeriggio al Testaccio, infilata la scheda nell' urna, si è detto «molto soddisfatto» dell'andamento delle cose: «C' è stata una grande affluenza. Il popolo democratico e progressista c' è e partecipa. Questo è un grande viatico in vista delle elezioni di ottobre». Il leader dem ha minimizzato anche le divisioni che hanno attraversato il Pd bolognese, dove un pezzo del partito si è schierato per Isabella Conti: «A Bologna non c' è stato nessuno sconquasso. Le primarie sono così. Quando un risultato è meno scontato si dice che è uno sconquasso, quando è meno combattuto si dice «vergogna. è già tutto deciso». Ma le primarie sono il nostro metodo e non intendiamo cambiarlo. Nel dopo Covid stiamo iniziando a scrivere nuove pagine di democrazia». Come sempre accade non sono mancate le polemiche. Giovanni Caudo ha denunciato «file anomale, irregolarità e pochi controlli». Mentre un caso è stato il falso messaggio WhatsApp attribuito a Carlo Calenda in cui il leader di Azione sponsorizzava Caudo. Letta ha cercato di gettare acqua sul fuoco per non trasformare «una giornata di festa» in una rissa: «Non sentirete da me una sola parola polemica». Ora comincia la partita vera. Quella delle elezioni amministrative. E mentre a Bologna, dove i dem andranno con i 5 Stelle, l'esito è scontato, a Roma è un'incognita.
Mario Ajello per "il Messaggero" il 21 giugno 2021. Primarie-deserto. Gazebo malinconicamente vuoti. Il rito autoreferenziale della conta per decidere il candidato sindaco del Pd a Roma non solo si rivela piccolo e solitario ma lo è oltre ogni previsione. Se prima la soglia del successo delle primarie in scena ieri era di 50 mila persone (c' è chi alzava l'asticella a 75mila), ora ci si deve accontentare di 45mila votanti (il dato lo dice Letta ma il chiacchierato Caudo ridimensiona il già poco: «Al massimo avranno votato in 35mila»), per lo più anziani: tanti i 70enni, un po' di militanti di mezza età e totale assenza di giovani. Al punto che a Piazza Grecia, nel gazebo del Villaggio Olimpico, uno degli scrutatori a un certo punto ironicamente dice nel vuoto delle code che non ci sono e dei ragazzi che se ne infischiano del Pd e di questa rappresentazione del nulla: «Ma non c' è nessuno di noi che ha un figlio o un nipote da sventolare davanti al tendone con la scheda in mano, almeno per poter mettere la foto sui social?». Un insuccesso clamoroso queste primarie tra pochi intimi rispetto ai 110mila votanti nella gara che incoronò Ignazio Marino nel 2013 (contro Gentiloni e Sassoli) e pure rispetto ai 47.300 del 2016 (ma i voti validi furono 43.607) quando la spuntò Roberto Giachetti poi sconfitto nelle urne vere da Virginia Raggi. Per non parlare delle primarie che, nel marzo 2019, elessero segretario Nicola Zingaretti: 92mila persone al voto a Roma. Quel che colpisce è soprattutto il paragone con i gazebo del 2016. Il Pd usciva dal massacro di Mafia Capitale, nella quale era implicata a tutti i livelli. Nonostante gli arresti, e il discredito e lo sbandamento in cui versava il partito, ai tendoni andarono più simpatizzanti di quelli che ci si sono recati in queste ore. E questo, nello schiaffo rappresentato da queste primarie, è lo schiaffo nello schiaffo che deve far preoccupare davvero i dirigenti dem e farli riflettere sul rapporto del partito non solo con i cittadini di Roma in generale ma perfino con il proprio mondo di riferimento. «Ci hanno rimasti da soli sti quattro cornuti» (riferito ai romani normali), si sorride amaramente nel seggio di Tor Bella Monaca, il quartiere dove Enrico Letta è andato in vista una settimana fa e dove l'affluenza come in tutte le periferie è stata bassissima. «Abbiamo perduto la connessione sentimentale con il popolo», è la citazione gramsciana che fa un anziano al gazebo di Piazza Mazzini, che pure è stato uno dei più frequentati (borghesia progressista) e qui ha votato Zingaretti. Se si pensa del resto a chi fossero i candidati delle primarie 2013, si può spiegare il tonfo della partecipazione a queste primarie. Allora, in campo c' erano Gentiloni (che sarebbe stato premier e ora è commissario Ue) e Sassoli, ora presidente dell'Europarlamento. Oggi c' è Imma Battaglia. E se nel 2016 la sfida era Morassut-Giachetti, figure d' esperienza riconosciuta, oggi il popolo dem s' è dovuta accontentare di un Caudo: il deserto di partecipazione non può che spiegarsi anche così. E insieme con il fatto che è difficile coinvolgere gli elettori quando si sa già alla vigilia chi vincerà. Infatti il vincitore annunciato, Gualtieri, è arrivato primo. E' al 62 per cento nei primi 42 seggi scrutinati (Caudo secondo) e sarà il candidato per il Campidoglio. Altro che bagno di democrazia! A Testaccio di solito nelle primarie i votanti superano quota mille ma stavolta no: non più di 500. A Piazza Mazzini nel 2016 la quota fu 1200, in questo caso invece 500. E via così. Dove male, dove peggio. E infierisce Massimo Cacciari: «Un partito che non sa decidere fa le primarie. E al Pd le primarie servono perché è un partito di piccole consorterie e di cooptati». Eppure, da Letta giù, quanto entusiasmo per il flop trasformato, nelle parole di giubilo, in «grande partecipazione democratica!». Ritornello valido anche a Bologna (25mila votanti), dove il candidato dell'apparato, Matteo Lepore, ha vinto con il 59,6 per cento su Isabella Conti (40,4), candidata vicina a Matteo Renzi ma votata anche da molti dem vogliosi di aria nuova. E il partitone scricchiola pure sotto le Due Torri.
Primarie, è già lite nel Pd. Marino chiede di ricontare i voti e Caudo dice: mica hanno votato in 45mila. Adele Sirocchi lunedì 21 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. E meno male che secondo Gualtieri le primarie avrebbero sancito l’esistenza a sinistra di una squadra compatta come la Nazionale. Tutto il contrario. Nel Pd è già lite, è già il momento dei veleni e dei sospetti. Giovanni Caudo, secondo arrivato alle primarie di Roma, sconfessa il dato sull’affluenza. “Mi sembra chiaro – dice al Foglio l’ex assessore di Ignazio Marino e attuale presidente del III municipio – che il Pd puntasse solo a un risultato: migliorare la partecipazione del 2016. E non a caso hanno detto che l’affluenza è stata di 45mila persone, mille in più dell’ultima volta. Ma io non penso possano essere state più di 37 mila”. E rincara la dose: 45mila votanti alle primarie di Roma è impossibile. “Alle 19, dati del comitato, i votanti compresi quelli online erano 27.731. Un numero ufficiale, lo ripeto, arrivato da 132 seggi su 187”. Su Twitter Ignazio Marino dà fuoco alle polveri: “Primarie a #Roma: risultati online danno Gualtieri e Caudo testa a testa; quelli cartacei danno risultati diversi. Per le schede chi parla di 30.000 e chi di 48.000 votanti. Perché non rifare lo spoglio con i candidati presenti così si potrà confermare trasparenza del voto?”. Gualtieri replica a Marino: “Alle 16 c’è il computo dei verbali con i presidenti di seggio e la commissione di garanzia che farà la proclamazione dei risultati alla luce del sole. Lo invito a venire e a vedere i dati del voto, che sono straordinari e dimostrano questa bellissima partecipazione. C’è la massima trasparenza”. E il segretario del Pd di Roma Andrea Casu osserva: “La trasparenza è stata massima, non permetteremo a nessuno di sporcare un risultato storico. E’ stata una bella, grande, meravigliosa pagina di democrazia, non sporchiamola”. Caudo, raggiunto al telefono dall’Espresso, ci tiene a sottolineare la sua posizione: «Io non ho chiesto il riconteggio dei voti, le primarie sono un bellissimo strumento e bisogna proteggerlo. Ma non è andato tutto bene come si dice. Ci sono state delle cose bellissime fatte con tanto entusiasmo, ma ci sono state anche delle file di troppo, con persone che sono andate lì senza sapere manco il perché». La controversia sul numero delle schede non è da sottovalutare secondo Caudo: «Io ho detto ieri (domenica) che alle 19 avevano votato 27.700 persone mentre alcuni hanno detto che avevano votato 37mila persone. Dire cose diverse da quello che succede non fa bene alla politica».
Daniele Capezzone per "la Verità" il 21 giugno 2021. Se non parlassimo di cose serie, ci sarebbe da sganasciarsi dal ridere. L' immagine iconica, definitiva, eloquente, delle primarie a sinistra di ieri è tratta dalla pagina Facebook del Pd di Roma, per l'esattezza da un post esplicativo sulle modalità di voto: «Per votare bastano un documento, la tessera elettorale e un contributo di 2 euro». E poi le altre ordinarie istruzioni, insieme a qualche onesta frasetta propagandistica («Sono primarie aperte a tutto il centrosinistra»). Insomma, tutto normale, in apparenza. Poi, all' improvviso, tre zampate surreali. Il post si chiude con l'invito esplicito a votare un candidato ben preciso («Partecipa alle primarie, vota Roberto Gualtieri»). Ancora, poco sotto compare un curioso fac-simile, che invita a «barrare un solo nome»: ma nella scheda esemplificativa, anziché esserci i nomi di tutti i candidati, ce n' è solo uno, già barrato: quello di Gualtieri. E la stessa pagina Facebook ha come foto principale il ritratto dell'ex ministro dell'Economia: «Per Roma - Gualtieri sindaco». Apriti cielo. Ecco il commento di Imma Battaglia, una delle avversarie «cancellate»: «Se oscurare gli altri nomi è il vostro modo, alzo le mani. Ma voi dovreste vergognarvi! Questo post è totalmente manipolatorio. Oscurare è dittatura». A ruota, lo scrittore Christian Raimo: «Gli altri candidati non esistono? Siete scorretti». Sui social è un pandemonio. Moltissimi credono addirittura si tratti di un fake. Tra loro Alessandro De Nicola («Non ci posso credere. Spero sia un fake. Altrimenti tanto vale mettere Tafazzi nel simbolo e la finiamo lì») e Roberto Burioni («Ma non è vera»). Altri, sconsolati, svelano l'amara realtà: «È vera, è vera Dalla pagina Fb del Pd di Roma». La difesa di alcuni militanti più ortodossi è apparsa come un'arrampicata sugli specchi: sono primarie non di partito ma del centrosinistra - ha sostenuto qualcuno - e quindi è normale che la pagina del Pd valorizzi solo il proprio candidato e non gli altri. Ma con «spiegazioni» così, la rissa social si è fatta ancora più selvaggia. È in un clima di questo tipo che si sono svolte le consultazioni a Roma e Bologna, dopo i gazebo spettralmente deserti, una settimana fa, a Torino. Stavolta c' è stato un pochino di partecipazione in più (alle 17 avevano votato in 20mila a Bologna e alle 19 in 37mila a Roma), ma la sensazione resta quella di un mondo alla rovescia: non di un partito che propone soluzioni per i suoi militanti (e per le città), ma di militanti chiamati a risolvere il dramma di un partito ormai smarrito, chiuso in una mera dimensione di potere. A Bologna, sfida al veleno tra l'assessore Matteo Lepore e la filorenziana Isabella Conti. A Roma, corsa tra sette candidati. Polemicissimo tra loro Giovanni Caudo, assessore ai tempi di Ignazio Marino: «Ci arrivano segnalazioni da alcuni seggi di leggerezze nei controlli dei documenti o addirittura di palesi violazioni». A certificare il caos, un tweet lunare di Enrico Letta: «Bella giornata di democrazia, buon voto».
Affitto di favore e zero dipendenti, perché Carlo Calenda ha pure il partito ricco. Altro che pose e orologi di lusso: Azione ha bilanci floridi e un sacco di liquidità in attesa dei voti. Ci riesce perché ha finanziatori munifici, una struttura inesistente e si è ritrovata anche un appartamento in centro Roma, a prezzi da saldi (900 euro al mese), del deputato renziano Librandi (che però ne ha donati 20.000 e ci ha rimesso). Carlo Tecce su L'espresso il 10 settembre 2021. Si può dire che Azione di Carlo Calenda sia il prototipo di un partito benestante. O dei Rolex. E qui lo si dice non per indugiare sulla polemica per un orologio di lusso che ha strapazzato Roman Pastore, un candidato ventunenne orfano di padre, miccia usurata per trattati di sociologia, escatologia, prossemica e semiotica già ben eseguiti sugli atenei di Twitter. Lo dice il bilancio di Azione. Più esatto di un cronografo. Il partito ispirato a don Luigi Sturzo, Carlo Rosselli e Piero Gobetti ha ottenuto 725.000 euro dalle dichiarazioni dei redditi di 29.734 italiani che con volontà e coscienza hanno donato a Calenda il loro 2xmille, cioè lo 0,2 per cento dell’imposta fiscale che lo Stato cede per finanziare la politica. In media ogni simpatizzante o militante di Azione ha apportato 24,4 euro col suo ritaglio di tasse. Quelli di Sinistra Italiana (11,9 euro) se la battono di centesimi con la Lega intestata a Matteo Salvini (11,4); quelli di Articolo1 (13,4) si attestano, e pare buffo, sulle posizioni di Fratelli d’Italia; quelli di Forza Italia hanno una agiatezza borghese sgualcita (15) identica al Pd di Enrico Letta e quelli di Italia Viva (16) si confermano il gemello disgraziato di Azione. E dunque, rimossa la prudenza, si può dire: Azione di Carlo Calenda è il prototipo di un partito benestante. Come ripetono i sani di spirito e di teoria: si combatte la povertà, non la ricchezza. Però si resta disarmati dinanzi alla ricchezza che si combina con la fortuna. Al piccolo e giovane Azione è successo. Dopo un fugace transito fra i dem che gli è valso il prezioso seggio da parlamentare europeo, per contestare il governo giallorosso con i Cinque Stelle, il precoce Calenda s’è messo in proprio. Se n’è andato di casa. Padrone di sé stesso. Per concepire Azione col suo logo di colore elettrico, la sua campagna mediatica, la sua struttura emozionale, l’ex ministro nei governi di Renzi e Gentiloni e attuale candidato a sindaco di Roma ha trovato riparo fra la Fontana di Trevi e Largo Chigi negli uffici con finestroni di via Poli 3. Il palazzetto alto e stretto è di proprietà di Tci srl di Gianfranco Librandi, deputato alla seconda legislatura e al sesto partito, un imprenditore varesotto che ha solcato la destra e la sinistra e adesso sosta in Italia Viva. Era l’autunno del 2019. Il dubbioso Librandi, ancora fremente per la scissione dei renziani, non poteva ospitare il pur apprezzato Calenda. E gli ha chiesto un affitto. Non è elegante, non è per lucrare, può apparire di cattivo gusto, ma è accaduto in onore della trasparenza. Forse per incoraggiare Calenda, anzi l’inquilino Calenda, la Tci di Librandi ha versato 20.000 euro al nascituro partito in segno di augurio. I bilanci di Azione rendicontano lo sforzo economico per sopportare le spese di via Poli nel centro più centro di Roma: 3.200 euro nel 2019 per «corrispettivi di locazione spazi attrezzati in relazione alla sede legale»; 11.000 euro nel 2020 per «corrispettivi di utilizzo spazi attrezzati in relazione alla sede legale». I permessi per circolare nelle zone a traffico limitato (ztl) costano di più, invece per stare da Librandi sono sufficienti 900 euro al mese condominio incluso per un appartamento di «uno stanzone, una stanzetta e due bagni», precisano da Azione, anche se per il catasto si tratta di 6 vani e perciò di almeno 130 metri quadrati. Oggi per una metratura simile occorrono circa 6.000 euro al mese in via Poli. Comunque Calenda è riuscito a saldare un anno e mezzo di pigione al locatore Librandi con il denaro del sostenitore Librandi e gli restano ancora quasi 4.000 euro. Con questa saggezza economica Calenda potrebbe davvero sanare le casse di Roma. Azione è un partito moderno: non ha un dipendente e impila utili. Il tesoriere è la napoletana Orietta Palumbo, una commercialista che ha ricoperto il medesimo incarico in Scelta Civica. L’ex ministro ha conosciuto Palumbo quand’era direttore generale all’Interporto di Napoli ai tempi di Gianni Punzo, amico e socio di Luca Cordero di Montezemolo (altro mentore di Calenda). La pandemia non ha indebolito i conti floridi di Azione. L’anno scorso si è chiuso con un avanzo di bilancio di 246.000 euro. In banca ci sono 657.000 euro. I debiti non esistono. Oltre ai 725.000 euro del 2xmille, in cassa sono arrivati 128.000 euro con i tesseramenti e 885.000 con le donazioni (2 milioni se consideriamo l’ultimo bimestre 2019). Siccome Calenda ha estimatori facoltosi e non si accettano oboli inferiori a 10 euro, quota minima richiesta per iscriversi al sito, di meno è solo un fastidio di scontrini e ricevute, si fa presto a mettere insieme 2 milioni in 15 mesi: 100.000 euro da Pietro Bombassei di Brembo; 100.000 dalla fondazione Giovanni Arvedi e Luciana Bruschini, gruppo siderurgico; 70.000 euro da Gianfelice Rocca di Technint; 50.000 da Patrizio Bertelli di Prada; 50.000 da Fabrizio Di Amato tramite Marie Tecnimont; 30.000 da Lupo Rattazzi, presidente di Neos, figlio di Urbano Rattazzi e di Susanna Agnelli; 30.000 da Pier Luigi Loro Piana, azienda di moda; 25.000 da Fabio Storchi, membro del consiglio generale di Confindustria; 19.000 da Davide Serra finanziere (e renziano). Le previsioni per il 2021 sono positive, è la crescita senza recessione, è il patrimonio senza votanti o in attesa che si palesino: più soldi dagli imprenditori, più soldi dai militanti, più soldi con le dichiarazioni dei redditi. Il dramma è che pochi ne escono e molti ne entrano. Anche il comitato per Calenda sindaco, che ha un indirizzo in zona San Giovanni, è assai rigoglioso. Il segreto della ricchezza è saperla custodire. E Calenda è molto bravo. Il mercato flessibile gli consente di avere zero contratti fissi e un numero cospicuo di contratti di collaborazione e consulenze: 14 rapporti di lavoro per 185.000 euro totali. Azione è una formula vincente di ricerche di mercato (221.000 euro) e promozioni sui social (141.000), con le prime si misura la popolarità di Calenda, con le seconde si gonfia la popolarità di Calenda. Con questa strategia si è istituito un fondo per l’impegno delle donne in politica, un fondo non esagerato, molto sparagnino, oculato certo, che si alimenta con un decimo dei soldi ricavati col 2xmille. La sicurezza del futuro, però, sta sempre nel mattone. Confermata la sede legale in via Poli dal cortese Librandi, a novembre Azione ha aperto la sede principale in Corso Vittorio Emanuele II a un lato della Chiesa del Gesù dove si affacciava la Democrazia cristiana. Con le elezioni vedremo, con gli immobili Azione è esemplare: per circa 3.500 euro al mese il partito ha strappato alla società Hotels Roma srl un affitto di 6 anni per 12,5 vani al terzo piano. Con buone ragioni Calenda non si ritiene un politico di professione, ma è senz’altro un professionista della politica per come sta venendo su Azione, bella, forte e ricca. Che poi la ricchezza non è mica un parametro negativo, non impedisce l’empatia con gli altri, non offusca la percezione della realtà. Basta avere il polso della gente. O qualcosa di robusto al polso.
Disperazione dell’elettore dem, dalla Calenda alla brace. Susanna Turco su La Repubblica il 14 giugno 2021. C’è l’iperattivismo del leader di Azione, che attrae delusi nonostante il suo manifesto da Batman âgé. Oppure il piglio da burocrate di Roberto Gualtieri, l’ex ministro calato come «candidato unico» da un Pd che usa le primarie come notaio delle proprie scelte. Lontane dai territori, a tutti i livelli: perfino dentro la Ztl (citofonare Emiliano Monteverde). All’ombra della cupola dedicata a Don Bosco, la chiesa dove i Casamonica celebrarono il funerale show del boss Vittorio nell’agosto 2015, con la banda che suonava il Padrino e i petali di rosa dal cielo, Said, una quarantina d’anni, a Roma da quindici, in ottimo italiano, davanti alla pausa caffè al mercato Calisse spara, non richiesto, la sua scommessa, al barista de La dolce vita che lo guarda basito perché di politica non si interessa proprio: «Al cento per cento vince Calenda, sicuro. Raggi non la vuole nessuno, dopo quello che ha combinato. Posso scommetterci». Fine della storia, per lui non esiste nessun altro in campo: Roberto Gualtieri, dice, non si sa chi è (Enrico Michetti, il nome del centrodestra, è nemmeno evocato). Calenda, c’è da dire, ha appena finito qui il suo giro elettorale, con il consueto mini assembramento di gente che chiede cose, lascia biglietti da visita, regala semi, fogli con proclami, tisane ayurvediche, per risalire sul furgoncino blu foderato con la sua fotografia. Eppure Said restituisce l’immagine stralunata di una campagna elettorale quasi incredibile, ma simbolica, per lo stato dell’arte del centrosinistra, non solo a Roma, dove al momento il predestinato alla vittoria delle primarie, l’ex ministro Roberto Gualtieri, è una specie di stimato e timido burocrate che parla al massimo di «stazioni appaltanti» e «città policentrica», dove il Pd non si è mai liberato davvero delle scorie accumulate in questi anni, vive ancora nell’umidità di vicende come la caduta di Ignazio Marino (meccanismi che tende anzi a replicare, come vedremo) ed è sempre più lontano, preda di palpiti suoi, bilancini, correnti, inseguimenti col fantasma come quello dell’alleanza coi Cinque Stelle; una campagna elettorale dove l’unico che pare (se non altro per tattica) accanirsi a contendere il posto della sindaca è il mai quieto ex ministro, ex (eletto col) Pd al Parlamento europeo, che ora non partecipa alle primarie, ma capeggia un partito (Azione) che nei sondaggi non arriva al 4 per cento. Carlo Calenda, appunto. Il più longevo candidato alla carica di sindaco che la storia recente ricordi, dopo averci girato attorno a lungo (se ne parlava quando ancora stava seduto al Mise e litigava con la sindaca Raggi): quando a ottobre si voterà, l’ex capo dello Sviluppo economico avrà compiuto un anno di campagna elettorale, essendo sceso in campo, con fiuto eccezionale, giusto un attimo prima dell’inizio della seconda ondata del Covid-19. Questi otto mesi, oltre a litigare al tavolo del centrosinistra, Calenda li ha spesi fra l’altro in minuzioso censimento (27 gruppi di lavoro) dello stato dell’arte dei 15 Municipi di Roma: uno studio abbastanza sopra la media che ha fatto da base per il programma, è consultabile sul suo sito ed è per certi versi la disconferma del velleitarismo di cui da sinistra lo accusano. Se non altro, dà l’idea di essersi posto il problema di presentarsi come uno che conosca la città, con lo stesso ossessivo iperattivismo col quale, adesso che è in campagna elettorale, sta girando come una trottola per la città (oltreché in tv), in carne ed ossa o in manifesto stile Batman âgé. Per strada, alle fermate metro, ma soprattutto sugli autobus, dove l’altro giorno la sua effigie ha già fatto la stessa fine dei mezzi pubblici: è andata ossia a fuoco. «Diciamo che i politici so’ tutti particolarmente agitati, in questa fase: Calenda, che a sta cosa di Roma ci gira intorno da un po’, me pare preparato, dà l’idea di sapere dove mette’ le mani, se non altro», sintetizza Alfredo, dietro la sua storica edicola in piazza Scotti, a Monteverde Nuovo. È anche per questa via che Calenda (come era del resto nel programma) sta conquistando una parte dell’elettorato dem: la disperazione. Non è un caso che in mondi da sempre attorno al Pd comincino a spuntare segnali, se non altro, di ascolto, rispetto a una opzione che, se sul piano generale rappresenta una specie di prosecuzione del renzismo con altri mezzi (voto moderato, modello Draghi, eccetera), sul piano degli equilibri della città, dove Calenda in questi anni è stato presente al punto da fare anche lo scrutatore, alle ultime primarie per il segretario, nel 2019, finisce a fare da specchio per tanti delusi dem, anche magari senza trasformarsi in sostegno esplicito. «Roma, sul serio», ha ad esempio scritto, citando lo spot del leader di Azione, in un post su Facebook Paolo Masini, che lavorò con Walter Veltroni, è stato assessore di Ignazio Marino, ha organizzato migliaia di iniziative tra cui (con Achille Passoni) la manifestazione del Pd al Circo Massimo, nell’ottobre 2008. Un segno fra tanti di come la situazione si stia facendo bizzarra. Tale da disorientare persino un posto abituato a tutto come Roma, dove è normale che un forte acquazzone trasformi le strade in affluenti nel Gange, dove da anni gli autobus vanno a fuoco a un ritmo tale da fare statistica (7 in cinque mesi, 80 nel triennio, media in miglioramento), dove il ritorno alla vita post pandemia ha dato alla città un’ulteriore patina di tipo messicano che si aggiunge all’aria ripiegata e arresa che l’avvolge da tempo. E dalla quale quasi nessuno intende scuoterla. A farla semplice, si potrebbe dire infatti che sembra di essere al secondo tempo del film «c’è un complotto per far vincere a Roma i Cinque Stelle» (come disse nel 2016 Paola Taverna), salvo che stavolta per i romani, come giustamente ebbe a dire un anno fa Nicola Zingaretti, la ricandidatura di Raggi «non è una notizia: è una minaccia», ma dove tuttavia il candidato del Pd, o meglio del centrosinistra, incarna intere le ambivalenze di un fronte che non si capisce se non vuol vincere o non può. Se non può vincere o se non vuole. In parallelo alla campagna elettorale di Calenda, c’è infatti la campagna del parlamentare dem che è predestinato a vincere le primarie, in una procedura che non ha davvero nulla di competitivo, rappresenta più che altro una celebrazione, lineare, delle scelte operate dal partito (come testimonia, fra l’altro, il pronto ritiro di Monica Cirinnà): Roberto Gualtieri, ex ministro dell’Economia, storico, chitarrista appassionato di bossanova, intento in giri per la città con il piglio carnale e sognatore che chiarì a Mezz’ora in più: «Andrò a stringere mani? Beh io sono una persona schiva, mi piace il dialogo». E così, con l’occhio vagamente terrorizzato sopra la mascherina, soprattutto quando dopo il discorsetto si passa alla fase del dibattito, Gualtieri va facendo il giro tra la gente, come l’altro giorno al municipio Terzo, quello guidato da Giovanni Caudo. Preceduto da altoparlanti e microfoni (benedetta organizzazione di partito), tappe davanti al centro anziani, alla fermata della metro, alla panchina arcobaleno: il Pd citato praticamente mai, continui riferimenti a «l’intervista rilasciata al Corriere della Sera sui mancati investimenti di Roma». Perché Gualtieri non dice «Raggi»: dice Roma («Roma in questi anni non ha speso i soldi che aveva», «Roma non progetta», «Roma non investe»), in discorsi dove un addetto alla comunicazione si metterebbe le mani nei capelli (per parlare delle funivie parla di «sistemi a fune») e dove, a fronte di una domanda sulla corruzione, la risposta è una inedita difesa dei «burocrati sui quali si scaricano le colpe». Tutto da copione, insomma, tutto organizzato. Sempre le stesse facce a seguirlo, nelle varie tappe, come una festa itinerante. Sempre le stesse facce a sostenerlo. Il coordinatore della campagna è Mario Ciarla, già segretario dei Ds, il principale sponsor è Claudio Mancini, deputato e notabile del Pd laziale, definito da taluni come «l’uomo che decide il prossimo sindaco di Roma» (è anche, insieme con Goffredo Bettini e il segretario regionale Bruno Astorre, uno dei tre citati da Calenda come responsabili dell’immobilismo romano). Risultato. Sotto a un cielo plumbeo, davanti alla fermata metro Jonio, un passante si ferma incuriosito ad ascoltare il comizio di Gualtieri: «Ma questo chi è?», domanda. «E quello del Pd che je piacerebbe diventare sindaco di Roma», lo informa una signora con le perle. «Sì, je piacerebbe», le risponde quello, andandosene dopo qualche minuto. Ecco, il clima è questo. «Pòrogualtieri», è uno dei soprannomi che gli si trovano affibbiati sui Facebook, da elettori dem. Molto ha disamorato, del resto, la modalità di gestione del Pd, dove tutto fa tappo a tutto, e registrare scatti naturali in avanti è difficile. A tutti i livelli, secondo una linea però comune: la scarsa connessione coi territori. Che in questo tempo viene testimoniata e e capovolta o dalla denuncia della morsa asfissiante delle correnti, come ha fatto Nicola Irto in Calabria, oppure dagli exploit di candidati non scelti dal partito – che però di certe istanze e di certi territori sono magari interpreti migliori. Se a Torino ha fatto notizia il candidato della sinistra dem Enzo Lavolta, che ha raccolto 10 mila firme in pochi giorni, contro le 500 di soli iscritti presentate secondo il regolamento dal candidato scelto dal Pd Stefano Lo Russo (il partito in città conta 1300 iscritti) a Roma questo fenomeno, calmierato a livello di pretendenti al Campidoglio, si è prodotto nei municipi. Nel XIII, ad esempio, in una manciata di giorni la candidata civica Arianna Ugolini ha raccolto 1.020 firme, poche meno delle 1200 del Pd ufficiale per Sabrina Giuseppetti. Exploit ai quali corrisponde, comunque, una vita difficilissima. Perché poi, il candidato scelto dall’alto prevale. Ne sa qualcosa Emiliano Monteverde, assessore alle politiche sociali del primo municipio (uno dei due vinti dal Pd nel 2018), la cui candidatura alla presidenza come successore di Sabrina Alfonsi era considerata lo sbocco naturale e il riconoscimento di anni di apprezzato lavoro: Monteverde aveva già raccolto le firme necessarie quando, a 48 ore dalla scadenza per la presentazione delle candidature, il Pd ha paracadutato Lorenza Bonaccorsi, sottosegretaria alla Cultura nel governo Conte due, ex consigliera regionale con Nicola Zingaretti. Monteverde si è ritirato in buon ordine, per non spaccare il partito: dal giorno in cui l’ha annunciato, la sua pagina Facebook è inondata di commenti del mondo dem, anche di eletti come l’assessora al III Municipio Claudia Pratelli, indignati per la mossa. Non si contano quelli che giurano di non votare più il Pd. C’è chi già annuncia scheda bianca. C’è chi nota come questa sia peggio «della storia del notaio», quando nel 2015 gli eletti del Pd sfiduciarono il sindaco Ignazio Marino appunto davanti al notaio. E la campagna elettorale di Carlo Calenda, intanto, continua.
Dagospia l'11 giugno 2021. Da “Un Giorno da Pecora”. Ex ministro dell'Economia, deputato Pd, candidato alle primarie del centrosinistra a sindaco di Roma e formidabile chitarrista. Roberto Gualtieri, oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha lasciato per un attimo da parte la politica per imbracciare la chitarra, suonando i Maneskin, dedicando “Bella Ciao” al rivale capitolino Michetti, 'l'Era del Cinghiale Bianco' alla sindaca Raggi, 'il Marchese del Grillo' a Carlo Calenda. Abile musicista specializzato in ritmi brasiliani, l'ex ministro ha iniziato la sua 'performance' a Un Giorno da Pecora con una versione solo chitarra del classico 'Garota de Ipanema', per poi dare spazio a 'Vent'anni' e 'Zitti e Buoni' dei Maneskin, a 'Roma Capoccia' e alle 'dediche' più politiche. “Bella Ciao'? Mi stupisce che qualcuno sia contro l'idea di suonarla il 25 aprile, pezzo di democrazia e libertà. La dedichiamo a Michetti”, ha detto Gualtieri che ha rivelato anche di aver suonato nella metropolitana di Parigi, per un giorno, quando aveva sedici anni. “Sono tifoso della Roma, ho studiato nella stessa scuola di Totti, la Manzoni e alcuni miei amici ci giocavano a pallone, lui era piccolissimo ma già batteva tutti, in via Vetulonia. In che ruolo giocavo? Ero terzino destro”. Così a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il candidato alle primarie del centrosinistra a sindaco di Roma, deputato Pd ed ex ministro dell'Economia Roberto Gualtieri. “Virginia Raggi andava alla scuola media a fianco alla mia, alla Pascoli, mentre io andavo alla Carducci”, ha aggiunto il deputato Pd. La prossima settimana ci saranno gli esami di maturità. Ricorda la sua? “Bene, ho preso 54, ma tutta la classe prese 7 in condotta”. Come mai? “Abbiamo contestato una decisione dei docenti, non eravamo contenti e abbiamo condotto una battaglia”. Calenda ha ammesso di essersi fatto un po' “photoshoppare” sui manifesti elettorali? “Non lo so, in passato non l'ho fatto quando sono stato candidato, ma forse è giusto, vediamo. Mi affiderò agli esperti…”. La sua 'linea' è perfetta o deve un po' dimagrire? “Al Mef ho preso un sacco di chili, ero sempre fermo a lavorare. Ora sono a dieta e ho perso già quattro chili”. Quanti ne devo perdere? “Almeno altri quattro. Diciamo che se arrivo a novanta chili va bene”.
Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” il 30 giugno 2021. A Roma è tutto un gran parlare del candidato sindaco imposto da Giorgia Meloni alla coalizione di centrodestra, un certo cavalier Enrico Michetti di anni 55, docente di diritto pubblico a Frosinone, sconosciuto alla quasi totalità degli abitanti della Capitale ma non a quelli che ogni tanto si sintonizzano su una radio locale e lo sentono urlare con la voce del tribuno – «Io rappresento la plebe!» – infilando gaffe già memorabili e invocando saluti romani, citando Cesare Ottaviano Augusto e immaginando che Roma possa tornare caput mundi – va comunque precisato che ai sit-in elettorali, per adesso, arriva ancora in macchina e non su una biga. Ingiustamente si parla molto meno della sua vice, anzi della sua pro-sindaca, come lei stessa ha voluto definirsi: e cioè di Simonetta Matone, sostituto procuratore presso la Corte d’Appello di Roma ma, per anni, al Tribunale dei minori, storica ospite di Bruno Vespa e formidabile frequentatrice di quei salotti romani tipo Grande Bellezza, dove puoi incontrare un cardinale che parla con l’amante in minigonna di un ministro, mentre il ministro fa finta di niente e, al buffet, s’ingozza con mozzarella di bufala e olive ascolane. Matone è un giudice di mondo. Veloce, simpatica, colta. Ha già spiegato ai cronisti la sua bozza di programma, che gira intorno a due punti banalotti: maggior attenzione alle periferie e a chi è più emarginato. Però meglio lei del mitico Michetti, che un programma invece proprio non ce l’ha: «Ma ho chiaro che i romani non avrebbero mai costruito le piramidi perché pensavano a ponti e acquedotti!» (da qui a ottobre, quando si voterà, il tipo può regalarci molte soddisfazioni). Comunque: coppia di candidati scoppiettante. Matone è stata scelta da Matteo Salvini, che a Roma non sapeva chi candidare (non è molto inserito in città: a parte l’amicizia – poi allentata – con i camerati di CasaPound, gli fa tutto Claudio Durigon, che però è di Latina). Al Foglio, Matone ha soffiato: «Nei sondaggi, in verità, ero molto più alta di Michetti come popolarità: io al 47 e lui al 19». E allora perché Salvini ha accettato di vederla candidata solo come n° 2 al Campidoglio? Perché – raccontano perfidi – l’eventuale sconfitta elettorale di Roma vuole accollarla tutta alla Meloni (e al suo Cesare Ottaviano Augusto).
Redazioni Partigiane. Comunali Roma, la romanità patacca di Michetti, il cavaliere della destra decaffeinata. Francesco Merlo su La Repubblica l'11 giugno 2021. Con la Lupa e i Cesari torna la sottocultura che fu di Alemanno e Polverini. "Cav. Avv. e Prof. Enrico Michetti”: così presenta se stesso. E sono titoli decaffeinati, non falsi ma minori. Anche il passaggio da Giletti a Michetti è populismo decaffeinato: Salvini&Meloni cominciarono (ricordate?) con il corteggiare la telestar dell’Arena e alla fine hanno candidato a sindaco di Roma la macchietta “Caput Mundi”. Decaffeinare significa passare al simulacro, al latte magro, alla cioccolata senza cacao: dal cavaliere del lavoro come Berlusconi al cavaliere al merito come Michetti, dal tradizionale professore-politico italiano come Moro, Spadolini, Amato, Monti, Colletti, Melograni, Marco Biagi, Rodotà e Draghi e persino Conte, al “docente a contratto” a Cassino come Enrico Michetti.
Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” l'11 giugno 2021. Aitante, sgargiante, il faccione allegro: la Destra prima che una simpatica persona ha dunque candidato una categoria antropologica. Ma la verità è che, solo negli anni in cui la camerata Renata Polverini fu presidente della regione Lazio, Michetti, attraverso la sua società, "Gazzetta Amministrativa srl", fu assorbito in «quel gran giro de quatrini». Quanto di quel vecchio mondo c'è nel nuovo Michetti decaffeinato di oggi? I Davvero non bisogna ridere troppo dei suoi proclami che sono solo all'inizio. Nel ciarpame del rifamo il Colosseo, nella strizzatina d'occhi al saluto romano, nelle simpatie no vax, nella retorica della lupa e di Giulio Cesare di cartapesta ma anche di Asterix, disegnato come una statua ma con il prezzemolo in testa al posto dell'alloro, c'è davvero un ritorno e un rilancio della sottocultura che anche il sindaco Gianni Alemanno inseguiva come un momento magico. Alemanno e Renata Polverini sono i progenitori del Michetti augusteo, ma non di quello radio-populista. Ma Michetti non è fascista. È il tribuno populista ripulito, non somiglia a Gramazio e neppure a Er pecora Teodoro Buontempo, non è nemmeno assimilabile ai beffardi Storace e Gasparri. È probabile che il Cav Avv Prof si metterà a spararla sempre più grossa perché questo è il suo genere - non solo un degenere - che lo fa somigliare alla Zanzara di Giuseppe Cruciani. E forse Michetti a Roma è questo: un Cruciani decaffeinato.
Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma” l'11 giugno 2021. Asl Roma 5 e Regione Basilicata. Si allunga la lista dei clienti dell'avvocato Enrico Michetti, almeno quanto il numero di inchieste che riguardano gli affidamenti diretti ottenuti dalla fondazione e dalla società che, sotto il nome di Gazzetta amministrativa, fanno riferimento al neo candidato sindaco del centrodestra. Oltre agli approfondimenti richiesti alla Guardia di Finanza dalla procura della Corte dei Conti del Lazio sugli abbonamenti e i corsi di aggiornamento acquistati tra il 2008 e il 2014 dal Consiglio regionale, sono partiti anche quelli sulla convenzione stipulata dalla Asl di Tivoli con il professore per la vendita dei beni dell'ex Pio Istituto. Un'alienazione da 50 milioni di euro autorizzata nel 2016 dalla Regione e affidata dall'Azienda sanitaria alla fondazione di Michetti per 90 mila euro. Un mero «rimborso spese», si è difesa la Asl Roma 5 quando l'Anac nel luglio 2018 ha bussato alla sua porta. Un affidamento diretto illegittimo secondo l'Anticorruzione, senza nessuna indagine di mercato preliminare e in violazione del codice degli appalti. Il caso, come quello che interessa la Pisana, è finito all'attenzione della Corte dei Conti. Le responsabilità e gli eventuali sprechi sono tutti a carico di chi ha firmato gli affidamenti. Non di Michetti, che in un'intervista a La Stampa ha dichiarato «chiarita» la situazione. Fatto sta che la sua Gazzetta amministrativa torna in un'altra indagine dell'Anac. Il terzo fascicolo della serie porta in Basilicata. Anche in Lucania ci sono convenzioni e appalti assegnati senza bando. Nel mirino dell'Authority sono finite tre delibere per un conto finale che sfiora i 2 milioni di euro. La conclusione dell'Anticorruzione è durissima: «La Regione Basilicata ha affidato a un operatore privato appalti di servizi informati e altri appalti pubblici di servizi e forniture con procedura negoziata senza bando». Una pratica che si è risolta nella «conseguente indebita sottrazione all'evidenza pubblica di appalti di rilevante importo» e nell'ennesima segnalazione dell'Anac alla Corte dei Conti. A occuparsi del caso questa volta sono i pm contabili locali. La linea d'inchiesta, però, è già stata tracciata dall'Autorità allora guidata da Raffaele Cantone. Il faro va prima sulla convenzione dell'aprile 2015, un accordo da 800 mila euro in cambio del quale la società di Michetti ha messo a disposizione dei dipendenti della Regione i suoi software. Programmi che si basano su due sistemi brevettati dall'azienda dell'avvocato, Talete e Pitagora, e garantiscono il coordinamento del personale, la consultazione rapida delle banche dati e dell'edizione regionale del Quotidiano della Pa. Il secondo appalto pesa 978 mila euro e riguarda la realizzazione di un Centro di competenza per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione a Potenza. Quindi il terzo contratto, datato marzo 2012, da 181 mila euro per l'accesso alla Rivista giuridica on-line, a Contenzioso on-line, alla Gazzetta informa news e quella della Regione Basilicata. I tre affidamenti, scrive Anac, hanno messo la Regione in una situazione di «lock in», di dipendenza dai software della Gazzetta amministrativa. Poi sono finiti al vaglio del Tar. Quando la Basilicata ha congelato i versamenti alla srl di Michetti - spuntano 50 mila euro all'avvocata Valentina Romani, socia di minoranza della società - ma senza dare un termine preciso alla loro sospensione. Così, lo scorso febbraio, i magistrati lucani hanno dato ragione al candidato del centrodestra e sbloccato i pagamenti. Sempre che ora la Regione Basilicata non motivi meglio lo stop agli accordi con il legale.
Enrico Michetti, l’avvocato innamorato delle norme: chi è lo sconosciuto da cui dipendono le sorti del centrodestra. A Roma si gioca la partita più importante delle amministrative. Da dove viene il tribuno a cui Giorgia Meloni ha affidato il suo futuro. Susanna Turco su L'espresso il 10 settembre 2021. Fosse in competizione per il Guinness dei primati, anziché per l’elezione a sindaco della Capitale, non avrebbe rivali: Enrico Michetti, come lui nessuno mai. In questa campagna elettorale da Arrivano gli alieni, che a Roma è una via di mezzo tra il far west, la commedia all’italiana dei Nuovi mostri e i personaggi guzzantiani dell’Ottavo Nano, il candidato voluto dalla leader di Fdi Giorgia Meloni come faro del centrodestra unito incarna infatti lo Zeitgeist, è il crocevia di circostanze che ne fanno una sintesi vivente dello spirito del tempo. In questo senso, il primo slogan che ha messo in campo (Michetti chi?) è solo un assaggio: magari fosse la notorietà, il tema. Così come è solo una punta dell’iceberg il suo definire il saluto romano «più igienico» in tempi di Covid-19, o quel confronto da cult con gli altri candidati che fece in mezzo all’estate, quando parlò dei «meravijosi» archi dell’acquedotto romano e, visibilmente impreparato sulla città di oggi, finì per andarsene: magari fosseno le gaffe, il problema. Apparentemente nuovo ma in realtà maschera eterna della romanità trasversale, più gabinettista che candidato civico, avvocato come Giuseppe Conte ma abile nelle supercazzole ben più di Giuseppe Conte, detto «professore» in quanto docente a contratto all’università di Cassino, direttore della Gazzetta amministrativa, consulente esperto nella risoluzione di procedure amministrative complesse, appassionato di commi, procedure, testi unici, Michetti è l’uomo che pensa di affrontare il compito soverchio di guidare Roma brandendo l’egida luminosa della dea Norma e di suo figlio il Provvedimento, divinità che venera e sa maneggiare evidentemente più di qualsiasi visione politica, o soluzione spiccia, elementi entrambi che è stato sin qui del tutto incapace di articolare. Un burocrate senza colore, ma pieno di sé e sorridente («un bel signore», l’ha definito la signora Maria Elena, 91 anni, a Tiburtina), il sacerdote di una religione particolare per la quale - dice - «la burocrazia respira dalla visione che uno ha» e, quindi, il provvedimento porta dentro l’eco del sentimento di chi lo scrive: una specie di animismo dei fascicoli, insomma. L’opposto del tribuno radiofonico (della locale Radio Radio), estremista e fascistoide che ci si sarebbe immaginati: uno come lui, il Duce l’avrebbe definito semmai «travettista dicasteriale». Michetti si esalta davvero soltanto quando parla di «segmenti procedimentali», tipo sex appeal dell’inorganico, «perché il corretto esercizio del potere vien rappresentato nel momento in cui si crea un canale osmotico, perfettamente irrorato , tra colui che emana il provvedimento e i destinatari del provvedimento». Praticamente una pagina erotica. Ed è con questo armamentario che si aggira per la Capitale, puntando al Campidoglio nel secondo azzardo di campagna elettorale, cominciata a inizio agosto e ricominciata in questi giorni, in sordina, con prudenza. Gli hanno vietato di parlare di storia romana - se ne è lamentato apertamente domenica scorsa a Formello, dialogando alla kermesse “Itaca” con l’ex ministro centrista Mario Baccini. Gli è rimasto solo il suo grande amore: il fascicolo. Quali sono i primi provvedimenti che vorrebbe avviare? Bisognerebbe «ridurre a 7-8 i 174 regolamenti del comune». Priorità. Brividi. Significativa la distanza tra questo piglio e invece il valore politico della competizione. «Tutto passa da Roma», ha detto l’altro giorno il segretario dem Enrico Letta. Vale per il centrosinistra, ma anche di più per il centrodestra: è sul risultato di Michetti, e poi quello degli altri civici sparsi per l’Italia da Meloni-Salvini-Berlusconi, che si misurerà la tenuta e il disegno della coalizione, soprattutto per quel che riguarda i rapporti di forze tra Fratelli d’Italia e Lega: per lanciare l’opa sulla leadership del centrodestra, infatti, la leader di Fdi avrà bisogno di un risultato che confermi come il suo partito è molto più forte del Carroccio, nella realtà e non solo nei sondaggi. E un brutto risultato a Roma, da parte del candidato che proprio lei ha voluto, la indebolirebbe non poco nella corsa per Palazzo Chigi. Anche questo genere di competizione - giocata di fatto a perdere, più che a vincere - dice molto della politica contemporanea. Michetti stesso, peraltro, calza come un guanto a rappresentare la quintessenza di gare - quelle per la carica di sindaco - dove i pretendenti scarseggiano: se fino a pochissimo tempo fa proporsi a guidare Roma era l’anticamera dell’upgrade politico - è stato così per Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, ad esempio - adesso la selezione è al contrario. Già trovare qualcuno disposto a rischiare di vincere (perdere è più rassicurante) è difficilissimo. A Roma lo si vede ancora meglio che altrove: all’avanguardia sul punto, la Capitale per dirne una ha mandato in tribunale gli ultimi tre sindaci, compresa l’attuale. Da primato. Ignazio Marino s’è dovuto pagare da solo gli avvocati, dopo la cacciata (il comune non ha ritenuto di doverlo difendere nel processo intentatogli dai Tredicine, che si dicevano danneggiati da una sua ordinanza), Gianni Alemanno è uscito solo ora, in Cassazione, assolto dall’accusa di corruzione, dopo sette anni (gli resta il processo per traffico di influenze). Anche per questo, l’attuale quaterna di candidati sembra composta di avventori del Bar di Guerre Stellari: Virginia Raggi, Roberto Gualtieri, Carlo Calenda ed Enrico Michetti. Dei quattro, Michetti era l’unico sconosciuto. Sorto come dal nulla: ma solo in apparenza. Ed è, anche questo, spirito del tempo: dopo l’«uno vale uno», c’è l’«uno vale uno» sedicente. Cioè si punta su personaggi che sembrano qualsiasi, ma che invece stavano lì da prima. È accaduto anche con Giuseppe Conte: adesso con Michetti la faccenda è persino più raffinata. Quando saltò fuori il suo nome, nell’intero centrodestra, nella Lega ma pure in Fdi, si diceva: vedrete, Meloni ora tira fuori il nome vero, perché questo Michetti è chiaramente una copertura, non si sa chi sia. Eppure il «professore» s’aggira per la politica romana sin dalla fine degli anni Ottanta. Solo dopo avrebbe messo su quel sistema trasversalissimo di rapporti che si intravede scorrendo la lista dei vari comitati tecnico scientifici attorno alla Gazzetta amministrativa (nomi come quello dell’ex magistrato Luca Palamara ma anche dell’avvocato Luca Petrucci, appena scomparso). «Dicono “Michetti chi”, ma bisognerebbe dire “Raggi chi”. Determinato e ambizioso, lo conosco fin da ragazzo», ha svelato Lorenzo Cesa, l’ex segretario dell’Udc, andreottiano ciociaro, figlio d’arte del sindaco di Arcinazzo e «amico di antichissima data» di Michetti. Lo ha ricordato anche il senatore centrista Antonio Saccone: «È merito di Michetti se ho cominciato a fare politica, all’università. Stavamo a Scienze politiche, nostro nume tutelare era Lorenzo Cesa». Fondarono anche una associazione, si chiamava Libertà e pensiero, il futuro avvocato amministrativista coniò lo slogan: «Vivremo lontani dai fasti e dai falsi valori, vivremo con la gente e per la gente, formeremo i giovani al credo di libertà e pensiero. Generosità, semplicità e fede: così noi cambieremo il mondo». Questo era «Michetti chi» nel 1990. Poco più che ventenne, vicino appunto a Cesa, quindi al ministro dei Lavori pubblici Gianni Prandini e all’area vasta degli sbardelliani, dal quartiere nativo di Colli Portuensi già coltivava il progetto di entrare al Comune, come consigliere. Brigava per diventre il numero uno dei giovani Dc romani: era quella la chiave per il Campidoglio, ma la mancò. Fallito il progetto, Michetti si era accordato, come diciamo premio di consolazione, per mandare uno dei suoi come delegato al congresso nazionale di Montecatini. Fatale gli fu il ritardo: nel giorno in cui si dovevano decidere i nomi dei delegati, una domenica, arrivò tardi all’appuntamento davanti al portone di piazza Nicosia. Gli altri giovani Dc, trovando il palazzo chiuso e non avendo le chiavi per entrare, si erano nel frattempo riuniti in una sala trovata nei pressi della chiesa di San Lorenzo in Lucina. Non c’erano i telefonini, nessuno l’avvertì: quando alla fine Michetti trovò i suoi “colleghi”, i delegati erano stati già decisi, e gli assenti (cioè lui) erano stati esclusi. La sua furia rimase proverbiale: rissa sfiorata, timore diffuso di una vendetta successiva (aveva fama di boxeur). Sarà per questo che il candidato del centrodestra è adesso così mite? Di certo il suo modo di fare riflette qualcosa di più profondo, un classico per gli sbardelliani: ostentazione di pacatezza e buone maniere. Come a dire: sono di destra, ma so stare a tavola. Per la tacita disperazione del suo apparato comunicativo (guidato da Francesco Kamel), infatti, Michetti non polemizza, non replica, non dice. Adora i bagni di folla, abbraccia e bacia tutti, si interessa, si informa, ama l’acqua «frizzantina» e se vede per strada un ciuffo di ortica avverte i passanti: «Occhio: raspa». Affabile e vago. Questione rifiuti? «Io credo che Roma abbia bisogno di impianti»; conflitti sul punto tra comune e regione? «Serve la collaborazione tra enti»; parcheggio selvaggio dei monopattini? «Servono regole chiare e controlli rigorosi». Per la sicurezza? «Serve un tavolo permanente, una volta a settimana, dove fare il punto della situazione». Insomma la strategia è: «Serve fare qualcosa». Imbarazzante a farci caso, ma nessuno ci fa caso nel caos di Roma, un posto dove si fa lo slalom tra cinghiali (Roma Nord) e carcasse di gabbiani (pieno centro), e le strisce pedonali magari te le dipingi da solo (San Basilio). Così, più alto di tutti nei sondaggi (anche se in discesa) Michetti passeggia spensierato - mica deve vincere - e tronfio per tutta Roma, tra le polemiche sulla candidata antisemita e no vax Francesca Benevento e quelle attorno all’ultras tatuatore Francesco Cuomo (in lista con Fdi), progettando già di dare seguito a questo primo salto in politica (dietro la porta ci sono le regionali, ma anche le politiche: un seggio all’ex candidato sindaco sarà difficile negarlo e intanto immagina di realizzare il sogno di quando aveva vent’anni: entrare in Comune. «Mi piace l’idea che uno passeggia per strada, vede qualcosa che non va, e quando torna in ufficio si infuria come una bestia», chiacchierava l’altro giorno a Casal Bruciato con uno dei suoi sponsor politici, Paolo Trancassini. Coordinatore regionale di Fdi, per quattro volte sindaco di Leonessa, provincia di Rieti, Trancassini aveva portato Michetti (che fra le mille consulenze ha anche quella del comune di Rieti) a organizzare un corso di formazione per i Fratelli d’Italia nella sede nazionale di via della Scrofa già in primavera. Prima cioè che il suo nome spuntasse per la corsa romana. «Trancassini e Arianna, la sorella di Giorgia Meloni, l’hanno ascoltato per radio e sono rimasti conquistati», si era affrettato a raccontare ai giornali a giugno il direttore editoriale di Radio Radio, Ilario Di Giovambattista, nel più stretto inner circle di Michetti, felice di lanciare il supposto “tribuno” dopo averlo allevato per sei anni sulle frequenze. Ma è da ben prima che Michetti si aggira, da consulente, nei palazzi: anche in Regione Lazio dove appunto lavora da vent’anni la sorella di Giorgia Meloni, il “professore” si affacciò la prima volta ai tempi di Piero Marrazzo. Dopo la fine della Dc, infatti, s’era buttato sulla cerchia rutelliana: ottimi erano i suoi rapporti con Bruno Astorre, oggi segretario regionale del Pd, e all’epoca assessore e poi presidente del consiglio alla Pisana. Quando alla Regione Lazio (e non solo) Michetti aveva cominciato a portare corsi di formazione, supporto tecnico e tantissimi abbonamenti alla sua rivista (sul tutto stanno dando un’occhiata Corte dei conti e Anac, ha raccontato Domani). Non è ancora chiaro se Giorgia Meloni, che a quanto dicono ha scelto il «tribuno di Radio Radio» anche per scartare dalla corsa il fratello d’Italia Fabio Rampelli, abbia compreso fino in fondo chi ha lanciato alla conquista del Campidoglio. Certo non è un caso avergli messo accanto in pieno agosto, stile squadra di soccorso come ha segnalato il Foglio, figure come quella di Luigi Di Gregorio, professore alla Luiss che costruì le campagne elettorali vincenti di Alemanno e di Polverini. Ed è vero che la leader a Michetti sta sempre più incollata, gli fa maternage politico, risponde talvolta al posto suo, si mostra entusiasta e, come l’altro giorno alla presentazione della lista di Fratelli d’Italia al quartiere dell’Eur, riesce ad ascoltare l’intero intervento del candidato sindaco. Con il volto ostentatamente inespressivo, annuendo professionale di tanto in tanto. Persino quando lui si attarda in una delle sue specialità: tuonare circa il pieno rispetto della legge 241 del ’90, in particolare sui tempi di risposta della pubblica amministrazione. Un testo pressoché sacro, che Michetti sa recitare a memoria e rievoca con un solo fiato: «Laduecentoquarantunodelnovanta». Il suo vero obiettivo da sindaco, si sospetta. Come se fosse Antani.
Estratto della Dagonews del 25 maggio 2021. Da ieri, tra gli ambienti di centrodestra il refrain è: ma chi minchia è questo Michetti? Talmente sconosciuto da essere ribattezzato nelle ultime ore “Minchietti”. Abbiamo scoperto perché nel centrodestra nessuno conosce il candidato sindaco Michetti, astro nascente dell’empireo meloniano.
(ANSA il 14 giugno 2021) "Il mio soprannome? Mi chiamavano Michi. Ma Sgarbi ha detto che mi fara' diventare un Michettone". Dagospia "mi chiama Minchietti? Ognuno può chiamarmi come vuole". Lo dice Enrico Michetti, candidato sindaco di Roma per il centrodestra, al programma radiofonico "Un giorno da Pecora". "La mia professione non mi dava tutta questa visibilità - prosegue Michetti -. Ma infatti perchè sono a un giorno da pecora? Siete voi che mi dovete far conoscere. Poi non è del tutto vero che sono sconosciuto. Io sono stato attaccato da destra a sinistra, nonostante non fossi ancora candidato. Hanno spulciato parecchio nella mia vita. Quindi forse non sono così sconosciuto agli addetti ai lavori".
Dagospia il 14 giugno 2021. Da "Un giorno da Pecora - Radio1". “Roberto Gualtieri mi ha dedicato ‘Bella Ciao’? Io gli dedico l’inno d’Italia. Cosa dedicherei Virginia Raggi? Non saprei, mi mettete in difficoltà. A cena andrei con entrambi, loro sono colleghi, non avversari o nemici”. Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il candidato sindaco per il c.destra Enrico Michetti. Qual è la prima cosa che farebbe da sindaco della Capitale? “Una grande pacificazione, dobbiamo mettere al centro gli interessi dei romani”. Di lei si sa molto poco, quali sono le sue passioni oltre alla politica? “La mia passione è la P.A., ci lavoro da talmente tanto tempo che ormai è diventato quasi un hobby”. Avrà anche qualche altro interesse... “Lo sport mi è sempre piaciuto molto, in particolare la bici: quando esco in mountain bike faccio 40 o 50 km”. Calcisticamente lei è tifoso della Lazio. “Ma da candidato e da sindaco sarò assolutamente terzo e imparziale”. Si sente un po' il Sarri di c.destra? “Beh, Sarri bisogna prima vederlo all'opera”. Quando è diventato tifoso biancoceleste? “Vi faccio una confessione. Io sono diventato della Lazio quando i biancocelesti erano in serie B e stavano tornando in Serie A, mentre la Roma a quell'epoca era forse la più forte di tutti i tempi. Nei confronti di quella squadra c'era solo ammirazione mentre noi soffrivamo, ma chi è tifoso della Lazio - ha concluso Michetti a Rai Radio1 - è abituato ai sacrifici, anche se non sono mancati momenti di gioia”.
Enrico Michetti, dopo 24 ore parte la campagna denigratoria della sinistra: tintinnio di manette e saluto romano. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. In linea con il compito tutt' altro che circoscritto che si è dato - «restituire alla Città eterna il ruolo di Caput mundi» - non sorprende che la presentazione della candidatura di Enrico Michetti (prevista stamane alla presenza di Salvini, Meloni e Tajani) si svolgerà al Tempio dedicato a un governante illuminato dell'antichità come fu Adriano. Del resto l'idea di riconsegnare il buon governo e la competenza a Roma, a maggior ragione dopo cinque anni di "grillismo" targato Virginia Raggi, rappresenta la traccia che ha ispirato chi ha portato il professore esperto amministrativista, «il Mr. Wolf chiamato dai sindaci per risolvere i problemi», sul tavolo della coalizione. «Faccio volentieri campagna elettorale per Michetti», ha ribadito ieri Giorgia Meloni a L'Aria che tira. «Non sarà un "nomone" - ha insistito - ma se lo propongo è perché sono sicura che con lui si possa vincere e governare bene. E che la macchina del Comune di Roma camminerà». Chiaro, poi, che per arrivare ai comandi della gigantesca macchina capitolina occorrerà battere gli avversari. Ma per la leader di FdI il presunto gap di popolarità di Michetti non è un problema. Al di là dei sondaggi più che positivi, «ha una grande empatia coi cittadini della Capitale», ha rassicurato a Il Tempo in riferimento al rapporto privilegiato che il professore vanta con i cittadini grazie al filo diretto sulle radio locali. E comunque Giorgia non lascerà mica da solo Michetti: «Gireremo insieme Roma». A dargli una mano ci sarà pure Matteo Salvini che ieri ha voluto incontrare per un'ora il neocandidato per fare il punto sulle cose da fare «per il futuro della città». Ordine del giorno? «Abbiamo parlato non di filosofia - ha chiarito il segretario della Lega - ma di Atac, di Ama, di rifiuti, di licenze, di tombini, di lavoro...». Michetti camminerà fianco a fianco con Simonetta Matone, il magistrato esperto di diritti dei minori indicato come pro -sindaco, fortemente sponsorizzata da Forza Italia. «Abbiamo dato vita alla squadra Michetti-Matone per allargare i confini del centrodestra», ha spiegato a sua volta Antonio Tajani per nulla perplesso dalla natura del ticket: «Devono amministrare Roma non devono dare una linea politica, sono due civici che devono occuparsi delle cose concrete della città e noi siamo convinti che siano in grado».
Cesari e papi. Il primo ad essere convinto di farcela è ovviamente Michetti stesso: «Se c'è chi pensa che Roma abbia bisogno di una star si sbaglia», ha spiegato convinto com' è che la Capitale abbia bisogno in realtà «di una persona che si è applicata finora ai problemi delle città». E qui il professore snocciola la sua attività venticinquennale di consulenza in materia di dissesti economici, piani regolatori, espropri, funzionamento tecnico degli uffici: «Mi sono occupato praticamente di tutto». In attesa di capire il suo programma, ecco i modelli ispiratori dell'avvocato tribuno: «I grandi cesari e i papi». Questi, spiega il professore, «non avrebbero mai costruito le piramidi perché non erano di pubblica utilità: costruivano ponti, strade, acquedotti e anfiteatri per il benessere dei cittadini». Quanto a quest' ultimi - rivolto ai romani - «abbiamo quattro mesi e mezzo per farci conoscere». Chi non tarda a farsi riconoscere, invece, è la stampa progressista che non ha perso un attimo nell'attivare la campagna denigratoria nei confronti del candidato del centrodestra. Dopo l'immancabile caccia al fantasma "nero" (con Michetti che sul «saluto romano» ha risposto serafico: «Mi hanno chiesto di spiegarne l'origine, ho detto che era con la mano aperta in segno di pace») e il pedante fact checking sul suo tasso di fedeltà al verbo dei "virologi" («Mi sono vaccinato ma nel massimo rispetto di chi la pensa in modo diverso») non poteva mancare il filone giudiziario. Ci hanno pensato Fatto Quotidiano, Repubblica e Domani a tirare fuori filoni di indagini, con tanto di indiscrezioni su una doppia inchiesta di Anac e Corte dei Conti su fatti risalenti a circa dieci anni fa che non riguardano però direttamente né Michetti né la sua Gazzetta amministrativa bensì l'utilizzo di fondi pubblici da parte di alcuni enti per dei servizi. La vicenda era già stata ventilata qualche settimana fa: senza alcun rilievo.
Maria Egizia Fiaschetti per il "Corriere della Sera" il 10 giugno 2021. Sarà Enrico Michetti, 55 anni, il «Mr. Wolf» proposto da Giorgia Meloni, il candidato sindaco di centrodestra a Roma. Avvocato con studio nel quartiere Prati, è conosciuto come fondatore della Gazzetta amministrativa e «tribuno» radiofonico per un'emittente locale. Docente a contratto di Diritto pubblico all' università di Cassino, i suoi collaboratori sono abituati a chiamarlo «professore».
Dopo mesi di stallo, la coalizione ha deciso di sostenerla nella corsa al Campidoglio: come si sente?
«Oggi (ieri, ndr) è stata una giornata memorabile, per un cittadino romano potersi cimentare in una sfida di tale portata è straordinario. Mi riempie di gioia sapere che il mio nome è stato scelto da una coalizione ampia, che ha dialogato con grande civiltà: ringrazio tutto il centrodestra e spero di ripagare la fiducia garantendo a Roma, se verrò eletto, la buona amministrazione».
Più di qualcuno era scettico sulla sua candidatura ritenendola un personaggio poco conosciuto.
«Tutti i dubbi sono assolutamente legittimi, l'idea era trovare il candidato migliore ed è importante che si siano confutati aspetti anche marginali, lo si fa nell' interesse collettivo».
I suoi principali competitor sono già operativi, da dove partirà la sua campagna elettorale?
«Ho comprato un buon paio di scarpe, girerò tutta Roma, lo faccio ritualmente, per incontrare le persone. Credo che la prima tappa verrà concordata insieme con la coalizione. Ognuno è importante: le categorie, i dipendenti pubblici che sono in numero rilevante e vanno visti senza pregiudizi. Nei primi cento giorni adotterei, nei limiti delle nostre competenze, misure per favorire le categorie produttive più colpite dalla crisi e migliorare la qualità della vita nelle aree più degradate».
Da civico non teme, una volta eletto, di essere schiacciato dai partiti?
«I partiti sono fondamentali, sono l'espressione della classe dirigente un po' come la cartilagine per il ginocchio... Abbiamo dei grandi profili che vanno valorizzati in un contesto progettuale armonico, troveremo le persone migliori».
Vittorio Sgarbi si è già proposto come assessore alla Cultura.
«Sgarbi ha un profilo altissimo e il mio ruolo sarà di servizio, non di comando. Voglio essere di supporto ai miei assessori e alle loro idee nel raggiungimento degli obiettivi che ci daremo».
Nel ticket con Simonetta Matone, sua vice, vede una manovra per ridimensionare il suo ruolo?
«Al contrario dovremmo esaltare la sua straordinaria competenza nei servizi sociali e nella sicurezza».
La sua investitura coincide con una doppia emergenza per Roma, i rifiuti e gli allagamenti: quali soluzioni ha in mente?
«Per risolvere il problema dei rifiuti Roma deve dotarsi di impianti innovativi con il minore impatto possibile, oltre a promuovere una raccolta differenziata spinta e una cultura ambientale che punti sul riciclo e il riuso. Riguardo agli allagamenti, servono infrastrutture adeguate dall' ammodernamento della rete fognaria ai depuratori, alle vasche di esondazione».
Il suo sogno da futuro amministratore della Capitale?
«Basta pensare a come vedevano Roma i grandi Cesari e i papi: non avrebbero mai costruito le piramidi perché non erano di pubblica utilità, costruivano ponti, strade, acquedotti, anfiteatri per il benessere dei cittadini. Penso, tra gli altri, a una variante generale del piano regolatore dove inserire una città della pubblica amministrazione con il front office di tutti i dicasteri più importanti, per evitare che i cittadini facciano il giro delle sette chiese».
Si è pentito della frase sul saluto «igienico»?
«C' è il video. Mi hanno chiesto di spiegare l'origine del saluto romano e ho detto che era con la mano aperta in segno di pace, senza alcuna connotazione rievocativa».
E la campagna vaccinale paragonata al doping di massa dei Paesi del Patto di Varsavia?
«Consapevolmente mi sono vaccinato, come tutta la mia famiglia, ma nel massimo rispetto di chi la pensa in modo diverso».
"Risolverò i problemi di Roma, come Mr. Wolf". Pier Francesco Borgia il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. Esperto di diritto degli enti locali: "Per la Matone un ruolo ad hoc per il sociale".
Professor Michetti, come ha preso la notizia della sua candidatura a sindaco di Roma per il centrodestra?
«Sono davvero lusingato non solo della fiducia, ma anche del fatto che il mio nome e quello di Simonetta Matone sono il frutto di una attenta e scrupolosa analisi».
Che ruolo avrà la Matone?
«Il vicesindaco è una funzione di straordinaria importanza. E per la dottoressa Matone verrà ritagliato un ruolo che ne esalti sicuramente le competenze. Con una supervisione di tutte le materie che hanno a che fare con il sociale».
Come sarà secondo lei la campagna elettorale?
«Per quanto mi riguarda sarà civilissima. Si parlerà soltanto di progetti. E ci si scambieranno idee e punti di vista»:
Visione un po' idilliaca della politica.
«Il confronto serve sempre e porta spunti. Insomma si deve perseguire l'ottimo paretiano e non bisogna avere pregiudizi».
La prima cosa che farà, qualora vinca le elezioni?
«Riallacciandomi a quanto abbiamo appena detto, la prima cosa che farò è di evitare di considerare gli avversari politici dei nemici. Sono colleghi dei quali cercherò il giusto stimolo. Lo dico già ora prima che inizi la campagna elettorale: ho il massimo rispetto per chi ha governato fino a ora».
Giorgia Meloni la considera il «mr Wolf» della politica. Si riconosce in questa definizione?
«Un po' mister Wolf mi ci sento. Sa, sono tanti anni che lavoro con gli amministratori pubblici e assisto sindaci di tutta Italia a districarsi nella giungla della normativa e della burocrazia»
Come è nata la sintonia tra lei e la presidente di Fratelli d'Italia, la prima a credere nella sua candidatura?
«È molto semplice. La sintonia nasce quando il politico porta fino in fondo nel migliore dei modi la sua missione».
Vale a dire?
«La politica deve essere sensibile. Per essere virtuosa deve trasformare i bisogni dei cittadini in risoluzioni delle criticità. A una politica attenta non sfugge nulla».
Quindi non è sfuggito ai vertici del centrodestra che lei è un «mr Wolf» per il Campidoglio?
«Sono arrivati a me semplicemente con il passaparola di tutti quegli amministratori che ho aiutato nella redazione di atti pubblici complessi».
Va bene, ma non possiamo sintetizzare nella burocrazia il male peggiore della Capitale.
«Conoscere a fondo la macchina amministrativa, però, aiuta anche a trovare risorse giuste per affrontare le emergenze. La burocrazia è una giungla infernale ma se la conosci è un alleato».
E quali sono secondo lei le emergenze che vive questa città?
«I primi tre che mi vengono in mente sono: sicurezza, igiene urbana e trasporti».
Partirebbe da qui?
«Partirei intanto dal valorizzare le risorse. E soprattutto dal ridare dignità a chi lavora per l'amministrazione capitolina».
E un sogno nel cassetto come aspirante sindaco ce l'ha?
«Mi piacerebbe che Roma tornasse a essere caput mundi».
Progetto ambizioso.
«Mi piacerebbe che il mondo tornasse a guardarci con rispetto e con amore».
Immagino stiamo parlando di turismo.
«Bisogna aiutare la vocazione turistica della città senza dimenticare però che il nostro primo obiettivo è la soddisfazione del cittadino romano. Insomma, il mio sogno nel cassetto è una rete metropolitana all'altezza di una capitale europea. Vorrei finire anche la linea D e chiudere finalmente l'anello ferroviario. Bisogna poi far valere il principio che i rifiuti si smaltiscono in casa, quindi perfezionare la raccolta differenziata con impianti a basso impatto ambientale».
Ecco chi è Michetti, il "tribuno della radio". Francesco Curridori il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. Enrico Michetti, avvocato amministrativista, direttore della Gazzetta Amministrativa e noto speaker radiofonico nella Capitale, è il candidato sindaco del centrodestra a Roma in ticket con la Matone. Enrico Michetti è il candidato sindaco del centrodestra a Roma. L'avvocato amministrativista, classe 1966, proposto da Giorgia Meloni, correrà in ticket col magistrato Simonetta Matone. "Sono contento e emozionato, grato per la fiducia dimostrata in questi giorni, per l'affetto ricevuto", ha dichiarato all'AdnKronos il candidato sindaco designato che ha aggiunto: “Ora è il momento di restituire alla città eterna quello che merita, il ruolo di caput mundi". Michetti, laureato in Giurisprudenza all'Università “La Sapienza” di Roma, è docente di Diritto degli enti locali presso l’Università degli Studi di Cassino dal 2005. È ideatore del progetto “Sistema Gazzetta Amministrativa”, deputato alla formazione, informazione, assistenza ed aggiornamento giuridico della Pubblica Amministrazione. Da oltre 20 anni, in quanto consulente Anci, fornisce assistenza giuridica ai sindaci nelle questioni più spinose: trasporti, igiene urbana, piano regolatore, procedimenti amministrativi. Diversi primi cittadini, non soltanto di Fratelli d'Italia, sono stati difesi da lui nelle udienze al Tar e al Consiglio di Stato. Michetti è direttore della Rivista Scientifica trimestrale “Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana”, nonché membro del “Comitato Scientifico dell’Osservatorio regionale sull’Autonomia differenziata” e membro del “Comitato di Garanzia Legalità Olimpiadi 2026” della Regione del Veneto. L'avvocato romano è, inoltre, un noto speaker radiofonico e, per l'emittente locale Radio Radio, cura una rubrica quotidiana molto seguita in cui parla di diritto amministrativo con gli ascoltatori. Nel 2017, su proposta dell’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, gli è stata conferita, da parte del presidente Sergio Mattarella, l’onorificenza di Cavaliere dell’ordine al Merito della Repubblica Italiana. I leader del centrodestra hanno dato l'ufficialità questo pomeriggio, rimarcando quanto la scelta su Michetti sia il segno di una grande unità della coalizione. "Ho detto solo che andava trovato il miglior candidato possibile. Abbiamo trovato l'accordo in tutto il centrodestra per candidare il ticket Michetti-Matone. A differenza della sinistra, noi siamo uniti: loro hanno tre candidati", ha dichiarato Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Fi, al termine del vertice. "Mi sembra siano stati fatti grandi passi in avanti per il centro destra compatto che lavora per vincere", ha sottolineato Giorgia Meloni, leader di FdI. "Come promesso piena sintonia nel centrodestra. A Roma il ticket sarà Enrico Michetti candidato Sindaco e Simonetta Matone Prosindaco con cui ho parlato personalmente e che per il bene di Roma e del centrodestra si mette a disposizione della squadra. Se Sgarbi farà l’Assessore alla Cultura abbiamo il tridente”, ha chiosato Matteo Salvini.
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”. Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano "Pubblico" diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.
Il nome scelto dal centrodestra per la Capitale. Chi è Enrico Michetti, candidato sindaco a Roma: avvocato e ‘tribuno’ delle radio collezionista di gaffe. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Dopo settimane di stallo il centrodestra ha deciso: sarà Enrico Michetti il suo candidato per le elezioni comunali di Roma previste in autunno. Ad annunciarlo al termine di un vertice interpartitico è stato Matteo Salvini, leader della Lega, che ha reso noto anche che la candidatura di Michetti sarà sotto forma di un ‘ticket’ col magistrato Simonetta Matone, sua vice in caso di elezione al Campidoglio. Il nome di Michetti circolava ormai da settimane ed era spinto in particolare da Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, che a Roma sono ‘titolati’ alla scelta del candidato. Superati dunque gli scogli e i dubbi sul nome di Michetti, avanzati in particolare da Forza Italia, che aveva proposto il senatore Maurizio Gasparri, ma il suo inizialmente aveva lasciato perplessi anche gli esponenti leghisti, in primis Salvini. Ma chi è Michetti? Avvocato e professore di Diritto degli enti locali presso l’Università di Cassino, oltre a direttore di Gazzetta amministrativa, Michetti è noto ai romani per i suoi interventi in diretta all’emittente radiofonica Radio Radio, definito il “Tribuno della Radio”. Il 20 maggio scorso Michetti era intervenuto proprio in radio per ‘accettare’ l’eventuale candidatura. Personaggio estroverso e che sulle frequenze di Radio Radio ama parlare di più temi, è caduto anche in alcune ‘gaffe’, se così vogliamo chiamarle. Il 13 ottobre scorso aveva definito nel corso di un suo intervento la pandemia di Covid “influenza”. “È diventato ridicolo – aveva sottolineato Michetti – si parla soltanto di questa influenza, particolarmente grave, per carità di Dio, in casi acuti, ma che di questo virus si faccia un programma di governo che altrimenti non avrebbe ragione di esistere è paradossale”. Fece discutere anche un paragone ardito di Michetti, che aveva messo sullo stesso piano la campagna di vaccinazione del governo al doping di Stato dell’ex Germania dell’Est. Secondo Michetti infatti in Italia si “calpesta la libertà”, perché si “calpestano tutti i presupposti per porre il cittadino al centro del Paese! Il lavoratore deve essere al centro della vita politica, istituzionale ed economica. Non un subalterno, non un suddito! Non una persona da prendere e vaccinare come una vacca coattivamente contro la sua volontà come facevano con le atlete del mondo dell’Est. E poi si sono visti i risultati ad anni di distanza, quelle povere ragazze che fine hanno fatto”. Una posizione sul vaccino anti-Covid ambivalente. Ad aprile il neo candidato sindaco del centrodestra attaccava: “Stanno affogando la costituzione negli acidi! Il principio di precauzione non esiste nel diritto italiano. Nessuno può imporvi alcuna iniezione. Non siamo delle cavie”. Eppure un mese dopo, con la foto pubblicata sul sito di Radio Radio, ecco Michetti irrompere mentre viene vaccinato: “Ho deciso consapevolmente di vaccinarmi attendendo il mio turno, ma rispetto profondamente chiunque abbia un’opinione diversa dalla mia”, spiega lasciando quindi uno spazio aperto all’universo no-vax. Ma da Michetti, sempre durante uno dei suoi interventi su Radio Radio, aveva anche strizzato l’occhio ai nostalgici del fascismo. Parlando dei saluti tra persone e del contatto ‘umano’ ai tempi del Covid, il neo candidato del centrodestra aveva detto la sua in questo modo: “Adesso si sta rispolverando anche il vecchio saluto a distanza, quello romano. I romani quando inventavano le cose rasentavano la perfezione, qui qualcuno se lo dimentica. Salutavano così perché era il modo più igienico”. Poi l’avvertimento: “Se per qualcuno per cui la storia inizia nel 1917 con la Rivoluzione russa il saluto romano è rievocativo del fascismo e del nazismo è un problema suo“.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Simonetta Matone, "quella di Porta a Porta": da Bruno Vespa alla discesa in campo a Roma. Libero Quotidiano il 10 giugno 2021. Simonetta Matone è stata indicata dal centrodestra come vice di Enrico Michetti, il candidato a sindaco di Roma indicato in particolare a Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia. Dopo una serie di incontri conclusi con un nulla di fatto, è quindi finalmente arrivata la fumata bianca che ha sancito l’accordo tra tutte le parti in causa. Matone è invece più vicina a Lega e Forza Italia, ma è conosciuta soprattutto per essere “quella di Porta a Porta”, come sottolineato dall’edizione odierna de La Repubblica. “Specializzata in adozioni difficili, affidi controversi, violenza in famiglia, abusi ai minori, bimbi tolti alle mamme (pure rom) - scrive Filippo Ceccarelli - molestie, pedofilia, bullismo, revenge porn, stalking, femminicidio e altri consimili reati che purtroppo avvengono, però fanno audience anche a notte fonda. Da anni assiduo e rassicurante presidio sulle poltroncine bianche del salotto di Bruno Vespa; ai confini della tv del dolore, là dove il plastico dei fattacci rende scorrevole la comunicazione fra il peccato e lo spettacolo, il delitto e l’intrattenimento”. Tutto questo, secondo il ritratto fatto da La Repubblica, sta alle spalle di Simonetta Matone, sostituto procuratore presso la corte d’appello di Roma e tele-ospite fissa in tv: “Quanto di più odierno possa trovarsi sul mercato politico e forse anche al governo della polis. Ciò detto, è una signora intelligenze e altrettanto sorvegliante, provvista di un buon senso tradizionale, ma senza battutine”.
Chi è Simonetta Matone, giudice in difesa di donne e bambini. Maria Scopece il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. Chi è Simonetta Matone, magistrato che, insieme a Enrico Michetti, il centrodestra ha scelto per il Comune di Roma. Roma potrebbe avere un vicesindaco donna. Il centrodestra ha trovato l'accordo su un ticket di due nomi: l’avvocato e professore dell’Università di Cassino Enrico Michetti, candidato a sindaco della Capitale, e il magistrato Simonetta Matone, il cui nome era circolato anche alle regionali del 2018, per la poltrona di prosindaco. La decisione è stata presa nel corso di un vertice tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani.
Chi è Simonetta Matone. Simonetta Matone è un magistrato, dal 2018 ricopre il ruolo di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma. Ha tre figli, due ragazze avute nel corso del primo matrimonio, e poi un maschio, avuto dal secondo marito, il giornalista e vicepresidente dell’Associazione Stampa Romana Emilio Albertario. Simonetta Matone si è laureata in giurisprudenza alla Sapienza nel 1976. Dal 1979 al 1981, nemmeno trentenne, ha diretto il carcere Le Murate a Firenze, dove erano detenuti i capi di “Prima Linea”. Dal 1981 al 1982 è giudice presso presso il Tribunale di Lecco. Dal 1983 al 1986 assume il ruolo di magistrato di sorveglianza presso la Corte di Appello di Roma. In questa veste organizza il primo convegno nazionale sulla detenzione in Italia. In quell’occasione i detenuti mettono in scena Antigone di Sofocle. Il teatro, infatti, è una delle sue passioni. Negli anni in cui lavora presso il tribunale romano concede novecento permessi con un record assoluto di rientri: solo in nove non torneranno in carcere. “A Rebibbia, alla fine degli anni Ottanta, concedevo i permessi ai detenuti che li chiedevano, ancora prima che la legge lo prevedesse. E mi è andata bene: su 990, mi hanno fregato soltanto in 9. Sono riuscita a far tornare in cella ergastolani e criminali condannati anche a 24 anni - disse la dott.ssa Matone in un’intervista al Corriere della Sera del 26 novembre 2001 -. Il mio consulente, in quel periodo, era un uomo straordinario: il cappellano, padre Mario Berni, uno che aveva incominciato nel 1936 a Regina Coeli, il più grande conoscitore dell’animo umano che abbia mai incontrato”. La dott.ssa Matone era molto amata dai detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia. Le regalarono una targa: "A Simonetta, che a molti spezzò la chiave dell’attesa". "Quella targa è la mia medaglia più preziosa”, commentò il magistrato.
Il giudice dei minori. Nel corso della sua carriera ha preso parte a processi molto importanti come quello sulla riduzione in schiavitù di minori rom o quello a carico di un gruppo di naziskin, responsabili di aver aggredito extracomunitari. Il ruolo più caro è stato quello di giudice presso il Tribunale per i minorenni di Roma dove, dal 1991 al 2008, è stata sostituto procuratore. “Qui arrivano abusi, sofferenza, violenza: in questi fascicoli ci sono le storie delle famiglie ammalate - disse la dott.ssa Matone al Corriere della Sera -. Ho perfino paura, a volte, di portarli con me a casa. Ai figli non racconto nulla, mi sembrerebbe di contaminarli con tanti orrori. La storia più terribile? Quella di una madre che sorteggiava i numeri della tombola per stabilire quante frustate, quante bruciature, quante scottature nell’acqua bollente fosse giusto infliggere ai suoi figli. E si andava a decine per volta. Le storie a lieto fine, i ragazzi che tornano a trovarmi, i mazzi di fiori che vede sono la ricarica per poter andare avanti e non lasciarsi travolgere dallo sconforto".
Dal punto di osservazione privilegiato del Tribunale dei minori osservò che i ragazzi che finivano alla sua scrivania avevano un tratto che li accomunava: l’assenza del padre. “Non esiste più la figura del padre: il maschio italico ha perso, in seguito alla rivoluzione femminista, la sua autorità, e questo era ed è giusto. Ma insieme ha perso anche un bene prezioso, la sua autorevolezza. E ha reagito in due maniere, opposte e devastanti entrambe: assenza o violenza - disse il magistrato al Corriere -. Tutti i ragazzi che passano di qua e si siedono su quella sedia hanno in comune un dato: nessuno stima il padre. Con la figura paterna tradizionale è scomparso il senso del dovere e della dignità”. Nel 2000 il magistrato ha vinto il Premio Donna, nel 2002 il Premio Minerva per la Giustizia e il premio Donna, nel 2004 il premio Il Collegio e nel 2005 il premio Donna dell’anno 2005 della Regione Lazio.
L’impegno politico. L’impegno politico inizia nel 1987, quando il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli la nomina a capo della sua segreteria. “Una persona unica, un incontro per me decisivo - disse la dott.ssa Matone del ministro Vassalli -. Lavorai con lui al ministero di Grazia e Giustizia per quattro anni, dal 1987 al 1991, ho conosciuto da vicino la sua sensibilità e la sua umanità, oltre alla sua cultura. Dall’ufficio di via Arenula seguimmo il caso di Serena Cruz, la bambina adottata illegalmente contesa fra le ragioni del diritto e le ragioni del cuore: per difendere i diritti di Serena a restare con i genitori ricevemmo 15 mila telegrammi". Da quell’incontro deriverebbe la scelta di diventare un magistrato per i minorenni. Nel 1992, insieme ad altre colleghe, fonda l’ADMI – Associazione Donne Magistrato Italiane. Nel 2008 diventa capo gabinetto del Ministero delle Pari Opportunità all’epoca di Mara Carfagna. È stata anche vice capo vicario del Dap con il ministro Paola Severino e capo del dipartimento degli Affari di giustizia con il ministro Annamaria Cancellieri. Inoltre ha rappresentato l’Italia presso il Consiglio d’Europa presso il CDCJ, per il Reclamo Collettivo, presso il Comitato Permanente della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti del minore. Nel 2009 è stata nominata Focal Point italiano presso il Consiglio d’Europa per i minori.
La nomina a Consigliera di fiducia della Sapienza. Lo scorso 23 marzo la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni ha nominato Simonetta Matone Consigliera di fiducia dell’Ateneo. Il ruolo prevede di accogliere le segnalazioni del personale e degli studenti al fine di indirizzare i provvedimenti necessari in ogni singolo caso. “Simonetta Matone è da sempre in prima linea per la difesa dei diritti e ha una spiccata sensibilità per i temi legati alle giovani generazioni e alle pari opportunità - ha scritto nella nota di incarico la rettrice Antonella Polimeni -. Sono certa che saprà interpretare al meglio questo ruolo di impegno contro ogni discriminazione di genere a tutela della libertà e della dignità della persona”.
Le accuse delle associazioni Lgbt. In occasione della nomina alla Sapienza alcune associazioni Lgbt, tra le quali Famiglie Arcobaleno, Agedo, il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, Gaynet Roma e Uaar Roma, inviarono una nota di protesta alla rettrice chiedendo di rivedere la sua decisione. Le ragioni? Alcune dichiarazioni del magistrato sulle unioni civili e la firma dell’appello del Centro Studi Livatino contro la legge Cirinnà. Il magistrato aveva contestato “la sovrapposizione, contenuta nel ddl, del regime matrimoniale a quello delle unioni civili, la cui sostanza fa parlare a pieno titolo di “matrimonio” fra persone dello stesso sesso”, e posto l’attenzione sul “danno per il bambino derivante dall’adozione same sex, con la eliminazione di una delle figure di genitore e la duplicazione dell’altra; la circostanza che si giungerebbe direttamente alla legittimazione dell’utero in affitto”.
Maria Scopece. Pugliese, di Foggia, classe 1984, laureata in Scienze Politiche. In terza elementare ho deciso che sarei andata all’Università di Bologna. E così è stato. In quinta elementare ho scoperto che mi piaceva scrivere. Qualche anno più tardi sono riuscita a trovare qualcuno disposto a pagarmi per farlo. Non ci avrei mai scommesso. Sono una milanista non obiettiva. Ho iniziato a scrivere di sport grazie a Fantagazzetta e ho continuato con QS e Io Gioco Pulito. Vivo a Roma, mi occupo di comunicazione e ho lavorato per Data Stampa, formiche.net e porto nel cuore una collaborazione con “Anna”. Appassionata di politica interna e internazionale oggi scrivo per IlGiornale.it e per Startmag.it. Il mio motto è: “La vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo” (Cafè Society).
La corsa in ticket con Enrico Michetti. Chi è Simonetta Matone, la magistrata candidata prosindaco del centrodestra a Roma. Vito Califano su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 08–06-2021 Roma, Italia Spettacolo RAI – trasmissione ‘Porta a Porta’ – caso Saman Abbas Nella foto: Simonetta Matone, per 17 anni PM per il Tribunale dei Minori Photo Mauro Scrobogna /LaPresse June 08, 2021 Rome, Italy Entertainment RAI – ‘Porta a Porta’ broadcast – Saman Abbas case In the photo: Simonetta Matone, PM for the Juvenile Court for 17 years
Saranno Enrico Michetti e Simonetta Matone i candidati che proveranno a soffiare Roma al centrosinistra e al Movimento 5 Stelle per riportare la Capitale al centrodestra nelle elezioni del prossimo autunno. La candidatura in ticket: Michetti, avvocato amministrativista e tribuno di Radio Radio, a sindaco mentre Simonetta Matone, magistrata, a prosindaco. La fumata bianca dopo il vertice dei leader di centrodestra a Roma. Oltre al segretario della Lega Matteo Salvini, il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani e la segretaria di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, anche i cosiddetti partiti “piccoli”: Coraggio Italia, Udc Noi con l’Italia e Rinascimento di Vittorio Sgarbi. Ancora nessuna decisione da parte della coalizione sui candidati di Milano e Bologna. A Torino invece via libera all’imprenditore del beverage Paolo Damilano. “Piena sintonia nel centrodestra che ha scelto Enrico Michetti candidato sindaco per Roma Capitale, in ticket con Simonetta Matone che sarà prosindaco. Paolo Damilano è il candidato sindaco a Torino. Entro la settimana sarà ufficializzata la candidatura per la Regione Calabria”, ha dichiarato Matteo Salvini. Matone, classe 1953, è romana, sposata e con tre figli. Si è laureata in Giurisprudenza alla Sapienza a Roma. È stata vicedirettore del carcere presso Le Murate a Firenze, dal 1981 al 1982 giudice presso il Tribunale di Lecco e dal 1983 al 1986 è magistrato di sorveglianza a Roma. È stata capo della Segreteria del ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. Nel 1992 ha fondato con altre colleghe l’ADMI – Associazione Donne Magistrato Italiane. Quindi nel 2008 è stata capo gabinetto del ministro per le Pari Opportunità. Ha vinto il Premio Donna nel 2000 e nel 2004, il Premio Minerva nel 2002 per la Giustizia, il premio Il Collegio nel 2004 e il Premio Donna dell’anno della Regione Lazio nel 2005. Di lei aveva detto Matteo Salvini in una recente intervista a Il Messaggero: “Si tratta di un’ottima candidatura, è un’apprezzata giurista che con il suo lavoro ha salvato tanti bambini e ragazzi da abusi e violenze ed è stata premiata come Donna dell’anno nel Lazio nel 2005”. La candidatura a sindaco di Michetti è stata interpretata come una vittoria di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, mentre forzisti e leghisti avrebbero spinto fino all’ultimo per Matone, ottenendo quindi la candidatura in ticket. La carica di prosindaco non è stata definita. “Se vinceremo, Matone sarà vicesindaca”, hanno esemplificato dalla coalizione a La Repubblica.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Da video.repubblica.it l'1 giugno 2021. La targa dedicata all'ex presidente della Repubblica Ciampi, che da oggi intitola un largo del lungotevere Aventino a Roma, è stata sbagliata. Sul travertino, infatti, il nome dell'ex capo dello Stato è stato inciso con un errore. Carlo Azeglio è infatti diventato "Carlo Azelio", cioè senza la "g". Per questo motivo la targa è rimasta coperta, in attesa di una nuova e corretta, da un drappo giallorosso. Il presidente Mattarella e tutte le autorità partecipanti sono stati costretti dunque a lasciare il luogo della cerimonia senza poter di fatto scoprire la targa.
Da ilmessaggero.it l'1 giugno 2021. Uno dei tratti più suggestivi del Lungotevere, quello Aventino. Le massime autorità del Paese partendo dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E una targa sbagliata: dove invece di Carlo Azeglio Ciampi era scritto Carlo “Azelio” Ciampi. Poco dopo le 11 è stato inaugurato dalla sindaca Virginia Raggi, il Largo Carlo Azeglio Ciampi, in onore dell’ex presidente della Repubblica, padre dell’euro, morto nel 2016, livornese di nascita, ma romano di adozione. Città dove ha guidato prima la Banca d’Italia, il governo e infine la nazione come inquilino del Colle. E l’organizzazione sembrava aver pensato proprio a tutto: ripulito il lato di Lungo Tevere sotto l’Aventino, rispettato perfettamente il cerimoniale per evitare che le autorità si accavallassero all’arrivo, fiori e piante ovunque. Poi, sul più bello, si sono accorti che il nome dell’ex presidente era sbagliato: Azelio invece di Azeglio. Per tutta la cerimonia la targa è rimasta coperta da un drappo giallo rosso. «Purtroppo montandola l’abbiamo scheggiata e potrebbe cadere», si è giustificato un dirigente del Campidoglio, tra l’imbarazzo dei presidenti. In realtà c'è stato un errore clamoroso: sulla targa si legge Azelio, anziché Azeglio. Ira Calenda. «Inaugurazione della piazza intitolata al Presidente emerito Ciampi. Presenti i Presidenti di Repubblica, Senato e Camera, ospiti della Sindaca Raggi. Non si scopre la targa perché sarebbe scheggiata. Bugia, in realtà è stato scritto male il nome di #Ciampi. Anche basta». Lo scrive su Twitter Carlo Calenda, candidato sindaco di Roma, postando la foto della targa coperta, con il nome sbagliato.
(ANSA l'1 giugno 2021) Sarebbe stato individuato, dopo una rapida indagine amministrativa interna, il responsabile materiale dell'errore sulla targa toponomastica dedicata a Carlo Azeglio Ciampi: si tratterebbe, secondo quanto si apprende, di un dipendente capitolino dell'Ufficio gestione appalti di installazione e manutenzione targhe toponomastiche. Il dipendente rischia una sanzione disciplinare e il trasferimento ad altro ufficio.
La targa sbagliata per Ciampi? Secondo il consigliere 5 Stelle è un complotto contro Virginia Raggi. L'Espresso l'1 giugno 2021. Doveva essere una cerimonia semplice, ma è diventata presto un caso. L'intitolazione del lungotevere Aventino a Roma all'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi è finita al centro del dibattito: nella targa di travertino a lui dedicata infatti, il nome dell'ex capo dello Stato è stato inciso con un errore. Carlo Azeglio è diventato «Carlo Azelio», cioè senza la «g». Per questo motivo durante la cerimonia, in cui erano presenti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e i presidenti di Senato e Camera, la targa è rimasta coperta, in attesa di quella corretta, arrivata nel pomeriggio. Un errore che in un primo momento è stato nascosto sostenendo che la targa fosse scheggiata. Scoperta la reale motivazione, il caso ha scatenato le ironie e le critiche di parte della politica contro la sindaca Virginia Raggi e, di conseguenza, anche le difese degli esponenti del suo partito. Tra tutte si segnala il tweet del consigliere comunale Paolo Ferrara: «Si avvicinano le elezioni e ormai si inventano tutto per fermare Virginia Raggi. La targa con il nome sbagliato di Carlo Azeglio Ciampi non è un semplice errore. Vi sembra possibile? A me no».
Ugo Magri per “La Stampa” il 2 giugno 2021. No, stavolta non c' entrano i cinghiali che rubano la spesa davanti ai supermercati, e nemmeno i corvi «assassini» (aggrediscono in picchiata chi passa per strada). In questo caso Roma fa parlare di sé per una gaffe da far rabbrividire Fantozzi. Immaginiamoci la scena: solenne cerimonia sul Lungotevere Aventino per dedicarne uno spiazzo al decimo presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. C' è il suo successore, Sergio Mattarella, e con lui è presente la seconda carica dello Stato, Elisabetta Casellati, oltre alla padrona di casa, cioè Virginia Raggi. Corazzieri, fanfare, presentatt' arm. Ma al momento di scoprire la lapide dedicata a Ciampi, qualcuno si accorge che ad Azeglio manca la "g", il nome è stato storpiato in Azelio. Panico degli organizzatori. Per non confessare lo sbaglio, viene detto che il marmo chissà come purtroppo si è danneggiato. La targa rimane avvolta da un drappo giallorosso, sotto il quale però in trasparenza si scorge benissimo l'errore. La bugia ha le gambe corte, le autorità se ne vanno nell' imbarazzo. Un paio d' ore più tardi, a cerimonia conclusa, la targa viene sostituita e per fortuna il nome è quello giusto, con tanto di lettera mancante. Subito è scattata la caccia al responsabile, presto individuato nel ragionier Filini di turno: un oscuro funzionario dell'Ufficio gestione appalto di installazione e manutenzione targhe toponomastiche. Verrà trasferito ad altro compito non prima di essere messo alla gogna davanti agli altri impiegati. E se lo merita: per colpa della sua sciatteria, la sindaca grillina è di nuovo nell' occhio del ciclone. Gli avversari della Raggi nella corsa al Campidoglio, il piddino Roberto Gualtieri in testa, si sono scatenati contro la sindaca, già duramente bersagliata per lo scandalo (quello sì davvero intollerabile) dei poveri defunti impilati a migliaia nelle loro bare in attesa di cremazione. Ad aggiungere un tocco di grottesco ci si è messo un consigliere pentastellato, Paolo Ferrara, avanzando la tesi del complotto: «Non è stato un semplice errore», Raggi è stata vittima di un sabotaggio, con Carlo Calenda che subito si è autodenunciato, «ebbene sì, sono stato io, nottetempo sono andato a scalpellare la targa per togliere la "g" di Azeglio». Come spesso accade, la politica sconfina nella farsa e suscita buonumore. L' unico risvolto triste riguarda Carlo Azeglio Ciampi, uno dei nostri presidenti della Repubblica più rispettati e amati, che si voleva onorare nel più degno dei modi. Chi ne ha storpiato il nome, probabilmente nemmeno ricordava chi fosse: a dimostrazione che l'oblio non risparmia nessuno.
Francesco Pacifico per “il Messaggero” il 2 giugno 2021. Per tutta la mattinata di ieri la toponomastica di Roma ha annoverato un largo Carlo Azelio Ciampi. Azelio, non Azeglio, senza la g, con un errore ancora più imperdonabile perché nelle stesse ore la sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha dovuto inaugurare alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, uno slargo dedicato all' ex inquilino del Colle con una targa sbagliata. Sostituita soltanto in seguito, senza poterla scoprire durante la cerimonia in diretta televisiva nazionale tra lo stupore delle massime autorità del Paese: tra gli altri, i presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico ed Elisabetta Maria Casellati, il governatore di Banca d'Italia, Ignazio Visco, l'ex premier Giuliano Amato, i vertici dell'esercito e delle forze dell'ordine. Sembrava di essere in una commedia di Plauto: lo speaker del Comune che annuncia ai presenti che la lapide «si è scheggiata mentre veniva montata e perciò potrebbe cadere»; la targa nascosta da un drappo giallo rosso (ma i fotografi ci hanno messo poco a scoprire il refuso); il presidente Mattarella in prima fila che mantiene tutto il suo amplomb; un furgoncino di un marmista che corre per la città per provare a consegnare l' insegna corretta (non farà in tempo e verrà anche fermato dai vigili). La caccia al colpevole in Campidoglio e a chi non ha controllato pare si sia risolta individuando come autrice del malfatto una dipendente dell'ufficio toponomastica. Sarà sanzionata e trasferita per aver inviato al marmista una mail con il nome sbagliato. Persino un raggiano di ferro (il consigliere Paolo Ferrara da Ostia) convinto di un complotto contro la sindaca. Oltre a tanta, tantissima ironia sui social e dure polemiche politiche. A scoprire l'errore è stato, alle 8 di ieri mattina, il potente capo del cerimoniale Roberto Sorbello. Ma ormai era troppo tardi. «Fammi vedere come è venuta questa targa». E così se è accorto della g mancante. Un errore che Sorbello non può perdonare: lui Ciampi lo conosceva bene, la mattina del 13 maggio del 1999, quando guidava il Cerimoniale della Camera, andò a prenderlo a casa, al Salario, per portarlo in pompa magna al Quirinale. Lo stesso Sorbello avverte subito la sindaca, che ordina un'altra targa. Ma, come è detto, è tardi per fermare la macchina della giornata. Anche perché tutto era stato organizzato nei minimi particolari: uno dei tratti più suggestivi e più degradati del Lungotevere, quello Aventino, rimesso a lustro in poco tempo; le massime autorità del Paese fatte arrivare senza accavallarsi per evitare incidenti diplomatici; interventi scritti in maniera così toccante che donna Franca, rimasta a casa ma collegata alla televisione, si sarebbe non poco emozionata. Con molto tatto, è stato al gioco anche il figlio Claudio Ciampi. Ai suoi familiari che gli chiedevano perché non scoprissero la targa, ha risposto: «Perché hanno spiegato che si è rotta ed è pericolosa. Torneremo un'altra volta».
Da nextquotidiano.it il 3 giugno 2021. Questione di prossimità. Quella targa con il nome sbagliato di Carlo Azeglio Ciampi emersa durante la cerimonia di intitolazione di una strada in memoria dell’ex Presidente della Repubblica rischia di incrinare – ancor di più – la percezione negativa dei cittadini nei confronti di Virginia Raggi e di tutta la sua amministrazione. Perché quella gaffe (per lo più alla presenza delle più alte cariche dello Stato e dei figli dell’ex Capo del Quirinale) ha valicato immediatamente i pallidi confini del Grande Raccordo Anulare. E ora la sindaca, dopo aver ammesso la figuraccia nazionale, attacca i responsabili e sottolinea come una delle concause che hanno portato a quel caos sia stata il luogo di provenienza di quella targa.
Virginia Raggi e il marmista di Velletri per la targa sbagliata di Ciampi. Le chat della maggioranza alla guida del Campidoglio sono ribollite poche ore dopo quella clamorosa figuraccia. La sindaca, in uno dei suoi tanti messaggi riportati dal quotidiano La Repubblica, ha anche scritto: “Purtroppo la gara è stata vinta da una ditta di Velletri, fosse stata di Roma probabilmente la targa sarebbe stata cambiata ancora prima della cerimonia”. Insomma, se a vincere la gara fosse stata un’azienda capitolina, si sarebbe (forse) riusciti a correggere l’errore nel nome di Ciampi (Azelio al posto di Azeglio) per tempo. Ma, forse, sarebbe finita alla stessa maniera. I fieri sostenitori di Virginia Raggi (e ferventi pentastellati della prima ora) hanno provato immediatamente a parlare di “complotto”, come fatto sui social da Paolo Ferrara. La realtà, invece, parla di un corto-circuito di indicazioni sbagliate non controllate. Una sorta di “chi controlla il controllore?”, vecchio adagio che non è stato rispettato e che ha portato alla figuraccia epocale che segna uno dei punti più bassi – almeno a livello meramente mediatico – di un’amministrazione arrivata agli sgoccioli dopo cinque anni al governo di Roma. Ovviamente l’errore sta a monte. Quell’ormai famoso – a sua insaputa e a suo discapito – marmista di Velletri ha sicuramente sbagliato a scrivere il nome dell’ex Presidente della Repubblica a cui è stata intitolata una strada – un largo – sul lungotevere Aventino. Ma il caos è stato generato da una superficialità nella gestione dell’evento: perché l’indicazione errata è partita proprio dagli uffici del Campidoglio e non ci si è resi conto dell’errore fino a pochi istanti prima dello svelamento di quella targa. Il cerimoniere, l’uomo che avrebbe dovuto controllare il tutto, non si era accorto di nulla. Così come tutti gli altri che hanno visto quella lastra di marmo prima dell’installazione. E non si può scaricare le responsabilità sul marmista di Velletri e sulla distanza tra la cittadina dei Castelli Romani e la capitale.
Dagospia il 5 giugno 2021. DALL’ACCOUNT TWITTER DI MARCO BENTIVOGLI: il marmista di Velletri ha sbagliato ancora: la data di nascita e di morte andrebbe sotto il nome. Altrimenti sembra che Ciampi esercitò il ruolo di capo dello Stato per 96 anni.
Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 5 giugno 2021. «Non vogliamo commentare né fare dichiarazioni». Alla Simonedil srl di Artena sono abituati a lavorare il marmo e davanti al telefono che continua a squillare dopo essere stati indicati come l'azienda che ha sbagliato la targa di Largo Azeglio Ciampi a Roma, scrivendo "Azelio", il nervosismo e l'imbarazzo sono più che comprensibili. Una cosa però dalla ditta di via Fleming, nel centro ai confini con la provincia di Latina, la specificano bene ed è quella che l'errore costato una clamorosa gaffe alla sindaca Virginia Raggi non l'hanno fatto loro, ma il Campidoglio. Alla Simonedil assicurano infatti di aver ricevuto, come tra l'altro è prassi in questi casi, da Roma Capitale le indicazioni su cosa scrivere sulla targa marmorea, di aver preparato una bozza, di averla spedita alla stessa Roma Capitale e di non aver ricevuto alcuna correzione da fare. A scrivere "Azelio" anziché Azeglio è stato dunque il Campidoglio e quando gli uffici capitolini hanno ricevuto appunto la bozza avrebbero continuato a non notare l'errore, fino al giorno dell'inaugurazione. «È andata esattamente così», sostengono dall' azienda di marmi. A quel punto lo staff della sindaca ha cercato, davanti a un attonito Sergio Mattarella, di sostenere che la targa era scheggiata e non poteva essere scoperta, salvo nasconderla con un drappo trasparente. Scoppiato il caso, con relativa corsa contro il tempo per recapitare a Roma un'iscrizione corretta, la Raggi ha quindi scaricato sulla funzionaria incaricata di far realizzare la targa, specificando di averla rimossa, i grillini hanno urlato all' ennesimo complotto e sempre la sindaca ha poi puntato il dito sul marmista. «Purtroppo la gara è stata vinta da una ditta di Velletri, fosse stata di Roma probabilmente la targa sarebbe stata cambiata ancora prima della cerimonia», ha detto. E si è aperto così un ulteriore fronte. Oltre ad essere stato, a quanto pare, l'errore del Campidoglio e non della ditta di marmi, la Simonedil non è infatti di Velletri, ma di Artena. «Invierò una lettera ufficiale alla sindaca Raggi, invitandola a chiedere scusa alla città di Velletri - ha affermato il primo cittadino Orlando Pocci - per quel superficiale accostamento e la invito a venirci a trovare. Sarà l'occasione per farle conoscere la nostra cultura e anche la straordinaria bravura dei nostri artigiani». «Se la Raggi conoscesse il dialetto velletrano saprebbe che noi la "gl" nun ce la levemo ma ce la mettémo come in: cuglio, caglina, Oglio e coglio. Figuriamoci se sbagliavamo a scrive Azeglio», ha aggiunto la sua vice Giulia Ciafrei. Caso chiuso? A quanto pare no. Sulla nuova targa l'anno di nascita e quello di morte di Ciampi sono indicati vicino alla scritta Presidente della Repubblica. E l'ex presidente non è stato al Quirinale per 96 anni, ma giusto per il settennato.
DA tgcom24.mediaset.it l'1 giugno 2021. Nel quartiere Monte Mario, a Roma, i bambini di un istituto scolastico sono costretti a uscire prima dell'orario previsto - 16.30 - per evitare di incontrare un branco di cinghiali che si impossessano delle strade, probabilmente partendo da un parco vicino. Gli animali sono attratti dai cassonetti dei rifiuti della mensa, che non sempre vengono svuotati. A "Mattino Cinque", una delle mamme degli alunni racconta la propria preoccupazione: "Li ho visti più volte, in zona Via Cassia - ha spiegato la donna -. Soprattutto la sera, magari approfittano della maggiore tranquillità. Ho sentito gli stessi racconti anche da altre persone". Non solo, anche altri animali stanno causando disagi nella zona: "Ho notato dei gabbiani: uno stava per attaccarmi quando avevo in mano le borse della spesa".
Lorena Loiacono per leggo.it il 31 maggio 2021. Una presenza fissa, nera e gracchiante, incombe sui residenti di viale dell’Astronomia, all’Eur: è la cornacchia più temuta di Roma che, con il suo partner, sorvola l’incrocio con via della Fisica e aggredisce, all’improvviso, i passanti. Non c’è modo di fermarla, né di allontanarla. Osserva tutto dalla cima di un pino o, poco più in là, dalla ringhiera del terrazzo dell’ultimo piano. Gracchia e poi, in un attimo, scende in picchiata. Colpisce i passanti, qualcuno è anche andato in ospedale a farsi curare perché il becco della cornacchia, a quella velocità, fa male. Eccome se fa male. Leggo è stato sul posto, a verificare quanto segnalato da alcuni residenti. Ed è proprio così: la cornacchia ha fatto il nido sull’albero in quel punto e, per natura, vuole difendere il suo piccolo dagli umani. «Peccato che le persone che attraversano la strada o camminano sul marciapiede – racconta una signora dal balcone al primo piano – non si accorgono di avvicinarsi troppo»: la cornacchia infatti svezza i piccoli a terra, facendoli camminare anche tra le aiuole. Se poi qualcuno si avvicina, lei interviene furiosa. «Qui ogni anno qualcuno finisce in ospedale - spiega un uomo, seduto sulla panchina - bene che ti va, la cornacchia ti tira i capelli». La richiesta dei residenti, oggi, è un intervento del Comune. In viale dell’Astronomia, quella cornacchia è una vecchia conoscenza: «Fa il nido lì in alto ogni anno – racconta un’anziana signora, armata di giornale e borsetta per difendersi, mentre indica l’albero all’angolo della strada - non sappiamo più a chi rivolgerci: abbiamo segnalato la situazione ai vigili urbani per chiedere di potare gli alberi che non vengono curati da anni. Magari così si allontana ma nessuno interviene: per evitare guai, giriamo alla larga». Qualche metro più in là ci sono degli istituti scolastici, come il liceo Vivona, e molte famiglie temono che i ragazzi possano essere attaccati. Il rischio in effetti è concreto: anche la cronista di Leggo, mentre cercava di prendere informazioni, è stata aggredita dalla coppia di cornacchie. Nessuna corsa in ospedale, fortunatamente: solo un grande spavento, nel sentirsi in un remake de noantri degli “Uccelli” di Hitchcock.
Francesca Manzia, responsabile del Centro di recupero fauna selvatica Lipu-Roma, ha sentito delle terribili cornacchie dell’Eur?
«Sì, si tratta di una coppia particolare: sono aggressive, ma le cornacchie non attaccano l’uomo».
Perché loro lo fanno?
«Probabilmente hanno già avuto un contatto con l’uomo, non per forza negativo: si tratta di una deviazione del rapporto uomo-animale».
In che senso?
«Se vengono accudite da una persona, ad esempio, poi non la vedono come un nemico e la attaccano senza timore. Sviluppano anche antipatie e gelosie per cui attaccano le persone con le stesse caratteristiche: come i capelli lunghi o gli abiti colorati».
Quindi le cornacchie non vanno toccate?
«No, è l’unica prevenzione possibile: raccogliere un piccolo da terra e dargli da mangiare, mentre la mamma lo sta svezzando, crea un rapporto anomalo con l’uomo. Lasciamo fare alla natura».
Nel caso dell’Eur, come ci si difende?
«Quando si sente gracchiare una cornacchia, meglio cambiare strada perché ci sta avvisando che siamo troppo vicini ai piccoli. Se proprio dobbiamo passare di là, copriamoci con un ombrello: così non ci vedono».
Si può togliere un nido?
«Assolutamente no: nidificano in cima agli alberi, spesso nello stesso punto. Non possiamo certo abbattere l’albero, anche perché il problema non è permanente, dura circa due settimane l’anno».
Un topo gigante mangia nel bancone del supermercato: il video che sconcerta l'Italia. Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Ha suscitato scalpore in tutto il mondo, il video di un topo che passeggia e rosicchia tranquillamente il cibo nel bancone del supermercato Tigre di viale Angelico a Roma. Più di mezzo milione di persone ha condiviso il video postato su Twitter, tanto da farlo arrivare nella redazione del Times, che ha dedicato al goloso topo un articolo, presto diventato virale. Nella giornata di ieri mattina, giovedì 27 maggio 2021, i carabinieri del Nas hanno individuato l'attività commerciale in questione, effettuando un sequestro penale dell'intero locale e di tutti i prodotti alimentari in esso contenuti. Nel video si sente la voce di un uomo indignato chiedere: "Questa è la roba che ci mettete nei panini?" Come nel celebre film d'animazione Ratatouille, prodotto dalla Pixar, il topone si aggirava tra le prelibatezze esposte in vetrina. Soltanto, che in questo caso la pantegana non collezionava ingredienti per stupire con le sue incredibili doti culinarie, ma cercava piuttosto di sgranocchiare qualsiasi cosa si trovasse davanti. Insomma, evviva l'igiene. Secondo quanto lascia trapelare Il Messaggero, il video sarebbe stato ripreso mesi fa e il proprietario del supermercato avrebbe subito minacce per non farle girare. "Ho pagato" ha detto il titolare. Ma invano, dato che il video è comunque diventato virale. Residenti, commercianti e gli stessi clienti del posto collegano ora i punti: "Proprio qualche mese fa vidi le ragazze uscire con i carrelli e tirare giù le serrande, dissero che qua c'era stata una perdita d'acqua, a questo punto penso che fecero una derattizzazione". "Io lavoro qui vicino e venivo sempre a prendere i panini..." ha commentato un cliente abituale a dir poco scioccato. Davanti al supermercato è ora appeso un cartello che parla di una chiusura di tre settimane. A quanto pare, la chiusura dovrebbe prolungarsi anche una volta scaduti i sigilli dei carabinieri. Il proprietario vuole ora anticipare lavori che erano in programma per l'estate: "Qui siamo invasi dai topi, è una lotta continua".
Dal Corriere della Sera - Roma il 29 maggio 2021. Non ha resistito alla pubblicità negativa del video (diventato rapidamente virale) sul topo che banchettava nel reparto gastronomia, sotto gli occhi dei clienti. Così, il giorno dopo l'ispezione e la relativa informativa in Procura dei carabinieri del Nas, il gestore del supermercato «Tigre» di viale Angelico, in Prati, si è arreso. Ha fatto togliere le insegne sulla strada e nel sito Internet usato per pubblicizzare l'attività è apparsa una scritta su fondo rosso: «Chiuso definitivamente». I controlli del Nucleo antisofisticazioni giovedì mattina si erano conclusi con l'apposizione dei sigilli e il sequestro penale dell'esercizio, causato dalle gravi carenze igienico-sanitarie (confezioni rosicchiate, escrementi in vari punti). Ma più ancora a provocare il colpo definitivo per l'esercizio è stato il disdoro provocato dal video diffuso in Rete.
Valentina Lupia per La Repubblica - Roma il 29 maggio 2021. È allarme ratti a Roma. A lanciarlo sono i comitati di quartiere insieme alla Asl Roma 1. «Il problema dei topi esiste - spiega Rosaria Marino, dirigente per la Sicurezza alimentare della Asl Roma 1 -. E coinvolge in particolare le zone lungo il fiume Tevere e il centro storico». Gli stessi comitati di quartiere, da Trastevere a Prati raccontano di roditori a zonzo per le strade «e in particolare attorno ai cassonetti dell'immondizia, in cerca ovviamente di cibo», racconta, per fare soltanto un esempio, Renato Sartini del comitato Amici di via Plava, che si occupa del decoro del parco di via Sabotino. E «anche qui ce ne sono molti, più di prima», denuncia Walter Candiloro di Trastevere App. Alla luce di segnalazioni e controlli, dalla Asl Roma 1 auspicano una maggiore collaborazione con l'azienda capitolina dei rifiuti. «Le autorità dovrebbero lavorare congiuntamente con l'Ama - prosegue Marino -. I cassonetti spesso e volentieri si trovano proprio davanti ai ristoranti. Èd è lì che i topi vanno ad alimentarsi», attirati dagli scarti di cibo. «E da fuori a dentro il locale è un attimo», precisa la dirigente Asl. Insomma: i tempi di raccolta sono fondamentali. «A rimetterci, quando un topo entra in un locale, è tutta la comunità: esercenti, ristoratori e cittadini», precisa l'esperta Asl. Altro, poi, che "topolini". Il topo che compariva nel video del supermarket che qualche giorno fa ha fatto il giro del web era un "rattus norvegicus", «un roditore - precisa Marino - particolarmente grande e aggressivo che arriva dalle fogne». Per gli esperti, anche a giudicare dalla quantità degli escrementi trovati nel magazzino del negozio (poi chiuso dai Nas) non si tratterebbe dell'unico roditore in zona. E non è tutto. «Maggio - spiega Anna Vincenzoni (PD), assessora all' Ambiente del municipio I - è da sempre uno dei mesi nei quali c' è il picco di rifiuti e ogni anno si ripropone il problema della raccolta». E a questo, dice, si aggiunge «un affanno pressoché costante nella puntualità della raccolta per le utenze non domestiche. Finché il contratto di servizio verrà calato sui municipi e i sistemi di raccolta saranno replicati in maniera identica su tutti i territori della città, la situazione rimarrà invariata». Con topi a banchettare tra le buste lasciate a terra o cadute durante le procedure di raccolta dei rifiuti dai cassonetti. «Col caldo, poi, e con le alte temperature gli alimenti nei e vicino ai cassonetti tende a degradarsi più rapidamente», spiega Rosaria Marino. Insomma: è proprio quel cattivo odore che si percepisce forte passando d' estate vicino ai bidoni della spazzatura che attira i ratti. Ma anche blatte e gabbiani. E perfino, spostandosi più verso Roma nord, i cinghiali. Gli " altri" abitanti della Capitale.
Fumi tossici dal campo rom vicino al centro sportivo. E i bambini come fanno a giocare? Le Iene News il 19 maggio 2021. Alcuni degli allievi del San Lorenzo Calcio raccontano a Filippo Roma di essersi sentiti male a causa dei fumi tossici provenienti dal campo rom. E quando i genitori, un anno fa, decidono di non mandare più i propri figli al campo sportivo, la sorte del San Lorenzo purtroppo è segnata. La Iena è andata a parlare con la sindaca Raggi e al campo rom nel quartiere di Villa Gordiani, dove gli è stata lanciata una pesante pala che gli ha beccato una gamba. Una pesante pala che ruota in aria in direzione di Filippo Roma, la riuscirà a schivare? Così è finita la nostra visita al campo rom nel quartiere di Villa Gordiani a Roma Est per provare a risolvere un problema, che sarebbe causato da alcuni nomadi del campo e che ha sconvolto la vita ai giovanissimi abitanti del quartiere. Nella sede storica di un centro sportivo di quartiere, il San Lorenzo Calcio, per più di 80 anni si sono allenati bambini, giovani e adulti. Ma da qualche tempo c’è appunto un problema, come ci racconta Walter, il papà di Valerio, classe 2006: “Di là dal muro c’è un campo rom e bruciano di tutto: plastica, gomma, cavi di rame, di tutto”. Alcuni degli allievi del San Lorenzo raccontano di essersi sentiti male a causa dei fumi tossici provenienti dal campo. Come Christian: “Sono andato all’ospedale col mister perché respiravo male e tossivo”, racconta alla Iena. La cartella clinica del pronto soccorso non lascia dubbi: codice giallo per “un’irritazione congiuntivale e alle altre vie respiratorie da fumi generati da roghi accesi nel campo nomadi di via dei Gordiani”. E quando i genitori, un anno fa, decidono di non mandare più i propri figli al campo sportivo, la sorte del San Lorenzo purtroppo è segnata. “È scandaloso che io debba chiudere la mia scuola calcio per i roghi tossici”, dice il gestore del San Lorenzo Calcio Fabio Eleuteri. “E non dare la possibilità a più di 150 bambini del quartiere di continuare a fare la scuola calcio che amavano, questo perché è un pericolo per la loro salute”. Ma possibile che non sia intervenuto nessuno? “I roghi tossici ci sono più o meno da 4 o 5 anni”, dice Fabio. “Abbiamo chiamato la polizia, i carabinieri, i vigili del fuoco, abbiamo chiamato tutti. Alla fine non sapevamo più cosa fare e ci siamo rivolti a Le Iene”. Così andiamo al comando della polizia di Tor Pignattara, dove è stata presentata una denuncia per segnalare che “tutte le sere gli abitanti del vicino campo nomadi bruciano sostanze plastiche rendendo l’aria irrespirabile”. “Mi chiedo come mai hanno fatto la denuncia a febbraio 2020 e a settembre sono stati costretti a chiudere causa roghi tossici senza che voi siate intervenuti?”, chiede la Iena al soprintendente del commissariato. “Le posso garantire che c’è la massima attenzione da parte della Questura. Noi facciamo il massimo per quello che ci è consentito”. I gestori della scuola calcio hanno anche provato a comunicare direttamente con i vicini del campo rom, ma senza troppo successo. “Fanno un po’ scaricabarile tra loro per dare la colpa a uno o all’altro ceppo di etnia rom”, ci dice Fabio, il gestore. “Fino a che le ultime volte siamo stati minacciati fisicamente, addirittura a mio fratello gli hanno una volta mostrato un coltello e un’altra volta gli hanno slegato i cani per farlo fuggire”. E sul perché al campo nomadi brucino questo materiale tossico, un’idea il presidente del San Lorenzo Calcio se la sarebbe fatta. “Un giorno mi sono accorto che delle persone italiane scaricavano quello che avevano in macchina e ho visto contrattare con lo stesso campo nomadi buttando l’immondizia e prendevano dei soldi, i nomadi, mi sembra intorno ai 4, 5 euro, ho visto degli spicci. C’è una sorta di discarica abusiva a cielo aperto”, dice Simone Altobelli. E visto che qui le istituzioni latitano, dalle forze dell’ordine al Comune, proviamo a chiedere direttamente agli abitanti del campo nomadi se è possibile smetterla con i famigerati roghi tossici. Mentre ci avviciniamo all’ingresso del campo rom, già vediamo dei fumi. Alcuni abitanti del campo ammettono l’esistenza dei roghi tossici, ma anche loro sono costretti a subirli in silenzio per non litigare con chi li accende. La Iena continua a cercare di parlare con gli abitanti del campo chiedendo chi è che accende i roghi, ma molti non sembrano volerci aiutare. Filippo Roma, a gennaio 2021, è andato a parlare di questa situazione anche con la sindaca Virginia Raggi. “Il comune sta già intervenendo”, ci dice la sindaca. “Rispetto al campo Gordiani ricordiamo che noi con questa amministrazione abbiamo già chiuso due campi, anche grazie a una delle vostre segnalazioni, ne abbiamo in chiusura altri due. È inimmaginabile ovviamente avviare un progetto di chiusura e superamento dei campi tutti insieme”. La Iena fa notare che bisognerebbe sensibilizzare le persone a smettere di appiccare i roghi tossici. “Va superato anche questo, intensificheremo sicuramente i controlli non solo della polizia locale, che già si occupa di tutti i nostri campi, autorizzati e non, ma anche delle altre forze dell’ordine”. Sono passati più di tre mesi da quest’incontro con la sindaca: il problema è stato risolto? Per scoprirlo siamo tornati al campo rom. Ma vediamo subito che stanno bruciando qualcosa. E un uomo non prende bene la nostra presenza. “Te ne vai con le buone o ti spacco tutto quanto”, ci urla e lancia una pala verso Filippo Roma. Per fortuna, la nostra Iena se l’è cavata con un edema al polpaccio e sette giorni di prognosi. Ma a tre mesi di distanza dal nostro incontro con la sindaca, che dicono i ragazzi del San Lorenzo Calcio? “Non è stato risolto nulla”, risponde Simone Altobelli. “Siamo come prima, non ho visto le istituzioni. Non ci ha dato una mano nessuno”. Così sono i bambini stessi a fare un appello alla sindaca Raggi: “Sindaca Raggi, volevo farle un appello per risolvere il problema del fumo che viene dai campi rom”, dice Alessandro. “Ci faccia tornare a giocare tutti insieme, mi mancano i miei amici e il San Lorenzo, ma soprattutto giocare a calcio con loro”, continua Christian. “Rivogliamo il nostro campo da calcio senza roghi”, dice Riccardo.
I senzatetto di Roma: un mondo inimmaginabile a pochi passi dal cuore della Capitale. Le Iene News l'11 maggio 2021. Siamo andati alla ricerca di David, un liberiano che vive a Roma nello spartitraffico del Muro Torto. La ricerca ci ha portato in un viaggio incredibile tra le strade di Roma, dove Giulio Golia incontra chi non ha un tetto sopra la testa e proviene da tutto il mondo. Un viaggio incredibile tra le strade di Roma. Giulio Golia incontra chi non ha un tetto sopra la testa, in un viaggio pieno di umanità e fatto di volti che provengono da tutto il mondo. Tutto inizia con la storia di David uscita sul Corriere della Sera: un liberiano che vive a Roma nello spartitraffico del Muro Torto, la grande arteria che scorre nel centro della città. Siamo andati a cercare quest’uomo per capire come sia possibile vivere lì. Questa ricerca ci ha portato in un mondo davvero inimmaginabile a pochi passi dal cuore della Capitale. Prima di trovare David, incontriamo tre persone in un sottopassaggio, tra spazzatura, cibo nuovo e avariato. “Vengo dalla Russia”, ci dice Olga, che racconta di essere in Italia da vent’anni e di vivere nel sottopassaggio da qualche tempo. Nella sua vita precedente, in Russia, Olga, ci racconta, era una cuoca. Poi è venuta da noi in cerca di fortuna, ma dopo aver finito i soldi e perso il lavoro, finisce per strada. “Dammi un lavoro, lascio il vino”, dice alla Iena. “Voglio un lavoro, sono una persona normale, ho 55 anni”. Nella nostra ricerca di David, andiamo a Villa Borghese a chiedere di lui, ma non c’è. Nel cercarlo, ci troviamo davanti a una grande vergogna della pubblica amministrazione: un agglomerato di stalle costruito nel 2015 per ospitare le botticelle romane, che però non hanno visto neanche un cavallo perché dichiarate inagibili e finite sotto sequestro per abuso edilizio. Un enorme e assurdo spreco. Vediamo però diverse tracce di persone che ci vivono. L’abbandono, infatti, ha trasformato tutto questo in una specie di villaggio di senzatetto. Incrociamo un ragazzo che si definisce “cittadino del mondo”. “Sono del Sahara occidentale, sono nomade là”, racconta. “Nel mio paese ci siamo fatti la guerra fino al ‘91, per questo siamo arrivati qua”. E prima di arrivare in Italia ci racconta di aver girato l’Europa. “Siamo tutti esseri umani, non puoi giudicare l’altro”, dice il ragazzo. Gli facciamo vede la foto di David e qualche giorno dopo ci chiama e ci informa che David è tornato nella sua sistemazione.
Finalmente lo incontriamo. “Sono in Italia da troppo tempo”, racconta a Giulio Golia David, 43 anni. “Da diciotto anni. Sono venuto con la barca, ho pagato 2mila euro”. David, ci racconta, dorme in tanti posti diversi, ma va in quel punto nello spartitraffico per lavare i vestiti e riposarsi. Ci racconta che non è facile: “il colore nero a qualcuno piace, a qualcuno no. Qui non ruba nessuno, non dà fastidio nessuno. Ma la gente passa e mi offende, però non sanno la storia di una persona”. Giulio Golia incontra altre persone che vivono per strada, da Luigina a Isabel, cuoca siciliana trapiantata a Roma. Quello che colpisce è la serenità di queste persone, la loro compostezza, la loro gentilezza e organizzazione. Le associazioni che aiutano le persone di strada sono tantissime e il volontariato è davvero uno dei nostri più grandi orgogli. Come i City Angel, che a Roma ogni venerdì sera girano per i luoghi di maggior ritrovo per offrire pasti caldi e un po’ di compagnia. E una sera siamo andati con loro.
Emilio Orlando per leggo.it il 7 maggio 2021. Roma, incidente sul Grande Raccordo Anulare nel primo pomeriggio di giovedì 6 maggio. Lo schianto ha coinvolto un carro attrezzi ed una moto, causando la morte di due ragazzi. Le vittime sono Giorgia Albano e Simone Piromalli, quest'ultimo era il testimone chiave del processo per l'omicidio di Luca Sacchi. L'incidente è avvenuto in carreggiata interna, all'altezza del chilometro 27,300, tra l'uscita 11 Nomentana e l'uscita 12 Centrale del Latte. Dalle prime ricostruzioni, la moto su cui viaggiavano i due giovani si sarebbe schiantata, a ridosso della corsia d'emergenza, con un carroattrezzi. Sul posto sono intervenute le squadre Anas, il personale del 118 e la Polizia Stradale per gli accertamenti della dinamica. Per tutto il primo pomeriggio di oggi il traffico in carreggiata interna è rimasto bloccato, con code lunghe diversi chilometri, fin dall'uscita 5 (Cassia Veientana). Una delle vittime, Simone Piromalli appunto, era rimasto coinvolto a Roma, anche nel caso delle corse clandestine d'auto a Talenti lo scorso gennaio: tra i coinvolti, proprio il testimone dell'omicidio Sacchi. Un grave incidente avvenuto il 21 gennaio scorso aveva visto protagonista anche Simone Piromalli: il 21enne, già al centro dell'omicidio Luca Sacchi. L’episodio era avvenuto intorno alle 1,30: due auto, tra cui una Fiat 500, sfrecciavano davanti il locale Lo Zio d’America e la 500 era andata a sbattere contro un’Alfa Romeo Mito, parcheggiata nei pressi con all’interno una donna.
(ANSA il 22 aprile 2021) "Ho sentito una pressione alla nuca e una voce che mi disse “dammi lo zaino”. Sono caduta, mi sono rialzata e ho viso Luca a due metri da me a terra, non capivo cosa era successo". E' il racconto, tra le lacrime, di Anastasya Kylemnyk, sentita nel processo per l'omicidio del suo fidanzato, Luca Sacchi, avvenuto a Roma la notte tra il 23 e il 24 ottobre del 2019. La ragazza è tra i cinque imputati ed è accusata del tentativo di vendita di una ingente quantità di droga. A processo anche Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due ventenni autori materiali dell'aggressione, Marcello De Propris, che consegnò l'arma del delitto, il padre di quest'ultimo, Armando, accusato della detenzione della pistola. "Quella sera - ha ricordato la ragazza davanti ai giudici della prima corte d'Assise -, Giovanni Princi (già condannato a 4 anni per cessione di droga in processo con rito abbreviato ndr) ci disse che doveva fare un "impiccetto" per una moto, forse rubata. Mise nel mio zaino una busta marrone, come quelle del pane, con il bordo superiore arrotolata".
Omicidio Sacchi, le lacrime di Anastasiya in aula: "Colpita alla nuca ero a terra, di Luca vedevo solo le gambe, non avevo capito". Andrea Ossino su La Repubblica il 22 aprile 2021. Anastasiya Kylemnyk parla degli istanti che hanno preceduto l'omicidio del suo ragazzo e i fatti inerenti la compravendita di droga nel quale è maturato il delitto del giovane personal trainer ucciso il 23 ottobre del 2019 a pochi metri dal pub John Cabot alle spalle del Parco della Caffarella. "Nella mano sinistra avevo il guinzaglio del cane, avevo il telefono in mano e la testa rivolta verso il basso, ho fatto tre passi, ero girata di spalle rispetto a Luca. A un certo punto ho sentito una forte compressione alla testa, mi sono piegata, non avevo capito che era una bastonata, ho sentito una pressione alla nuca.
L'ultima versione di Anastasiya "I soldi nello zaino non c'erano più". Stefano Vladovich il 23 Aprile 2021 su Il Giornale. Ragazzo ucciso dai pusher a Roma, la fidanzata non convince. Roma. «La busta con i soldi nello zaino? Per gli impiccetti di Princi». In Corte d'Assise la fidanzata di Luca Sacchi, 24 anni, ucciso con un colpo calibro 38 il 23 ottobre 2019 all'Appio Latino, Roma. Anastasiya Kylemnyk, 25 anni ucraina, la «diabolica» compagna della vittima, sguardo fisso, racconta la sua versione, l'ennesima. «Luca e io eravamo in macchina a parlare () stavamo aspettando Princi Giovanni. Quando arriva scendiamo, in via Bartoloni di fronte al pub, ci salutiamo e lui dice che deve fare un impiccetto con la moto e mi chiede di reggere la busta nello zainetto. Una busta marrone del pane. Non l'ho mai toccata, mi sono girata e l'ha messa lui nel mio zainetto». Dei 70mila euro che servono ad acquistare 15 chili di hashish la donna dice di non sapere nulla. Sono quei soldi a far scattare l'idea, in Valerio Del Grosso, 23 anni, il killer, e l'amico Paolo Pirino, 24 anni, di rapinare i ragazzi «bene» della Caffarella capeggiati da Giovanni Princi, 26 anni, figlio di un medico dentista, già condannato per traffico di droga con rito abbreviato a 4 anni. Anastasiya dice di non sapere dello scambio concordato in via Latina con gli spacciatori di San Basilio, alla sbarra per omicidio volontario. Ad accusarla gli emissari dei killer, Simone Piromalli e Valerio Rispoli. I due raccontano che Del Grosso li manda a controllare se gli acquirenti hanno il denaro. Princi lo tira fuori dallo zainetto rosa di Anastasiya e lo fa vedere a Del Grosso, poi ripone di nuovo le mazzette di soldi nella borsa. Anastasiya non vede nulla. Dice. «Quando mi sono girata ho visto Princi con due persone in via Latina. Adesso so che si chiamano Piromalli e Rispoli. Poi Princi mi fa un cenno, mi sono avvicinata lasciando Luca e Domenico (Munoz, un amico, ndr). Lascio lo zaino a terra, prendo il mio cane e torno dal mio fidanzato. Dopo qualche istante Giovanni torna indietro e mi ridà lo zaino. Mi chiede anche le chiavi della macchina e quando apro lo zaino per prenderle non c'era più la busta del pane». Del Grosso rientra nella Smart guidata da Pirino e chiama Marcello De Propris, il narcos che gli presta la pistola del padre: «Non poi capì Marcè quanti so' Me sta a partì la brocca proprio de brutto. Voglio fà un casino». Del Grosso decide di prendersi i soldi senza cedere il carico di droga. Dopo cena Anastasiya aspetta con Sacchi e altri, Princi. L'amico arriva con la busta in mano e la mette nell'auto di Nastja. Poi la recupera e la rimette nel suo zaino. Arrivano i killer. Pirino colpisce la ragazza con una mazza poi si scaglia contro Sacchi che cerca di difenderla. Del Grosso estrae il revolver e spara. «Ho sentito una forte compressione sulla nuca e mi sono piegata su me stessa, ma non ho capito che fosse dolore. Qualche secondo dopo ho sentito Damme sto zaino, mi sentivo tirare e ho allargato le braccia. Non ricordo quanto tempo sono stata a terra dopo il colpo. Poi mi sono tirata sulle ginocchia (...), non c'era più nessuno. Ho visto solo sotto il marciapiede le gambe di Luca. Non mi sono resa conto se fosse uno scherzo, un petardo, non ho realizzato». E scoppia in lacrime. Luca muore il giorno dopo. Denunciato dalla madre, Del Grosso viene arrestato insieme a Pirino. Lo zaino verrà ritrovato all'uscita Casal Monastero del Grande raccordo anulare, vuoto. «La famiglia di Luca mi ha cacciata di casa. Non sono andata al funerale perché nessuno mi voleva» dice ancora Anastasiya. I genitori di Luca, Alfonso Sacchi e Concetta Galati, scuotono la testa.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 23 aprile 2021. Rabbia e commozione. Mentre parla e ricostruisce la notte del 23 ottobre 2019, quando davanti al pub John Cabot, nel quartiere romano Appio Latino, il suo fidanzato Luca Sacchi è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco, Anastasia Kylemnyk deve fare una pausa per ricomporsi e ingoiare le lacrime: «Quando ho sentito lo sparo pensavo fosse un un petardo. Poi ho preso la testa di Luca tra le mani e ho sentito il sangue, l'ho visto. Ho tamponato con il cappuccio della sua felpa, dal pub mi hanno portato molti fazzoletti, sono rimasta con lui fino all'arrivo dell'ambulanza». Il piglio, invece, è determinato quando ricostruisce i passaggi di quella che, per la procura, fu una trattativa per la compravendita di 70mila euro di marijuana curata dall'amico della coppia, Giovanni Princi - già condannato a 4 anni -, e che ha trascinato la stessa Anastasia sul banco degli imputati: il denaro era all'interno del suo zainetto, che lei stessa ha dato all'amico quando è stato il momento di mostrare i soldi agli intermediari dei pusher. A processo con l'accusa di omicidio ci sono invece gli spacciatori di Casal Monastero, Valerio Del Grosso - è stato lui a sparare -, Paolo Pirino e il fornitore Marcello De Propris. Anastasia è accusata di avere partecipato alla compravendita di erba ma è anche parte lesa: è stata colpita con una mazza e derubata dello zaino. I soldi non sono mai stati trovati.
LA DENUNCIA Quando ha sporto denuncia, subito dopo l'omicidio, Anastasia ha omesso alcuni particolari: non ha raccontato dell'incontro di Princi con i pusher e non ha detto che l'amico le aveva consegnato il denaro. «Volevo proteggere Luca e me stessa per paura che Princi ci coinvolgesse in questa storia, non c'entravamo nulla», ha spiegato la ventiseienne di origine ucraina ai giudici della I Corte d'assise, sottolineando di non essere mai stata al corrente della trattativa: «Princi ci disse che doveva fare un impiccetto con una moto, forse si trattava di una moto rubata. Non ci diede altri dettagli. Mi chiese di tenergli una busta come quelle che si usano per il pane. Mi mise questo pacco nello zaino, ma io e Luca non lo toccammo». Poi ha raccontato dell'arrivo degli intermediari di Del Grosso: «Princi era con altre due persone, mi fece un cenno e gli portai lo zaino. Mi fidavo di lui, era il migliore amico di Luca». Una circostanza non convince il pm: perché Princi aveva le chiavi della macchina di Anastasia se era l'unico al corrente dell'affare? Risposta: «Mi chiese le chiavi della macchina e mi disse: Se non mi piace la moto, metto la busta nella macchina. Quando mi ridiede lo zaino era vuoto, non c'era più la busta».
L'AGGRESSIONE Poi, l'aggressione: «Ho sentito come una compressione sulla nuca, subito non mi sono resa conto. Poi sentii: Dammi sto zaino. Allargai le braccia per farglielo sfilare, ero a terra. Poi scorsi le gambe di Luca, andai di corsa da lui». Anastasia piange quando deve descrivere la posizione del corpo. Poi, c'è il racconto degli istanti più drammatici. Il corpo di Luca immobile, «ma lui ancora respirava, pensavo fosse svenuto, dicevo: Oh Lu', dai amo'. Pensavo fosse caduto per i suoi problemi alla schiena, gli misi la mano sotto la testa e sentii un liquido molto caldo. Vidi la mia mano rossa. Urlavo, non c'era nessuno vicino a me. Ripetevo: ambulanza, ambulanza. Ma l'ambulanza non arrivava mai, quei minuti mi sono sembrati ore. Qualcuno disse: Questo non ce la fa. Gli risposi male, risposi male anche a carabinieri, ai soccorritori». I giorni successivi sono stati i più difficili: «Oltre al lutto ho dovuto combattere con persone che mi accusavano di essere l'assassina e l'amante di Princi - ha aggiunto la ragazza - non volevo neanche più vivere. Volevo trascorrere la vita con Luca». Dopo Anastasia, la Corte ha sentito un altro imputato, Marcello De Propris, fornitore dei pusher. Era stato lui a consegnare a Del Grosso l'arma usata per uccidere Sacchi. «Quella sera Valerio è venuto sotto casa mia, volevo menargli. Mi ha raccontato che mentre faceva la rapina gli è partito un colpo. Ha detto che aveva preso lo zaino ma i soldi non c'erano». De Propris ha poi confermato che l'amico doveva vedere a Princi un'ingente partita di droga e che si era rivolto a lui come fornitore. Quando si era accorto che Princi aveva tutto quel denaro, Del Grosso aveva cambiato idea: aveva deciso di derubare il gruppo ed era andato da De Propris a prendere la pistola.
Valentina Dardari per ilgiornale.it il 29 maggio 2021. Se sei imputata in un processo per omicidio per aver cercato di comprare della droga, lo Stato Italiano ti premia e ti seleziona come insegnante per minorenni. Questo è quanto è avvenuto ad Anastasiya Kylemnyk che, lo ricorderete, era la fidanzata di Luca Sacchi, il 24enne romano rimasto ucciso con un colpo di pistola alla testa la notte tra il 23 e il 24 ottobre in zona Colli Albani a Roma.
Anastasiya premiata dallo Stato. La ragazza adesso, come riportato da Il Tempo, si dividerà tra l’aula di tribunale, dove è accusata di violazione della legge sugli stupefacenti, e i banchi del Centro di aggregazione giovanile di Spinaceto, rivolto a minorenni di età compresa tra gli 11 e i 18 anni, gestito da Arci Solidarietà onlus. Già, perché dallo scorso martedì Anastasiya, 26enne di origini ucraine, insegna l’italiano con un compenso di 439 euro mensili, come volontaria del Servizio civile universale. La ragazza è stata infatti selezionata dal dipartimento per le Politiche giovanili presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Tra 125.286 candidati tra i 18 e i 28 anni è stata presa proprio Anastasiya. Quindi ricapitolando, la 26enne è balzata alla cronaca nera in seguito all’omicidio del fidanzato Luca, personal trainer freddato da Valerio Del Grosso davanti a un pub per una questione di soldi e droga. Del Grosso e il co-imputato per omicidio premeditato Paolo Pirino, avrebbero dovuto consegnare 15 chili di marijuana alla coppia. All’incontro si erano presentati armati di pistola e mazza da baseball, con l’idea di rapinare i due giovani acquirenti. E mentre Pirino colpiva Anastasiya per impossessarsi dello zaino rosa contenente 70mila euro, Del Grosso sparava a Luca accorso a difendere la fidanzata. Durante l’udienza dello scorso 22 aprile, la giovane aveva raccontato ai giudici la sua versione.
Quarto posto in graduatoria. Gli investigatori hanno visto “la sua sorprendente chiusura ad ogni collaborazione con gli organi investigativi come una volontà di preservare le relazione criminali acquisite nel mondo della droga con il quale non intende recidere i legami”. Nonostante tutto ciò, la 26enne è stata selezionata in qualità di volontaria del Servizio civile, dopo aver aderito al bando del 21 dicembre 2020. In quella occasione ha ottenuto come punteggio 52 e si è classificata al quarto posto della graduatoria provvisoria per “Diritti in rete - Solidarietà, inclusione e contrasto alle discriminazioni”. Lo scorso 12 marzo ha quindi sostenuto un colloquio online, ed è stata presa da Arci Solidarietà Lazio. Sul sito della onlus si legge l’accoglienza a braccia aperte: "In bocca al lupo a Elisa, Anastasiya, Walter, Isabella, Giulia e Frankye, le ragazze e i ragazzi che scegliendo il Servizio Civile Universale hanno deciso di tessere con Arci Solidarietà la Rete dei Diritti per tutte e tutti. Benvenutæ a bordo, abbiamo un anno da vivere insieme, cercando insieme di stare, come ci esortava a fare il nostro lampadiere Tom Benetollo, dalla parte buona della vita”.
In attesa di sentenza insegna ai minorenni. Tra i requisiti per poter partecipare al bando di selezione per 55.793 volontari a livello nazionale, anche quello di “non aver riportato condanna, anche non definitiva, alla pena della reclusione superiore ad un anno per delitto non colposo”. E Anastasiya, almeno per il momento, non è ancora stata condannata, ma è solo imputata. Intanto però, l’amico della giovane vittima, Giovanni Princi, accusato dello stesso reato della fidanzata di Luca, è già stato condannato a 4 anni di reclusione. In attesa della sentenza, la ragazza, imputata per aver avuto un ruolo di rilievo nella compravendita di 15 chili di droga, insegnerà a bambini e adolescenti. Magari alla fine non sarà condannata e potrà cominciare a vivere una nuova vita cercando di dimenticare il passato e i suoi fantasmi, ma per il momento quel tragico capitolo della sua vita non ha ancora la parola fine.
Valerio Del Grosso davanti alla Corte d'Assise. Omicidio Sacchi, in aula il killer di Luca: “Gli ho sparato alle spalle, neanche se ne è accorto”. Carlo Romano su Il Riformista il 15 Giugno 2021. In un processo blindato per l’emergenza Covid è andata in scena la deposizione del killer di Luca Sacchi: «Luca non mi ha visto mentre gli sparavo. Non se ne è neanche accorto. Perché ho sparato? Non lo so. Prendevo psicofarmaci e fumavo droghe leggere». Lo ha detto Valerio Del Grosso, questa mattina in corte d’assise a Roma nel corso del processo per l’omicidio di Luca Sacchi avvenuto il 23 ottobre 2019. «Pirino è sceso dalla macchina dicendo “ci penso io” », ha continuato la deposizione Valerio Del Grosso, questa mattina in corte d’assise a Roma nel corso del processo per l’omicidio di Luca Sacchi avvenuto il 23 ottobre 2019 ricostruendo le fasi dell’aggressione via Teodoro Mommsen nei pressi del quartiere Appio a Roma. Il principale imputato ha riferito di aver riconosciuto Anastasiya Kylemnyk perchè gli era stata descritta. Quando l’ha vista non c’era Luca e ha pensato che sottrarle lo zaino sarebbe stato un «gioco da ragazzi». Il suo presunto complice è quindi sceso dalla macchina e ha steso Anastasiya. «Non ho visto se l’ha colpita, l’ho solo vista per terra». A quel punto è arrivato Luca che ha avuto una colluttazione con Paolo Pirino buttandolo a terra e mentre soccorreva la ragazza Del Grosso ha riferito di aver sparato mentre lui neanche lo guardava. Carlo Romano
Estratto dell’articolo di ANDREA OSSINO per la Repubblica - Roma il 12 ottobre 2021. Il processo sulla morte di Luca Sacchi va avanti. Le intercettazioni depositate dalla procura di Roma sono regolari. Le obiezioni degli avvocati nulle. E le conversazioni in carcere del killer Valerio Del Grosso diventano prove. Si tratta di ore e ore di registrazioni che raccontano di come due complici sono diventati rivali: « è un infame fracico, me vorrebbe fa accollà tutto a me », si sfoga Del Grosso parlando di Paolo Pirino, l'amico che quel giorno di due anni fa, il 23 ottobre, ha trasformato un affare di droga in una rapina. (...) «La cose se andava bene era trenta e trenta, mo non è che io me devo fa l'ergastolo e te voi prende e uscìre». Tra sfoghi e farneticazioni quel giorno Del Grosso afferma anche che secondo lui « Anastasiya non è quella che ha preso la bastonata, centouno per cento, è la ragazza di Princi». Le prove diranno altro, ma il ragazzo è convinto che « il tuo ragazzo è morto, tu il giorno dopo non ce poi avè i capelli rossi». Nei dialoghi emergono anche le leggi non scritte del carcere e le paure degli imputati: «Quello che abbiamo fatto noi sarebbe una mezza infamità, perché comunque sia è una sola », dice riferendosi alla compravendita di droga sfociata in rapina. Ha una sua teoria su come lui e il suo complice possono essere considerati dagli altri detenuti: « Paoletto ha preso a bastonate una donna, tra le leggi del carcere, hai capito come?».
Da adnkronos.com il 22 aprile 2021. "Oggi sono 2 mesi che mio figlio Dario non è più con la sua mamma, con i suoi fratelli, con me. 2 mesi che non riusciamo a seppellirlo: Ama non dà tempi di sepoltura degni di una città civile. Anzi, non dà alcun tempo. La tua vergogna non sarà mai abbastanza grande". Così, su Twitter, il deputato del Pd Andrea Romano che si rivolge direttamente alla sindaca di Roma Virginia Raggi. Il messaggio di Romano ha suscitato immediatamente una serie di reazioni di solidarietà su Twitter. Carlo Calenda ha subito rilanciato il messaggio, mentre il deputato di Iv Luciano Nobili ha commentato: "Un abbraccio ad Andrea e alle tante famiglie romane che si trovano nella medesima condizione. Dolore che si aggiunge a dolore. Virginia #Raggi, non potevi finire cinque anni di disastri più indegnamente di così".
Desirée Mariottini drogata e violentata, quattro condanne per l’omicidio: “Non è giustizia, volevo 4 ergastoli”. Redazione su Il Riformista il 20 Giugno 2021. Due ergastoli e due pesanti condanne per l’omicidio di Desirée Mariottini, la 16enne di Cisterna di Latina uccisa il 19 ottobre del 2018 a Roma in uno stabile abbandonato nel quartiere San Lorenzo. È arrivata nella serata di sabato 19 giugno, dopo aver ascoltato le repliche delle parti e dopo oltre nove ore di camera di consiglio, la sentenza dei giudici della III Corte d’Assise: Mamadou Gara e Yussef Salia sono stati condannati al carcere a vita; 27 anni di reclusione sono stati inflitti ad Alinno China e 24 anni e sei mesi a Brian Minthe, che però torna libero per scadenza dei termini di custodia cautelare. I quattro cittadini africani sono accusati, a seconda delle posizioni, di omicidio volontario, violenza sessuale aggravata, cessione di stupefacenti a minori. I pm Maria Monteleone e Stefano Pizza avevano chiesto il carcere a vita con l’isolamento diurno per tutti mentre avevano chiesto l’assoluzione per Gara solo dalle accuse di cessione di stupefacenti e induzione alla prostituzione. Dopo la lettura della sentenza una donna seduta negli spalti del pubblico ha urlato: “Maledetti, possiate bruciare all’inferno”. “Mi attendevo quattro ergastoli, non sono soddisfatta di questa sentenza soprattutto perché uno degli imputati torna libero e questo non doveva succedere. Non ho avuto giustizia”, dice Barbara Mariottini, madre di Desirée dopo la sentenza. “Io e la mia famiglia – aveva raccontato la mamma della sedicenne quando i quattro stranieri vennero rinviati a giudizio – eravamo preoccupati, ci occupavamo tutti i giorni di lei, l’abbiamo portata da uno psicologo. A fine luglio abbiamo capito che si drogava. Desiree aveva paura quando si parlava di comunità”. Nel corso delle indagini è emerso che gli imputati avevano assicurato alla ragazza, che si trovava in crisi di astinenza, che quel mix di sostanze composto anche di tranquillanti e pasticche non fosse altro che metadone. Ma la miscela era composta da psicotropi che hanno determinato la perdita “della sua capacità di reazione” consentendo agli indagati di poter mettere in atto lo stupro in uno stabile fatiscente nel cuore dello storico quartiere romano. Nell’ordinanza con cui il gip dispose il carcere si affermava che il gruppo ha agito “con pervicacia, crudeltà e disinvoltura” mostrando una “elevatissima pericolosità e non avendo avuto alcuna remora” nel portare a termine lo stupro e l’omicidio. Nel provvedimento sono citate anche alcune testimonianze.
Andrea Romano, un tremendo dolore privato: “Per colpa di Virginia Raggi non riesco nemmeno a seppellire mio figlio”. Libero Quotidiano il 22 aprile 2021. A tragedia si aggiunge tragedia. “Oggi sono due mesi che mio figlio Dario non è più con la sua mamma, con i suoi fratelli, con me”, scrive Andrea Romano in un commovente ma durissimo post pubblicato sul suo profilo Twitter. “Due mesi che non riusciamo a seppellirlo: Ama non dà tempi di sepoltura degni di una città civile. Anzi, non dà alcun tempo. La tua vergogna non sarà mai abbastanza grande". Il deputato del Pd si rivolge direttamente alla sindaca di Roma Virginia Raggi rendendo pubblico il suo dolore privato che è anche il dolore di tanti cittadini che non riescono a seppellire i propri cari. Dario, il figlio di Andrea Romano, era affetto da una forma di disabilità che lo costringeva su una sedia a rotelle. Il padre aveva parlato di lui nei suoi articoli e aveva per questa ragione sposato battaglie civili come quella per il "Dopo di noi". Ora la tristissima notizia. Il messaggio di Romano ha scatenato una serie di commenti e messaggi di solidarietà su Twitter. Carlo Calenda ha ripostato le sue parole e il deputato di Iv Luciano Nobili ha commentato: "Un abbraccio ad Andrea e alle tante famiglie romane che si trovano nella medesima condizione. Dolore che si aggiunge a dolore. Virginia #Raggi, non potevi finire cinque anni di disastri più indegnamente di così". Il segretario romano del Pd Andrea Casu ha quindi invocato un consiglio straordinario: "Si svolga subito il consiglio straordinario chiesto dalle opposizioni a partire dal Pd per dare risposta a tutte le romane e i romani in attesa di poter dare degna sepoltura ai propri cari. Una vergogna intollerabile".
Rory Cappelli per "la Repubblica - Edizione Roma" il 19 aprile 2021. Il lunedì mattina fuori e dentro il cimitero di Prima Porta c' è il caos. Il weekend sono pochi i funerali e ormai da mesi a inizio settimana le file con le bare che devono essere consegnate per la sepoltura in un loculo e a terra o per la cremazione fanno impressione. Nei depositi, in attesa di cremazione, sono accatastate migliaia di bare, con rischi biologici per una situazione decisamente al collasso. La Capitale ha un solo cimitero con sei forni crematori ( di cui un paio perennemente in manutenzione) quello di Prima Porta: la giunta capitolina già nel 2017 firmò una memoria per implementare i servizi e aumentare i forni, visto anche che la cremazione sta ormai diventando la scelta più diffusa. Niente finora è stato fatto. E nascondendosi dietro un " picco di mortalità" che tutti i dati smentiscono, Ama Cimiteri Capitolini - la partecipata del comune che si occupa del servizio - ha scaricato sulla pandemia una situazione che è invece imputabile soltanto a se stessa. In azienda c' è un decennale blocco del turn over che ha decimato il personale. Un' inchiesta ha visto il licenziamento di 15 addetti del cimitero di Prima Porta, per i reati di truffa, corruzione, induzione alla corruzione e vilipendio di cadavere. C'è stato un concorso ma «si aspetta l' uscita della graduatoria per l' assunzione di 20 seppellitori, subordinata alla approvazione dei bilanci di Ama ( 2017) » , spiega Natale Di Cola, segretario Cgil Roma e Lazio, che da mesi denuncia il problema «nato ben prima della pandemia» dei cimiteri del Lazio. « Assunzioni che a mala pena suppliranno la perdita di personale, che si è ridotto del 30 % dal 2000 a oggi, dovuta ai pensionamenti. Gli organici sono ridotti all' osso in particolare tra i seppellitori: nei giorni scorsi alcune famiglie e agenzie sono state persino costrette a svolgere da sole le operazioni cimiteriali». I defunti in coda per la cremazione sono oltre 2.000: ci sono liste di attesa anche di 2 mesi. «In tutti i comuni italiani per avere l' autorizzazione alla cremazione sono necessarie, quando proprio va male, 72 ore: la maggior parte dei comuni rilascia il certificato alla registrazione dell' atto di morte», spiega Gianluca Fiori, segretario di Assifur, Associazione Imprese Funebri riunite. «A Roma hai bisogno di almeno 45 giorni » . Un girone infernale, unito allo sconcio spettacolo di trattare i propri morti in maniera indecorosa dove chi ci rimette sono soltanto le famiglie.
Maria Corbi per “la Stampa” il 23 aprile 2021. Il pudore nasconde e rivela tutto il suo dolore. Andrea Romano, deputato Pd, ha la voce bassa, avrebbe voluto non dover mostrare al mondo il momento più tremendo della vita di un genitore. Ma il suo tweet è esploso sui social, nella pancia, nel cuore di chi lo ha letto. «Oggi sono 2 mesi che mio figlio Dario non è più con la sua mamma, con i suoi fratelli, con me. 2 mesi che non riusciamo a seppellirlo: Ama non dà tempi di sepoltura degni di una città civile. Anzi, non dà alcun tempo. La tua vergogna non sarà mai abbastanza grande». Il silenzio ci avvolge, perché da dove s' inizia una conversazione così intima e dolorosa? Viene in mente Ugo Foscolo e la sua «In morte del Fratello Giovanni»: Un dì, s' io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de' tuoi gentil anni caduto.
Partiamo da qui. Da un' esigenza ancestrale che ci accomuna tutti. Quella di avere un luogo dove piangere i propri morti, potergli portare un fiore. Diritto negato ai cittadini romani.
«Ho chiesto di poter portare almeno un fiore a mio figlio "parcheggiato" in un deposito di Prima Porta, ma all' Ama mi hanno detto "no". Sia io che Costanza, la madre di Dario, siamo andati a chiedere più volte, l' ultima dieci giorni fa.
Niente. Se non delle spiegazioni fumose che evocano il Covid-19 ma nessuna soluzione, nessun tempo».
Dopo la sua denuncia ha ricevuto qualche cenno di vita da Ama o dal Comune?
«Niente».
La Raggi?
«Niente, almeno per ora. Non è necessario che parli con me, ma che parli con i romani. La cosa che più colpisce è che non dice una parola, si rifiuta di spiegare. È di una arroganza inaccettabile. Non voglio fare polemiche politiche, ma ovviamente per il lavoro che faccio adesso leggo anche questi comportamenti in chiave politica. Negare ai romani la possibilità di seppellire in dignità i propri familiari è qualcosa che va al di la dell' accettabile. E lo sarebbe in ogni luogo del mondo, non solo nel mondo occidentale. Sono le fondamenta dell' essere umani».
In questo momento così doloroso vi hanno costretto a un pellegrinaggio burocratico tra Ama e uffici comunali.
«Siamo andati tante volte per chiedere informazioni ma non ne danno. Dieci giorni fa con Costanza siamo andati di nuovo a chiedere una data e ci è stato risposto "non possiamo dare nessuna data". Quindi adesso sono passati due mesi, ma potrebbero passarne tre, quattro, chissà quanti».
Voi avete anche una tomba di famiglia?
«Si abbiamo una piccola tomba di famiglia e abbiamo anche detto che potevamo pensarci noi alla tumulazione. Ma non è possibile. Come non è possibile farsi consegnare le ceneri. Come sa, c' è la protesta delle agenzie funebri romane. Un imprenditore della cartellonistica stradale ha fatto affiggere un manifesto con su scritto "scusami mamma che non riesco a farti seppellire". Ognuno usa la voce che può usare per segnalare il problema. Io non potevo più tacere».
Costretto a farlo nel momento più difficile della sua vita.
«La scomparsa di un figlio, lo sappiamo da secoli, da millenni, è difficile da accettare e da gestire, al di là delle condizioni del figlio. Una cosa con cui uno convive, ma certo sarebbe di conforto avere un luogo dove piangerlo. Avrei potuto seppellire Dario a Livorno, la mia città, il cui sindaco si è messo a disposizione. Lo ringrazio, ma non chiedo un privilegio personale, chiedo che venga riconosciuto un diritto a tutti. E comunque la mamma e i fratelli vivono a Roma ed è importante che Dario sia qui dove c' è la sua famiglia.
Ci racconta qualcosa di Dario?
«Dario è il maggiore dei miei 4 figli, 24 anni (Romano usa il tempo presente, ndr). È un bambino, un ragazzo, disabile coraggioso. Inconsapevolmente coraggioso. Diciamo così. Ha segnato tutta la mia vita quella della mamma e dei fratelli. Siamo stati fortunati anche se nella disgrazia. Ci siamo sempre sentiti molto amati da lui, anche se non era in grado di esprimere il suo amore nel modo a cui siamo abituati. Una dimensione della genitorialità particolare. C' è sempre un grande impegno a non fare ricadere il peso della situazione sugli altri fratelli. Anche se può apparire paradossale mi considero fortunato ad avere avuto un figlio speciale. Mi ha insegnato molto».
E i fratelli?
«I fratelli stanno vivendo con noi la tristezza di questo momento. La nostra è una famiglia allargata dove Dario è sempre stato molto amato e dove ci siamo sempre ritrovati intorno a lui. Grazie anche alla mamma, Costanza, che ha avuto una forza eccezionale».
Mario Ajello per “il Messaggero” il 23 aprile 2021. ANDREA ROMANO 1
Dario era il primogenito di Andrea e Costanza. Il fratello di Guido, Elena e Nina. E non c'è più. «Aveva 24 anni. Era un ragazzo molto amato e molto sfortunato», così lo racconta il padre, Andrea Romano, deputato del Pd, «perché disabile dalla nascita. Ma come sanno tutti i genitori di figli disabili, la vicinanza di un ragazzo speciale ti insegna moltissimo». Dario è morto a Roma il 22 febbraio, per un arresto cardiaco improvviso. Ci sono voluti 20 giorni per cremarlo. E ora che è cremato, sono due mesi che la famiglia aspetta di poterlo tumulare nello spazio di cui dispone al cimitero del Verano. «Io avrei volentieri evitato di intervenire pubblicamente - incalza Romano - su un fatto personale e doloroso come questo. Anzi, ho sempre detto ai miei amici giornalisti di non parlare della nostra vicenda. Mi rendo conto di essere un privilegiato, ma la situazione nella quale ci troviamo Costanza e io è la stessa che stanno vivendo molte famiglie romane. Quella di non poter assolvere al diritto basico di ogni essere umano: ovvero seppellire i propri familiari». La colpa è dell'Ama? Romano fa di tutto per non buttarla in politica, pensa e ripensa alla vita della propria comunità familiare trascorsa con Dario e con le difficoltà che hanno accompagnato l'esistenza del ragazzo. Non si aspettava proprio, come è ovvio, un epilogo così. «A noi, Dario ha insegnato la pazienza e il coraggio. Ci ha dato in questi 24 anni la sorpresa di trovare nelle difficoltà di ogni giorno la dimensione sconosciuta dell'affetto. Anche le persone esterne alla nostra famiglia, che hanno conosciuto Dario, hanno sempre provato un grande amore verso di lui». Ma il personale, in questa vicenda della sepoltura che non c'è, è anche politico. «Sì, questa storia inverosimile che ci accomuna a tanti altri - spiega ancora Romano - è colpa dell'Ama e dell'amministrazione capitolina. Proprio perché sono un politico, so bene quanto è difficile amministrare la cosa pubblica. La complessità dei problemi è enorme e nessuno ha la bacchetta magica. Ma quello che continua a colpirmi in questa vicenda, e che mi ha spinto ora a parlarne pubblicamente, è che da parte della sindaca e dell'Ama non sia ancora arrivata una parola di spiegazione e di una scusa nei confronti dei cittadini romani che stanno vivendo questa tragedia». Mentre ieri Romano diceva questo, anche a seguito della sua denuncia, dell'evidenza che il problema generale esiste eccome e delle prese di posizione come quella di Giorgia Meloni («Solidarietà a Romano, indegno ciò che sta accadendo alla sua famiglia e a tanti cittadini della Capitale»), Virginia Raggi ha detto la sua: «La situazione dei cimiteri è ingiustificabile. Sono vicina alla famiglia Romano e alle altre che si trovano in uno strazio che posso solo immaginare». E ancora: «Ho convocato Ama e mi hanno assicurato che stanno lavorando per risolvere questa grave emergenza». Infatti l'Ama in serata ha annunciato: «Da lunedì procedure più svelte per le cremazioni. Basterà una sola autorizzazione». L'Ama ha diramato un comunicato dicendo che il problema è aggravato dai 5000 decessi in più da ottobre, e che ci sono tumulazioni ritenute urgenti e altre considerate meno urgenti. «Per carità - dice il deputato dem - nessuno nasconde le difficoltà del momento, dovute anche alla pandemia. Questa situazione, però, esiste soltanto a Roma. In altre città d'Italia non è così». E proprio a Roma le agenzie di pompe funebri hanno manifestato, alla Bocca della Verità, perché a causa del caos cimiteri non riescono a lavorare. Ieri l'associazione di settore, Feniof, con il suo segretario nazionale Alessandro Bosi si è espressa così: «Circa duemila feretri aspettano a Roma una sepoltura. Non si fanno le cremazioni né le tumulazioni. Serve un piano urgente del Comune. La situazione nei cimiteri capitolini è così grave che i depositi sono pieni, i container realizzati a supporto non bastano e con il caldo in arrivo rischiamo condizioni igienico-sanitarie decisamente sfavorevoli per chi lavora nel settore». Come si può risolvere questa situazione? «Si può riformare la legge - spiega Romano, il cui partito, il Pd ha preso questa iniziativa con la parlamentare Giuditta Pini - liberando i Comuni dall'obbligo di usare, per le tumulazioni, solo le agenzie municipalizzate addette allo smaltimento dei rifiuti». Dunque, lo scandalo esiste e sta montando. In tutto questo c'è un nocciolo della questione che Romano, uno storico oltre che un politico, riassume così: «È da migliaia di anni che tutta l'umanità, ad ogni latitudine, misura il grado di civiltà dalla capacità di onorare i morti. Dare degna sepoltura non è una prerogativa del mondo occidentale: è l'abc della nostra condizione di esseri umani».
Aurelio Picca per “il Giornale” il 23 aprile 2021. È atroce, riguarda l' interezza dell'uomo, ti ficca con la bocca incerottata in un buco di catrame: ecco perché vorrei in un abbraccio di consolazione tendere le mani all' onorevole Andrea Romano che ha perduto un figlio di ventiquattro anni e che aspetta per il ragazzo, da due mesi, una degna sepoltura che a Roma pare ormai vietata. Ma è vietata non solo al deputato del Pd. Aspettato migliaia di bare, e dunque di cadaveri che hanno madri, figli, nipoti, amici, un pezzo di terra o un cimitero che le ospiti affinché la Civiltà possa ancora essere riconosciuta in questo tempo nero, anzi, di barbarie. Abbiamo visto sfilare carri di piombo colmi di bare di piombo. E abbiamo stampato in petto file ininterrotte di bare. Però nessuno sapeva o lo aveva dimenticato o non ne parlava (io no) che il cimitero del Verano (forse il monumentale più grande d' Europa) e in genere molti altri cimiteri sono abbandonati all' incuria. Che dico: sono sfasciati. Sembrano sfasciacarrozze, appunto, e non i luoghi dove i morti riposano in pace e i vivi andando in loro visita trovano consolazione. No, la barbarie quando si distende rivela un ulteriore livello di barbarie. Non c' è fine. E proprio ora che la morte è così umana e sacra, i defunti navigano nell' indegno, in un mare di disperazione per i vivi. È da tempo che il famigerato Editto di Saint-Cloud (promulgato in Italia nel 1806) pare venga di continuo esteso sotto forma di cremazione dei defunti. A parte coloro che ne ambiscono e fanno pratica per motivi culturali e religiosi, la cremazione pare abbia in sé la volontà di restringere gli spazi di terreno per i morti. E se la legge napoleonica era sostenuta dalla ideologia giacobina e da esigenze sanitarie (dunque pur avversata dal Foscolo, possedeva un senso, era legittimata dalla realtà); la scia di quella legge, invece, si applica con strumenti subdoli e diretti a distruggere la memoria della nostra Civiltà. Dagli egizi, agli etruschi, ai romani, ai cristiani: tutti hanno costruito tombe a immagine della casa dei vivi. Tutti. Solo nei casi eccezionali di pestilenze o guerre i cadaveri venivano bruciati. Oppure, come ci insegna ancora l' Iliade, i guerrieri periti in battaglia erano arsi perché non avrebbero più potuto vedere la patria. Comunque Priamo si inginocchiò ai piedi di Achille affinché questi gli riconsegnasse le membra di Ettore. Anche gli eroi sono sulle spalle del mito. E il mito non è una parola e basta. Vive tra noi. Ha una profondissima spirale umana che ci tocca adesso, oggi. Almeno fino a quando potremo chiamarci uomini. Fino a quando il padre, il figlio, il marito, gli amici, non avranno trovato dove seppellire il loro caro e lì andarlo a cercare. È inutile che citi Foscolo. Sono stanco. E però va ricordato che in quel «rapporto» tra vivi e morti c' è la parola «celeste» che indica per il laicissimo poeta-soldato la sconfinata interiorità e sacralità che regna tra vivi e morti. Molti, infatti, sanno che i trapassati continuano a vivere con noi. Quindi nella ricostruzione della Civiltà, alle parole chiave: Lavoro, Scuola, Sanità, va aggiunta Cimiteri. Vanno aggiunte le tombe per i nostri morti. È da tempo che nessuno ricorda l' abbandono, l' oblio immediato dei defunti quando proprio la morte è sinonima di Croce. In esergo all' Eneide troviamo le parole di Hermann Broch: ... soltanto dal perfetto, compiuto significato della morte scaturisce l' immenso significato della vita.
Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica - ed. Roma” il 6 luglio 2021. Il baciamano alla sindaca Virginia Raggi, l'abbraccio con l'amico Giovanni Malagò, presidente del Coni. Quindi la cerimonia nella pancia dell'Auditorium e la presentazione della targa con un minuto di suspense e l'intervento di due operai del Comune armati di scala per svelare l'effige e liberarla dalla bandiera con i colori del Campidoglio rimasta incastrata sul più bello. Da ieri, a un anno dalla scomparsa, il Parco della Musica è ufficialmente intitolato a Ennio Morricone. Un primo sospiro di sollievo per la famiglia del compositore, che nel complesso disegnato da Renzo Piano aveva trovato la sua seconda casa. Che ora aspetta di poter tirare pure il secondo. Il corpo del maestro, venuto a mancare al Campus Bio Medico, per ora si trova al cimitero Laurentino. Ma le disposizioni dei parenti sono chiare: la dimora scelta per la salma del premio Oscar è il Verano. «Non vorrei parlarne proprio ora... ma stiamo aspettando i tempi della burocrazia», spiegava ieri pomeriggio, a margine della cerimonia, Marco Morricone. Poi, allargando le braccia e scuotendo leggermente la testa: «Sapete, il cimitero dove vogliamo portare è monumentale. Servono diverse autorizzazioni. Attendiamo... che bisogna fare?». La situazione è simile a quella in cui si è trovata la famiglia di Gigi Proietti. Un iter lungo, estenuante. Il solito lentissimo giro di carte bollate, perse in un infinito andirivieni tra gli uffici di Ama e quelli del Comune. La municipalizzata dell'ambiente, incaricata di gestire i servizi cimiteriali, spiega di essere con la coscienza in ordine: «Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo». Adesso la pratica passa nelle mani del Campidoglio grillino. Per dare il via libera alla sepoltura di Morricone al Verano, nella stessa area in cui verranno portate le ceneri di Proietti, serve il placet della giunta. Una delibera ad hoc, perché nel cimitero lungo la Tiburtina gli spazi sono finiti da un pezzo e ne vengono trovati di nuovi soltanto a personalità di rilievo. «L'abbiamo appena votata, è passata a fine giugno», fanno sapere da palazzo Senatorio. E allora? Fine delle contorsioni? No, perché serve anche un passaggio in consiglio comunale. E in fretta, visto che le urne d'autunno si avvicinano in fretta e di mezzo ci sarà pure la consueta pausa estiva. Dal Campidoglio spiegano che la questione verrà affrontata in Assemblea capitolina già la prossima settimana. E, almeno stavolta, pure se la maggioranza pentastellata è ormai in pieno disarmo, non ci dovrebbero essere problemi di numeri in aula Giulio Cesare. Grillini e opposizioni, con la memoria di uno dei grandi di Roma in ballo, non hanno intenzione di sgambettarsi.
(Adnkronos il 26 maggio 2021) - ''Vergogna! Pur di riuscire a recuperare qualche voto avete calpestato la memoria di Gigi Proietti. Mi riferisco al Pd, Calenda e alle comparse della destra che hanno fatto girare una bufala. Siete degli sciacalli. Che figuraccia! La stessa famiglia di Gigi Proietti ha già smentito tutto''. Così in un post su Facebook il capogruppo capitolino M5s Giuliano Pacetti.
Rory Cappelli per “la Repubblica - Roma” il 27 maggio 2021. Sette mesi dalla sua morte e ancora nessuna tomba. Solo dopo il servizio pubblicato ieri su Repubblica, l'Ama ha fatto sapere di aver finalmente e magicamente trovato qualche giorno fa una sistemazione per Gigi Proietti, insieme alla famiglia. Che non smentisce niente di quello che ci è stato raccontato e di quello che i fatti dimostrano. (…) Passerà almeno un anno, se non di più visto i tempi che occorrono per qualunque atto formale, prima che sia pronta una qualche sistemazione: la concessione, presumibilmente «per straordinari meriti artistici», di cui ha parlato ieri Ama, infatti, ancora non esiste. Si tratta «di un'area per cappella da edificare, collocata nella parte nuova del cimitero Verano, vicino al Sacrario Militare», come ha scritto ieri la municipalizzata. La concessione, data ai «defunti che abbiano onorato con la loro vita e la loro opera la città di Roma in Italia e nel mondo», per essere approvata deve fare un passaggio in giunta: gli assessori devono votare l'atto con cui si concederà agli eredi di Proietti la possibilità di costruire la tomba. Una procedura già vista nel 2017 per ospitare al Verano la salma di Tullio De Mauro.
Da tgcom24.mediaset.it il 26 maggio 2021. Prima il grande funerale, il dolore di una intera città, ora l'incuria e la sciatteria: Gigi Proietti, l'attore morto il 2 novembre del 2020, non ha ancora trovato posto al cimitero a Roma. All'inizio lo scandalo cremazione, la sua bara (come quella di centinaia di altri normali cittadini) rischiava di rimanere mesi accatastata nei magazzini in attesa. Poi la decisione di portarlo fuori regione ma le sue ceneri non sono ancora rientrate, sono "parcheggiate" in Umbria in attesa di un posto al Verano. Gigi Proietti riposa accanto a Romano e Giovanna, i suoi genitori. Il padre del grande attore romano (di nascita) era originario di Porchiano del Monte, una frazione di Amelia, in Umbria. E lì la famiglia Proietti riposa. Assieme a Gigi, che però non avrebbe dovuto essere in quel posto. Subito dopo la morte vi era stato l'annuncio anche delle autorità: Gigi Proietti avrebbe riposato al Verano, il cimitero degli artisti. Dove ci sono i grandi nomi d'Italia, da Garibaldi a Mameli. Ma soprattutto tanti colleghi di Gigi: Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Nino Manfredi, Alberto Sordi tanto per citarne alcuni. Il "core de Roma", Gigi Proietti, nel cimitero degli artisti invece non ci è potuto entrare. Dapprima, come abbiamo detto, il problema delle cremazioni. Uno scandalo deflagrato pochi mesi dopo in maniera ancora più roboante con Ama, l'azienda municipale che gestisce anche i servizi cimiteriali, costretta ad ammettere le difficoltà. E tra queste difficoltà ci rientra anche il Verano. Se in altri cimiteri come il Laurentino o il Flaminio i posti sono davvero pochi, al Verano si può invece parlare di incuria e indecenza. E' un cimitero dove spuntano bidoni dell'immondizia stracolmi, in cui ci sono acquitrini putridi, dove spuntano lapidi diroccate e l'erba cresce ormai senza controllo. E dove sembra che non si possa trovare un posto per un attore che ha fatto di Roma la sua ragione di vita. Forse ci vorrebbe il Cavaliere nero di Gigi Proietti: magari non avrebbe risolto la situazione, ma di sicuro una risata sì.
Da ansa.it il 26 maggio 2021. "Le operazioni di sepoltura delle spoglie di Gigi Proietti sono seguite in stretto raccordo dalla famiglia Proietti, Ama spa e Roma Capitale secondo le disposizioni della stessa famiglia del grande artista italiano". Lo comunica l'Ama, in una nota congiunta con la famiglia del regista e attore scomparso lo scorso anno. Ama fin da subito si è messa in contatto con la famiglia di Gigi Proietti per assicurarne una degna sepoltura - si legge nella nota -. Il Maestro è deceduto il 2 novembre, è stato cremato il 10 novembre e le ceneri sono state consegnate alla famiglia il giorno successivo. Già da novembre dello scorso anno, tecnici di Ama-Cimiteri Capitolini, insieme ad un rappresentante di Roma Capitale, hanno effettuato una serie di sopralluoghi con i congiunti del grande artista romano in più aree del Cimitero Monumentale del Verano. La scorsa settimana, i familiari di Gigi Proietti hanno individuato e scelto la soluzione più idonea tra quelle visionate, comunicandola ad AMA e agli uffici preposti di Roma Capitale. La richiesta riguarda la concessione di un'area per cappella da edificare, collocata nella parte nuova del cimitero Verano, vicino al Sacrario Militare". "La mancata sepoltura di Gigi Proietti a molti mesi dalla sua scomparsa è uno “sconcio”". Lo ha detto Carlo Calenda, candidato sindaco di Roma e leader di Azione, a Rainews 24. "Si è fatto a gara di retorica, si sono intitolati teatri e poi non si riesce a seppellire perché a Roma non si è in grado di tumulare i morti. Questo capita perché nella nostra città, da anni, si aspettano investimenti per costruire nuovi cimiteri. In un Paese normale - ha proseguito- , in una città normale, il sindaco che è proprietario dell'Ama, la municipalizzata che gestisce i cimiteri e fa questo disatro, viene fatto dimettere a furor di popolo. La gestione dei trasporti è la peggiore d'Europa, quella dei rifiuti è la peggiore d'Europa, ma se non riesci a seppellire i morti te ne vai", ha concluso Calenda. "Non c'è posto a Roma per seppellire Gigi Proietti. Questa vicenda, che riguarda un simbolo della città, racchiude anche la sofferenza di tante famiglie che in questi mesi non hanno potuto dare degna sepoltura ai loro cari a causa del caos nei cimiteri romani. E' l'ennesimo fallimento della giunta Raggi e della sua gestione dei servizi comunali, su cui ormai resta poco da dire, se non sottolineare la necessità di raddoppiare gli sforzi per archiviare questa fase infelice per la Capitale d'Italia". Lo dichiara la deputata di Forza Italia Annagrazia Calabria.
Barbara Palombelli denuncia: "Mia zia morta e senza sepoltura". Ecco da quanto tempo: altro orrore a Roma. Libero Quotidiano il 29 aprile 2021. Dopo il duro sfogo del deputato del Pd Andrea Romano, che da mesi attende di seppellire il figlio 24enne morto, arriva quello di Barbara Palombelli. Ancora una volta si parla della Capitale a guida grillina: "Penso al caos dei cimiteri di Roma. A mia zia in attesa di sepoltura dal 5 marzo…a mio cugino addolorato… e mi chiedo cosa possiamo fare, a parte continuare a parlarne in tv". La conduttrice di Stasera Italia ha perso la zia quasi due mesi fa e ancora attende di poterle garantire una degna sepoltura. Come lei centinaia di cittadini che denunciano le condizioni in cui riversa Roma, gestita dalla sindaca Virginia Raggi. È stata proprio lei a intervenire in seguito allo scandalo fatto emergere da Romano. Per il dem non è bastata la morte del figlio per una grave malattia che aveva fin dalla nascita. Ad aggiungersi anche l'impossibilità, una volta cremato, di farlo tumulare nella tomba di famiglia nel cimitero del Verano. "Ciò che è accaduto alla famiglia di Andrea Romano e ad altre famiglie è ingiustificabile. Sono vicina a tutti loro – aveva dichiarato Raggi nei giorni scorsi – Posso solo immaginare lo strazio e il terribile dolore che stanno vivendo. Ho convocato Ama che mi ha assicurato di stare lavorando ad una soluzione per dare risposte ai cittadini in questo momento di emergenza coronavirus". Eppure sono migliaia le bare impilate all'interno dei depositi in attesa di essere cremate o tumulate. Una situazione che ha dell'assurdo. Tanto da spingere i dirigenti romani della Lega, Fabrizio Santori e Monica Picca, con la portavoce del Comitato per la Tutela dei Cimiteri Flaminio Prima Porta Verano e Laurentino, Valeria Campana, a presentare un esposto presso la Procura della Repubblica con lo scopo di "esortare scelte congrue ed efficienti per trovare in tempi rapidi soluzione ad una situazione inammissibile con il fine di riportare rispetto e decoro nei cimiteri romani".
Grazia Longo per “la Stampa” il 23 aprile 2021. Dall' ombra della malavita, a una gestione lumaca della burocrazia. L' emergenza cimiteri a Palermo e Roma ha numeri da capogiro - 858 feretri in attesa di sepoltura nel capoluogo siciliano, circa 2 mila nella capitale - e problemi di gestione che si scontrano anche con l' illegalità. Carmelo Pezzino, direttore di TgFuneral24, il notiziario quotidiano del comparto funerario e cimiteriale italiano osserva che «è troppo facile scaricare la questione sul disastro Covid. Perché i tempi lunghi per le sepolture hanno radici lontane. Che non sempre, purtroppo, brillano per trasparenza». A Roma i cimiteri vengono amministrati dalla municipalizzata Ama «che come sappiamo si occupa anche della raccolta rifiuti e che ha visto manager e dirigenti finire in carcere perché al centro di varie inchieste anche per corruzione. A Palermo il cimitero negli anni passati era gestito dalle Confraternite sulle quali, in alcuni casi, si sospettava che si allungasse l' interesse della mafia. Ora, inoltre, a Palermo il forno crematorio è obsoleto e si blocca ogni due mesi, tanto che in molti sono costretti ad andare in Calabria per far cremare i propri cari». A tutto ciò si aggiungano lungaggini burocratiche e organizzazioni farraginose e il gioco è presto fatto. Ama dal canto suo garantisce un «impegno massivo che prosegue anche in questi giorni, d' intesa e in stretta collaborazione con Roma Capitale, per far fronte all' eccezionale crescita dei decessi registrata in città dalla seconda ondata del Covid, collegata anche in via indiretta alla pandemia. Da ottobre 2020 ad oggi, a Roma si è registrato un incremento oggettivo di oltre 5.000 decessi (+35%) rispetto all' analogo periodo del biennio precedente, ma l' azienda pur con un organico fortemente ridotto per vari eventi esogeni, è riuscita ad assorbire l' 83% del surplus. Contiamo di riprendere a maggio le "seconde sepolture", ovvero le operazioni cimiteriali non urgenti come la tumulazione delle urne cinerarie». Non la pensa affatto così Alessandro Bosi, segretario nazionale Feniof (Federazione nazionale imprese onoranze funebri: «L' Ama scarica la responsabilità di questi disservizi al picco di mortalità dovuto al Covid ma è una sciocchezza inaudita, visto che già nel 2017 ci furono analoghi problemi e da mesi la curva dei decessi dovuti alla pandemia ha fortemente rallentato, mentre i disservizi proseguono senza sosta». Bosi stigmatizza inoltre: «La situazione dei cimiteri capitolini è talmente grave che, per dirne una, i parenti di chi è morto a inizio febbraio aspettano ancora le ceneri. Parliamo di Roma, la capitale: una città in cui circa 2mila feretri aspettano di essere tumulati, seppelliti, cremati. Il deposito è pieno, i container realizzati a supporto scoppiano letteralmente e con il caldo in arrivo rischiamo condizioni igienico sanitarie decisamente sfavorevoli per chi lavora nel settore». Sul caso interviene, infine, la sindaca Virginia Raggi: «Ciò che è accaduto alla famiglia di Andrea Romano e ad altre famiglie è ingiustificabile. Sono vicina a tutti loro. Posso solo immaginare lo strazio e il terribile dolore che stanno vivendo. Ho convocato Ama che mi ha assicurato di stare lavorando ad una soluzione per dare risposte ai cittadini in questo momento di emergenza coronavirus».
Scandalo cimiteri, Raggi: "Ho chiamato Romano per scusarmi". Tumulazioni, Ama: "Ripartenza da maggio". Marina de Ghantuz Cubbe su La Repubblica il 23 aprile 2021. Il deputato del Pd aveva denunciato lo scandalo delle bare in attesa di sepoltura al cimitero Flaminio di Prima Porta. Tra le migliaia di corpi che da mesi devono essere ancora cremati o la tumulati c'è anche quella di suo figlio Dario. Una telefonata e un post su Facebook per esprimere la propria vicinanza e il dolore provato: la sindaca Virginia Raggi ha chiamato il deputato del Pd Andrea Romano che ieri, su Twitter e poi a mezzo stampa, ha denunciato lo scandalo delle bare in attesa di sepoltura al cimitero Flaminio di Prima Porta. Tra le migliaia di corpi che da mesi devono essere ancora cremati o la tumulati c'è anche quella di suo figlio, Dario Romano.
Scandalo cimiteri, Raggi costretta a convocare Ama. Calenda: "Mai un'assunzione di responsabilità". Marina de Ghantuz Cubbe su La Repubblica il 23 aprile 2021. Dopo la denuncia del deputato Andrea Romano, che su Twitter ha reso noto che il corpo di suo figlio è da due mesi nel deposito del cimitero Flaminio le opposizioni e in particolare il Pd capitolinohanno chiesto un Consiglio straordinario sul tema, che verrà calendarizzato a breve. Lo scandalo delle bare in attesa di sepoltura ha finalmente suscitato l’attenzione della sindaca Virginia Raggi. C’è voluta la denuncia del deputato Pd Andrea Romano che su Twitter ha reso noto che il corpo di suo figlio, scomparso il 22 febbraio scorso, è ancora nel deposito del cimitero Flaminio di Prima Porta gestito da Ama. Come quella di Romano, in attesa ci sono migliaia di famiglie e da mesi la situazione è diventata ingestibile, oggetto di commissioni capitoline e denunce da parte delle opposizioni.
Raggi e "l'annuncite", ovvero l'arte di strombazzare i progetti degli altri. O quelli irrealizzabili. Marina de Ghantuz Cubbe su La Repubblica il 22 aprile 2021. Una macchina social sempre in azione: dal trionfalismo sugli Europei, (salvati in corner da Draghi), al recupero di Campo Testaccio. Dal pasticcio del Cinema Palazzo ai tanti lavori stradali promossi dalla Regione o dai singoli municipi. Fino al cavallo di battaglia della funivia, questa volta "smontabile". Un'annuncite da record: la sindaca Virginia Raggi corre spedita verso le prossime elezioni marciando al ritmo di 50 post su Facebook al mese. La macchina social dall'inizio dell'anno ad oggi ha macinato centinaia di annunci tra i quali spuntano quelli riciclati due o tre volte, i proclami su progetti mai realizzati, realizzati da altri o che molto difficilmente andranno in porto nonostante i toni trionfalistici.
Rinaldo Frignani e Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 24 aprile 2021. Il caos legato all'emergenza sepolture e cremazioni nella Capitale è arrivato in Procura. L'Associazione Eccellenza Funeraria Italiana ha depositato un esposto a piazzale Clodio per i reati di omissione di atti di ufficio e sottrazione di cadavere. È l'ultimo atto di una crisi che coinvolge il Comune di Roma e la sua municipalizzata Ama e che è esploso dopo la denuncia di Andrea Romano, che a due mesi dalla morte del figlio, non riesce a seppellirlo. La sindaca Virginia Raggi si è scusata pubblicamente, mentre l'Ama ha annunciato ora di avere «snellito» l'iter burocratico delle cremazioni e dà la colpa al Covid per le difficoltà di questi giorni. Ma la situazione è drammatica da tempo. Dal 2017, dopo gli stanziamenti per il potenziamento dei forni e dei cimiteri romani, poco è stato fatto. Il Lazio è l'unica regione che non ha una legge specifica di regolamentazione del settore. Il servizio cimiteriale è gestito da un'azienda municipalizzata, il che consente un gioco di scaricabarile. La sindaca ora convoca il cda, ma lo fa solo dopo il clamore. Duemila bare attendono nei depositi non refrigerati dei tre cimiteri cittadini, Prima Porta (Flaminio), Verano e Laurentino. Non solo in attesa della cremazione ma anche della tumulazione. L'Ama ha spiegato che la tumulazione delle urne cinerarie «non è urgente». A lungo le bare hanno viaggiato - come nel film cubano «Guantanamera» - verso altre città, da Viterbo a Civitavecchia, da San Benedetto a Grosseto, da Domicella (Avellino) e Carpanzano (Calabria). Ma neanche lì accettano più i corpi dei romani. L'Ama spiega che per la cremazione i tempi tecnici sono di 15 giorni e che, nel caso di una crescita di mortalità del 10 per cento, ci sono altri 10 giorni a disposizione. Secondo l'Ama, dalla seconda ondate i decessi sono aumentati del 35 per cento. Alessandro Moresco, consigliere del Comitato direttivo Feniof (Federazione imprese funebri), non è d'accordo: «A noi risulta un aumento del 10% dei decessi con il Covid che si sarebbe potuto gestire se negli ultimi quattro anni fossero stati fatti i lavori necessari». Gli impianti per la cremazione sono sei, alcuni in passato fuori uso. Il tasso di cremazioni è aumentato di recente. Per scelta, ma anche per necessità, come spiega Moresco: «Mancano loculi e quelli esistenti sono spesso in condizioni vergognose, tanto che il Comune - che li fa pagare 4 mila euro (quelli in seconda fila, la migliore) - pretende la firma di una liberatoria in cui il cittadino accetta le condizioni in cui si trova. Noi facciamo visionare i loculi ai clienti, altri no. Al momento della tumulazione i parenti del defunto si rifiutano e la bara finisce al deposito o in cremazione». Moresco racconta: «Pochi giorni fa, sotto il nubifragio, alcune bare portate con il carro funebre a Prima Porta, con il seguito dei parenti, sono state respinte perché era pieno e rimandate al Verano. Una vergogna. Gli impiegati, disperati, non sanno più cosa dire ai parenti». Il prefetto Matteo Piantedosi ha sollecitato provvedimenti immediati ad Ama e Comune. Il piano annunciato al prefetto consiste nell'aumento di 9 mila cremazioni nei prossimi 12 mesi rispetto alle 15 mila pre-Covid, con il trasferimento fuori Comune di circa 170 salme alla settimana, che si aggiungono alle 350-400 cremate ogni sette giorni. Ci sarebbe un arretrato di 1.200 cremazioni. Ama, dopo i 16 licenziamenti della precedente gestione, annuncia nuove assunzioni. Gianluca Fiori, dell'Associazione imprese funebri, non è convinto: «Non hanno mai mosso un dito, lo fanno ora solo per i giornali. Ma Ama lo fa apposta a rallentare. È una forma di ricatto al Comune per avere più personale. È un gioco di potere, mentre i cadaveri aspettano».
Azzurra Barbuto per "Libero quotidiano" il 20 aprile 2021. "Morte tua, ricchezza mia". Questo è il principio che per anni ha ispirato la condotta, assolutamente delittuosa, di Fausto Castaldi, umile custode del cimitero monumentale di Sezze, in provincia di Latina, il quale è riuscito a trasformare il suo impiego, lugubre e noioso, in un affare alquanto redditizio. Anzi no, perché gli affari in verità erano molteplici, se vogliamo dirla tutta: compravendita di loculi e di decine di quintali di legname (in concorso con il figlio, entrambi infatti sono accusati di peculato) proveniente proprio dal camposanto, appropriazione di fiori che venivano poi rivenduti dall'amante di Castaldi, e festini a base di sesso e droghe all'interno della propria abitazione, adiacente al posto di lavoro.
ECCITANTI NEI COCKTAIL Prestazioni sessuali di cui godevano, stando a quanto risulta dagli atti dell'indagine, anche politici, medici ed esponenti delle forze dell'ordine. I rapporti intimi venivano ripresi con le telecamere, montate da Castaldi, il quale è stato arrestato, in ogni camera della sua dimora, ad insaputa dei protagonisti di questi filmini a luci rosse, scoperti dai carabinieri del comando provinciale di Latina nel corso di una perquisizione nella villa con piscina di Castaldi. Ma non finisce mica qui. Il custode, incapace di custodire, distribuiva pure pasticche eccitanti e viagra. Le prime venivano fatte assumere, talvolta miscelate in succhi di frutta, alle donne senza che queste ne fossero coscienti, al fine di determinare in loro uno stato di alterazione e indurle alla perdita di controllo. Non soltanto soldi ma anche favori, come la riparazione della caldaia rotta, era ciò che Castaldi pretendeva dagli avventori in cambio di questi servizi sessuali a cui costringeva ignare vittime. Neppure i defunti scampavano alla avidità del tizio in questione: venivano derubati addirittura di corone e cuscini floreali, spogliati dal primo all'ultimo fiore, senza pietà. Un attimo dopo che i parenti piangendo giravano i tacchi e sconsolati se ne tornavano a casa, ecco che il custode si sfregava le mani ed entrava in azione e già telefonava alla sua amata allo scopo di informarla che la merce, fresca e profumata, era disponibile, pronta per essere rivenduta. Castaldi non esitava a sottrarre i fiori direttamente dai vasi delle tombe, in base alle richieste che la sua compagna, di mestiere fioraia, riceveva dai propri clienti, del tutto inconsapevoli che rose e crisantemi che essi acquistavano appartenevano ad un altro estinto.
BOUQUET DALLE TOMBE E l'uomo che si faceva confezionare un bellissimo bouquet da recare in dono alla moglie o alla fidanzata ignorava che stava regalandole i fiori di un defunto. Il custode e i suoi complici non erano afflitti da alcun tipo di scrupolo. In barba al morto, si arricchivano e agivano con una freddezza che desta sconcerto. Nell'ordinanza di custodia cautelare, ad esempio, si legge che il 23 maggio del 2019 Castaldi comunica con soddisfazione al figlio della sua compagna che «s' è buttato uno dal balcone a Santa Maria», preannunciando così al giovane l'opportunità di guadagno riciclando gli addobbi che a breve sarebbero stati consegnati: «Già l'ho detto a tua madre, qua hanno portato un po' di fasci, già 3-4 li ho ammucchiati là. Quindi se tu la fai scendere, riempiamo quel secchione grosso, così già ti guadagni 50-60 euro». Venivano rapinati i ricchi e pure i poveri. Il 21 febbraio del 2019 la proprietaria del negozio di fiori che ha una relazione con Castaldi spiega a questi che una cliente le ha richiesto dieci rose bianche e invita il custode a sottrarli ai defunti appena tumulati, in particolare «a quello che la mamma non ha una lira, che mi hai detto tu, specifica la signora». Questa sporca e squallida storia ci dimostra che nemmeno dopo il trapasso siamo al riparo da quella spietatezza che spinge l'essere umano a trattare i suoi simili alla stregua di oggetti funzionali solamente al proprio tornaconto. Speriamo di trovare pace almeno all'altro mondo.
Giovanni Del Giaccio per "il Messaggero" il 19 aprile 2021. Due sono ai domiciliari e gli altri nove sono stati scarcerati, ma lo scandalo del cimitero di Sezze (LT)- centro sui Monti Lepini a 20 chilometri dal capoluogo - non si placa. Gli arresti di un mese fa hanno portato alla luce quanti affari ruotassero intorno al camposanto e il coinvolgimento nella vicenda di esponenti politici ha portato alle dimissioni del sindaco, Sergio Di Raimo (Pd) e all' arrivo del commissario. Tra gli indagati c' era il vice del primo cittadino, ma sull' allegra gestione del cimitero l' ente non aveva di fatto mai vigilato. Anzi, sapendo qual era l' andazzo non era intervenuto. La Spl, società partecipata del Comune che doveva effettuare i lavori al cimitero, era sistematicamente estromessa.
GLI AFFARI. Compravendita di loculi (ne sono stati sequestrati 16) e legname, festini, prestazioni sessuali in casa del custode - proprio nei pressi del cimitero - riprese da telecamere nascoste, ma anche fiori rubati dalle tombe per poi essere rivenduti. Nemmeno la scoperta di una piscina realizzata dal custode, Fausto Castaldi, intorno alla quale si svolgevano anche delle serate, aveva indotto il Comune a fare qualcosa, se non un'ordinanza che ha lasciato l'opera al suo posto. Il giudice delle indagini preliminari, Giuseppe Cario, ricostruisce un sistema tanto illecito, quanto remunerativo. Indagando sull' induzione alla prostituzione - che non riguarda l' operazione Omnia 2 del mese scorso - e i festini in quella casa, con il custode che aveva pagato un tecnico della caldaia ricompensandolo con farmaci stimolanti per il sesso, i carabinieri del nucleo investigativo del Comando provinciale di Latina hanno ricostruito passaggi di denaro per almeno 64.000 euro. Ma c'è sicuramente altro. E la conferma, indirettamente, è arrivata dalla scoperta di una salma scomparsa. A giugno dello scorso anno, mentre i carabinieri già avevano raccolto una serie di indizi, un uomo si è recato sulla tomba del nonno senza trovarlo. Al suo posto, infatti, c' era una donna. Richiesta al Comune, lettera dell' ente - dove era appena andato in pensione il complice del custode, Maurizio Panfilio - che informa sull' assenza di qualsiasi autorizzazione per spostare quella salma. L' esposto in Procura e una richiesta di archiviazione, ma l' indagine Omnia 2 ha portato alla scoperta di ciò che era accaduto e così l' opposizione dei familiari del defunto scomparso consentirà di fare luce anche su questo episodio. D'altro canto fra tombe realizzate senza autorizzazione (che al limite arrivava dopo) e spostamento di salme che il custode disponeva come nulla fosse, sempre dietro pagamento, tutto era possibile. Anche tagliare gli alberi presenti al camposanto e vendere il legname (52 quintali, è stato appurato) o recuperare i fiori dei funerali del giorno precedente e farli rivendere al chiosco della compagna del custode, mentre i lavori venivano affidati al figlio di Castaldi.
LE INTERCETTAZIONI. Una tomba? 6.750 euro, il privato va a pagare e chiede 250 euro di sconto. La risposta di Castaldi è inequivocabile: «Tu a me li deve dare i 250 ma sono per i muratori, quelli che fanno - si apprende dalle intercettazioni - chiappano il morto, lo mettono nel furgone, lo portano lì, fanno il cemento e lo chiudono». E alla donna che chiede la ricevuta? «Non te sta a preoccupa' ce sto qua io signo'». Una garanzia, insomma. E se qualcuno mostrava dubbi? «A me non me frega un c... ho finito il cemento, se non lo vuole lo vendo a un altro». Servono fiori? La compagna di Castaldi chiede, il custode risolve: è il 10 febbraio 2019 e l' uomo le risponde di non preoccuparsi che ci sono stati due funerali. Il 23 maggio propone al figlio della donna un affare «s'è buttato uno dal balcone a Santa Maria, ti guadagni cinquanta sessanta euro»). Sempre l' amante suggerisce di sottrarre le rose bianche dall' addobbo di un defunto appena tumulato «quello che è morto, quello la che la mamma non ha una lira, che mi hai detto tu». In Comune tutti sapevano. E tacevano.
"Vi racconto il sistema che ha scoperchiato il concorso nel Lazio". Francesco Boezi il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. Il "caso Allumiere", per il consigliere regionale Chiara Colosimo, non è un caso isolato. Anzi, quel concorso "scoperchia" l'esistenza di un "sistema". E il MoVimento 5 Stelle sta a guardare (e non solo). Del concorso di Allumiere e del possibile ruolo della Regione Lazio rispetto a quel caso si parla poco di questi tempi, ma qualche novità c'è. Anzitutto, la relazione di Chiara Colosimo, presidente della commissione Trasparenza, è pronta. Per quanto qualcuno abbia tergiversato nell'approvare quella relazione. I commissari, per via delle "resistenze", dovranno aggiornarsi dopo le ferie estive. Inoltre, il comune di Allumiere ha inviato una lettera ai candidati del concorso in cui si inizia a parlare di annullamento. Gli effetti delle graduatorie, nel frattempo, sono state sospesi. Insomma, nella stabilità estiva, qualcosa si muove. Parliamo della "stipendiopoli" balzata alle cronache nazionali che, come ha scritto su Il Giornale, Giuseppe Marino "moltiplicato i pregiati posti di lavoro pubblico a tempo indeterminato e ne ha distribuiti almeno 24, in gran parte tra chi ha la tessera del Pd". Il Consiglio regionale del Lazio, com'è peraltro previsto, ha attinto dalla graduatoria. E le polemiche si sono scatenate. Ma c'è anche una rete di comuni coinvolta nelle assunzioni di persone ascrivibili al Partito Democratico. Il caso del "concorso dei miracoli" potrebbe essere vicino a una qualche conclusione. Il consigliere regionale Chiara Colosimo, che è espressione di Fratelli d'Italia, si è fatta questo conto: 29 su 44 assunti sono i "candidati fuori dalle pre-selettive", perché non avrebbero i requisiti; di quei 44, 34 avrebbero legami con la politica o con la commissione. L'esito dell'inchiesta, almeno per quel che riguarda la parte politica, è in divenire. Ma il "caso Allumiere", per la Colosimo, fa parte di un "sistema". Non sarebbe solo un caso isolato, dunque. Qualcosa che sarebbe ormai consolidato. Qualche giorno fa, il consigliere regionale Francesca De Vito è uscita in polemica dalla formazione pentastellata, citando il tradimento degli elettori ed il caso Allumiere tra le motivazioni. Ma il resto del MoVimento 5 Stelle laziale non è dello stesso avviso. Attorno a questa storia, possono essere elencati più aspetti: le questioni di legittimità, su cui si pronunceranno gli inquirenti; l'opportunità politica, che è al centro del dibattito; la linea tenuta dal MoVimento 5 Stelle, che su "Allumiere" e dintorni non è troppo attivo sul piano dei giudizi senza sconti, com'è invece avvenuto in altre circostanze; il peso di questa vicenda per le imminenti elezioni amministrative e per i prossimi appuntamenti.
Senta, cerchiamo di partire con un atteggiamento garantista: voi contestate l'opportunità politica o il merito giuridico?
"Ho sempre tenuto i due piani separati: l'opportunità politica è una cosa, gli errori amministrativi un'altra. E questi ultimi non sono più contestabili, perché sono palesi. C'è un tema, però, considerando pure il comunicato dei carabinieri: credo che le due cose siano andate di pari passo".
Cioè?
"Cioè che alcuni errori, che potrebbero sembrare amministrativi, siano stati fatti, in realtà, per facilitare alcuni candidati amici dei politici".
Però la sua linea è garantista..
"Ho iniziato a fare le pulci alla Regione per dimostrare come ci fosse una falla che creava un danno a chi amministrava, così come con la storia delle mascherine. A me interessa difendere l'istituzione, non condannare Tizio o Caio. Per cui, se c'è qualcuno che ha sbagliato, quel qualcuno deve pagare. E non per via del giustizialismo, bensì perché deve emergere che non siamo uguali. Perché non siamo tutti uguali".
A che punto è l'iter della relazione?
"La relazione finale è stata stilata. Però ci sono molte resistenze. Dunque, con la riapertura dei lavori darò un termine per le osservazioni agli altri commissari".
Scusi, ma resistenze in che senso?
"Nel senso che molti hanno utilizzato questa motivazione: la relazione è lunga e dettagliata. Per cui, c'è chi ha detto di aver bisogno di tempo ulteriore. La relazione non è stata approvata, come speravo, prima della chiusura dei lavori".
Quali conclusioni ha tratto nella relazione?
"Le conclusioni derivano dalle audizioni e dagli atti in nostro possesso. Al netto dell'opportunità politica, è evidente come anche la procedura amministrativa e burocratica del concorso sia stata falsata. Dalla prova pre-selettiva alle strane coincidenze all'interno delle cosiddette battterie del concorso, passando dal non comunicare la graduatoria con il punteggio ai comuni. Gli stessi che poi hanno attinto".
Il Comune di Allumiere ha inviato una lettera ai candidati...
"Sì, è l'ultima follia targata Partito Democratico e sindaco Pasquini. Gli inquirenti stanno stringendo. Cercano di venirne fuori con una sorta di sondaggione. Una cosa tipo: "Caro candidato, tu hai partecipato, che ne pensi se annulliamo?" Vorrei che qualcuno mi dicesse se è normale che accada nella pubblica amministrazione".
Ma il suo intento qual è?
"Io non sono una giustizialista, però credo nei principi. Quello che emerge con Allumiere è una completa mancanza di valori. Gli stessi che dovrebbero essere propri prima di una democrazia e poi dei singoli. Ciò che ha scoperchiato il caso Allumiere non è un caso singolo, ma un modus operandi. Nella provincia di Roma, esiste un sistema. La stesso meccanismo ha avuto luogo in altri comuni".
Ossia?
"Il sindaco uscente di Subiaco è stato assunto insieme ad un assessore di Marino che ha vinto un concorso a Guidonia. Il sindaco di Rocca Santo Stefano ha assunto il sindaco di Zagarolo. Ciò che deriva dal caso Allumiere è che alcuni hanno usato le istituzioni per sistemarsi. Secondo il mio modo di vedere, non ha nulla a che vedere con il giustizialismo, però ha molto a che vedere con come si concepisce la politica. Per questo, non farò nessuno sconto. La verità è che c'è un sistema".
Sì, ma se lei mi parla di "sistema", io le devo chiedere da chi è composto..
"Non io ma i casi citati fin qui ci dicono che per ora i comuni coinvolti sono ascrivibili al Partito Democratico e, nello specifico, al Pd della provincia di Roma. Però, prendendo in considerazione la questione relativa alla Asl di Latina, si fuoriesce da Roma e provincia. Io credo si sia sviluppato un sistema che è a metà tra chi governa e chi dirige. Perché non dobbiamo dimenticare la parte recitata dai dirigenti o dai commissari in questi processi".
Passiamo alla politica. Il MoVimento 5 Stelle è il convitato di pietra di questa storia? Governano col Pd senza remore?
"Il sindaco di Guidonia è grillino. Sono il più grande bluff della storia. Non sono stati in grado di fare opposizione, dunque hanno pensato bene di entrare in maggioranza. L'unica che faceva opposizione (Roberta Lombardi, ndr) oggi fa l'Assessore. Non l'ho vista alzare un sopracciglio su Allumiere. I grillini non sono proprio convitati di pietra...".
Cioè?
"Cioè, almeno per le assunzioni in Consiglio regionale, sono parte in causa: i grillini esprimono un membro del Consiglio di presidenza. Per quello che ne sappiamo, poi, qualcuno legato al MoVimento 5 Stelle è stato assunto con l'infornata di Allumiere, ma come dimostra Guidonia, sono diventati il tonno delle scatolette in un batter d’occhio".
E la linea Zingaretti qual è?
"Zingaretti è immune. È inspiegabile come possa continuare a far finta di niente, le mascherine mai arrivate ma profumatamente pagate erano fake news (c’è ancora la grafica della regione sui social), le nomine politiche in piena pandemia polemiche sterili, i debiti fuori bilancio non erano un problema (fin quando non è arrivata la corte dei conti) e su “Concorsopoli” nemmeno una dichiarazione ufficiale, solo un tentativo di maquillage. La miglior foto ricordo di Zingaretti è la sua potente dirigente sui rifiuti, già vicesindaco del Pd, che dopo l’arresto si candida sindaco nel suo comune viterbese di Vetralla. Incredibile ma vero...".
Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento
"Nomi pesanti vicini al Pd". Bufera sul maxiconcorso che fa tremare i dem. Il "concorso dei miracoli" continua a far discutere: adesso spuntano i nomi. E l'ex sindaco Ignazio Marino tira fuori il racconto che imbarazza il Partito democratico. Luca Sablone - Lun, 12/04/2021 - su Il Giornale. "Di questo concorso sottovoce si diceva da parecchio. È stato superato il limite: gli assunti sono nomi pesanti, persone vicine al sindaco e a molti esponenti del Partito democratico". Continua a far discutere il maxiconcorso di Allumiere, finito al centro delle polemiche tanto da aver ritenuto necessario richiedere la creazione di una commissione d'indagine. Le domande su cui si vuole far chiarezza restano ancora diverse: come è possibile che ben 85 persone siano finite a pari merito nel punteggio finale? Per quale motivo gran parte degli idonei proviene dal mondo della politica? Intanto Mauro Buschini ha deciso di dimettersi da presidente del Consiglio regionale del Lazio. Delle assunzioni definitive avrebbero beneficiato alcuni collaboratori fiduciari dei consiglieri regionali del Partito democratico (ma anche di Movimento 5 Stelle e Lega), dei militanti e addirittura un consigliere capitolino.
Spuntano i nomi. Come riportato da Il Fatto Quotidiano, nell'elenco dei neo-assunti figurerebbero molteplici esponenti del settore della politica: due collaboratori di Buschini; Matteo Marconi, segretario del Pd di Trevignano Romano (Roma); Arianna Bellia, assessore Pd di San Cesareo (Roma); Augusta Morini, consigliere e assessore Pd di Labico (Roma); Paco Fracassa, segretario Pd di Allumiere (Roma); un componente del circolo Pd di Frosinone (città di Buschini); tre militanti dem (Allumiere, Civitavecchia e Roma). Su 16 posti disponibili, a dicembre la Regione avrebbe contattato in totale 24 persone ma in otto avrebbero rifiutato. Il 28 dicembre il Comune di Guidonia avrebbe stipulato un accordo con Allumiere e avrebbe deciso di assumere otto funzionari prendendoli dallo stesso elenco-idonei. Tra loro vi sarebbe stato anche Marco Palumbo, consigliere del Partito democratico in Campidoglio e presidente della commissione Trasparenza. I dem hanno preso subito preso posizione e non si sono nascosti, anche se si continua a ritenere che la procedura sia "regolare e limpida". Per Matteo Orfini si tratta "di una vicenda sulla quale è necessario fare chiarezza subito, senza timidezze". Il deputato del Pd si è detto sconcertato per quanto accaduto poiché così si rischia di minare "la credibilità delle istituzioni". Un eletto del Partito democratico, scrive La Repubblica, chiede di valutare l'annullamento di tutto il pacchetto di nomine: "Nicola (Zingaretti, ndr) è fuori di sé. Come dargli torto? Nel Consiglio di presidenza hanno combinato questo pasticcio e ora dovrebbero fare un passo indietro".
La testimonianza di Marino. Ad aumentare l'imbarazzo per il Pd è stato un racconto fornito da Ignazio Marino nel corso della trasmissione Non è l'arena su La7 condotta da Massimo Giletti. L'ex sindaco di Roma ha rivelato un retroscena risalente al periodo in cui stava cercando persone competenti per guidare le aziende del Comune: "Spesso il capogruppo del Pd mi proponeva alcuni curricula e in particolare me ne proponeva sempre uno che a me non impressionava". A quel punto il primo cittadino decide di incontrare il candidato, convocandolo per fare un colloquio in vista di un ruolo da amministratore delegato. Nel curriculum però non vi è alcun riferimento alla preparazione sul settore rifiuti. "Te la senti di affrontare questa sfida epocale? Rinunceresti a tutti i tuoi incarichi?", gli chiede Marino. E la risposta del candidato si commenta da sé: "Assolutamente no, non rinuncio alle altre mie posizioni". Però l'uomo si fa venire in mente un'idea: farsi nominare presidente, piuttosto che amministratore delegato, "così ho un impegno che mi prende massimo tre pomeriggi al mese". L'ex sindaco rimane spiazzato e chiama il capogruppo per denunciare la situazione, ma la replica è stata tutt'altro che di indignazione per quanto accaduto: "Ma che cosa ti costa? Sono solo 100mila euro di stipendio e ti metti un po' in pace con il Partito democratico con cui non vai d'accordo".
Giuseppe Marino per "il Giornale" il 6 aprile 2021. Il trucco è chiaro nella sua semplicità: un piccolo Comune bandisce un concorso. Partecipano in massa eletti, militanti e portaborse di un partito, ma non ci può essere posto per tutti in un Comune che non arriva a quattromila abitanti. Fa niente: in questo caso, davvero, l' importante è partecipare (e risultare idonei). Pochi giorni dopo la pubblicazione della graduatoria, altri enti, casualmente, decidono di assumere sfruttando la norma che consente di ricorrere alla graduatoria dell' ultimo bando di concorso dello stesso territorio. E il gioco è fatto. Alla Regione Lazio ormai lo chiamano tutti «concorso dei miracoli»: l' esame che ha moltiplicato i pregiati posti di lavoro pubblico a tempo indeterminato e ne ha distribuiti almeno 24, in gran parte tra chi ha la tessera del Pd. Fino a prova contraria, in modo del tutto legale. L' epicentro della vicenda è Allumiere. In 300 si presentano per un posto nel paesino dell' hinterland a nord di Roma e il 14 dicembre viene stilata la graduatoria che ha una particolarità: i vincitori sono cinque, tutti della zona, ma c' è un numero spropositato di idonei, quasi novanta, che arrivano da zone diverse del Lazio. Nei giorni successivi accade il vero miracolo: il Consiglio regionale del Lazio decide di assumere sedici funzionari e per farlo pesca, come prevede la legge, dagli ultimi concorsi. Il grosso delle chiamate arriva ai fortunati idonei del concorso dei miracoli. Tra i prescelti il segretario del Pd di Trevignano romano Matteo Marconi, l'assessore dem di San Cesareo Arianna Bellia, Augusta Morini assessora Pd di Labico, Paco Fracassa segretario piddino di Allumiere. Ma, soprattutto, c' è un lungo elenco di nomi di consulenti a tempo determinato della presidenza del Consiglio della Regione Lazio guidata dal Pd Mario Buschini, o provenienti dal suo collegio elettorale, la provincia di Frosinone. A chiudere il cerchio c' è un dettaglio inquietante: il sindaco di Allumiere, Antonio Pasquini, da tre anni lavora con Buschini. Ma quella che è stata battezzata «stipendiopoli Pd», pare più ancora più ampia. A sorpresa alcuni candidati rifiutano il posto. Come Marco Palumbo, consigliere comunale di Roma e presidente della Commissione trasparenza, uno dei «moralizzatori Pd» che con una firma dal notaio ha posto fine alla carriera da sindaco di Ignazio Marino, o l' altro dem Massimo D' Orazio, collaboratore di Buschini e assessore a Isola del Liri, paese del frusinate che dista 190 km da Allumiere o Matteo Manunta, ex consigliere comunale 5s di Civitavecchia e collaboratore di un altro pezzo grosso della Regione, il vicepresidente grillino David Porrello. Uomini fortunati perché, solo cinque giorni dopo il loro rifiuto, il Comune di Guidonia, assume altre otto persone dalla stessa graduatoria e li chiama. Lo scandalo emerge e il Consiglio regionale difende le assunzioni: tutto in regola. Ma ora si scopre che al meccanismo hanno partecipato altri Comuni del Lazio, per lo più a guida Pd o 5s e ci sarebbe almeno un' assunzione legata a un altro vicepresidente, il leghista Giuseppe Cangemi. A denunciare il caso però sono stati anche esponenti della Lega, come Fabrizio Santori e Arianna Cacioni, capogruppo a Guidonia. Nicola Zingaretti tace ma sarebbe in grave imbarazzo, vista la dinamica dello scandalo che punta dritto verso la presidenza del Consiglio regionale. Anche perché modi e tempi della vicenda farebbero presupporre una regia nelle assunzioni scaglionate tra più enti. «La mancanza di alcuni documenti concorsuali e le modalità di questa storia - attacca la consigliera regionale Chiara Colosimo di Fratelli d' Italia - sono tali da richiedere un chiarimento immediato. E credo che anche nel Pd ci sia chi in queste ore è in forte imbarazzo».
La rete dei Comuni che assume i dem. Pd graziato dai media. La "stipendiopoli" della Regione Lazio coinvolge altri centri. Scandalo silenziato. Giuseppe Marino - Mer, 07/04/2021 - su Il Giornale. Non solo la Regione: c'è anche una rete di sindaci che ha contribuito a trasformare il bando per cinque assunzioni presso un piccolo Comune laziale nel «concorso dei miracoli». Il meccanismo è sempre lo stesso: un nugolo di amministratori locali, militanti e tesserati, in larghissima parte del Pd, ha partecipato al concorso per cinque impiegati generici (categoria C1). Molti di loro già collaborano con l'ufficio di presidenza del Consiglio della Regione Lazio, ma non vincono il posto nella minuta Allumiere, paesino dell'entroterra romano che per alcuni dei candidati sarebbe risultata una destinazione non così interessante, non fosse altro per la distanza da casa. In compenso, risultano idonei. E molti di loro, coincidenza, con lo stesso identico punteggio: 74. Un numero fortunato evidentemente. Perché a pochi giorni dalla chiusura del bando, molti di loro si vedranno piovere offerte di lavoro da altre amministrazioni che decidono di attingere alla graduatoria con un tempismo incredibile. Oltre ai 16 della Regione Lazio, nove vengono chiamati dal Comune di Guidonia (a guida 5s, come il vice presidente del Consiglio regionale Devid Porello che sarà uno dei firmatari dell'atto che decide le assunzioni in Regione), altri da Comuni più piccoli. C'è perfino un consigliere comunale di Roma, Marco Palumbo, che rifiuta il posto in Regione e lo accetta a Guidonia, più vicino a casa. A Guidonia si sistema pure Matteo Manunta, ex consigliere provinciale 5s, assunto come impiegato semplice, ma protagonista di una carriera rapidissima: è già responsabile dei social del Comune grillino. Anche il Comune di Monterotondo (a guida Pd) si butta nella mischia. L' assessore al personale Alessandro Di Nicola che propone le assunzioni, altra coincidenza, lavora come capo della segreteria di Gianluca Quadrana, consigliere regionale della Lista Zingaretti e anche lui firmatario della delibera delle assunzioni in Regione. Perfino il piccolo e incantevole Comune di Anguillara Sabazia non vuole farsi scappare una delle partecipanti al concorso: è la figlia del sindaco di un altro paesino Manziana. A Tivoli trovano posto le gemelle Carlini, sorelle di un ex consigliere comunale grillino di Civitavecchia. Tra la Regione e il Comune di Ladispoli trovano posto anche persone che lavorano con il leghista Giuseppe Cangemi, vice di quello stesso ufficio di presidenza della Regione Lazio guidato dal Pd Mario Buschini, il luogo a cui sembrano ricondurre tutti i fili di questa intricata vicenda. Compreso quello che porta al sindaco di Allumiere di Antonio Pasquini, il primo cittadino che ha bandito il «concorso dei miracoli». E che è anche vice capo segreteria di Buschini. Un mosaico di assunzioni incrociate in odore di conflitto di interesse in cui ci si perde. In Regione solo imbarazzo di fronte alle richieste di chiarimenti della consigliera regionale di Fratelli d'Italia Chiara Colosimo, che ha chiesto lo stop alle assunzioni. Tace il presidente della Regione Nicola Zingaretti, nonostante nel Pd qualcuno abbia sommessamente espresso disagio. Eppure la «stipendiopoli» che sotto Natale, con tanti italiani in lockdown a chiedersi come arrivare a fine mese, ha distribuito posti di lavoro pubblico a tempo indeterminato a persone legate alla politica, ha avuto una eco smorzata. Ne ha scritto il Fatto e Repubblica ha confinato la notizia nella cronaca di Roma. Altri grandi quotidiani non pervenuti. È il solito «sconto sulla fiducia» mediatico su cui la sinistra sa di poter contare.
Scandalo concorsopoli, nel mirino l'assunzione del presidente Pd del Lazio. Lorenzo D'Albergo su La Repubblica il 5 aprile 2021. Si allarga lo scandalo dello stipendificio dem alla Pisana. Sotto il fuoco dell'opposizione l'assunzione di 14 statistici tra i quali Andrea Alemanni. Durissima Giorgia Meloni: "Gli italiani in ginocchio e il Pd nel Lazio sistema gli amici". Non solo la graduatoria di Allumiere da cui il Consiglio di presidenza della Regione e il comune grillino di Guidonia hanno pescato 24 funzionari, tra cui una dozzina abbondante di politici, segretari dem e collaboratori di consiglieri regionali del Pd (ci sono anche casi in quota 5S e Lega) a cui garantire un'assunzione a tempo indeterminato. Le opposizioni, Fratelli d'Italia in testa, vogliono vederci chiaro sulla Concorsopoli della Pisana e hanno preso a scavare negli archivi regionali. A chiedere di concentrarsi sulla vicenda che imbarazza i dem è stata Giorgia Meloni in persona. La prova? Lo slogan pubblicato ieri su Facebook: "Gli italiani in ginocchio e il Pd nel Lazio sistema gli amici". Una dichiarazione di guerra che fa il paio con gli ultimi bandi finiti nel fascicolo di FdI: nel mirino ora è finita la procedura con cui il 25 febbraio la Regione ha assunto 14 esperti in statistica. Tra i vincitori c'è Andrea Alemanni, presidente del Pd del Lazio. Il suo nome non è sfuggito ai meloniani: dal 26 novembre 2020 nel cda dell'Istituto romano San Michele su nomina firmata dal governatore Nicola Zingaretti, Alemanni è già stato assessore al II municipio e per quattro anni, dal 2014 al 2018, ha lavorato a palazzo Chigi per il dipartimento Funzione pubblica. Nel 2005 si è laureato in statistica economica alla Sapienza e ora non ci sta a finire nel tritacarne: "Ho studiato a lungo - spiega il dirigente dem - e il mio caso non c'entra niente con Allumiere. È tutto in regola". Lo stesso concorso ha portato in Regione anche Andrea Giansanti, ex segretario del Pd di Latina e già collaboratore di eletti dem in consiglio regionale. Tornando nella Allumiere del sindaco Antonio Pasquini, da tre anni al lavoro proprio tra le fila del Consiglio di presidenza del Lazio, spunta il caso di Silvia Sestili. Tra le vincitrici del bando delle polemiche, è anche la presidente di Eureka, associazione attiva nel paesino sui monti della Tolfa e destinataria di finanziamenti trasferiti dalla Regione per allestire le luminarie dell'ultimo Natale. Un altro caso che FdI affronterà nella commissione d'inchiesta di cui ha già chiesto la presidenza. Intanto alla Pisana prova a fare la voce grossa anche la Lega: il Carroccio ha presentato un'interrogazione per chiedere conto della struttura Cinema. A guidarla per 115 mila euro annui è Giovanna Pugliese, assessora al Turismo e alle pari opportunità uscita dalla giunta per far spazio alla 5S Valentina Corrado e ora alla guida della nuova creatura che lavora in collaborazione con il Gabinetto del presidente Zingaretti.
Maria Egizia Fiaschetti per corriere.it il 13 aprile 2021. Il pasticcio della clip promozionale della Ryder Cup, la competizione internazionale di golf in programma nel 2023 che avrà come sede principale il campo «Marco Simone Golf & Country Club» di Guidonia, finisce sul magazine statunitense Newsweek. «Il video della Ryder Cup 2023 confonde il Colosseo con un anfiteatro francese nel mix della sindaca», titola la rivista newyorkese. L’articolo ricorda la sequenza inserita in apertura del filmato che, a uno sguardo attento, non riproduce il monumento simbolo della Capitale ma l’arena di Nîmes , nell’Occitania, regione nel sud della Francia. Il cronista ricorda che «la gaffe» è diventata subito bersaglio polemico degli oppositori politici, finché il video postato sul profilo Facebook di Virginia Raggi non è stato sostituito da un altro, questa volta con l’immagine corretta. «L’errore lampante - annota Newskeek - si è reso ancora più imbarazzante, considerato che il video è stato prodotto ufficialmente dalla commissione organizzatrice della Ryder Cup 2023».
Doppia gaffe grillina. Il Colosseo diventa l’Arena di Nimes, la gaffe della Raggi per lanciare la Ryder Cup di golf a Roma. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Aprile 2021. Una serie di gaffe da far impallidire quelle messe a segno da Virginia Raggi sabato scorso nel pubblicizzare sui propri profili social la Ryder Cup di golf, che si terrà in Italia nel 2023, presso il campo del Marco Simone Golf & Country Club di Guidonia. Ma la sindaca, che punta a ricandidarsi per le Comunali del prossimo ottobre, forte del sostegno di Beppe Grillo e nonostante l’ostracismo nei suoi confronti di una parte importante dello stesso Movimento 5 Stelle, riesce ad inanellare una serie di figure barbine. Nel video promozionale Raggi riesce incredibilmente a pubblicizzare l’evento utilizzando le immagini dell’Arena di Nimes, in Francia, al posto del Colosseo. Un errore notato dal deputato di Italia Viva Luciano Nobili, che la accusa: “Nel video la sindaca, che ha privato Roma della grande opportunità e dei miliardi delle Olimpiadi 2024 – sottolinea Nobili -, ha la faccia di provare a intestarsi la Ryder Cup. E già questo farebbe abbastanza ridere. Invece c’è da piangere. Perché in quel video prodotto dal Comune di Roma, al posto del Colosseo, c’è l’Arena di Nimes in Francia. Un errore che non farebbe neanche un bambino delle elementari, il simbolo di Roma scambiato con un anfiteatro romano che abbellisce una cittadina del sud della Francia”. Video che, dopo la gaffe, è stato poi modificato dal team social della Raggi, come dimostra questo screenshot. Ma non c’è solo l’errore ‘social’ nel mirino. Nobili ricorda infatti come la sindaca “ha privato Roma della grande opportunità e dei miliardi delle Olimpiadi 2024, ha la faccia di provare a intestarsi la Ryder Cup di golf 2023 che Roma ospiterà solo grazie alla lungimiranza del governo Renzi, del presidente Chimenti e del Coni, che l’hanno ottenuta nel 2015 quando lei non era nemmeno stata eletta”. In effetti tornando indietro negli anni questo entusiasmo grillino nei confronti della Ryder Cup di golf non si nota, anzi. Nel 2016, quando al governo c’era Matteo Renzi, tramite il ‘sacro blog’ i grillini bombardavano l’esecutivo a guida PD per aver “inserito nella legge di stabilità un finanziamento di ben 97 milioni di euro a garanzia della Ryder Cup di golf”, scriveva il deputato Carlo Sibilia. In realtà non si trattava di un finanziamento governativo ma di una garanzia statale che l’esecutivo volle concedere per l’organizzazione dell’evento. Emendamento poi ritirato, salvo poi paradossalmente esultare nel dicembre 2019, quando i 5 Stelle erano al governo, per l’approvazione dell’emendamento che stanziava 50 milioni di euro “per le infrastrutture e la viabilità legate alla Ryder Cup del”, scriveva sui social il consigliere regionale grillino nel Lazio Valerio Novelli. LE SCUSE DELLO STAFF – Il primo cittadino di Roma soltanto nel pomeriggio di oggi ha tentato di ‘mettere una pezza’ alla figuraccia, con un messaggio scritto dallo “staff comunicazione” della sindaca su Facebook. Nel testo lo staff si prende la responsabilità della gaffe: “Ogni pretesto è valido per buttare fango su Virginia Raggi. Stavolta proviamo a discolparla: non è lei la colpevole. Siamo noi”. Secondo la ricostruzione fornita dallo staff comunicazione della Raggi, il video contenente l’Arena di Nimes al posto del Colosseo è stato ripreso “dai canali della Federgolf ed era stato rilanciato in precedenza anche da numerosi media nazionali e internazionali. Ovviamente è stato un nostro errore non verificare bene prima di metterlo online. Non abbiamo posto la dovuta attenzione”.
Raggi, dall'anfiteatro "francese" alla funivia "smontabile". Un mandato sul filo della gaffe social (e non) continua. Marina de Ghantuz Cubbe su La Repubblica il 12 aprile 2021. Una lunga lista di errori o sviste grossolane che la Rete non perdona alla sindaca. L'ultima in ordine di tempo poche ora con lo spot dedicato alla Ryder Cup dove compare l'anfiteatro di Nimes. Ma anche i suoi collaboratori non scherzano. E così anche Osho la prende in giro. In principio fu una piazza stracolma di persone, con le mani al cielo e sopra la scritta coRAGGIo e il simbolo del M5s. Era la foto di copertina della pagina Fb della sindaca Virginia Raggi, fresca di vittoria nel 2016, utilizzata per inaugurare la nuova stagione politica romana. È diventata la prima di una lunga serie di gaffe social targate 5s. Sì perché la foto non era stata scattata a una manifestazione dei pentastellati in sostegno della candidata sindaca, ma a un concerto di musica elettronica. E il fotografo (insieme a tanti romani) se ne accorse: "Questa è la mia foto a un concerto di David Guetta in Romania, non un comizio politico". Un ottimo inizio per la sindaca che con gli anni è diventata la regina incontrastata dei like su Facebook. Ma anche delle gaffe. Negli ultimi tempi le hanno fatto compagnia il vicesindaco e assessore alla Mobilità Pietro Calabrese, il consigliere Carlo Maria Chiossi, ma soprattutto Paolo Ferrara che da quando è diventato un fedelissimo della sindaca ha voluto provare a eguagliarla in quanto a scivoloni social. Solo che di lavoro da fare ce n'è parecchio per raggiungere i risultati della prima cittadina (e del suo staff): sempre nel 2016 se ne andò Settimio Piattelli, uno degli ultimi testimoni della Shoah e membro della comunità ebraica di Roma. Dopo il mancato omaggio ecco che finalmente appare il Tweet di Raggi e il post di Roma Capitale. Tutto risolto? Neanche per sogno perché nella foto pubblicata non c'è Piattelli, ma lo psichiatra e politico Adriano Ossicini, all'epoca ancora in vita. Poi vennero i compleanni: quello più importante, quello della fondazione di Roma. Il primo che Raggi festeggiava con la fascia tricolore indosso. "Happy 2.700th Birthday Rome. #NataleDiRoma", scriveva Raggi su Twitter il 21 aprile 2017. C'era tutto: anche la foto sulle scale dell'Altare della patria. Mancavano solo 70 anni di storia perché Roma ne compiva 2.770. Due anni dopo non andò meglio. Lo scatto scelto per celebrare il Natale di Roma era del fotografo Samuel Chan che gentilmente commentò: "Ciao. Questa foto è mia. Potete per favore aggiungere i crediti o rimuovere il post?". Nella lunga sfilza di gaffe sui social va menzionato il selfie di Raggi che guarda sognante la pineta di Castel Fusano in fiamme. Nacquero hashtag su Twitter esilaranti come #Raggi guarda cose in cui la sindaca osservava impassibile la nave Costa Concordia ribaltata o il Titanic affondare. L'ultimo inciampo è di due giorni fa: sulla pagina Fb della sindaca appare un video per pubblicizzare la Ryder Cup che, ci tiene a precisare il Comune, "si svolgerà a Roma nel 2023". Peccato che la gara di golf sarà a Guidonia e nel video passano le immagini non del Colosseo ma dell'Arena di Nimes in Francia. Anche la corte della regina dei social si sta impegnando: se la sindaca se ne uscì scrivendo in commento su Fb che "la funivia Casalotti Battistini se non serve si può smontare e rimontare da un'altra parte", il vicesindaco Calabrese per non essere da meno voleva "portare i bus sotto casa di Carlo Calenda". In tanti su Facebook fecero notare all'assessore che quel modo minaccioso di fare non si addiceva a chi ricopre un ruolo istituzionale, ma le scuse non sono mai arrivate. Invece è stato costretto al passo indietro il consigliere Carlo Maria Chiossi che ha postato la foto di un bambino in sovrappeso paragonandolo anche lui a Calenda candidato sindaco di Roma. Solo che in questo caso dalla gaffe all'accusa di aver commesso un reato come il body shaming il passo è stato breve perché Calenda è inorridito di fronte all'uso di una foto di un bambino di cui si prende il giro il corpo e ha promesso di denunciare Chiossi. Infine, non può non essere menzionato il tombino ritoccato che ha reso celebre un altro consigliere, Paolo Ferrara. Non contento dei post in cui ha paragonato Raggi a Michelangelo e annunciato che la sindaca ha fatto "più strade degli antiche romani", Ferrara ha voluto anche lui dare una mano con la manutenzione delle strade. Prendendo la foto di un tombino pieno di asfalto e otturato dal fogliame e pubblicandone un'altra dello stesso tombino rimesso a nuovo. Con Photoshop. Insomma, 5 anni vissuti pericolosamente sui social, croce e delizia del Movimento.Tanto che anche Osho (bonariamente) sfotte la sindaca postando una foto di lei con Totti. "Quando me ricapita di farmi fotografa' con Castellitto", riferendosi alla serie su Sky dedicata all'ex capitano della Roma interpretato da Pietro Castellitto". Sipario. Fino al prossimo sfondone.
Il consigliere 5S che "ripulisce" Roma... solo con Photoshop: "Lavori fatti bene". Il web non ha perso occasione per ironizzare sulla foto che Paolo Ferrara, consigliere grillino, ha twittato. Valentina Dardari - Lun, 29/03/2021 - su Il Giornale. Ancora un tweet degno di nota quello dei consigliere grillino Paolo Ferrara che, dopo aver paragonato alla Cappella Sistina i lavori di pubblica amministrazione fatti dalla sindaca Raggi in giro per Roma, ha pensato bene di darsi al photoshop. E così, su Twitter è comparsa in bella mostra la foto di un tombino praticamente perfetto grazie alle magie del computer. Peccato però che l’immagine non sia sfuggita ai navigatori del web che non hanno certo perso tempo e hanno ridicolizzato il tutto con vari e pungenti commenti. Tanto da portare il consigliere dei 5Stelle a rimuovere il tweet. Ma era ormai troppo tardi, in molti infatti hanno ritwittato rendendo eterno quello scempio.
Il consigliere e il tombino pitturato (male). Come riportato da Repubblica, Ferrara si sarebbe però giustificato asserendo: "La foto non l'ho modificata io, l'ho trovata. Volevo solo essere ironico ma sono stato frainteso". Tutto aveva avuto inizio con la segnalazione di un tombino completamente otturato in zona Boccea a Roma, la cui foto era stata prontamente pubblicata dall’account Battaglia persa: "Dalla regia mi segnalano lavori fatti bene in zona Boccea che speriamo a breve l'eroe Paolo Ferrara ci farà condividere in massa a testa alta e pancia a terra. Se Roma si allaga è colpa dei cambiamenti climatici (cit. Virginia Raggi)". E quale migliore risposta se non un tocco artistico che avrebbe potuto riportare alla bellezza originaria il tombino? E così, dopo poco tempo ecco apparire un’altra foto, ovvero lo stesso tombino messo a nuovo. Praticamente un prima e dopo. E non è neanche mancata la frase sarcastica del consigliere che, tronfio ha twittato: "Dovete aspettare la fine dei lavori, non siamo mica ai tempi di Alemanno o Marino".
Si scatena l'ironia. Ma gli utenti con occhio lungo si sono subito accorti che qualcosa non andava. E così, ingrandendola hanno dimostrato che non era veritiera. Renzo ha chiesto con una punta di ironia: “Dici davvero? La fine dei lavori o la fine de Photoshop?". Si vede benissimo zoomando che le fessure dove dovrebbe passare l’acqua sono invece strisce nere pitturate anche male. Un altro ha tenuto a precisare: “Ma neanche Photoshop, ha usato direttamente Paint". Io, che non sono brava a usare queste cose, avrei forse fatto meglio del consigliere grillino. E così, in brevissimo tempo la foto indagata ha iniziato a fare il giro del web, ritoccata in mille modi diversi. Una versione anche fiorita. Un’altra con soldi che fuoriescono dal tombino, perfino il cielo e le casette. E chi più ne ha più ne metta. Uno dei più cattivi avrebbe anche fatto notare che nella foto pubblicata da Ferrara, una cicca di sigaretta è stata pitturata a metà. Uno dei commenti: "Propaganda 5 stelle da brividi, ma Photoshop bisogna saperlo usare, bisogna stare attenti ai dettagli". E ancora, la domanda ironica: “Per favore si possono rifare anche le strisce pedonali". Certo, basterà solo imparare a usare meglio i programmi adatti allo scopo.
Tiziana Lapelosa per “Libero Quotidiano” il 28 marzo 2021. Segnaletica sbiadita o assente, luce scarsa, voragini e radici di alberi ovunque Ogni tre giorni muore una persona. Alla manutenzione si preferiscono i rattoppi. Se non sono radici, sono buche. Se non sono buche, sono voragini. Di sera ci si mettono pure le luci sbiadite dei lampioni. Mentre la segnaletica orizzontale, che indica il confine tra le corsie, l'ampiezza delle strisce pedonali, gli stop agli incroci, spesso bisogna immaginarsela tanto è erosa dal tempo. Siamo a Roma. Capitale d'Italia. Il giornalista Augusto Minzolini, che ci è caduto tre volte, ci ricorda che, in media, «per le buche muoiono 30 persone all'anno». Tragedie che gettano nello sconforto l'intera comunità e riportano alla luce uno dei problemi che la città sede del Quirinale e del Parlamento, della Storia e di chi, a pochi passi, cura le anime, non riesce (o non vuole) proprio a venirne a capo. I freddi numeri della statistica ci consegnano un morto ogni 2,7 giorni. L'ultimo si chiamava Daniel Guerini, promessa della Lazio la cui vita è finita sulla Palmiro Togliatti. Nell'inchiesta per omicidio stradale si indaga anche sulla condizione del manto stradale, del quale i residenti da anni lamentano, inascoltati, lo stato pietoso. Molti scontri sono colpa della distrazione, certo. Dell'eccesso di velocità, si dirà, così come di una scarsa educazione alla strada. Ma è colpa anche, e soprattutto, di arterie con manti stradali da terzo mondo al punto da spingere, all'inizio degli Anni Novanta, diversi produttori di due ruote a scegliere proprio Roma per testare i propri motocicli. Che qui durano la metà che altrove. E da allora non è che le cose siano molto cambiate. Anzi. Roma continua ad uccidere più di qualsiasi altra città italiana. E non soltanto perché vi bazzicano 3,5 milioni di individui. Nel 2019 sull'asfalto sono state raccolte 131 persone senza vita. L'anno prima erano state 143. Ci dicono Istat e Aci che gli incidenti, nello stesso anno, sono stati 12.271 e di questi 5.177 hanno riguardato le due ruote, andate giù a causa delle buche (uno su cinque) e delle radici che potenti sollevano la strada. Scendendo più nel dettaglio, i sinistri in moto hanno provocato la morte di 40 persone e il ferimento di 5.038 individui. Nemmeno con la bici si scherza: 7 i decessi e 328 i feriti. Nello stesso anno Milano, in totale, ne ha contato 49 di morti. Torino 33 e Napoli, che nell'immaginario comune è la città dove in motorino ci vanno famiglie intere e il casco è un optional, ne ha registrate 32. Il tasso di mortalità, calcolato ogni centomila abitanti, è di 4,6 nella Città Eterna. Come lei solo Bologna, mentre la più sicura risulta Firenze (1,6) e poi Napoli (2,3). Insomma, nella Capitale la vita al volante o in sella è davvero dura. Raul Bova, per dire, due anni fa ha deciso di non spostarsi più su due ruote, cosa che faceva dall'età di 14 anni, per «una questione di sicurezza personale». Troppe buche anche per lui. Minzolini, invece, rischia addirittura il processo. All'ennesima caduta, anziché fare causa al Comune, ha scritto un tweet: «Percorro strade dissestate di Roma e mi domando perché un'incapace, ignorante, demente abbia voluto fare il sindaco. È disonestà intellettuale!». Virginia Raggi non ha gradito e l'ha querelato. «Il pm voleva archiviare, il gip ha disposto l'imputazione coatta». E processo sia. «Meglio presentare querela che scrivere un tweet», dice, «ma la cosa che mi fa incavolare di più è che tu sai che il problema è quello, un cittadino nemmeno ti denuncia e tu lo quereli...». Meglio aveva fatto l'esponente Pd Gianclaudio Bressa. Caduto per una buca vicino a piazza Navona, «si è ritrovato con 12 punti di invalidità», ci racconta Minzolini, «l'assicurazione del Senato pagata e il Comune che rigetta le responsabilità alla società a cui ha affidato la manutenzione di quel tratto di strada». Strade, ci spiega Martina Verrilli, responsabile dell'Associazione familiari e vittime della strada, «il cui rifacimento è migliorato, ma non abbiamo risolto i problemi». Perfino la Corte dei Conti vuole vederci chiaro sulle buche. Per farlo ha aperto un'inchiesta: nel mirino amministratori di Campidoglio e Municipi che dal 2015 ad oggi hanno amministrato la città. Saranno censite le strade più dissestate per poi risalire ai responsabili della scarsa manutenzione, spesso risolta buttando un po' d'asfalto. E dire che i soldi che il Comune incassa per le multe (178 milioni nel solo 2017) dovrebbero essere proprio indirizzati alla manutenzione. Invece, dopo un esposto del Codacons, si indaga pure sulla distrazione di tali fondi che, in alcuni casi, sarebbero serviti per pagare bonus ai vigili urbani. Giuseppa Cassaniti, presidente AIFVS (Associazione italiana familiari e vittime della strada), ci ricorda che l'Italia è «ben lontana dall'obiettivo Ue di azzerare le vittime della strada entro il 2050. Quando succede un incidente non ci si chiede mai perché è successo». Si rattoppa.
Tragedia a Roma, Daniel Guerini talento 19enne della Lazio muore in incidente stradale. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Un grave lutto sconvolge il mondo del calcio. È morto Daniel Guerini, 19 enne, giovane promessa della Primavera della Lazio. Classe 2002, Daniel viaggiava a bordo della sua smart quando si è scontrato con un’altra auto su via Togliatti a Roma. Con lui c’erano altri due ragazzi trasportati in ospedale in gravi condizioni. Nonostante i soccorsi per Daniel non c’è stato nulla da fare. L’incidente è avvenuto intorno alle 20 di mercoledì 24 marzo all’incrocio tra via Togliatti e viale dei Romanisti. Daniel viaggiava sulla sua smart For Four con due amici. All’improvviso lo scontro con una Mercedes Classe A. Non sono ancora chiare le dinamiche dell’incidente. I due ragazzi che erano con lui a bordo dell’auto sono stati trasportati al Policlinico di Tor Vergata e all’Umberto I in gravi condizioni. Meno gravi invece le condizioni del conducente dell’altra auto, un uomo di 68 anni portato in ospedale sotto shock. “Ancora increduli e sconvolti dal dolore il Presidente, gli uomini e le donne della Società Sportiva Lazio si stringono attorno alla famiglia del giovane Daniel Guerini”, scrive su twitter la S.S. Lazio. Un profondo dolore ha colpito anche le altre squadre dove Daniel ha giocato nella primavera. “Il Presidente Urbano Cairo e tutto il Torino Football Club, increduli e profondamente addolorati, si stringono intorno alla famiglia Guerini per la tragica scomparsa di Daniel, nostro ex calciatore della formazione Primavera”, si legge in un comunicato. E infine la Spal: “Il mondo del calcio è in lutto per la prematura scomparsa di Daniel Guerini, diciannovenne ex trequartista della Primavera Spal, dove ha militato da gennaio a giugno 2020, nell’attuale stagione calcistica giocatore della Lazio Primavera. La società biancazzurra, sconvolta per la drammatica notizia, si unisce in un grande abbraccio alla famiglia Guerini ed è vicina alla SS Lazio e ai compagni di squadra di Daniel nel dolore immenso di questo triste momento”.
Laura Bogliolo, Daniele Magliocchetti e Alessia Marani per il Messaggero il 25 marzo 2021. Sognava il calcio, aveva agguantato con la grinta che solo la passione può alimentare la Primavera della Lazio dopo aver militato nel Torino e nella Fiorentina. I primi calci a un pallone li aveva tirati quando era piccolo, mentre mamma e papà facevano il tifo. Era un trequartista attaccante, «ottima tecnica e gran lavoratore» dicono i colleghi. Nel pomeriggio si era anche allenato a Formello, regno della Lazio e all' allenatore D' Urso aveva detto: «Ci vediamo domani alle 10.30». Ma il sogno si è infranto ieri sera. Etienne Tare ha scritto: «Non ci posso credere, fratello mio, grazie di tutto». È morta nella Capitale in un maledetto incidente stradale una delle promesse della Lazio: a perdere la vita è stato Daniel Guerini che a soli 19 anni ha lasciato la sua famiglia, i suoi amici e i suoi fans dopo essersi scontrato con un' altra auto mentre era a bordo di una Smart. Siamo su viale Palmiro Togliatti, uno stradone che percorre gran parte della periferia Est di Roma. La vita di Daniel si è fermata poco dopo le 20 all' incrocio con viale dei Romanisti. Guerini, nato a Roma il 21 marzo del 2002, era a bordo di una Smart For Four insieme ad altri due amici, Tiziano Rozzi ed Edoardo De Blasi, ricoverato in condizioni disperate. La Smart dopo aver tamponato in parte una Mercedes Classe A, si è ribaltata più volte e ha abbattuto anche un palo secondo quanto hanno riferito i soccorritori, vigili e carabinieri: i tre giovani sono stati sbalzati fuori dall' auto. Privo di vita il campione della Primavera della Lazio, che giocò anche nei Pulcini alla Roma. L' impatto è avvenuto 200 metri prima dell' incrocio con viale dei Romanisti, una strada considerata da molti residenti pericolosissima, vista la presenza delle radici dei pini. Indagini dei vigili soprattutto sull' asfalto deteriorato della Togliatti. I due amici sono stati portati in gravi condizioni in ospedale. Il conducente della Classe A, T.S., sotto choc, soccorso al Policlinico Casilino, è stato sottoposto agli esami sull' assunzione di alcol e droghe. Sul posto gli agenti della Polizia Locale di Roma Capitale del V gruppo Prenestino, che dovranno accertare l' esatta dinamica dell' incidente: certo è che ci sono buche e voragini sulla strada della tragedia. Secondo le prime ricostruzioni, la Smart ha tamponato l' altra auto, poi il veicolo con a bordo i giovani si è ribaltato. Tra i primi ad arrivare sul posto c' è stato lo zio di Daniele, straziato dal dolore. Poi tutta famiglia, gli amici, in una scia di infinito dolore e attimi di tensione. I vigili urbani dovranno indagare sulle cause dell' ennesimo incidente mortale accaduto nella Capitale. La Smart sembra fosse intestata alla mamma di Rozzi. Daniel e i suoi amici erano andati a prendere del cibo in una paninoteca vicina ed erano diretti a casa di Rozzi per consumare il pasto dopo una giornata di lavoro, abitavano tutti nello stesso quartiere ed erano amici da tempo. Daniel era un vero guerriero, era cresciuto nel vivaio della Lazio, ma prima di far ritorno al suo grande amore aveva vestito anche le maglie delle giovanili del Torino, della Fiorentina e della Spal. Poi, finalmente, l' abbraccio con la Primavera del club capitolino. Il 19 enne aveva anche indossato le casacche della Nazionale italiana under 15 e under 16. «Ancora increduli e sconvolti dal dolore il Presidente, gli uomini e le donne della Società Sportiva Lazio» ha fatto sapere la SS Lazio.
Francesco Pacifico Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 26 marzo 2021. È più di un sospetto quello degli inquirenti: la Smart Forfour sulla quale era a bordo Daniel Guerini percorreva via Palmiro Togliatti, all' incrocio con viale dei Romanisti, troppo velocemente. Ma si guarda - ed è un' ipotesi - anche alle buche su quel tratto. Ce n' è una larga quasi tre metri e che occupa entrambe le carreggiate della strada, a pochi metri dove ha frenato la macchina, sulla quale il baby talento della Ss Lazio ha perso la vita. Asfalto sconnesso anche qualche metro dopo e sulla vicina corsia preferenziale. Comunque non lontano dal maledetto incrocio, dove ieri amici e parenti l' hanno salutato con uno striscione sul quale era solo scritto: «Ciao Guero», ma con i colori biancocelesti. A breve gli inquirenti (la Procura di Roma e il V gruppo della polizia locale) sperano di avere una ricostruzione precisa di quanto accaduto mercoledì sera verso le 8. Si sa che è risultato negativo l' alcol test del ragazzo alla guida (Tiziano Rozzi, ora ricoverato a Tor Vergata), ma si ipotizza una velocità ben superiore rispetto al limite dei 50 chilometri orari, su una strada in cui il manto è sconnesso e con un tratto in pendenza. Non si esclude un tentativo di sorpasso andato male, con il muso della Smart che tocca il lato sinistro, anzi lo spigolo, della Classe A che li precedeva. Da qui il ribaltamento dell' auto prima di fermarsi, con il diciannovenne Daniel morto e altri due amici in condizioni molto gravi. Nell' impatto, il calciatore è stato sbalzato fuori dall' abitacolo e schiacciato dal veicolo. I primi soccorritori non hanno potuto fare nulla. Per ora si tratta di una ricostruzione preliminare a cui lavorano i vigili. Tuttavia occorrerà più tempo ai periti nominati dal pm Francesco Mìnisci per poter depositare una consulenza dettagliata. Nel frattempo il magistrato ha aperto un fascicolo per omicidio stradale. Nei prossimi giorni verrà eseguita l' autopsia. Intanto oggi verranno vagliate le immagini di alcune telecamere non lontane dall' incidente. Soprattutto, verrà sentito l' amico di Daniel, Tiziano, pare al volante della Smart. Finora i medici hanno impedito il colloquio, perché non sa che cosa è successo ai due compagni. È ricoverato al Policlinico Tor Vergata e non versa in condizioni critiche al contrario del terzo giovane, Edoardo, in coma al San Giovanni. Gli investigatori hanno sequestrato i loro cellulari. Non si esclude nemmeno una distrazione del guidatore impegnato con lo smartphone. Poco ha detto, poi, il 67enne al volante della Mercedes: se non che all' improvviso l' auto ha incominciato a girare su sé stessa.
LA CELEBRAZIONE. Mentre Procura e Polizia locale provano a ricostruire quanto avvenuto mercoledì sera, gli amici e i parenti di Daniel hanno fatto capolino soprattutto a viale Togliatti, luogo dell' incidente. Proprio qui si è tenuta la commemorazione. L' omaggio a Daniel sulla Togliatti è iniziato la mattina presto, con amici e parenti venuti a portargli fiori, bigliettini e sciarpette della Lazio attaccati a una ringhiera del vialone. All' ora di pranzo erano già una cinquantina. Poi, sono arrivati per salutarlo e dire una preghiera anche gli abitanti del Casilino o semplici automobilisti che passando di lì, si sono fermati davanti ai caroselli di ragazzini, che piangevano. La polizia municipale è stata costretta a incanalare il traffico nella preferenziale dei bus perché si era formata una doppia fila di parcheggio. Verso il tramonto la celebrazione, preludio di quel funerale rinviato fino all' autopsia. Quando è arrivata la famiglia di Daniel, gli amici hanno srotolato e attaccato alla ringhiera lo striscione «Ciao Guero». Prima un momento di silenzio, poi - iniziando dalla mamma di Daniel - tutti a piangere e abbracciarsi, infine un lunghissimo applauso. Franco, 60enne il cui bambino giocava con Daniel, mostra a tutti una foto dove «assieme sono bellissimi». Maria lo ricorda come «un angelo», Riccardo, che abita in zona, si macera mentre segnala che «questo tratto della Togliatti non è mai stato rattoppato».
Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 30 marzo 2021. «Era il tuo sogno ma anche il nostro» quello di «vederti esordire All' Olimpico con i grandi, con la maglia numero 10 sulle spalle». È questo un passaggio della lettera che la Curva Nord ha dedicato ieri a Daniel Guerini, il giovane trequartista della Primavera della Lazio morto sul colpo mercoledì sera dopo un incidente d' auto sulla Palmiro Togliatti. E al dolore di tanti amici, appassionati e tifosi, che Guero l' hanno conosciuto bambino quando con il papà Danilo andava a vedere le partite della Lazio proprio in Curva, se ne potrebbe aggiungere anche un altro, ora ben più difficile da sopportare: il rischio di non poter celebrare i funerali giovedì mattina nella chiesa di Don Bosco prima delle festività pasquali. Ieri pomeriggio il pubblico ministero Francesco Minisci ha conferito l' incarico al professor Giulio Sacchetti per svolgere oggi al policlinico di Tor Vergata l' autopsia sul corpo di Daniel. Tuttavia l' esame non sarà svolto al mattino: si terrà solo alle 14.30 ed è una corsa contro il tempo per riuscire a ottenere il nullaosta alla sepoltura e svolgere i funerali giovedì mattina. Se l' esame dovesse protrarsi e non ci fosse il tempo materiale perché in Procura il pubblico ministero firmi domani sera il nullaosta, l' ultimo saluto a Daniel potrebbe esser ritardato. Mamma Michela non sta aspettando altro se non poter dire addio al suo «cucciolo» in un mare di palloncini bianchi e celesti. «Il destino ti ha portato via troppo presto dai tuoi affetti più cari. Scorrono ancora e fanno male le immagini di te ancora bambino - si legge ancora nella lettera della Curva - quando venivi a tifare la nostra amata Lazio. La tua amata Lazio, con la quale hai giocato per tanti anni.Poi, per inseguire il tuo sogno, hai lasciato la tua città, ma la tua squadra e la tua casa erano qui. E infatti sei tornato, per la gioia di tutti a vestire la maglia che amavi». Guero era tornato a Roma - dopo la parantesi nelle giovanili di Fiorentina e Toro - lo scorso gennaio. La Lazio aveva creduto in lui «Un contratto di tre anni - ricordava giorni fa il papà Danilo - era felicissimo».
L' INCHIESTA. La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio stradale ed ha iscritto - come atto dovuto - sul registro degli indagati Tiziano Rozzi, il giovane amico di Daniel alla guida della Smart ForFour ma anche il guidatore della Mercedes Classe A, T. S., 67 anni, contro cui i ragazzi prima di carambolare sulla Togliatti si sono scontrati. Ancora ignote le cause dell' incidente in cui è rimasto ferito anche un altro ragazzo che viaggiava sulla Smart, E. D. B., 17 anni. Tiziano dopo aver appreso della scomparsa di Daniel, che era per lui un fratello dal momento che insieme fin dall' età di 8 anni avevano iniziato a giocare a calcio sui campi di periferia, ha detto a mamma Michela che non stava correndo. Lei, la madre di Guero, gli crede: «Conosco Tiziano, so chi è e so come si comportava, non ho motivo di dubitare delle sue parole e ora spero soltanto che si faccia chiarezza su cosa è accaduto perché Daniel non me lo potrà ridare indietro nessuno ma per Tiziano è importante perché se non è stata una sua distrazione a causare l' incidente o una manovra azzardata o la velocità deve venire fuori, Tiziano non può vivere con questo rimorso». Il pubblico ministero Minisci ha disposto una consulenza cinematica che dovrà ora far luce su tanti aspetti anche se non è ancora dato sapere quando e da quale perito sarà condotta. La difesa di Rozzi intanto sta preparando un dossier per chiedere alla Procura di far luce anche su un altro aspetto: la buca rattoppata a meno di 48 ore dal sinistro. A pochi metri da dove restano i segni di frenata della Mercedes la sera dell' incidente c' era una buca sulle due corsie di marcia oltre a una serie di crepature ed altre buche intorno e sulla preferenziale. Eppure a distanza di poco tempo solo quella è stata sanata. Perché e da chi?
Francesco Storace per iltempo.it il 23 marzo 2021. Tutto tace, ma la magistratura non si ferma. Stavolta non è un’invenzione dei giornali, perché la Corte dei Conti procede come un carro armato nei confronti dell’assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato. Ieri ne abbiamo dato notizia (anche Repubblica) ma dal palazzo regionale nemmeno una sillaba è venuta fuori sull’incresciosa vicenda che riguarda il potente D’Amato: la magistratura contabile afferma che lui deve tirare fuori 275mila euro - un’altra ingente cifra è stata prescritta - ma Nicola Zingaretti non dice una parola. Sta diventando fastidioso il clima di omertà che riguarda le vicende giudiziarie che ruotano attorno alla Regione Lazio. Ci si trincera nel silenzio, sperando che passi la bufera. Eppure si tratta di una storia davvero brutta - campagne di partito con fondi regionali - che Il Tempo ha seguito nei mesi scorsi. La Guardia di Finanza ha svolto indagini meticolose e la Corte dei Conti ha notificato all’assessore l’invito a dedurre: nel penale si chiamerebbe avviso di garanzia. Tra l’altro, nei corridoi del palazzone di via Cristoforo Colombo non deve essere una sorpresa: circa un mese fa pare ci sia stata la richiesta dei dati anagrafici di D’Amato e del suo entourage, probabilmente proprio per questa indagine. Forse in Giunta c’era chi sapeva, ma anche allora nessuno parlò. Il silenzio continua ancora. Per carità, non su tutto il resto. Ieri D’Amato è stato molto attivo, ha parlato di vaccini, di anziani, di apparecchiature per il policlinico di Tor Vergata, di vittime del Covid nel Lazio. Ma neppure una parola sullo scandalo che lo riguarda. E neanche il governatore. La consegna delle bocche cucite è diventata un obbligo. Per ora, a parlare è solo la Lega, lo ha fatto la consigliera regionale Laura Cartaginese che ha chiesto al presidente della Regione come si fanno a lasciare in mano a D’Amato «gli ingenti fondi da gestire per l’emergenza Covid». L’esponente leghista ricorda che tutto ruota attorno alla Onlus Italia Amazzonia. Ci furono sovvenzionamenti regionali per i quali la regione avrebbe dovuto fare richiesta di restituzione per l’uso improprio che ne era stato fatto, almeno a giudizio degli inquirenti. Ma nulla si mosse, sin dal 2013. Quelle somme risalenti al 2006 sarebbero infatti poi passate sui conti dell’associazione Rosso-Verde di cui Alessio D’Amato, allora capogruppo dei Comunisti italiani alla Pisana, come ricostruito dalla Guardia di Finanza, era presidente e «principale beneficiario». Per questa vicenda i magistrati contabili contestano un danno pari a 275 mila euro. L’ipotesi dei finanzieri che indagano è che «i fondi della Onlus che si occupava di progetti di solidarietà e cooperazione a favore delle popolazioni amazzoniche siano in realtà serviti a "finanziare illecitamente" la seconda associazione», nata invece per sostenere l’attività politica di D’Amato. Ci fu anche un processo penale per truffa che finì con la prescrizione. Adesso la Corte dei Conti attenderà le carte della difesa dell’assessore e deciderà se procedere al processo. Anche in questo caso deve ovviamente prevalere il garantismo, che riguarda innanzitutto il rispetto delle regole della giustizia. Ma c’è anche una chiave di lettura, più «politica», che non deve sfuggire a nessuno. È inammissibile che si tenti di far calare il silenzio su fatti gravi, se comprovati. È proprio D’Amato ad avere il dovere di spiegare i comportamenti che gli sono imputati alla pubblica opinione e al consiglio regionale. E se non lo fa lui, tocca a Zingaretti. Anche perché siamo certi che se continuano a tacere sarà tutta l’opposizione, e non solo la Lega, a denunciare i silenzi. E magari anche chi nella maggioranza regionale non ha voglia di finire in uno scandalo per omertà. Il gioco non vale la candela. La difesa ad oltranza di atteggiamenti che appaiono disdicevoli non può essere ulteriormente tollerata. Questo significa che D’amato è colpevole? Lo stabilirà il magistrato. Ma le bocche chiuse inducono al sospetto. Sarebbe molto più utile fare chiarezza almeno su questo. Altrimenti, se proprio non si vuole parlare, bisogna pensare a un assegno per restituire quei denari.
(ANSA il 23 marzo 2021) - A Roma un'altra consigliera di maggioranza lascia il gruppo del M5s. Si tratta di Gemma Guerrini che oggi ha annunciato in apertura della seduta del consiglio comunale: "Lascio il gruppo del M5s per entrare nel gruppo misto. Ho sempre onorato con lealtà il mandato che gli elettori mi hanno affidato e dichiaro la mia volontà di continuare a farlo". Guerrini è la quinta eletta a Roma ad essere uscita dal Movimento dall'inizio della consiliatura. Le altre quattro consigliere che hanno lasciato la maggioranza (che al momento compresa la sindaca può far conto su 25 eletti su 49, ovvero uno in più dell'opposizione) sono: Simona Ficcardi passata ai Verdi, Cristina Grancio, ora nei socialisti, Monica Montella e Agnese Catini. Guerrini ha spiegato: "Non supporterò nessuna forza politica che sosterrà la candidatura dell'attuale sindaca alle prossime elezioni amministrative. Fino ad oggi e nonostante tutto ho sempre sostenuto M5s, non lesinando contributi critici", ha aggiunto. "Ma oggi - secondo l'eletta - il M5s ha ufficialmente cambiato veste e natura". "Anche Guerrini in fuga dalla Raggi, in vista delle elezioni si fa il vuoto intorno alla sindaca. La consigliera Gemma Guerrini ha lasciato oggi il Movimento 5 Stelle, polemizzando fortemente con le scelte di questa amministrazione e della Sindaca Raggi. Siamo molto preoccupati per questi ultimi mesi di consiliatura. Virginia Raggi ha ancora la maggioranza per governare?". Lo dichiara il Pd capitolino.
Lorenzo D’Albergo per “la Repubblica” il 27 marzo 2021. In Campidoglio hanno messo nel mirino Gianni Lemmetti, l' assessore al Bilancio che ha fatto assumere la sua fidanzata. Ma nella Regione di Nicola Zingaretti, presidente del Lazio ed ex segretario del Pd, i dem sono in difficoltà. In imbarazzo per il pacchetto di assunzioni che a cavallo delle ultime feste di Natale ha garantito un posto a tempo indeterminato a 24 tra politici, collaboratori e attivisti di fede piddina. Nessuna irregolarità amministrativa. Ma, considerati tempistica e nomi in ballo, non si fatica a comprendere i mal di pancia della maggioranza di centrosinistra e il silenzio dei 5S, appena entrati in giunta. Per ricostruire la vicenda bisogna partire da Allumiere, 3.800 anime in provincia di Roma, per poi spostarsi in Regione. È il 18 dicembre quando il Consiglio di presidenza della Pisana decide di assumere 18 funzionari. La normativa permette di selezionarli dall' ultimo bando chiuso nel proprio territorio. Il concorso più recente, concluso solo quattro giorni prima, è quello del comune di Allumiere. Il sindaco? È Antonio Pasquini, da tre anni in comando proprio negli uffici della Regione che hanno prosciugato le graduatorie del suo paese. Nell' elenco degli assunti (è il 28 dicembre) ci sono due collaboratori del presidente del Consiglio, Mauro Buschini. Con loro anche Matteo Marconi, segretario Pd di Trevignano e Arianna Bellia, assessora di San Cesareo. Ancora, Augusta Morini, assessora di Labico, Paco Fracassa, segretario dem di Allumiere, un componente del circolo di Frosinone e tre militanti di Allumiere, Civitavecchia e Roma. Spunta pure un collaboratore del vicepresidente del Consiglio in quota Lega, Giuseppe Cangemi. Restano da sistemare altre 8 assunzioni. Ci pensa Guidonia, comune alle porte della capitale guidato dal pentastellato Michel Barbet: è sempre il 28 dicembre quando il grillino assume Marco Palumbo, consigliere dem in Campidoglio, presidente della commissione Trasparenza - che giusto ieri ha vagliato le nomine della sindaca Raggi - e già in Regione con Buschini. Lo accompagna Matteo Manunta, collaboratore di Devid Porrello, vicepresidente 5S del Consiglio. Chiude la lista Massimo D' Orazio, assessore di Isola del Liri e altro collaboratore di Buschini. Contattato da Repubblica , il presidente del Consiglio si limita a ribadire la «regolarità» dell' intera procedura. Nulla da dire sull' opportunità di assumere in massa personale di area dem, con un paio di comparse 5S e leghiste. Nel Pd, però, non si discute d' altro. Il deputato Matteo Orfini, ex commissario dei dem romani nel post Mafia Capitale, è incredulo: «È sconcertante. È necessario fare chiarezza subito, senza timidezze ». Sono d' accordo i consiglieri di maggioranza che ora sperano nello sfogo consegnato ai suoi da Zingaretti: «Non posso caricarmi sulle spalle il mondo. Nessuno chiede a Draghi cosa fanno alla presidenza della Camera». Un' esplosione d' ira che, lo auspicano i piddini in Regione, potrebbe ancora far ballare le assunzioni politiche.
Lettera pubblicata da “la Repubblica” il 27 marzo 2021. Caro Merlo, due erano le ipotesi Raggi: o una sindaca colpevole o una sindaca "ingenua". In tutti e due i casi non votabile. Norman Accardi
La risposta di Francesco Merlo. Né colpevole né ingenua. Ma onesta e inadeguata. Penso che Roma sia governata malissimo e infatti Repubblica ne racconta da più di dieci anni il degrado. Eviterei però la parola colpevole che rimanda sia alla liquidazione della politica per via giudiziaria sia al battersi tre volte il petto del catechismo: « mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa ». Né credo che Raggi sia ingenua. Ne è prova la sapiente tenacia con cui sfida i 5 stelle pur restandovi dentro. Rifiutò persino il posto consolatorio da sottosegretario che le offri il Conte2: «Come minimo me dovevano fa' vicepremier». Ora, con una nuova luce di libertà perdente, si oppone all' accordo tra Pd e grillini, che non può certo puntare sulla sua ricandidatura a Roma: «Non mi piacciono i giochi tra i partiti». Pessima sindaca ma ottima combattente.
Lorenzo d' Albergo per “la Repubblica – ed. Roma” il 27 marzo 2021. I dissidenti grillini, gli stessi che tengono in piedi la maggioranza 5S ormai appesa a un filo, attaccano sull' ultima infornata di nomine della giunta Raggi. E nel frattempo emergono nuovi dettagli sull' incarico affidato a Silvia Di Manno, libraia di Pietrasanta e fidanzata di Gianni Lemmetti, assessore al Bilancio, assunta nello staff di Luca Montuori, collega titolare dell' Urbanistica. Ieri mattina il caso è stato sviscerato in commissione Trasparenza, alla presenza dei dirigenti che hanno firmato le 11 delibere approvate il 17 marzo. Assente, invece, la controparte politica. Nel corso delle due ore di discussione non si è visto nemmeno un raggiano. Assente anche l' assessore al Personale, Antonio De Santis, convocato per commentare la vicenda Di Manno e dare un parere sul resto delle assunzioni. Parola, allora, alla fronda 5S. Per Marco Terranova, uno dei quattro che si è già schierato contro la ricandidatura di Virginia Raggi, «il fatto è ampiamente documentato. La mia opinione sull' accaduto è critica ed è la stessa che aveva un tempo anche il resto del Movimento». Chiuso l'amaro momento amarcord, il consigliere "ribelle" punta dritto sulla riunione di giunta in cui sono state votate 11 tra assunzioni e promozioni di collaboratori degli assessori: « Risulta che la sindaca fosse assente. La prima cittadina fa bene a essere irritata. Ma se dei miei collaboratori facessero alle mie spalle e in mia assenza cose a me non gradite, altro che arrabbiatura o irritazione. Sul resto degli incarichi, dico che vanno bene se devo sostituire chi è andato via. Ma mancando solo 4 o 5 mesi...mi chiedo quanto sia utile chi entra in uno staff già al lavoro da 5 anni». Un dubbio condiviso dalla compagna di fronda, Donatella Iorio. La consigliera 5S sembra faticare a credere alla versione di Raggi. Fa difficoltà a pensare che nessuno sapesse niente dell' assunzione che ha messo in imbarazzo il Campidoglio: « Credo che tutti gli assessori siano informati delle delibere in discussione in giunta. E che il sindaco sia sempre avvertito preventivamente». Ma la versione della sindaca non cambia: « Era assente e non sapeva nulla di quelle nomine», ripetono in Campidoglio. Non si può dire lo stesso, almeno a giudicare dagli atti recuperati dalle opposizioni, degli altri due assessori che hanno confezionato l' incarico di Silvia Di Manno. La richiesta di metterla sotto contratto, firmata dall' assessore Luca Montuori, è datata 11 febbraio. Il 4 marzo alla direzione Risorse umane dall' Urbanistica arriva anche il curriculum della compagna di Lemmetti. Il 15 marzo la delibera di nomina viene firmata dall' assessore al Personale, Antonio De Santis. Infine il voto del 17 marzo. Con giallo: l' assessore al Bilancio, coinvolto personalmente nell' operazione, a un certo punto della seduta lascia la sala delle Bandiere. Lo stesso, come raccontato da Repubblica, fa Montuori. Collegato in videoconferenza, dopo aver provato ad avvertire Raggi dell' assunzione sospetta, interrompe le comunicazioni. Entrambi sarebbero stati assenti al momento del voto della delibera. « Pretendere che al servizio di Roma vengano chiamate persone competenti e non solo amici o fidanzate riteniamo sia il minimo che debba fare un rappresentante eletto dai cittadini » , attacca Figliomeni. I meloniani, così come la Lega, a breve depositeranno un dettagliatissimo esposto alla procura della Corte dei Conti.
Giuseppe Marino per "il Giornale" l'8 aprile 2021. Volare basso e fischiettare. La strategia dell' indifferenza non regge. E così ieri mattina Mauro Buschini ha scritto a tutti i consiglieri regionali del Lazio, annunciando la necessità che per fare luce sulla stipendiopoli della Regione «ci sia un altro presidente». Quarantadue anni, una carriera tutta all' ombra del Pd, grande elettore di Zingaretti a Frosinone, Buschini è finito al centro dello scandalo delle assunzioni di uomini del Pd tra la Regione e una serie di Comuni «amici», ma ha anche avuto la forza di un sussulto di dignità, il primo in una storia dai contorni incredibili: all' ombra di una legalità degli atti che al momento non è messa in discussione, si sono distribuiti decine di posti di lavoro pubblici a tempo indeterminato a personale politico prevalentemente del Pd, dai semplici tesserati ai consiglieri comunali. Dopo giorni in trincea, difesi dall' imbarazzato silenzio rotto solo da voci isolate dei dem, come quella di Matteo Orfini, è spuntata una exit strategy: Buschini rivendica la correttezza del suo operato e annuncia una «commissione trasparenza» presieduta da un consigliere d' opposizione per «affrontare tutti i temi rispetto ai quali ci sia necessità di approfondimento, a partire dalle assunzioni dei dipendenti». La commissione diventa così un palcoscenico su cui spostare la battaglia politica interna e anche l' occasione per farsi da parte con «un atto d' amore verso questa istituzione». Come da copione, Buschini raccoglie l' apprezzamento della maggioranza per il suo gesto e finalmente anche Nicola Zingaretti interrompe il mutismo sulla questione, anche se solo per «ringraziare Buschini per il gesto di responsabilità» e lodare la scelta di istituire una commissione. Resta da capire se le dimissioni del presidente siano frutto anche del disagio interno al Pd. Di sicuro la vicenda non è finita. Dopo il clamoroso passo indietro dell' esponente dem, il caso approda in Parlamento. Da Maurizio Gasparri a Fabio Rampelli, si annunciano esposti in Procura sulla stipendiopoli che, partendo dal «concorso dei miracoli» in un paesino di 4mila anime come Allumiere ha portato ad almeno 24 assunzioni tra la Regione e il Comune a guida grillina di Guidonia, più varie altre in una sfilza di Comuni più piccoli. Nell' elenco degli assunti molti uomini legati ai partiti che collaborano con il presidente dimissionario ma anche con i vice presidenti Devid Porrello (M5s) e Giuseppe Cangemi (Lega). A votare la delibera che ha dato il via alle assunzioni in Regione anche la moglie del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, Michela Di Biase contro cui si è scagliato l' ex sindaco di Roma Ignazio Marino. La Di Biase fu tra i dem che lo silurarono e oggi Marino, tornato a fare il medico, rivendica la sua distanza da «Lady Franceschini»: «Va riconosciuta la orgogliosa coerenza di chi, come i membri del Pd, sceglie amici o compagni di partito quando ci sono assunzioni da fare». La consigliera regionale di Fdi Chiara Colosimo, che aveva denunciato il caso, rende l' onore delle armi a Buschini ma insiste: «Dovrebbero dimettersi tutti i componenti dell' ufficio di presidenza, il sospetto di assunzioni di amici degli amici non è accettabile a fronte di un Paese devastato dalla pandemia e dalle sue ripercussioni economiche». La vicenda potrebbe dunque avere altri risvolti, considerando anche che il metodo partitocratico che ha portato al «concorso dei miracoli» non pare isolato. La Regione Lazio è piena di eletti Pd in amministrazioni minori messi sotto contratto per lavorare negli staff dei consiglieri regionali di riferimento. Difficile capire che fine faranno le assunzioni già deliberate. «Vanno tutte annullate -dice il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (Fdi)- altrimenti la commissione trasparenza dell' ultimo minuto è solo una furbata».
Lorenzo D’Albergo per "la Repubblica - Edizione Roma" l'8 aprile 2021. Sulla Parentopoli grillina adesso indaga la procura della Corte dei Conti del Lazio. I pm di viale Mazzini hanno ricevuto l' esposto messo nero su bianco da Davide Bordoni, consigliere della Lega, e hanno deciso di approfondire l' ultima infornata di nomine varata dalla giunta Raggi per verificare se le ultime 11 assunzioni capitoline possano aver causato eventuali danni alle casse del Comune. I casi sono noti. Il più imbarazzante resta quello della fidanzata di Gianni Lemmetti, assessore al Bilancio del Comune. Silvia Di Manno, 44enne libraia di Pietrasanta, era entrata nello staff del titolare dell' Urbanistica, Luca Montuori, grazie a una delibera votata durante la riunione di giunta del 17 marzo. La sua assunzione in veste di segretaria politica e il contratto che le avrebbe garantito 23 mila euro lordi fino alla fine della consiliatura pentastellata hanno fatto scatenare Raggi. Impossibile far finta di nulla davanti al video pubblicato da Di Manno su Facebook, un filmato (nel frattempo sparito dai social) in cui Lemmetti baciava proprio la neoassunta a palazzo Senatorio. Il contratto di Di Manno è durato appena 5 giorni, poi sono arrivate le dimissioni. L'altro stipendio su cui si concentreranno il pool coordinato dal procuratore regionale Pio Silvestri è quello di Cristiano Battaglini. Lemmetti lo ha conosciuto sui campi dell' Unione pallavolo camaiorese. Poi il titolare dei conti di palazzo Senatorio ha chiamato l' amico a Roma. Arrivato nel 2017 da diplomato, con un contratto da 41 mila euro annui, Battaglini nel frattempo si è laureato all' università telematica eCampus e ha ottenuto una doppio scatto di stipendio. Prima il suo salario è salito a 55 mila euro all' anno. Poi, promosso capostaff nel corso della riunione di giunta ora nel mirino della Corte dei Conti, ha portato a casa un accordo da 91 mila euro annui. Sulla sua delibera è scoppiato il caso scovato da Fratelli d' Italia. Nella delibera che assicura il nuovo aumento, il collaboratore di Lemmetti si presenta come ingegnere. Ma il Consiglio nazionale degli ingegneri sul punto è categorico: « Battaglini non risulta iscritto al nostro albo e solo chi ne fa parte può fregiarsi del titolo di ingegnere » . In Campidoglio, dove la sindaca sarebbe stata sul punto di chiedere anche la testa del nuovo capostaff all' assessore al Bilancio, il caso è rientrato. Adesso, però, la palla passa alla procura di viale Mazzini. I pm contabili si concentreranno di nuovo su Lemmetti ( nel frattempo è stata archiviata l' indagine sui rimborsi chilometrici per l' andirivieni in auto dell' assessore tra Roma e la sua Camaiore, in Toscana) ma anche sulle altre nomine formalizzate il 17 marzo. Nel pacchetto ci sono comunicatori, videomaker ed esperti in media e politica. Assunzioni last minute che sommate pesano per 300 mila euro sui conti del Campidoglio e che hanno immediatamente sollevato le polemiche delle opposizioni: « La sindaca Virginia Raggi sta pagando la sua campagna elettorale con i soldi dei romani». Posizioni su cui è subito schierata la Lega che ora chiede alla Corte dei Conti di fare chiarezza sull' ultima infornata grillina.
Estratto dell'articolo di Daniele Autieri per “la Repubblica - ed. Roma” il 23 marzo 2021. Anche Virginia Raggi è inciampata sui "famigli". I due recenti tentativi corsari di inserire tra i collaboratori degli uffici di giunta prima Massimiliano Capo, amico del cuore della neo-assessore alla Cultura Lorenza Fruci, quindi Silvia Di Manno, compagna dell' assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, permettono di riaprire il libro della parentopoli […] Stando ai calcoli del dipartimento Risorse Umane del Campidoglio sono oggi 97 i "collaboratori politici", ovvero i dipendenti non a tempo indeterminato assegnati agli uffici di diretta collaborazione agli organi politici, assunti ai sensi dell'ormai famigerato articolo 90 del decreto legislativo del 2000. Un bel numero che mette Virginia Raggi, la paladina della battaglia giudiziaria contro la vecchia Parentopoli di Alemanno, davanti all' ex-sindaco e al suo successore Ignazio Marino, che tentò di ridurre al massimo il numero dei collaboratori. Nel solo 2020 il Comune di Roma ha speso 5,3 milioni di euro per gli stipendi al personale di supporto politico, un risultato che permette alla Raggi di battere i suoi predecessori. Nel 2013 la giunta Marino arrivò a spendere 3,8 milioni, mentre Gianni Alemanno - passato alla storia anche per le inchieste sulle Parentopoli delle società municipalizzate - si fermò a 2,8 milioni, una cifra comunque superiore a quella dei più grandi comuni italiani. A distanza di un decennio, il Comune a trazione Raggi spende più del doppio di quanto non faccia Milano, che nel 2020 ha stanziato per questo genere di contratti 2 milioni di euro. Oltre al dato complessivo, è interessante registrare come con il passare dei mesi e l' avvicinarsi dell' ormai prossima tornata elettorale, il costo del personale sia aumentato. […]
Francesco Pacifico per “il Messaggero” il 23 marzo 2021. Virginia Raggi ieri mattina ha piegato le ultime resistenze di Gianni Lemmetti e così Silvia Di Manno, compagna dell' assessore, ha rinunciato all' incarico ricevuto mercoledì scorso nello staff del responsabile dell' Urbanistica, Luca Montuori. Il caso ha creato non pochi imbarazzi in Campidoglio e alla sindaca, che soltanto 24 ore aveva posto Lemmetti davanti un aut aut: se la donna non si fosse dimessa velocemente, il Comune avrebbe revocato la delibera di nomina. Ma ci sarebbero state ripercussioni nei confronti dello stesso responsabile del Bilancio capitolino. Alle 13.31 di ieri la vicenda ha visto la sua conclusione. Un esito a detta di molti previsto, ma meno scontato rispetto alle polemiche degli ultimi giorni. A quell' ora - e diretta alle Pec delle Risorse umane, della segreteria della sindaca e degli assessori Antonio De Santis (Personale) e Montuori - è arrivata una mail della Di Manno: «La sottoscritta comunica di rassegnare le dimissioni dal rapporto di lavoro con Roma Capitale con effetto immediato». Firmato Silvia Di Manno. Ma difficilmente queste poche righe riusciranno a chiudere un caso, che tanto ha sconvolto Palazzo Senatorio e potrebbe avere ancora ulteriori strascichi. La Di Manno, libraia di Viareggio e soprattutto compagna dell' assessore al Bilancio, Gianni Lemmetti, è finita nel mirino dopo che le era stato affidato un incarico (stipendio 23mila euro all' anno) nello staff di Luca Montuori, titolare dell' Urbanistica. Una scelta in chiaro conflitto d' interessi, che ha fatto non poco imbufalire la sindaca Virginia Raggi. La quale si è detta all' oscuro della cosa e avrebbe anche minacciato di far saltare gli assessori coinvolti: cioè Lemmetti e Montuori. «Sulla trasparenza - avrebbe detto ai suoi nel pieno della crisi - qui non si scherza, non guardiamo in faccia a nessuno». Perché la crisi si è sfiorata. In mattinata era girata la voce che il potente assessore al Bilancio rischiasse di perdere il posto. Anche perché domenica, in una telefonata molto dura con la stessa sindaca, Lemmetti avrebbe provato a resistere all' aut aut e avrebbe difeso l' onorabilità sua e della fidanzata. Secondo alcuni, avrebbe anche tentato fino alla fine di non far dimettere la sua compagna. Ieri, a ora di pranzo, l' epilogo della vicenda. Come detto, potrebbe non bastare per chiudere il caso e non soltanto perché in maggioranza molti criticano lo strapotere dell' assessore e la sua gestione di partite importanti come il salvataggio di Ama, nel quale il Consiglio si sente tenuto all' oscuro. Le opposizioni - Pd, Fratelli d' Italia - chiedono di convocare la commissione Trasparenza, la Lega promette esposti alla Corte dei Conti. Dal Nazareno il capogruppo Giulio Pelonzi nota: «Resta da chiarire il fatto politico rilevante: cioè la sindaca ha il controllo di ciò che succede in Campidoglio rispetto alle decisioni della sua giunta e del cerchio dei fedelissimi che ha messo nei posti chiave dell' amministrazione? Ci domandiamo se la sindaca riesca a guidare l' amministrazione o subisca decisioni altrui». Da Fdi il consigliere Francesco Figliomeni fa sapere che è stato richiesto anche «un dettagliato accesso agli atti a varie strutture del Campidoglio, tra cui gabinetto del sindaco, segretario generale e capo dell' Avvocatura» per avere riscontri su altre nomine fatte da Lemmetti. Come quella a Cristiano Battaglini, nello staff dell' assessore con uno stipendio di circa 91.000 euro annui», il quale - «con esperienze nella pallavolo e nel settore turistico» - secondo il consigliere del partito della Meloni avrebbe registrato in pochi anni un fortissimo aumento del suo emolumento, passando da 40mila a 91mila euro. Duri anche i consiglieri ribelli M5S come Donatella Iorio, Angelo Sturni e Marco Terranova: «La sindaca e la giunta facciano immediata chiarezza venendo in Assemblea Capitolina. Ci aspettiamo qualcosa di più rispetto ad annunci di revoche e giustificazioni legate ad assenze».
Campidoglio, Raggi a fine corsa: senza maggioranza e travolta dagli scandali. Lorenzo D'Albergo su La Repubblica il 24 marzo 2021. La sindaca, costretta a presidiare l'aula tutti i giorni, è appesa al rapporto personale tra De Vito e Pacetti, i due protagonisti del famoso video "Nun te fai schifo da solo". E parte la raccolta firme per far terminare in anticipo l'esperienza da sindaca di Virginia Raggi. Un giorno è la Parentopoli grillina a scuotere il Campidoglio. Quello dopo sono le dimissioni di Gemma Guerrini, ormai ex consigliera 5S, a far franare il terreno sotto i piedi della sindaca Virginia Raggi. Insomma, in questo finale di consiliatura, a palazzo Senatorio non c'è pace. Tanto più all'interno della maggioranza, che da ieri non può più essere definita tale: con l'addio della pentastellata di Trastevere, gli eletti del Movimento in Assemblea capitolina sono diventati 24 e le opposizioni lavorano già alla mozione di sfiducia che potrebbe mandare gambe all'aria l'amministrazione 5 Stelle. Pd, Fratelli d'Italia e Lega da ieri hanno preso a lavorare per capire se ci sono i numeri necessari a far cadere la prima cittadina. Il capogruppo del Carroccio, Maurizio Politi, lo dice apertamente: "Dobbiamo valutare questa mossa con chi è uscito dal M5S. Se non sono interessati alla poltrona, possono siglare con noi la mozione " . È partita la raccolta firme per far terminare in anticipo l'esperienza da sindaca di Virginia Raggi, adesso costretta a garantire costantemente la propria presenza in aula Giulio Cesare per evitare il tracollo immediato. Prima verranno sondati i fuoriusciti dal Movimento, poi la fronda interna. Tra i 24 grillini superstiti la defezione è infatti un vizio. Nell'attuale maggioranza c'è l'ondivago presidente del consiglio comunale, quel Marcello De Vito a cui il capogruppo 5S, Giuliano Pacetti, due settimane fa ha rivolto un sonoro " fai schifo " per aver votato la mozione sulle licenze dei bancarellari con le opposizioni. Poi ci sono gli scontenti: Enrico Stefàno, Angelo Sturni, Donatella Iorio e Marco Terranova. Nelle prossime ore partirà il corteggiamento ai quattro consiglieri grillini dissidenti, contrari al bis di Raggi e aperti al dialogo con il fronte del centrosinistra. Poi, finito il giro di chiamate, si deciderà. "Farsi bocciare la mozione di sfiducia finirebbe solo per rafforzare la sindaca", si ragiona tra gli scranni del Pd e Fratelli d'Italia. "Ma Virginia si rafforzerebbe anche se venisse sfiduciata. I romani non capirebbero", replica Paolo Ferrara, ex capogruppo 5S. E poi giù di nuovo a fare i conti. Dall'inizio della consiliatura, il Movimento ha perso Cristina Grancio, ora con i socialisti, Monica Montella, Agnese Catini e Simona Ficcardi, appena passata ai Verdi. Ieri ha preso il volo verso il gruppo misto anche Gemma Guerrini: "Nel 2019 mi sono dimessa dalla vicepresidenza del consiglio della Città metropolitano - ricorda subito dopo aver lasciato i 5S - e nessuno mi ha cercato per un confronto. Non supporterò nessuna forza che supporti Virginia Raggi alle prossime Comunali. Oggi nessun partito esistente mi rappresenta. Il Movimento? È un sogno che non esiste più, finito con l'espulsione dei parlamentari che si sono rifiutati di votare la fiducia al governo Draghi. Poi è arrivato anche il placet della sindaca all'esecutivo. Un errore". Proprio come la delibera sui bilanci di Ama che approderà in aula domani: " Non la voterò - anticipa Guerrini - non mi tornano diverse cose in quegli atti. Io sono una persona semplice. Per me due più due fa quattro. E uno vale uno? Sì. E uno più uno fa due e via di questo passo. La Parentopoli di Lemmetti e della fidanzata? Il parere va chiesto alla sindaca. Se va bene a lei, va bene a tutti. Ma resta una cosa di basso livello, da soap opera sudamericana".
Raggi è la peggio di tutti: quasi 100 le nomine politiche per la sua corte in Campidoglio. Redazione martedì 23 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Raggi e la sua corte di 100 “famigli”. Lo scrive Repubblica e non un giornale di destra. Virginia Raggi è la peggio di tutti, altro che Gianni Alemanno. Contro il quale proprio i 5Stelle hanno sempre puntato l’indice accusatore proponendosi come portatori del cambiamento. Altro che Ignazio Marino, anche lui finito nel tritacarne dell’affare scontrini. Gli ultimi due casi riportati nelle cronache romane dovrebbero fare arrossire di vergogna la sindaca di Roma. Prima lei ha nominato assessore alla Cultura una sua compagna di classe, Lorenza Fruci. Poi, questa ha cercato di far nominare capo del suo staff l’amico del cuore. Quindi Silvia Di Manno, compagna dell’assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, era stata piazzata con megastipendio all’assessorato all’Urbanistica. Si è dimessa travolta dalle polemiche. La Raggi ha fatto finta di cadere dal pero. Si è indignata. Ha chiesto e ottenuto che le nomine scomode fossero annullate. Ma neanche nel M5S danno credito alla sua versione. “Difficile che Virginia non sapesse – dicono i pentastellati – i contenuti delle delibere le vengono sempre anticipati». Stando ai calcoli del dipartimento Risorse Umane del Campidoglio – scrive Repubblica – sono oggi 97 i “collaboratori politici”, ovvero i dipendenti non a tempo indeterminato assegnati agli uffici di diretta collaborazione agli organi politici, assunti ai sensi dell’ormai famigerato articolo 90 del decreto legislativo del 2000. Un bel numero che mette Virginia Raggi, davanti all’ex-sindaco Alemanno e al suo successore Ignazio Marino. Il quotidiano fa anche due conti: “Nel solo 2020 il Comune di Roma ha speso 5,3 milioni di euro per gli stipendi al personale di supporto politico, un risultato che permette alla Raggi di battere i suoi predecessori. Nel 2013 la giunta Marino arrivò a spendere 3,8 milioni, mentre Gianni Alemanno si fermò a 2,8 milioni”. E non è finita qui. I consulenti della Giunta Raggi sono inquadrati nella categoria D, quella che prevede gli stipendi più elevati rispetto a una forbice che varia dai 20 ai 90mila euro. Numeri che si commentano da soli.
Da leggo.it il 10 marzo 2021. Roma, 64 persone indagate, 29 arrestate in flagranza di reato per furto, 54 minori fermati, tra gli 11 e i 17 anni, non imputabili ed affidati ai genitori, 6 minori denunciati per falsa attestazione sull'identità personale è il bilancio di una articolata attività repressiva svolta dai carabinieri della compagnia Roma Centro nelle zone centrali della Capitale sul fronte dei borseggi ai danni di turisti e cittadini. Il tutto è sfociato in un'indagine, denominata «Lost Children», coordinata dalla Procura della repubblica di Roma - Gruppo reati contro il patrimonio - e dalla Procura della repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Roma, avviata già dal 2017, che ha visto le fasi conclusive nelle ultime ore con l'arresto di ulteriori 4 persone colpite da un'ordinanza, emessa dal Gip del Tribunale di Roma. I reati contestati agli indagati, a vario titolo, sono associazione per delinquere finalizzata alla commissione di furti aggravati, determinazione al reato di persona non imputabile, ricettazione, utilizzo fraudolento di carte di pagamento, false attestazioni sull'identità personale. Le attività investigative, condotte dai carabinieri della stazione di Roma San Lorenzo in Lucina con l'ausilio della polizia romena, giunta in Italia su richiesta del Servizio di cooperazione internazionale di Polizia, Sirene, sono scaturite dall'analisi dei numerosi furti, soprattutto di portafogli e cellulari nelle boutique del Centro o a bordo della metropolitana, messi a segno da vere e proprie bande di ragazzini, di nazionalità romena, in prevalenza minorenni al di sotto dei 14 anni, quindi non imputabili dei reati commessi. La professionalità con cui venivano rubati gli oggetti di valore alle ignare vittime (anche turisti stranieri) e il consolidato metodo di fornire false generalità per cercare di spacciarsi per minori degli anni 14 ha indotto i Carabinieri a concentrarsi sulla rete degli sfruttatori, che dietro questi giovani e raffinati borseggiatori maturava ingenti guadagni sostenendo economicamente intere famiglie, sulla carta nullatenenti. Le indagini, con intercettazioni telefoniche e lunghi servizi di pedinamento nel centro storico di Roma, nelle piazze e i monumenti più rappresentativi, hanno permesso di accertare che erano proprio i genitori e i parenti più prossimi delle giovanissime «mano leste» a sfruttarli, inviandoli tutti i giorni tra piazza di Spagna, piazza del Popolo e al Colosseo a ripulire le tasche delle numerose vittime, sottraendoli anche alla frequenza scolastica. I carabinieri della stazione Roma San Lorenzo in Lucina hanno individuato i ruoli dei diversi indagati, dai reclutatori a chi riscuoteva il denaro, scoperto un canale di ricettazione degli oggetti rubati e le modalità di spartizione dei proventi. Nel corso dell'attività sono state recuperate ingenti somme di denaro in contante, anche in valuta straniera. È stata fatta luce su un vero e proprio gruppo criminale, composto da famiglie di nazionalità romena di etnia rom, tutte legate da vincolo di parentela, stanziali sul litorale romano, principalmente nel comune di Anzio località Lavinio, da dove, ogni mattina, partivano le varie «batterie» di borseggiatori che invadevano il centro capitolino. I soggetti rintracciati in Italia sono stati associati in carcere e sottoposti alle misure cautelari degli arresti domiciliari, dell'obbligo di dimora e di presentazione presso gli uffici della polizia giudiziaria. Alcuni componenti del sodalizio, nel frattempo spostatisi in Romania, sono in fase di cattura da parte della polizia romena e del Servizio di cooperazione internazionale di polizia, Sirene.
Alessia Rabbai per fanpage.it il 18 febbraio 2021. "Un elevato grado di colpa per Pietro Genovese" queste le parole del giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma Gaspare Sturzo, messe nero su bianco nelle motivazioni della sentenza che ha condannato ad otto anni il ventenne figlio del noto regista Paolo, che con il suo Suv ha travolto e ucciso le due sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli su Corso Francia la notte tra il 21 e 22 dicembre del 2019. "È assai elevato il grado di colpa dell'imputato, sotto il profilo del quantum di evitabilità dell'evento – scrive il gup – essendo l'incidente frutto anche di una negligente scelta dell'imputato di mettersi alla guida dopo aver fatto uso di alcol, pur sapendo che era obbligato a non bere qualora avesse voluto condurre un'auto, secondo la sua età e per il tempo in cui aveva preso la patente". Nei confronti del giovane imputato il pubblico ministero aveva chiesto una pena di cinque anni, che la Corte ha ritenuto opportuno aumentare di tre.
Pietro Genovese condannato ad otto anni per omicidio. La sentenza nei confronti di Pietro Genovese, processato con il rito abbreviato, è arrivata lo scorso dicembre, a distanza di un anno dalla tragedia nella quale hanno perso la vita le due adolescenti, con un verdetto di otto anni di reclusione. La sentenza è stata emessa dopo il rinvio chiesto dal giudice per chiarire la dinamica dell'incidente, con un'integrazione probatoria. Genovese si trova ai domiciliari dal 26 dicembre del 2019, i suoi avvocati avevano proposto un patteggiamento a 2 anni e 3 mesi, che la Procura ha rifiutato perché considerato troppo mite. Il ragazzo ha dichiarato agli inquirenti che la sera in cui sono accaduti i drammatici fatti non aveva visto le ragazze attraversare la strada e non procedere a velocità elevate. Sottoposto ai test per la verifica di alcol e droga, è risultato positivo: aveva bevuto prima di mettersi alla guida, con un tasso alcolemico superiore a quello consentito di ben tre volte, e il suo sarebbe dovuto attestarsi sullo zero, perché neopatentato. Per quanto riguarda la positività alla droga, non è detto che abbia assunto le sostanze stupefacenti la sera stessa, prima di mettersi alla guida.
"Sulle strisce e col verde". La verità su Gaia e Camilla. Le motivazioni per la condanna di Genovese a 8 anni: "Il giovane era alla guida al telefono". Tiziana Paolocci Venerdì 19/02/2021 su Il Giornale. Pietro Genovese guidava ubriaco e stava mandando messaggi al cellulare. Gaia e Camilla, invece, stavano attraversando Corso Francia con il verde e sulle strisce quando sono state travolte. È una condanna senza appello quella che emerge dalla ricostruzione accettata dal Gup di Roma, Gaspare Sturzo, che il 19 dicembre ha condannato a 8 anni con rito abbreviato il figlio del noto regista, accusato di omicidio stradale plurimo per l'incidente avvenuto tra il 21 e il 22 dicembre 2019. La procura aveva chiesto per lui 5 anni, ma il giudice ha usato la mano pesante. «È assai elevato il grado di colpa dell'imputato sotto il profilo del quantum di evitabilità dell'evento - si legge nelle motivazioni - essendo l'incidente frutto anche di una negligente scelta di mettersi alla guida dopo aver fatto uso di alcol. Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, invece, erano sulle strisce pedonali, nel tratto della terza corsia di sinistra di corso Francia, dopo che queste avevano iniziato l'attraversamento con il verde pedonale, ma si erano fermate per aver notato alla loro sinistra provenire dal precedente semaforo ad alta velocità tre auto impegnate, di fatto in una gara di sorpassi, che non accennavano a rallentare». «Iniziando a sgombrare l'impianto semaforico quando era già rosso per tutti i mezzi - scrive il Gup - e correndo sulle strisce pedonali, verso il marciapiede al centro delle due carreggiate, dopo che l'auto ignota aveva dato loro di fatto un affidamento relativo alla concessa precedenza, non potendo tornare indietro per paura di essere investite da altre auto che sopraggiungevano e convinte di essere state notate, tanto da impegnare la terza corsia, quando era già verde veicolare ed in cui erano investite, per un tempo tale che potevano essere viste dal Genovese». Genovese, invece, avrebbe effettuato una serie di sorpassi, mentre utilizzava il cellulare per mandare messaggi e aveva superato il limite di velocità, iniziando un ultimo sorpasso (prima di investire le ragazze) di un'auto che aveva cominciato a frenare e, poi, si era fermata. Insomma: la morte delle due sedicenni si poteva evitare. Ieri la mamma di Gaia, Gabriella Saracino, nella sua pagina Fb ha detto di aver sognato la figlia che le diceva «avremo giustizia mamma». E giustizia è che la sua memoria e quella di Camilla sono state pulite dal fango gettato da chi giurava che quella notte erano impegnate in un gioco folle: attraversare con il rosso Corso Francia. «La motivazione della sentenza - conferma Franco Moretti, legale della mamma di Gaia - è una conferma netta della piena regolarità di condotta di Gaia e Camilla».
Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 19 febbraio 2021. Non c' è nessun concorso di colpa. Gaia e Camilla quella notte a Roma erano sulle strisce pedonali e hanno iniziato ad attraversare con il verde. Ma su corso Francia tre auto stavano facendo una gara di sorpassi. Loro, strette mano nella mano, se ne sono accorte e, dopo un attimo di esitazione in cui il semaforo è diventato giallo e poi subito rosso, hanno deciso di raggiungere l' altro lato della strada. Ed è stato proprio allora che sono state travolte dal suv di Pietro Genovese, figlio 22 enne del regista Paolo. È questa la ricostruzione fatta dal giudice Gaspare Sturzo nelle motivazioni della sentenza con la quale il 19 dicembre scorso ha condannato il giovane a otto anni di reclusione per duplice omicidio stradale. Non hanno sbagliato Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Non sono state incaute, anzi. In 192 pagine il magistrato ricostruisce testimonianze, video e perizie. E conclude escludendo qualsiasi concorso di colpa. Il giudice, che durante la lettura del dispositivo a dicembre si era commosso, non fa sconti a Genovese, pur comprendendo che a quell' età si possa sbagliare. Ma se quella sera non si fosse messo al volante, questa tragedia sarebbe stata evitata. Se avesse guidato con maggiore prudenza le avrebbe viste come loro hanno visto lui. «È assai elevato - scrive Sturzo - il grado di colpa dell' imputato, sotto il profilo del quantum di evitabilità dell' evento, essendo l' incidente frutto anche di una negligente scelta di mettersi alla guida dopo aver fatto uso di alcol, pur sapendo che era obbligato a non bere qualora avesse voluto condurre un' auto, secondo la sua età e per il tempo in cui aveva preso la patente». Non solo, Genovese, che ha superato i limiti di velocità e usava il cellulare, aveva anche avuto precedenti esperienze negative alla guida e «una normale diligenza di una persona avveduta avrebbe tratto da tutti questi precedenti "avvertimenti" un insegnamento tale da evitare le condotte che oggi hanno portato ai fatti in imputazione ». L'imputato ha capito quello che ha fatto. Anche a processo le sue dichiarazioni hanno confermato «la sua capacità comprendere perfettamente la gravità dei fatti. È vero che, nonostante gli arresti domiciliari, aveva ricevuto alcuni amici e ascoltato, probabilmente ad alto volume della musica, infastidendo qualche vicino, ma anche questo elemento deve essere inquadrato in un complesso di immaturità dell' imputato, dovuto alla giovane età e forse al tentativo di sbandierare una goliardia, qualche istinto di bullo, per nascondere le sue insicurezze e qualche eccesso di solitudine ». I legali dei genitori di Gaia e Camilla hanno espresso soddisfazione per la sentenza: tutti gli avvocati hanno parlato di riscatto e riabilitazione delle due vittime.
DA ilmessaggero.it l'8 luglio 2021. Sconto della pena per Pietro Genovese, il ventenne romano che investì e uccise due ragazze di 16 anni la notte del 21 dicembre del 2019 in Corso Francia, ha concordato in appello una condanna a 5 anni e quattro mesi. Nei suoi confronti l'accusa è di omicidio stradale plurimo. In primo grado, nel dicembre scorso, l'imputato era stato condannato ad 8 anni al termine di un processo svolto con il rito abbreviato. I giudici hanno ratificato l'accordo tra difesa e procura generale e ciò chiude la vicenda giudiziaria rendendo definitiva la pena inflitta. Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, era stato condannato a 8 anni di reclusione per omicidio stradale plurimo. Questa la decisione del gup Gaspare Sturzo. Il magistrato aveva inflitto una pena più severa rispetto a quanto richiesto dal pm Roberto Felici nella sua requisitoria, 5 anni di carcere. Il giovane alla guida del suo suv investì e uccise Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, due ragazze di 16 anni mentre attraversavano Corso Francia, a Roma, nella notte tra il 21 e il 22 dicembre dello scorso anno. Il processo di primo grado è stato celebrato in abbreviato, un rito che prevede lo sconto di un terzo della pena. La difesa ha sempre sostenuto che le due ragazze hanno attraversato una strada di notte, mentre pioveva, evitando le strisce pedonali. Uno scenario respinto dai legali delle ragazze, mentre per la procura il ragazzo stava utilizzando il cellulare mentre era al volante, aveva bevuto un bicchiere di troppo prima di mettersi alla guida e non rispettava il limite di velocità. La sentenza è arrivata dopo un anno dal terribile incidente.
PIETRO GENOVESE, FIGLIO DEL NOTO REGISTA PAOLO CONDANNATO A 5 ANNI E 4 MESI PER L’OMICIO STRADALE DI GAIA E CAMILLA LE DUE SEDICENNI INVESTITE ED UCCISE A ROMA IN CORSO FRANCIA. Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2021. Secondo il Gup che aveva condannato in primo grado il ragazzo, l’incidente è stato causato anche da “una negligente scelta dell’imputato di mettersi alla guida dopo aver fatto uso di alcol, pur sapendo che era obbligato a non bere qualora avesse voluto condurre un’auto, secondo la sua età e per il tempo in cui aveva preso la patente”. Secondo il giudice, inoltre, Gaia e Camilla “erano sulle strisce pedonali” quando hanno provato ad attraversare Corso Francia e quando sono state prese in pieno dal Suv condotto in stato di ebrezza da Genovese. I fatti risalgono alla notte tra il 21 e il 22 dicembre 2019: le due 16enni, Gaia Von Freymann Saracino e Camilla Romagnoli, avevano trascorso una serata con gli amici, alla pista di pattinaggio del vicino Auditorium della Musica, festeggiando insieme l’inizio delle vacanze natalizie, vennero travolte sulle strisce pedonali di corso Francia da Pietro Genovese, il giovane romano 20nne figlio del regista Paolo Genovese, che in primo grado con il rito abbreviato (che riduce di 1/3 la pena prevista dal Codice)era stato condannato per omicidio stradale plurimo a 8 anni. Subito dopo l’impatto Genovese provò a soccorrere le giovani, ma per loro non ci fu nulla da fare, mentre il ragazzo, sotto shock, fu portato in ospedale per accertamenti e analisi risultando positivo ai test alcolemico tossicologici con un tasso di alcol dell’1,4, tre volte superiore a quello consentito per guidare. A seguito degli accertamenti, l’investitore, assistito dagli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi, finì ai domiciliari. Secondo il Gup che aveva condannato in primo grado il ragazzo, l’incidente è stato causato anche da “una negligente scelta dell’imputato di mettersi alla guida dopo aver fatto uso di alcol, pur sapendo che era obbligato a non bere qualora avesse voluto condurre un’auto, secondo la sua età e per il tempo in cui aveva preso la patente”. Secondo il giudice, inoltre, Gaia e Camilla “erano sulle strisce pedonali” quando hanno provato ad attraversare Corso Francia e quando sono state prese in pieno dal Suv condotto in stato di ebrezza da Genovese. Nel procedimento contro Pietro Genovese non comparivano più come parti civili le famiglie delle due ragazze, in quanto hanno ottenuto entrambe un risarcimento dall’imputato attraverso l’assicurazione. “Abbiamo sempre voluto la verità e quella è rimasta. La colpa è solo del ragazzo, l’entità della pena non ci interessa, riguarda la coscienza dei giudici”, ha commentato Cristina la madre di Camilla Romagnoli. “E’ stata confermata la completa innocenza delle nostre due ragazze che hanno attraversato sulle strisce pedonali, con il verde acceso per i pedoni” ha commentato Gabriella Saracino, mamma di Gaia Gaia Von Freymann Saracino, che ha fondato un’associazione no-profit per ricordare la sua amata figlia. I giudici hanno ratificato ieri in Appello l’accordo concordato tra la difesa di Genovese e la procura generale, una condanna a cinque anni e quattro mesi che chiude così la vicenda giudiziaria, rendendo definitiva la pena inflitta. Pietro Genovese non ha partecipato all’udienza. I giudici della corte d’Assise di appello di Roma hanno stabilito l’obbligo di dimora e la permanenza domiciliare dalle 22 alle 7 per Genovese, che si trovava agli arresti domiciliari da 1 anno e 7 mesi. Per i giudici la misura disposta è adeguata “all’esigenza cautelare sociale” alla luce della dell’incensuratezza e del corretto comportamento processuale dell’imputato e del fatto che la patente di guida gli sia stata revocata. Genovese quindi non andrà in carcere: incredibilmente con la sentenza di oggi lascia gli arresti domiciliari dopo un anno e sette mesi, anche se dovrà scontare la pena in affidamento ai servizi sociali. Le motivazioni della sentenza saranno rese note entro 90 giorni. Genovese è stato infine condannato a pagare le spese legali sostenute dall’associazione "Vittime della strada onlus" e dall’associazione "Basta sangue sulle strade onlus". I danni e le spese per le famiglie delle due vittime sono state risarcite dall’assicurazione.
Michela Allegri per "il Messaggero" il 9 luglio 2021. Dopo un anno e sette mesi trascorsi agli arresti domiciliari, ora Pietro Genovese potrà uscire di casa. Il ventenne, che nella notte del 21 dicembre 2019 aveva investito e ucciso Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, mentre attraversavano la strada lungo Corso Francia, a Roma, ha concordato una pena definitiva a 5 anni e 4 mesi di reclusione e il giudice ha disposto per lui la sostituzione della misura cautelare con l'obbligo di dimora nella Capitale. Genovese, che in primo grado era stato condannato a 8 anni di reclusione - considerando anche lo sconto di pena previsto dalla scelta del rito abbreviato - non potrà nemmeno uscire tra le 22 e le 7 del mattino. I giudici della Corte d' Assise di Appello hanno ratificato ieri l'accordo raggiunto nelle scorse settimane dalla difesa del ragazzo - rappresentato dagli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi - e dalla procura generale. Per i magistrati, la misura disposta è adeguata «all' esigenza cautelare sociale», anche alla luce dell'incensuratezza del giovane, del corretto comportamento processuale e del fatto che la patente di guida gli sia stata revocata. Restano invece confermati i risarcimenti disposti in sede di primo grado per i familiari delle vittime: 180mila euro per ognuno dei quattro genitori. Nel procedimento di secondo grado le famiglie delle due giovani non si sono costituite parte civile. «Abbiamo sempre voluto la verità e quella è rimasta. La colpa è solo del ragazzo, l'entità della pena non ci interessa, riguarda la coscienza dei giudici», ha commentato la madre di Camilla, riferendosi alla possibilità, emersa in fase di indagine, che le sedicenni avessero attraversato la strada in modo incauto. Quella notte Gaia e Camilla stavano tornando a casa da una serata insieme agli amici per festeggiare l'inizio delle vacanze di Natale. Mentre attraversavano la strada erano state travolte dal Suv guidato, troppo velocemente, da Genovese. Differentemente da quanto ipotizzato all' inizio dagli inquirenti, dal processo è emerso che le sedicenni avevano attraversato in modo prudente, passando sulle strisce pedonali dopo che il semaforo era diventato verde. Anche Genovese era passato con il verde, ma era distratto - stava usando il cellulare e, prima di mettersi al volante, aveva bevuto - e ha centrato in pieno le ragazze, uccidendole sul colpo. Il gup nelle motivazioni della sentenza definiva «assai elevato il grado di colpa dell'imputato», che si sarebbe messo alla guida in condizioni non consone. Il magistrato ha scritto anche che Gaia e Camilla erano state investite mentre erano «sulle strisce pedonali, nel tratto della terza corsia di sinistra di Corso Francia, e dopo che queste avevano iniziato l'attraversamento con il verde pedonale, ma si erano fermate per aver notato alla loro sinistra provenire dal precedente semaforo ad alta velocità tre auto impegnate, di fatto in una gara di sorpassi, che non accennavano a rallentare». L' ultimo sorpasso era finito in tragedia. Dopo la sentenza di primo grado, la mamma di Gaia, Gabriella Saracino, aveva dichiarato: «Se Pietro Genovese venisse da me gli farei una carezza: il perdono non si nega a nessuno, neanche a lui». Parole inaspettate che avevano commosso il giovane imputato, che aveva deciso di rispondere con una lettera, che si è aggiunta a quella scritta subito dopo l'incidente da suo padre, il regista Paolo Genovese, alle famiglie delle sedicenni. «In questo momento di dolore profondo il perdono della mamma di Gaia, per me, è importantissimo - aveva scritto il ventenne - Un gesto generoso che allevia la mia disperazione. È una mamma e sa che spesso i figli sono un casino. Ma io questa volta ho fatto qualcosa che non avrà rimedi, neppure con il tempo».
Lorenzo d' Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 febbraio 2021. L'assessore alla Sanità del Lazio rischia il processo per i fondi regionali assegnati alla fondazione Italia- Amazzonia nel 2006. La procura della Corte dei Conti ha chiuso l'indagine sulle somme che sarebbero invece passate sui conti dell' associazione Rosso- Verde di cui Alessio D' Amato, allora capogruppo dei Comunisti italiani alla Pisana, come ricostruito dalla Guardia di Finanza, era presidente e «principale beneficiario». Il danno contestato nell' invito a dedurre ( il corrispettivo di un avviso di garanzia) notificato soltanto pochi giorni fa all' assessore della giunta Zingaretti è pari a 275 mila euro. La vicenda risale a 15 anni fa e la convinzione dei finanzieri del gruppo investigativo del nucleo speciale Spesa pubblica e repressione delle frodi comunitarie è che i fondi della Onlus che si occupava di progetti di solidarietà e cooperazione a favore delle popolazioni amazzoniche siano in realtà serviti a «finanziare illecitamente» la seconda associazione, nata invece per sostenere l' attività politica di D' Amato. Il caso era entrato subito nel mirino dei pm di piazzale Clodio. Ma il processo per truffa è finito in prescrizione. Adesso è il turno della Corte dei Conti: i magistrati di viale Mazzini attendono la difesa dell' assessore e poi decideranno se rinviarlo o meno a giudizio davanti alle toghe della sezione giurisdizionale del Lazio. A causare il danno, secondo le Fiamme gialle, è stato il finanziamento da 275 mile euro destinato al progetto "Iniziative di conoscenza, solidarietà e difesa della cultura delle popolazioni Indio-Amazzoniche" ma «distratto» per altri scopi. Tra questi la realizzazione di una web radio riconducibile non alla fondazione Italia- Amazzonia, di cui D' Amato era presidente onorario, ma all' associazione Rosso- Verde. Il palinsesto prevedeva la messa in onda di interviste politiche, a consiglieri e assessori. I fondi, stando alle ricevute raccolte dagli investigatori, sono stati spesi anche per locandine, manifesti, biglietti e poster elettorali con il logo del gruppo consiliare che l' attuale titolare della Sanità regionale ha guidato fino al 2007 o con il simbolo dei "Verdi per Veltroni" in occasione delle Comunali del 2006. Il sospetto della Guardia di Finanza e dalla pm contabile Barbara Pezzilli è quindi che la Onlus per l' Amazzonia fosse solo una copertura per poi utilizzare i fondi regionali a scopo elettorale, sostenendo costi che in realtà sarebbero dovuti gravare esclusivamente sui conti dell' associazione politica di D' Amato. Il primo campanello d' allarme per i finanzieri coincide con l' evento convocato il 4 dicembre 2005 al cinema Capranichetta. Lì, in piazza Montecitorio, si tenne il battesimo di Rosso- Verde. E i poster per pubblicizzare l' evento sarebbero stati pagati con le somme a disposizione della fondazione benefica. Adesso la procura della Corte dei Conti attende le controdeduzioni dell' assessore.
Estratto dell’articolo di Fabio Rossi per “Il Messaggero” pubblicato da “la Verità” il 14 febbraio 2021. Su 25.035 appartamenti e 352 negozi che appartengono al patrimonio immobiliare del Comune di Roma, risulta che oltre 20.000 tra inquilini e gestori siano in debito con il Campidoglio. Inoltre, il 90% delle case popolari ha inquilini irregolari. Complessivamente si stimano 350 milioni di euro di arretrati non riscossi da Roma capitale. I morosi non sono poveri: tra di essi ci sono redditi personali o volumi d'affari da oltre 700.000 euro per canoni da 220 euro al mese. Secondo l'ultimo censimento del Comune, negli alloggi di edilizia residenziale pubblica si trovano 2.000 persone che non dovrebbero esserci perché i loro redditi non rispondono ai requisiti richiesti: c'è chi ha la casa popolare e altri 18 immobili di proprietà, chi risulta residente fuori Roma, chi denuncia redditi tra 70.000 e 90.000 euro. Inoltre, 1.600 persone sono subentrate irregolarmente a legittimi assegnatari deceduti.
Lorenzo D’Albergo per repubblica.it il 7 giugno 2021. Uno dà la colpa alle buche, l’altro ai sedili scomodi, un terzo ai turni troppo lunghi. Tutti, sventolando il certificato medico, dichiarano di avere mal di schiena. Poi c’è Atac, stanca di trovarsi con una media di 20 autisti al mese intenzionati ad alzare bandiera bianca e a chiedere di abbandonare le cabine di guida in favore di mansioni meno usuranti. Per prendere in contropiede chi marcia su lombalgie e dolori intercostali, facendo la tara tra vere indisposizioni e malattie immaginarie, la municipalizzata dei trasporti schiererà un team di specialisti. L’azienda di via Prenestina, dove la gestione del personale è sempre una missione straordinariamente complessa, spenderà 77.900 euro per mettere sotto contratto una ditta per misurare la portata degli scossoni subiti dai conducenti al posto di guida e i decibel prodotti da buche e sampietrini. Le rilevazioni interesseranno 26 linee bus. Ma ce n’è anche per i macchinisti della metro B e l’eccesso di vibrazioni che lamentano in cabina, nonché per gli operai di 17 tra officine, rimesse e depositi che a loro volta accusano problemi di udito. Allora sotto con fonometri e accelerometri triassali. Marchingegni da Ghostbusters. O meglio, da acchiappa-furbetti. Per quanto riguarda i torpedoni, i rilevatori annoteranno età, pesa e altezza dell’autista. E poi marca e modello della vettura, tipo di sedile e le caratteristiche del manto stradale nell’intervallo percorso a bordo dell’autobus. Dati che verranno inseriti nella relazione finale, un dossier che Atac conta di avere entro 30 giorni dall’inizio delle misurazioni e di utilizzare per tutelarsi davanti ai conducenti che di volta in volta si autodichiarano improvvisamente inidonei alla guida. Una minoranza rispetto a un esercito che conta 5.757 autisti, certo. Ma, specie sotto concordato, la partecipata del Campidoglio non può permettersi di perdere nemmeno un chilometro. O di soccombere in aula, visto che negli ultimi anni la causa al tribunale del lavoro per ottenere indennità di invalidità per presunti infortuni al volante sono aumentate esponenzialmente. Contenziosi a parte, l’azienda vuole togliere ogni alibi a chi rema contro il raggiungimento degli obiettivi fissati dal piano di salvataggio. Fino a questo momento c’è stata la massima comprensione e rispetto per le richieste dei dipendenti. Tanto per dire, sulla flotta di minibus diesel che copre alcune delle tratte del centro storico sono stati cambiati tutti i sedili per far contente le schiene degli autisti. Una modifica che è costata alcune decine di migliaia di euro, ma ha evitato grane sindacali. Noie che, però, continuano a riproporsi e di cui i vertici della municipalizzata sono stufi. L’ultimo caso è quello di un autista che, senza neppur essersi messo al volante dei nuovi mezzi ibridi presentati venerdì alla presenza della sindaca Virginia Raggi, ha preso carta e penna e ha scritto al ministero dei Trasporti per lamentarsi della scarsa visibilità garantita dal posto di guida dei torpedoni a marchio Mercedes. Apriti cielo: Atac, che ha letto la nota con una certa dose di disappunto, è pronta a tirare in ballo non solo l’ufficio legale ma pure i progettisti della casa tedesca. La risposta si preannuncia durissima. Puntuale come la relazione tecnica sulle vibrazioni e sulle emissioni sonore per cui l’azienda — paradossale, ma vero — pur essendo in crisi è stata costretta ad aprire il portafogli.
Lorenzo De Cicco per "il Messaggero" il 22 aprile 2021. Nel corpaccione degli autisti dell' Atac, municipalizzata con un tasso di assenteismo tra i più alti d' Italia, si è addentrato un nuovo malanno, fin qui sconosciuto: l'«allergia alle sanificazioni». La scoperta, in odore di premio Nobel per la medicina, si deve agli stessi conducenti, che naturalmente si sono subito premurati di informare la direzione del Personale, chiedendo di essere esentati dai faticosi turni alla guida dei bus. Gli stessi bus finiti nel mirino del Nas per le pulizie maldestre, spruzzate di disinfettante alla buona, che tutto scrostavano da maniglie e sedili, tranne che il Covid: quello, come è stato appurato dai carabinieri durante i blitz di inizio aprile, rimaneva a bordo perfino sulle vetture che risultavano «appena sanificate» dalle ditte esterne. Tutto farebbe pensare che le famose «igienizzazioni» anti-virus siano realizzate non proprio a regola d' arte, eppure tra gli autisti c' è chi si lamenta all' opposto, per un eccesso di lindezza. Tanto da chiedere di essere spostato ad altra mansione, «possibilmente all' esterno», di sicuro lontano dal volante. Sarà un caso, ma questo tipo di richiesta viene recapitata all' Atac proprio a ridosso della ripresa delle lezioni in classe al 100%, quando cioè le navette torneranno a riempirsi, specialmente all' ora di punta. IN FUGA Nel quartier generale dell' Atac sono arrivate 20 richieste di «esonero dalla guida» da marzo. E il rischio è che sia solo la punta di un iceberg di rinunce: almeno un centinaio di autisti, secondo fonti interne all' azienda, potrebbe accodarsi ora che riaprono le scuole. Per fuggire dalla tolda di comando del torpedone, c' è chi ha pescato dal repertorio classico: dal mal di schiena all' immancabile «stress». Ha lamentato dolori muscolari perfino chi è stato scoperto dagli ispettori aziendali in palestra mentre alzava 80 chili col bilanciere. «Ma i sampietrini e le buche mi affaticano troppo». Niente di nuovo: all' Atac anni fa un autista chiese di cambiare orari perché troppo «stressato» in cabina di guida, un' incombenza talmente seccante da impedirgli, così si leggeva nella raccomandata spedita all' azienda, di procreare assieme alla moglie. Ora tra le varie giustificazioni spuntano le allergie da disinfettante anti-Covid. La partecipata del Campidoglio punta a stroncare sul nascere questi strani acciacchi, che sanno di furberia, proprio per evitare che si moltiplichino al punto da rendere ingovernabile la gestione dei depositi. Ecco allora la linea dura: chi racconta di non poter lavorare per l'«allergia alle sanificazioni», sarà messo in aspettativa, con la busta paga subito dimezzata e poi, via via, sempre più assottigliata fino al recupero della capacità di guida. Niente turni da custode all' aria aperta, con lo stipendio pieno. È una battaglia di nervi, nella trincea delle rimesse. Al primo autista insofferente alle pulizie nel garage di Grottarossa, è stato chiesto di lavorare nel deposito di Portonaccio, dove vengono utilizzati prodotti di altri marchi. Altrimenti, aspettativa e sforbiciata al 50% del salario. L' azienda dei trasporti, guidata dall' amministratore unico Giovanni Mottura e dal dg Franco Giampaoletti, sta cercando di ridurre i numeri delle assenze, da anni intorno al 15%, quasi il 10% solo per problemi di salute, veri o presunti. La società promette di rafforzare anche le sanificazioni. Dopo i controlli dei Nas, proprio Mottura ha ordinato ispezioni sulle ditte di pulizia. Anche i bus faranno il tampone, un test sulle vetture appena disinfettate. I sindacati non spalleggiano gli allergici: «In passato abbiamo protestato - dice Claudio De Francesco della Faisa Sicel - ma per chiedere di potenziare le pulizie. Che da quanto sappiamo non fanno male a nessuno». Anzi.
Daniele Autieri per la Repubblica il 24 febbraio 2021. L' episodio di Dario Dongo, l' uomo sulla sedia a rotelle sollevato di peso e trasportato alla stazione Termini da un gruppo di concittadini generosi sulle scalinate della metropolitana di Roma, è l' istantanea di un ricco album di famiglia che colleziona disservizi, malfunzionamenti e guasti delle principali stazioni gestite da Atac, la municipalizzata del trasporto pubblico romano. A Termini, sono fermi quattro ascensori che portano ai convogli della metro. Ma la vergogna del primo hub ferroviario nazionale, definita ieri «inaccettabile » dalla ministra per le Disabilità, Erika Stefani, è una vergogna condivisa. Stando alle rilevazioni su "accessibilità e servizi" rilasciate dalla stessa Atac, sono almeno 40 le stazioni cittadine dove ascensori, scale mobili o montascale risultano guasti. In parte (50 impianti su 656) sono fermi per "la limitazione dei percorsi imposta dall' emergenza sanitaria", in parte per guasti e disservizi che toccano alcuni degli snodi più affollati della capitale. A Roma «il mondo è fatto a scale », come ricordava il marchese del Grillo inginocchiato a lato della sedia gestatoria del Papa. Niente scale mobili né ascensori. Oggi come allora. E infatti le fermate Castro Pretorio e Policlinico, lungo la linea B, sono chiuse da ottobre e da fine novembre per la sostituzione trentennale degli impianti, mentre da Manzoni a Flaminio, da Cipro a Valle Aurelia, da Rebibbia a Tiburtina, le stazioni sono aperte ma molti dei sistemi di movimentazione interna sono in panne. E lo sono nonostante nel marzo del 2019, ormai due anni fa, la sindaca Virginia Raggi avesse promesso un ribaltone nella gestione di scale mobili e ascensori, allora affidata a un consorzio di imprese che si era aggiudicato la manutenzione di 654 impianti grazie a un ribasso del 49,7%. A distanza di oltre due anni non molto è cambiato. Nel maggio scorso Atac ha assegnato un nuovo appalto da 20 milioni di euro alla società Del Bo, ma neanche questo è bastato per spezzare la maledizione delle metro di Roma. Alla denuncia di Dario Dongo, Atac risponde spiegando che l' impianto era fermo per colpa delle infiltrazioni d' acqua, assicura che i tecnici sono al lavoro per il ripristino, e sottolinea che dal maggio del 2019 sono state eseguite 175 revisioni speciali e 81 revisioni generali. Nella città dei "flambus" (solo nel 2020 sono state 28 le interruzioni di servizio per lo scoppio di incendi sui mezzi dell' Atac), la storia si ripete. Nell' ottobre scorso sono stati i Verdi a depositare un esposto in procura per denunciare che le scale mobili erano ferme sempre nella stazione Termini, causa assembramenti e pericolo di contagio per il Covid. Anche in quell' occasione Atac ha tentato di gettare acqua sul fuoco spiegando che, dopo gli interventi di manutenzione, erano in corso i collaudi e sarebbero presto arrivati i nullaosta. Quattro mesi dopo gli ascensori sono ancora guasti e le promesse del Campidoglio e della sua municipalizzata vengono polverizzate dalla forza di una fotografia che ritrae un disabile portato a spalla, immortalando l' istante esatto in cui l' incompetenza dà origine all' ingiustizia.
A Roma le scale mobili sono fuori uso e un uomo su sedia a rotelle viene portato in spalla. Dario Dongo, avvocato in sedia a rotelle, è stato portato in spalla dagli altri passeggeri perché le scale mobili alla Stazione Roma Termini erano bloccate. L'Atac ha assicurato un intervento "tempestivo" di manutenzione. Rosa Scognamiglio - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. "Tutte le strade portano a Roma", recita un antico proverbio latino. Ma poi a Roma si fermano, verrebbe da dire. E non solo le strade (lastrellate di buche) ma anche le scale mobili. Lo sa bene Dario Dongo, avvocato in sedia a rotelle, costretto a farsi trasportare in spalla da altri passeggeri per raggiungere il convoglio della metro di Roma Termini. Il motivo? Un "disservizio" del montascale. L'episodio è stato denunciato su Twitter da leader della Lega Matteo Salvini che non ha mancato di esprimere solidarietà allo sfortunato protagonista della vicenda. Intanto, l'ATAC (Agenzia del trasporto autoferrotranviario del Comune di Roma) ha assicurato che sta già provvedendo agli interventi di manutenzione degli impianti ferroviari.
La disavventura. L'episodio risale alla mattinata di lunedì 22 febbraio. Dario Dongo, un avvocato con disabilità motoria, si ritrova davanti alle scale mobili della stazione Roma Termini: "fuori servizio", recita un cartello. Tutto quello che deve fare è raggiungere il convoglio della metro al piano seminterrato, nulla di più semplice. Se non fosse che è in sedia a rotelle e, per certo, non può affidarsi teletrasporto. A quel punto intervengono alcuni viaggiatori che, per ottemperare al grave disservizio, decidono di sollevare la carrozzina fin giù dalla rampa di scale. Un'impresa stoica che, però, ha garantito a Dario la possibilità di prendere la metro in tempo utile per i suoi impegni. Ma se la stazione fosse stata deserta, cosa sarebbe accaduto?
Le ragioni del guasto. Circa la disavventura occorsa all'avvocato, l'Atac ha precisato con una nota stampa che "la criticità è stata determinata da alcune infiltrazioni d'acqua dall'esterno, che hanno reso necessario la chiusura dell'impianto per ragioni precauzionali. L'azienda si è subito attivata con interventi specifici e conta a breve di risolvere la problematica" assicurando di aver "svolto immediati accertamenti sul grave disservizio". Infine, Atac "assicura di essere impegnata quotidianamente per migliorare l'accessibilità delle proprie infrastrutture, come mostrano i notevoli passi avanti compiuti in questi ultimi anni nella gestione e nella manutenzione degli impianti di stazione".
Storie di disservizi capitolini. A Roma "il mondo è fatto a scale", come ricordava il marchese del Grillo inginocchiato a lato della sedia gestatoria del Papa. Di scale ricoperte da erbacce - vedi quelle di villa Borghese segnalate dalla giornalista di Reuters Crispian Balmer appena un giorno fa - e di scale mobili "fuori servizio". Poi ci sono le stazioni interdette al traffico ferroviario. Come ben ricorda il quotidiano La Repubblica, le fermate Castro Pretorio e Policlinico, lungo la linea B, sono chiuse da ottobre e da fine novembre per la sostituzione trentennale degli impianti, mentre da Manzoni a Flaminio, da Cipro a Valle Aurelia, da Rebibbia a Tiburtina, gli impianti sono aperti ma molti dei sistemi di movimentazione interna sono in panne. Lo sono nonostante i proclami della Sindaca Virginia Raggi di una mobilità a prova di grande metropoli. Intanto, dall'Atac fanno sapere che dal maggio del 2019 "sono state eseguite 175 revisioni speciali e 81 revisioni generali, tra cui molti impianti del nodo di scambio di Termini. Sono stati sottoposti a mirati interventi straordinari da parte del costruttore circa 20 impianti nel tratto centrale della Linea A ed è stato supervisionato da parte del costruttore l'intero parco scale mobili della Linea C". Ma le promesse del Campidoglio restano al palo. Anzi, ferme come le scale mobili della Stazione Termini.
Atac, novantanove scale mobili fuori uso. Andrea Erzill su Il Corriere della Sera il 24/2/2021. Novantotto impianti Atac fermi tra scale, tapis-roulant, ascensori e piattaforme elevatrici. Più uno, fuori uso da 30 anni, per il quale però il Campidoglio si dichiara incompetente. Si tratta della scala mobile del parcheggio di Villa Borghese che, soffocata dalle erbacce e immortalata sul web da uno scatto del giornalista della Reuters Crispian Balmer, fa il giro del mondo sottolineando lo stato di degrado in cui versa la Capitale. «La manutenzione di quella scala è di esclusiva competenza della società Saba Italia - dice l’assessore comunale ai Trasporti, Pietro Calabrese -. L’amministrazione sulle concessioni dei parcheggi ai privati è dovuta intervenire in ambiti molto più urgenti». Cioè, se la manutenzione spetta ai privati, la responsabilità della concessione è del Campidoglio che però, come ammette Calabrese, non la reputa una priorità. Vincono le erbacce. Ma il danno d’immagine, oltre che quello legato al disservizio lungo 30 anni, fa male visto che la foto, in poche ore, diventa l’emblema della crisi da cui la Capitale, soprattutto dopo l’emergenza del Covid, non sembra in grado di risollevarsi. Un esempio: Alessandro Gassmann condivide la foto delle scale mobili nel degrado e scrive “Roma”, così i consiglieri grillini ri-postano spiegando che il Comune non ha competenza sull’infrastruttura alimentando indirettamente il fuoco della polemica che non rientra per tutto il giorno. «Ci sono una miriade di contesti urbani trovati in stato di degrado sui quali siamo intervenuti: lo abbiamo fatto secondo priorità legate alle funzionalità interessate, chiaramente rispetto alle risorse disponibili. Ma non si può risolvere tutto in pochi anni», si giustifica l’assessore Calabrese. È una questione di priorità. Quella è concentrata sul dossier più caldo, l’Atac. La municipalizzata capitolina dei Trasporti da tempo tenta, con molte difficoltà, di mantenere standard accettabili sul servizio al cittadino e al contempo rispettare i paletti fissati dal giudice fallimentare nella procedura di concordato preventivo, voluta da Virginia Raggi per risolvere la grana del maxi debito (1,4 miliardi) accumulato in anni di malagestione. Ma i risultati su entrambi i fronti non sono incoraggianti. Sotto il profilo dei conti, infatti, l’Atac entra in una fase delicatissima che, a causa di un bilancio 2020 che inevitabilmente chiuderà «in forte passivo», come spiegano fonti aziendali, conduce alla «rivisitazione dell’accordo con il Tribunale». In ballo c’è il contratto di servizio, con il Comune che studia quanto versare all’azienda, amministrata da Giovanni Mottura, dopo il crollo dell’utenza legato alla pandemia. E anche un intervento del governo che dovrebbe integrare i mancati incassi da bigliettazione (si parla di 145 milioni di introiti). «Gli ultimi sono stati mesi complicati, ci prenderemo fino all’ultimo giorno per scrivere il bilancio», spiegano dal Campidoglio segnalando problemi in arrivo. Il tutto mentre il servizio, tra guasti e manutenzioni, continua a peggiorare. L’ultimo caso, sollevato da Repubblica, è quello di un utente disabile rimasto bloccato sotto Termini (lo scorso anno era successo a Cipro) perché non c’erano ascensori funzionanti. «L’azienda si scusa», scrive Atac provando a spiegare l’accaduto: «È stato accertato che la criticità è stata determinata da alcune infiltrazioni d’acqua dall’esterno». Di fatto, però, non si tratta di un episodio sporadico. Gli impianti fermi sono attualmente 98 su 656, ovvero il 15 per cento: 50 impianti sono fermi per la limitazione dei percorsi anti-Covid, altri 48, soprattutto sulla linea B, perché a fine vita tecnica e in corso di sostituzione. Il problema è che, per ultimare i lavori, non si prevedono tempi brevi visto che, prima di montare i nuovi impianti, manca ancora l’ok del Genio civile: «Minimo ancora tre mesi per riaprire le stazioni Policlinico e Castro Pretorio», lamentano i sindacati.
Vittoria Patanè per businessinsider.com il 16 febbraio 2021. A quattro mesi di distanza dalle elezioni amministrative, la sindaca di Roma Virginia Raggi ha annunciato l’approvazione da parte della giunta capitolina del progetto di fattibilità tecnico-economica della funivia Battistini-Casalotti, a nord-ovest della Capitale. La funivia, d’altronde, è sempre stata uno dei cavalli di battaglia di Raggi. Ne parlava già durante la campagna elettorale del 2016, ponendola al centro del suo piano sui trasporti volto a trasformare Roma in “una città moderna, che utilizza la tecnologia a proprio vantaggio, che ridisegna la mobilità in maniera funzionale, integrata e sostenibile partendo dal basso”, diceva l’allora candidata sindaca. Un piano che a cinque anni di distanza può considerarsi totalmente fallito dato che Roma non è più moderna, né più tecnologica né tantomeno ha una mobilità più funzionale e sostenibile. Anzi, la città è messa sempre peggio e le grane di Atac, nonostante il concordato, continuano ad essere al centro del dibattito pubblico, con la pandemia di Covid-19 che ha enfatizzato tutti i problemi della municipalizzata capitolina, costringendo i cittadini ad assembrarsi sugli autobus in barba alle norme sul distanziamento. Quello della funivia “è un sistema di trasporto utile e moderno già sperimentato in tante altre metropoli. Sarà una piccola rivoluzione per la mobilità di tutta la zona”, ha affermato Raggi, ricalcando le parole pronunciate cinque anni prima. La prima cittadina ha dunque deciso di riprovarci con la funivia dando un “piano adeguato per il trasporto pubblico” alle zone situate nella periferia nord-ovest di Roma. Il progetto è ambizioso. La funivia dovrebbe correre lungo un percorso di quasi quattro chilometri dal capolinea di Casalotti a quello di Battistini. In mezzo altre cinque stazioni: Acquafredda, Montespaccato, Torrevecchia, Campus e Collina delle Muse/Gra. Lo scopo è quello di collegare questi quartieri al terminal della metro A, risparmiando a migliaia di cittadini ore di traffico infernale per raggiungere il terminal. Le cabine passeranno nelle stazioni ogni 10 secondi e potranno ospitare 10 persone alla volta, per una capacità totale di 3.600 passeggeri l’ora. Facendo un rapido calcolo, per percorrere i 4 km coperti dalla funivia serviranno circa 18 minuti. “Se potenziassero le corse, gli autobus impiegherebbero molto meno tempo”, sottolineano i detrattori. Costo dell’opera? 109,5 milioni di euro, tutti a carico del ministero dei Trasporti. Capitolo tempi. Per l’apertura dei cantieri, secondo le indiscrezioni, occorrerà aspettare almeno un anno, dato che prima bisognerà portare a compimento tutta una serie di step burocratici che vanno dalla creazione del progetto definitivo (passaggio non da poco) alla gara che stabilirà chi dovrà realizzare la funivia. Se ne riparlerà dunque nel 2022, quando sulla poltrona del Campidoglio potrebbe sedere un altro sindaco. Un dettaglio, quello sulle tempistiche, che non è sfuggito alle opposizioni: “Nel 2017 la sindaca Raggi annunciava che la funivia Casalotti-Battistini sarebbe stata pronta per il 2021. Oggi, dopo quattro anni, ci dice che è stato approvato il progetto di fattibilità. Basta prese in giro”, ha affermato il capogruppo di Fratelli d’Italia del XIII Municipio, Marco Giovagnorio, mentre il candidato sindaco Tobia Zevi parla di semplice “propaganda” in vista della corsa elettorale di giugno. Raggi però sembra non dare peso alle parole dei suoi avversari e addirittura pensa al raddoppio: dopo la Battistini-Casalotti, l’idea sarebbe quella di progettare anche un’altra funivia che collegherà, stavolta nella zona sud della Capitale, Villa Bonelli alla stazione della Metro B, Eur Magliana. Tra un progetto e un annuncio, giusto per non destabilizzare i romani ormai abituati a tutto, Raggi ha però infilato anche una gaffe. A coglierla per primo è stato il blog Odissea Quotidiana, che da tempo si occupa di raccogliere le testimonianze e denunciare i disagi che i cittadini sono costretti ad affrontare sui mezzi pubblici di Roma Capitale. Rispondendo su Facebook a un utente che criticava il progetto, la prima cittadina ha affermato quanto segue: “La funivia, qualora non dovesse più servire, si smonta e si può rimontare da un’altra parte“. Accortasi delle prime reazioni alla sua affermazione, Raggi ha presto cancellato il commento, non abbastanza in fretta però da impedire agli utenti di leggere e fare uno screenshot, dando vita all’ennesima polemica. Ad oggi dunque c’è l’ok al progetto di fattibilità tecnico-economica, ci sono i rendering, ci sono le promesse, ma manca la parte più difficile. Roma però ha già trovato il nome perfetto per il progetto tanto caro alla sindaca: la “funivia smontabile”, che presto potrebbe sostituire “spelacchio” come feticcio capitale.
Daniele Autieri per "la Repubblica - Edizione Roma" l'11 febbraio 2021. Alla notizia che il 15 febbraio riapriranno gli impianti sciistici, la sindaca di Roma Virginia Raggi ha scelto la strada del "rilancio", e di fronte alle immagini desolanti delle code chilometriche per raggiungere la cima del Terminillo ha risposto riproponendo quello che fu uno dei suoi cavalli di battaglia elettorali: la funivia di Roma. Il primo annuncio è arrivato ieri via Facebook con un post che sapeva di rivoluzione. « Casalotti - ha scritto la prima cittadina - è un quartiere della periferia di Roma che conosco molto bene. Per decenni sono stati realizzati insediamenti urbani isolati, senza pensare a un adeguato collegamento con il resto della città. Noi abbiamo cambiato prospettiva, pensando a progetti innovativi come la funivia Battistini-Casalotti». Mentre il prolungamento della metro B è fermo per un contenzioso tra imprese e Campidoglio, il futuro della linea C è bloccato dalla mancanza di fondi e il progetto della D rimane scritto sul libro dei sogni, Roma sposa una nuova forma di trasporto sostenibile. Non più stradale o sotterraneo, ma aereo. E ieri la giunta ha dato il via libera al progetto di fattibilità tecnico- economico, accompagnato dalla firma del vice sindaco e assessore alla Città in Movimento, Pietro Calabrese. « La funivia - ha spiegato Calabrese - è uno dei punti fermi del nostro piano urbano di mobilità sostenibile. Un progetto nato dai cittadini per il quale abbiamo già ottenuto i fondi dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti». Secondo quanto trapela dal Campidoglio, nei prossimi giorni dovrebbe tenersi una riunione tra i tecnici del Comune e quelli del Mit per arrivare all' indizione di una gara. Una volta superato questo step, il progetto prevede 18 mesi di lavori e una possibile inaugurazione del cantiere nel 2022. All' alba delle Olimpiadi invernali di Pechino, anche Roma si sveglierà con la sua funivia: 4 chilometri per sette fermate. La partenza a Casalotti, cinque stop intermedi a Acquafredda, Montespaccato, Torrevecchia, Campus e Collina delle Muse e il capolinea che coincide con quello della linea A a Battistini. L' iniziativa ha sollevato ilarità e proteste, soprattutto sui social, dove la stessa Raggi è inciampata in una mezza gaffe. Ieri pomeriggio, rispondendo a un commento di un cittadino, la prima cittadina ha scritto: «Qualora la funivia non dovesse più servire si smonta e si può rimontare da un' altra parte». Oltre alla prontezza del blog " Odissea quotidiana" che ha fotografato il post prima che fosse cancellato dall' entourage della sindaca, l' affermazione ha alimentato le polemiche con commenti del tipo: «Si pensa alla funivia, al gatto delle nevi e ai cannoni spara neve, intanto il tram 2 Flaminio-Piazza Mancini è fermo da novembre e forse sarà riattivato ad autunno prossimo ». Il dibattito è acceso, ma il progetto sembra destinato a decollare. Almeno secondo gli annunci. Adesso il sogno di tutti è che, a qualche anno da oggi, l' arrivo del Burian - che la prossima settimana soffierà il gelo siberiano anche nella capitale - possa essere salutato con un moto di gioia da parte di chi, inforcando sci e bastoncini, si affaccerà ai tornelli della funivia deciso a lanciarsi a tutta velocità dalle pendici di Casalotti.
Emilio Orlando per "leggo.it" l'8 febbraio 2021. Un nuovo focolaio di covid nella Capitale. Quarantotto bambini positivi e un adulto di 47 anni deceduto in una comunità di cinquecento persone. Il cluster è stato individuato nel campo nomadi di Castel Romano sulla Pontina. I medici della Asl di zona, dopo la morte di un abitante del Villaggio della speranza (questo il nome del campo), hanno effettuato dei tamponi a campione sugli ospiti maggiormente a rischio. Il risultato è stato sconvolgente: una marea di casi accertati. Nonostante l’alto indice di positività, i rom rimangono liberi di poter uscire ed entrare dal campo senza venire controllati e soprattutto senza che nessuno annoti con chi sono stati a contatto all’esterno. La maggior parte dei residenti non possiede documenti che attestino con certezza il domicilio e, per questo, è difficile tracciare i contagi. Il caso, che rischia di esplodere tra le mani della giunta capitolina, è ancora al vaglio delle autorità sanitarie che nelle prossime ore dovranno decidere se istituire una mini zona rossa che delimiti l’accampamento nomadi più grande d’Italia. L’area dove sorgono baracche, container e roulotte è attualmente sotto sequestro da parte della Procura di Roma perché teatro di gravi reati ambientali, come roghi tossici e sversi di rifiuti velenosi, e perché le falde idriche che corrono sotto il terreno sono inquinate dal percolato che fuoriesce dai cumuli di immondizia e carcasse di automobili presenti nella zona. I magistrati del pool dei reati contro l’ambiente di piazzale Clodio, quando nel mese di luglio scorso fecero apporre dalla polizia locale i sigilli all’area “F”, nominarono custode la sindaca Virginia Raggi. La vicenda legata ai casi di Coronavirus che stanno crescendo esponenzialmente nel campo sta facendo il giro tra i comitati di zona: a Castel Romano attualmente vivono più di cinquecento adulti e quasi trecento minori, molti iscritti nelle scuole elementari e medie di Spinaceto, Tor de’ Cenci e dell’Eur.
Michela Allegri Valentina Errante per “il Messaggero” il 13 febbraio 2021. Il disastro del palazzo della Provincia, 263 milioni sprecati per comprare dal gruppo Parnasi un immobile che sarebbe stato costruito con anni di ritardo, si sarebbe potuto evitare: il Campidoglio aveva proposto all' allora presidente Nicola Zingaretti un' alternativa vantaggiosa. Ma quell' offerta sarebbe stata declinata. Il motivo? Secondo la Finanza, per consentire al gruppo Parnasi di trasferire alla stessa Provincia parte del debito da 370 milioni di euro che aveva con le banche. Emerge dagli atti dell' inchiesta sulla truffa della torre dell' Eur Castellaccio, che ha generato una voragine che ancora oggi pesa sulle casse della Città Metropolitana. Per l' affare fallimentare rischiano il processo in 13, tra banchieri, istituti di credito e tecnici che hanno curato le trattative, ma non Parnasi, né i politici che all' epoca erano in carica e che, per la Finanza, avrebbero agito in «malafede».
LA PROPOSTA. Nel novembre 2012, quando ormai era chiaro che il progetto non sarebbe stato portato a termine nei tempi stabiliti, era stata prospettata al Presidente della Provincia, Nicola Zingaretti - che non è indagato -, la possibilità di ottenere, a prezzo agevolato, un' area comunale in zona Pietralata, «più centrale e meglio collegata», annota la Finanza in un' informativa del 2019. Agli atti, c' è una lettera firmata da Fabrizio Ghera, all' epoca assessore ai Lavori pubblici del Comune: «Apprendiamo dell' intenzione di acquistare un immobile da destinare a Vostra sede unica. Ricordiamo che sono ancora disponibili delle cubature da destinare alle sedi della Pubblica Amministrazione, nell' ambito del Comprensorio Direzionale di Pietralata». Ghera sottolinea anche «le condizioni economiche particolarmente favorevoli». La proposta non viene neppure presa in considerazione da Zingaretti. Scrive la Finanza: «Il Capo di Gabinetto, Maurizio Venafro, l' ha rifiutata con asserito stupore, dedicandole una risposta di poche righe». Ghera non si ferma e replica a Zingaretti: «È con pari stupore che ricevo dal suo Capo di Gabinetto la nota del 9 novembre, avente ad oggetto la mancata acquisizione delle aree di Pietralata da parte della Provincia», scrive l' assessore, dispiaciuto per la mancata «occasione di evidenziare capacità di buona amministrazione da parte di due enti pubblici quali Roma Capitale e Provincia di Roma». A fronte di questa corrispondenza, la Finanza descrive l' operazione Provincia come un escamotage per raggirare l' Ente e favorire da un lato le banche e, dall' altro, il fondo Upside, creato - e sostanzialmente controllato - dal gruppo Parnasi, che era a un passo dal dissesto. Scrivono gli investigatori: «È stata fraudolentemente trasferita in capo all' Ente parte del pesantissimo debito (di 370 milioni) gravante sul Fondo Upside, gestito da Bnp Paribas e riconducibile a Parnasi».
IL FONDO. La Finanza ha ricostruito tutte le anomalie dell' operazione. Il preliminare di acquisto, siglato nel 2009 tra la Provincia e il fondo Upside, avrebbe previsto il diritto di recesso da parte della Provincia in caso di mancato rispetto del contratto. Nel 2012, a pochi giorni dalla scadenza dei termini, il palazzo dell' Eur è ancora un cantiere, ma una perizia, falsa, lo definisce «agibile». Usando questo documento, la Provincia si affretta a chiudere l' affare e lo fa costituendo un Fondo della Provincia al quale cede l' operazione immobiliare. È in questo fondo che vengono poi fatti confluire i debiti di Parnasi. La gestione delle operazioni, ancora una volta, è di Bnp, che agisce in conflitto di interessi: cura sia la vendita che l' acquisto del palazzo. Annotano i militari: «I funzionari della Provincia si sono prodigati per costituire il Fondo nei giorni immediatamente antecedenti al termine di scadenza previsto dal contratto preliminare per l' acquisto della sede, il 31 dicembre 2012». La Finanza individua anche possibili responsabili: «I membri della Giunta, i quali, su proposta del Presidente Zingaretti, il 19 dicembre 2012, hanno deliberato la costituzione del Fondo». Nessuno di loro figura nell' avviso di chiusura indagini dei pm. I militari aggiungono anche che Zingaretti, il giorno prima di lasciare l' incarico di Presidente, il 27 dicembre 2012, delega Stefano Carta - ora indagato per truffa - affinché lo rappresenti all' Assemblea dei Partecipanti al Fondo, durante la quale sarebbero stati redatti gli atti necessari per la stipula dei contratti di compravendita e di finanziamento. È l' operazione che fa transitare sul Fondo della Provincia i debiti di Upside-Parnasi e anche 20 immobili di pregio, utilizzati per coprire la voragine e garantire il debito con le banche. Scrive ancora la Finanza: «Zingaretti e i dirigenti dell' Ente si sono alacremente attivati affinché si costituisse il Fondo Immobiliare entro il 31 dicembre 2012». Lo scopo ufficiale era quello di reperire le somme necessarie per l' acquisto del palazzo, mentre quello reale, per le Fiamme gialle, sarebbe stato arrivare «al trasferimento del debito in capo, di fatto, alla Provincia».
Roma, stadio nuovo: sette anni buttati e il sapore dell'inganno. Carlo Bonini su La Repubblica il 28 febbraio 2021. A Roma il rapporto tra pubblico e privato è un suk. Dove il sindaco e la sua giunta assumono decisioni con la stessa resilienza e metodo degli Aruspici. Con l'aggravante che il volo degli uccelli è oggi sostituito dalla volatilità dei sondaggi di opinione. Nella battuta con cui l'ex capitano della Roma Daniele De Rossi ha chiosato il de profundis allo stadio di Tor di Valle - "siamo rimasti con il plastico" - c'è una sintesi felice e fulminante dello spirito ancestrale di questa città e della sua maledizione. Che la sua sindaca, Virginia Raggi, continua, in un mix di ostinazione e ottundimento, a ignorare. Dimostrando, ammesso ce ne sia ancora bisogno, quanto sia aliena e inadeguata alla prova cui, sciaguratamente, è stata chiamata nel 2016. In quel "siamo rimasti con il plastico" è facile cogliere un sottotesto. Condivisibile. Che, nella lingua antica dell'urbe - lo diciamo anche a beneficio di un orecchiante come il genovese Beppe Grillo o del campano Luigi Di Maio, che della sindaca si propongono come sostenitori di un secondo mandato - si traduce in un "C'hai cojonati". Si. Roma, i romani, i romanisti, sono stati "cojonati", presi per i fondelli. E non perché non fosse legittimo ritenere (e decidere di conseguenza) che il progetto di James Pallotta di maxi cubature in un'ansa golenale del Tevere, su terreni che il proponente (Parnasi) neppure possedeva, fosse il più sbagliato. Ma perché avere il coraggio di dirlo in un tempo necessario a non gettare via 7 anni (consentendo magari di individuare cinque anni fa un'area diversa che ora, con scarso senso del pudore, si dice "pronti" a "valutare") avrebbe nobilitato il primato della politica, la sua capacità di progetto, e non ricordato, per l'ennesima volta, a chiunque voglia investire anche solo un euro in questa città, che è meglio girare al largo. Che hic sunt leones. Che, a Roma, il rapporto tra pubblico e privato è un suk. Dove il sindaco e la sua giunta assumono decisioni con la stessa resilienza e metodo degli Aruspici. Con l'aggravante che il volo degli uccelli è oggi sostituito dalla volatilità dei sondaggi di opinione o con gli imperscrutabili equilibri interni di un Movimento che si disse rivoluzionario e ora non sia sa bene cosa sia. Ora, "cojonare" una città - e Roma, poi, che in materia è assai ferrata da duemila anni, che su questo ha costruito una sua cinica saggezza e capacità di sopportazione, ed è dunque svelta nell'annusare i "sola" - non è mai una buona idea. E Virginia Raggi, se solo vogliamo restare nel perimetro delle infrastrutture e dell'indotto sportivo, lo ha fatto con il "no" alle Olimpiadi, con l'abbandono di centri come il Pala Tiziano, lo stadio Flaminio. Per non parlare dei cinque milioni stanziati dal governo e non utilizzati per il palazzetto dello sport a Corviale. E non è una buona idea, perché la trasandatezza di questa città, la sua indolenza, spesso confuse a torto per tabe antropologica, sono, né più e né meno, che la traccia del modo antico con cui Roma si difende dalle sue sciagure, elabora il lutto di chi non la prende sul serio prendendosi troppo sul serio. Per questo, se oggi non sappiamo se Roma avrà mai un nuovo stadio, sappiamo però che Roma non dimenticherà questi cinque anni di Virginia Raggi. E le saprà sopravvivere.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 12 febbraio 2021. Una truffa gigantesca, anzi due. Con uno scopo preciso: aiutare l' imprenditore Luca Parnasi, già a processo per corruzione per l' affaire Nuovo stadio della Roma, a salvare le sue società dal dissesto. Per riuscirci, il costruttore si sarebbe aggrappato a due operazioni mastodontiche, fallimentari per le casse pubbliche: la costruzione in zona Eur Castellaccio del Palazzo della Provincia e della sede unica dell' Atac. Progetti per i quali i due enti hanno pagato centinaia di milioni di euro per acquistare immobili che nemmeno erano stati costruiti e che, praticamente, sono stati utilizzati poco o nulla. Le irregolarità che hanno viziato bandi e contratti sono ripercorse dalla Finanza in un' informativa del 2017, agli atti dell' inchiesta sulla sede della Città Metropolitana che vede indagate 13 persone per l' affare fallimentare, costato 263 milioni di euro. Sotto accusa ci sono tecnici, banchieri e istituti di credito, ma non ci sono né l' imprenditore, né i politici che erano in carica all' epoca dei fatti. Alcune anomalie, per la Finanza, sono clamorose: irregolarità nel bando per la scelta del palazzo della municipalizzata, contratti svantaggiosi per le casse pubbliche, ritardi enormi nei progetti perdonati con proroghe incomprensibili invece di essere puniti con la risoluzione degli accordi. Ipotesi supportate dagli atti acquisti, da scambi di mail, da verbali, e che, però, secondo gli inquirenti, non sono sufficienti a dimostrare il coinvolgimento dell' imprenditore. Nonostante la Finanza nel 2017 scrivesse chiaramente: in questa vicenda sono stati «favoriti gli interessi dell' imprenditore Parnasi a scapito totale degli interessi pubblici», con l' Atac sprofondata nel baratro e la Provincia costretta a cedere immobili di pregio nel centro di Roma per pagare i debiti.
IL PROGETTO. Ma andiamo con ordine. Tutto comincia nel 2005, quando sia la Provincia che la municipalizzata decidono di acquisire un nuovo immobile da destinare a sede unica dei vari uffici sparsi sul territorio capitolino. Ecco la prima irregolarità: per tutti e due i palazzi viene manifestata un' ipotetica «estrema urgenza», per rendere possibile la stipula di un contratto di «acquisto di cosa futura». Si tratta di una procedura autorizzata solo in rarissime circostanze e, di certo, non giustificata in questo caso, sostengono gli investigatori, visto che l' urgenza «è stata vanificata dai ritardi accumulati». Il palazzo della Provincia è stato ultimato solo nel 2014, mentre quello dell' Atac non è mai stato utilizzato e nel 2017 era ancora un cantiere.
IL FONDO. Nel 2008, i Parnasi danno incarico alla Bnp Paribas Reim Sgr di costituire il fondo immobiliare Upside per seguire le procedure di compravendita di terreni e immobili. Ma la Finanza, nell' informativa, ipotizza che si tratti di un escamotage per aggirare il Fisco: Upside sarebbe stato creato «al fine trasferirvi ingenti debiti contratti con enti finanziatori terzi» e, soprattutto, sarebbe stato «indebitamente gestito dalle società del Gruppo stesso, in luogo della Bnp Paribas, che si è piegata agli interessi del quotista. A tali interessi si sono piegati anche i vertici degli Enti pubblici, i quali hanno fatto di tutto pur di portare a termine le operazioni». Nel 2009 - il presidente della Provincia è Nicola Zingaretti, non indagato - si decide di procedere con l' acquisto della prima torre. L' accusa dei pm, che hanno chiuso le indagini, è che il contratto di finanziamento stipulato alla fine del 2012 contenesse clausole svantaggiose per il fondo e vantaggiose per le banche. Ma nell' informativa del 2017 la Finanza ipotizzava che, in realtà, il nuovo palazzo fosse stato acquistato in anticipo «viste le impellenti esigenze finanziare delle società del Gruppo Parnasi». E ancora: «Le molteplici proroghe di termine lavori per il palazzo Atac e l' acquisto anticipato del palazzo della Provincia sono state fatte per agevolare il costruttore». Nel 2012, inoltre, l' inagibilità del palazzo sarebbe stata mascherata con una perizia falsa. Emergerebbe, tra le altre cose, da una mail dell' anno successivo. L' ad del fondo Bnp Paribas scrive a Parnasi: «Mi sono occupato di una ulteriore grana nei confronti della Provincia, perché in un sopralluogo non si riusciva ad accedere all' immobile. Io mi sforzo di aiutarvi, però voi mi dovete garantire un ordine e una organizzazione nella gestione molto diversa dall' attuale». Agli atti ci sono anche i verbali di Serafina Buarné, Segretario Generale della Città metropolitana, che racconta di essere stata praticamente messa da parte per avere collaborato all' inchiesta parallela della Corte dei conti, che invece ha indagato, tra gli altri, Zingaretti e la sindaca Virginia Raggi: ha parlato di un «clima di ostilità» nei suoi confronti e dell' esclusione «dalle questioni importanti».
ATAC. Per quanto riguarda la municipalizzata, le indagini sono ancora in corso. La Finanza sottolinea che il contratto d' acquisto - datato 2009 - prevedeva clausole estremamente svantaggiose per Atac. Il prezzo era 219 milioni di euro. Anche l' operazione Atac inizia nel 2005, amministratore delegato Gioacchino Gabbuti. Una società esterna viene incaricata di procedere con un bando esplorativo. Nel luglio 2006 la commissione si riunisce per esaminare le 11 proposte. Tra queste, 4 provengono da imprese collegate: Porta di Roma srl, presidente del Cda Sandro Parnasi e amministratore delegato Pierluigi Toti, consiglieri Claudio Toti e Luca Panasi; Aga 2005 srl Unipersonale, che ha come amministratore unico Aldo Aronica, collegato al gruppo Toti; Peabody Lamaro srl, del gruppo Toti; Europarco, riconducibile al gruppo Parnasi, che alla fine si aggiudica la commessa. Secondo la normativa, però, si sarebbero dovute escludere le offerte imputabili a un unico centro decisionale. I fratelli Toti, inoltre, sono coinvolti nell' inchiesta che ha già portato a processo Parnasi. Ecco una seconda anomalia riscontrata nel bando: «Non si comprende e non si desume da nessun atto per quale motivo costituisse titolo di preferenza un' ubicazione ricompresa nel quadrante Sud o Sud Ovest» e, soprattutto, la zona prescelta, cioè Eur Castellaccio, non può essere definita «centrale», come inizialmente richiesto. Il procedimento di scelta del contraente, inoltre, viene definito «lacunoso e superficiale».
Valentina Errante per "il Messaggero" il 10 febbraio 2021. Ancora un' operazione immobiliare a perdere per le casse pubbliche, ancora il nome di Luca Parnasi. E così dopo l' affaire del palazzo Atac, che ha pesato sul crack della municipalizzata per 15 milioni, la procura di Roma chiude le indagini sul palazzone della Provincia: 32 piani acquistati quando era già certa l' abolizione dell' ente. E, al tempo del contratto capestro, anche inagibile. Una truffa andata avanti per anni, fino al 2019, costata all' ente pubblico 263 milioni di euro. Ma a rischiare sono solo due dirigenti e i manager delle banche. Non figurano i politici che misero in piedi quell' operazione e chi (Parnasi, appunto) ne ha beneficiato. Il costruttore, già a processo per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione per la vicenda dello stadio della Roma, il cui patrimonio è stato salvato da questa operazione immobiliare, è il convitato di pietra nell' indagine della procura di Roma, che adesso potrebbe mandare a processo 13 persone. Ma tra gli indagati non figurano neppure gli amministratori pubblici che l' operazione l' hanno voluta, contro ogni logica di buona amministrazione, a cominciare dall' allora presidente della Provincia Nicola Zingaretti. Del resto se l' atto finale avesse coinvolto Parnasi, avrebbe dovuto finire nei guai anche Zingaretti. Che aveva la responsabilità politica di gestione dell' ente e che è stato tirato in ballo, sulla questione, anche durante il processo Mondo di Mezzo dal re delle coop, Salvatore Buzzi. L' esito delle indagini della magistratura ordinaria è anche in contrasto con le conclusioni dei pm contabili. Per portare a termine la compravendita, la Provincia ha venduto gli immobili più pregiati del suo patrimonio: dalla caserma a piazza San Lorenzo in Lucina a quella a piazza del Popolo e la Corte dei Conti ha contestato a 37 politici, tra i quali figura proprio Zingaretti, (ma anche Virginia Raggi, che però è arrivata a cose fatte) un danno erariale di 37 milioni di euro.
GLI INDAGATI. A rischiare di rispondere di truffa davanti al Tribunale sono invece solo il funzionario dell' allora Provincia (oggi dirigente del dipartimento Risorse strumentali della Città Metropolitana) Stefano Carta, accusato di avere chiesto al Comune di Roma «Il certificato di agibilità dell' immobile producendo una perizia giurata falsa nella quale si sosteneva che i lavori erano completati a dicembre 2011» e il capo dell' Avvocatura della Città metropolitana, Massimiliano Sieni, presidente del comitato consultivo del Fondo costituto ad hoc per realizzare l' affare. Quindi i manager Bnp, la banca che contemporaneamente gestiva Sgr Fondo immobiliare della Provincia e il fondo Upside, dove Parsitalia di Parnasi aveva fatto confluire l' immobile. Ma anche di Imi e Unicredit che finanziavano l' operazione.
LA VICENDA. La vicenda, ricostruita dai militari del nucleo di polizia economica e finanziaria, comincia nel 2007, quando la Provincia con un bando avvia la ricerca di una sede per gli uffici. Nel 2009, presidente Zingaretti, viene individuata una delle due torri di Parnasi all' Eur. Una perizia dei Vigili del Fuoco dichiara l' immobile inagibile, ma viene ugualmente costituito il fondo nel quale confluiscono 20 immobili dell' ente. Il prezzo è 239 milioni di euro. Al quale si aggiungeranno altri oneri, fino a raggiungere 263 milioni di euro. Nel 2012, sempre Zingaretti presidente, si arriva «alla stipula di un contratto di finanziamento contenente clausole onerose per il fondo finanziato e conseguentemente vantaggiose per la banca finanziatrice». In pratica l' amministrazione si trova con un debito enorme, finanziato dalle banche, mentre la consegna dell' immobile viene differita. Tutto, per i pm, avviene all' oscuro dei vertici dell' ente pubblico, che è parte lesa.
"È vietato pure passeggiare..." Ecco la "fabbrica" degli scippi degli immigrati. Dopo l'ondata di scippi delle ultime settimane, i residenti del Pigneto, quartiere romano della movida, hanno lanciato una petizione per chiedere più sicurezza. La denuncia: "Siamo ostaggio di pusher e balordi, qui non si può più uscire di casa". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Il tragitto dal lavoro a casa si percorre a passo svelto e guardandosi continuamente le spalle. Al Pigneto, quartiere romano famoso per i locali alla moda e la movida, da qualche settimana la quotidianità di residenti e commercianti è scandita dalla paura. Tanto che sul web, dopo il tentato scippo ai danni di un’anziana, è spuntata anche una petizione per chiedere più sicurezza. "Purtroppo da più di qualche giorno nel quartiere è un proliferare di microcriminalità: tra furti in casa e scippi in strada ai poveri malcapitati a tutte le ore del giorno e della notte si ha paura di uscire di casa anche solo per passeggiare", scrive chi abita in zona, lanciando un appello alle istituzioni. Stando a quello che si legge sui social, soltanto lo scorso 31 gennaio nelle vie del rione, le stesse che hanno fatto da set ai film di Pasolini, ci sarebbero stati almeno quattro scippi. A colpire, secondo i racconti dei protagonisti, uno straniero in sella ad una bici nera, con abiti scuri e il volto coperto da cappuccio e mascherina. Lo stesso che potrebbe aver colpito anche con l’aiuto di un complice. Una ragazza derubata la scorsa settimana in via del Pigneto, all’angolo con via Castruccio Castracane, denuncia di essere stata "aggredita da due ragazzi di colore" che "si sono intascati i soldi, il telefono e le airpods". "Le donne sono le più colpite", ci dice un commerciante di zona che ci conferma come il quartiere ormai sia diventato terra di conquista per gruppi di balordi. "L’altro giorno un uomo africano ha seguito una ragazza fin dentro il mio locale e appena mi sono allontanato dalla cassa le ha sfilato il cellulare dalla tasca", ci racconta. "La situazione – dice allargando le braccia – ormai è insostenibile, il quartiere è invaso da sbandati e pusher. Noi stiamo pensando di trasferirci". Questo però non è l’unico problema della zona. "Spacciano e si ubriacano, sono tutti stranieri, gente che viene qui senza una prospettiva e che si ritrova a dover commettere reati per sbarcare il lunario", si sfoga un anziano che ha appena acquistato il giornale in edicola. Gruppi di ragazzi stranieri che bivaccano si vedono ai lati di ogni strada. E passeggiando per le vie del quartiere scopriamo che sono molti i negozianti che hanno scelto di anticipare l’orario di chiusura per evitare di correre rischi. "Qui il coprifuoco scatta già alle 18, quando chiudono i bar e la maggior parte delle attività, le strade sono buie e percorrerle da soli è pericoloso", ci dice la titolare di una bottega di alimentari. Anche lei, di recente, è stata derubata della borsa mentre scaricava la merce dall’auto al suo negozio. Una decina di giorni fa, ad un’altra ragazza, è stato sottratto il cellulare mentre stava rientrando a casa in via Ascoli Piceno. È una delle strade che i residenti indicano come più pericolose assieme a via Fanfulla da Lodi. Qui, un vecchio rudere abbandonato, al civico 38, è diventato il quartier generale di un gruppo di stranieri. Due giorni fa c’è stata l’ennesima retata. Ma i vicini assicurano che chi frequenta quello stabile fatiscente è già tornato a portare avanti i suoi traffici come se nulla fosse. "È una settimana che vengono, fanno piazza pulita e loro tornano lo stesso", ci spiega un uomo che abita qualche civico più in là. "Il viavai di chi viene qui ad acquistare droga è continuo. Arrivano da tutti i quartieri di Roma, non ne possiamo davvero più", si lamenta. Secondo Massimo Improta, dirigente dell’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico della Questura, che incontriamo nel suo studio all’interno della Sala Operativa, i reati negli ultimi mesi in realtà sono diminuiti. Ma la percezione di insicurezza no. "La visibilità che pusher e malintenzionati hanno in questo periodo all’imbrunire è massima e quindi questo può far percepire ai cittadini un incremento di delittuosità, che però non ci risulta", ci spiega. Il quartiere, assicura Improta, è sorvegliato speciale delle forze dell’ordine. L’appello, quindi, è di denunciare tutti gli episodi che avvengono, per aiutare gli investigatori ad accendere un ulteriore faro. "Basta anche una segnalazione fatta al telefono o tramite la YouPol, una app gratuita che garantisce l’anonimato", spiega il dirigente di polizia. "Per noi – conclude – si tratta di informazioni preziosissime che ci permettono di essere sempre più presenti al fianco delle persone".
La regione Lazio stanzia 20 milioni per il mega impianto sciistico, lì dove non nevica quasi più. Gli impianti del Terminillo verranno allargati distruggendo una faggeta secolare. E per sparare la neve artificiale si pagheranno 11 milioni di euro l'anno sprecando 175 mila metri cubi d’acqua. “Uno scempio” denunciano gli ambientalisti. Stefano Liberti su L'Espresso il 02 febbraio 2021. L’operazione ha un vago sapore negazionista. Nel pieno della crisi climatica, con i ghiacciai che si ritirano inesorabilmente e la neve che si fa sempre più rara, la Regione Lazio decide di investire 20 milioni di euro per ampliare un comprensorio sciistico. Parliamo degli impianti del Terminillo, in provincia di Rieti, costruiti durante il Ventennio su sollecitazione di Mussolini per promuovere “la montagna di Roma” presso gli sciatori della capitale. Entrata in crisi negli anni ’80 e soppiantata dalle più raggiungibili e attrezzate piste abruzzesi, la stazione del Terminillo vuole oggi riassurgere agli antichi fasti. Dopo anni di tribolazioni e progetti respinti, la giunta regionale ha dato il via libera al piano “Terminillo stazione montana”, attraverso una valutazione di impatto ambientale che, con qualche appunto, ha approvato il progetto presentato da un consorzio di Comuni e dalla Provincia di Rieti.
Lorenzo d'Albergo per "la Repubblica - Edizione Roma" il 2 febbraio 2021. In strada con il fratino giallo sulle spalle, come fossero ausiliari del traffico. Al massimo vestendo le tute blu tutte tasconi che sono riusciti a trovare nei meandri del comando. Così, senza divisa, hanno preso servizio gli ultimi mille vigili urbani assunti dall' amministrazione Raggi. «I primi 270 - racconta uno di loro - hanno ricevuto tutto il necessario. Noi, invece, ancora aspettiamo». L' appello, raccolto dai sindacati, ieri mattina è stato girato al nuovo comandante della polizia locale, Ugo Angeloni. Il numero uno dei caschi bianchi ha preso nota e poi promesso di spendersi con la prima cittadina grillina per ottenere subito mezzo milione di euro per vestire i suoi pizzardoni. Una richiesta urgente: gli agenti della municipale auspicano di veder spuntare la somma già in questo bilancio triennale di previsione, prima dell' approvazione in Assemblea capitolina. Più che una speranza, è una necessità. L' ultima gara per l' acquisto di divise e scarpe bandita dai vigili urbani è stata un successo a metà. O un mezzo flop, dipende dai punti di vista. Uno dei tre lotti - il meno ricco, ma comunque da 250 mila euro - è andato deserto e con lui pure centinaia di pantaloni, giacche, berretti, gonne e maglioni. Ora bisogna recuperare, anche perché l' alternativa è un degradante fai- da- te. Gli agenti più anziani, con tutta la pazienza del mondo, ormai ci hanno fatto l' abitudine: agli spacci di vestiario militare, presentando il tesserino della municipale, un paio di pantaloni costa 40 euro, un giaccone 55 e una polo con la scritta ricamata " Polizia di Roma Capitale" viene 25 euro. Permettere assieme un completo servono quasi 200 euro che nessuno, men che meno il Comune, rimborserà mai al pizzardone di turno. «Per le scarpe, almeno per quelle, nessun problema. Sono arrivate e ce ne sono a sufficienza per tutti», tira un sospiro di sollievo una delle veterane del corpo. Il guaio è che per gli ultimi assunti manca tutto il resto e girare in pettorina gialla per chi, alle prime armi, dovrebbe imparare a imporsi nel diabolico traffico di Roma non è esattamente il massimo. In ballo c' è la riconoscibilità della polizia locale, la divisa è più di un simbolo. « Riteniamo che dopo lo sforzo di questa amministrazione e le 1.300 assunzioni che ha garantito al corpo - spiega Giancarlo Cosentino, segretario della Cisl Fp di Roma - vada ancora completato il percorso per non perdere la forza del corretto impiego dei nuovi arrivati. La divisa dà un senso di sicurezza ai romani e di dignità a chi la indossa. Pensiamo alle ultime operazioni in funzione anti-assembramento e alle difficoltà di riconoscimento degli agenti in caso di affollamento». Ora ai caschi bianchi non resta che incrociare le dita e sperare che il comandante Angeloni riesca a convincere la sindaca Raggi a tirare fuori dal cilindro 500 mila euro per i completi blu dei suoi vigili.
Fabrizio Roncone per “Corriere della Sera – Sette” il 5 aprile 2021. Una vocina mi dice: dai uno sguardo dalle parti del Campidoglio. Rispondo che sono stanco del Campidoglio e di Virginia Raggi, la sindaca che passerà alla storia per aver cullato Roma e i romani in un’agonia quotidiana e che, con efferata faccia tosta, ha persino deciso di ricandidarsi. La vocina, però, insiste: dai, ti metti di buon umore. Allora provo a infilare il naso e annuso, subito, il solito odore: Gianni Lemmetti – amico di Grillo e per questo, dopo essere stato il cassiere di una discoteca in Versilia, promosso assessore al Bilancio della Capitale – ha fatto assumere la sua fidanzata all’Urbanistica. Disgustosa Parentopoli, stavolta in zuppa grillina (polemiche: la Raggi giura di non saperne niente e chiede alla signorina di rinunciare). Bah: e dovremmo metterci di buon umore? La vocina: hai sbagliato assessorato, è quello alla Cultura che mette grande allegria. E in effetti è vero: qui la faccenda diventa davvero tragicomica. Perché la Raggi, cacciato il vicesindaco con delega alla Cultura, Luca Bergamo, colpevole di averle avanzato un dubbio sulla ricandidatura (una cosa tipo: «Virgì, ma tu hai capito che casino di città amministri?»), ha deciso di sostituirlo con una compagna di liceo – il glorioso liceo scientifico Isacco Newton – una certa Lorenza Fruci di anni 43, una signora che nel curriculum si qualifica come progettista culturale, infilando un master in Filmare l’arte e un meraviglioso corso di perfezionamento in Forme di governo e logiche decisionali femminili nella storia del presente. Ma che, in realtà, è esperta solo ed esclusivamente – tenetevi forte – di Burlesque: un genere di spettacolo satirico trasformatosi, nel tempo, in una forma di spogliarello artistico (ha scritto pure due libri, sull’argomento). Non è pazzesco? Giunta ormai al 17° cambio di assessore (cui dovete sommare la rimozione di due vicesindaci, del capo di gabinetto e – più volte – dei vertici di Ama, Atac e Acea), alla guida della Cultura di quel meraviglioso museo a cielo aperto chiamato Roma, nel ruolo che fu di personaggi come Renato Nicolini e Gianni Borgna, la sindaca Raggi sceglie un’amichetta di scuola esperta in striptease. Inevitabile e inebriante attesa, in larghe fette di popolazione, per il cartellone degli spettacoli estivi (Covid permettendo).
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 26 gennaio 2021. La sindaca di Roma ha nominato assessora alla Cultura una sua compagna di liceo. Solo un osservatore particolarmente prevenuto vi troverebbe qualcosa da ridire. Darei per scontato che in un incarico così decisivo (la cultura, per Roma, è come la finanza per Milano o le nocciole per Alba) Virginia Raggi abbia preteso il meglio e valutato fior di candidati, salvo concludere che la persona giusta sorrideva già nella foto di classe della sua adolescenza. E non era una compagna qualsiasi - di quelle che, se le incroci per strada vent'anni dopo, cambi marciapiede - ma una sua cara amica. Quando si dice la fortuna. Né deve scandalizzare che la nuova assessora alla Cultura di Roma, Lorenza Fruci, non sia un'esperta di storia antica o di arte rinascimentale ma di «burlesque», e abbia scritto una biografia della celebre pin-up americana Betty Page. Se l'avesse fatta su Messalina sarebbe stato meglio, ma ha comunque scritto un libro, forse lo ha addirittura letto, e questo basta e avanza per farla svettare nel paesaggio culturale, denso di avvallamenti, della politica italiana. Nessuna obiezione, dunque. Soltanto un dubbio: se il sindaco di qualunque altro partito avesse affidato i musei e i monumenti di Roma a un compagno di scuola competente in spogliarelli vintage, i sodali della Raggi sarebbero stati altrettanto tolleranti, riconoscendogli la buona fede, o avrebbero strillato allo scandalo e alluso a cricche e a scelte familiste per privilegiare gli amici degli amici?
Fulvio Fiano per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 26 gennaio 2021. «La passione è il mordente della sua vita e non l'abbandonerà mai». Non è chiaro se nella frase che compare sulla homepage del suo sito personale la neo assessora alla Cultura del comune di Roma, Lorenza Fruci, parli di sé in terza persona o riporti una definizione che spererebbe sentirsi regalare. Oltre alla passione, anche l'amicizia con Virginia Raggi non l'ha mai lasciata negli anni. Per la sua nomina a gestire i mille monumenti e i teatri in crisi della Capitale manca ancora l'ufficializzazione, ma la scelta continua a far sollevare più di un sopracciglio anche nel M5S. Sindaca e neo assessora erano compagne al liceo scientifico Newton (1992-1997) e secondo i critici sarebbe questo il merito principale della 43enne, in un momento in cui la prima cittadina, per puntare alla rielezione, sembra circondarsi di fedelissimi. Via dunque il vicesindaco con delega alla cultura, Luca Bergamo, che aveva criticato la sua ricandidatura, dentro l'amica di classe. È il 17esimo cambio di assessore, oltre a due vicesindaci, il capo di gabinetto (Raffaele Marra) e più volte i vertici di Ama, Atac, Acea. Sempre sul suo sito, Fruci si qualifica come comunicatrice e progettista culturale in un curriculum carico di definizioni ad effetto ma - nel settore di cui si occuperà - non altrettanta sostanza. Tag di pensiero: Cultura-empowerment-ironia. Laureata in scienze delle Comunicazione alla Sapienza, un master in «Filmare l'arte», un corso di perfezionamento in «Forme di governo e logiche decisionali femminili nella storia del presente». Poi elenca una serie di docenze, collaborazioni e laboratori sullo «storytelling», il «mentoring», la «comunicazione culturale». Una «talk» (chiacchierata) con Federico Buffa a Viterbo, un «paper» (testo?) su «Martina Dell'Ombra ci è o ci fa?», la moderazione di alcuni «panel», la docenza su Arabesque e Burlesque come credito formativo per i giornalisti dell'ordine di Alessandria. Dal precedente incarico porta analoghe polemiche e dubbi, sia sulla scelta (di Raggi) che sulle competenze. Dal 2019 a oggi aveva la delega alle Pari Opportunità (27.576 euro lordi annui) con un contratto part time e compiti di «indirizzo e controllo politico in ordine alle progettualità afferenti lo sviluppo delle politiche di genere per la promozione dei relativi diritti, per l'accoglienza e il sostegno alle donne». Uniche tracce al quel momento di suoi interventi sul tema erano i due libri «Burlesque. Uno spettacolo chiamato seduzione» e «Betty Page. La vita segreta della regina delle pin-up», oltre al corto «Burlesque. Storia di donne». Alla cultura Fruci ricoprirà il ruolo che è stato di Gianni Borgna, Umberto Croppi, Flavia Barca e Renato Nicolini. Già nelle feste natalizie aveva partecipato all'organizzazione dell'iniziativa del Campidoglio «Facciamo finta che... tutto va ben».
Mafia Capitale, i giudici d'appello confermano la condanna a sei anni per Alemanno: "Fu corruzione". Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 20 gennaio 2021. Le motivazioni della sentenza di secondo grado: "I finanziamenti alla Fondazione Nuova Italia erano richiesti dall'ex sindaco ed erano parte integrante degli accordi". La vicenda è un filone dell'inchiesta sul Mondo di Mezzo in cui si ipotizza che l'allora primo cittadino abbia "piegato la sua funzione" agli interessi di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, ottenendo in cambio, secondo l'accusa, oltre 220mila euro. Non ha dubbi la Corte d'Appello: Gianni Alemanno è "evidentemente colpevole" di corruzione. Lo mettono nero su bianco i giudici della Terza sezione penale nelle motivazioni della sentenza pronunciata lo scorso 23 ottobre che aveva condannato l'ex sindaco di Roma a sei anni per uno stralcio di Mafia Capitale. Si è trattato di una conferma in realtà: la stessa pena era stata comminata in primo grado. La vicenda è un filone dell'inchiesta sul Mondo di Mezzo in cui si ipotizza che Alemanno abbia "piegato la sua funzione di sindaco" agli interessi dei "corruttori" Salvatore Buzzi, l'ex "ras" delle cooperative, e dell'ex Nar Massimo Carminati, ottenendo in cambio, secondo l'accusa, circa 223.500 euro, considerato il prezzo del reato di corruzione, che sarebbe avvenuta tra il 2012 e il 2014. Un'impostazione confermata dalla Corte d'Appello che in un provvedimento di 118 pagine ripercorre tutta la storia e le testimonianze. Non ha dubbi la Corte che i finanziamenti da parte di Buzzi alla Fondazione Nuova Italia fossero stati richiesti espressamente dall'allora sindaco, denaro che era "parte integrante dei patti corruttivi relativi agli interventi volta per volta posti in essere da Alemanno in favore delle Cooperative". Quei soldi, si legge, destinati proprio a lui per agire sull'amministrazione e sulle aziende a questa legate, in particolare Ama ed Eur Spa. "Alemanno - si legge - risponde di corruzione perché è pubblico ufficiale e, quale corrispettivo dell'aggiudicazione della gara di cui al bando 18/011 e degli interventi diretti per lo sblocco dei crediti delle cooperative nei confronti di Ama Spa ed Eur Spa, ha ricevuto utilità diverse ed ulteriori rispetto alle tangenti ricevute da Panzironi, ossia le rilevanti somme di denaro versate dalle cooperative alla Fondazione Nuova Italia specie in occasione delle cene elettorali, nonchè gli altri favori (claque ai comizi e agli eventi, assunzione di persone gradite al sindaco)". Non è tutto. "Il presente giudizio - scrive ancora il collegio presieduto da Aurora Cantillo - insegna e conferma che purtroppo nella pratica le competenze di direzione amministrativa dipendono dalla direzione politica, e ciò può portare al degrado e alla distorsione dell'attività della p.a. che emergono a piene mani dagli atti del processo". I giudici sottolineano "straordinaria gravità delle condotte criminose che in quegli anni hanno letteralmente funestato il rapporto tra imprenditori, cooperative e politica, inquinando in modo sistemico i gangli della vita amministrativa della città di Roma". Riferendosi alla decisione della Cassazione che ha fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa nel processo principale, la Corte non usa mezzi termini nel definire Mafia Capitale: "L'attenzione generale è stata focalizzata sull'esclusione del reato di cui all'articolo 416 bis e della corrispondente aggravante 'mafiosa' contestata, esclusione che è stata diffusamente spacciata come il più rilevante risultato dell'accertamento giudiziale. E' invece rimasta in secondo piano l'esistenza di due associazioni a delinquere, almeno una delle quali (quella che faceva capo a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati) impegnata nel più rilevante sistema corruttivo mai accertato nel territorio del Comune di Roma, con lo stabile e ben remunerato asservimento di pubblici ufficiali a tutti i livelli - meri dipendenti, dirigenti di servizi, consiglieri comunali ed assessori, dirigenti di aziende a capitale pubblico - agli interessi di Buzzi e delle sue cooperative". E ancora: "Il dato oggettivo da sottolineare a questo punto è che la quasi totalità delle condotte criminose in questione furono poste in essere nel quinquennio (2008-2013) in cui fu sindaco l'odierno imputato". Gli avvocati di Alemanno già annunciano il ricorso in Cassazione: "Anche le motivazioni - dicono Filippo Dinacci e Cesare Placanica - confermano una sentenza appiattita su una ricostruzione fallace, in fatto e diritto, punitiva finanche oltre le richieste della pubblica accusa e in qualche modo già posta in discussione nella sentenza definitiva del procedimento principale. Abbiamo molti argomento da proporre al giudice di Cassazione che saprà sottrarsi alle suggestioni che hanno condizionato, in tutta questa vicenda, i giudizi del merito".
Gianni Alemanno è stato assolto in Cassazione dall’accusa di corruzione. Il Secolo d'Italia il 9 luglio 2021. Imputato nell’ambito del procedimento stralcio su ‘Mafia capitale’, i giudici della Sesta sezione penale della Cassazione hanno annullato senza rinvio le accuse. “Credo che questa sentenza ridimensioni questa vicenda durata ben sette anni. Mi sono ritrovato prima mafioso e poi corrotto: adesso rimane un piccolo traffico di influenze che sarà la Corte di Appello a giudicare”. Finisce un incubo, commenta Alemanno dopo la sentenza della Cassazione, attesa da ore al Palazzaccio. Alla lettura del verdetto dei supremi giudici grande l’esultanza dei familiari e degli amici presenti in aula. “Non c’è più corruzione – ha sottolineato Alemanno – non c’è più quel fango che mi hanno tirato addosso. Finisce un incubo durato sette anni, e che obiettivamente poteva essere evitato”. Il pg Perla Lori nella requisitoria aveva chiesto di confermare la condanna a 6 anni nei confronti di Alemanno, sollecitando un nuovo processo di appello limitatamente alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici. L’ex sindaco di Roma era stato condannato in primo grado nel febbraio 2019 a sei anni. Sentenza confermata in appello lo scorso 23 ottobre. Una pena quasi doppia rispetto alla richiesta del sostituto procuratore generale Pietro Catalani che aveva sollecitato per l’ex sindaco una condanna a 3 anni e 6 mesi. Come ha sottolineato lo stesso Alemanno, i giudici hanno deciso di far svolgere un nuovo processo di appello per rideterminare la pena;, riqualificando il reato in traffico di influenze, per la vicenda dello sblocco dei pagamenti di Eur Spa. “Non possiamo che dirci soddisfatti dell’esito del ricorso che ha annullato tutte le ipotesi di corruzione”. I difensori di Gianni Alemanno, gli avvocati Cesare Placanica e Filippo Dinacci dopo la sentenza della Cassazione specificano: “La sentenza impugnata non prendeva atto di quanto già aveva statuito sulla vicenda dalla Corte di Cassazione. E soprattutto non considerava che il Sindaco Alemanno, al di là del coinvolgimento, solo tramite Panzironi, in alcune specifiche e, a nostro modo di vedere, lecite vicende, era stato giudicato completamente estraneo alle contestazioni di associazione ipotizzate dalla Procura: peraltro solo in parte riscontrate dalle sentenze che si sono occupate della intera vicenda”.
Ilaria Sacchettoni per "corriere.it" l'8 luglio 2021. I giudici della Cassazione assolvono Gianni Alemanno, ministro per le Politiche agricole tra il 2001 e il 2006 e sindaco di Roma fra il 2008 e il 2013 dalle accuse di corruzione. La vicenda era quella relativa al finanziamento — 125mila euro — delle cooperative che facevano capo a Salvatore Buzzi, patron della «Ventinove giugno» condannato a 12 anni e sei mesi per i reati del Mondo di Mezzo. Ebbene la Cassazione ha annullato la condanna a sei anni nei confronti dell’ex sindaco capitolino. Secondo l’accusa che aveva sostenuto il reato di corruzione, Alemanno sarebbe intervenuto ai vertici della controllata capitolina Eur Spa per far convergere sulle cooperative di Buzzi, conoscenza che risaliva agli anni Ottanta (i due si erano conosciuti in carcere dove Alemanno era finito per un’aggressione mentre Buzzi scontava una condanna per omicidio) una serie di pagamenti e avrebbe ricevuto dal patron della «Ventinove giugno» un finanziamento a tre zeri fra 2013 e 2014. Ora i giudici hanno stabilito che non fu corruzione, ma finanziamento illecito. I togati hanno anche rinviato gli atti alla Corte d’appello perché fissi un nuovo processo limitatamente all’episodio di Eur Spa. In principio ad Alemanno era stata contestata anche l’aggravante mafiosa, successivamente caduta. L’accusa nei suoi confronti era quella di aver ricevuto attraverso la sua fondazione Nuova Italia i finanziamenti occulti di Buzzi a sua volta amico dell’ex Nar Massimo Carminati. Alemanno si era sempre detto innocente e convinto di poterlo dimostrare. Commenta il suo avvocato Cesare Placanica assieme al codifensore Filippo Dinacci: «Dimostrato che Alemanno non fu un corrotto né un corruttore. La sentenza impugnata non prendeva atto di quanto aveva già ricostruito la Cassazione sulla vicenda nè che Alemanno era stato considerato estraneo alle accuse di associazione mafiosa ipotizzate dalla Procura. Siamo soddisfatti. Quanto all’ex sindaco dice: «E’ dimostrato a questo punto che non ho tradito il mio mandato nei confronti dei cittadini».
Processo bis solo per traffico di influenze. Alemanno assolto, crolla il teorema della Procura: “Fine di un incubo durato sette anni”. Fabio Calcagni su Il Riformista l'8 Luglio 2021. Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, è stato assolto dalla Corte di Cassazione da tutte le accuse di corruzione e ha disposto un appello bis. Alemanno, presente in aula al momento della sentenza, dovrà rispondere solo per il reato relativo ad un episodio di traffico d’influenze. I giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte hanno quindi respinto la richiesta avanzata dalla procura generale, rappresentata dal Pg Perla Lori, che chiedeva nei confronti di Alemanno la conferma della condanna a sei anni nell’ambito del processo nato dal procedimento stralcio sul "Mondo di mezzo". In particolari i giudici del ‘Palazzaccio’ hanno fatto cadere l’accusa con la formula “per non avere commesso il fatto” nel capitolo che riguardava la gara d’appalto sulla raccolta differenziata e dichiarata prescritta l’ipotesi di corruzione nella vicenda del pagamento dei debiti Ama. Alemanno era stato condannato in primo grado nel gennaio 2019 a 6 anni di reclusione, sentenza poi confermata anche in secondo grado: la vicenda riguardava i soldi che l’ex sindaco avrebbe ricevuto dal patron della cooperativa 29 Giugno, Salvatore Buzzi, e da Massimo Carminati, circostanza che entrambi avevano smentito. L’ex sindaco della Capitale era stato inizialmente accusato anche del reato di mafia, poi archiviato, ma in caso di condanna oggi Alemanno sarebbe potuto finire in carcere. Una sentenza che “ridimensiona questa vicenda durata sette anni. Mi sono trovato mafioso, corrotto. Non c’è più quel fango che mi era stato tirato addosso. Per me finisce un incubo durato 7 anni che obiettivamente poteva essere evitato”, ha commentato l’ex sindaco dopo l’assoluzione disposta dai giudici. “Non possiamo che dirci soddisfatti dell’esito del ricorso che ha annullato tutte le ipotesi di corruzione – hanno commentano invece i difensori di Alemanno, Cesare Placanica e Filippo Dinacci – . La sentenza impugnata non prendeva atto di quanto già aveva statuito sulla vicenda la Corte di Cassazione e soprattutto non considerava che il sindaco Alemanno, al di là del coinvolgimento, solo tramite Panzironi, in alcune specifiche e a nostro modo di vedere lecite vicende”. Cassazione che ha disposto per l’ex sindaco un appello bis in cui dovrà rispondere solamente solo per il reato di un episodio di traffico d’influenze: i giudici hanno infatti intimato un nuovo processo per la rideterminazione della pena per presunto traffico di influenze in merito allo sblocco dei pagamenti Eur Spa. E’ stata invece confermata la condanna, a sei mesi, per l’accusa di finanziamento illecito. Una assoluzione che fa esultare la destra capitolina. “Questa sentenza ristabilisce una verità, ma chi risarcirà del danno subito Alemanno e la stessa Capitale d’Italia? Qualche accusatore dormirà sereno questa notte?”, si chiede il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Per l’ex ministro “le accuse della procura sono state smantellate quasi tutte nel corso degli anni Credo che adesso debba partire un’operazione di verità. Anche alla luce di quello che ha raccontato Palamara, che offe lo spunto per presentare puntuali denunce”. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, si dice “felice” per l’assoluzione di Alemanno. “Abbiamo sempre avuto fiducia in lui ed eravamo convinti della sua estraneità”, ha commentato all’AdnKronos, mentre il vicepresidente del Senato e senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa ricorda di “non aver mai dubitato che fosse estraneo alle accuse che gli erano state mosse e oggi, dopo sette lunghissimi anni, finalmente la giustizia ha riconosciuto la sua innocenza”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Il pm che sbaglia non paga. E neppure chiede scusa. Luca Fazzo il 9 Luglio 2021 su Il Giornale. In un paese dei sogni, questa mattina il dottor Giuseppe Pignatone, magistrato in pensione, dovrebbe alzare il telefono e chiedere scusa a Gianni Alemanno: per avergli dato del mafioso, del corrotto, del colluso. In un paese dei sogni, questa mattina il dottor Giuseppe Pignatone, magistrato in pensione, dovrebbe alzare il telefono e chiedere scusa a Gianni Alemanno: per avergli dato del mafioso, del corrotto, del colluso. Per avergli rovinato la vita, i sette anni sul crinale dei sessanta che per tutti - e per un politico in special modo - indirizzano la fase finale della parabola pubblica. La parabola di Alemanno, grazie a Pignatone, è stata quella di un reietto. E bene ha fatto lui a farsi crescere la barba bianca, come a raccontare per immagini il suo invecchiamento interiore. Ma Giuseppe Pignatone quella telefonata non la farà. Perché la Procura della Repubblica di Roma, che sotto la sua guida lanciò l'offensiva battezzata «Mafia Capitale», il suo risultato lo ha raggiunto comunque. Ha dimostrato per l'ennesima volta che nessuno dei poteri costituzionalmente sanciti vale nulla di fronte allo strapotere giudiziario: a partire dal potere fondamentale, quello dei cittadini di scegliersi i propri governanti. Invece «Mafia Capitale», come tante altre indagini prima e dopo, racconta come sia agevole inventare accuse e indagati, e non pagarne mai il prezzo; e come - aldilà dei casi che pure esistono di inchieste nate fin dall'inizio come operazioni di killeraggio politico - ciò che conta è trovare un colpevole qualunque da immolare sull'altare della Giustizia («il filo di paglia in un pagliaio» di cui parlava Sciascia) per dimostrare in eterno la prevalenza del potere in toga su tutti gli altri poteri. Nella dimostrazione di questo assunto, l'innocenza o la colpevolezza dei singoli risulta, alla fine, irrilevante. D'altronde in caso contrario Pignatone - se non fosse stato nel frattempo impegnato ad attovagliarsi con Luca Palamara - le scuse ad Alemanno avrebbe dovuto presentarle già quattro anni fa, quando il primo giudice chiamato a occuparsi della vicenda archiviò l'accusa più infamante mossa all'ex sindaco, l'associazione mafiosa: sgretolata poi per gli altri imputati strada facendo, ma che per Alemanno si estinse già in udienza preliminare, evento quanto mai raro. Un ceffone alla Procura, che però insistette sulle altre accuse affossate anch'esse dalla sentenza di ieri della Cassazione. Ci sono voluti sette anni: e il dramma è che sette anni nel tariffario attuale delle sofferenze giudiziarie non sono nemmeno un record, e c'è chi l'onore perduto se lo vede riconoscere dopo vent'anni, o post mortem. La ministra Cartabia è lodevolmente impegnata a scorciare i tempi dei processi, ma cosa sarebbe cambiato per Alemanno se si fosse visto assolvere sei mesi fa? La riforma vera sarebbe far pagare chi rovina gli innocenti. Ma anche questo è da paese dei sogni.
Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Le inchieste, l’assoluzione di Alemanno e quei giudici che diffamano il Paese. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. Ai tempi della "sporca’’ Guerra del Vietnam, Joan Baez cantava Che le ferite più profonde sono quelle che ci facciamo con le nostre stesse mani. Ed è vero, soprattutto quando a ferire il nostro prestigio nazionale è la magistratura inquirente che ormai non risponde più a nessuno e che, sempre più spesso viene palesemente sconfessata in sede di giudizio. Purtroppo da noi il disfattismo indossa la toga. E non esita a sfornare teoremi che non somigliano per nulla a prove. Chiunque può rendersene conto leggendo una qualsiasi ordinanza o richiesta di rinvio a giudizio. È come leggere un romanzo giallo: viene descritta una storia con l’indicazione dei protagonisti a cui si imputano reati di ogni tipo, portando come prova un brando di una intercettazione, come se le parole raccolte dal trojan o trascritte dal carabiniere di servizio nei casi meno sofisticati a livello tecnologico, fossero di per sé probanti al di fuori dal contesto in cui vennero pronunciate. Poi si passano le carte al cronista della giudiziaria che ha fatto carriera grazie alle veline, il quale, spesso prima che arrivi all’interessato l’avviso di garanzia o il mandato di cattura, pubblica lo scoop de noantri in prima pagina. Ormai queste considerazioni non le fanno solo i commentatori malevoli, le scrivono nelle sentenze i giudici. In poche settimane abbiamo preso atto, grazie ai magistrati che hanno ancora coscienza e rispetto del proprio ruolo imparziale, che le procure più paludate si ingegnano a diffamare il Paese, le sue istituzioni, e a distruggere l’apparato produttivo con veri e propri abusi di potere. Andiamo a Milano, dove opera la ‘’madre’’ di tutte le procure, onusta di medaglie al valore per l’inchiesta ‘’Mani pulite’’ ( ci sono voluti vent’anni perché si sia cominciato a raccontare, nero su bianco, di ‘’che lacrime grondi e di che sangue’’ quella inchiesta) . Che cosa si può dire di una procura che accusa di corruzione internazionale l’Eni, la più importante holding del Paese, senza avere prove solide, ma solo testimonianze di persone inaffidabili, rivelatesi tali nell’ambito di un’indagine compiuta da un magistrato dello stesso ufficio, di cui non i "maggiori suoi’’ non tengono conto fino ad indurlo a cautelarsi consegnando le carte alla Guida Suprema del giustizialismo? Quest’ultimo si giustifica della fuga di notizie per la quale è indagata la fedele segretaria con un argomento evidentemente considerato inoppugnabile: se fosse stato lui a compiere la trasmissione, avrebbe fatto meglio. Ma se Milano piange Roma non ride. Con l’assoluzione dell’ex sindaco Gianni Alemanno va in frantumi l’inchiesta che veniva ancora chiamata ‘’Mafia Capitale’’ anche se si era già accertato che la Mafia non c’entrava e che gli imputati erano una via di mezzo tra i mazzettari e i ladri di polli. Ma che cosa passa nella testa ad un ex procuratore capo che ha diffamato – davanti all’intero pianeta – la capitale dello Stato le cui istituzioni ha giurato di difendere? Infine, scendiamo più a Sud e fermiamoci a Palermo. I pm non si rassegnano ad accettare che i giudici abbiano stabilito con diverse sentenze che la trattativa Stato-Mafia è un frutto della loro immaginazione. Anche in questo caso come si fa ad accusare le più alte magistrature dello Stato di aver negoziato con Cosa Nostra e venire smentiti? Come si pone rimedio alla diffamazione a cui si è sottoposto il proprio Paese? Certo, non esistono in una democrazia delle zone franche, al di sopra della legge. Ma non è esercizio della giustizia inventarsi i fatti e costruire le prove dando magari più credito ad un mafioso pluriomicida (pentito su misura) che ad un ufficiale dei Servizi che ha dedicato la vita alla lotta alla criminalità organizzata.
L. De Cic. per “Il Messaggero” il 6 giugno 2021. Nell'armadietto dell'Ama a Castro Pretorio, anziché lasciare il telefonino e una maglietta di ricambio, custodiva il piede di porco. Perché M. M., netturbino nei rioni del Centro storico, aveva una passione particolare per l'ottone. E così durante i turni di lavoro stipendiati dai contribuenti romani (con una delle Tari più salate d'Italia), tralasciava volentieri i rifiuti stipati nei cestini del Tridente, per dedicarsi a un'altra attività. Fuorilegge. Smurava placche e targhe d'ottone nel cuore dell'Urbe, probabilmente per rivenderle al mercato nero (su questo ora indagano i carabinieri). Il gioco, illegale, è durato fino a qualche settimana fa. Quando il netturbino, durante un servizio a Via Veneto, è stato immortalato dalle telecamere di una grande banca mentre sradicava le lamine dalle mura e dalla ringhiera del cancello dell'istituto di credito. Che naturalmente ha sporto denuncia. A quel punto si sono attivate le forze dell'ordine, che sono riuscite a risalire all'operatore della società comunale, probabilmente dalla targa del furgone aziendale: oltre al circuito di videosorveglianza, peraltro, anche una guardia giurata aveva assistito a tutta la scena. E così quando si sono presentati nella sede Ama, a metà tra la stazione Termini e l'università La Sapienza, i carabinieri sono andati dritti verso l'armadietto del netturbino in questione. Lì hanno trovato, senza grande stupore, sia il piede di porco che le placche staccate pochi giorni prima dalle inferriate della banca. La direzione del Personale di Ama ha già firmato il licenziamento per giusta causa. Del resto davanti a prove così schiaccianti - il video delle telecamere, la testimonianza del vigilante, le lastre smurate ritrovate nell'armadietto - era difficile optare per una via di mezzo, magari con una sospensione cautelare, in attesa che il procedimento disciplinare si concludesse. Non è l'unica azione messa a segno dai vertici della partecipata per ridurre furberie e illeciti. Quasi 20 netturbini recentemente sono finiti sotto indagine interna per le pause a oltranza al bar. Soste di 45 minuti, poco dopo avere strisciato il badge, a fronte di turni che durano dalle 6 alle 6 ore e mezza. In 6 sono stati fotografati all'autogrill del Raccordo anulare, altezza Casilina, per quasi un'ora. E non era un episodio isolato, a quanto pare: altre fotografie ora in mano agli ispettori mostrano che almeno altri 8 addetti della raccolta sono tornati il giorno seguente nello stesso autogrill. Sempre per oltre mezz'ora di siesta, sempre durante l'orario di lavoro. La sindaca Virginia Raggi ha chiesto all'azienda di essere inflessibile: «Tolleranza zero per questi comportamenti vergognosi, questi dipendenti non sono degni di lavorare per la città».
Furti di gasolio dai camion dell'Ama di Roma: dopo il nostro servizio la Finanza cerca netturbini e benzinai furbetti. Le Iene News il 20 gennaio 2021. Alcuni furbetti avrebbero rubato da anni e senza controlli un sacco di carburante, pagato con i soldi dei contribuenti, dai camion della raccolta rifiuti dell’Ama di Roma. Dopo i servizi di Filippo Roma e Marco Occhipinti anche la Guardia di finanza vuole vederci chiaro. Nell’indagine per peculato potrebbero finirci anche alcuni benzinai che avrebbero favorito pieni di gasolio ritenuti illeciti. Netturbini furbetti, ma anche benzinai complici. È quanto sta cercando la Guardia di finanza, che ha avviato un’indagine dopo i nostri servizi sui presunti furti di benzina dai mezzi dell’Ama. Vi abbiamo parlato di questa vicenda partendo dalle testimonianze di chi si sarebbe reso complice, come potete vedere nel servizio qui sopra di Filippo Roma e Marco Occhipinti. “Gente s’è costruita le case con ’sta cosa che rubano la benzina nei camion… che nella notte raccolgono la monnezza, mettono un tubo dentro, riescono a fare il succhio e a svuotare il furgone, arrivano a prendere anche 5 taniche di benzina a sera capito?”. A sostenerlo è una donna che si presenta come pentita: secondo il suo racconto avrebbe spillato carburante dall’estate del 2019 fino all’inizio dell’autunno. Lei si sarebbe occupata di portare le taniche di gasolio appena rubate presso il garage di un suo parente che lavora all’Ama. “Mi dava 100 euro a settimana, ma era un lavoro da 10 minuti solo che vedendo una volta una pattuglia della polizia ho avuto paura e ho smesso…”. La truffa sarebbe avvenuta con la tecnica del “succhio”, ovvero succhiando tramite un tubo il carburante dal serbatoio di un camion per la raccolta dei rifiuti. Questo poi verrebbe messo nelle taniche e rivenduto. In particolare, sarebbe coinvolta secondo la testimone un’autorimessa Ama di Rocca Cencia a Roma Est. Ma questa sarebbe solo la punta dell’iceberg. Secondo un’altra testimone ci sarebbe un altro modo per recuperare il carburante: “Tutti gli operatori hanno una scheda carburante relativa al mezzo che stanno prendendo. Succede che al loro rientro in sede non c’è un’attività di controllo del rifornimento effettuato”, sostiene aggiungendo particolari. Quindi non ci sarebbe il controllo tra la benzina acquistata e i chilometri realmente percorsi, “anche perché molti mezzi non hanno il conteggio”, specifica la testimone. Dopo queste testimonianze, c’è chi ci ha messo la faccia per confermare tutto. “Già nel 2017 ci fu la prima segnalazione, 4 dipendenti utilizzavano la carta carburante nei periodi in cui stavano in malattia o erano assenti” , dice Vanessa Ranieri, ex consigliere di amministrazione di Ama. Questi operai vengono interrogati dall’azienda e ammettono il furto ricevendo la sospensione di 19 giorni. Per due di loro è arrivato poi il licenziamento mentre per gli altri il reintegro. Dopo i nostri due servizi qualcosa in Ama si è subito mosso. “Due dipendenti sono stati licenziati mentre ci sono ancora 24 contestazioni aperte”, riferisce una nostra fonte. “L’azienda ha già fatto capire che sarà molto dura nei loro confronti. Casualmente dopo il vostro servizio ci siamo ritrovati davanti un’azienda un po’ più responsabile…”. Ora però anche la Finanza vuole vederci chiaro e ha avviato un’indagine per peculato che potrebbe riguardare non solo i netturbini-furbetti, ma anche alcuni benzinai nella Capitale, che avrebbero aiutato a sottrarre un quantitativo ben più grande di gasolio guadagnandoci.
Marino Bisso per “la Repubblica - Edizione Roma” il 16 gennaio 2021. «Anche secondo la procura stavano impedendo una speculazione. È assurdo poi ritenere una colpa aver difeso un bene comune: allora devono condannare tutte le persone che sono passe nella sala: da Dario Fo, Franca Valeri, Paolo Maddalena, Stefano Rodotà, Luigi De Magistris fino alla sindaca Raggi». È la reazione di sconcerto degli attivisti del Nuovo Cinema Palazzo alla richiesta della procura di condannare 12 persone che nell' aprile di 10 anni fa erano nell' edificio di San Lorenzo, in occasione dei vari tentativi di sgombero, per contestare il progetto che voleva trasformarlo in un tempio del gioco d' azzardo. Tra le 12 persone che furono identificate dalla polizia e ora sotto processo ci sono l' allora segretario romano del pd, Marco Miccoli, l' attrice Sabina Guzzanti, l' allora consigliere capitolino di Roma in Action, Andrea Alzetta, il consigliere municipale Rino Fabiano, l' ex consigliere capitolino Nunzio D' Erme, l' esponente per il diritto all' abitare, Simona Panzino. E altri attivisti dei movimenti come Stefano Zarlenga, Guido Farinelli, Fulvio Molena, Ilenya Caleo, Ciro Colonna e Francesco Raparelli. Durante l'udienza il pm Rosa Mileto ha riconosciuto che l'occupazione non fu «un'attività volta a un fine criminale, perché si voleva destinare il bene a un uso sociale culturale' e non vi fu violenza. Si trattava probabilmente quindi della commissione di un reato nell' ambito di un'attività positiva ma questo non toglie nulla alla sussistenza del reato». E così i dodici imputati non solo rischiano la condanna ma anche di dover provvedere a un risarcimento d' oro per il presunto danno all' attività, anche se mai inaugurata, che la Camene voleva aprire nell' ex cinema destinato ad ospitare slot machine, altri giochi d' azzardo. Alessio Palladino, legale della Camene (società allora locataria dell'ex cinema), ha chiesto una provvisionale di 250mila euro su un danno stimato di 1,6 milioni: «gli occupanti sapevano che l'ex cinema Palazzo non era un casinò ma un teatro alla berlinese già pronto per l'utilizzo. Di questo ne deve rispondere maggiormente Sabina Guzzanti che offrì una copertura mediatica - ha sostenuto il legale - la Camene è stata additata come società operante in ambiti mafiosi e con connivenze con soggetti con precedenti penali. Questa è la più grande opera di mistificazione e disinformazione mai vista in un processo». «Quando parlerà il mio avvocato - replica Sabina Guzzanti rappresenterà le mie ragioni che sono opposte a quelle dell' accusa». E i difensori degli imputati (Antonello Fabiano, Federica Falconi, Marco Lucentini, Gianluca Luongo, Francesco Romeo, Arturo Salerni, Serena Tucci) precisano : «la richiesta di condanna per l' invasione del Cinema Palazzo formulate dal pm, cui si è associata la parte civile, è priva di fondatezza e sfornita di riscontri probatori. Confidiamo in una assoluzione. La sentenza è attesa per il 25 marzo».
Adelaide Pierucci per “ilmessaggero.it” il 26 gennaio 2021. Si è seduto, ha mangiato un piatto di pasta al tavolo e poi è passato dritto davanti alla cassa, senza tirare fuori il portafogli. Nel frattempo l’“amico” ristoratore, sprovvisto di autorizzazioni, apparecchiava tavoli all’esterno, nonostante fosse in un’isola ecologica. A distanza di quasi tre anni, quel pranzo a “scrocco” è costato caro a un vigile urbano del II gruppo di Roma, Marco De Fazio, poi sospeso dal servizio. La II sezione penale del tribunale, presidente Annamaria Pazienza, lo ha condannato a un anno di carcere (pena sospesa) per abuso d’ufficio. Il vigile, ha concluso la corte, aveva l’obbligo di intervenire e sanzionare i dehors abusivi, notati pranzando nel ristorante, passando e ripassando tra le tavolate (abusive). Un do tu des più che singolare se si inquadra e sovrappone ad altre vicende commesse poi da altri colleghi nella stessa via. È il 10 giugno del 2018, De Fazio entra nel ristorante “Pesce fritto e baccalà”, in via dei Falisci, San Lorenzo, assieme a un collega (G. L., indagato in un procedimento parallelo). Non sa che ci sono due poliziotti all’interno che, indagando su un sospetto giro di mazzette denunciato da un altro ristoratore controllano colleghi del suo gruppo, il II di Roma. Anzi è il ristoratore che avverte il vigile De Fazio: «Occhio». E lui, tranquillo, risponde: «Non ti preoccupare ci siamo noi». Il risultato, dopo il pasto, il vigile non fa controlli, riprende il servizio all’esterno e segue su una manifestazione organizzata dal Campidoglio. E questo, secondo l’accusa iniziale, «In spregio delle norme di legge, che gli imponevano l’esercizio del potere sanzionatorio». Il motivo avrebbe una doppia matrice, secondo la ricostruzione successiva della corte: un proprio profitto «consistito nell’usufruire gratuitamente del pasto» ma anche quello di «favorire il ristoratore, nel concedergli la fruizione illecita dell’area esterna al locale». A pesare nel processo una testimonianza chiave. Con un secondo ristoratore, dirimpettaio, titolare della trattoria “Franco al Vicoletto”, altri vigili invece erano stati ben più rigidi. Ed è lo stesso ristoratore a raccontarlo in aula in veste di testimone. Quello stesso giorno avevo sollecitato più volte i vigili urbani: «Scusate, gli avevo detto, ma a me fate levare pure i secchi e questi hanno i tavoli abusivi. E ho aggiunto: Si è sempre abusivo, ma pure oggi...La strada e stretta e chiusa al traffico», e pare che dovesse essere attraversata pure da una gara ciclistica. Il ristoratore allora decise di presentare un ennesimo esposto. «In una occasione in cui lamentavo la disparità di trattamento», ha ricostruito ancora in aula il ristoratore, «mi sono sentito rispondere: “Statte zitto...Guarda che qui funziona così da anni. Allora ho capito tutto». Pochi giorni dopo i due ristoranti – sia ‘’Pesce Fritto e Baccalà” (teatro del pranzo del vigile) sia ‘’Franco il Vicoletto’’ (che aveva denunciato i tavoli abusivi) verranno entrambi multati per presunte irregolarità. A eseguire l’operazione arriverà il vigile Claudio Franchini, comandante diretto di De Fazio. «Arrivò il capitano Franchini - ha raccontato in aula il ristoratore che si sentiva ignorato - Io gli chiesi se fosse una ritorsione al mio esposto. E lui mi rispose “Così ti passa la voglia di fare le guerre”. Un mese dopo Franchini chiederà 400 euro al ristoratore contestatore, titolare della trattoria Franco il Vicoletto. Un prestito secondo lui, una mazzetta secondo la procura che fatto scattare immediatamente le manette. La vittima stavolta denuncia subito e il vigile Franchini verrà arrestato per concussione mentre riscuote. Pochi mesi dopo la condanna a quattro anni. «Magari chi mi accusa si sarà voluto vendicare della mia pignoleria nello svolgere il servizio, per i provvedimenti di multa contestati» si era difeso il vigile in aula. Intanto resta in piedi un terzo procedimento dello stesso filone. Quel giorno gli agenti di polizia stavano controllando diversi vigili perché un commerciante straniero aveva denunciato un taglieggiamento di duecento euro. Marco De Fazio dal canto suo sperava in una assoluzione. La stessa accusa l’aveva chiesta essendo cambiata la configurazione del reato di abuso d’ufficio. La II Sezione penale però ha deciso diversamente.
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 26 gennaio 2021. Una montagna di muscoli carica di anabolizzanti e un unico obiettivo fare soldi attraverso le sponsorizzazioni sui social. Tatuaggi su tutto il corpo, il viso ne è completamente ricoperto. Questo è Algero Corretini, che ieri è stato arrestato a Roma per aver picchiato con una spranga la compagna. L' influencer romano - con più di 200mila follower su Instagram - era diventato famoso grazie a un video postato sui social che l' immortala mentre sbatte con l' auto su un muretto, urlando «fratellì ho sfonnato tutto». Adesso è in carcere con l' accusa di maltrattamenti in famiglia. Ha picchiato la ragazza con una mazza di ferro. La vittima è stata accompagnata al pronto soccorso dagli stessi carabinieri della compagnia di Ponte Galeria, intervenuti dopo che aveva chiamato terrorizzata il 112. I medici le hanno refertato lesioni alle costole e un timpano perforato.
IL PERSONAGGIO. Nella sua ultima performance pubblicata su Facebook, una decina di giorni fa, sono decine i commenti divertiti. Ieri, però, hanno lasciato il posto a insulti e accuse, dopo la notizia dell' arresto. Il pm Stefano Pizza ha ricostruito una prolungata storia di maltrattamenti che, nella mattinata di sabato, è degenerata. Inoltre, i militari, gli avrebbero trovato 45 grammi di marijuana. Correttini, 24 anni, popolarissimo tra il pubblico dei giovanissimi, è conosciuto anche con il nickname 1727wrldstar. Sui social le sue dirette registrano migliaia di visualizzazioni. Anche ventimila utenti alla volta si connettono per vedere ciò che Corretini dice o fa. Una popolarità che l' ha portato a guadagnare una montagna di soldi, anche 4mila euro al giorno pubblicizzando, durante le sue performance, i più disparati articoli. «Non so come fanno le persone normali a vivere con 2mila euro al mese», aveva detto in un' intervista a La 7 lo scorso maggio. Un' attrazione smisurata per i tatuaggi. Il viso ne è completamente ricoperto. Un amore eguagliato dalla fissa per i muscoli e i bolidi. Due passioni costose e pericolose per come le vive Corretini. Durante l' intervista con il giornalista di La 7, 1727wrldstar si fa iniettare dalla compagna tre dosi di anabolizzanti. Mentre il cronista sorpreso gli dice «come fa a farlo senza prescrizioni del medico», lui risponde: «Nelle palestre tutti sanno quali sono i dosaggi». Sul fatto poi che fosse un esempio negativo per i più giovani con questi atteggiamenti, Corretini non fa un grinza: «Problemi loro». Durante una diretta sui social aveva persino avuto un rapporto sessuale con la fidanzata. Insomma zero regole e un solo obiettivo incassare più soldi possibili per vivere nel lusso più sfrenato. Un lusso che ama esibire, come i Rolex al suo polso. Dei social Corretini ha capito subito le regole di base. Stupire, scioccare all' infinito, alzare sempre di più l' asticella. Il battesimo di 1727wrldstarè di un paio di anni fa. Quando a bordo di una sua auto si schianta su un muretto. Il filmato è subito virale e lui diventa un personaggio popolare. Un influencer. Ma cosa aveva fatto di così particolare nel video? A volante di una Mazda, con il cellulare in mano, suggerisce agli utenti tutto ciò che non bisogna fare alla guida di una macchina: sorpassi azzardati con la linea bianca o il modo per aggirare un semaforo rosso. Tutti i consigli degni di un pirata della strada. A un certo punto, per evitare una fila, devia su una strada secondaria, tira il freno a mano e finisce contro il muro. La sua reazione diventa popolarissima. «Fratellì, ho sfonnato tutto. Fratellì, ho sfonnato tutto!». Una frase che diventa presto un meme e lo lancia tra i personaggi più noti, tra gli adolescenti d' Italia.
POPOLARITÀ. Un incidente con l' auto gli permette insomma di incassare soldi. La trasformazione di Corretini è evidente. In poco tempo si assiste a un mutazione fisica: Più denaro incassa e più si tatua. E più i muscoli crescono per via degli anabolizzanti che si può permettere, come lui si vanta. Il salto finale è rappresentato dalla nuova macchina che si compra. Via la vecchia Mazda a favore di una Audi A3 verde pisello cerchi in lega e un motore, dice lui, da 400 cavalli. Per una somma, spiega sempre al giornalista di La 7, pari a 84mila euro. Per adesso le sue follie sono terminate. Adesso dovrà difendersi dall' accusa pesante di maltrattamenti in famiglia.
Roma provincia di Ankara. Sei mesi per Sabina Guzzanti e no-tav in cella, sentenze da regime fascista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Gennaio 2021. Il Pm ha chiesto la condanna a sei mesi di prigione per Sabina Guzzanti, per l’ex deputato Pd Marco Miccoli e per un’altra decine di persone, tra i quali i leader dei centri sociali romani, Andrea Alzetta (lo chiamano Tarzan), Nunzio D’Erme, Franco Raparelli, perché sono stati riconosciuti tra i responsabili della lunga occupazione del cinema Palazzo, nel cuore del quartiere “rosso” di San Lorenzo, trasformato in un centro culturale che ha funzionato per più di 10 anni e un mese fa è stato sgomberato dalla polizia. Per Guzzanti e gli altri, in sostanza, viene chiesta la condanna al carcere per ragioni politiche.
La notte di capodanno la polizia ha bussato alla porta di una giovane signora torinese e le ha messo le manette ai polsi. Si tratta di Fabiola de Costanzo, che ha festeggiato in cella la fine del 2020. Resterà lì fino al Capodanno 2023. Fabiola è una dirigente del movimento no-tav, ed è stata condannata a due anni di prigione per aver partecipato, nove anni fa, a una manifestazione sull’autostrada Torino-Bardonecchia. Un centinaio di no-tav aprirono per circa mezz’ora le barriere al casello di Avigliana, e lasciarono che gli automobilisti passassero senza pagare il transito. Non ci furono violenze, non ci furono danneggiamenti. Una forma classica di disobbedienza civile. Molti di loro furono identificati, processati e condannati. Nicoletta Dosio, 75 anni, fu condannata ad un anno di carcere senza condizionale. Perché senza condizionale? Perché sovversiva. Nicoletta ora è libera, dopo avere scontato, giorno dopo giorno, i suoi 365 giorni di prigione. Dana Lauriola invece è una giovane signora, ha 38 anni, abita a Bussoleno, e la sono andata a prendere alla fine di settembre, anche lei a casa. Sempre per quella manifestazione sull’autostrada. A Dana le cose sono andate peggio: un anno per l’autostrada e un anno per un’altra manifestazione nonviolenta che si svolse l’anno successivo. Due anni pieni, anche questi senza condizionale. Lei ha chiesto di poter scontare in altro modo la pena, con le misure alternative al carcere che di solito sono riconosciute a tutti i detenuti con piccole pene. Il tribunale di sorveglianza ha detto di no, perchè “non è pentita del suo attivismo no tav”. Già. Nel 2020,dico nel 2020: non durante il fascismo. E ora tocca a Fabiola di Costanzo che addirittura deve scontare una condanna a più di tre anni, anche lei perché si sono sommati processi diversi. Diversi, ma tutti per presunti reati politici. Quanto tempo era che in Italia non si arrivava a condannare e imprigionare per reati politici nonviolenti, o anche per semplice disobbedienza civile, come sicuramente è stata la protesta sull’autostrada al casello di Avigliana? Non so, a me viene in mente il processo a Danilo Dolci, che però fu condannato a soli 50 giorni di prigione. Eravamo negli anni 50, anni duri, anni di repressione. Però la coscienza civile era molto più alta, rispetto a oggi. Ricopio qui un breve elenco degli intellettuali che si schierarono a difesa di Danilo Dolci: Vittorini, La Pira, Piovene, Guttuso, Zevi, Bertrand Russell, Moravia, Bobbio, Zavattini, Ignazio Silone, Sellerio, Capitini, Paolo Sylos Labini, Eric Fromm, Sartre, Jean Piaget. Che dite? E per Dana, per Fabiola? Silenzio, silenzio, silenzio. P.S. Non c’è bisogno di essere favorevoli alla Tav per indignarsi contro la repressione e lo strapotere dei magistrati.
SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Molise.
"Molise criminale", storie di mafia nella regione che non ti aspetti. Dallo scandalo petroli degli anni '70 al maggiordomo del Papa di Vatileaks un libro racconta l'altro volto dell'isola felice. Grazia Maria Coletti su Il Tempo il 25 novembre 2021. “Molise criminale”, storie di mafia nella regione che non ti aspetti, “quello che gli italiani non sanno su un crocevia di affari, omicidi, armi, droga, terroristi e latitanti”. E' il titolo del libro di Giovanni Mancinone, (da giornalista della carta stampata a vice capo redattore Rai), che racconta l'altro volto dell'isola felice di questa piccola regione dell’Italia di mezzo che “nasconde storie poco edificanti” (189 pagine, Rubbettino editore). Dalle inchieste della Squadra Mobile e le Procure di Campobasso e Reggio Calabria sulle tracce dei boss del narcotraffico in Colombia, ai borghi molisani pieni di ospiti senza un nome certo, terroristi, latitanti e in soggiorno obbligato. O eroine come Lea Garofalo, la testimone di giustizia contro la 'ndrangheta che doveva essere protetta ma non fu così. Il delitto Pecorelli, Angelo Izzo il nome più noto del massacro del Circeo. "Affari e rifiuti", "il ministro in carcere" e "le fabbriche svuotate". Tutto riporta in Molise. Persino negli scandali vaticani: dal maggiordomo del Papa del caso Vatileaks di Bagnoli del Trigno, all’intermediario per l’acquisto dell’immobile di lusso a Londra, molisano pure lui. Tutto sotto soglia. Anche se da anni magistrati, investigatori e associazionismo antimafia lanciano l’allarme criminalità organizzata che però sembra non preoccupi poi tanto. “Diffuso negazionismo o più subdolo minimalismo” il dilemma nella prefazione di Salvatore Calleri presidente della Fondazione Antonino Caponnetto. E questo in un territorio di “neve bianca e mare cristallino”, “boschi rigogliosi e uliveti antichi”, “che potrebbe somigliare in piccolo alla Svizzera” lo paragona l’autore con l’orgoglio del molisano doc ma che “dopo qualche anno in purgatorio, cooptato nella lista delle regioni in crescita economica, è stato invece retrocesso nelle zone dell’inferno del Sud sempre più povero e isolato”. Nell’ultima grande inchiesta, la polizia da Campobasso è arrivata sino ai boss mafiosi in Colombia, a Bogotà, eppure l’impressione è che il male sfugga all’evidenza dell’opinione pubblica. Insomma, in regione a “coprire” la mafia sarebbe un atavico velo di buonafede. Ora, in 189 pagine il libro Molise criminale del giornalista Giovanni Mancinone prova a sollevarlo mostrando che anche questo piccolo paradiso del centro Italia ha il suo inferno. Il viaggio dell’autore è tra le ombre di ieri e di oggi. Si parte dagli anni Settanta: in Italia scoppia l’inchiesta Loocked, il “caso petroli”. Si pensa sia solo una storiaccia romana però travolge pure un illustre molisano. È il ministro della Difesa di allora, Mario Tanassi, di Ururi, in Molise. Il Molise riappare anche nella Loggia P2. A Roma – si legge nel testo - la sera del 20 marzo 1979 un giornalista viene ucciso in strada. È il direttore del settimanale Op. Si dice che il delitto sarebbe solo un filo della trama più estesa e fitta dei grandi misteri italiani e non coinvolgerebbe la regione-confetto. E invece la vittima ha sangue molisano: è Mino Pecorelli, di Sessano nel Molise, in provincia di Isernia. L’altro inaspettato sottosuolo è la criminalità organizzata. Nell’85 – continua Mancinone – i magistrati spediscono lontano dalla sua Sicilia un personaggio rimasto impigliato in inchieste di mafia: è l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Viene mandato in soggiorno obbligato a Rotello, in Molise. Come e dopo di lui cognomi di camorra, ‘ndrangheta e mafia pugliese (Sacra corona unita) diventano “ospiti molisani” ingombranti. In regione l’inevitabile aumento di violenza, sia mafiosa sia senza padrini. Novembre 2004, uno dei tre condannati della strage del Circeo, Angelo Izzo - si rievoca nel libro - dal carcere di Palermo viene trasferito in semilibertà a Campobasso. Un anno dopo, in una villetta nel capoluogo molisano Izzo uccide madre e figlia quattordicenne. Ancora, inizi di maggio 2009. C’è una donna che sfida la ‘ndrangheta. Racconta ai pm di omicidi e vendette tra cosche del Crotonese, in Calabria. Lei è Lea Garofalo, 35 anni. Con sua figlia prova a rifarsi una vita ricominciando da Campobasso. Però la ‘ndrangheta non dimentica. Nel 2005, nel nascondiglio molisano Lea riesce a difendersi da un tentativo di sequestro in casa. Ma quattro anni dopo, a Milano, viene rapita, strangolata e il suo corpo bruciato in un magazzino di Monza. Il 2012 è l’anno di “Vatileaks”, lo scandalo vaticano. Il giornalista lo ripercorre. Dall’appartamento di Benedetto XVI escono lettere riservate. Chi è il “corvo”? Viene arrestato nel maggio di quell’anno. Si chiama Paolo Gabriele, è il maggiordomo del Papa e – guarda il caso - è molisano di Bagnoli del Trigno. Pochi anni dopo un altro corregionale fa parlare di sé per un’ennesima vicenda legata alla Santa Sede. È il finanziere Gianluigi Torzi, “indicato – scrive Mancinone - come intermediario per l’acquisto di un immobile di lusso a Londra”. In Molise il fiume nero esonda. Fioccano inchieste su traffico di rifiuti, impianti eolici, pizzo e tanta droga da portare gli investigatori in Sudamerica. Nel 2017, parlando di cyberbullismo in una scuola di Campobasso l’ex capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha avvertito: “Il Molise non è più una regione esente ma non è neanche Sodoma e Gomorra". Tre anni più tardi il rapporto "La tempesta perfetta" di Libera Associazioni e Lavialibera accende l’allarme rosso: l’impennata delle interdittive antimafia emesse dalle Prefetture molisane: “Dalle sei interdittive del 2019 – è scritto – si è passati alle 28 del 2020 (+366 per cento)”. E, infine, nel settembre scorso, la Direzione distrettuale antimafia descrive lo scenario criminale in Molise. “Non trascurabile - è scritto nella seconda relazione Dia al Parlamento - il grado di penetrazione criminale nel tessuto sociale ed economico molisano proprio da parte di soggetti riconducibili a clan campani e pugliesi con pregiudicati locali anche stranieri ovvero con rom stanziali”. “Questo libro – spiega nella prefazione il presidente della fondazione ‘Antonino Caponnetto’, Salvatore Calleri – ci conduce per mano nel Molise, specchio dell’anima dell’intero Paese”. Però, sottolinea il presidente, “è da registrare un diffuso negazionismo: ma davvero in Molise c’è mafia?”. “In regione la mafia non uccide – conclude Giovanni Mancinone - ma c’è”.
Cantone della Fata, la leggenda della roccia molisana. Angela Leucci il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Il Cantone della Fata è una roccia nei pressi del castello di Castropignano, legata a un'antica leggenda feudale: ecco storia e mito di questo luogo affascinante. Il Cantone della Fata è al centro di una leggenda secolare, di una storia realmente accaduta e di una suggestiva meta turistica. Si tratta infatti di una struttura rocciosa posta nel bosco di Carpineto, all’interno del territorio di Castropignano, luogo in cui anticamente è sorto un castello, per via della sua posizione privilegiata relativa alla protezione del territorio ma anche come simbolo di potere. E infatti sia leggenda sia storia, quindi immaginario e realmente accaduto, parlano appunto di potere: quello del casato dei D’Evoli, d’origine normanna.
La leggenda della Fata
Le leggenda della Fata non è datata, ma è presumibile che il periodo in cui la storia è ambientata si trovi tra il Basso Medioevo e l’inizio dell’Età Moderna. Racconta di una giovane e splendida ragazza che volle sottrarsi allo ius primae noctis, quella consuetudine che dava a un nobile il diritto di giacere con tutte le ragazze illibate del suo feudo. Fata - così si chiama la protagonista della leggenda, proprio a causa del suo fascino - fu l’oggetto del desiderio del feudatario, nonostante fosse promessa sposa a un pastore di nome Antonio. Il feudatario fece imprigionare il proprio rivale in amore e mandò un anello alla giovane, per chiederle di diventare la sua favorita: gli anelli, nella letteratura del Medioevo ma anche nella tradizione orale, simboleggiano spesso i rapporti sessuali e le relazioni fisiche. Fata rifiutò e vagò disperata, dopo aver saputo che Antonio era in carcere, ma nella sua erranza venne braccata da alcuni sgherri del feudatario, che involontariamente la spinsero verso il baratro. Fata si fece così il segno della croce e morì cadendo nel vuoto, preferendo la morte al concedersi a un uomo che non amava. La leggenda riporta che il fantasma di Fata giunge ancora nel luogo in cui la giovane perse la vita, nelle notte serene, a piangere e pregare. Nel 1915, la leggenda della Fata ispirò una delle prime opere poetiche in dialetto molisano, “Ru Cantone de la Fata”, di Eugenio Cirese.
Castropignano e il suo castello
Nella realtà lontana dalla leggenda, Castropignano vedeva in effetti, come detto, una famiglia di feudatari, i D'Evoli. Furono loro che iniziarono ad abitare il castello, che riporta ancora il loro stemma sulla facciata, intorno alla metà del ‘300: una struttura a pianta quadrangolare costruita probabilmente sulla base di un’altra struttura architettonica longobarda. Si dice, ma difficilmente questo aneddoto corrisponde a verità, che il castello possedesse originariamente 365 camere da letto, cosicché i feudatari potessero utilizzarne una diversa ogni notte: il castello è vasto sì, ma non tanto da giustificare 365 camere da letto, più altri vani come cucine o stanze per la servitù. Per cui, anche questo altro non è che un mito. I D’Evoli ebbero per certo un grosso ruolo nell’economia locale: gestirono infatti, per sé e per altri aristocratici, il commercio degli armenti e la transumanza, ossia la migrazione stagionale del bestiame (in particolare ovini ma non solo), insieme al personale di guardia e tutela degli animali, ossia i pastori. Così accrebbero ulteriormente per alcuni secoli la loro posizione di potere sul territorio.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Valentina Farinaccio per “il Venerdì di Repubblica” il 31 agosto 2021. Ci allontanavamo dal Molise un mese all'anno, a luglio, per andare al mare. Allontanarci voleva dire non fermarci a Termoli (dove molti campobassani avevano la seconda casa) ma proseguire per altri 31 chilometri, fino a Vasto, Abruzzo. Un viaggio esotico e lunghissimo, che durava un'ora scarsa, in verità, ma serviva a traghettarci fuori dalla regione che nessuno conosceva. Ho passato la vita a spiegare la geografia della mia città, Campobasso. A consolare chi la collocava in Basilicata, Campania, forse Calabria? A fingere divertimento davanti alla battuta consumatissima, quella sull'inesistenza della mia terra. Così oggi, mentre guido verso i 35 chilometri di costa molisana per andare a guardare da vicino il boom di turisti di cui tutti parlano, sento dentro un guizzo di felicità. Un senso di giustizia.
Street art e ponti tibetani. Il Molise è sold out. Tutto pieno. Incredibile, ma vero. Bisogna fare un passo indietro, tornare al New York Times che, un mese prima della pandemia, lo inseriva fra i 52 Places to go. Ma anche a Regalati il Molise, l'iniziativa con cui l'intraprendente borgo di San Giovanni in Galdo metteva a disposizione di chiunque si proponesse quaranta soggiorni gratuiti. Da lì, il passaparola, la curiosità, e un'inaspettata pioggia di richieste. Intanto, Selvaggia Lucarelli se ne innamorava, lo raccontava su giornali e social, prometteva di tornarci (e ci è tornata), contribuiva a far nascere il sospetto che fosse davvero un luogo da visitare. Insomma, nel funesto 2020, un'Italia costretta a rivedere le sue abitudini di viaggio, e ad arrangiarsi per le vacanze, ha scoperto che sì, il Molise esiste. "E mena forte", aggiungo, sull'onda della dirompente e commovente dichiarazione dell'isernina Maria Centracchio, bronzo nel judo a Tokyo 2020. Dunque, 12 mesi dopo m'infilo in quest'estate molisana che, come ha di recente affermato il governatore Donato Toma, registra dati «da spavento», e un «+300 per cento» rispetto a un anno fa. Dall'assessorato al Turismo della Regione confermano i numeri, il portale visitmolise.eu ha contato, nel solo mese di giugno, due milioni di visite, e i circa 11 mila posti letto di cui dispone il territorio, fra hotel, alberghi, B&B e residence, sono al completo. In pratica, i 4.500 chilometri quadrati in cui abitano, distanziatissime fin da quando non era necessario esserlo, 250 mila anime, stanno accogliendo migliaia di persone in più, che se ne vanno in giro fra il lago di Castel San Vincenzo, il ponte tibetano di Roccamandolfi, la street art d'autore di Campobasso.
Calciatori e altri vip. Caso più eclatante, Termoli. Arrivo nell'ora della siesta. Dario e Annalisa stanno fotografando il Castello Svevo. Lui di Salerno, lei di Bari, hanno scelto di risalire l'Adriatico in auto. Hanno pranzato Da Nicolino, trovato su Tripadvisor: «Abbiamo pagato venti euro a testa, per due primi di pesce. Buonissimi!». Segno il nome del ristorante, lo cerco su Google Maps: Francesco, della famiglia Caruso, ne è il gestore. Lo trovo alla cassa, ai tavoli stanno servendo amari e caffè. «La sfida era riuscire a consolidare l'exploit dello scorso anno», racconta. «E in effetti abbiamo la conferma di tanti turisti, quasi tutti italiani, molte famiglie e giovani». Ma i prezzi sono cambiati? Francesco li ha lasciati invariati: «Il mio scopo è mantenere la clientela, non perderla!». Dello stesso avviso è Antonio Terzano, chef dell'Osteria dentro le mura. Le sedie di legno colorate, intorno ai tavoli all'aperto del suo locale, sono una festa. «I prezzi non li ho alzati, non mi serve. Poi bisogna tenere conto dei nostri rivali: la Costiera Amalfitana, la Riviera Romagnola dobbiamo restare con i piedi per terra!». Pierluigi Marinelli, però, coordinatore della Federazione italiana esercenti pubblici e turistici, ammette un generale aumento dei prezzi: «Da un lato c'è la tentazione, vista la maggiore richiesta, ad approfittarne un po'. Dall'altro, ci sono gli oggettivi rincari sulle materie prime e i costi dei materiali per l'igiene». Il caffè, a onor del vero, costa ovunque un euro. Un euro e cinquanta, una bottiglietta d'acqua. È sugli ombrelloni che si specula di più: il Cala Sveva chiede ottanta euro per un giorno in prima fila. Il Lido Panfilo, sul listino prezzi, copre col bianchetto il giornaliero di agosto. Come a intendere: ve lo diciamo a voce. In un bar mi dicono che «sono arrivati anche i vip, Amedeo di Pio e Amedeo, e Quagliarella, il calciatore!», e che «molti proprietari di case hanno affittato ai turisti e se ne sono andati altrove». In effetti la città è piccola, non sono tante le strutture ricettive.
Smart working sul mare. L'Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Termoli mi comunica che i numeri sono raddoppiati: 20.147 le presenze di giugno 2021 e 9.370 quelle dello stesso mese del 2020. D'altronde, lo splendido trabucco davanti al quale sfilano tutti, inclusa me, per una foto, in autunno sarà sui barattoli della Nutella per la limited edition "Ti amo Italia". E Lonely Planet ha pubblicato la guida Abruzzo e Molise, altro fatto straordinario, se si pensa alla scarsa considerazione in cui questo pezzetto di Paese ha vissuto fino a un passato molto recente. Chiara e Filippo, da Roma, scendono in camper verso Matera. Hanno già attraversato l'alto Molise: Agnone, e la Fonderia di campane Marinelli. Prato Gentile, a Capracotta. Pietrabbondante, e il suo Teatro Sannitico. Vorrebbero andare alle cascate di Carpinone, poi ad Altilia, per l'antica città romana dissepolta di Saepinum. «Tutto il Molise ha parcheggi segnalati e aree di sosta attrezzate, ben tenute», mi dicono. E stanotte dormiranno a Petacciato, che è anche la mia prossima tappa. Fulvio Talucci mi aspetta sulla strada statale. Parcheggio sulla sinistra, il mare è sulla destra. Mi faccio guidare lungo un sottopassaggio che sembra una porta spazio-temporale: sbuco in una pineta maestosa, cicale all'opera, fresco e ombra ovunque. «Abbiamo la navetta, per chi la richiede, ma questo tratto è più bello farlo a piedi», spiega Fulvio. Così, dopo appena cinque minuti di cammino, scopro il Lido Ottanta°, l'impresa più innovativa dell'estate molisana. Aperto il 26 giugno, a seguito di un intenso lavoro di bonifica dell'area, il lido è un gioiello sul mare tutto in legno riciclato. Un'idea green, vintage eppure modernissima, che Fulvio e il socio Lino Camardo hanno avuto quando si sono innamorati di questo fazzoletto di costa che era tutto un mucchio di plastica trasportata dalle onde. Oggi, invece, c'è un ristorante di pesce che è una palafitta sul mare. Poi, tre file d'ombrelloni (anche questi in materiali riciclati) e cinque postazioni per lo smart working. Cinque veri e propri uffici, connessione rapida e prese a portata di mano, perfetti per lavorare sognando. E tutto sarà smontato a fine stagione, per lasciare la natura libera di passare l'inverno. D'accordo, ma quanto costa? «Venticinque euro al giorno», dice Fulvio, tirando su le spalle. Eccolo, il Molise. Che si prende cura di chi arriva, con calma e gentilezza. E che si rimbocca le maniche, tenace. Ripercorro la pineta, il tunnel, sono di nuovo in macchina. A pochi chilometri, di là, c'è l'Abruzzo, il ricordo di quelle fughe estive dall'invisibilità. Di qua, invece, la vita nuova della mia piccola regione: non ho mai avuto così tanta voglia di restare.
Il Molise «esiste» (e sono gli stranieri a riscoprirlo). Maurizio di Fazio il 16/4/2021 su Vanityfair.it. Tutto è partito da un mese: oggi la pagina Facebook «Il Molise non esiste» conta migliaia di followers, e racconta le bellezze nascoste della regione più verde (e sconosciuta) d'Italia. Ma sempre più amata anche dal turismo internazionale. Il Molise non esiste: si intitola così una seguitissima pagina Facebook, scaturita dal celebre meme e aperta per dimostrare l’esatto contrario: esiste, eccome se esiste. E se fino a ieri costituiva uno dei segreti meglio custoditi, adesso lo stanno scoprendo un po’ tutti, anche fuori dai confini nazionali. Nonostante una certa perdurante reticenza nell’auto-marketing, che l’accomuna al vicino e un tempo condomino Abruzzo. Il Molise esce dal secolare cono d’ombra e si appresta all’abbraccio dei viaggiatori internazionali. Dai tour-operator ai turisti sparsi. Nel 2020 ha registrato un boom dei soggiorni, +109% rispetto al 2018. Con appena 300 mila abitanti totali, difetta tuttora di un brand univoco, di un centro di gravità universale e permanente. Ma, come ha sottolineato nientemeno che la Bbc in un servizio-spartiacque di un anno e mezzo fa, il Molise ha montagne, mare spesso cristallino (35 km di costa), borghi medievali, feste antichissime, cibo delizioso. Chiese rupestri, terme naturali. Arte, cultura, archeologia. Insomma, è una destinazione a 360 gradi che in più ha il fascino di non essere conosciuta e nemmeno troppo frequentata. «A differenza di altre parti d’Italia, vi puoi ancora trovare la vita di una volta, rimasta invariata da secoli» si legge nell’articolo della celebre testata britannica. E poi è la regione più verde della penisola: il 33 per cento è ricoperto di alberi e foreste. A Portocannone, per esempio, ci sono ulivi vecchi 750 anni: un patrimonio portentoso e sono 177, nel complesso, gli alberi monumentali regionali. La cementificazione ha risparmiato finora questo territorio rarefatto e armonioso, ed è un atout da spendere, senza vendere l’anima al diavolo del turismo di massa. La pagina Facebook «Il Molise non esiste» elenca ogni giorno le sue meraviglie misconosciute, lanciando accostamenti con ben più osannate realtà planetarie. Il borgo di Pettoranello, per esempio, «immerso in una cornice naturale di rilievi che superano i mille metri d’altezza», non sembra una «Mont Saint-Michel tutta molisana, in cui le maree sono le nebbie e le fronde dei boschi?». E Pescopennataro, nell’alto Molise, non ricorda il Perù? Ad Agnone spicca invece la più antica fabbrica globale di campane, la Pontificia Fonderia: in attività da 1100 anni, ne esporta ovunque, dal Vaticano alla Torre di Pisa, da Buenos Aires al Giappone, dalla Colombia a centinaia di altre città d’Europa e del pianeta. E be’, sì, «il Molise è un set cinematografico permanente». Basti prendere il borgo di Provvidenti, interamente incassato nella roccia. 85 residenti, è tra i più piccoli del centrosud. «Qui non esiste traffico, non esistono code, non esistono negozi. Solo pace e silenzio». Cambio d’atmosfera: siamo adesso a Sant’Agapito, «non un centro benessere di lusso, ma un idromassaggio naturale. L’acqua del Molise, tante Jacuzzi a costo zero».
Il mio Molise ferito e dimenticato risorgerà anche dal Covid. Romolo D'Orazio, ModaImpresa, su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Da qualche settimana il Molise è salito alla ribalta delle cronache nazionali. Si, il “Molise che non esiste”, quella Regione che, quando da ragazzi andavamo in vacanza al Nord e ci chiedevano dove fossimo, rispondevamo “tra Roma e Napoli, hai presente la mappa?”. E’ salito alla ribalta, purtroppo, per l’enorme incremento dei contagi e per l’indice RT1 più alto d’Italia; la conseguenza è stata l’intasamento totale dei posti in Malattie Infettive e Terapie Intensive e, per la prima volta, il Molise è stato dichiarato zona rossa la settimana scorsa. Perché siamo stati graziati, fino ad oggi? Dobbiamo concludere che era solo questione di fortuna, o di tempo. E sono scaduti entrambi. Carta Bianca, Report, Diritto e Rovescio, Titolo V, per citare le trasmissioni più conosciute, hanno dedicato spazio al caso Molise; tutti si sono scandalizzati per la mala gestione, tutti solidali con la nostra piccola e sfortunata Regione, Viceministri e Sottosegretari ad affermare che il Molise non merita tutto ciò. Ora, però, prendo metaforicamente la parola, io che sono nato in Molise, che ci vivo da 49 anni, le mie figlie crescono qui e da sei anni ho scelto di fare l’imprenditore in questa regione (aggiungo che stato nominato di recente Presidente di Confartigianato Imprese Molise). E dico: ma questa meraviglia, questo stupore, questa indignazione tutta di colpo, tutta adesso? Beh, la pandemia fa notizia ultimamente, ma vorrei portare un esempio concreto che forse rende meglio la reale situazione del Molise. L’azienda che ho fondato e che dirigo da 6 anni si trova nella zona industriale di Miranda, praticamente alle porte di Isernia; in questo PIP mancano:
Rete fognaria (si, avete letto bene)
Illuminazione pubblica (non led, rinnovabili, alternative…la luce!!)
Fibra veloce (altro che digitalizzazione)
Vogliamo affrontare il tema logistica e trasporti? Tutta la zona che parte da Campobasso ed arriva ai confini con Lazio e Campania non ha una ferrovia degna di questo nome. La rete è quasi tutta a binario unico e non elettrificata. Non esistono treni veloci. Non esiste un’autostrada, che potrebbe collegarci dalla A1 alla A14. Ovviamente non c’è alcun aeroporto. Nel 2015 siamo stati dichiarati Area di Crisi Complessa, con una serie di slogan sulla manna che sarebbe scesa dal cielo, soldi a valanga per far ripartire la Regione ed il suo tessuto produttivo; risultato? Flop totale, con 2-3 aziende che hanno stoicamente provato a portare avanti il piano approvato da Invitalia (si l’ente guidato da Arcuri). L’anno scorso è partita un’altra campagna di comunicazione sul “ritorno in Obiettivo 1” dal gennaio 2021 (di fatto una nuova attestazione quale regione disastrata), con nuova ipotetica manna dal cielo in tema di risorse a fondo perduto ed occasioni di rilancio. A marzo 2021 ancora non si ha alcuna notizia concreta riguardo stanziamenti e bandi pubblici. Dopo questa rappresentazione un po’ cruda e diretta della realtà torno alla questione iniziale: di cosa si indignano, si stupiscono, si meravigliano lor signori? Il Molise è questo da decenni, dimenticato da Dio e dagli uomini (quelli delegati ad occuparsene) e la Pandemia ha semplicemente acceso i riflettori, in questa seconda ondata, sullo stato delle cose. Cogliamo allora l’occasione di questa drammatica ribalta per farci ascoltare dal Governo, per programmare bene, per rifondare questa Regione nelle fondamenta economiche, sociali e culturali. Approfittiamo dei riflettori per mostrare cosa non va ma per evidenziare, soprattutto, che ci sono anche delle risorse da utilizzare; spieghiamo che ci sono molisani seri, preparati, volenterosi, che non vedono l’ora che qualcuno dia loro retta. Interloquiamo sulla base di progetti da presentare, start up da avviare, infrastrutture da realizzare. Qui o si fa il Molise o si muore (cit.)