Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2021
IL GOVERNO
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL GOVERNO
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio.
Il tradimento della Patria.
Storia d’Italia.
Truffa o Scippo: La Spesa Storica.
Il Paese delle Sceneggiate.
LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutto va male? Diamo panem (reddito di cittadinanza) e circenses (calcio).
Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati.
Il Piano Marshall.
Il Tafazzismo Meridionale. Il Sud separato in casa.
Gli errori sull’Euro.
L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve.
SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Italia che siamo.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Libero Mercato.
I Liberali.
La Nuova Ideologia.
Vizio sinistro: criminalizzazione della Società.
Un popolo di Spie…
I Senatori a Vita.
La Terza Repubblica (o la Quarta?).
INDICE TERZA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
E la chiamano democrazia…
Parlamento: Figure e Figuranti.
L’ossessione del complotto.
L’Utopismo.
Il Populismo.
Riformismo e Riformisti.
Il Tecnopopulismo.
La Geopolitica.
La Coerenza.
Le Quote rosa.
L’uso politico della giustizia.
L’Astensionismo.
La vera questione morale? L’incompetenza.
Mai dire…Silenzio Elettorale.
Gli Impresentabili.
I Vitalizi.
Il Redditometro dei Parlamentari.
Il Redditometro dei Partiti.
Parlamento: un Covo di Avvocati.
Autenticazione delle firme per i procedimenti elettorali.
Il Conflitto di interessi.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Appalti truccati.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Concorso Truccato. Reato Impunito.
Concorsi truccati nella Magistratura.
Concorsi truccati nell’Università.
Concorsi truccati nella Sanità.
Il concorso all’Inps è truccato.
Il concorso per docenti scolastici era truccato.
Il concorso per presidi era truccato.
Esami universitari e tesi falsate.
L’insegnamento e la Chiamata Diretta.
Concorsi truccati nella Pubblica Amministrazione.
In Polizia: da raccomandato.
Precedenza ai militari.
Il Cartellino Rosso per gli Arbitri.
L’Amicocrazia.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Esame di Abilitazione Truccato.
La Casta precisa: riforme non per tutti...
SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ei fu CNEL.
Lo Spreco dei Comuni.
Lo scandalo della Pedemontana Veneta.
Immobili regalati o abbandonati.
Storia di un maxi spreco. Il super jet di Renzi.
Alitalia: pozzo senza fondo.
Giù le mani dalle auto blu.
Le Missioni dei Politici.
Le Missioni dei Giornalisti Rai.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
Il “gold exchange standard”, il “Nixon shock” e le politiche monetarie.
I Bitcoin.
Tassopoli.
Le vincite.
Il Contrabbando.
I Bonus.
Il Superbonus.
Bancopoli.
Le Compagnie assicurative.
Le Compagnie elettriche.
Le Compagnie telefoniche.
Il Black Friday.
Il Pacco: Logistica e Distribuzione.
I Ricconi alle nostre spalle.
IL GOVERNO
QUARTA PARTE
SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Appalti truccati.
APPALTI TRUCCATI SULLE CARCERI. ARRESTATO UN FUNZIONARIO AGENTE DELLA POLIZIA PENITENZIARIA. Il Corriere del Giorno il 10 Novembre 2021. Le imprese affidatarie avrebbero pagato tangenti, ai fini dell’aggiudicazione della gara, per ottenere l’appoggio di un funzionario appartenente alla polizia penitenziaria in servizio al Dap. Gli inquirenti della procura di Roma hanno scoperto un giro di mazzette per “truccare” e pilotare degli appalti per un valore di 400mila euro. Secondo l’ipotesi di reato avanzata dagli investigatori del Nucleo Speciale Anticorruzione della Guardia di Finanza, due imprenditori avrebbero corrotto con 30mila euro, un funzionario, poliziotto della penitenziaria in servizio al Dap che gli ha aiutati a vincere le gare. E ieri mattina, tutti e tre sono finiti agli arresti domiciliari rispondendo dell’imputazione di corruzione. La vicenda trae origine da un unico grande bando che è stato spacchettato in tre piccole gare indette tra il 2018 e il 2019, per evitare una competizione tra aziende a livello europeo, aggiudicate sempre alle stesse società. Sarebbe questo il primo grande aiuto che l’agente avrebbe fornito agli imprenditori a lui vicini secondo gli investigatori delle Fiamme Gialle. Due imprenditori e un funzionario della polizia penitenziaria sono finiti agli arresti domiciliari con l’accusa di aver truccato gli appalti per l’acquisto di strumentazioni di controllo in dotazione agli agenti. L’ordinanza è stata eseguita dal Nucleo Speciale Anticorruzione della Guardia di Finanza su delega della Procura di Roma che dalle indagini ha scoperto un sistema collaudato di tangenti. Grazie alle intercettazioni telefoniche e alle acquisizioni documentali, gli inquirenti hanno ricostruito un grave quadro indiziario relativo ad accordi collusivi tramite i quali alcuni contratti pubblici sarebbero stati affidati a imprenditori compiacenti. Le indagini hanno accertato delle irregolarità nella gestione e aggiudicazione di alcune procedure di gara bandite dal DAP il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per l’acquisto di apparecchiature per la rilevazione in carcere di telefoni cellulari da fornire in dotazione alla Polizia Penitenziaria.
“Tutto è corruzione”: il fantasma che può soffocare il Recovery. Basta un dirigente indagato per escludere un’azienda da una gara: è uno dei vizi di sistema indicati dal costituzionalista Caravita. Serve una svolta. Errico Novi su Il Dubbio il 29 ottobre 2021. Trent’anni da Mani pulite. Tanti. Ma sembra che ancora non bastino a consentire un cambio di scena. O meglio: solo da alcuni mesi, dall’insediamento di Mario Draghi e di una guardasigilli come Marta Cartabia, si percepiscono segnali di un nuovo corso sulla politica della giustizia. Ma l’incognita ancora da risolvere è legata al Recovery plan, ormai noto come Piano nazionale di ripresa e resilienza, cioè il target per il quale l’ex governatore della Bce è a Palazzo Chigi: la riscoperta delle garanzie intravista nel ddl penale, e in provvedimenti come il decreto sulla presunzione d’innocenza, è sufficiente ad accompagnare la nuova stagione di rilancio degli investimenti? Detta in altre parole: la svolta intravista sulla giustizia penale e la rottura con gli eccessi giustizialisti sono abbastanza profonde da consentire alcuni ulteriori aggiustamenti normativi necessari per agevolare il rilancio? È l’interrogativo posto da una delle analisi più interessanti comparse negli ultimi mesi sul pregiudizio che potrebbe arrecare, agli investimenti prossimi venturi, la cultura del sospetto radicata nel Paese: si tratta dell’articolo firmato due giorni fa sul Sole-24 Ore dal costituzionalista Beniamino Caravita di Toritto, e intitolato “Corruzione percepita e presunzione di colpevolezza”.
Il Recovery e il Codice degli appalti
Il professore parte da una norma simbolo: l’articolo 80 comma 5 lettera c) del Codice degli appalti. Stabilisce che un’amministrazione pubblica, quando apre un bando per affidare un’opera o una fornitura di servizi, può escludere un’impresa anche in virtù di «fatti nemmeno accertati con una sentenza di primo grado». Nella giurisprudenza, ricorda Caravita, la disposizione si è tradotta finora in un pregiudizio insuperabile per le aziende i cui vertici siano stati anche solo rinviati a giudizio o colpiti da misure cautelari. Non è necessaria una condanna, bastano «gravi indizi» anche non ancora sottoposti all’accertamento processuale. È un quadro allarmante, soprattutto per gli investimenti pubblici previsti dal Piano nazionale di ripresa. La distorsione degli imprenditori penalizzati per semplici sospetti mai provati in giudizio è analoga a quanto avviene con le misure di prevenzione antimafia. Sia riguardo ai sequestri dei beni e degli stessi asset produttivi, sia per le cosiddette white list, fuori dalle quali non si può partecipare alle gare. Se ne occupa, per ora con modesti passi avanti nell’iter una proposta di legge presentata da Forza Italia alla Camera.
Cosa può fare la maggioranza parlamentare
Non a caso proprio la «applicazione costante di una logica emergenziale», come la definisce Caravita, è il filo che unisce i parossismi dell’anticorruzione e quelli dell’antimafia: gli strappi ai princìpi del giusto processo e della presunzione d’innocenza, nel nostro Paese, hanno la loro origine nella lotta al terrorismo ma il loro culmine dopo la svolta stragista di Cosa nostra, e continuano a riverberarsi anche nelle leggi anticorruzione, a prescindere dal fatto che l’attacco della mafia alle istituzioni sia stato disinnescato da un quarto di secolo. Il punto è se l’attuale maggioranza è in grado di cambiare in tempi brevissimi prospettiva. Di affrancarsi dalla morsa emergenziale scattata con le stragi del ’92 e, soprattutto, dalla deriva che, con Mani pulite, ha visto la magistratura conquistare il primato nel gioco democratico. Si capirà nel giro di pochissimo tempo, settimane e non mesi, da alcuni segnali. Dalla capacità dei partiti di riportare, per esempio, le norme sulle misure di prevenzione antimafia nel perimetro costituzionale.
I segnali incoraggianti
Oggi un imprenditore assolto in via definitiva nel processo penale può restare assoggettato al sequestro dell’azienda in virtù di un “processo di prevenzione” basato sugli stessi indizi dichiarati inconsistenti nel giudizio principale. Si capirà se si vuole voltare pagina, rispetto al peso della giustizia nell’economia, anche dal destino di leggi come quelle che puntano a restringere ulteriormente l’abuso d’ufficio. Un segnale incoraggiante è che una delle tre proposte di riformare l’articolo 323 del codice penale provenga da un senatore del Movimento 5 Stelle, Vincenzo Santangelo. La forza politica più irriducibilmente adesiva alla logica dei sospetti, al paradosso della “corruzione percepita” che prevale sui fenomeni reali, ha compreso che così non si può andare avanti. Ma a trent’anni dal trauma di Mani pulite non basta. Serve ancora più coraggio e consapevolezza, nei partiti, per riconquistare il primato sottratto dalla magistratura. Il tempo stringe. Il Recovery va attuato ora. Basterà la fretta che ci impone Bruxelles? O continueremo a credere alla favola della “corruzione percepita”? Alla barzelletta dei dati sul malaffare che le organizzazioni internazionali costruiscono in base alle risposte date dai cittadini nei sondaggi, in una spirale che si autoalimenta da trent’anni? C’è pochissimo tempo per uscire dal loop. Ed evitare di perdere un treno che non ripasserà.
Parlano i numeri. Italia paese più corrotto del mondo: è solo una grande bufala. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Che cosa succede, se il legislatore affronta il problema della corruzione un po’ come si fa con le temperature estive? Inutilmente gli scienziati ti spiegano che non esiste il “calore percepito”, esiste una colonnina che ti dà i gradi giusti. Ma c’è sempre qualcuno che ti convince del contrario. E, poiché poi uno vale uno, la tua percezione finisce con il sembrarti più importante di quella del meteorologo. La storia della corruzione in Italia, non solo per l’opinione pubblica, ma addirittura per il legislatore, è un po’ così. C’è quella “percepita”, che spesso ispira chi governa e chi scrive le norme. E che è una bufala, così come la reputazione dell’Italia come uno dei Paesi più corrotti del mondo. Non è così, e ce lo spiega, anche con numeri e dati, uno “scienziato” del diritto, il professor Beniamino Caravita, nella sezione Norme e Tributi del Sole 24 ore di ieri. Ci sono norme scandalose e palesi, soprattutto perché sono state la bandiera di un partito e di un ministro, come la legge del 2019 che fu definita, perché insieme al colto fosse chiaro anche all’inclito, “spazzacorrotti”. Che subì poi a sua volta la ramazza, perché fu in gran parte spazzata via dalla Corte Costituzionale. Ma chissà in quanti se ne saranno accorti. Ma ci sono norme più subdole, e anche Istituti che già nella denominazione rivelano la distorsione culturale, come per esempio l’Anac, l’ente di controllo la cui sigla significa Autorità Nazionale Anti Corruzione. Una definizione voluta non da un ministro come Alfonso Bonafede, ma dal governo presieduto da Matteo Renzi, che volle personalmente al suo vertice un magistrato come Raffaele Cantone. Non più quindi una Commissione per la trasparenza della pubblica amministrazione o una semplice Autorità che vigilasse sui contratti pubblici, ma un organismo di contrasto alla commissione di specifici reati. Il sintomo di quell’ossessione di vedere ovunque l’illegalità che va sotto il nome di “panpenalismo”. Prendiamo per esempio il codice degli appalti. Il professor Caravita segnala la cultura di tipo emergenziale che ne ha ispirato in particolare l’articolo 80. La costante interpretazione della giurisprudenza è orientata a fare escludere da una gara pubblica operatori economici sulla base del solo sospetto della commissione di illeciti, senza che ci sia neppure una sentenza di condanna di primo grado. È pura presunzione di colpevolezza. Infatti in professor Caravita vi vede la violazione di almeno due articoli della Costituzione, il 27 sulla presunzione di innocenza e il 41 sulla libertà di iniziativa economica. Se Matteo Renzi, del cui neo-garantismo non abbiamo motivo di dubitare, ogni tanto volgesse lo sguardo all’indietro, o se semplicemente quando è stato premier avesse consultato qualche giurista fuori dall’ambiente dei cosiddetti magistrati “antimafia”, forse sarebbe approdato nella cultura liberale anche prima che venissero inquisiti i suoi genitori e lui stesso. E si sarebbe convinto della bestialità di arrivare a estromettere da una gara la società i cui vertici sono stati rinviati a giudizio. Ed è qui che aiutano i dati. Anche se non sono quasi mai numerosi, aggregati e completi. Perché gli organi competenti non li forniscono. Come ben sa, per esempio, il deputato di Azione, Enrico Costa, che non riesce mai a sapere con precisione per esempio quanti sono stati i risarcimenti per ingiusta detenzione o le motivazioni per cui in gran numero vengono rifiutati. Riportiamo, così come li elenca il professor Caravita, quel poco che si riesce a trovare. Nel 2020 le archiviazioni sono state 392.304 su 600.685 procedimenti penali, quindi oltre il 65%. Inoltre, dal Secondo Rapporto Eurispes “Indagine sul processo penale in Italia”, emerge che nel 2019 le condanne incidono per il 43,7% delle sentenze. Se poi passiamo a esaminare specificamente i processi per corruzione, quelli che dovrebbero sancire che l’Italia è uno dei paesi più marci del mondo, i dati statistici sono ancora più desolanti, se si pensa al denaro pubblico inutilmente sperperato. Nel 2016 (ultimo dato disponibile, e vorremmo sapere perché), su 480 procedimenti, solo un quarto è arrivato alla condanna degli imputati. Il che dimostra, non solo la scarsa professionalità dei pubblici ministeri e giudici che avevano istruito quei procedimenti, ma anche le gravi lacune del legislatore. Che evidentemente, proprio come succede d’estate quando ci lasciamo convincere di aver troppo caldo, magari solo per poterci lamentare di più, ha maggior fiducia nella percezione piuttosto che nella realtà dei fatti. Ma se nel caso dell’applicazione retroattiva della legge “Spazzacorrotti” l’intervento della Corte Costituzionale ha sanato un’ingiustizia che era intervenuta a colpire il bene supremo di tanti cittadini, cioè la loro libertà, nel caso della norma incostituzionale del Codice appalti, si aggiunge anche un effetto secondario ma comunque molto grave. Quello di intervenire anche a danno del sistema economico.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Fara: «Malaffare percepito: favola pagata dall’Italia a caro prezzo». Intervista al sociologo Gian Maria Fara, presidente e fondatore dell'Eurispes. "Gli indicatori sul malaffare basati su interviste e non su dati scientifici". Valentina Stella su Il Dubbio il 29 ottobre 2021. Secondo l’ultimo rapporto Corruption Perception Index di Transparency International il nostro Paese si classificherebbe al 52esimo posto su 180 per corruzione percepita. Ma per il sociologo Gian Maria Fara, fondatore e presidente dell’Eurispes, «le agenzie internazionali che elaborano le classifiche producono dei risultati privi di fondamento scientifico perché sono rilevazioni di carattere soggettivo e non oggettivo. Il risultato di una simile narrazione, scorretta quanto pericolosa, è stato il progressivo abbassamento dell’appeal del nostro Paese». Quello della corruzione percepita è un tema a cui il professor Fara tiene molto. Solo due anni fa l’istituto da lui presieduto presentò il volume “La corruzione tra realtà e rappresentazione. Ovvero: come si può alterare la reputazione di un Paese”, a cura del magistrato Giovanni Tartaglia Polcini. L’obiettivo era quello di verificare la fondatezza del giudizio espresso nei confronti dell’Italia dai più comuni indicatori di natura percettiva diffusi sul piano globale.
In questi giorni si è tornati a parlare della corruzione percepita. Report internazionali ci pongono in basso alle classifiche, tra i Paesi in cui l’indice di percezione della corruzione è altissimo.
Si tratta di un argomento che ci sta molto a cuore e che seguiamo con grande attenzione. Noi siamo da un paio di anni in polemica con le agenzie internazionali che descrivono l’Italia come una nazione ad altissimo tasso di corruzione. Addirittura ci piazzeremmo appena prima di Paesi africani, con tutto il rispetto per loro. Qualcuno definisce questo fenomeno “sindrome del Botswana”, inteso come tendenza ad accostare il nostro Paese a Stati difficilmente assimilabili all’Italia per livello di benessere e di ricchezza. È quindi un modo sbagliato di rappresentare il reale fenomeno della corruzione. Nelle nostre presentazioni e documenti abbiamo parlato del cosiddetto "paradosso di Trocadero" per cui più si combatte la corruzione, come accade in Italia, più la stessa si rende percepibile.
Ci spieghi meglio.
In Italia esiste una elevata attività d’indagine da parte della magistratura contro la corruzione. Anzi, aggiungerei che, vista la capillare presenza dei carabinieri, della polizia e della Guardia di finanza sul territorio, ci sono veramente pochi casi che possano sfuggire all’osservazione.
Il sistema giuridico italiano ha alcune peculiarità ordinamentali che lo caratterizzano: l’autonomia del pubblico ministero, l’indipendenza della magistratura in genere, l’obbligatorietà dell’azione penale, l’assoluta libertà di stampa in ordine alla pubblicazione anche delle notizie di reato fin dalle prime battute dell’indagine. Eppure più si perseguono i fenomeni corruttivi sul piano della prevenzione e le fattispecie di reato sul piano della repressione, maggiore è la percezione del fenomeno. L’effetto distorsivo collegato a questo ha concorso a penalizzare soprattutto gli ordinamenti più attivi dal punto di vista della reazione alla corruzione. Poi c’è un altro grande problema.
Prego.
Le agenzie internazionali che elaborano le classifiche producono dei risultati privi di fondamento scientifico perché sono rilevazioni di carattere soggettivo e non oggettivo. Chiedono a un campione di cittadini “credi che nel tuo Paese sia alto il livello di corruzione?”. Più dell’ 80% risponde “sì”. Ma alla domanda specifica se negli ultimi 12 mesi avessero vissuto, direttamente o tramite un membro della propria famiglia, un caso di corruzione, la risposta è negativa nella stragrande maggioranza dei casi, in linea con le altre nazioni sviluppate.
Dietro questa rappresentazione soggettiva è giusto dire che ci sia una marcata cultura del sospetto?
Certamente. Inoltre più si parla di corruzione e più si è portati a credere che il fenomeno sia in aumento. E poi c’è una tendenza aberrante a trovare subito un colpevole, a condannare prima di un processo. Se qualcuno è indagato per corruzione, si è subito portati a condannarlo. E questo aumenta la percezione del malaffare.
Non è nelle nostre corde seguire l’andamento dei processi, abbiamo l’urgenza di sparare titoloni sui giornali. Se poi l’imputato verrà assolto, nessuno forse lo saprà. Io sono un garantista e per me il rispetto del comma 2 dell’articolo 27 della Costituzione è sacrosanto. Di certo non vogliamo sottovalutare il fenomeno della corruzione, tuttavia il nostro lavoro è quello di studiarlo con indicatori oggettivi e valorizzare anche l’attività di contrasto alla corruzione che il nostro Paese mette in campo, tra le migliori al mondo.
Una cattiva rappresentazione del fenomeno corruttivo che conseguenze ha?
Il risultato di una simile narrazione, scorretta quanto pericolosa, è stato il progressivo abbassamento dell’appeal del nostro Paese e dei suoi principali attori economici sul piano imprenditoriale e finanziario, con gravi ricadute in termini di crescita e di sviluppo economico e occupazionale.
A proposito di indicatori oggettivi, voi citate le statistiche giudiziarie. Nel 2019 avete presentato l’Indagine sul processo penale in Italia’ in collaborazione con l’Ucpi: è emerso che le condanne incidono per il 43,7% delle sentenze. E secondo i dati Anci solo il 2% dei procedimenti per abuso d’ufficio termina con una condanna definitiva. Per interpretare bene il fenomeno non servirebbero dati centralizzati? Sapere da tutti gli uffici giudiziari quanti procedimenti vengono iscritti e come finiscono?
Certamente, ma sarebbe necessario anche capire quanto tempo impiegano a concludersi. Il fenomeno della corruzione è complesso: dare patenti di corrotto a un ente, a una istituzione, a uno Stato è facilissimo. Più complicato è stabilire le dimensioni reali del fenomeno. Noi per il nostro rapporto abbiamo seguito centinaia di processi, abbiamo consultato le sentenze, abbiamo seguito un metodo assolutamente scientifico, perché sappiamo quanto è delicata la materia.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Pignatone per repubbblica.it il 27 ottobre 2021. L'Italia occupa tradizionalmente posizioni non lusinghiere nelle statistiche internazionali sulla presenza di fenomeni corruttivi. Non è facile però reperire dati puntuali su cui fondare confronti significativi per stabilire se davvero da noi la corruzione sia tanto maggiore che in altri Paesi europei e, addirittura, in alcuni africani e asiatici. Si tratta, infatti, di statistiche molto spesso basate sulla cosiddetta "corruzione percepita" e che quindi penalizzano, paradossalmente, proprio i Paesi che più si impegnano nel contrasto al fenomeno, non tentano di nasconderlo e anzi ne fanno oggetto di dibattito pubblico. Su questa percezione negativa incidono due caratteristiche proprie del nostro ordinamento costituzionale - l'indipendenza della magistratura, anche requirente, e l'obbligatorietà dell'azione penale - che producono una notevole quantità di indagini e processi. Non solo: pesa altrettanto il fatto che, per cause storiche che non è qui possibile illustrare, le indagini giudiziarie su corruzione e mafia (fenomeni spesso collegati), sono da decenni parte integrante della lotta politica e trovano sui mezzi di informazione un'ampiezza di trattazione sconosciuta agli altri Paesi occidentali. A conferma di ciò, mi paiono significative due notizie di pochi mesi fa. La prima: "Airbus, 3,6 miliardi di euro per chiudere la causa di corruzione. Il colosso europeo degli aerei pagherà la somma una volta chiuso l'accordo di patteggiamento relativo ai contenziosi in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Lo fanno sapere le autorità francesi, spiegando che il maggior produttore mondiale di aerei ha già raggiunto un'intesa da 2,08 miliardi di euro con i procuratori francesi per archiviare le accuse". La seconda notizia riguarda il pagamento di miliardi di dollari da parte di alcune delle maggiori banche del mondo per definire accuse di riciclaggio, favoreggiamento del traffico d'armi e della tratta di esseri umani, oltre che per gravi violazioni della normativa sull'embargo adottato dalla comunità internazionale verso regimi dittatoriali colpevoli di crimini di guerra e contro l'umanità. Queste notizie confermano come e quanto i fattori prima indicati incidano profondamente sulla percezione del fenomeno corruttivo degli italiani. Vediamo perché.
Estratto dell'articolo di Andrea Ossino per repubblica.it il 15 dicembre 2021. Alcuni erano ancora impacchettati. Altri ben riposti negli armadi. Ma tutti i 59 abiti che hanno gettato sospetti sull’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa sono stati acquisiti su richiesta della procura di Roma. Sono invece stati fotografati i doni che Enzo Vecciarelli ha elargito ad alcuni imprenditori di Biella. Il militare, in pensione dal mese scorso, è stato coinvolto in una vicenda di appalti e corruzione che è arrivata fino al cuore delle forze armate, dove generali, colonnelli, tenenti e brigadieri avrebbero fatto affari con imprenditori che a suon di favori, assunzioni e mazzette avrebbero cercato di aggiudicarsi gare d’appalto su forniture da oltre 18 milioni e mezzo di euro. Secondo l’impostazione iniziale della Procura di Roma, a Vecciarelli, come prezzo della corruzione, sarebbero stati regalati maglioni, abiti sartoriali e anche un cappotto di cachemire. A elargire doni sarebbero stati alcuni imprenditori impegnati nel settore tessile. Tuttavia la difesa del militare, rappresentata dagli avvocati Giuseppe Falvo e Federica Mondani, si era affrettata a spiegare che ai beni ricevuti corrispondono doni effettuati da Vecciarelli, in un contesto di reciprocità e di amicizia. Per questo motivo gli investigatori hanno bussato alla porta degli imprenditori indagati e hanno fotografato ogni regalo che nel corso del tempo hanno ricevuto da quello che fino a poco tempo fa era il numero due delle forze armate. (...) L’obiettivo degli inquirenti, proprio come richiesto dalla difesa del militare, è quello di valutare ciò che Vecciarelli ha ricevuto e ciò che ha regalato. Se ci dovesse essere una corrispondenza, anche sommaria, il caso sarebbe praticamente risolto. E la posizione di Vecciarelli verrebbe archiviata. (...) sono numerosi i militari sfiorati dalle indagini. Alcuni abiti donati al generale Francesco Paolo Figliuolo avrebbero infatti acceso i riflettori degli inquirenti anche sull’attuale commissario all’emergenza sanitaria. Tuttavia la posizione dell’uomo di punta della lotta italiana al Covid sarebbe già stata chiarita. Molto probabilmente i pm richiederanno a breve l’archiviazione
Giacomo Amadori e Alessandro Da Rold per "la Verità" il 25 ottobre 2021. L'inchiesta sul generale Enzo Vecciarelli, sessantaquattrenne originario di Colleferro (Roma), capo dello Stato maggiore della Difesa dal 6 novembre 2018 sino al prossimo 5 novembre, va avanti da diversi mesi. Come anticipato dalla Verità l'alto ufficiale è accusato di corruzione e precisamente per l'articolo 318 del codice penale: «Il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a sei anni». È sospettato di aver ricevuto utilità da una coppia di imprenditori: Eugenio Guzzi, sessantasettenne bergamasco, e Rosa Lovero, sessantenne originaria di Gravina di Puglia, i quali dal 2019 sono soci in una azienda tessile di Biella, la Technical trade (Guzzi, l'amministratore unico, possiede il 93 per cento delle quote e la Lovero il 7), mentre prima lavoravano insieme nella Technical tex, anche questa biellese, in cui la moglie era amministratrice unica e titolare di tutte le quote, mentre il marito risultava tra i firmatari dei bilanci. I due imprenditori avrebbero donato a Vecciarelli, come si legge nel capo di imputazione, diversi abiti provenienti dalle loro aziende, ottenendo in cambio dal 2016 al 2021 alcuni appalti. Ricordiamo che dal 2016 al 2018 il generale di squadra aerea Vecciarelli è stato capo di Stato maggiore dell'Aeronautica, prima di salire l'ultimo gradino della carriera militare e diventare il capo di tutte le forze armate. Nel luglio del 2020 esplode l'operazione Minerva con 31 misure cautelari. Le indagini condotte dalla squadra mobile di Roma e coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Antonio Clemente svelano un sistema di tangenti e corruzione negli appalti per le forniture a esercito, carabinieri, Aeronautica e Guardia di finanza per un valore complessivo di 18,5 milioni di euro. Nel registro degli indagati vengono iscritte 49 persone fisiche e 15 ditte, accusate a vario titolo di corruzione, frode nelle pubbliche forniture e turbativa d'asta. Finiscono ai domiciliari tre militari, compresi un ex generale e un colonnello dell'Aeronautica, lo stesso Corpo di provenienza di Vecciarelli. Quattro (tre dei quali dell'aviazione) vengono sospesi dal servizio. Vanno ai domiciliari anche quattro imprenditori impegnati nei settori dell'abbigliamento militare e della digitalizzazione dei dati e ad altri 19 viene applicato il divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione. Una delle imprenditrici accusate di corruzione, E.B., inizia subito a collaborare con i pm e indica piste interessanti. Le indagini proseguono e giungono a una svolta. I magistrati aprono un nuovo fascicolo, il 40761/20, in cui indagano Guzzi e la Lovero per turbativa d'asta. A inizio 2021 perquisiscono sia la Technical tex che la Technical trade, entrambe con sede legale nella Capitale, ma con strutture operative nel Biellese.Durante le perquisizioni i magistrati sequestrano il cellulare degli imprenditori e in quello della signora trovano diversi messaggi Whatsapp con Vecciarelli, comunicazioni che a giudizio dell'accusa dimostrerebbero la corruzione. La Procura capisce bene la delicatezza dell'inchiesta e la blinda il più possibile. A metà giugno il pm Clemente convoca Vecciarelli per un lungo e teso interrogatorio. Nell'occasione al generale vengono contestate le chat con la Lovero.Tra fine giugno e inizio luglio, il generale chiede di essere risentito per dare ulteriori delucidazioni e spiegare meglio il suo rapporto con Guzzi e la Lovero. Avrebbe portato le prove di regali che avrebbe fatto a sua volta agli imprenditori, perché con gli stessi avrebbe instaurato «un rapporto esclusivamente di amicizia». Quantunque i due abbiano ottenuto commesse dalle strutture che Vecciarelli presiedeva. In estate Clemente si trasferisce alla Procura generale e il fascicolo viene preso in mano da Carlo Villani.I legali, anche dopo gli interrogatori, presentano varie memorie (quattro in tutto) mano a mano che trovavano documentazione utile a «ricostruire rapporti personali e famigliari di amicizia di lunga data». E quindi i vestiti in dono sarebbero conseguenza di questo legame. «Quando mai un corrotto contraccambia i beni che ha ricevuto» è la sintesi dei legali. Non sappiamo, però, quali regali il generale facesse a Lovero e Guzzi. Per la difesa, comunque, qualcosa di certamente più importante di una cravatta o di un profumo. Insomma doni equiparabili per valore a quelli ricevuti. Dai messaggi, però, probabilmente questo scambio paritario non risulta così evidente. Ed ecco il motivo di un'indagine che sembra tutt' altro che chiusa. Gli avvocati Federica Mondani e Giuseppe Falvo ieri hanno spiegato alle agenzie: «Nel corso degli incontri con i magistrati il generale Vecciarelli ha ampiamente risposto a tutte le domande dimostrando, con corredo di cospicua documentazione, la sua completa estraneità rispetto ai fatti contestati e come non abbia mai ricevuto alcun provento o utilità illecita nello svolgimento delle proprie funzioni». E hanno aggiunto: «È tranquillo, seppur rammaricato, e desideroso di chiarire definitivamente e al più presto la propria posizione personale oltreché di contribuire, qualora possibile, sulle base di elementi di cui è a conoscenza per l'esercizio della sua funzione, alla ricerca della verità». Adesso bisognerà capire se la Procura deciderà di chiedere l'archiviazione per il generale o invierà, come sembra più probabile, l'avviso di chiusura delle indagini a lui e a un'altra sessantina di coindagati, un atto propedeutico alla richiesta di rinvio a giudizio. La Technical tex è impegnata sin dalla sua nascita nel settore dell'abbigliamento militare, ma anche nell'aeronautica e nell'aerospazio. È specializzata nella progettazione e produzione di tessuti e non-tessuti sempre realizzati «con fibre high performance», come riporta il sito Internet ancora funzionante. Producono materiale di protezione per automobilisti, ma anche per i Vigili del fuoco. A una prima cernita su Internet risultano nel 2017 quattro affidamenti diretti per 13.300 euro da parte dell'Arma azzurra per uniformi e giubbotti e brevetti e due nel 2018 del valore di 3.000 euro per le uniformi maschili della banda musicale. I conti della Tex sono sempre stati abbastanza in difficoltà, nonostante i fatturati non trascurabili (dai 2,1 milioni del 2015 all'1,8 del 2019). Nel 2017 si calcolava un utile di esercizio pari a 33.510 euro, mentre nel 2019 si assottiglia fino ad arrivare a 2.052 euro. In quello di chiusura del 2020 si registra una perdita netta pari a 287.383 euro. Così il 5 novembre dello scorso anno, a causa dell'emergenza sanitaria, è stato deliberato lo scioglimento della società dal notaio Silvia Teodora Masucci. Meglio sta andando negli ultimi due anni con la Trade, nata nel 2019 sempre per la produzione e il commercio di filati. L'utile nel 2019 toccava quasi i 10.000 euro, nell'ultimo bilancio è arrivato a quasi a 60.000, a fronte di un fatturato di 4,2 milioni.Ieri mattina anche il generale Vecciarelli è intervenuto sulla vicenda che lo riguarda, con poche e asciutte parole: «Sono sereno perché ho sempre adempiuto al mio dovere, mettendomi a completa disposizione dell'Italia e degli italiani».
Come funzionano i subappalti, previsti dal decreto semplificazioni di Draghi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Il Decreto Semplificazioni vede la luce e rimette pace, miracolosamente, alle polemiche tra i partiti. Dopo aver speso molte energie nel batti e ribatti che si è prefissato con Salvini, Enrico Letta inforca la via maestra e rimette i piedi nel piatto delle grandi riforme. Lo fa toccando quattro punti essenziali, con quattro proposte puntuali che il Pd fa proprie. Comincia con una battaglia contro il gruppo misto di Camera e Senato, che «dovrebbe essere un faticoso purgatorio, ma è un paradiso per parlamentari che fanno quello che vogliono e senza alcun controllo». Al suo posto, Letta vedrebbe bene il gruppo dei non iscritti, come nel Parlamento europeo. E poi lancia la suggestione della sfiducia costruttiva, «per sostituire un governo con un altro, come in Germania: non si può fare se non indichi già la nuova maggioranza». E punta poi ad un vulnus lacerante, chiedendo l’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione per regolare la vita dei partiti. Un tema che riguarda quasi tutti, ma in maniera eclatante l’alleato a Cinque Stelle. Il Movimento oggi vive l’impasse più grave, non può eleggere il suo leader perché non conosce i suoi iscritti, e va verso un problema immediato non meno serio: chi detiene il simbolo M5S, legalmente, oggi? Perché a Roma, Napoli, Milano c’è da presentare le liste e a farlo potrebbero perfino essere gruppi diversi tra loro, in assenza di una gerarchia, di un regolamento, di una titolarità riconosciuta. C’è poi nei desiderata del leader Pd la necessità di rimettere mano alla legge elettorale. «La malattia democratica si è acuita con le liste bloccate e i criteri di cooptazione e fedeltà». L’acuirsi della malattia nell’ottica dem si riverbera su un consenso elettorale che finisce per premiare la destra. Lega e Fdi, sommati, sono stabilmente sopra il 40% e per provare a batterli serve un centrosinistra largo capace di «incontrarsi con i 5 stelle». Dopo aver incontrato il premier Draghi, Letta sposta dunque l’asse sul futuro («Serve un Pnrr delle riforme»), senza esacerbare le criticità sulla decretazione in corso. Vero, i sindacati sono tornati in piazza, ma più per ribadire l’importanza del ritorno alla concertazione che per alzare barricate. Il giorno dopo l’incontro con il premier, grazie al quale hanno incassato lo stralcio dal decreto semplificazioni del massimo ribasso per gli appalti, i leader sindacali si sono dati appuntamento a piazza Montecitorio – ricevuti poi a palazzo dal presidente della Camera Roberto Fico –per sollecitare il Parlamento a modificare la norma sui licenziamenti. Per il leader della Cgil Maurizio Landini la mobilitazione «continua, perchè la partita non è chiusa». Concluso il presidio dei sindacati, ha preso il via l’atteso Consiglio dei Ministri con il Dl Semplificazione finalmente al voto. Le novità sono importanti e recepiscono tanto la piazza sindacale quanto le trattative bilaterali: il nome del decreto è rispettato, al di là della retorica si vedono misure sulla semplificazione per appalti su opere pubbliche. Sale al 50% la soglia per i subappalti fino al 31 ottobre 2021, sia pure in una “fase transitoria”. Nei bandi di gara e nei contratti pubblici previsti dal Pnrr «è requisito necessario dell’offerta l’assunzione dell’obbligo ad assicurare una quota pari almeno al 30 per cento, delle assunzioni necessarie per l’esecuzione contratto o per la realizzazione di attività ad esso connesse o strumentali, all’occupazione giovanile e femminile». Il decreto prevede l’accesso semplificato per usufruire del beneficio fiscale del Superbonus 110%, attraverso la Comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila). Ma c’è anche la garanzia richiesta dal Pd e in particolare da Franceschini: con l’istituzione di una Soprintendenza speciale per il Pnrr, ufficio di livello dirigenziale generale straordinario operativo fino al 31 dicembre 2026, per svolgere funzioni di tutela dei beni culturali e paesaggistici. Infine, luce verde per la «Piattaforma Dgc (Digital Green Certificate) per l’emissione, il rilascio e la verifica delle certificazioni Covid-19 interoperabili a livello nazionale ed europeo è realizzata, attraverso l’infrastruttura del Sistema Tessera Sanitaria e gestita dalla stessa per conto del Ministero della salute, titolare del trattamento dei dati generati dalla piattaforma medesima». Il pass vaccinale internazionale è realtà. Al termine della riunione soddisfazione generale: per Italia Viva «si è raggiunto un risultato insperabile fino a poche settimane fa». Boschi twitta: «Messo il turbo». Il Movimento Cinque Stelle vede riconosciute le sue istanze, Forza Italia gongola e tra i ministri scrive l’happy end Renato Brunetta: «La prima milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza è raggiunta. Nel pieno rispetto del cronoprogramma, il cdm ha approvato il decreto per far marciare veloci i progetti del Recovery Plan».
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
«Più controlli sulla professionalità di Consip». Dagli studi legali la critica alla centrale che «rallenta gli appalti». Il Dubbio il 24 aprile 2021. In un lungo comunicato, l’ex sottosegretario alla presidenza Carlo Malinconico e il suo “socio” nell’attività professionale Domenico Gentile propongono una lettura diversa sulle cosiddette semplificazioni: prima che il codice, dicono, va modificata l’efficienza della centrale di acquisti. Finora le semplificazioni negli appalti si sono riverberate in un discutibile svuotamento della tutela giurisdizionale in ambito amministrativistico. Così è andata con il decreto che appunto alle “Semplificazioni” ha visto intestato anche il proprio nome. Ma la strada per una maggiore efficienza nell’affidamento di appalti e servizi può essere legata anche alle procedure pubbliche di acquisto, dunque alla Consip: è il punto di vista espresso dall’avvocato ed ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Malinconico e dal suo “socio” nell’attività professionale Domenico Gentile. Seppur dal punto di vista di chi, nelle controversie con Consip è stato “parte”, lo studio associato diffonde una lunga nota stampa per proporre appunto una lettura critica innanzitutto nei confronti della centrale acquisti. Si sostiene che «per dar forza alla ripresa post-covid, Governo e Parlamento sembrano oramai orientati ad un’ulteriore semplificazione della normativa in materia di appalti e concessioni, volta per lo più a velocizzare la realizzazione delle opere pubbliche e infrastrutturali di cui ha tanto bisogno il Paese. Ed è un bene che si vada per questa strada» osservano appunto Malinconico e Gentile. «La strada alternativa proposta dall’Agcm, di una “sospensione” integrale del codice, è difficilmente percorribile», si legge ancora nel comunicato, «anche perché le direttive non sono self executing. Ma si deve ragionare anche sullo stato del processo di centralizzazione da anni in corso in Italia, poiché anche l’acquisto di beni e servizi, che da soli quotano circa l’11% del Pil nazionale, si sta dimostrando su più fronti inadeguato, come testimoniano i continui annullamenti giurisdizionali di gare centralizzate, che producono danni alle imprese». E qui appunto Malinconico e Gentile fanno riferimento ai contenziosi curati direttamente dal loro studio: «In particolare, con sentenza n. 2259 del 16.3.2021, il Consiglio di Stato ha annullato la gara Consip per l’affidamento dei servizi museali di accoglienza presso il Parco Archeologico del Colosseo. Con un valore di oltre 560 milioni di euro, si tratta della più importante gara del settore a livello europeo e probabilmente di una tra le più importanti a livello mondiale, vista anche la rilevanza storica e archeologica del monumento, che è il simbolo dell’Italia nel mondo. A breve distanza di tempo, con sentenza n. 2284 del 17.4.2021, il Consiglio di Stato ha poi definitivamente annullato un’altra importante gara Consip, questa volta per l’affidamento dei servizi di stenotipia, fonoregistrazione e trascrizione dei verbali delle udienze penali, indetta per il Ministero della Giustizia. Infine, con sentenza n. 3036 del 12.3.2021, il Tar del Lazio», ricordano ancora Malinconico e Gentile, «ha condannato Consip a corrispondere ad un operatore economico un importo pari alle spese sostenute per prender parte ad una gara indetta nel 2015 (“Servizi integrati di vigilanza presso i siti in uso, a qualsiasi titolo, alle Pubbliche Amministrazioni”), anch’essa annullata dal Tar Lazio (sentenza n. 9441/2016, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 1038/2017), per violazione dell’obbligo di suddivisione delle gare in lotti funzionali adeguati alle esigenze partecipative delle Pmi. «Non siamo contro la centralizzazione e non ci piace apparire come avversari, per pregiudizio, della Consip. Ma l’annullamento di due gare così importanti nell’arco di un solo mese – e questo è il dato che conosciamo, perché si tratta di giudizi ai quali abbiamo partecipato – ingenera un meccanismo perverso, che frena lo sviluppo dell’economia e la produzione di ricchezza e del Pil, non meno di quanto non avvenga con il blocco delle opere pubbliche. I servizi di accoglienza al Colosseo sono svolti dalla stessa società cooperativa da oltre vent’anni, e lo Stato ci perde decine di milioni ogni anno. La trascrizione dei verbali delle udienze penali è un’attività molto delicata ma è anche un business da milioni di euro, in un comparto nel quale operano pochissimi operatori ai quali il bando annullato avrebbe garantito ancora una volta il mantenimento dello status quo». Perciò, per Malinconico e Gentile, «la gara per la vigilanza non è più stata pubblicata dopo l’annullamento del 2017 e in sede locale si perpetuano meccanismi non trasparenti tra grandi imprese, spesso in danno della concorrenza, in un mercato che non ha ancora colmato il gap frutto delle tariffe di legalità e della licenza su base territoriale. Intanto il giudice amministrativo inizia a dire che qualcuno dovrà pagare, se una gara viene annullata per leggerezze dell’amministrazione. E non può che essere così, perché le parti del rapporto contrattuale vanno poste su un livello di parità: chi sbaglia paga. Sembrano, così, lontani i tempi del soccorso istruttorio “a pagamento”, in cui l’Amministrazione poteva applicare sanzioni sino a 50.000 euro per ogni tipo di errore commesso dall’impresa, all’atto della partecipazione, mentre la P.A. non rispondeva mai del proprio operato». «Si deve quindi andare avanti con la qualificazione delle stazioni appaltanti, e andrebbe rimeditata», è la chiave del discorso, «la regola secondo cui Consip e le centrali regionali d’acquisto sono qualificate ex lege. Sono i buyer più influenti, e vanno sottoposti ai controlli di adeguatezza quanto a formazione professionale e al numero di gare annullate al pari degli altri».
Alessandro Da Rold per "la Verità" il 22 aprile 2021. Nonostante le polemiche per le assoluzioni in primo grado nel processo sul giacimento nigeriano Opl 245, e le tensioni interne in vista della scadenza del procuratore capo Francesco Greco, la Procura di Milano rimane un punto di riferimento per la lotta contro la corruzione in Europa. Non si spiegano altrimenti le nomine di questi giorni di ben 6 magistrati, tra cui 3 del dipartimento affari internazionali - Reati economici transnazionali, diretto da Fabio De Pasquale, che è la pubblica accusa contro Eni e Shell insieme con Sergio Spadaro. Tra questi sono stati scelti Gaetano Ruta, lo stesso Spadaro e Donata Costa. Altri invece arrivano dal pool anticorruzione, come Giordano Baggio, dalla Dda (Direzione distrettuale antimafia) come Adriano Scudieri e infine da Bruxelles, come Elisa Moretti, consigliere giuridico a Bruxelles. Tutti faranno parte della Procura europea antifrodi comunitarie, che si concentrerà su tutti i tipi di reati che ledono gli interessi finanziari dell' Ue. Ruta, Baggio e Spadaro saranno distaccati a Milano, Costa a Venezia, Scudieri a Torino e Moretti a Bologna. Nei corridoi del palazzaccio le definiscono «nomine politiche» e (c' è anche chi fuori dai microfoni si rivela sollevato per l' esodo), ma si fa anche notare come manchi il nome di un' esperta in materia come Tiziana Siciliano, che nel 2008 era stata tra le prime a portare avanti un' indagine sulla distrazione dei fondi comunitari per oltre 50 milioni di euro. Il sospetto è che possa essere stata accantonata per le tensioni interne di questi mesi e soprattutto perché indipendente. Eppure, proprio su questo tipo di lavoro si svilupperanno le indagini della Procura. Saranno condotte sul territorio degli Stati membri e i casi saranno portati dinanzi ai Tribunali nazionali. Al momento le frodi a danno dell' Europa erano di competenze della sola magistratura nazionale, ora invece i pm incaricati avranno poteri transnazionali. Ci sarà un livello centrale in Lussemburgo che farà da supervisione poi al lavoro dei Procuratori delegati. Quest' anno lo stesso De Pasquale sarà il punto di riferimento dell' Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che invierà in luglio i commissari in Italia per verificare la lotta alla corruzione nel nostro Paese. A scegliere il pm che da 30 anni si occupa di Eni, senza particolari successi, è stato l' ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che lo ha individuato come il magistrato simbolo contro la corruzione. Parte delle accuse nel processo della presunta tangente da 1 miliardo di dollari ruota intorno alla convenzione Ocse del dicembre 1997 che impone agli Stati aderenti di perseguire le tangenti a politici stranieri. Il punto è che le tangenti bisognerebbe trovarle. Nel 2021 l' obiettivo dell' Ocse è quello di intensificare il lavoro dei governi su un tema che penalizza l' economia e aumenta le diseguaglianze. Per di più questo è l' anno del G20 italiano, quindi il nostro Paese avrà un ruolo cruciale nel lancio della nuova Procura. È dal 2017 che i magistrati milanesi hanno iniziato un lavoro di avvicinamento alle richieste di Bruxelles. Il dipartimento diretto da De Pasquale nacque in occasione della riorganizzazione della Procura da parte di Francesco Greco. Lo scopo era quello di trattare in maniera specializzata le indagini riguardanti gli affari internazionali e i reati economici di natura transnazionale. La necessità di creare questo tipo di unità specializzate per combattere la corruzione internazionale era stata chiesta proprio dell' Ocse al nostro Paese. Tra i casi trattatati appunto quelli di corruzione e riciclaggio. Il problema è che su entrambi i fronti non sono stati anni di successo per la Procura milanese. Il processo contro Saipem in Algeria, finito con l' assoluzione di tutti gli imputati, fu criticato dai giudici della corte d' Appello nelle motivazioni, perché la pubblica accusa aveva mancato «approfondimenti» e si sarebbe limitata «a chiederne la condanna alle sanzioni amministrative pecuniarie ed interdittive». Per di più la seconda sezione penale presieduta da Giuseppe Ondei aveva criticato il lavoro del pool di De Pasquale, sottolineando l'«assoluta carenza di prova circa le asserite irregolarità procedurali» come documenti fondati «su note aperte non verificate». Ora si attendono le motivazioni dell' assoluzione in primo grado dell' amministratore delegato Claudio Descalzi e dell' ex numero uno Paolo Scaroni. Ma intanto un antipasto è arrivato dal Procuratore generale, Celestina Gravina, che nella requisitoria del processo di appello per i due presunti intermediari della tangente nigeriana, ha duramente attaccato le tesi dell' accusa, parlando «di fatti privi di prova fondati sul chiacchericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale».
In Campania è guerra a burocrazia e abuso d’ufficio. De Luca vuole nuove regole per gli appalti, ma non ha fatto i conti con i magistrati…Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, è tornato su uno dei suoi cavalli di battaglia e l’altra sera, in giunta, ha portato una proposta di legge da sottoporre al Parlamento nazionale per riformulare l’abuso di ufficio e rivedere il sistema dei ricorsi al Tar. L’occasione è la riflessione sul Recovery Fund. L’obiettivo dichiarato è, in estrema sintesi, sburocratizzare il Paese per dare nuovo impulso all’economia. Come? Secondo la proposta del governatore, andrebbe prevista l’istituzione del risarcimento economico per le imprese che presentano ricorso contro le aggiudicazioni dei lavori pubblici ritenendo che siano i ricorsi amministrativi a bloccare per mesi i cantieri. Per cui, spiegano dalla Regione, «si prevede che si vada avanti nelle opere oggetto di contenzioso con un risarcimento economico al ricorrente che dovesse vincere in sede di giustizia amministrativa». Di fronte a una simile proposta, pronta è arrivata la replica dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi. «Una riforma del genere porterebbe a ridurre il controllo effettivo sulla scelta dell’appaltatore, anche a costo di pagare le opere due volte e danneggiare due volte i cittadini e le imprese», ha spiegato la presidente dell’Anma Gia Serlenga. «Della proposta fatta – afferma – è sbagliata già la premessa, ovvero che sarebbero i ricorsi amministrativi a bloccare per mesi i cantieri. Gli appalti non sono affatto bloccati dai ricorsi al Tar». «È singolare – aggiunge la rappresentante dei magistrati amministrativi – il fatto che, quando la politica decide di intervenire con urgenza sui blocchi degli appalti, lo faccia guardando sempre e solo alla fase dell’aggiudicazione e alla conseguente eventuale fase dei ricorsi al Tar contro l’aggiudicazione stessa, sebbene i dati dicano altro. Meno del 2% delle gare bandite è oggetto di impugnazione e il giudice amministrativo è veloce nelle decisioni, come dimostrano i risultati quotidiani, compreso il periodo dall’inizio della pandemia ad oggi, che ha bloccato l’intero Paese ma non ha rallentato le attività dei Tar». «Quello che semmai si registra – osserva Serlenga – è l’autosospensione da parte della stazione appaltante, ma questo è un altro tema. Inoltre nessuno dice che alle aggiudicazioni definitive non corrispondono altrettanti cantieri esecutivi, cioè che lo stallo avviene spesso nella fase dell’esecuzione». «Mi chiedo – conclude Serlenga – quanto sia ragionevole proporre una riduzione di tutela per le imprese, con un aggravio notevole dei costi per le tasche dei cittadini, quando la soluzione dovrebbe andare in un’altra direzione: cambiare il controllo sulla fase esecutiva e individuare soluzioni per migliorare la Pubblica Amministrazione e la qualità delle norme».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Da liberoquotidiano.it il 19 aprile 2021. Nando Dalla Chiesa, fratello di Rita, conosce bene Giovanna Boda, la dirigente del Miur coinvolta in una inchiesta sul Miur per corruzione che ha tentato il suicidio. E ha un sospetto: che qualcuno abbia voluto appositamente colpirla. La Boda, scrive Dalla Chiesa sul Fatto quotidiano è "una donna a cui il mondo della scuola deve tantissimo e a cui deve tantissimo il movimento antimafia", "con un senso delle istituzioni da fare invidia a uno statista". Però è stata messa alla gogna dal quotidiano La Verità in un articolo nel quale, prosegue Dalla Chiesa "ho trovato una combinazione di particolari che mi hanno inquietato. A partire dalla fine, in cui la dirigente del ministero viene accostata a Luca Palamara, solo perché, per conto del suo ministro dell'epoca Elena Boschi, gli dà un appuntamento, in un quadro del tutto estraneo all'indagine per tempi e per materia. Insomma, accostamento gratuito e voluto". "Siamo la rete del bene", diceva sempre la Boda ma "non a Palamara, ma a chi si spendeva nell'antimafia". Insomma, attacca Dalla Chiesa: "Un articolo scoop senza notizia di reato. In cui si allude a una 'soffitta nelle disponibilità della donna' per dire del solaio di casa sua. Un riferimento insipido a Palamara". Quindi il sospetto: "Giovanna era stata messa da poco, in qualità di commissaria, alla testa dell'ufficio scolastico della Calabria, la regione che non si può toccare, dove neanche le riprese televisive dei grandi processi si possono fare. E di colpo è diventata una corrotta". Altre due persone, che Dalla Chiesa conosce bene, oltre alla Boda, "ho visto descritti sui giornali (o dai magistrati) come criminali: Francesco Forgione, ex presidente dell'antimafia che ha messo il dito nelle parentele tra magistrati e milieu mafiosi in Calabria; Claudio La Camera, tra i fondatori del museo della 'ndrangheta a Reggio Calabria". Tutte e tre "persone per bene", conclude Dalla Chiesa, "tutte e tre sottoposte a indagini o processi per me incredibili. E mi viene un rovello". La domanda è: "Dove nasce l'input di quell'articolo", "chi ripesca in chilometriche intercettazioni del tutto estranee lo scampolo di una lontana conversazione con Palamara, chi ha bisogno di colpire l'immagine e la credibilità di Giovanna Boda?".
Maurizio Belpietro per "la Verità" il 20 aprile 2021. Ho letto con attenzione l'articolo scritto ieri da Nando Dalla Chiesa sul Fatto Quotidiano. Si tratta di un pezzo dedicato all'ormai nota vicenda di Giovanna Boda, la dirigente del ministero dell'Istruzione che, indagata dalla Procura di Roma per corruzione, si è buttata dalla finestra dello studio del suo avvocato. I lettori conoscono bene la storia, perché La Verità è stata la prima a raccontarla. Molto probabilmente invece, non conoscono il commento vergato da Dalla Chiesa, che dell'alta funzionaria ministeriale si dichiara amico. Si tratta di un articolo «da far studiare per anni nelle scuole di giornalismo», affinché i futuri cronisti imparino che cosa non si deve scrivere su un giornale. Sotto un titolo che dice tutto - «Vietato toccare la Calabria. Qualcuno voleva colpire Giovanna Boda?» - il sociologo un tempo campione della «società civile», fa quello che non si dovrebbe fare: allude. Scrive un articolo lamentando che il nome della Boda sia stato accostato a quello di Luca Palamara, un tempo deus ex machina delle Procure, comprese quelle antimafia, ma oggi caduto in disgrazia e dunque accuratamente rimosso dalla memoria collettiva dei puri e duri. La dirigente parlava con Palamara? Meglio non dirlo, perché non sta bene. Come nell'Unione sovietica dei bei tempi di Stalin che tanto piacevano a chi militava a sinistra, i personaggi scomodi vanno cancellati anche dai ricordi, oltre che dagli atti ufficiali. Ma il meglio, il compagno Nando lo dà quando parla delle accuse mosse a Giovanna Boda. Lui che per anni ha applaudito a ogni inchiesta della magistratura, anche a quelle politicizzate, di fronte alle indagini dei pm di Roma parla di strano caso. «La colpa: due affidamenti sotto i 40.000 euro, prassi seguita da ogni ente pubblico e ministero per i lavori minori, perché non è reato. Un articolo scoop (quello della Verità, ndr) senza notizia di reato». Il giudice Dalla Chiesa insomma, ha già emesso la sentenza. Che la magistratura abbia fatto perquisire gli uffici del ministero da un drappello di finanzieri, ipotizzando il reato di corruzione, al sociologo con la toga sfugge. Per lui è chiaro che il reato non esiste, anche se l'unica cosa chiara è che il commentatore non ha letto gli atti dell'inchiesta di cui scrive. Tuttavia Dalla Chiesa, oltre a sentenziare sicuro sull'inconsistenza dell'inchiesta con lo stesso piglio con cui trent' anni fa, durante Mani pulite, emetteva giudizi di colpevolezza, si stupisce perché nell'articolo si parla di una «soffitta nelle disponibilità della donna», quando in realtà si tratta di un solaio di casa sua. Che senso ha, si chiede? Ma non è un articolo a parlarne, bensì un'ordinanza che dispone la perquisizione. E forse, chi scrive di giustizia dovrebbe per lo meno cercare di comprenderne la differenza. Infine, siccome Giovanna Boda un mese fa era stata nominata commissaria dell'ufficio scolastico della Calabria, l'esperto di criminalità organizzata si chiede come all'improvviso l'amica sia «diventata una corrotta». Come e perché tre suoi amici - tutte persone per bene, assicura - siano stati sottoposti a indagini o processi per lui incredibili. «Mi viene un rovello, che gira sempre di più nella mente. Dove nasce l'input di quell'articolo (sulla Verità, ndr), chi e perché suggerisce quella storia a un giornalista?». Il metodo è quello dell'antimafia di professione, quella che ha costruito grandi processi e grandi carriere sul nulla. Se non sai spiegare una cosa semplice, ovvero un'indagine con un'accusa precisa, cerca di capire che cosa c'è dietro, lancia qualche sospetto, insinua il dubbio, alludi al fatto che una funzionaria arrivata in Calabria da un mese e pendolare avanti e indietro da Roma può aver pestato i piedi e un giornalista - su input di qualcuno - si è incaricato di sistemarla. Dalla Chiesa, che la mafia la conosce bene perché ne è stato duramente colpito, sa che cosa significa «mascariare». È un termine siciliano che indica un'arte subdola, che serve a schizzare fango e viene usata per confondere. Ora, se lui pensa che qualcuno abbia accusato ingiustamente Giovanna Boda pur di toglierla di mezzo, dovrebbe bussare alla porta della Procura di Roma, perché è lì che è nata l'inchiesta e sempre lì che è stata firmata un'ordinanza di perquisizione. I rovelli sono sospetti e gettarli a caso è un modo perfetto con cui gli amici degli amici si coprono fra loro. Insomma, caro Dalla Chiesa, se ha qualche cosa da dire si rivolga ai magistrati altrimenti, invece di scrivere articoli in cui nega che sia stato contestato un reato (una perquisizione non si fa se non si ipotizza un reato e questo lo sa anche uno studente al primo anno di giurisprudenza), legga le carte: imparerà qualche cosa. Anche a non scrivere stupidaggini.
Il giornalismo spietato contro Grillo e Boda. Il figlio del comico subisce un processo a mezzo stampa. Come lo ha subito la dirigente del ministero dell'istruzione indagata per corruzione. E' ora che procure e giornalismo separino le carriere. Davide Varì su Il Dubbio il 20 aprile 2021. Il messaggio è duro. Ed è rabbioso. A tratti appare come la rabbia dolente di un padre che da anni assiste al processo (per ora tutto mediatico) al proprio figlio accusato di stupro. Uno stillicidio quotidiano con titoli sparati e foto impietose. «Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri tre ragazzi. Se fossero veri stupratori seriali li avrei portati io in galera a calci nel culo», ha infatti urlato nel suo breve video: un minuto, o poco più, di urla. Un flusso ininterrotto di accuse. È un dolore vero, quello del comico. Forse sguaiato e con tratti di insopportabile di misoginia. E’ un dolore che non ha tenuto conto di chi ha denunciato quella violenza. Ma tutto questo sarà esaminato in un’aula di tribunale, non siamo qui a emettere sentenze. Anzi, è esattamente quello da cui dobbiamo tenerci alla larga. Qualcuno in queste ore ricorda a Grillo che lui e suo figlio stanno subendo lo stesso trattamento che i suoi militanti hanno riservato a decine, centinaia di persone indagate e processate a mezzo stampa. Potremmo ricordarglielo anche noi del Dubbio, ma sbaglieremmo perché ora Grillo è dall’altra parte della sbarra, dalla parte dell’imputato. La vicenda del figlio di Grillo arriva pochi giorni dopo il tentato suicidio di Giovanna Boda, la dirigente del ministero dell’Istruzione indagata per corruzione che si è gettata dallo studio del suo avvocato dopo aver visto altri titoloni e altre foto impietose di un’indagine ancora in corso. Sono storie dolorosissime che ricordano a tutti noi quanto sia indispensabile e urgente che i giornalisti si tengano ben lontani dai magistrati. E viceversa. E forse, come qualcuno ha già detto, è questa la vera e più urgente separazione delle carriere che va realizzata.
Il caso della dirigente Miur. Ipotesi di reato di un Pm e gogna mediatica possono uccidere, il dramma di Giovanna Boda e l’ipocrisia della libertà di stampa. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Una stimata funzionaria del Miur apprende di essere indagata dalla Procura della Repubblica di Roma per una ipotesi di corruzione. Avrebbe intascato più di 600mila euro per una serie di appalti. Va ad incontrare l’avvocato ma, nell’attesa, cede alla disperazione e si lancia giù dalla finestra. Ora lotta tra la vita e la morte. Non so nulla, ovviamente, di questa signora e della sua vicenda. Conosco invece perfettamente, come ogni avvocato penalista, le dinamiche sempre drammatiche che si innestano nella mente di una persona che, d’improvviso, raggiunta da un grave sospetto, diventa preda del branco. Perché di questo si tratta. In nome di un malinteso, anzi di un pretesto: il diritto-dovere di informare i cittadini, dicono. Io invece dico che qui l’informazione non c’entra nulla. Come fai a dare informazione di qualcosa che non conosci? Come puoi rivendicare il diritto di diffondere una notizia geneticamente parziale e unilaterale, che non sei in grado di verificare nella sua fondatezza? Un avviso di garanzia non fornisce informazioni sufficienti nemmeno all’indagato, figuriamoci a chi non sa nulla della vicenda. Per non dire che, di per sé, quella notizia è (non a caso) coperta dal segreto investigativo. Non è divulgabile la notizia della pendenza di una indagine su qualcuno, non dovrebbe. Ma le sanzioni sono ridicole, anzi inesistenti. Ovviamente, se divulghi la notizia di una indagine in corso, non potrà che essere una notizia tutta modellata sulla ipotesi accusatoria. Una notizia parziale rispetto alla quale le persone coinvolte sono disarmate, prive di un qualsivoglia diritto di replica. Cosa dovrebbero dire? Sono innocente? Certo, come no, pensa che notiziona. L’ipocrisia e la viltà intellettuale che ruota intorno a questa malposta rivendicazione del diritto–dovere di informazione mi è davvero intollerabile. Cosa urge, intorno alla apertura di una indagine? Cosa sottrarremmo alla conoscenza pubblica, vietando la diffusione di quella che è in realtà una non-notizia? Un pm riceve notizia di un fatto che egli reputa potrebbe avere rilievo penale, iscrive l’indagato nell’apposito registro e inizia la sua attività di verifica e di approfondimento investigativo. In nome di quale diritto, e del diritto di chi soprattutto, deve essere lecito rendere pubblico questo fatto, che per sua natura è lontanissimo dall’aver raggiunto connotazioni non dico di certezza, ma nemmeno di ragionevole plausibilità? Si tratta di una ipotesi, ripeto, unilaterale, che ancora non si è nemmeno misurata con una seppur sommaria confutazione difensiva. L’ipocrisia e la viltà intellettuale di cui dicevo si inverano nella dolosa indifferenza ai costi enormi, ingiustificabili e del tutto sproporzionati, che la pubblicazione della non-notizia qualcuno pagherà inesorabilmente. Sappiamo tutti perfettamente come la notizia di una incriminazione, ma anche solo di una ipotesi investigativa, è dotata di una forza devastante e già invincibile. L’interesse della pubblica opinione è ovviamente attratto dal disvelamento di un reato, non certo dalla infondatezza della ipotizzata accusa. E l’ipotesi accusatoria, promanando da soggetti assistiti da una presunzione assoluta di affidabilità, attendibilità e imparzialità, si presuppone fondata. Vi è poi una fortissima prevalenza culturale, nella politica e nella informazione, del più becero populismo giustizialista, secondo cui se un personaggio pubblico -politico, pubblico amministratore- viene raggiunto dal sospetto, ciò merita perciò stesso la massima diffusione notiziale, ovviamente accompagnata dalla presunzione di fondatezza della ipotesi accusatoria. Il costo che la persona raggiunta da una ipotesi accusatoria -questo è l’indagato, null’altro- dovrà pagare è incongruamente sproporzionato rispetto al preteso diritto di informazione che vorrebbe giustificalo. Vita professionale, politica, familiare travolte spesso in modo irreparabile, reputazione personale inesorabilmente compromessa. Solo chi vive sulla propria pelle -insieme alle persone che gli sono vicine- i morsi feroci della pubblica gogna che inopinatamente irrompe nella sua vita, è in grado di comprendere la furia devastatrice e la brutale violenza di una simile esperienza. Anche perché le vicende penali – come ogni vicenda umana, d’altronde-non sono quasi mai segnate da una linea di demarcazione netta che separa il bianco dal nero, la colpevolezza dalla innocenza. Nessuna vicenda umana può affidarsi a simili semplificazioni. Tra l’innocenza e la colpevolezza si dipanano comportamenti del più vario segno (imprudenze, equivoci, coincidenze, gravi azzardi) che ciascuno di noi deve poter avere il diritto di chiarire e spiegare, a sé stesso ed agli altri, prima di essere trascinato nel fango, e nella disperazione; alla quale ha ceduto questa signora. Qualunque cosa possa aver fatto o non fatto, ha semplicemente capito di non avere già più il tempo per spiegare.
Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane
Il caso della dirigente Miur. Ombre e veleni dietro l’inchiesta su Giovanna Boda: invidie, ipotesi e sospetti. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Quello che è accaduto a Giovanna Boda, la dirigente Miur indagata che dopo un volo dal secondo piano lotta tra la vita e la morte, «è molto più che un atto scellerato», ci mette in guardia dagli uffici del terzo piano del Ministero uno dei suoi più stretti collaboratori. È l’atto deliberato che mette inusitatamente in luce, per la gravità del gesto drammatico e inatteso con cui è culminato, un sistema. Un sottofondo che forse nessuno voleva smuovere. Ma che adesso si è smosso e rivela rapporti, relazioni e interessi contrastanti. Giovanna Boda «è sempre stata la persona più in vista di quel Ministero, con la maggiore proiezione esterna. Ma non è stato un attacco ad personam», ci dice Marco Campione, che era nella segreteria tecnica di Faraone al Miur e conosce i meandri delle segrete stanze. Una dirigente iperattiva, fortemente connessa con il mondo cattolico, impegnatissima sul fronte dell’antimafia (a sua particolare regia le “Navi della Legalità”, e tutte le iniziative dei giovani in memoria di Giovanni Falcone), particolarmente vicina a Maria Stella Gelmini e a Paola Severino ma ancora più in alto, saldamente legata al Quirinale. Prima con Napolitano e poi con Mattarella, ha stretto a doppio filo le agende dei due presidenti della Repubblica con quelle degli impegni Miur a sua firma: le inaugurazioni degli anni scolastici, le visite alle scuole, soprattutto in Sicilia, le manifestazioni antimafia, le scolaresche ricevute nei saloni del Quirinale e ancor più spesso, di recente, l’apertura dei giardini: Giovanna Boda era anche il saldo e costante trait-d’union tra Colle e giovani. Una dedizione appassionata ricambiata negli anni con le due onorificenze quirinalizie assegnatele: Ufficiale all’ordine del merito della Repubblica nel 2010, Commendatore dell’Ordine al merito «di iniziativa del Presidente della Repubblica» nel 2014. Sulle carte, si legge di una inchiesta asimmetrica dai numeri inverosimili, condita sui giornali dai brogliacci passati ad arte: intercettazioni che in verità parlano di innocenti incroci di date per le riunioni con Luca Palamara. Ma le si fanno uscire in un momento in cui il solo citare Palamara mette in difficoltà l’intercettato. Ed ecco che l’operazione-show, con le tre visite degli agenti in divisa che le sequestrano oggetti personali, entrandole in casa, le fanno evidentemente balenare l’idea che sia arrivato da chissà dove un certo input. «Nel palazzo c’era una ostilità forte da parte di alcuni, e una notevole invidia, perché da direttore ha sempre dovuto gestire budget importanti», ci dicono dal suo staff. Eppure le accuse di cui si è a conoscenza sono fumose, vanno a insistere su due affidamenti sotto soglia: spiccioli che sempre si ritrovano per mille voci di acquisto nella Pubblica amministrazione; quelle cose che se si vogliono far emergere, si possono trovare un po’ ovunque si cerchi. E che per quanto siano legittime, stendono il mattarello sul dubbio fino a farlo diventare sospetto. Dunque la domanda è oggi chi aveva interesse ad attaccare e far cadere un pilastro del Ministero così apprezzato. E c’è da guardare meglio alla rete delle relazioni che riguardano non solo Giovanna Boda ma quella di suo marito Francesco Testa, Procuratore capo a Chieti. Il suo secondo marito. Della cui nomina si era occupato il Csm nel 2016. Pare che della sua promozione si fosse interessato Legnini, pur dietro le quinte. L’ex vice presidente Csm, abruzzese, aveva detto: «Per quella Procura dovete scegliere il migliore, dev’essere una nomina inoppugnabile». Tant’è. Chi tifava per Testa ha citato i 12 anni che ha passato a Catania come pm tra inchieste di mafia ed esperienza sulla digitalizzazione. Poi la chiamata a Roma, al ministero della Giustizia, ai tempi del Guardasigilli Paola Severino dove tiene i rapporti con il Csm. Infine l’Onu a Vienna. E Testa è arrivato a Chieti, negli stessi anni in cui a Roma Giovanna Boda veniva prestata dal Miur alla Presidenza del Consiglio. Con Renzi, o meglio con Maria Elena Boschi. Tanto che qualcuno attribuisce a quel passaggio la fonte delle inimicizie cresciute negli ultimi tempi. «Al Miur era dirigente di prima fascia, è andata alle Pari Opportunità con Boschi, diventando Capo dipartimento», ci dettagliano dagli uffici di viale Trastevere. E ha iniziato a essere più che invidiata, invisa inconfessabilmente a molti. Ieri a lei ha dedicato un pensiero Matteo Renzi: «Un Paese civile oggi si farebbe delle domande: come si può permettere che la gogna mediatica stritoli la vita delle persone, indipendentemente dall’accertamento della verità che come sappiamo è sempre lungo e complicato? Non ho letto nessuna riflessione su questo tema, in questi giorni, e me ne dolgo». Anche Maria Elena Boschi ha reso noto su Facebook il suo dolore: «Quello che è successo è assurdo, violento, ingiusto. Il cuore e la mente sono a fianco di Giovanna». Che al momento di lanciarsi giù dalla finestra era nello studio legale di Paola Severino, cui era legata e che aveva collaborato a lungo con suo marito. Quali intrecci stavano cercando di ricostruire quando Giovanna Boda ha deciso all’improvviso di tentare di togliersi la vita? Forse è da lì che si può ripartire per capire meglio chi tira i fili.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Giovanna Boda, ora si indaga per istigazione al suicidio. Dirigente Miur giù dal balcone, chi è la talpa. Libero Quotidiano il 17 aprile 2021. Istigazione al suicidio. Si è aperto un secondo fascicolo sulla vicenda di Giovanna Boda, dirigente del Miur che ha tentato di togliersi la vita - e che ora è in gravissime condizioni all'ospedale Gemelli - dopo aver scoperto di essere indagata dalla Procura di Roma per corruzione. Adesso, rivela Il Giornale, è caccia alla talpa, alla persona che o dalla stessa Procura o dalla Guardia di Finanza avrebbe "fatto uscire" il decreto di perquisizione firmato dal sostituto procuratore Carlo Villani nei confronti del funzionario ministeriale, della sua assistente Valentina Franco, 31 anni, e del presunto corruttore, lo psicoterapeuta Federico Bianchi di Castelbianco, 71 anni, editore dell'agenzia Dire e legale della società di comunicazione Com.e. E sarebbe proprio il responsabile della fuga di notizie diretta al quotidiano La Verità l'indiziato numero uno secondo il nuovo fascicolo aperto per "istigazione al suicidio" dal pm Alberto Galanti. La Boda, infatti, sconvolta per le accuse è salita al secondo piano di un palazzetto a Prati, studio dell'ex ministro della Giustizia nel governo Monti, il suo avvocato di fiducia Paola Severino, e si è gettata dalla finestra. Non è ancora chiaro che cosa sia accaduto in quei momenti di panico, anche perché, scrive il Giornale, da un lato la Procura è convinta di essere sulla pista giusta, quella della corruzione in cambio di appalti diretti a Bianchi, ma dall'altra i conti non tornano. A cominciare dalla somma intascata dalla Boda, 680mila euro circa, ben superiore alle due delibere dirette a Bianchi da 39.950 euro l'una. Insomma, perché Bianchi avrebbe dato alla Boda tutti quei soldi? Intanto le condizioni della donna, che è sposata con il procuratore capo di Chieti Francesco Testa, restano gravi. Maria Elena Boschi, che con la Boda aveva lavorato durante il governo Renzi, si sfoga sui social: "Quello che è successo è assurdo, violento, ingiusto. Il cuore e la mente sono a fianco di Giovanna e del suo dolore. Ci sarà tempo per capire, ora possiamo solo pregare e sperare".
Il caso della dirigente Miur. Indagata e messa alla gogna, Giovanna Boda in fin di vita: ma le accuse non tornano. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Adesso a Roma sono tutti con lei. Giovanna Boda, la dirigente Miur che ha tentato di suicidarsi dopo essere finita in un improvviso shitstorming mediatico-giudiziario, lotta tra la vita e la morte. È in prognosi riservata dopo essersi lanciata nel vuoto, fuori dalla finestra del suo avvocato in Piazza della Libertà. È stata travolta dal combinato disposto tra le incursioni delle Fiamme Gialle e quelle dei cronisti intercettatori. Sconvolta, non ha retto all’impatto con lo shock. Il personaggio è notissimo, Boda è entrata al Miur per concorso nel 1999, con Giovanni Berlinguer, ed è stata promossa poi da Beppe Fioroni, Maria Letizia Moratti, Francesco Profumo, Lucia Azzolina. Anche il nuovo ministro Patrizio Bianchi si è detto sconvolto per la notizia, e si è stretto subito intorno alla famiglia. Le accuse a suo carico sono per corruzione: avrebbe fatto leva sul suo ruolo di Capo del dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali, grazie all’ultima decisiva promozione disposta dal ministro Lorenzo Fioramonti, secondo governo Conte. Le accuse sono tutte da provare, e per il momento risultano, a dire di chi la conosceva bene, del tutto inammissibili. Nell’ordinanza che ha dato vita anche a tre perquisizioni (a casa, al Ministero e presso una soffitta di sua proprietà), si parla di una ipotesi corruttiva che vede coindagato Federico Bianchi di Castelbianco, editore dell’agenzia Dire. Bianchi si sarebbe aggiudicato due affidamenti da quasi 40.000 euro ciascuno, mentre la Boda avrebbe ottenuto una contropartita «con somme di denaro e utilità per sé e per terzi per complessivi 679.776,65 euro». I numeri non tornano, come è facile capire: a fronte di un vantaggio per ottantamila euro scarsi, l’imprenditore gliene avrebbe versati otto volte e mezzo tanti. Se per tutto c’è una prima volta, questa è dunque la prima volta che il concusso versa al concussore l’850% del suo ricavo. C’è però da tener conto dell’aggravante, sulla quale ci mette in guardia La Verità, che con un velenoso affondo l’altro ieri aveva rivelato i dettagli dell’indagine, mettendo a nudo le proprietà dell’indagata e pubblicando – anche se non rientravano nell’inchiesta – le sue intercettazioni per fissare un appuntamento di lavoro con Palamara, quando era al vertice Anm. L’aggravante con cui sottolineava le accuse La Verità era quella di essere “renziana”: e l’accusa veniva reiterata evidenziando le telefonate con Maria Elena Boschi. Un certo accanimento mediatico e forse non solo mediatico si adombra a carico di questa asserita prossimità. «La conosco molto bene, è davvero incredibile tutta la vicenda. Non so se sia possibile dare un’etichetta a una stimata dirigente che ha assunto responsabilità ventennali», ci dice la deputata di Italia Viva, Silvia Fregolent. «Ma a maggior ragione, se fosse renziana è ora di farla finita con questa caccia alle streghe che tende a colpire, quasi a perseguitare chi è a vario titolo vicino a Italia Viva». Al momento Giovanna Boda rimane in prognosi riservata, sotto sedazione. Operata due volte, i medici stanno facendo il possibile per salvarla. Si parla dello schiacciamento della colonna vertebrale e di un trauma cranico importante: la dirigente, mamma di una bambina di cinque anni, si è lanciata giù dal secondo piano. Si fa urgente una riflessione deontologica e normativa sulla diffusione delle intercettazioni e sulla diffusione dei nomi degli indagati. L’esposizione al pubblico ludibrio, condanna di lontana tradizione, è tornata oggi come inaccettabile pena accessoria.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Giovanna Boda, il tentato suicidio della dirigente del Miur. Il retroscena: "Con chi aveva lavorato al Ministero". Libero Quotidiano il 15 aprile 2021. Giovanna Boda la definiscono tutti una donna determinata ma di una sensibilità rara. La dirigente del Miur che ha tentato il suicidio dopo una perquisizione nei suoi uffici della Guardia di Finanza era impegnata in prima persona anche nel pieno dell' emergenza da Covid per assicurare che gli studenti più svantaggiati ricevessero tutti pc e tablet per la didattica a distanza. Rivela il Messaggero, che nei suoi tanti incarichi, la Boda - che è indagata per corruzione dalla Procura di Roma - è stata nel 2017, per un anno circa, capo dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri con l'allora sottosegretario Maria Elena Boschi. Fino al 2019 è stata direttore generale per lo Studente, l'Integrazione, e la Partecipazione al ministero dell'Istruzione. Ma la perquisizione di martedì scorso 13 aprile l'aveva completamente sconvolta. I militari della Guardia di Finanza si erano presentati nel suo appartamento e al Miur, esibendo il decreto. Avevano anche perquisito una piccola soffitta perché la Boda, 47 anni, capo del dipartimento per le Risorse umane, finanziarie e strumentali del ministero dell'Istruzione è indagata per corruzione nell'ambito di un'inchiesta che riguarda il suo ufficio. La donna, sconvolta e sotto choc per l'inchiesta che la vede coinvolta, ieri 14 aprile, poco prima delle cinque delle pomeriggio e prima dell'appuntamento con il suo avvocato ha cercato di farla finita. Ha aperto la finestra e si è gettata nel vuoto da un appartamento al secondo piano di piazza della Libertà. Adesso è ricoverata al Gemelli, dove ha subito un intervento, ed è in gravissime condizioni. Secondo l'ipotesi della procura di Roma, Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta, rappresentante legale dell'istituto italiano di ortofonologia ed amministratore della Come - Comunicazione & editori, ossia l'agenzia Dire, avrebbe corrotto la Boda. Si parla di regali e benefit per 679mila euro. Alla Boda Bianchi, avrebbe anche dato una carta di credito per le spese. In cambio avrebbe ottenuto incarichi e affidamenti dal ministero.
Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 16 aprile 2021. Ha già subito un lungo e complicato intervento e ne dovrà subire ancora. Resta in pericolo di vita in un reparto di terapia intensiva del Policlinico Gemelli di Roma Giovanna Boda, la dirigente del Miur nota per le sue iniziative di sensibilizzazione dei ragazzi sulla legalità, che mercoledì scorso ha tentato il suicidio dopo essere finita in un' inchiesta per tangenti al ministero dell' Istruzione. Mentre attendeva di parlare con il suo avvocato ha aperto la finestra e si è buttata dal secondo piano. «Questo è il momento del doveroso e rispettoso silenzio», dicono dalla Procura di Roma, dove restano convinti della solidità dell' impianto dell'indagine. La capo Dipartimento per le Risorse umane, finanziarie e strumentali del Miur, e dunque pubblico ufficiale, martedì scorso aveva subito una perquisizione nel corso della quale le era stato contestato il reato di concorso in corruzione nell'ipotesi di aver ricevuto «indebitamente e per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri somme di denaro o utilità per sé o per terzi per 679.776,65 euro», da parte di Federico Bianchi di Castelbianco, quale legale rappresentante dell'Istituto di Ortofonologia e amministratore di fatto della Com.E, Comunicazione&Editoria, «società aggiudicatarie di vari affidamenti ciascuna per 39.950 euro da parte del Miur». Tra le accuse, anticipate da La Verità, la messa a disposizione da parte di Castelbianco di una carta di credito. L'editore respinge ogni accusa. Soprattutto quelle nei confronti della dirigente: «Quasi 700 mila euro. Se glieli avessi dati lo saprei. Invece non ne so niente. Mi sembra una grande cattiveria nei confronti di una persona che ha sempre voluto darsi da fare per gli altri. E mettersi a disposizione di chi ha bisogno». Bianchi, che loda la «gentilezza e la professionalità» dei finanzieri che lo hanno perquisito, dice di «non sapere nulla dell' esistenza di una carta di credito». E sulla contestazione di aver ricevuto appalti del Miur afferma: «Stiamo parlando di gare. Io lavoro da almeno vent' anni col Miur su bandi di gara. Ne avrò fatte almeno 600, da l' Aquila al Veneto, alla Sicilia. Non vedo come avrebbe potuto favorirmi». L' editore tiene a precisare che non teme l' inchiesta: «Aspetto le contestazioni. Non sono un delinquente. Mi difenderò. Ho massima fiducia della giustizia». Ma si accalora a sottolineare che le accuse alla dirigente «rese pubbliche e unite a una serie di dettagli che non c' entrano nulla e che devono averla sconvolta al punto di farla gettare nel vuoto» non gli tornano. «Ci conosciamo da vent'anni - continua Bianchi -. Io le voglio bene, come lei vuole bene a me, la stimo tantissimo, so come si prodiga per chi ha bisogno. E frasi del tipo: "Siamo la rete del bene", le dice sempre. E invece le ho viste riportate contro di lei, come se parlasse di chissà che lobby». E spiega: «È stato attaccato a questa inchiesta il fatto che suo marito è un magistrato, chi l' avrebbe o non l' avrebbe appoggiato per la nomina, che lei era nelle chat di Palamara, che conosce Maria Elena Boschi. Tutti pezzi da novanta, in confronto dei quali io non sono nessuno e mi sembra di essere stato solo un gancio per arrivare a questo. Ma Giovanna con Boschi, al Dipartimento delle Pari Opportunità ci lavorava. E con Palamara parlavano tutti. "Facciamo squadra", è la frase che ripeteva sempre. Per una persona delicata come lei il peso penso sia stato schiacciante».
Michela Allegri per “il Messaggero” il 10 settembre 2021. Auto di lusso, contanti, carte di credito prepagate, lezioni di violino, lo stipendio della colf, l'affitto dell'appartamento dove abitavano i suoi genitori. Ma anche soggiorni in albergo, trattamenti medici, abiti sartoriali. Sono solo alcuni dei regali non disinteressati che l'imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco avrebbe fatto all'ex dirigente Miur, Giovanna Boda. Presunte tangenti per più di 500mila euro - tra somme promesse e consegnate - che gli avrebbero spianato la strada nell'aggiudicazione di appalti milionari banditi dal ministero, ma che, ieri, lo hanno fatto finire in carcere con l'accusa di corruzione. Ai domiciliari ci sono invece Valentina Franco e Fabio Condoleo, dipendenti di Bianchi, ma collaboratori della Boda: erano la segretaria e l'autista. Secondo gli inquirenti oltre a collaborare nella consegna di denaro e utilità, avrebbero aiutato Bianchi a mantenere contatti al Miur dopo l'uscita di scena della dirigente che, sopraffatta dalla notizia dell'indagine, 5 mesi fa ha tentato il suicidio. Dall'inchiesta del Nucleo valutario della Finanza, coordinato dall'aggiunto Paolo Ielo e dal pm Carlo Villani, emerge il sistema illegale che, dal 2018, avrebbe permesso all'editore dell'agenzia Dire - amministratore di tre società e di una fondazione nel settore della comunicazione e della formazione - di aggiudicarsi lavori per 23 milioni di euro. Agli atti ci sono fatture, bonifici e anche intercettazioni. Nei confronti della Boda, ex capo dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali del Ministero, è stato disposto il sequestro preventivo di circa 340mila euro. Agli indagati è contestato anche il reato di rivelazione e utilizzazione del segreto istruttorio: Bianchi aveva accesso a riunioni riservate. Secondo l'accusa, la scorsa primavera l'imprenditore temeva di essere indagato e si innervosiva se i collaboratori non erano cauti: «Avete i telefoni sotto controllo come c... ve lo devo dire, c'ho pure il mio, mo basta», diceva, intercettato. Con la dirigente, si incontrava di persona, ma i loro appuntamenti sono stati registrati da intercettazioni ambientali. Nel marzo del 2021, si legge nell'ordinanza del gip Annalisa Marzano, dopo la notizia dell'arresto in Calabria di alcuni dirigenti Miur, la Franco si sarebbe informata su come «pulire» il telefono della Boda. «Lei vorrebbe diciamo stare un po' tranquilla e attenta», dice all'interlocutore, chiedendo se comprando un nuovo dispositivo fosse possibile cancellare contatti e conversazioni precedenti. Il 26 aprile, Bianchi è in ufficio con la Franco: «Ciao a tutti, né a me né a Chiara mandate più telefonate e WhatsApp, una volta a settimana vieni te, raccogli tutto, ritorna se c'è urgenza». Poi fa un esempio di una conversazione da evitare: «L'altra volta Sara ha fatto una cortesia e ha dato questi soldi a quello». Una frase del genere, specifica l'imprenditore, «da adesso in poi non la può dire nessuno». La conversazione vira poi sul fatto che «ad alcune persone è stato detto di ringraziare Giovanna quando arriva il pagamento, ma questa cosa non può uscire». Più avanti dice: «Tutto deve stare calmo, liscio e tranquillo per un anno, due anni... fare tutto con un basso profilo». Il gip evidenzia il «tono perentorio» usato da Bianchi all'interno degli uffici ministeriali, circostanza che confermerebbe «il peso rivestito all'interno del Dipartimento». Per il giudice l'imprenditore «si muoveva e si muove ancora con disinvoltura, potendo contare su rapporti di collaborazione risalenti e consolidati». Il carcere viene giudicato una misura adeguata, perché l'indagato potrebbe «perseverare nell'illecito per accaparrarsi l'aggiudicazione di gare già bandite, ovvero predisporre i futuri bandi e o progetti». L'interrogatorio di garanzia è previsto il 13 settembre. Intanto i giornalisti dell'agenzia Dire, in una nota del comitato di redazione, «sottolineano che il loro lavoro va avanti garantendo continuità professionale e quell'impegno che da sempre li contraddistingue nel raccontare i territori e le istituzioni». La Boda, invece, ha dichiarato tramite il suo legale: «Le accuse a me rivolte mi hanno sconvolto. Non chiedo compassione, ma rispetto per l'umiliazione e il dolore che mi sono stati inflitti. Ho sempre servito lo Stato con rigore e onestà: ho chiesto di essere interrogata proprio per chiarire la mia posizione».
L'inchiesta sulla presunta corruzione al Ministero dell’Istruzione. Inchiesta Boda, tremano altri dirigenti del Miur. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Settembre 2021. È particolarmente delicata l’inchiesta del procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, istruita dal pm Carlo Villani, sulla presunta corruzione al Ministero dell’Istruzione. Per molteplici motivi che fanno dell’impianto accusatorio un intreccio fatto più di nodi che di linee dritte. La notizia: ieri mattina la Procura di Roma ha deciso di far scattare una misura cautelare nei confronti dell’imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco, che è anche l’editore dell’agenzia di stampa Dire, nell’ambito di un’inchiesta per corruzione in merito a una serie di appalti scolastici. L’indagine, condotta dal nucleo di Polizia valutaria della Guardia di finanza, è scattata in seguito a una serie di segnalazioni sospette nei movimenti bancari dell’imprenditore. Gli inquirenti avrebbero così evidenziato un rapporto “privilegiato” tra Castelbianco e l’ex dirigente del ministero dell’Istruzione, Giovanna Boda (finita anch’essa nel registro degli indagati) che – stando all’impianto accusatorio – avrebbe permesso all’editore di aggiudicarsi appalti per circa 23 milioni in cambio di una serie di “utilità e mazzette” per oltre 500 mila euro. Siamo ancora nel campo delle ipotesi, ma di quelle che tirano in ballo – anzi: a fondo – l’editore di una delle principali agenzie di stampa. L’imprenditore viene ristretto nella casa circondariale di Regina Coeli e lunedì sarà sentito dal gip, Annalisa Marzano, per l’interrogatorio di garanzia. Agli arresti domiciliari (segnando così il tratto di un diverso trattamento) sono finite altre due persone intervenute – si legge nelle carte della Procura – “nella dazione delle utilità”. A tutti e tre gli inquirenti contestano reati che vanno dal concorso in corruzione alla rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio. La Dire fa sentire la sua voce: «I giornalisti della Dire sottolineano che il loro lavoro va avanti garantendo continuità professionale e quell’impegno che da sempre li contraddistingue nel raccontare territori e istituzioni». E poi specificano: «I provvedimenti annunciati oggi dalle autorità competenti, pur nella loro rilevanza, non intaccano e non intaccheranno la dedizione e la qualità del lavoro». Lo “shock” che ha colpito l’agenzia di stampa si proietta sulle future commesse. Il timore del Cdr è che adesso i contratti vengano impugnati. «È difficile non pensare che ci possano essere effetti», ci confida il segretario di Stampa Romana, Lazzaro Pappagallo, «anche se faremo di tutto per tutelare il buon nome della Dire e dei suoi giornalisti». Ma parliamo di inchiesta delicatissima anche con riferimento alla recente storia dell’indagine stessa, che ha portato Giovanna Boda, rispettatissima dirigente del Miur, a tentare il suicidio lanciandosi dalla finestra della sua avvocata. Aveva subito una perquisizione in casa e al Ministero, e non aveva retto. Boda non era una dirigente come tanti altri: era lei a interloquire per il Miur con il Quirinale. A lei rivolse un particolare saluto il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, nel 2015, per la Giornata della legalità. Fu dunque un gesto che colpì al cuore le istituzioni quando, il 15 aprile scorso, si aprì quel varco, precipitando giù dalla finestra dello studio della sua avvocata, colta da un raptus di disperazione. Il suo legale per inciso è l’ex ministra della Giustizia, Paola Severino (governo Monti). Lo studio legale si trova per fortuna al primo piano di un palazzo in Prati, il volo non ha superato i quattro metri e l’atterraggio sulle gambe, pur impattando in maniera grave gli arti inferiori e la colonna vertebrale, ha scongiurato il peggio. Operata quattro volte, Giovanna Boda, allora a capo del Dipartimento Risorse umane del Ministero dell’Istruzione, ha riaperto gli occhi dopo la sedazione il 19 aprile, chiedendo subito ai sanitari presenti informazioni sulla figlia e sul marito. Nodo, quest’ultimo, che complica ancor più l’affaire. Il marito è Francesco Testa, magistrato di prim’ordine, attuale Procuratore capo a Chieti. Non può mai essere facile l’istruzione di un dossier che conduce, parlando sempre di ipotesi accusatorie, fin dentro casa della moglie di un Procuratore capo. Oltre ai movimenti bancari (e a presunte tangenti in contante) ci sarebbe stata, per esempio, la presa a carico della domestica in servizio presso l’abitazione romana di Giovanna Boda. Dunque l’inchiesta si fa seria, serissima. Perché inquadra un modus agendi che non riguarda la politica e dunque stronca la retorica populista; in questa inchiesta non rientra alcun politico. Riguarda invece rapporti di entropia tra poteri diversi e punta su quella palude che è sempre più la nomenclatura ministeriale, quell’alta burocrazia di Stato intoccabile e grigia che troppo spesso soggiace a logiche di contiguità. Cinque Procure indagano intanto sullo scandalo di concorsopoli, dopo che 2400 aspiranti presidi sono stati bocciati per fare largo ad alcuni vincitori che hanno consegnato gli elaborati con pochi scarabocchi. Il Tar intima al Miur di fornire ai ricorrenti i codici sorgente del concorso, il Miur fa orecchie da mercante, in barba alle sentenze. Tanto per voltare pagina, al Ministero hanno chiamato Jacopo Greco, primo marito di Giovanna Boda, a prenderne il posto. La nomina è del 18 giugno scorso, l’incarico è di Direttore generale per le risorse umane, gli acquisti e gli affari generali.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Maurizio Belpietro per “La Verità” il 10 settembre 2021. Qualche mese fa, io e il vicedirettore Amadori siamo stati messi alla gogna per aver fatto il nostro mestiere. Giacomo, da cronista infallibile qual è, ad aprile mise le mani su una notizia esclusiva, ovvero su un'inchiesta che riguardava il ministero dell'Istruzione e che vedeva nel mirino una serie di funzionari, tra cui la direttrice generale, vale a dire la persona più alta in grado all'interno del dicastero. Le accuse formulate dalla Procura di Roma erano pesanti (si parlava di corruzione e di appalti assegnati fuori da ogni regola), al punto da indurre gli inquirenti a firmare un mandato di perquisizione non solo a casa dell'importante funzionaria, ma anche allo stesso ministero. Un drappello di finanzieri che salgono ai piani alti del Palazzo certo non si vede tutti i giorni e dunque, essendo una notizia, La Verità ne ha dato conto e, come spesso ci capita, in perfetta solitudine. Il giorno successivo, mentre era nello studio del suo avvocato difensore, Giovanna Boda, questo il nome della direttrice indagata, si è buttata dalla finestra, ferendosi gravemente. È bastato questo perché molti colleghi e imbratta carte si scagliassero contro di noi, cioè contro La Verità e contro il suo vicedirettore, accusandoci praticamente di aver spinto giù dal davanzale la signora. C'è chi, come Il Riformista, ha pubblicato la mia foto a tutta pagina, lasciando intendere che fossi una specie di assassino, precisando che contro Giovanna Boda non esisteva alcuna accusa, ma che la sola cosa certa era che la mamma di una bambina di tre anni si era gettata dalla finestra per l'umiliazione. Altri hanno preferito alimentare l'idea che dietro l'inchiesta ci fossero ombre e veleni, corroborati da invidie e sospetti nei confronti di una donna di successo. Qualcuno, come Repubblica, ha deciso di buttarla in politica, parlando di una «dirigente modello che era stata promotrice della nave per la legalità», con il sottinteso significato che forse proprio per questo era finita nel mirino. Nando Dalla Chiesa sul Fatto Quotidiano si è invece esibito in un intervento teso a smontare ogni possibile accusa, a riprova della nostra malafede. Sul sito online dei dirigenti della scuola sono andati ancora più piatti, parlando di induzione al suicidio o addirittura omicidio: «Allorquando un giornale crea e getta il mostro in prima pagina, incurante delle conseguenze, esercita il diritto di cronaca o induce al suicidio ovvero commette un omicidio volontario?». Manco a dirlo, la risposta era già contenuta nella domanda, perché per il sito in questione i mostri ovviamente eravamo noi, io e Amadori e ovviamente più in generale tutta la redazione della Verità. Secondo l'autore dell'articolo uscito sul sito dei dirigenti «in questo Paese basta un articolo di giornale, magari anche una lettera anonima, a volte con il consenso di persone dall'animo malvagio, per distruggere le persone». La difesa si concludeva dicendo che, «anche in presenza di una condanna e di prove che attesterebbero la sua corruzione (cioè di Giovanna Boda, ndr) non ci crederei». In compenso, assolta preventivamente la funzionaria, ci fu chi inventò l'apertura di un fascicolo a carico nostro, per la diffusione della notizia, costringendo i pm a diffondere una nota di smentita. Beh, la condanna non è arrivata. Tuttavia, ieri sono arrivate le ordinanze di custodia cautelare per il presunto corruttore e per alcuni collaboratori. Evidentemente l'inchiesta non si è fermata con il tentativo di suicidio (grazie al cielo la signora è sopravvissuta e si sta curando). Certo, un arresto non è una sentenza passata in giudicato e si vedrà che prove hanno raccolto gli inquirenti, ma mi preme svolgere un paio di considerazioni. Evidentemente, nonostante ciò che hanno scritto i giornali, l'inchiesta non era frutto di veleni e sospetti, ma di atti che sono passati al vaglio di un giudice delle indagini preliminari il quale, dopo gli accertamenti della Guardia di Finanza e della Procura, ha disposto le ordinanze di custodia cautelare. Ma ancor più di ciò, mi corre l'obbligo di far presente che agli atti si segnala una fuga di notizie che quel giorno indusse i magistrati a disporre una perquisizione in tutta fretta. Spiego per chi non vuole intendere. Giovanna Boda non apprese la notizia di essere indagata da un articolo di giornale, come la maggior parte della stampa ha scritto. L'informazione fu conseguente alla scoperta di una microtelecamera che la gettò nel panico e la spinse a contattare immediatamente il presunto corruttore. Non solo. Dopo la perquisizione, la signora non fece cenno neppure al marito, che di professione fa il magistrato, di ciò che era successo e cioè che degli agenti di polizia giudiziaria avevano perquisito casa e ufficio. Poi sì, il giorno dopo siamo arrivati anche noi, a dare notizia di un'inchiesta, ma di certo non siamo stati noi a spingere la signora giù dal davanzale. Per il resto, ossia per tutte le difese d'ufficio fatte dal Riformista, da Repubblica, dal Fatto e da Nando Dalla Chiesa, segnalo che nelle ordinanze di custodia cautelare si parla non di due spicci, come in molti avevano lasciato credere, ma di appalti per l'ammontare di 23 milioni. Giovanna Boda avrebbe avuto nella sua disponibilità la casa da 280 metri quadri in cui risiede, ma che è di proprietà del presunto corruttore, un autista tuttofare, una segretaria, oltre alla possibilità di fare acquisti pagabili con una carta di credito gentilmente offerta. Insomma, scarpe, vestiti, spese voluttuarie e quant' altro. A suo carico, la Procura ha anche disposto il sequestro di 340.000 euro. Chissà se il tizio che si interrogava se il nostro articolo fosse da considerarsi istigazione al suicidio o omicidio volontario si chiederà ora da dove arrivasse questo ben di Dio. Soprattutto, chissà se ancora non crederà a ciò che emerge dall'inchiesta. Una cosa comunque è certa, in redazione non c'è nessun mostro.
Sì, l’indagine su Boda va avanti: e la presunzione d’innocenza? In carcere l'editore accusato con la dirigente del Miur, Giovanna Boda, che tentò il suicidio. Belpietro: «Non ero io il mostro». Errico Novi su Il Dubbio l'11 settembre 2021. C’è una norma ridicola ma cruciale per l’informazione giudiziaria: articolo 684 del codice penale, “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento”. Stabilisce in pratica che se un giornalista riporta notizie su un’indagine nonostante non ne sia ancora autorizzata la diffusione, commette sì un reato, ma può oblarlo, cioè cancellarlo del tutto, con un versamento di 100 euro o poco più. Ecco, se qualcuno è colpevole del volo dal secondo piano con cui Giovanna Boda, ormai ex dirigente del Miur, lo scorso 15 aprile tentò il suicidio per i titoloni sulle accuse di corruzione rivoltele dai pm di Roma, se proprio c’è chi deve sentirsi responsabile per quella tragedia, è il legislatore. Tutti i legislatori – parlamentari, ministri della Giustizia – che hanno lasciato e ancora lasciano in giro norme del genere. E i “mostri”, ecco, non sono né Maurizio Belpietro, direttore della Verità, né Giacomo Amadori, suo vice. Ieri Belpietro in realtà ha pubblicato sul proprio giornale un editoriale dal titolo “Forse i mostri non eravamo noi – Alla gogna per una notizia (vera), nessuna manina dietro l’inchiesta”. Lo ha firmato a fianco all’articolo di cronaca con cui Amadori racconta gli ulteriori passi dell’indagine in cui Boda è accusata di corruzione. In particolare l’arresto, avvenuto giovedì, del suo principale presunto correo, l’editore, oltre che psicoterapeuta, Federico Bianchi di Castelbianco. A Boda sono stati sequestrati circa 340mila euro, ritenuti dagli inquirenti frutto delle utilità messe a disposizione da Bianchi. Belpietro, che con Amadori fu il primo a dare notizia dell’inchiesta nell’aprile scorso, ha pieno diritto di difendersi dall’accusa di aver indotto Boda al tentato suicidio. Ma il direttore della Verità sa bene che se ancora ieri, e non solo ad aprile, il suo giornale ha pubblicato infiniti dettagli sull’indagine capitolina, è perché c’è un vulnus nelle nostre leggi. Non esiste, almeno non ancora, una norma che attui il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Il punto non è se i giornali danno una notizia, ma perché le indagini possano tracimare così facilmente all’esterno. Dei limiti che andrebbero imposti alla magistratura nel trasferire ai media le informazioni sulla loro attività si occupa un decreto ora all’esame della Camera. Il testo attua la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Stabilisce che il capo di una Procura, e solo lui, può decidere sì di dare ai cronisti notizie, ma che può farlo solo attraverso comunicati. In casi di straordinaria rilevanza può convocare conferenze stampa, ma non può descrivere le persone coinvolte come già colpevoli. Sempre in casi eccezionali, un pm può rendere pubblicabili atti d’indagine nelle fasi in cui altrimenti sarebbe vietato diffonderli. Sono misure di civiltà. Forse non ancora sufficienti. Le ulteriori norme che stabiliranno nuovi confini per la pubblicità delle indagini saranno tanto più incisive quanto più forte sarà radicata nel nostro Paese una nuova civiltà del processo. Non si può pretendere che i giornalisti si comportino da pedagoghi, che si infliggano autolimitazioni non giustificate dalle norme. E le norme cambiano se i cittadini ne comprendono la necessità. Ma i giornali possono contribuire a rendere l’opinione pubblica meno ipnotizzata dalle gogne mediatiche, questo sì possono farlo. Nessuno li obbliga: è una scelta culturale. Si tratta di decidersi su cosa vogliamo davvero. Se lasciare o no ai pm il potere di condizionare gli stessi giudici attraverso la ridondanza mediatica delle loro ipotesi. Sul debordare della magistratura, la Verità ha offerto contributi di rilevo. Forse anche Belpietro deve stabilire su cosa scommettere davvero: sulla sete di colpevoli che c’è in giro o su un Paese meno ostaggio dei pubblici ministeri.
Fabio Amendolara per la Verità l'11 settembre 2021. «Basta che schioccano le dita e arrivano tutti... Per due spicci? Per che cosa?». I due factotum della potente manager del Miur Giovanna Boda, Valentina Franco e Fabio Condoleo, pagati dall'editore dell'agenzia di stampa Dire Federico Bianchi di Castelbianco ma a disposizione per qualsiasi capriccio della dirigente pubblica, dal cibo ai profumi al parrucchiere di lusso, sembrano essere consapevoli di fare qualcosa di rischioso. Fabio, usato come chauffeur della Mercedes presa a noleggio per Boda e pronto a scarrozzare mamma e papà del manager, sembra non poterne più e in una delle tantissime telefonate intercettate si lascia scappare: «Bisogna darsi una calmata nelle cose comunque, non si può fare così». Valentina ripete: «Per cosa? Per due spicci». Ma i due durante lo sporco lavoraccio nei quali erano stati impegnati devono aver incontrato qualcuno che di spicci, invece, ne ha fatti parecchi. È ancora Valentina a commentare: «Perché chi fa il lavoro nostro guadagna... Cioè vive bene. Guarda Emiliano... guarda uno come Emiliano [...] che faceva Emiliano praticamente l'abbiamo fatto tutti quanti. Se n'è andato via con 400.000 euro, in due anni». Ma chi è Emiliano? Nell'ordinanza di custodia cautelare, dopo questo passaggio, non verrà più citato. Valentina, però, un'idea su come far fruttare le notizie di cui è a conoscenza sembra averla: «Allora, a questo punto, purtroppo forse... forse è meglio mettergli paura. Forse è meglio mettergli paura, Fabio [...] e noi siamo fessi, noi». Fabio ha afferrato al volo: «Perché hanno capito il personaggio e hanno fatto così». Ma se fino a questo punto sembravano baldanzosi e in cerca di riscatto, valutando se usare le notizie in loro possesso per un motivo rimasto oscuro, dal 14 aprile, giorno in cui Fabio trova una microtelecamera nella Mercedes, cominciano ad avere paura. «Cambiamoci i telefoni, tutti, non solo i numeri», propone Valentina. Per la verità già da qualche giorno, però, nel gruppo si respirava una brutta aria. Dopo la notizia dell'arresto in Calabria di alcuni funzionari del Miur, Valentina si informa con un tecnico informatico su come «pulire» il telefono della Boda: «Lei vorrebbe diciamo stare un po' tranquilla e attenta», dice all'informatico. In una delle poche conversazioni intercettate tra Boda e Bianchi di Castelbianco lei avanza l'ipotesi di voler staccare, per «un anno sabbatico». L'imprenditore è pronto a risolvere ogni sua richiesta: «Io quello che sto cercando di fare è proprio darti quella sicurezza non effimera...». Lei replica: «Mettiamo che io da domani mi metto a fare un anno, che è il mio sogno, non faccio niente per un anno ok? Con cosa vivo?». La risposta dell'imprenditore è netta: «Guardami, dimmi solo l'importo. Ti fai un anno sabbatico... però ti posso dire una cosa? Te ne devi anda'... io ti faccio arrivare i soldi all'estero». E in un'altra conversazione l'imprenditore le consiglia di farsi giugno e luglio di ferie: «Fai l'apertura del Quirinale, annusi l'aria un giorno di settembre e poi vai in aspettativa [...] Giovanna se tu ti facessi giugno e luglio, dopo l'aspettativa siccome conosco te, puoi prendere tre, quattro mesi e non di un anno che è sufficiente». Lei sembra voler mollare: «No, me ne devo andare Federico, me ne devo andare». E aggiunge: «Non voglio neanche chiederti niente Federico perché... perché (incomprensibile) dei soldi pazzeschi». Con la notizia ufficiale della scoperta della telecamera e dopo le perquisizioni scatta la corsa ai ripari. Il 26 aprile Bianchi è in ufficio con Valentina: «Ciao a tutti, né a me né a Chiara mandate più telefonate e Whatsapp, una volta a settimana vieni te, raccogli tutto, ritorna se c'è urgenza». E dà precise disposizioni: «L'altra volta Sara ha fatto una cortesia e ha dato questi soldi a quello». Una frase di questo tipo, sottolinea l'imprenditore, «da adesso in poi non la può dire nessuno». E detta la linea: «Tutto deve stare calmo, liscio e tranquillo...». Per Bianchi di Castelbianco bisogna «fare tutto con un basso profilo». Ma, come è svelato l'inchiesta, con alto profitto.
François de Tonquédec per la Verità l'11 settembre 2021. L'inchiesta della Procura di Roma che ruota intorno agli affidamenti del ministero dell'istruzione, università e ricerca (Miur) è pronta a un salto di qualità. Nel fascicolo non sono indagati solo l'imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco, la segretaria Valentina Franco, l'autista Fabio Condoleo e l'ex capo dipartimento Giovanna Boda. Sul registro delle notizie di reato sono stati iscritti anche altri nomi. Che in alcuni casi sarebbero pesantemente coinvolti nel sistema descritto nell'ordinanza di arresto che ha colpito Bianchi di Castelbianco, Condoleo e la Franco. I quattro sono accusati di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio con l'aggravante «di aver commesso il fatto per la stipulazione di contratti e affidamenti nei quali è interessato il Ministero dell'Istruzione». Alla Boda e a Bianchi viene contestata anche la rivelazione e l'utilizzo di notizie riservate. Ma, come detto, Bianchi è stato arrestato perché poteva contare su una rete di contatti all'interno del Miur che prescindeva persino dalla stessa Boda. Alcuni nomi emergono dalla stessa ordinanza di custodia cautelare, citati ma non in veste di indagati. La gestione del rapporto tra Bianchi e la Boda, secondo i magistrati, sarebbe passata anche attraverso una «task force», istituita nel 2018 dalla donna con un apposito decreto e «dedicata alle emergenze educative con il compito di realizzare gli scopi perseguiti dalle convenzioni e dal protocollo» sottoscritti rispettivamente nel 2018 e nel 2015 dal Miur con l'Istituto di ortofonologia (Ido). Del gruppo di lavoro facevano parte, come riportato nell'ordinanza, il funzionario del ministero Evelina Roselli e l'esperto esterno Vincenzo Persi, entrambi «soggetti con i quali l'imprenditore manteneva rapporti qualificati». Ma del team facevano parte anche persone di fiducia di Castelbianco, con Valentina Franco, che era stipendiata dall'imprenditore, ma di fatto alle dipendenze della Boda, a rappresentare il collegamento tra i due mondi. La lista di figure interne al ministero che compaiono nell'ordinanza di custodia cautelare è ampia. Oltre al nome della Roselli, citata frequentemente nell'atto (e che secondo i magistrati coltivava il rapporto con Bianchi sperando di trarne vantaggi per una promozione) ci sono infatti quelli di numerosi collaboratori della ex capo dipartimento di Miur. Nell'aprile scorso, per sei di loro (Giulia Bertolini, Emanuela Pisanu, Catia Brenda, Federico Scriva, Rosa Isabella Vocaturo e Anna Rosa Rotondi) i magistrati avevano disposto la perquisizione degli uffici, ma dagli atti non tutti sembrano avere lo stesso tipo di rapporto con la dirigente indagata. Se la Pisanu compare negli atti solo per due telefonate intercorse con Condoleo, che in una le chiede di «scendere a prendere le pizzette che ha preso per Boda» e nell'altra le parla di un paio di pantaloni da acquistare su richiesta della Boda, Vocaturo pare godere di una ben diversa considerazione. In una mail inviata il 2 marzo scorso da Chiara Calandriello, una collaboratrice di Bianchi, all'imprenditore ed avente come oggetto «appunto per ministero» tre i nomi di persone da contrattualizzare compare anche «figlia Vocaturo (contratto 1200 x 6 mesi)». Così come venivano contrattualizzati altri che gli inquirenti indicano come collaboratori della Boda: Sara Panatta, la Bertolini e la Rotondi. Per loro l'importo indicato nella mail è di 2.500, senza alcun riferimento alle mensilità. La Panatta per i magistrati lavora al ministero «alle dipendenze di Filippone Leonardo», un altro dirigente del dicastero, che partecipava alle riunioni della Boda con Bianchi, convocate anche attraverso email. In una, indirizzata a Bianchi, Filippone, Persi, Roselli e appunto Panatta si fa riferimento a un incontro relativo ai bandi che, secondo l'accusa, in alcuni casi erano cuciti su misura per le società di Bianchi. C'è poi anche il fronte dei dirigenti scolastici, con alcuni nomi citati nell'ordinanza: Rossella Sonnino, dell'Istituto Regina Elena di Roma, Alessandra Onofri del Costaggini di Rieti, Alberto Costantini dell'Istituto Comprensivo Paolo Baffi di Roma, Enrico Monaterto dell'Istituto comprensivo Savignano sul Panaro. Dagli atti dell'inchiesta emergono fatture emesse da Ido verso quest' ultimo istituto nel 2020 per 21.000 euro, nonché una telefonata del 14 gennaio scorso, durante la quale Bianchi anticipava a Monaterto informazioni sui bandi aggiudicati dal ministero. A giugno La Verità aveva ricostruito la girandola di pagamenti ricevuti dall'Ido (e citati nel bilancio 2019) da parte di numerosi istituti scolastici e il Baffi si trovava al secondo posto per le cifre erogate: 950.500 euro (gli inquirenti in quell'anno indicano fatture per 901.500 euro) attraverso 5 contratti con Ido, tutti indicati nel bilancio. Ai quali, si apprende adesso, vanno aggiunti 109.000 euro l'anno successivo, insieme a 293.203 euro nel 2019 e 187.180 fatturati dalla Com.E. Più bassi gli importi corrisposti alla Edizioni Scientifiche Magi: 41.000 euro nel 2019 e 5.500 nel 2020. Al telefono Costantini si lamenta con Bianchi dei contenuti di un decreto firmato da Boda e l'imprenditore gli risponde che ne avrebbe parlato con Evelina Roselli. Due i progetti affidati al Costaggini che avevamo ricostruito. Il primo è «Genova un ponte per il futuro» dal costo indicato di 190.000 euro. Il secondo è Terremoto Centro Italia e Ischia, costato, sempre secondo quanto indicato nel bilancio, 630.000 euro. Avevamo provato a chiedere lumi su quei progetti alla Onofri (già candidata alla Camera con la lista Monti), ma lei ci aveva fatto sapere di «non essere interessata a rispondere». Al momento non risultano contatti diretti tra la Onofri e Bianchi, ma nell'ordinanza il suo nome appare in una conversazione tra l'imprenditore e la Sonnino, la quale informa Castelbianco che la collega reatina e la sua tesoriera «non avevano gradito le modalità di trasferimento dei fondi all'istituto Regina Elena». Secondo il gip, l'imprenditore «liquidava» il problema «con il consiglio di rivolgersi a Roselli Evelina».
Giacomo Amadori per "la Verità" il 14 settembre 2021. Ha risposto per tre ore alle domande del Gip Annalisa Marzano e del pm Carlo Villani senza avvalersi della facoltà di tacere. Per questo, dopo quattro giorni nel carcere di Regina Coeli, il settantunenne psicoterapeuta Federico Bianchi di Castelbianco è stato trasferito ai domiciliari con il parere favorevole della Procura di Roma. Infatti l'imprenditore (controlla diverse società compresa l'agenzia di stampa Dire) ha ammesso di aver elargito decine di migliaia di euro di utilità a Giovanna Boda, coindagata ed ex capo dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali al Ministero dell'istruzione, università e ricerca (Miur), ovvero alla dirigente che gestiva i cordoni della borsa del dicastero. Le società da quel ministero e dagli istituti scolastici, hanno quantificato i pm, aveva ottenuto in quasi tre anni e mezzo 23,5 milioni di euro di affidamenti per progetti di supporto psicologico agli studenti. Dopo che Castelbianco ha confermato gran parte dei fatti contestati (anche perché le indagini dei finanzieri, particolarmente puntuali, lasciavano ben poco spazio alla fantasia o fraintendimenti) la disputa si sposterà sul piano giuridico per stabilire come configurare quelle utilità. Per la Procura si tratta di corruzione a prescindere dal quantum del vantaggio indebito che l'imprenditore avrebbe ricevuto. L'uomo, difeso dall'avvocato Gian Domenico Caiazza, ha giustificato quelle utilità con l'amicizia pluridecennale che lo lega alla Boda. I magistrati hanno quantificato questi regali in almeno 336.000 euro, tra doni, affitti e pagamento di stipendi. Quando le toghe hanno ricordato a Castelbianco che aveva ricaricato la carta di credito in uso alla donna con quasi 39.000 euro, ha giustificato quei bonifici con la sua generosità. Ha confermato che la segretaria Valentina Franco e l'autista Fabio Condoleo, a disposizione della Boda, erano a libro paga delle sue società e ha spiegato che gli altri soggetti destinatari di promesse di assunzione erano persone bisognose. Ma l'indagato ha negato la corruzione: infatti ha ribadito il lungo rapporto con il Miur, antecedente alla promozione nella stanza dei bottoni della Boda, e ha negato guadagni sontuosi. Anzi Castelbianco si sarebbe lamentato di aver lavorato per anni quasi gratis. Il ministero si sarebbe rivolto a lui e alle sue aziende solo per la straordinaria esperienza maturata dalla sua rete di esperti e la loro attività di consulenza sarebbe stata persino sottopagata. Sui presunti scarsi guadagni i magistrati non si sono soffermati con le domande poiché le indagini stanno proseguendo e i ricavi risulteranno documentalmente dalla lettura dei bilanci e dai bonifici. Al momento Bianchi di Castelbianco ha descritto se stesso quasi come un mecenate, sebbene anche «imprenditore», come ha precisato in un video di qualche mese fa. Quasi a dire che qualcosa deve pur guadagnare. A livello investigativo potrebbe essere risolutivo verificare quanto abbiano incassato le società riconducibili a Castelbianco con la Boda capo dipartimento delle risorse finanziarie e quanto negli anni precedenti. E le riunioni al Miur per discutere di bandi e stilare progetti scolastici «modellati sulle caratteristiche economiche e finanziarie delle società» di Castelbianco? Secondo l'indagato la sua partecipazione serviva per mettere a disposizione dei tecnici del ministero le sue competenze e non per interesse personale. Tutte dichiarazioni che la Procura ha accolto, nel complesso, come una sorta di confessione a conferma del proprio impianto accusatorio, dando per questo il via libera alla scarcerazione. Di tutt'altro avviso la difesa. L'avvocato Caiazza ieri ha diramato questo comunicato: «Il mio assistito ha oggi lungamente e dettagliatamente risposto all'interrogatorio di garanzia, non avendo nulla da nascondere. Non un solo bando di gara è stato vinto dall'istituto da lui fondato e presieduto se non per l'enorme prestigio e l'assoluta credibilità guadagnati nel mondo della scuola italiana in decenni di attività di assoluta qualità professionale e di riconosciuta eccellenza culturale». E sui rapporti con la Boda ha specificato che tra lei e il suo cliente «intercorre un rapporto di antica e solida amicizia personale, mai tradottosi in alcuna attività istituzionale men che lecita». Per il legale «il Gip ha dato atto della piena disponibilità» del suo assistito «a rispondere a tutte le domande a lui poste» e per questo «disposto la sostituzione del carcere con gli arresti domiciliari». Anche perché oltre i settant' anni si va in carcere in ragione di eccezionali esigenze cautelari che vengono meno di fronte all'ammissione degli addebiti. Caiazza è convinto che «il tempo saprà essere galantuomo». Domani saranno interrogati dal Gip anche gli altri due arrestati, Condoleo e Franco, assistiti rispettivamente dagli avvocati Michele Novella e Giuseppe Di Trocchio. Prossimamente (ma la data è da fissare) i pm dovranno, invece, verbalizzare la versione della Boda che ha chiesto, tramite il suo legale Giulia Bongiorno, di essere sentita. Castelbianco si era già ampiamente difeso in un lungo video pubblicato a giugno su Youtube, come risposta a un articolo della Verità. Nell'occasione aveva parlato di «massacro mediatico» e di «danno incommensurabile» per l'«enorme risalto», a suo dire, avuto dai nostri servizi. Quindi aveva ricordato i vent' anni di impegno delle sue società per dare sostegno psicologico ai ragazzi nelle scuole, introducendo nelle aule psicoterapeuti e centri di ascolto, soprattutto in situazioni di stress come i terremoti, il crollo del Ponte Morandi o l'attentato di Brindisi. Nel video ha confessato più volte di risultare «antipatico», lasciando intendere che le indagini potessero essere state innescate dalla denuncia di qualche nemico o concorrente. Tanto che ha citato le proteste che sarebbero arrivate al ministero per alcune sue iniziative, come il progetto per i bambini autistici detto Tartaruga per la sua durata quadriennale. Nel filmato ha citato i 380 professionisti che lavorano per lui e ha rimarcato di aver vinto i bandi ministeriali proprio in forza della sua poderosa struttura: «Io ho imparato, non tanto a mie spese, ma quanto come spettatore che quando c'era un bando per le agenzie il primo veniva vinto dall'Ansa. Ma non è che era una prepotenza: era la più grande che c'è, era la più forte. È l'Ansa, punto. Ho imparato». E sulla Boda? «Tra me e Giovanna non ci sono passaggi di denaro, non ci sono soldi, non c'è carta di credito» aveva assicurato a giugno. Ieri Castelbianco ha dato un'altra versione.
La dirigente del Miur indagata. Caso Boda, nelle intercettazioni spunta Lirio Abbate: un passaggio di denaro al cronista antimafia? Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. Lirio Abbate, attualmente vice direttore de L’Espresso (sotto scorta da anni per minacce mafiose) entra nell’inchiesta Boda-Bianchi di Castelbianco. Una inchiesta che compie sei mesi. Mezzo anno è infatti trascorso da quando Giovanna Boda, dirigente e capo del dipartimento delle risorse umane del Miur è stata indagata per corruzione, insieme a due suoi collaboratori successivamente finiti ai domiciliari. Tre settimane fa Federico Bianchi di Castelbianco, editore della Dire, presidente della società italiana di ortofonologia, è finito in carcere. Custodia tramutata nei domiciliari dopo sei giorni, anche per un piccolo merito agli occhi del magistrato di sorveglianza: avrebbe iniziato a collaborare con gli inquirenti. La mole delle informazioni da confermare è notevole. Per i dati sin qui acquisiti, Boda avrebbe ricevuto promesse e utilità per un valore di oltre 500 mila euro in cambio di affidamenti pilotati per 23 milioni di euro. In mano a chi conduce le indagini al momento parziali ammissioni, riscontri probatori e una corposa messe di intercettazioni. Chi ha avuto accesso al materiale vi trova un elemento finora rimasto in ombra: i rapporti con i giornalisti, capitolo delicato e dolente. Giovanna Boda presta particolare attenzione alle campagne mediatiche. Agli articoli di stampa, alla televisione, alla percezione dell’opinione pubblica. Non per caso si muove sempre spalla a spalla con l’agenzia Dire. Ma non solo. Venendo in aiuto alla contestatissima immagine della ministra Azzolina, diventata bersaglio della satira e dell’opposizione, si fa alfiere delle sue relazioni con i media, in particolare stringendo accordi con le emittenti tv più attente al mondo della scuola e della politica. Sky Tg24 diventa oggetto di interesse di Giovanna Boda per la possibilità di offrire qualche tribuna televisiva più attenta a dar luce alla ministra. Ne aveva scritto senza sconti Carlo Tecce su L’Espresso del 11 settembre 2020: “La dirigente Giovanna Boda, capo dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali, ha intessuto la trattativa con Sky e poi ha elaborato la strategia sui media di più ampia diffusione. Come gli altri colleghi che si prendono cura dei ministri con spirito di nutrice, il capo dipartimento di Azzolina costudisce un vecchio segreto della politica: ciò che non esiste non si può realizzare, ma si può comunicare”. La comunicazione di Lucia Azzolina, in tempi di polemiche al calor bianco per la protratta chiusura della scuola e l’introduzione dei banchi a rotelle, divenne un ciclone: aveva superato Conte nell’elenco dei politici presenti a La7, è arrivata a una incollatura dalla presenza di Luigi Di Maio nei telegiornali Rai. Fino a quando quell’articolo de L’Espresso accese i fari, e insinuò anche qualche dubbio. Giovanna Boda non la prese bene. Oggi sappiamo come e quanto si diede da fare. Al punto da interessare una delle firme di punta del settimanale: Lirio Abbate. È Boda, in una conversazione intercettata con Bianchi di Castelbianco – parlandosi con la disinvoltura di sempre – che tira in ballo esplicitamente il nome del giornalista antimafia. Lo troviamo nero su bianco sui fogli della Procura. «Hai presente Lirio Abbate, il giornalista de L’Espresso?», dice lei all’amico. Bianchi le risponde senza enfasi: «Sì, più o meno». Boda precisa, in un crescendo di toni: «È il vice direttore de L’Espresso». Federico Bianchi di Castelbianco si fa assertivo. «Di quella storia dell’articolo che mi avevano fatto su di me, su Sky, te lo ricordi?», pungola lei. «Sì, come no», assicura lui. «Poi ho chiamato Lirio Abbate, lo abbiamo recuperato. Non ha più avuto niente…». E di nuovo Bianchi di Castelbianco: «Sì, come no?». Lei riassume la telefonata che dice di aver ricevuto, e la polizia giudiziaria trascrive: «Questo che cosa fa? In bel modo mi comunica che ha fatto un libro per le vendite a maggio sulle donne di mafia, (…) io in bel modo gli ho detto ‘sicuramente venderemo le copie ai ragazzi dell’aula bunker». Federico Bianchi di Castelbianco sbotta. «Oh, fermati! Adesso lui vuole i ventimila euro, te lo ricordi, no?». E l’altra: «Vuole…?». E lui: «Quindi c’è una …» a cui segue una parola che non viene captata. Riprende la Boda: «Però questi come dici tu sono utili». Lui conferma: «Certo». È lei a sottolineare il ruolo del giornalista antimafia: «Perché questo non è un deficiente, questo è il vice direttore. Direttore è Marco Damilano». Lui allora capisce che bisogna passare ai fatti, dare seguito a un’operazione bancaria. Si rivolge a lei per poter eseguire: «I dati come li prendo?», domanda. Lei fa il nome della persona che fa da tramite: «Sara». L’altro capisce e non replica altro se non: «Ok». Di questo dialogo, riportato nero su bianco sul brogliaccio della Procura, abbiamo chiesto conferma a Lirio Abbate, che non ha ritenuto di risponderci. A partire dalle cifre, dai bonifici, dagli accordi veri o presunti con il giornalista, sono ancora molte le ombre che i magistrati inquirenti dovranno portare alla luce. Da quanto emerge dalle carte c’è l’evidenza un rapporto diretto e quasi confidenziale tra Lirio Abbate e Giovanna Boda. Ed è naturale che vi fosse: è stata lei ad organizzare e gestire per dieci edizioni la Giornata della Legalità, quella kermesse per cui si affittava una nave da crociera a Civitavecchia, si imbarcavano studenti di Roma, poi si andava a Napoli, infine si attraccava a Palermo. Una iniziativa nella quale fu spesso coinvolto, con ruoli diversi, Lirio Abbate: una volta a Palermo, come relatore. Una volta a Roma, come il 23 maggio 2018 quando da UnoMattina, Rai Uno, commentava in diretta l’arrivo della nave da crociera in Sicilia. Peccato che adesso si stia indagando anche sugli esorbitanti costi di quelle giornate, che tra navi, feste e libri venduti, della legalità sembravano avere soprattutto l’insegna, come al negozio.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Ricordate Cagliari, Moroni, Lombardini? I Pm in Italia sono come la polizia americana…Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Il tentato suicidio della dottoressa Boda fa comunque venire i brividi nella schiena perché ai delinquenti incalliti un avviso di garanzia e una perquisizione fa il solletico ma ben diverso è il caso se una persona non ha mai avuto a che fare con la giustizia e addirittura reputa di essere innocente. D’altra parte non possiamo dimenticare, anche se è stato fatto di tutto per farli dimenticare, i suicidi di Moroni e di Cagliari e del giudice Lombardini. Come è noto negli Stati Uniti la polizia ha la pistola facile e ciò sta determinando addirittura rivolte nelle varie città. Fortunatamente in Italia polizia e carabinieri hanno un ben altro approccio e spesso sono essi vittima delle violenze dei delinquenti. Invece in Italia diversamente che negli Stati Uniti è la magistratura ad avere una mano molto pesante quanto ad arresti, a intercettazioni immediatamente comunicate ai giornali amici, con la conseguenza di realizzare in tempi rapidissimi quello che un personaggio che se ne intendeva – cioè Francesco Saverio Borrelli procuratore della Repubblica di Milano – chiamò la sentenza anticipata. Con la sentenza anticipata si liquida la reputazione di una persona nello spazio di tre giorni e poi magari a sette anni di distanza può anche intervenire l’assoluzione comunicata dai giornali in tre righe a pagina 15. Non vogliamo buttarla in politica ma di fronte a una miriade di episodi e di fatti assai discutibili, certamente una commissione d’inchiesta sulla magistratura si rende necessaria.
Fabrizio Cicchitto
La scheda. Mani pulite, la stagione dei suicidi. Roberta Caiano su Il Riformista il 19 Novembre 2019. Tangentopoli e tutto ciò che ne conseguì non solo cambiò il volto della politica italiana, che segnò la fine della cosiddetta Prima Repubblica, ma provocò 41 suicidi tra politici e imprenditori. Conosciuta anche come l’inchiesta di Mani Pulite, deve il suo nome al Pm Antonio Di Pietro il quale aprì un fascicolo alla Procura di Milano nel 1991 dando inizio alle indagini. Il vero inizio, però, si ha nel febbraio 1992 quando Di Pietro chiese e ottenne un ordine di cattura nei confronti dell’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Psi di Milano. Dapprima Chiesa, incarcerato a San Vittore, si rifiutò di collaborare con il pubblico ministero, ma in seguito confessò che lo scandalo delle tangenti era in realtà molto più esteso di quello che si riteneva. Da quel momento lo scalpore si allargò a macchia d’olio attraverso una risonanza mediatica molto forte.
I PRIMI SUICIDI – Furono 41 le persone che si tolsero la vita a causa di queste indagini. La maggior parte lo fece al di fuori dal carcere o ancora prima di essere ufficialmente indagati. Questo accadde come conseguenza della pressione dell’opinione pubblica, per il timore che si venisse marchiati a vita, oltre che condannati. Il primo a suicidarsi fu Franco Franchi, coordinatore di una USL di Milano. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi sarebbe rientrato e così si uccise nella sua auto soffocato dal monossido di carbonio. A seguire ci furono quello del segretario del Partito Socialista di Lodi, Renato Morese, che si tolse la vita con un colpo di fucile alla testa, poi quelli di Giuseppe Rosato, della Provincia di Novara, Mario Luciano Vignola, della Provincia di Savona, e dell’imprenditore di Como Mario Comaschi.
I SUICIDI ECCELLENTI – Il 2 settembre del 1992 è la volta del deputato del Partito socialista Sergio Moroni. Tesoriere del partito in Lombardia, a Moroni vengono notificati ben tre avvisi di garanzia per una serie di presunte tangenti e il pool di Mani Pulite chiede alla Camera l’autorizzazione a procedere. Moroni scrive una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parla di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiuta che venga definito come un ladro e contesta di non aver mai preso una lira concludendo con una frase inquietante: “ma quando la parola è flebile non resta che il gesto“. Il 2 settembre si spara un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia.
Uno dei nomi più famosi è quello Gabriele Cagliari. Presidente dell’ENI ed uno dei più importanti manager pubblici, dopo 4 mesi nel carcere di San Vittore si toglie la vita soffocandosi con un sacchetto di plastica. La sua vicenda è quella che ha destato più scalpore perché vengono trovate delle sue lettere in cui esprimeva il suo senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto. Cagliari più volte aveva dichiarato di essere all’oscuro delle tangenti ma la pressione proveniente dall’esterno della cella è stata più forte portandolo al suicidio. A soli tre giorni dalla morte di Cagliari, si uccide un altro indagato: Raul Gardini. Il manager, a capo dell’impero agro-alimentare della famiglia Ferruzzi di Ravenna, viene indagato per una maxi-tangente da 150 miliardi dell’affare Enimont. Quando uno dei suoi dirigenti viene arrestato in Svizzera, Gardini pensa che lui sia il prossimo ad essere arrestato così si toglie la vita nella sua casa di Milano. Infine il 25 febbraio del 1993 viene ritrovato il corpo senza vita di Sergio Castellari, ex direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38. Risultano brutali le parole di Piercamillo Davigo del pool di Mani Pulite “la morte di un uomo è sempre un avvenimento drammatico. Però credo che vada tenuto fermo il principio che le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono non su coloro che li scoprono“. Roberta Caiano
Arrestato per accuse tutte da provare. Perché si è tolto la vita Sabatino Trotta, il primario che non doveva stare in cella. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Aprile 2021. «Siamo passati dallo spazzacorrotti all’ammazzacorrotti»: la battuta di Rita Bernardini è amara ma rende bene l’idea. Nel carcere di Vasto, provincia di Chieti, si è tolto la vita ieri il professor Sabatino Trotta, psichiatra notissimo a Pescara e nella regione. 55 anni, non aveva mai avuto problemi con la giustizia. L’altro ieri deve essergli crollato il mondo addosso. È stato arrestato e portato in carcere nell’ambito di una indagine su presunta corruzione in un appalto sanitario. Accuse tutte da provare per cifre non proprio faraoniche. Malgrado i roboanti comunicati della Procura ne avessero amplificato la portata, parlando dell’appalto per un importo di 11 milioni e trecentomila euro, la contestazione era per 50.000 euro. E succede così l’irreparabile. Proprio mentre La7 mandava in onda un documentario sugli arresti di Mani Pulite, con gli eccessi che portarono tanti a togliersi la vita in carcere (viene letta la struggente ultima lettera di Sergio Moroni) a compiere l’estremo gesto era l’insospettabile psichiatra Sabatino Trotta. Legato da stretti rapporti di parentela con Monsignor Iannucci, per quarant’anni Vescovo di Pescara, attivo nel volontariato cattolico, presidente di una Onlus sulla salute mentale, Sabatino Trotta era forse la più inimmaginabile delle vittime della carcerazione preventiva. Appassionato del suo lavoro nell’ambito del recupero delle fragilità, di lui si ricordano i numerosi interventi per scongiurare suicidi. «Era il professionista che risolveva le situazioni quando un ragazzo voleva lanciarsi da un viadotto o quando qualcuno si barricava in casa minacciando di fare stragi», dice di lui Marco Marsilio, il presidente della Regione Abruzzo nelle cui fila, con Fratelli d’Italia, si è candidato alle ultime elezioni Trotta. «Sono scioccato, sconvolto. Un fatto che mi turba profondamente», commenta Marsilio dopo aver appreso la notizia. La Procura di Vasto ha aperto un fascicolo d’inchiesta. Nella stanza detentiva del carcere di Vasto, prima d’impiccarsi, l’uomo avrebbe lasciato un biglietto alla moglie e ai tre figli. L’avvocato difensore, Antonio Di Giandomenico, chiede rispetto per il dolore della famiglia del dirigente. Non si escludono azioni legali, dopo il fascicolo aperto dalla procura vastese, per fare chiarezza sui fatti: dal carcere, dice Di Giandomenico, non ci sarebbe stata alcuna comunicazione prima che la notizia della morte di Trotta uscisse sulla stampa. Chiede lumi anche Rita Bernardini: «Si sarebbe impiccato con la cintura dei pantaloni, a quanto si apprende. Chi gli ha lasciato portare la cintura in cella? E soprattutto, perché lo hanno messo in carcere?», si chiede. I reati contro il patrimonio prevedono la detenzione domiciliare ormai da tempo, come è noto. Ma qualche Procura non deve ancora aver ricevuto la disposizione di legge. Il sindacato della Polizia penitenziaria alza le mani. «Siamo attoniti e sgomenti per quanto accaduto», dice il Segretario Uil degli agenti carcerari, Renato Tramontano: «Da tempo denunciamo la grave situazione di organico che insiste presso la Casa Lavoro di Vasto, ma risultati in termini di adeguamento ai numeri previsti purtroppo tardano ad arrivare. Su 99 addetti previsti solo 70 risultano oggi in attività, dei quali solo 20 sono coloro deputati al controllo diretto. Diciannove sono in attesa di pensionamento e 4 in malattia a lungo termine. Troppo pochi per garantire ciò che l’articolo 27 della Costituzione ci invita a fare». E conclude: «Possiamo solo auspicare che non vengano immaginate responsabilità da parte degli insufficienti poliziotti in servizio». Dal primo gennaio a oggi sono 11 i suicidi in carcere, in tutta Italia. La carcerazione preventiva ferisce a fondo, talvolta a morte. Dagli eccessi di Mani Pulite ad oggi il tempo sembra essere passato invano.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Concorso Truccato. Reato Impunito.
"La riforma dell'abuso d'ufficio pietra tombale per i concorsi falsi". Corrado Zunino su La Repubblica il 21 gennaio 2021. Tre sentenze nelle ultime settimane su bandi delle università di Pescara, Foggia e Macerata hanno archiviato denunce sulle selezioni su misura: "Con la depenalizzazione dell'articolo 323 non si può procedere", scrivono i giudici. I legali: "Create praterie di immunità". "Si è aperta una prateria di immunità". La riforma dell'abuso di ufficio ha chiuso ogni contestazione, tra le altre, sulla questione dei concorsi universitari, un elemento friabile del mondo accademico italiano e mai affrontato dalla nostra politica. Nelle ultime settimane tre ricorsi penali, a Pescara, a Foggia, a Macerata, sono stati archiviati da giudici o le stesse accuse hanno fatto richiesta di archiviazione. In tutti i casi, per "insussistenza del fatto". Le scelte dei tribunali non sono dipese dall'impossibilità di dimostrare un favoritismo nei confronti di un candidato prescelto o dalla difficoltà di portare prove di fronte a un bando costruito su una figura specifica. L'insussistenza era sempre collegata al dimagrimento dell'articolo 323 del codice penale, avvenuto con la cosiddetta "riforma" del 23 luglio, caricata dal governo all'interno del Decreto semplificazioni. Il ricasco di questa riforma sui processi collegati a concorsi d'ateneo lo si comprende bene, adesso, con le motivazioni emanate dal Gup di Pescara, depositate il 23 dicembre scorso e in queste ore nella disponibilità delle parti. La candidata Agnese Rapposelli aveva fatto ricorso contro tre componenti della commissione esaminatrice per un bando che avrebbe assegnato un posto da ricercatore di Statistica al Dipartimento di Economia aziendale all'Università di Pescara-Chieti. L'accusa rivolta ai tre esaminatori, e già riconosciuta come consistente da Tar e Consiglio di Stato, era quella di aver inserito diversi titoli di un candidato anche se non erano previsti dal bando di gara e di averli poi pesati per la valutazione finale in maniera arbitraria. Bene, il giudice non ha ritenuto che ciò non fosse avvenuto, ma che, a causa della riforma, di fatto il reato sia stato depenalizzato. Ha scritto il Gup Nicola Colantonio: "L'inosservanza delle regole contenute nel bando di concorso non può avere rilievo per la configurabilità del reato all'articolo 323 del codice penale atteso che trattasi di violazione di un mero atto amministrativo". Nel caso, un atto contro le indicazioni di un decreto del ministero dell'Università e della Ricerca. Il giudice si è preso la briga di scrivere nelle motivazioni della sentenza: "Non può tacersi che l'articolo 323 veniva novellato in forza delle disposizioni del decreto del luglio 2020 trasformato poi in legge". Il reato, prosegue il giudice, "si può configurare solo in violazione di regole di condotta aventi forza di legge, cioè da fonti primarie". Se si viola un bando di gara - che non è una legge, ma un atto amministrativo - non si commette più reato. E questo dallo scorso luglio. Simili conclusioni in tribunale ci si sono state per ricorsi nei confronti di bandi emessi dall'Università di Macerata (qui c'è stata una richiesta di archiviazione della procura) e dall'Università di Foggia (dove in gioco c'è un'ipotesi di violazione del regolamento di ateneo al Dipartimento di Agraria). "Ora si aprono praterie di immunità", scrivono i legali dei denuncianti. E il presidente dei penalisti di Foggia, avvocato Paolo D'Ambrosio, scrive: "Il governo guidato dai Cinque Stelle ha finito con lo spazzare via la norma del nostro codice penale che rappresentava un vero baluardo di tutela dei cittadini contro gli abusi e le ingiustizie commessi da chi amministra la cosa pubblica". Giambattista Scirè, animatore dell'Associazione Trasparenza e merito, dichiara: "Questo governo ha fatto un regalo alla lobby degli accademici e la Cassazione ha conferito alla pietra tombale del diritto un valore retroattivo, ci rivolgeremo alla Corte di giustizia europea".
· Concorsi truccati nella Magistratura.
Giustizia, via al concorsone per 500 magistrati. Ma troppi candidati scrivono male. Liana Milella su La Repubblica il 6 dicembre 2021. Mercoledì il Csm chiederà alla ministra altri mille giudici, intanto la commissione d’esame fa “strage” delle prove scritte e finora promuove 88 concorrenti su 3mila. Il giurista Gatta: “Agli studenti di Giurisprudenza dobbiamo insegnare anche a scrivere”. Il ministero studia l'accesso diretto dalla laurea ai test. Andando a memoria, in via Arenula, non ricordano un altro concorso per 500 nuove toghe. Tant'è che hanno battezzato "il concorsone" quello che alla fine di questa settimana sarà pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Al massimo finora si stava sui 300, al massimo 360 posti. Stavolta invece il fabbisogno di nuovi magistrati è talmente drammatico - come dice il Csm che mercoledì ne chiederà altri mille alla Guardasigilli Marta Cartabia - che ci si è spinti fino a quota 500.
Cristiana Mangani per "Il Messaggero" il 7 dicembre 2021. Il Csm chiederà oggi, con una specifica risoluzione, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, di rivedere la normativa per i concorsi in magistratura. Dopo un anno di lockdown, di prove esclusivamente da remoto, i consiglieri spingono per un ritorno in via stabile al test scritto. Chiederanno anche un confronto con via Arenula affinché l'accesso alla professione torni a essere un concorso di primo grado e che ai 10 mila magistrati attuali ne vengano aggiunti altri mille. Una richiesta che apre una questione non da poco, quella della adeguata preparazione dei candidati nei concorsi. Succede, infatti, che dalla correzione dei compiti per il concorso da 310 posti, che si è svolto dal 12 al 16 luglio 2021, su 5.827 candidati hanno consegnato il test 3.797, ma la maggior parte è stata bocciata alla prova scritta. Le correzioni sono ancora in corso, i numeri, però, parlano chiaro: alla data del 2 dicembre la commissione ha esaminato 1.532 buste (ognuna contiene due elaborati) e sono stati definiti idonei solo 88 di questi. Un numero decisamente basso che mostra un trend già verificatosi in passato, ovvero che gli aspiranti magistrati non sanno scrivere. C'è chi ha lacune tecniche, ma anche chi non conosce bene la grammatica. E questo non fa che rallentare la selezione alla professione a causa dell'elevato numero di respinti.
I PRECEDENTI
Una situazione simile si è verificata anche nel 2008. «Troppi errori di grammatica», ha liquidato la vicenda la Commissione dell'epoca, mostrando un grosso disappunto. La storia si è ripetuta nel corso degli anni, ma il dato recente è un vero campanello di allarme. La ministra Cartabia ha più volte invitato a una riflessione gli organismi competenti: facoltà, Ministero dell'università. Serve una migliore formazione, ha sottolineato in diverse occasioni. L'ultima volta è successo il 24 novembre scorso, a Scandicci, all'apertura del nuovo anno della Scuola della magistratura davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «Affido alla vostra riflessione la formazione degli aspiranti magistrati - ha dichiarato la ministra -. È un aspetto che preoccupa, su più fronti, anche molti di voi, come più volte mi è stato confidato. Troppe volte i concorsi per l'accesso alla magistratura non riescono a selezionare neppure un numero di candidati sufficienti a ricoprire tutte le posizioni messe a bando. È questo un dato su cui riflettere, che segnala un problema che deve essere affrontato. A dieci anni dall'istituzione della Scuola superiore della magistratura - ha aggiunto -, in un tempo di bilanci, valutazioni e prospettive forse si può avviare una riflessione pure su quest' ulteriore capitolo, che riguarda direttamente il rapporto con le nuove generazioni, la trasmissione di un sapere, di una esperienza e di un'arte l'arte del giudicare - a chi verrà dopo di noi». L'intervento, dunque, è quantomai necessario. Anche perché, oggi ci sarà l'approvazione della risoluzione da parte del plenum del Csm con la richiesta di mille unità in più. Nel frattempo si sta concludendo la correzione delle prove scritte del concorso di luglio per 310 posti, ed è in arrivo il bando per il concorsone da 500 posti, una cifra mai registrata finora. Questo vuol dire che bisognerà trovare almeno 810 candidati che siano preparati a superare la prova. E visti i precedenti si rischia di non riuscire a raggiungere la copertura del numero di posti banditi. Inoltre, le giovani toghe dovranno anche fare 18 mesi di tirocinio.
NUOVO SISTEMA
La Guardasigilli sta lavorando a un sistema che consenta di presentarsi al concorso in magistratura subito dopo il corso di laurea, tornando al passato, e saltando quindi i due anni oggi obbligatori per il periodo di tirocinio di 18 mesi da effettuare in tribunale, oppure frequentando per due anni una scuola di specializzazione per le professioni legali, o ancora ottenendo un dottorato di ricerca. E infine, essendo già avvocato, che comporta comunque 18 mesi più quell'esame. Ma eliminare il biennio post laurea non è detto che sia sufficiente ad accelerare i tempi per l'accesso alla professione. E con le tante bocciature all'esame scritto, la questione diventa ancora più complessa. «Formazione per i magistrati - ripete Cartabia -, ma formazione, ovviamente, anche per i giovani giuristi, di cui il Ministero, con l'aiuto della stessa Scuola, si sta facendo carico, affinché questi rinforzi arrivino negli uffici con un adeguato livello di preparazione».
Magistratura, il nuovo concorso è un disastro: tutti bocciati (o quasi). Concorso in magistratura disastroso per le aspiranti toghe: la commissione ha esaminato 1532 buste e sono stati definiti idonei solo 88 di questi. Il Dubbio il 7 dicembre 2021. Il concorso per entrare in magistratura? Un disastro. Secondo quanto riportato dal Messaggero, la maggior parte dei candidati, che hanno partecipato alla sessione svoltasi nel luglio scorso, sono stati bocciati alla prova scritta. A disposizione ci sono 310 posti e si sono presentati 5.827 aspiranti magistrati. In 3.797 hanno consegnato il test: alla data del 2 dicembre la commissione ha esaminato 1532 buste (ognuna contiene due elaborati) e sono stati definiti idonei solo 88 di questi. Il giornale romano, però, ricorda che non è la prima volta che accade ciò. Già nel 2008 si erano verificate le stesse condizioni, quando la commissione dell’epoca mostrò un forte disappunto per gli esiti degli scritti. Nelle scorse settimane, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, intervenendo a Scandicci all’apertura del nuovo anno della Scuola della magistratura, aveva chiesto una migliore formazione degli aspiranti candidati. «Affido alla vostra riflessione la formazione degli aspiranti magistrati – ha dichiarato la ministra -. È un aspetto che preoccupa, su più fronti, anche molti di voi, come più volte mi è stato confidato. Troppe volte i concorsi per l’accesso alla magistratura non riescono a selezionare neppure un numero di candidati sufficienti a ricoprire tutte le posizioni messe a bando. È questo un dato su cui riflettere, che segnala un problema che deve essere affrontato. A dieci anni dall’istituzione della Scuola superiore della magistratura – ha aggiunto -, in un tempo di bilanci, valutazioni e prospettive forse si può avviare una riflessione pure su quest’ulteriore capitolo, che riguarda direttamente il rapporto con le nuove generazioni, la trasmissione di un sapere, di una esperienza e di un’arte – l’arte del giudicare – a chi verrà dopo di noi». Il Csm preme per rivedere la normativa che regola i concorsi in magistratura e chiede un intervento urgente a Marta Cartabia, la quale sta lavorando in questa direzione, preparando un nuovo “modello” per consentire ai nuovi giuristi di avere un percorso formativo più idoneo.
"Troppi errori di grammatica". Concorso in magistratura, candidati bocciati per l’italiano: idonei solo 88 su 1.532. Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. L’allarme è tale da essere riconosciuto anche dal Guardasigilli Marta Cartabia, che parlando durante l’apertura del nuovo anno della Scuola della magistratura alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva parlato di formazione dei magistrati come “un aspetto che preoccupa”. È a confermare la preoccupazione del ministro della Giustizia sono i primi dati che emergono dal maxi concorso per l’ingresso in magistratura, svolto dal 12 al 16 luglio scorso e che mette a disposizione ben 310 posti. A presentarsi sono stati ben 5.827 aspiranti magistrati, di cui 3.797 hanno consegnato il test. Al 2 dicembre, scrive Il Messaggero, la Commissione incaricata ha potuto esaminare 1.532 scritti e a essere definiti idonei sono solamente 88 di questi. Se questo trend dovesse essere confermato anche dalla seconda metà degli scritti da esaminare, verrebbero così coperti solo i due terzi dei 310 posti messi a disposizione. Il vero dramma è che un caso simile si era già verificato nel 2008, una storia che quindi si ripete. “Troppi errori di grammatica”, era stato il giudizio severo della Commissione dell’epoca, che evidente ha dovuto fare i conti con gli stessi deficit a distanza di 13 anni. Un problema, come detto, di cui aveva parlato apertamente il ministro Cartabia il 24 novembre a Scandicci, per l’apertura del nuovo anno della Scuola della magistratura: “Troppe volte i concorsi per l’accesso alla magistratura non riescono a selezionare neppure un numero di candidati sufficienti a ricoprire tutte le posizioni messe a bando. È questo un dato su cui riflettere, che segnala un problema che deve essere affrontato. A dieci anni dall’istituzione della Scuola superiore della magistratura – aveva sottolineato il Guardasigilli -, in un tempo di bilanci, valutazioni e prospettive forse si può avviare una riflessione pure su quest’ulteriore capitolo, che riguarda direttamente il rapporto con le nuove generazioni, la trasmissione di un sapere, di una esperienza e di un’arte l’arte del giudicare, a chi verrà dopo di noi”. Mentre è in arrivo un secondo ‘concorsone’ per l’ingresso in magistratura, addirittura con 500 posti a diposizione, numero mai visto prima, proprio il ministro Cartabia è al lavoro per cambiare il sistema di accesso alla magistratura. L’intenzione è quella di consentire ai nuovi giuristi di avere un percorso più idoneo: l’obiettivo è quello di consentire la presentazione al concorso subito dopo la laurea. Via dunque i 18 mesi di tirocinio che si facevano in tribunale per inserire due anni di scuola di specializzazione per le professioni legali oppure tramite dottorato di ricerca.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Record di bocciati allo scritto del concorso di magistratura. Il flop dell’italiano a scuola ormai è un’emergenza democratica. Marco Ricucci, professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano, su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2021. Su 1.532 compiti consegnati, finora è passato soltanto il 6% dei candidati. La questione della lingua italiana e l’urgenza di cambiare il modo di fare didattica della lingua a scuola. Il Codice di Hammurabi, databile intorno al 1750 prima della nascita di Cristo, è una raccolta di leggi scritte per i sudditi dell’Impero babilonese, ma probabilmente agli aspiranti magistrati, che hanno svolto, nel 2021, l’ultimo concorsone per accedere ai tribunali della Repubblica italiana, sarà poco famigliare, a vantaggio del diritto romano. Passando dunque dai libri di storia antica – si tenga bene conto del motto historia magistra vitae!- alla cronaca nostrana, da più parti è stata ripresa la notizia che la maggioranza degli aspiranti giudici non è riuscita a superare la prova scritta per gli eccessivi errori di grammatica di lingua italiana. Nel dettaglio, in base all’ultimo aggiornamento sul concorso da 310 posti che si è tenuto dal 12 al 16 luglio, i candidati erano precisamente 5.827; e di loro soltanto in 3.797 hanno consegnato la busta con la prova. Ma, paradossalmente, il reale problema si presenta proprio con la correzione degli elaborati: sui 1.532 compiti esaminati finora dalla Commissione, è passato soltanto, a stento, il 6% dei candidati, ovvero 88 aspiranti. Incredibile ma vero: qual è la ragione? Gli aspiranti magistrati non sanno scrivere nella lingua italiana e, per riprendere le parole dolenti della Commissione in un analogo concorso del 2008 prima di questo, gli errori grammaticali sono troppi. Ecco che si ripropone, in tutta la sua concretezza, quella che da qualche tempo ho battezzato «la neo-questione della lingua italiana», che finora ha avuto solo una denuncia di stampo pedagogico-didattico, ma che in realtà consiste anche in una vera emergenza di tenuta democratica. Negli ultimi anni, i docenti di lettere hanno avvertito un decadimento di una delle quattro abilità ritenute fondamentali dalla civiltà occidentale fin dall’antichità classica, la scrittura, e su tutti i mass-media ebbe vasta eco, nel 2017, l’appello di 600 accademici italiani rivolto alla classe politica al fine di denunciare la scarsa conoscenza e competenza della lingua italiana da parte delle nuove generazioni. Questo complesso fenomeno, ancora da ben contestualizzare, andrebbe interpretato anche alla luce di concetti più generali ed epocali come quello di società liquida (Bauman), di villaggio globale (Ong), di oralità e scrittura (MacLuhan), di nativi digitali (Prensky). Nella scuola italiana, che spesso ha fatto della tradizione la giustificazione del proprio immobilismo pedagogico, la didattica della scrittura esplicita, permanente, graduata e inclusiva, scientificamente fondata, è purtroppo limitata: se al biennio si privilegia la lettura di brani antologizzati con un focus sulla lettura «decifrativa» del capolavoro manzoniano, al triennio, oltre alla storia della letteratura italiana basata su un impianto diacronico e spesso nozionistico, rimane – sulla carta- centrale la lettura esegetica delle cantiche dantesche. Allora, con un atto di onestà intellettuale, nell’attuale monte ore di lingua e letteratura italiana formato da appena 4 ore settimanali (prima della Riforma Gelmini ce ne erano cinque!), quanto spazio è realisticamente possibile dedicare alla didattica della scrittura?
Nel nostro Paese, che pare «una nave sanza nocchiere in gran tempesta», si deve arrivare al paradosso di «ammazzare» i Padri della lingua italiana, con la provocatoria proposta di abolire non solo Manzoni ma persino Dante, per poter concedere maggiore spazio e tempo all’educazione linguistica, che tuttavia è una priorità contingente e sostanziale? Secondo il Professor Serianni, noto linguista e sempre attento al mondo della scuola, «quel che pregiudica il successo scolastico nell’italiano scritto è un insieme più complesso e meno facilmente rimediabile: scarsa capacità di organizzazione e gerarchizzazione delle idee, tecniche di argomentazione di volta in volta elementari o fallaci, modesta padronanza del lessico astratto o comunque di quello che esula dal patrimonio abitualmente impiegato nell’oralità quotidiana».
Si delinea sempre più nitida la neo-questione della lingua italiana, anche a partire dalla constatazione dei risultati del concorso a magistrato: si deve, dunque, partire dalla scuola per migliorare le abilità e le competenze di alunne e alunni, che saranno cittadini di domani. Non tutti, ovviamente, fra loro diventeranno magistrati, ma chi lo diventa, previo superamento del concorso, è chiamato a svolgere un ruolo importante nella società democratica: davvero incarna uno dei tre poteri costituzionali, ovvero quello giudiziario, ma con la sua sentenza può disporre della vita dei cittadini, talora privandolo della sua libertà. Il poeta Esiodo, vissuto nel VII a.C., intentò un processo al fratello Perse che non voleva dargli la sua parte di eredità paterna, tuttavia lo esorta così: «ma via, dirimiamo ora la nostra contesa secondo retta giustizia che, provenendo da Zeus, è la migliore». Quando correggo un tema di un mio alunno, in un certo senso, ristabilisco la «giustizia» della lingua italiana con la penna rossa, trasmettendo il «valore» intrinseco della correttezza morfologica, sintattica, lessicale. Se mai l’alunno diventerà giudice, potrà meglio scrivere una sentenza e - lavorando anche sulla comprensione a scuola - capire le leggi. Alla luce di queste brevi considerazioni, è auspicabile che il Ministro Bianchi, pandemia permettendo, dia un chiaro segnale «politico» e scelga in modo chiaro di far svolgere la prima prova all’Esame di Stato nel 2022. Per il resto, continua la mia «battaglia» per la lingua italiana, come quella di tantissimi colleghi, nelle aule di scuola e università.
Marco Antonellis per tpi.it il 12 agosto 2021. Era il lontano 2008: Palamara era uno dei tanti magistrati, appena assurto agli onori della cronache per essere da poco arrivato ai vertici dell’Anm, l’Associazione Nazionale Magistrati. Cossiga, uno che in fatto di magistratura (e non solo) la sapeva più lunga di tutti non perse occasione di asfaltarlo. “Teatro” fu il canale all news di Sky, all’epoca diretto da Emilio Carelli, poi divenuto grillino e poi altro ancora. Alla domanda della conduttrice Maria Latella sulle dimissioni dell’allora Guardasigilli, Clemente Mastella, spinto a lasciare l’incarico per un’inchiesta a suo carico, aveva spiegato il ruolo della magistratura nella vicenda. A un certo punto la trasmissione viene interrotta dall’intervento dell’ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga, che immediatamente attacca Palamara con un sequenza di insulti e commenti al vetriolo. “Ha la faccia da tonno. I nomi esprimono realtà. Lui si chiama Palamara come il tonno. La faccia intelligente non ce l’ha assolutamente. In questi anni ho visto tante facce e le so riconoscere…”, afferma Cossiga. Palamara resta in silenzio e Cossiga rincara la dose: “Mi quereli, mi diverte se mi querela…”. Cossiga sul finale si rivolge direttamente alla conduttrice: “Sei una bella donna e di gran gusto, non invitare i magistrati con quella faccia alle tue trasmissioni per carità. L’associazione nazionale magistrati è una associazione sovversiva e di stampo mafioso”. Questo l’antefatto, ormai passato alla “storia” del costume politico e giudiziario di questa nostra travagliata repubblica. A distanza di più di un decennio torniamo a chiedere conto dell’episodio a Luca Palamara, nel frattempo radiato dalla magistratura, candidato alle elezioni politiche suppletive nonché scrittore di best seller assieme al neo direttore di Libero Alessandro Sallusti.
…Non si parla mai dei concorsi per entrare in magistratura. È tutto così trasparente o, come spesso accade per la selezione di altri profili professionali, anche nei concorsi per magistrati c’è qualcosa che andrebbe rivisto?
Questo è uno dei grandi temi. Io posso dire che quando ci si laurea in Giurisprudenza il concorso in magistratura rimane uno dei concorsi più ambiti e difficili da superare. È ovvio che, soprattutto quando c’è un ampliamento forte degli ingressi, si rischia di abbassare il profilo quantitativo. Io mi auguro e spero che le nuove generazioni ancora di più riescano ad avviare il processo del cambiamento, però indubbiamente anche le modalità di svolgimento del concorso necessitano di trasparenza. Così come dovrà essere trasparente qualunque richiesta di incarico direttivo. Mi pare evidente che ormai non si può più auto raccomandarsi, una prassi che mi auguro sarà estesa a chiunque farà domande che implicheranno decisioni del Csm…
I nuovi criteri per la commissione concorsuale. Concorso in magistratura, le correnti non saranno fermate da un sorteggio. Armando Mannino su Il Riformista il 14 Aprile 2021. Il Consiglio superiore della magistratura (Csm) ha modificato su proposta della Terza Commissione i criteri per la designazione dei componenti la Commissione di concorso per l’assunzione dei magistrati. Quelli precedentemente in vigore avevano consentito una lottizzazione integrale delle correnti, ormai non più tollerabile. I posti disponibili erano infatti attribuiti a ciascuna corrente in base alla rispettiva consistenza rappresentativa. Secondo la nuova procedura la Commissione è ora costituita mediante sorteggio non fra i magistrati in possesso di determinati titoli, discrezionalmente determinati dalla stessa Terza Commissione, ma tra tutti i magistrati che abbiano interesse a farne parte. La questione, apparentemente tecnica e di scarso rilievo, è invece più importante di quanto possa sembrare. Palamara, infatti, nella intervista fattagli da Sallusti aveva dichiarato che da parte delle correnti vi era sempre stato un forte interesse a essere presenti nella Commissione di concorso, in quanto strumento di reclutamento correntizio delle nuove leve di magistrati, a sua volta funzionale anche alla “gestione” delle raccomandazioni. Aveva anche aggiunto che “con questo meccanismo” nella sua consiliatura “due figli di componenti del Csm sono diventati magistrati”. Il numero dei figli, parenti, affini o semplici amici di magistrati non componenti del Csm assunti nello stesso periodo di tempo non è noto. Non dovrebbe però essere marginale, altrimenti non sarebbe giustificato il forte interesse di tutte le correnti a essere pienamente rappresentate nelle relative procedure di selezione. All’esito positivo della “raccomandazione” dovrebbe poi corrispondere, almeno di solito, l’iscrizione del candidato assunto alla stessa corrente del magistrato che lo ha raccomandato. La delibera del Csm dovrebbe perseguire un duplice ordine di esigenze strettamente collegate: quella della correttezza sostanziale della procedura concorsuale al fine di selezionare i candidati più preparati, immeritatamente estranea al dibattito politico e giornalistico sulla crisi della magistratura, considerati i non episodici interventi critici sulla qualità delle sentenze; e quella della progressiva attenuazione e rimozione dei meccanismi sui quali si fonda il potere delle correnti, dato che queste, per opinione diffusa, presente in forma sia pure minoritaria anche all’interno della Magistratura, sono la causa principale della crisi in cui questa oggi si dibatte. La modifica normativa costituisce certamente un miglioramento, sia pure modesto, rispetto alla situazione precedente; è però improbabile che sia effettivamente idonea a perseguire gli scopi sopra indicati. È prevedibile infatti che le correnti continueranno a manifestare il loro concreto interesse a essere presenti nella Commissione di concorso facendo presentare la relativa domanda al maggior numero dei propri iscritti, allo scopo di aumentare le possibilità di essere favorite dal sorteggio. Questa Commissione sarà quindi di fatto ancora prevalentemente costituita da iscritti alle correnti, in quanto tali disponibili a recepire le rispettive indicazioni. Nulla probabilmente cambierà rispetto al passato, anche se in essa fossero presenti, come è possibile, alcuni magistrati estranei alle correnti. Questi saranno presumibilmente una minoranza che non riuscirà, anche se volesse, a garantire la regolarità sostanziale del concorso. Non è inoltre probabile, considerato il sistema in cui sono inseriti e i relativi condizionamenti, che saranno impermeabili alle sollecitazioni degli altri colleghi. Anche la seconda esigenza, ammesso e non concesso che il Csm avesse voluto effettivamente perseguirla, non appare soddisfatta, non solo per le osservazioni sopra prospettate, ma specialmente perché un altro e ben più efficace è il meccanismo di selezione dei nuovi adepti. Rileva Palamara che «quando entri in servizio vieni affiancato per un certo periodo a un magistrato anziano e “chi va con chi” lo decide una Commissione apposita in base ai rapporti di forza delle correnti. Se entrano in sessanta, trenta andranno a fare tirocinio da un anziano di Unicost, venti da uno di Magistratura democratica, dieci da uno di Magistratura indipendente. È ovvio che nel calcolo delle probabilità, questi ragazzi si iscriveranno alla corrente del loro tutor, soprattutto se questo spingerà in tal senso». Il magistrato, specialmente se appena assunto, troverà infatti nella sua corrente prima protezione e successivamente un presumibile sviluppo di carriera. La strada per contrastare il predominio delle correnti è quindi ancora lunga e dal Csm, e specialmente dalla componente togata, ci si attendono interventi ben più ampi ed efficaci per incidere sulle disfunzioni della Magistratura. Invece non si riesce a raggiungere l’unanimità nemmeno sulle questioni tutto sommato di modesta rilevanza, quale quella qui esaminata. La delibera del Csm è stata infatti approvata soltanto con i voti delle correnti Area (cartello di sinistra) e Autonomia e Indipendenza, mentre voto contrario hanno espresso i consiglieri di Unicost e di Magistratura indipendente: segno evidente delle resistenze che all’interno della Magistratura si manifestano nei confronti di un qualsiasi tentativo di modificare la situazione esistente.
Il concorso beffa. Concorso per magistrati, decidono le correnti chi entra e chi no. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Ottobre 2020. Maria Rosaria Sodano, ex giudice della Corte d’Appello di Milano, è in pensione da un paio d’anni, e ha aperto unsito dove – gratuitamente – offre materiale di formazione e informazione per chi vuol fare il magistrato. Ci ha rilasciato un’intervista nella quale spiega come e perché i concorsi per entrare in magistratura danno poche garanzie, perché è molto decaduto il livello delle commissioni giudicanti, così come il livello della Scuola superiore della magistratura, e come si potrebbe fare per fermare lo scandalo dell’ultimo concorso, dopo i ricorsi di molti candidati esclusi che hanno portato alla luce un fatto inquietante: i compiti dei candidati promossi erano pieni di strafalcioni, errori, prove di non conoscenza. Voi capite bene che questa non è una bella cosa, perché se in un corpo come quello della magistratura – intoccabile da qualsiasi potere esterno – entrano esponenti inadeguati è un grosso problema. Questi elementi saranno chiamati a fare le inchieste, a giudicare i cittadini, eventualmente a rovinargli la vita. E nessuno mai, dal momento nel quale la Casta lo ha assunti in se stessa, potrà metterli in discussione se non la Casta stessa. In mano a chi è la selezione dei magistrati e la stessa Scuola Superiore? La dottoressa Sodano ci conferma quello che purtroppo sospettavamo: alle correnti. Già, al sistema Palamara. Sono le correnti a decidere, a dividersi, a lottizzare, a inviare a promuovere e a bocciare. Voi credevate alla favoletta dell’autonomia della magistratura? Che ingenui…
Anna Maria Greco per “il Giornale” il 9 aprile 2021. «Le correnti sono come una squadra di calcio: serve un buon vivaio», dice Luca Palamara ad Alessandro Sallusti, nel libro Il Sistema. Spiega che per lottizzare le nuove toghe è fondamentale controllare l' esame di ingresso in magistratura. Per le raccomandazioni, che fin dall' inizio instradano i giovani verso una o l' altra corrente. Ieri al Csm c' è stata la conferma di questa lettura e il tentativo di arginare quella discrezionalità nell' organo di autogoverno che lascia ampio spazio alle manovre correntizie. Il plenum ha approvato, a maggioranza, la delibera per la selezione dei componenti della commissione di esame, stabilendo che saranno scelti con un sorteggio tra tutti i magistrati che faranno domanda, esclusi solo quelli «macchiati» da vicende negative. In sostanza, si amplia il bacino rispetto al sistema precedente in cui il sorteggio c' era, ma solo su una base selezionata per generici titoli dalla Terza commissione del Csm. Era un sorteggio «pilotato» che permetteva alle correnti di sistemare uomini fidati nei posti chiave. E questo spiega perché era così importante anche chi si piazzava nella Terza commissione, «un organo lottizzato dalle correnti, che a sua volta lottizza i commissari», secondo Palamara. Ma quella che potrebbe essere una svolta epocale, non solo per l' esame ma anche per i riflessi sulla riforma stessa del Csm, arriva proprio da quella commissione. La proposta presentata al plenum dal relatore e presidente della Terza, Giovanni Zaccaro (Area) viene votata dal cartello di sinistra, da Autonomia e Indipendenza e dai laici di diverso colore, mentre si mettono di traverso Unità per la costituzione e Magistratura indipendente. Zaccaro però precisa che «la delibera - lungi dal legittimare il sorteggio come forma per selezionare candidati destinati a ruoli per i quali rilevano specifiche attitudini, come quelle direttive o semidirettive - è un gesto di fiducia verso tutti i magistrati». In definitiva, l' ammissione che prima erano giustificate le ombre sull' esame ed una «excusatio non petita» che conferma: il sorteggio, se serve a garantire trasparenza in questo caso, perché non dovrebbe valere in altri, come l' elezione dei membri del Csm? Quando alternative serie alla discrezionalità non ce ne sono, meglio la sorte.
Carlo Nordio a Quarta Repubblica: "Se un magistrato vuole fare carriera, deve iscriversi alle correnti". Libero Quotidiano il 02 marzo 2021. Si parla di magistratura a Quarta Repubblica. Ospite di Nicola Porro nella puntata del 2 marzo l'ex magistrato Carlo Nordio che su Rete Quattro vuole precisare: "La maggior parte dei magistrati è estremamente indipendente. Il potere delle correnti agisce quando il magistrato vuole fare carriera, perché è vero che non vai avanti se non sei iscritto alle correnti". Insomma, non tutti sono come quelli denunciati da Luca Palamara. Di più perché l'ex magistrato tiene anche a chiarire che le prove a cui sono sottoposti non possono essere in alcun modo manomesse. "Non vorrei che sembrasse che l'ingresso in magistratura è truccato, le prove scritte che sono 3, sono incompatibili con qualsiasi forma di trucco o raccomandazione perché sono anonime. Dopo si che c'è l'accaparrarsi e la spartizione tra le correnti". Poi, in un lungo colloquio con Libero, Nordio aveva anche tranquillizzato Mario Draghi dalla profezia di Paolo Mieli. Per l'ex toga, che di magistratura se ne intende, il nuovo premier "non corre alcun rischio, perché è così al di sopra di ogni sospetto che un'iniziativa giudiziaria contro di lui sarebbe un boomerang, ne aumenterebbe addirittura la popolarità e accentuerebbe il già notevole discredito della magistratura. Il pericolo c'è, ma è un altro". Il problema potrebbero essere alcune intercettazioni, magari fatte trapelare da qualche procura. In questo caso - spiegava - "se le intercettazioni venissero enfatizzate da qualche giornale compiacente, potrebbe iniziare un martellamento che infastidisca il primo ministro, non abituato a queste subdole aggressioni del circolo mediatico-giudiziario che hanno già fatto tante vittime". D'altronde per il presidente del Consiglio non si preannuncia una strada in discesa. "In tempi normali un governo con un capo così autorevole potrebbe anche farcela" a passare sopra alle resistenze corporative delle toghe, "ma occupato com'è per il Covid e l'economia, non so se se la senta di rischiare".
Il Sistema, le raccomandazioni secondo Palamara. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. Pubblichiamo integralmente uno stralcio impressionante del libro in cui l’ex presidente dell’Anm racconta la “sua” verità sui retroscena dell’associazionismo dei magistrati. In questo caso, si parla del concorso in magistratura…Luca Palamara racconta ne Il Sistema (Rizzoli, Milano 2021) uno dei possibili meccanismi attraverso cui le correnti dell’Anm “piloterebbero” in parte il temutissimo concorso in magistratura. Queste dichiarazioni, rese al direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti gettano una luce ulteriore (e sinistra) sui sospetti coltivati da tanti ma esplicitati quasi da nessuno emersi in seguito ad alcuni scandali “recenti”, che riguardano proprio il concorso…
[Palamara] Per esempio, come il «Sistema occupa il potere. Non ci crederà, ma le correnti sono come una squadra di calcio: serve un buon vivaio, senza il quale non si va da nessuna parte. Non per nulla c’è la corsa, e non solo per il gettone economico, a fare il commissario nei concorsi per magistrati. A decidere è la terza commissione del Csm, cioè un organo lottizzato dalle correnti che a sua volta lottizza i commissari, e di questo sulla mia chat c’è ambia documentazione. Ciò serve, non solo ma anche, a garantire le raccomandazioni: basti pensare che con questo meccanismo nella mia consiliatura due figli di componenti del Csm sono diventati magistrati».
[Sallusti] Raccomandazioni?
[Palamara] Io ho soddisfatto tante richieste in tal senso e soprattutto sono stato contattato più volte da magistrati, anche autorevoli, che chiedevano raccomandazioni per gli esami orali dei figli.
[Sallusti] Bella partenza per un neomagistrato.
[Palamara]Appunto, tutto il mondo è paese e la magistratura non sfugge alla regola. Ma il bello viene dopo.
[Sallusti] Dopo quando?
[Palamara]L’obiettivo del «Sistema» è accaparrarsi il neomagistrato. Come? Facendolo iscrivere il prima possibile alla propria corrente. Funziona così: quando entri in servizio vieni affiancato per un certo periodo a un magistrato anziano e «chi va con chi» lo decide una commissione apposita in base ai rapporti di forza delle correnti. Se entrano in sessanta, trenta andranno a fare tirocinio da un anziano di Unicost, venti da uno di Magistratura democratica, dieci da uno di magistratura indipendente. È ovvio che, nel calcolo delle probabilità, questi ragazzi si iscriveranno alla corrente del loro tutor, soprattutto se questo spingerà in tal senso. È la linfa per alimentare il «Sistema» delle correnti, che anche per questo si battono per mettere uomini propri nelle procure più importanti e popolose, come Milano, Roma, Napoli, Palermo e Catania. E così sarà a ogni passaggio della vita professionale, sempre che tu voglia fare carriera.
[Sallusti] Mi faccia degli esempi.
[Palamara] Quanti ne vuole. Prendiamo i «magistrati segretari» del Csm, colleghi tra i cui compiti c’è anche quello di dover motivare le nomine, cioè scrivere perché Tizio è più bravo di Caio e quindi ha diritto a quel posto. Secondo lei chi li nomina?
Non lo so, me lo dica lei.
[Palamara] I capicorrente, ovviamente. Così avviene per i membri dell’Ufficio studi, dove vengono elaborati i pareri che danno la linea politica alle decisioni del Csm, ma soprattutto questo vale per gli «assistenti di studio» dei giudici della Corte Costituzionale.
[da Il Sistema, cap. Il vivaio, pp 59-61]
Anomalie nella prova per magistrati. Il concorso per diventare magistrato era truccato? Paolo Comi su Il Riformista il 25 settembre 2020. Dice: vabbè, tanto si sa che spesso i concorsi sono truccati. Già, ma stavolta non era un concorso qualsiasi, era il concorso per diventare magistrati. E cioè un concorso che getta alcune centinaia di giovani dentro la magistratura, e queste centinaia di giovani potrebbero, nei prossimi anni, trovarsi a chiedere o firmare un ordine di arresto contro qualcuno di noi, o a emettere una sentenza. Diciamo che sarebbe preferibile che la selezione fosse rigorosa. E invece abbiamo scoperto che il concorso per 330 posti di magistrato è stato un pasticcio senza fine. I compiti dei candidati che sono stati promossi erano pieni di sciocchezze (cioè saranno magistrati persone che sanno pochissimo di legge) e per di più moltissimi di questi compiti erano pieni di segni di riconoscimento evidentissimi. E questo legittima il sospetto che i candidati fossero d'accordo con qualche membro della commissione per farsi riconoscere e aiutare. Capisco l'obiezione: il tuo è solo un sospetto. Sì, un sospetto robusto, mi chiedo cosa sarebbe successo se fosse uscito fuori che i compiti di qualche altro concorso pubblico erano come quelli dei candidati magistrati. Avvisi di garanzia a tutti, inchiesta e super-inchiesta, intercettazioni, Trojan, arresti e retate. Siccome però la commissione del concorso era composta da ventotto membri dei quali venti sono magistrati, non è affatto detto che scatti una inchiesta. Comunque ancora non è scattata (per ora la magistratura è troppo assorbita dal caso Suarez). Poi, a margine, c'è una seconda questione. La commissione che sceglie i nuovi magistrati è una commissione di magistrati. Cioè sono gli stessi magistrati (probabilmente spartiti per correnti) che ammettono i nuovi adepti. Esattamente come in una casta. Anzi in una setta. E poi, chi entra in questa setta, non potrà essere mai giudicato da nessuno e la setta stessa, e il caposetta, gli assicura protezione e impunità. Lui invece - il nuovo adepto - potrà giudicare chi vuole, e se sbaglia non dovrà rispondere. Medioevo? Ma forse nel Medioevo c'era più equilibrio tra i poteri. Dopo l'accesso agli atti dei bocciati, si infittiscono le ombre sulle prove di giugno: tra i 330 prescelti c'è chi scrive castronerie, chi stila il tema in stampatello, chi disegna schemini invece di svolgerlo, chi lascia spazi vuoti, quadrati e altri segnali di riconoscimento. Tutto regolare? Avete mai visto un giudice che invece di scrivere una sentenza disegna uno "schemino" (candidato n. 2814)? O che invece di articolare il ragionamento che lo ha condotto alla decisione si limita ad elencare gli articoli di legge (candidato n. 1333)? O che, oltre al pegno e all'ipoteca, inserisce la "servitù prediale" fra i diritti reali di garanzia (candidato n. 95)? In caso la risposta fosse negativa, preparatevi: fra poco potrà capitarvi di leggere sentenze dove i paragrafi sono stati sostituti dalle freccette dei diagrammi di flusso o dove la motivazione è come il Codice enigma, va decifrata. La lettura degli elaborati delle prove scritte dell'ultimo concorso per trecentotrenta posti di magistrato ordinario sta evidenziando più di una sorpresa, creando fin da ora ansia nei cittadini che potranno incappare in queste nuove leve togate. Diversi candidati che sono stati bocciati agli scritti hanno fatto in queste settimane l'accesso agli atti, in vista di un ricorso al Tar, per capire che cosa avessero sbagliato e quale fosse il maggior livello qualitativo degli ammessi alle prove orali. Ad assisterli Maria Rosaria Sodano, fino allo scorso anno, prima di andare in pensione, giudice della Corte d'Appello di Milano, e ora tutor di alcuni ragazzi che provano il concorso in magistratura. I compiti analizzati (in questa pagina è possibile vederne qualche esempio), alcuni redatti in un italiano improbabile, presentano poi molte "anomalie". Ci sono elaborati scritti interamente in stampatello maiuscolo, altri con righe vuote tra una frase e l'altra, altri ancora con una infinità di correzioni e cancellature da essere illeggibili. Sul contenuto, infine, "orrori" giuridici a nastro. La genesi di questo concorso è alquanto complessa. Bandito nel 2017, la Commissione esaminatrice venne nominata ad ottobre dell'anno successivo. Le prove scritte, tre, si tennero a giugno dello scorso anno. La correzione è terminata qualche settimana fa. Come per tutto ciò che attiene il funzionamento del sistema giustizia, anche il concorso per indossare la toga non poteva essere immune dalle pressioni delle correnti della magistratura. La Commissione è composta da ventotto membri. Venti sono magistrati. Chi ha scelto queste venti toghe? Domanda retorica: Il Consiglio superiore della magistratura. Con quali criteri? Con il "sorteggio". I magistrati che volevano far parte della Commissione esaminatrice e quindi per un paio di anni stare lontani dai tribunali, avevano segnalato il proprio nome al Csm. Sulle modalità del sorteggio non è però dato sapere. Il Guardasigilli ha poi provveduto con proprio decreto alla nomina formale della Commissione. Il concorso in magistratura ha delle regole diverse da tutti gli altri concorsi pubblici. Sui segni di riconoscimento, ad esempio, le regole in vigore prevedono solo che il candidato "non debba farsi riconoscere", lasciando alla Commissione di turno il compito di fissare quali siano i relativi criteri. Quindi il candidato può disegnare un pallino all'inizio di ogni rigo o lasciare spazi bianchi nelle pagine ed è tutto regolare. Ed anche fare lo schemino con le freccette invece che articolare le frasi nel tema. La discrezionalità senza limiti della Commissione si spinge fino a vette inimmaginabili. Ogni esame, infatti, fa storia a se. Lo schemino, ad esempio, poteva essere fonte di sicura bocciatura in un concorso precedente. A queste prove i partecipanti erano circa tredicimila. Poco meno di quattromila quelli che poi hanno consegnato gli elaborati. Il concorso si può tentare al massimo tre volte. Il capogruppo in Commissione giustizia della Camera Pierantonio Zanettin (FI) ha chiesto ieri al ministro Bonafede, con una interrogazione urgente, se abbia intenzione di mettere in campo qualche attività ispettiva per capire che cosa sia successo nella correzione dei compiti. Siamo già certi che non succederà nulla. Dimenticavamo: fra le riforme epocali previste dal Guardasigilli grillino vi è anche quella del concorso in magistratura: sarebbe il caso di accelerare, mettendo così ordine nel far west delle scuole di formazione, dove insegnano i magistrati, e la cui frequenza pare essere un "indispensabile" biglietto da visita per azzeccare il titolo delle tracce.
Concorso magistratura taroccato, spuntano altre anomalie. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Non solo strafalcioni giuridici e segni di riconoscimento a nastro: nell’esame per diventare magistrato spunta adesso anche la “turbo correzione”. Il concorso per magistrato ordinario non finisce mai di riservare sorprese. Anzi. La scorsa settimana Il Riformista aveva raccontato le numerose “anomalie” contenute nei temi del concorso da 330 posti bandito nel 2018 e la cui correzione era terminata lo scorso giugno. Molti elaborati che erano stati giudicati idonei, acquisiti dai bocciati, presentavano errori macroscopici in punto di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. I candidati bocciati avevano, poi, richiesto anche i vari verbali redatti dalla Commissione esaminatrice. La Commissione, presieduta dal consigliere di Cassazione Lorenzo Orilia, si era data delle “regole” a cui attenersi nella correzione degli scritti. La correzione sarebbe dovuta avvenire in “rigoroso ordine numerico delle buste in gruppi di dodici consecutivi”. Inoltre doveva essere predisposto un “calendario” delle attività a cui le sottocommissioni dovevano attenersi. L’accesso agli atti non sortiva però gli effetti desiderati. Non veniva, infatti, recuperato alcun calendario dei lavori. Ma non solo. Le correzioni che sarebbero dovute avvenute in rigoroso ordine cronologico erano state effettuate “random”. In particolare, alcuni compiti erano stati lasciati “indietro” e corretti solo successivamente. I verbali, poi, non indicavano le tempistiche delle correzioni. La Commissione, come è stato ricordato, ha grande “discrezionalità” sulla regole da applicare. La legge prevede solamente che “deve essere annullato l’esame dei concorrenti che comunque si siano fatti riconoscere”. In assenza di paletti da parte della Commissione, la giurisprudenza amministrativa nel tempo aveva sdoganato molte pratiche non proprio ortodosse come quella di scrivere il tema in stampatello o di lasciare spazi vuoti fra una riga e l’altra. Semaforo verde anche, con una sentenza del Tar Sicilia, per gli “schemini” in caso fossero serviti per meglio “descrivere” la prova assegnata. Le uniche regole chiare riguardavano la qualità complessiva dell’elaborato. Il tema doveva essere “corretto sotto il profilo sintattico e grammaticale” ed il candidato doveva dimostrare “adeguata padronanza della terminologia giuridica”. Entrambi i requisiti erano ritenuti “indispensabili” al fine del superamento della prova scritta. Il presidente della Commissione, infine, doveva anche prestare grande cura nella composizione delle varie sottocommissioni per garantire il “massimo grado di omogeneità” nella correzione. I componenti sono ventotto, di cui venti i magistrati. Sul concorso il ministro della Giustizia esercita “l’alta sorveglianza”. Il Csm, invece, provvede a indicare i nomi dei venti componenti togati della Commissione, composta di ventotto membri. I bocciati si stanno muovendo in ordine sparso. Alcuni hanno chiesto la ricorrezione degli elaborati, altri hanno presentato ricorso al Tar, altri ancora hanno depositato un esposto alla Procura di Roma per la verifica di eventuali illeciti penali. E non è da escludersi un ricorso collettivo al Capo dello Stato. Sul fronte del Csm il primo ad attivarsi era stato la scorsa settimana l’avvocato civilista Stefano Cavanna. Il laico in quota Lega a piazza Indipendenza aveva depositato una richiesta di “apertura pratica” al Comitato di presidenza del Csm. Fra le varie istanze, quella di svolgere “approfondimenti e verifiche nell’ambito delle competenze e dei poteri del Csm”. In particolare, mediante “la convocazione dei componenti della Commissione esaminatrice del concorso”, affinché riferiscano “sui fatti denunciati dai candidati”, senza escludere altre “iniziative meglio viste e/o ritenute”. Il capogruppo in Commissione giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin aveva invece depositato una interrogazione al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sul fronte dei numeri, gli idonei alle prove scritte sono stati 301. 13.000 gli iniziali concorrenti. Quelli che avevano consegnato gli scritti, 3091.In questa vicenda al momento c’è il silenzio da parte dell’Anm: nessun commento sui futuri colleghi.
Concorso in magistratura truccato? L’Anm infuriata contro chi cerca la verità…Paolo Comi su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. “Rimbalzo mediatico spropositato” con conseguente “strumentalizzazione politica”. I vertici uscenti dell’Associazione nazionale magistrati hanno bollato così, sabato scorso, la pubblicazione da parte di alcuni giornali, ad iniziare dal Riformista, della notizia di numerose “anomalie” contenute nei temi del concorso per magistrato ordinario bandito nel 2018. Molti elaborati, la cui correzione era terminata lo scorso giugno e che erano stati giudicati idonei, presentavano errori macroscopici in punto di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. Alcuni dei bocciati, dopo aver fatto accesso agli atti, avevano quindi chiesto di annullare il concorso. Al termine dell’ultima riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm, i cui componenti verranno rinnovati la prossima settimana, è stato diramato un comunicato decisamente sopra le righe. «I ricorsi recentemente proposti, avverso i risultati delle correzioni degli elaborati scritti dell’ultimo concorso, pur se legittimi, sono stati oggetto di rimbalzo mediatico spropositato nei modi e nei contenuti, con successiva strumentalizzazione politica», esordiscono i vertici del sindacato togato. «Inaccettabile – proseguono – è il tono ed il contenuto degli attacchi, che non si limitano a dare la notizia (il ricorso di alcuni candidati) ma presentano la vicenda come se il contenuto dei ricorsi fosse stato già accertato come rispondente al vero, accusando la commissione autorevolmente composta da magistrati, avvocati, professori universitari, di gravissime condotte». Dopo questa lezione di giornalismo, «il Cdc stigmatizza gli irricevibili attacchi all’onorabilità dei componenti della commissione, accusati in modo esplicito di fatti lontani dall’essere accertati». «Tali aggressioni, fondate esclusivamente sulla prospettazione di parte di tre concorrenti non ammessi alla prova orale, nel colpire la delicatissima fase iniziale di selezione, si sostanziano nel tentativo di delegittimare di tutto l’ordine giudiziario», conclude la nota. L’Anm, oltre a dare lezioni di giornalismo, dimentica nel comunicato di raccontare un “piccolo” particolare: su questo concorso è stata chiesta ed ottenuta una apertura pratica al Csm da parte del consigliere laico in quota Lega Stefano Cavanna, avvocato e già docente di diritto civile presso l’Università degli Studi di Genova. Cavanna, dopo aver letto diversi temi giudicati idonei, ha ritenuto che fosse necessario svolgere «approfondimenti e verifiche nell’ambito delle competenze e dei poteri del Csm». In particolare, mediante «la convocazione dei componenti della commissione esaminatrice del concorso», affinché riferiscano «sui fatti denunciati dai candidati», senza escludere altre «iniziative meglio viste e/o ritenute». La richiesta di Cavanna è stata ritenuta degna di nota dal Comitato di presidenza del Csm, composto dal vice presidente David Ermini e dai capi della Corte di Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi. Oggi, comunque, è prevista alla Camera, durante il question time, la risposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede alle richieste di chiarimenti sul punto. E a quanto poi risulta al Riformista, è in procinto di partire una “class action” da parte dei candidati bocciati. Vale, dunque, la pena di riportare le dichiarazioni di Cavanna: «Mi auguro che ci sia da parte di tutti la volontà di voler approfondire l’argomento. Il tema è importante visto che si stanno reclutando dei magistrati e non degli uscieri, con tutto il rispetto per gli uscieri». Nessuna aggressione, ma solo desiderio, che dovrebbe essere apprezzato dall’Anm, di fare chiarezza.
Nuove ombre sui compiti.
Respinti i ricorsi. Concorso in magistratura truccato, il Tar chiude un occhio anzi due: “Tutto regolare”. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Anche il Fatto Quotidiano, tramite il giudice Antonio Esposito, ha scoperto che diversi temi, giudicati idonei, dell’ultimo concorso per magistrato ordinario sono infarciti di “strafalcioni giuridici” ed “errori di ortografia”. Esposito, noto alle cronache per essere stato il presidente del collegio della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi, è da tempo uno degli editorialisti di punta del quotidiano diretto da Marco Travaglio. Nel pezzo di questa settimana, l’ex magistrato ha ripercorso l’intera vicenda del concorso, raccontata dal Riformista già il mese passato con diversi articoli. Alcuni candidati bocciati alle prove scritte, come si ricorderà, avevano chiesto di visionare i temi che la Commissione esaminatrice aveva invece giudicato positivamente. Le sorprese non erano mancate in quanto questi elaborati presentavano errori di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. Venivano acquisiti anche i verbali delle attività svolte dalla Commissione. Si appurava che le correzioni non erano state effettuate, come previsto, in stretto ordine cronologico. In particolare, alcuni compiti erano stati corretti solo successivamente e senza l’indicazione delle tempistiche. L’onorevole Pierantonio Zanettin (FI) aveva al riguardo chiesto chiarimenti al ministro della Giustizia, a cui la legge affida “l’alta vigilanza” sul concorso in magistratura. Con una risposta sorprendente, Bonafede la scorsa settimana aveva affermato di non potere entrare “nel merito delle decisioni” della Commissione, invitando i bocciati a presentare ricorso, come qualcuno aveva già fatto, al Tar. «Il ministro ha dimenticato che può intervenire ogni qualvolta lo ritenga opportuno e ha facoltà di annullare gli esami nei quali siano avvenute irregolarità: è sconfortante constatare che abbia abdicato alle sue prerogative, preferendo obbedire all’ukase dell’Anm che aveva bollato come “strumentalizzazione politica” la richiesta di chiarimenti, era stata la replica di Zanettin. I ricorsi, è notizia di ieri, sono stati respinti nella fase cautelare dal Tar del Lazio in quanto la discrezionalità tecnica, per quanto “opinabile”, non appare “palesemente irragionevole, immotivata o disarticolata dai criteri di valutazione predisposti dalla Commissione”. Tornando quindi ad Esposito, da ex magistrato esperto, ha fornito sul concorso un particolare importante, che era sfuggito a tutti, e che riguarda la modalità con cui viene composta la Commissione esaminatrice. «Vengono sistematicamente nominati quali componenti, per lo più, magistrati non molto conosciuti», ha affermato Esposito, sottolineando che sono «più conosciuti in ambito correntizio». «Tale operazione – ha poi aggiunto – è stata agevolata da una normativa, varata anni orsono con il placet dell’Anm, che ha drasticamente ridotto il numero dei più qualificati magistrati di Cassazione». Insomma, quando c’è un problema che tocca la magistratura è sicuro che le correnti hanno avuto un ruolo – in negativo – di primo piano.
Concorso magistratura truccato: lo scandalo dei raccomandati. Redazione Controcampus il 29 Novembre 2020. Secondo alcuni magistrati il concorso in magistratura è truccato, da rifare? Errori ed anomalie nelle prove scritte, scandalo raccomandati nei posti messi a bando 2018.
Concorso magistratura. Parliamo di uno concorso, tra i più discussi in Italia. Sia per la sua difficoltà e complessità. Sia perché da sempre si parla di candidati raccomandati.
Nel mese di giugno vennero corrette le prove del concorso bandito nel 2018.
Al termine della correzione, si è visto che c’erano dei grossi orrori giuridici e delle grosse anomalie. C’è stata, quindi, subito un’ inchiesta che ha coinvolto il CSM e alcuni vertici della politica.
Il concorso viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale ogni anno. Per accedere è necessario avere determinati requisiti contenuti nel bando.
In particolare, l’esame è diviso in due parti. La prima parte consiste in tre prove scritte e la seconda in una prova orale. Nello specifico, le prove scritte consistono in un elaborato teorico (temi) su alcune materie.
Ma vediamo insieme cosa è successo durante la correzione delle prove del concorso magistratura: è da rifare? Le prove erano truccate?
Perchè il concorso in magistratura sarebbe truccato: cosa è successo, la denuncia dei magistrati
La commissione che corregge le prove del concorso in magistratura, è composta da magistrati avvocati e professori universitari. I nomi vengono suggeriti dal Consiglio Superiore della Magistratura, attraverso un sorteggio.
La correzione dei temi è terminata a giugno. Alcuni bocciati hanno fatto la richiesta di accesso agli atti. Cioè hanno richiesto di poter visionare i compiti svolti. Questo per verificare la correzione dei temi. Molti, infatti, erano stati giudicati idonei ma presentavano errori di diritto. Erano anche presenti diverse indicazioni grafiche che potevano essere viste come simboli identificativi. Quindi, i candidati bocciati, hanno chiesto di annullare il concorso.
Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in merito a tela vicenda non si è esposto molto. Ha solo affermato che Il Ministero, fornisce solo un supporto tecnico. Per quanto riguarda le decisioni della Commissione, trattandosi di provvedimenti amministrativi, sono sindacabili dal giudice amministrativo. La vigilanza affidata al ministro sul concorso consiste quindi nel verificare la regolarità del rispetto delle procedure. Ma non entra nel merito delle decisioni della Commissione. Quindi l’esame per il concorso magistratura è da ripetere? Il Tar cosa ha deciso? Dopo aver fatto la richiesta di accesso agli atti, molti hanno presentato ricorso al Tar Lazio. Ma il giudice respinge la richiesta. Perché: “la discrezionalità tecnica, per quanto opinabile, non appare palesemente irragionevole, immotivata o disarticolata dai criteri di valutazione predisposti dalla Commissione”. Queste sono le parole utilizzate dal Tribunale a fondamento della propria decisione. Dimenticando però, il particolare che la commissione viene nominata a sorteggio dal CSM. Questo fa ben pensare che le anomalie riscontrate da alcuni candidati sono fondate.
Ma, allo stato dei fatti, le prove non si ripeteranno. Bisognerà attendere il prossimo bando per partecipare al concorso per diventare magistrati, nonostante le anomalie e truffe nei concorsi per magistrati abbiano creato scandalo in diverse occasioni.
· Concorsi truccati nell’Università.
Da milanotoday.it il 17 Dicembre 2021. Anche il rettore dell'Università Statale di Milano risulterebbe indagato per un'indagine sui bandi pilotati. Il nome di Elio Franzini, infatti, è comparso nell'inchiesta della procura di Firenze in relazione a due bandi di concorso per ordinari di Urologia: erano stati coinvolti 39 docenti universitari in tutta Italia. Secondo l'accusa, Franzini avrebbe perpetrato "condotte contro la pubblica amministrazione". I reati ipotizzati dai pm fiorentini sono, tra gli altri, associazione a delinquere, corruzione, concussione e abuso di ufficio. Tra gli indagati, insieme a diversi professori universitari e a dirigenti dell'Università di Firenze, anche l'allora rettore Luigi Dei, cui è contestata l’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e all'abuso di ufficio. Nell'ambito di concorsopoli, perquisizioni della guardia di finanza sono state fatte anche negli uffici dell'Azienda ospedaliero universitaria di Careggi e in varie altre città: Milano, Roma e Ancona. Per competenza, alcuni capi d'imputazione sono stati trasmessi a Milano. Emergono accuse per 2 professori milanesi: Francesco Montorsi, urologo e professore ordinario dell'università San Raffaele, e Stefano Centanni, direttore del dipartimento di Scienze della Salute dell'università Statale. Per i pm fiorentini, sottolineano Repubblica e Il Fatto, avrebbero messo "a disposizione i loro poteri e le loro funzioni perché venissero bandite e pilotate, in un'ottica spartitoria, due posizioni di professore ordinario alla Statale per gli ospedali San Paolo e San Donato". L'accusa ipotizzava "uno scambio corruttivo", che avrebbe dovuto portare a due "santi" da premiare: il docente Bernardo Maria Cesare Rocco per Marco Carini, quest'ultimo urologo presso l'università di Firenze al centro dell'inchiesta fiorentina. E per l'altro bando, l'altro docente Luca Carmignani voluto da Montorsi. Nell'indagine del pm Carlo Scalas, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, i carabinieri del Nas stanno ora valutando la posizione del rettore Franzini, che nei giorni scorsi ha ricevuto una visita dai militari nei suoi uffici di via Festa del Perdono. Nella ricostruzione dell'accusa, a Franzini vengono contestate condotte contro la pubblica amministrazione, accuse più lievi quindi delle ipotesi formulate dalla procura fiorentina agli altri docenti, indagati per corruzione.
Concorsi universitari truccati, indagato il rettore della Statale Elio Franzini. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 17 dicembre 2021. Presunti appalti pilotati per riservare cattedre ai professori «amici». Sotto la lente due bandi di assegnazione per ordinari di Urologia. Il docente: «Fiducia nella magistratura, chiarirò la mia assoluta correttezza». Elio Franzini, rettore dell’Università degli Studi di Milano, è tra gli indagati di un’inchiesta che ha portato a scoprire presunti appalti pilotati per stabilire le cattedre e per riservarle ai professori «amici» in barba ai bandi pubblici. Secondo le accuse, a finire sotto la lente degli inquirenti sono stati due bandi di assegnazione per ordinari di Urologia negli ospedali San Paolo a Milano e San Donato a San Donato Milanese (Milano) nell’ambito di un’inchiesta nata a Firenze che ha già portato a denunciare 39 persone, professori universitari e il rettore dell’ateneo fiorentino, Luigi Dei. L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Mario Scalas ed eseguita dai Nas, contesta a Franzini «reati contro la pubblica amministrazione, più lievi quindi dei reati di corruzione evidenzianti nell’indagine» che ha dato origine allo stralcio. La procura milanese sarebbe anche vicina «alla chiusura delle indagini per l’altra inchiesta su concorsi universitari, quella che ha al centro l’ospedale Sacco e ha coinvolto anche Massimo Galli». «Si è diffusa in queste ore la notizia che mi è stato notificato dalla Procura di Milano un avviso di garanzia nell’ambito di un’indagine relativa a una procedura di valutazione comparativa di area medica - scrive in una nota il rettore Elio Franzini -. Nel totale rispetto del segreto istruttorio, anche in considerazione delle recentissime disposizioni del D. lgs 188 del 29 novembre 2021 a tutela dello stesso, posso soltanto dirvi, con molta serenità, che mi attendo di poter chiarire al più presto la mia assoluta correttezza nell’esercizio dei miei atti istituzionali, essendo assolutamente fiducioso nel lavoro della magistratura e assicurando a tutti voi la consueta e piena trasparenza delle mie azioni nel costante e non sempre facile impegno quotidiano a servizio della nostra comunità accademica».
Elio Franzini, rettore dell’università Statale di Milano indagato: il concorso falsato e il sequestro, tutte le accuse. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2021. Due indagini fra Milano e Firenze. Il concorso, le commissioni, il rifiuto dei «saggi», la battaglia amministrativa: così il rettore dell’Università degli Studi Elio Franzini ha bloccato il bando per una cattedra di Storia economica vinto da Luca Fantacci. Ipotesi di turbativa per l’affaire Galli, verso l’archiviazione. Il rettore: «fiducioso nel lavoro della magistratura». Quando in ottobre la Procura di Milano aveva indagato 32 docenti italiani per ipotesi di irregolarità nei concorsi universitari, il rettore dell’Università Statale, Elio Franzini, aveva espresso «sconcerto e sgomento» per fatti «di gravità inaudita». Ora è lui ad avere un problema analogo: ma non tanto sul piano penale di due distinti fascicoli che di rimbalzo fra Milano e Firenze sembrano già di labili prospettive, bensì nella giustizia amministrativa su un concorso non fatto vincere a qualcuno, ma fatto annullare apposta per impedire la vittoria di chi aveva battuto una concorrente.
La cattedra di Storia economica
Il bando è quello del 19 giugno 2018 per professore di seconda fascia di Storia economica nel Dipartimento di Studi storici. Per la Commissione valutatrice stravince il professore Luca Fantacci. Ma la quarta arrivata, largamente battuta, presenta un esposto al rettore Franzini. Il quale nomina un «collegio di verifica» (tre docenti in pensione, e non di quel settore scientifico) che propone alla Commissione una nuova graduatoria capeggiata stavolta dalla ricorrente. Ma la Commissione non ci sta e riconferma la vittoria di Fantacci. Fine? No, perché il rettore decide di rimettere la procedura ad una nuova Commissione. Solo che i nuovi membri nominati dal rettore il 31 luglio 2019 si rifiutano di farne parte, come pure quelli nominati il 7 agosto.
Il concorso cancellato
Fine della storia? Neanche qui. Perché allora il rettore sopprime il concorso il 23 agosto 2019. E quando il Tar Lombardia annulla la revoca del concorso, censurando che i «tre saggi» di Franzini avessero «disancorato la loro valutazione da qualsivoglia parametro preventivamente determinato, con conseguente impossibilità di rintracciare l’iter logico del giudizio», il rettore insiste e fa appello al Consiglio di Stato. Che di nuovo gli dà torto, condannando l’Università a rifondere 5.000 euro di spese legali al professor Fantacci: «L’Università ha revocato un atto senza dar conto delle ragioni», il che «appare sintomatico del riscontrato vizio di sviamento» (rispetto al fine perseguito dalle norme) della «procedura» e dei «connessi poteri attribuiti al rettore».
Le accuse penali
Più friabile il frastagliato piano penale. A Milano, nel fascicolo in cui per altre vicende anche l’immunologo Massimo Galli è indagato dal pool del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, lo è pure Franzini per una ipotesi di «turbativa d’asta» in relazione però a una vicenda già avviata alla prospettiva di una richiesta di archiviazione: lo scenario, per il quale alcune intercettazioni sembravano captare l’imminente anomalia di un iter destinato a sfociare nella presentazione di un solo candidato per un posto, poi non aveva infatti avuto seguito nel prosieguo di indagine .
L’indagine a Firenze
Capitolo ancora diverso è quello della Procura di Firenze, che notoriamente da un paio d’anni ha sviluppato una indagine su 39 professori in tutta Italia, compreso il rettore di Firenze, Luigi Dei. Qui il nome di Franzini (evocato da altri in una intercettazione) sin dall’inizio faceva parte (pur da non indagato) del capitolo nel quale era indagato Marco Carini (professore di Urologia a Firenze) per un concorso per ordinario di Urologia bandito dall’Università Statale presso l’ospedale milanese San Paolo. Poi, all’esito di una ingarbugliata questione procedurale davanti al Tribunale del Riesame di Firenze dove ancora ieri si è tenuta una udienza, i magistrati toscani — come segnalato ieri da Fatto Quotidiano e Repubblica — hanno inviato le carte per competenza territoriale ai pm di Milano, i quali hanno acquisito da Franzini i suoi telefoni e pc, ma optando per la veste di indagato, pure qui per l’ipotesi di «turbativa d’asta».
La replica del rettore
«Mi attendo di poter chiarire al più presto la mia assoluta correttezza nell’esercizio dei miei atti istituzionali», commenta Franzini, «fiducioso nel lavoro della magistratura e assicurando la consueta e piena trasparenza delle mie azioni nel costante e non sempre facile impegno quotidiano a servizio della comunità accademica».
DAGONEWS il 17 Dicembre 2021. Il rettore della Statale Franzini indagato nell’ambito di uno scandalo per concorsi a cattedra? Ancora, dopo quello che ha fatto e rifatto fare a Storia e dopo aver preso le distanze dalle accuse di concorso pilotato rivolte al virologo Galli? Franzini è uno che entrò nei gangli dell’università grazie all’ex rettore Decleva, la cui moglie, Caizzi, fu una dei pochi docenti italiani condannati per un concorso truccato. Franzini è stato vicepresidente e poi presidente di una società privata, la Sie (Società italiana di Estetica), i cui membri pagano una quota e che si riunisce una volta all’anno anche per parlare… dei concorsi a cattedra del raggruppamento disciplinare. Parlare vuol dire decidere chi mettere in cattedra in barba alla regolarità del concorso che poi si bandisce quando si è già identificato il candidato. Sentite dalla viva voce dell’ex presidente Sie, Luigi Russo (allora Franzini era il suo vice) in un video del convegno annuale del 2011 all’università di Torino. Questi sono quelli che, per decenni, hanno deciso chi doveva insegnare una materia a metà strada tra la Filosofia e la Storia dell’arte
Luca De Vito, Sandro De Riccardis per "la Repubblica" il 17 Dicembre 2021. Bandi pilotati per incarichi in università. Accordi per dividere i posti da professore ordinario tra i propri protetti. Per due concorsi per altrettanti incarichi agli ospedali San Paolo di Milano e San Donato Milanese risulta ora indagato anche il rettore della Statale Elio Franzini. L'accademico è stato iscritto in relazione a due bandi di concorso per ordinari di Urologia, emersi in un'inchiesta della procura di Firenze che aveva coinvolto 39 docenti universitari in tutta Italia, tra cui anche il rettore dell'università fiorentina Luigi Dei. Alcuni capi di imputazione sono stati poi stralciati e trasmessi per competenza alla procura di Milano, che ha deciso l'iscrizione di Franzini. Dall'inchiesta della procura di Firenze era infatti emersa l'accusa nei confronti di due medici e professori degli atenei milanesi: Francesco Montorsi, urologo e professore ordinario dell'università San Raffaele, e Stefano Centanni, direttore del dipartimento di Scienze della Salute dell'università Statale. Per i pm fiorentini avrebbero messo «a disposizione i loro poteri e le loro funzioni perché venissero bandite e pilotate, in un'ottica spartitoria, due posizioni di professore ordinario alla Statale per gli ospedali San Paolo e San Donato». L'accusa ipotizzava «uno scambio corruttivo», che avrebbe dovuto portare a due «santi» da premiare: il docente Bernardo Maria Cesare Rocco per Marco Carini, quest' ultimo urologo presso l'università di Firenze al centro dell'inchiesta fiorentina. E per l'altro bando, l'altro docente Luca Carmignani voluto da Montorsi. Nell'indagine del pm Carlo Scalas, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, i carabinieri del Nas stanno ora valutando la posizione del rettore Franzini, che nei giorni scorsi ha ricevuto una visita dai militari nei suoi uffici di via Festa del Perdono. Nella ricostruzione dell'accusa, a Franzini vengono contestate condotte contro la pubblica amministrazione, accuse più lievi quindi delle ipotesi formulate dalla procura fiorentina agli altri docenti, indagati per corruzione. Al telefono, intercettato con un collega di Bologna, Carini affermava di essere stato chiamato dal rettore della Statale di Milano per chiedergli se l'Accademia urologica sarebbe stata disponibile ad accettare la nomina di un professore ordinario al San Paolo. «Il rettore di Milano mi chiama - dice Carini intercettato - e mi chiede se c'è la volontà.. la disponibilità dell'accademia di urologia di un posto al San Paolo di un professore ordinario.. in quanto c'è un progetto regionale che prevede un centro europeo di chirurgia robotica.. per cui loro già hanno preso un associato di chirurgia, prenderanno un ginecologo e volevano anche un urologo». Bocche cucite in procura a Milano, dove lo stralcio delle indagini fiorentine era arrivato a luglio di quest' anno. La procura milanese è inoltre vicina alla chiusura indagini per l'altra inchiesta sui concorsi universitari, quella che aveva individuato concorsi truccati all'Ospedale Sacco, che vede indagato l'infettivologo Massimo Galli.
Concorsi pilotati alla Statale, indagato anche il rettore Elio Franzini. Sandro De Riccardis, Luca De Vito su La Repubblica il 17 dicembre 2021. La procura di Milano ha ereditato uno stralcio dell'inchiesta di Firenze. Sotto indagine due bandi che riguardano posti da ordinario in Urologia per l'ospedale San Paolo e San Donato. Bandi pilotati per incarichi in università. Accordi per dividere i posti da professore ordinario tra i propri protetti. Per due concorsi per altrettanti incarichi agli ospedali San Paolo di Milano e San Donato Milanese risulta ora indagato anche il rettore della Statale Elio Franzini. L'accademico è stato iscritto in relazione a due bandi di concorso per ordinari di Urologia, emersi in un'inchiesta della procura di Firenze che aveva coinvolto 39 docenti universitari in tutta Italia, tra cui anche il rettore dell'università fiorentina Luigi Dei.
(ANSA il 16 novembre 2021) - Elementi che "consentono di ipotizzare" l'esistenza di irregolarità nello svolgimento di alcuni concorsi per l'assunzione di ricercatori e professori universitari all'Università per Stranieri di Perugia sono emersi da un'indagine del Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza di Perugia. Corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d'ufficio, rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio e turbata libertà degli incanti i reati ipotizzati. L'indagine - secondo quanto appreso dall'ANSA - non coinvolge l'attuale vertice della Stranieri.
(ANSA il 16 novembre 2021) - Sono scaturiti dall'indagine sul cosiddetto "esame farsa" per la conoscenza dell'italiano sostenuto da Luis Suarez gli accertamenti che hanno portato la guardia di finanza a ipotizzare irregolarità in alcuni concorsi all'Università per Stranieri di Perugia. Dall'analisi del materiale e dei documenti, anche informatici, acquisiti in quella occasione, in particolare dei telefoni cellulari, sono emersi elementi che hanno portato gli inquirenti a ipotizzare l'esistenza delle irregolarità. Nell'inchiesta figurano una ventina di indagati a vario titolo. Tre o quattro i concorsi sui quali si concentra l'attenzione degli investigatori.
(ANSA su il 17 novembre 2021.) Documenti informatici dei docenti indagati e documentazione relativa ai concorsi dell'Università per Stranieri di Perugia per i quali si sospettano irregolarità sono stati acquisti dal nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza di Perugia impegnata nella nuova indagine che sta interessando l'Ateneo dopo il caso dell'esame Suarez. Materiale ora tutto al vaglio degli inquirenti. Gli accertamenti si concentrano sul contenuto dei file nelle mani delle fiamme gialle. L'ipotesi al centro dell'indagine è che ci possa essere stato un giro di scambio di favori tra i professori, alcuni dei quali di università diverse da quella per Stranieri di Perugia. Accordi - ritengono gli inquirenti - per favorire alcuni candidati nei concorsi (banditi negli anni scorsi e comunque riferiti alla passata gestione dell'Ateneo) per l'assunzione di ricercatori e professori universitari attraverso anche commissari "compiacenti" che a loro volta avrebbero ricevuto vantaggi legati all'inserimento nel mondo universitario di persone da loro indicate. Indagati - 23 tra docenti e vincitori della prove - che ora vengono sentiti dai magistrati della Procura guidata da Raffaele Cantone. Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d'ufficio, rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio e turbata libertà degli incanti i reati ipotizzati a vario titolo. (ANSA).
Università per stranieri di Perugia, dopo Suarez 23 indagati per concorsi truccati. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. L’inchiesta sull’ esame farsa dell’attaccante Suarez, esplosa un anno fa a Perugia, porta ora a nuove iscrizioni sul registro degli indagati della Procura umbra. Si tratta di ventitré persone accusate di reati che vanno dalla corruzione all’abuso di ufficio e alla rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo i magistrati diretti dal procuratore capo Raffaele Cantone si tratterebbe di una manipolazione che ha riguardato le prove d’esame per l’assunzione di assistenti e ricercatori durante alcuni concorsi universitari. Alcuni militari del nucleo di polizia economico finanziaria della Finanza stanno acquisendo documentazione su singoli concorsi presso l’Università per stranieri di Perugia e il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per approfondire la questione. Le verifiche nascono appunto da perquisizioni e approfondimenti effettuati per il caso Suarez, quando si scoprì che la prova di italiano sostenuta dal calciatore era preconfezionata a tavolino da docenti e vertici dell’ateneo privato umbro. In seguito all’acquisizione di materiale informatico era emersa l’ipotesi di irregolarità nello svolgimento di alcuni concorsi. I cui esiti potrebbero essere stati interamente pilotati attraverso la scelta di commissari compiacenti e la predeterminazione dei bandi. Al momento si tratta solo di un’ipotesi investigativa sulla quale sono al lavoro gli esperti. Ma presto potrebbero esserci novità.
Concorso truccato all’università: alle riunioni c’era la vincitrice. La candidata partecipava con i commissari alla stesura del bando: «Ostinata e convinta che quel posto dovesse essere suo a ogni costo». Giuseppe Legato il 26 Ottobre 2021 su La Stampa. «In una riunione preparatoria tra i commissari volta alla discussione-definizione dei criteri per la scelta del candidato e in preparazione della riunione ufficiale della commissione concorsuale, a discutere, concordare i criteri vi era la candidata “che doveva vincere”. É lei che, in quella sede, precisava ai commissari quali fossero i suoi titoli e sulla base di questi, loro, decidevano evidentemente come operare».
Università, così il Parlamento ha azzoppato la riforma anti concorsi truccati. Stefano Semplici, docente di Etica sociale all’Università di Roma Tor Vergata, su Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2021. Il disegno di legge approvato dalla Camera e al vaglio del Senato reintroduce i candidati e i commissari interni che nella prima versione del testo erano stati esclusi per evitare conflitti di interesse. Un’altra occasione mancata di riformare davvero il sistema. Ogni volta che la magistratura punta i suoi potenti riflettori sui concorsi universitari gli effetti più immediati e dolorosi sono ovviamente quelli sulla vita e la reputazione delle persone coinvolte. Gli episodi, però, sono ormai troppo numerosi perché si possa continuare a rinviare una riflessione sulla necessità di cambiare radicalmente le regole. Perché sono le regole a orientare il comportamento degli esseri umani e regole sbagliate implicano il rischio che persone serie, responsabili e stimate – e ce ne sono tante anche fra i professori universitari – si trovino in situazioni che portano pericolosamente vicino al limite da non superare. Il disegno di legge sulle attività e il reclutamento dei ricercatori, approvato dalla Camera il 15 giugno e attualmente all’esame della Commissione Istruzione del Senato, si candida ad allungare l’elenco delle occasioni perdute. Ed è un esempio particolarmente interessante, perché il legislatore era partito concentrandosi sul punto più critico e intervenendo con grande decisione. Già alla Camera, però, era iniziata la «ritirata» rispetto al testo sul quale si era avviata la discussione. E sembra proprio che il Senato si appresti a completare l’opera. Tutti sanno che la «contiguità» accademica fra candidati e commissari, particolarmente forte quando si tratta del rapporto che si definisce «di scuola», magari consolidato in anni di collaborazione all’interno della stessa istituzione, è il generatore di un conflitto di interessi che, pur corrispondendo a una caratteristica naturale e per certi versi preziosa del lavoro universitario, può allungare un’ombra pesante sul presupposto di imparzialità dei commissari. Ed è davvero difficile sostenere che le misure finora introdotte siano state sufficienti a risolvere il problema. Il testo originario nel quale erano stati unificati numerosi disegni di legge, poi discusso e modificato dalla Camera, introduceva nel sistema attualmente vigente due novità che avrebbero svuotato in modo significativo il serbatoio dei sospetti e delle critiche più comuni: si rendeva impossibile la partecipazione ai concorsi dei candidati «interni» e si optava per il sorteggio integrale per la composizione delle commissioni, all’interno di una banca dati contenente i nominativi dei docenti in possesso di determinati requisiti e seguendo una raccomandazione che si trovava già nella sezione «Istituzioni universitarie» dell’aggiornamento 2017 al Piano Nazionale Anticorruzione . Il testo che è arrivato al Senato è già fortemente depotenziato per quanto riguarda il primo punto. Le università dovranno semplicemente destinare «almeno un terzo» delle risorse disponibili a posti riservati agli «esterni» (dunque senza alcun obbligo di superare questa percentuale). E c’è un emendamento che propone di scendere da «un terzo» a «un quinto». Gli emendamenti presentati da senatori dei più diversi partiti fanno immaginare un destino analogo anche per il sorteggio. Si va dalla possibilità, per l’università che bandisce il concorso, di nominare almeno uno dei tre (o due dei cinque) commissari a quella di effettuare il sorteggio su una rosa sempre indicata dall’ateneo interessato. Fermo restando che potrà essere «interno» il commissario, oltre al candidato (per i due terzi dei posti messi a concorso). E così tutto resterà più o meno come prima. I senatori, se dovessero approvare qualcuno di questi emendamenti, potrebbero motivare la loro decisione anche ricordando che questo era uno dei suggerimenti proposti dal Consiglio Universitario Nazionale nella sua adunanza del 28 luglio, a tutela «dell’autonomia che regola il sistema universitario» e per evitare «grandi discrepanze fra le commissioni, per la casuale presenza o assenza di docenti appartenenti alla sede che bandisce la posizione». Una domanda e un dubbio fastidioso sorgono in me spontanei: perché dalla presenza o dall’assenza di docenti «interni» dovrebbero risultare grandi discrepanze nel lavoro delle commissioni? E queste discrepanze potrebbero incidere sul principio di imparzialità? Sarebbe molto più semplice prevedere che non possano esserci commissari interni. In nessun concorso. Oppure riconoscere che il principio di autonomia implica probabilmente una logica e modalità specifiche anche per il reclutamento e aprire un confronto trasparente e onesto fra posizioni diverse ma tutte degne di rispetto. Questa, però, sarebbe un’altra storia.
Massimo Galli, l’accusa della Procura: «Stratagemma dei punteggi per far vincere i propri allievi». Pressioni sui concorrenti. I pm: emergerebbe un sistematico condizionamento. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2021. Come si fa a far vincere un concorso universitario al proprio beniamino se l’altro candidato ha il doppio dei suoi titoli scientifici come indice di impatto sulle più prestigiose riviste mediche internazionali? A questo problema il professore Massimo Galli, se si confermerà esatta la lettura che la Procura di Milano in base a intercettazioni fa degli atti del concorso vinto da Agostino Riva, nel febbraio 2020 avrebbe risposto con uno stratagemma, peraltro in parte condiviso proprio con il suo candidato: far sì che la commissione giudicatrice, fra i criteri per attribuire il punteggio, privilegiasse le pubblicazioni nelle quali, a prescindere dalla maggiore autorevolezza e prestigio delle riviste scientifiche internazionali, il candidato (Massimo Puoti, direttore di struttura complessa di malattie infettive dell’ospedale Niguarda di Milano) figurasse come primo o ultimo autore, e non nel mezzo del gruppo di autori. Criterio ritagliato su misura del candidato di Galli, perché Riva in molte pubblicazioni era autore come ultimo nome (benché su riviste normali e molto meno prestigiose scientificamente di quelle sulle quali il concorrente XX aveva pubblicato ricerche figurando però nel gruppo degli autori. Non per niente proprio il rivale del pupillo predestinato da Galli capisce subito, visti i criteri fissati per la valutazione, che sta per essere fatto fuori con quello stratagemma. E lo capisce talmente bene da precipitarsi a telefonare a Galli per ritirarsi dal concorso che sta così a cuore a Galli per il suo allievo, e nel contempo però riscuotere in cambio dal primario del Sacco una apertura di credito futura per un altro concorso a Napoli che a quel punto gli interessa di più e sul quale Galli gli assicura che si spenderà. Sempre le intercettazioni (disposte all’inizio per una ipotesi di associazione a delinquere che poi ha perso quota) persuadono gli inquirenti Galli non solo all’inizio non si sia astenuto dal conflitto di interessi di giudicare in un concorso un candidato con il quale aveva stretti rapporti professionali e fiduciari (essendo stato Galli coautore in oltre metà delle pubblicazioni di Riva), ma abbia di fatto trasformato il concorso in un giudizio monocratico, del tutto esautorando (ma con loro piena accettazione e mera ratifica dell’esito) gli altri due commissari provenienti dalle Università di Roma La Sapienza e di Palermo (Claudio Maria Mastroianni e Claudia Colomba). Uno spaccato per il quale la stessa segretaria di Galli si diceva sconcertata, insofferente nelle intercettazioni con amiche per il modo con il quale Galli le sembrava non badare a un minimo di forme: ad esempio comunicando agli altri due commissari, presente il proprio pupillo, la certezza di quale sarebbe stato l’altro candidato (notizia in teoria non notagli) e anche la probabilità che comunque infine si ritirasse, togliendo a tutti le castagne dal fuoco. Persino l’atto conclusivo della prova didattica di Riva, già rimasto unico candidato, sarebbe stata viziata dal fatto che Galli, in sintonia con il prescelto che poi in teoria avrebbe dovuto valutare, avrebbe deciso da solo (e poi comunicato agli altri due commissari raccomandando loro di dare in fretta il loro ok formale) i tre possibili argomenti appunto della prova. Nelle casistiche dell’inchiesta dei pm Luigi Furno e carlo Scalas, questa è una delle storie che agli inquirenti appare «un sistematico condizionamento dei concorsi per assegnare il titolo di professore nella Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano», perseguito con manovre per nominare nella commissione esaminatrice docenti che fossero poi ligi o quantomeno non ostili agli accordi pregressi sul prescelto da far vincere; con criteri di valutazione ritagliati proprio sul ritratto del favorito e quindi calcoli di punteggi che penalizzassero i concorrenti più titolati e invece sovrastimassero i lavori presentati dal predestinato di turno (talvolta con la sua diretta condivisione); e infine con lo scoraggiamento dei candidati più pericolosi perché più meritevoli, o facendo velatamente capire che la loro presenza turbava il preventivato andamento della concorso, o lasciando vagheggiare implicite promesse di futuri aiuti su altri tavoli nel caso in cui gli altri contendenti capissero da soli l’antifona e revocassero la domanda.
Luigi Ferrarella per corriere.it il 5 ottobre 2021. Lo scienziato Massimo Galli, uno dei più ascoltati infettivologi e presenza ormai familiare a milioni di italiani per quanti giornali e tv lo consultano di frequente da quando è iniziata la pandemia Covid, è fra i numerosi professori che - da quanto si riesce a comprendere da una trentina di perquisizioni che martedì mattina hanno svolto i carabinieri del Nas - sono indagati per turbativa d’asta e falso ideologico dalla Procura di Milano in una inchiesta su concorsi universitari di Medicina ritenuti truccati all’Università degli Studi di Milano nel 2020, con coinvolgimento di alcuni docenti di altri atenei nelle commissioni giudicatrici.
Penalizzare il più titolato
L’ipotesi di reato mossa al primario dell’ospedale Sacco, chedal 1° novembre andrà in pensione come professore ordinario di malattie infettive all’Università degli Studi di Milano, è che, nella veste di presidente della commissione giudicatrice della selezione bandita nel giugno 2019 per un posto di professore di ruolo di seconda fascia all’Università Statale in malattie cutanee, infettive e dell’apparato digerente nel Dipartimento di scienze biomediche e cliniche dell’ospedale Sacco, avrebbe condizionato l’intera procedura allo scopo di penalizzare un candidato (Massimo Puoti, direttore di struttura complessa di malattie infettive dell’ospedale Niguarda di Milano) attraverso criteri di valutazione dei punteggi che nel febbraio 2020 favorissero invece il candidato poi risultato vincente, Agostino Riva, legato a Galli da stima professionale e fiducia personale. Per questa procedura insieme a Galli sono indagati anche lo stesso Riva, la segretaria di Galli (Bianca Maria Teresa Ghidini, in ipotesi per aver raccomandato a Riva di non farsi vedere in sede ma di discutere i nodi cruciali solo per telefono), e due componenti della commissione giudicatrice, il professore dell’Università La Sapienza di Roma, Claudio Maria Mastroianni, e la professoressa associata dell’Università di Palermo, Claudia Colomba: ad essi viene addebitato di aver consentito a Galli di operare senza mai coinvolgerli, e di essersi alla fine limitati soltanto a recepire in via supina le valutazioni che Galli e il suo candidato avevano in concreto predisposto. Conseguente, dunque, nell’ipotesi di accusa dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas è l’annessa ipotesi di reato di falso ideologico, perché il prospetto con i punteggi attribuiti ai candidati sarebbe stato il risultato non del lavoro collegiale della commissione durante la riunione ufficiale svoltasi in modalità telematica il 14 febbraio 2020, ma di quanto concordato in precedenza, e il relativo documento sarebbe stato predisposto solo in un secondo momento da Galli e Riva.
Gli attriti con la professoressa Gismondo
Allo scienziato viene contestato un secondo episodio, stavolta nel giugno 2020 nella procedura di selezione per assumere a tempo determinato per otto mesi quattro dirigenti biologi da assegnare all’Unità malattia infettive del Sacco: qui l’accusa è che il direttore generale dell’Azienda sociosanitaria territoriale Fatebenefratelli-Sacco, Alessandro Visconti, avrebbe concordato con Galli di far sì che il professore predisponesse un avviso pubblico ritagliato sulle caratteristiche di due candidate che intendeva a favorire (di cui una poi vincente); e che sempre Galli decidesse la composizione della commissione presieduta da una professoressa del Sacco, Manuela Nebuloni, in modo da poter contare su membri che sarebbero stati favorevoli alle proprie indicazioni. In questo caso, però, il risultato non si sarebbe perfezionato per l’opposizione di un’altra scienziata, Maria Rita Gismondo, che aveva minacciato di rivolgersi all’autorità giudiziaria.
Il profilo ritagliato su misura
Da quanto sinora si riesce a comprendere, Galli è indagato anche per una terza ipotesi di reato sempre di turbativa d’asta, ma in relazione a un concorso per un posto di professore di ruolo di prima fascia sempre alla Statale di Milano) in Igiene generale e applicata, scienze infermieristiche e statistica) bandito nell’aprile 2020 e vinto da Gianguglielmo Zehender: qui ciò che viene addebitato in ipotesi d’accusa a Galli, a Zehender, e al professore ordinario della Statale, Francesco Auxilio, che era nella commissione giudicatrice, è di avere ritagliato il profilo del concorso sul ritratto di Zehender intorno al settembre 2020.
La relazione riassuntiva di Torino
Altri professori, e cioè Giovanni Di Perri dell’Università di Torino, Claudio Maria Mastroianni della Sapienza di Roma, e Massimo Andreoni dell’Università Roma Tor Vergata, componente come Mastroianni della commissione giudicatrice di un concorso per professore di seconda fascia all’Università di Torino bandito nel luglio 2020, sono infine indagati insieme a Galli per l’ipotesi di falso nella relazione riassuntiva della riunione tenutasi in remoto il 21 settembre 2020: qui il punto è che la relazione attestava che durante la riunione i commissari avessero elaborato tutti insieme i criteri con cui valutare i candidati, mentre invece per il pool del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli quella relazione sarebbe stata predisposta unicamente dal professor Di Perri, e Galli non avrebbe partecipato alla riunione.
L'infettivologo Massimo Galli, tra i professori più impegnati nella lotta contro il Covid, è indagato dalla procura di Milano. Andrea Crisanti lo difende. Il Dubbio il 6 ottobre 2021. C’è anche l’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, tra i docenti indagati nell’inchiesta della procura di Milano su presunte iscrizioni e nomine irregolari per un episodio di turbativa e falso ideologico. Massimo Galli, in qualità di professore all’Università degli Studi di Milano, “dipartimento di scienze biomediche e cliniche” al Sacco, e di direttore del reparto di malattie infettive, avrebbe “turbato” con “promesse e collusioni”, in concorso col dg della Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti e la collega Manuela Nebuloni, la procedura per assumere a tempo determinato “4 dirigenti biologi” per favorire in particolare “due candidate”. Assunzioni che sarebbero state, invece, “fortemente” osteggiate da Maria Rita Gismondo, anche lei nota virologa del Sacco. È uno degli episodi contestati, come si legge nel decreto dei pm.
Le altre accuse a Massimo Galli
Massimo Galli è indagato anche per un’altra ipotesi di turbativa, oltre a quella relativa alle assunzioni di 4 dirigenti biologi, e in particolare per quella riguardante un posto da professore di ruolo all’Università Statale. Avrebbe truccato il “concorso” per favorire un candidato risultato vincente e avrebbe commesso un falso come componente della “commissione giudicatrice” sul verbale di “valutazione dei candidati” il 14 febbraio 2020. Avrebbe attestato che il «prospetto contenente i punteggi attribuiti fosse il risultato del lavoro collegiale», mentre fu “concordato” solo dopo.
Chi sono gli altri indagati
Oltre a Massimo Galli, anche un noto virologo in prima linea durante l’emergenza Covid è indagato dalla Procura di Milano per la vicenda dei presunti concorsi pilotati di docenti e di personale sanitario e irregolarità nelle iscrizioni alle facoltà di medicina. E’ Massimo Andreoni, ordinario alla Sapienza di Roma, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e primario al policlinico Tor Vergata. Andreoni, risponde di falso in concorso con Galli e altri colleghi, come componente della commissione giudicatrice del concorso bandito nel luglio 2020 per un professore di seconda fascia all’università di Torino. «Hanno inquinato sistematicamente la regolarità delle procedure di selezione» ai concorsi «sostituendo logiche clientelari al metodo meritocratico e al principio di imparzialità». E’ scritto nel provvedimento con cui la procura di Milano ha disposto perquisizioni e acquisizioni di documenti, anche informatici, nell’ambito dell’inchiesta su presunti concorsi universitari pilotati nella quale, tra i 24 docenti universitari di tutta Italia indagati, ci sono i nomi degli infettivologi in prima linea durante l’emergenza Covid Massimo Galli e Massimo Andreoni.
«Fiducia nei nostri ricercatori»
«Nel confermare la nostra piena collaborazione alle indagini in corso, esprimo piena fiducia nel lavoro di tutti i nostri ricercatori». Così il rettore dell’Università Statale di Milano, Elio Franzini, in merito all’inchiesta della procura di Milano su presunte iscrizioni e nomine irregolari per un episodio di turbativa e falso ideologico. «Posso dire a nome dell’intera comunità della Statale – continua – che stiamo seguendo con un senso di sconcerto e sgomento profondi quanto sta accadendo. Si tratta di ipotesi per ora, ma di una gravità senza precedenti per la Statale».
Crisanti difende Galli
«Non posso commentare le indagini e la vicenda, perché non conosco il concorso e le persone coinvolte, ma ho una grande stima professionale di Massimo Galli. E’ una persona di grande integrità, come ho potuto constatare di persona, e la mia opinione su di lui non cambia», ha detto Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova. «Spesso gli elementi d’accusa emersi in fase di indagini preliminari – conclude Crisanti – vengono poi smentiti in fase dibattimentale. Posso solo dire che la mia stima per Galli rimane intatta».
Galli indagato per concorsi truccati va in tv: «Sono tranquillo, non ho fatto niente di particolare». Corriere Tv su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2021. Galli indagato per concorsi truccati va in tv: «Sono tranquillo, non ho fatto niente di particolare» Il professore parla a Cartabianca dell’indagine che lo ha coinvolto. Traspare un po’ di amarezza – Ansa
Da video.corriere.it il 5 ottobre 2021. Massimo Galli è indagato dalla Procura di Milano per concorsi truccati. Insieme a 23 colleghi, avrebbe favorito alcuni candidati per l’assegnazione di posti di professore di ruolo all’Università degli Studi di Milano, penalizzandone altri. L’infettivologo replica a Cartabianca, su Rai3: «Sono tranquillo, da quel che leggo non ho niente di particolare di cui preoccuparmi. Sto comunque aspettando che definiscano meglio l’atto di accusa. Fatti gravissimi secondo il Rettore? Se conoscesse la sostanza dei problemi avrebbe una posizione più tranquilla», ha aggiunto.
Cartabianca, Massimo Galli: "Io indagato? Non credo di dover venire qua a discutere", imbarazzo in studio. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. "Ne ho avuto notizia questa mattina con un avviso di garanzia quando sui giornali la notizia era già presente": Massimo Galli, infettivologo dell'ospedale Sacco e professore all'Università degli Studi di Milano, indagato per concorsi universitari truccati insieme ad altri docenti, ha commentato così l'inchiesta che lo vede coinvolto in collegamento con Bianca Berlinguer a Cartabianca su Rai 3. "Pare che debba funzionare così", ha detto Galli in maniera stizzita, riferendosi alla notizia data prima sui giornali e solo in un secondo momento a lui. "Francamente sono tranquillo, da quello che leggo non ci vedo nulla di particolare. L'ho ricevuto questa mattina, ci ragionerò sopra. Questo è quello che posso dire ora", ha proseguito il professore. L'ipotesi dell'accusa è che il professore, con altri suoi colleghi, avrebbe favorito alcuni candidati per l’assegnazione di posti di professore di ruolo all’Università degli Studi di Milano, penalizzandone altri non graditi. "Quindi non ha compiuto quei reati che sono stati tirati in ballo?", ha chiesto la conduttrice. Ma Galli non si è sbilanciato più di tanto: "Non mi sembra ci sia nulla di consistente, però abbia pazienza. L'ho ricevuto stamattina, ho messo tutto in mano al mio avvocato. Faremo le nostre controdeduzioni quanto prima". Poi ha concluso: "Questo è quanto, non credo di dover venire qua a discutere, trattandosi anche di un argomento in mano alla magistratura in questo momento". Imbarazzo in studio.
Massimo Galli indagato, "minacciato da Maria Rita Gismondo": il clamoroso risvolto nell'inchiesta. Libero Quotidiano il 05 ottobre 2021. Massimo Galli si ritrova indagato insieme ad altre 32 persone per falso ideologico e turbativa d’asta: l’accusa è di aver pilotato alcuni bandi dell’università Statale di Milano per favorire alcuni ricercatori e docenti. Non solo, perché il Corriere della Sera parla di uno screzio pesante con la collega Maria Rita Gismondo, che si sarebbe opposta a una delle procedure portate avanti da Galli, minacciando anche di rivolgersi all’autorità giudiziaria. L’episodio risale al giugno del 2020, quando si doveva assumere a tempo determinato per otto mesi quattro dirigenti biologi da assegnare all’unità malattie infettive dell’ospedale Sacco. L’accusa riguarda un presunto accordo tra Galli e Alessandro Visconti (direttore generale dell’azienda sociosanitaria Fatebenefratelli-Sacco) per fare in modo che il professore disponesse un avviso pubblico su misura per le caratteristiche di due candidate che intendeva favorire (e una poi ha effettivamente vinto). Inoltre sempre Galli e Visconti avrebbero concordato la composizione della commissione presieduta da una professoressa del Sacco, Manuela Nebuloni, descritta come vicina al virologo e quindi più predisposta a seguirne le indicazioni: in questo caso però sarebbe stata Maria Rita Gismondo a mettersi di traverso. Ora toccherà alla Procura di Milano far luce sulla questione: nella mattinata di oggi, martedì 5 ottobre, sono avvenute una trentina di perquisizioni da parte dei carabinieri del Nas.
La “guerra” tra Galli e Gismondo per i bandi pilotati: “Minacciò di denunciarlo”. Giorgia Venturini su Fanpage.it il 5 ottobre 2021. C’è chi si è imposta e ha impedito un concorso pilotato nell’aprile del 2020. Secondo i carabinieri dei Nas, è stata la direttrice del Laboratorio di virologia dell’ospedale Sacco di Milano Maria Rita Gismondo a fermare il piano illecito del dottor Massimo Galli e del direttore generale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti: questi, secondo l’accusa, si erano messi d’accordo per creare un bando pubblico sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire. C’è chi si è imposta e ha impedito un concorso pilotato nell’aprile del 2020. Secondo i carabinieri dei Nas, è stata la direttrice del Laboratorio di virologia dell’ospedale Sacco di Milano Maria Rita Gismondo a fermare il piano illecito del dottor Massimo Galli e del direttore generale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti: questi, secondo l’accusa, si erano messi d’accordo per creare un bando pubblico sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire. C’è chi si è imposta e ha impedito un concorso pilotato nell’aprile del 2020. Secondo i carabinieri dei Nas, è stata la direttrice del Laboratorio di virologia dell’ospedale Sacco di Milano Maria Rita Gismondo a fermare il piano illecito del dottor Massimo Galli e del direttore generale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti: questi, secondo l’accusa, si erano messi d’accordo per creare un bando pubblico sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire. Era tutto deciso e concordato. Le vincitrici del bando di assunzione a tempo indeterminato da assegnare al reparto di malattie infettive dell'area di medicina diagnostica e dei servizi dell'ospedale Fatebenefratelli doveva avere già un nome e cognome. A violare il principio di imparzialità secondo l'operazione "Laurus", condotta dai carabinieri del Nas di Milano, sono stati il direttore generale dell'Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti e il direttore del reparto di malattie infettive Massimo Galli: stando a quanto si legge sulle carte dell'inchiesta i due si concordavano affinché il famoso medico predisponesse un avviso pubblico modellato sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire, nonché che lo stesso Galli decidesse anche la composizione della commissione giudicatrice in modo farvi entrare dei membri a lui favorevoli che avrebbero privilegiando le candidate a lui indicate. Un piano che secondo i carabinieri non è andato a buon fine perché fortemente osteggiato dalla dottoressa Maria Rita Gismondo (non è indagata) che aveva "minacciato" i due di rivolgersi all'autorità giudiziaria. A mettersi invece a disposizione di Gallie del suo "progetto illecito" – come lo definiscono gli inquirenti – c'era la presidente della commissione giudicante Manuela Nebuloni.
Il concorso pilotato nel pieno dell'emergenza Covid
Ed è tra i due medici diventati famosi per i loro commenti durante la pandemia che ci sarebbe stata una "guerra" sui concorsi pubblici truccati: nel dettaglio si tratterebbe di un concordo dell'aprile del 2020, nel pieno della pandemia Covid. Al centro del dibattito tra i due c'era l'assunzione di quattro dirigenti biologi da inserire per otto mesi nell'unità di malattie, ovvero una figura fondamentale nel pieno dell'emergenza Covid. Galli avrebbe voluto decidere – sempre quanto riportano le carte – sia i vincitori del concorso sia i membri della commissione. A fermare tutto sarebbe stata alla fine proprio Maria Rita Gismondo, che si dice estranea alla vicenda.
La replica di Massimo Galli
Interpellato sulla vicenda infettivologo Massimo Galli, primario del reparto di Malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano, si è dichiarato "tranquillo" durante un'intervista rilasciata a Cartabianca. E poi ha aggiunto: "Diventare un personaggio pubblico ha una serie di contro e pochi pro, per quanto mi riguarda. Ho avuto un avviso di garanzia che mi è stato consegnato quando la notizia era già su tutti i giornali. Sono tranquillo, da quello che leggo non vedo niente di particolare in ciò che mi viene contestato". Massimo Galli ha poi aggiunto di avere provveduto a tutelarsi mettendo tutto in mano al suo legale. "Faremo le nostre controdeduzioni, è un tema in mano alla magistratura".
Massimo Galli: che cosa si sa sui concorsi "truccati". Today.it il 6/10/2021 Fonte: La Repubblica. L'infettivologo è accusato di aver pilotato quattro bandi. Gli inquirenti: "Favorì l'assunzione di amici". Il terremoto della nuova Concorsopoli travolge la Statale di Milano e con lei docenti e ricercatori, presidenti e membri di commissioni d’esame. Tutti accusati a vario titolo di associazione a delinquere, turbativa, falso materiale e ideologico per aver pilotato almeno 13 bandi a favore di candidati loro protetti. Indagati 17 docenti della Statale e 7 di altre università: Bicocca (sempre a Milano), Pavia, Tor Vergata e Sapienza a Roma, Torino, Palermo. Con loro anche i ricercatori che sarebbero stati favoriti nei bandi. Tra i 33 indagati anche l’infettivologo del Sacco Massimo Galli, accusato di aver pilotato quattro bandi. L’indagine del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas avrebbe individuato un ''sistematico condizionamento delle procedure per l’assegnazione dei titoli di ricercatore e di professore ordinario e associato alla facoltà di Medicina e Chirurgia'' della Statale. Coinvolti nell’inchiesta, partita nel 2018 da un caso di corruzione di un dentista che chiede a un docente di favorire i figli nel corso di laurea di Igiene dentale, nomi di primo piano del mondo accademico. In Statale, Riccardo Ghidoni, Pierangela Ciuffreda, Gianguglielmo Zehender, Manuela Nebuloni, Paola Viani, Alessandro Ennio Giuseppe Prinetti, Sandro Sonnino, Agostino Riva, Antonio Schindler, Cristiano Rumio, Pietro Allevi, Antonella Delle Fave, Francesco Auxilia, Gagliano Nicoletta, Tiziana Borsello, Angela Maria Rizzo. E ancora: Claudia Colomba (università di Palermo), Giuseppe Riva (Cattolica di Roma), Guido Angelo Cavaletti (prorettore alla Ricerca alla Bicocca), Vittorio Luciano Bellotti (Pavia), Claudio Maria Mastroianni (Sapienza), Giovanni Di Perri (Torino), Massimo Andreoni (Tor Vergata).
I bandi per cui è indagato Galli
Quattro i bandi per i quali è indagato Galli. Uno riguarda il posto da associato a Malattie infettive al Sacco, vinto da uno dei ricercatori che lavorano con lui. In un secondo caso, ci sarebbe stato il tentativo di favorire due altre collaboratrici del professore (indagato anche il direttore della Asst Fatebenefratelli-Sacco, Alessandro Visconti). Galli, inoltre, avrebbe dovuto decidere anche la composizione della commissione, trovando l’opposizione di Maria Rita Gismondo, altra virologa del Sacco, che aveva minacciato denunce. In un terzo caso Galli avrebbe lavorato per allontanare altri potenziali candidati a favore di un suo prescelto. E infine il professore è indagato anche per la selezione da associato a Scienze mediche a Torino.
Se un candidato a un concorso ha il doppio di pubblicazioni scientifiche rispetto al proprio protetto, basta organizzare quello che la procura di Milano definisce ''un simulacro di competizione''. A leggere le carte dell’inchiesta sulla Concorsopoli alla Statale di Milano, il professor Galli lo avrebbe pianificato quattro volte. Quattro bandi, come quello in cui decide di eliminare la candidatura del primario del Niguarda Massimo Puoti, molto più titolato del suo fedele Agostino Riva, associato presso il dipartimento di Scienze biomediche e cliniche all’ospedale Sacco. Con Riva - hanno scoperto i pm Luigi Furno e Carlo Scalas - Galli aveva una ''lunga contiguità professionale''. Delle 121 pubblicazioni su riviste internazionali di Riva, ben 63 vedono come coautore Galli. E delle 16 allegate al verbale della commissione giudicatrice del concorso, di 9 risultava coautore anche lui. Un ''primo elemento di anomalia'', scrive la procura, ''e non un conflitto d’interessi che avrebbe dovuto imporre a Galli di astenersi dal ricoprire la qualifica di presidente della commissione valutatrice''.
La segretaria: ''Questo finisce in galera''
Come riporta Repubblica, Puoti ha un indice H-index (criterio per valutare quantità e impatto scientifico dei lavori di un candidato) doppio rispetto a Riva. Un problema che rischia di sbarrare la strada al protetto del professore infettivologo. Dalle indagini dei Nas emergono così numerosi incontri tra Galli (presidente di commissione giudicatrice) e Riva (candidato al concorso) in cui in due - insieme alla segretaria di Galli, anche lei indagata, Bianca Ghisi - cercano il modo per pompare il curriculum di Riva e ridurre quello di Puoti. Nasce così per i pm un «accordo preventivo» tra Galli e Riva. In cui si decide di accordare in anticipo un punteggio maggiore ai lavori nei quali i candidati figurano singolarmente, rispetto a quelli in cui compaiono in un gruppo di studiosi. Il 14 febbraio 2020 Galli convoca Riva, attraverso la segretaria, proprio per definire i punteggi. Uno stratagemma che, alla fine, funziona: Riva ottiene 69,01 punti, Puoti 66,04. Ma l’attivismo di Galli manda nel panico chi si occupa materialmente di preparare le pratiche. Come una segretaria amministrativa che esplicita il timore che il professore in questo modo rischia di finire nei guai. Di andare in galera.
Di fronte alla falsa valutazione del suo curriculum, Puoti recepisce il messaggio: quel concorso non è per lui. Secondo quanto ricostruito dalla procura, il docente non protesta, non fa ricorso - potendolo vincere facilmente - al Tar, ma decide di revocare la candidatura. E lo fa parlandone direttamente con Galli. In maniera cordiale, con la promessa da parte dell’infettivologo del Sacco che sarà appoggiato in una futura selezione. E ieri, dopo la notizia dell’indagine, Puoti ha rinnovato la propria solidarietà a Galli: ''Io non ho presentato denuncia e non so come sia partita la cosa - ha precisato - . Non voglio fare commenti sulle indagini in corso ma voglio esprimere la mia massima stima a Massimo Galli, come professionista, medico e docente''.
Concorsi truccati, il medico intercettato: "Io escluso dal bando, Galli mi ha fregato". Maria Rita Gismondo allarga le accuse verso il collega infettivologo. La Repubblica il 7 ottobre 2021. Prima Massimo Puoti, il direttore del reparto Malattie infettive del Niguarda, che sarebbe stato penalizzato in uno dei bandi al centro dell'inchiesta e che, dopo un tentativo di minimizzare i fatti, non ha potuto che confermare che il bando era preconfezionato a favore del suo concorrente. Dopo, la virologa Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica al Sacco, che ha ribadito di essersi opposta alla composizione della commissione per un altro bando con persone fedeli a Galli, ma che ha anche allargato il recinto delle accuse.
Galli intercettato mentre parla dei punteggi. "Adesso mettiamo questo requisito nel bando". Cristina Bassi il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Così l'infettivologo si accordava con il candidato. I pm sentono la Gismondo. Sarà ascoltato in Procura a Milano la prossima settimana il professor Massimo Galli, coinvolto nell'inchiesta su presunti concorsi pilotati per assunzioni nel mondo universitario tra il 2019 e il 2020 insieme ad altre 32 persone. I pm Luigi Furno e Carlo Scalas hanno sul tavolo tra l'altro le telefonate intercettate in cui il celebre virologo parla con altri indagati dei punteggi da attribuire ai candidati «predestinati» al successo e di come scrivere i bandi in modo da agevolarli. Galli è indagato per falso ideologico e turbativa d'asta. Nelle perquisizioni svolte martedì i carabinieri del Nas hanno sequestrato le mail di tutti gli indagati e la documentazione relativa ai 13 concorsi al centro dell'indagine. Sono state effettuate inoltre le copie forensi dei pc e dei telefoni cellulari degli indagati. Ieri è stato ascoltato intanto il professor Massimo Puoti, direttore di Malattie infettive all'ospedale Niguarda, che secondo gli inquirenti sarebbe stato danneggiato da Galli, presidente della commissione che doveva giudicarlo, allo scopo di favorire un altro candidato che poi in effetti ha vinto. «Ho risposto alle domande - ha detto alla fine Puoti -. Quello che posso dire è che rinnovo la mia stima a Galli e che non sono stato io a denunciare». Sempre ieri è arrivata in Procura, sentita come persona informata sui fatti, la direttrice di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica bioemergenze del Sacco Maria Rita Gismondo. Secondo gli inquirenti, la procedura per truccare i concorsi e favorire determinati candidati, messa in atto da Galli in concorso con altri colleghi, sarebbe stata «fortemente osteggiata» proprio da Gismondo «che aveva prospettato di rivolgersi all'autorità giudiziaria». Nel febbraio del 2020 nelle telefonate tra Galli e Agostino Riva, candidato che ha vinto il concorso e anche lui indagato, si discute di un posto da professore di ruolo alla Statale. Dalle intercettazioni emergerebbe che lo stesso Riva avrebbe indicato al virologo del Sacco i «punteggi» che dovevano essergli attribuiti dalla commissione. Riva si sarebbe in pratica auto valutato. Inoltre avrebbe detto al professore, su indicazione di quest'ultimo, quali «sub criteri» dovevano entrare nel bando per il ruolo di docente di seconda fascia in Malattie cutanee, infettive e dell'apparato digerente. In questo modo si poteva superare l'ostacolo delle «mediane», cioè il numero di citazioni in articoli scientifici che erano più numerose per il concorrente, Puoti appunto. Galli martedì ha brevemente commentato la notizia dell'inchiesta alla trasmissione Cartabianca: «Ne ho avuto notizia questa mattina con un avviso di garanzia che mi è stato consegnato quando già su tutti i giornali la notizia era presente. Pare debba funzionare così Sono tranquillo, da quello che leggo non ci vedo nulla di particolare nelle contestazioni. Ci ragionerò sopra. Francamente non mi sembra che ci sia consistenza. Ho messo tutto in mano al mio avvocato, faremo le nostre controdeduzioni quanto prima». Ancora: «Diventare un personaggio pubblico ha un serie di contro e pochi pro, per quanto mi riguarda». Cristina Bassi
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 6 ottobre 2021. Non hanno neppure aspettato che andasse in pensione. Fra una manciata di giorni. La faccia vagamente cimiteriale di Massimo Galli è diventata familiare agli italiani, naturale che ora, nel contrappasso tricolore, gli faccia compagnia un'inchiesta e un grappolo di accuse. In Italia è difficile sfuggire a questa regola: diventi un personaggio, oltretutto quando gli altri tirano i remi in barca sull'orizzonte corto dei settant' anni, e milioni di connazionali si identificano nei tuoi sospiri e nei tuoi tic. Fin troppo facile quindi che la stella precipiti o che qualcuno provi a oscurarla. È successo anche a questo austero professore, primario al Sacco di Milano, sbucato dalle retrovie di alambicchi e corsie di ospedale nel febbraio 2020, quando l'Italia ha resettato il suo modo di essere e ha scoperto, con la pandemia, quella specializzazione fino ad allora sconosciuta. I virologi, o meglio, gli esperti del Covid, i Bassetti, i Crisanti, appunto i Galli, e gli Zangrillo, che in realtà era l'unico ad essere già noto. Galli è entrato nel salotto delle nostre case e non ne è più uscito, a colpi di previsioni e profezie. Lui era ed è un chiusurista, uno allergico alle riaperture facili, con un background naturalmente di sinistra, anzi Sessantottino, comodo per le semplificazioni della nostra politica. Destra o sinistra: lui militava sul versante progressista di quel partito. La realtà, va da sé, è più complessa del fumetto cui sono stati ridotti gli scienziati che al camice bianco hanno affiancato lo schermo, ma non si può sfuggire al rito dell'etichettatura e lui l'ha fatto con una certa disinvoltura, sbandierando solo, come col Corriere, il curriculum: 60 pubblicazioni dal 2000. Un numero imponente, anche se inferiore a quello delle ore consumate in tv, saltando da un programma all'altro con l'abilità di un trapezista, qualche volta eliminandosi da solo, dopo aver schiacciato per sbaglio il tasto del collegamento Skype, offrendo agli spettatori oltre alle sue parole, impregnate di un sottile pessimismo ma mai apocalittiche, le sagome di allegri stegosauri allineati su una mensola dello studio. Ha ammesso di aver sbagliato all'inizio, quando era convinto che il cielo fosse meno scuro: «Ma avevo in mente i parametri della Sars». Poi, un anno fa o poco più, ha ingaggiato un robusto duello con Zangrillo che, abbagliato, aveva predicato la scomparsa del nefasto virus, sollevando nel Paese speranze poi naufragate. Facile identificarli come le figurine del calcio che collezionavamo da ragazzini: il buono, il cattivo, il berlusconiano, quello che portava l'eskimo. Una galleria delle maschere della commedia dell'arte, con ruoli che alla fine stanno stretti a tutti. Ma il piccolo mondo dei virologi, improvvisamente troppo grande, è esploso come il dentifricio davanti a noi con le sue vanità, pettegolezzi e storie di letto, come in ogni ambiente, passioni sportive, come quella per l'Inter di Galli. Aveva ragione lui nel temere la seconda ondata e si può dire che spesso l'ha azzeccata. Il 1° novembre dovrebbe entrare nel regno degli ex. Ma è difficile immaginarlo giù dal palco, anche se la situazione come speriamo dovesse normalizzarsi. Ora che è diventato anche lui una notizia di cronaca giudiziaria ha trovato qualcosa da fare, ma i suoi programmi sono ben più ambiziosi: vorrebbe scrivere un romanzo e soprattutto dedicarsi al grande libro dei morti che, come lui stesso spiega, a Milano sono censiti dal 1452. Cinquecento e passa anni, dai tempi di Leonardo e pure prima, di epidemie, sciagure, malattie e lacrime da compulsare e digitalizzare. Una specie di sterminata Spoon River di rito ambrosiano. Insomma. Andrà avanti come prima, fra ammonizioni, raccomandazioni e quei sorrisi che il telespettatore medio, anche quello Sì Vax, accoglie toccando quel che può.
Massimo Galli indagato, la segretaria intercettata: "Se va avanti così, finisce in galera". Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. Massimo Galli indagato. Sono bastate alcune intercettazioni a portare la Procura di Milano ad accusare l'infettivologo dell'ospedale Sacco di associazione, turbativa e falso. Al centro i presunti concorsi truccati su cui il 29 gennaio 2020 i giudici si sono espressi rilevando "un condizionamento". "Quel giorno - riporta Il Fatto Quotidiano - un dirigente dell'ospedale arriverà a dire: se va avanti così rischia di finire in galera". Sempre il 29 gennaio un'impiegata del nosocomio, in un'intercettazione agli atti, discute con la ricercatrice Claudia Moscheni di un bando per professore associato, dove Galli è presidente della commissione giudicatrice. Il candidato da favorire sarebbe Agostino Riva. Chiamati i commissari, Galli spiegherebbe come fosse probabile che il secondo pretendente, Massimo Puoti, primario al Niguarda, non si sarebbe presentato. Nell'ottobre 2019, Galli al telefono con Claudio Mastroianni, primario all'Umberto I di Roma, commissario indagato per la vicenda, spiegherebbe che delle due candidature una sparirà per evitare casini. Questo, secondo i pm, il passaggio decisivo. Il rischio - prosegue il quotidiano di Travaglio - sarebbe stato di dover sminuire forzatamente il curriculum di Puoti rispetto a quello di Riva. Altrettanto decisive le intercettazioni del 21 febbraio 2020, quando Galli viene avvertito della rinuncia di Puoti da un collega dell'Università di Brescia. A quel punto l'infettivologo avrebbe potuto tirare un sospiro di sollievo. E ancora, al telefono la segretaria di Galli Bianca Ghisi parla con Riva e gli passa il virologo, il quale in modo illecito secondo i pm, concorda con lui ciò che dovrà scrivere rispetto alle pubblicazioni. Dopo il confronto Galli leggerebbe al candidato cosa scriverà nel verbale sulle sue pubblicazioni. Il 14 febbraio è il giorno decisivo. Galli e la commissione devono fare i punteggi rispetto alle pubblicazioni. I punteggi non ci saranno nemmeno verso sera, quando alle 19 Galli al telefono con Mastroianni spiega che ancora li sta facendo, fino a che i due concordano di assegnare oltre tre punti in più a Riva rispetto a Puoti. Il primario del Niguarda dice che lo hanno fregato. Poi l'ultimo atto, quello del 18 marzo: Riva sostiene la prova orale con a fianco Galli e collegato coi commissari mentre in un'altra intercettazione l'infettivologo ammette di aver tirato fuori dal fondo della classifica Riva portandolo avanti.
Concorsi truccati, Galli indagato. "Se Massimo continua finisce in galera". Affari Italiani Mercoledì, 6 ottobre 2021. Un dirigente del Sacco parla con un collega e lo mette in guardia. "Finirà indagato per associazione, turbativa e falso". Le intercettazioni telefoniche. Il direttore malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, il noto virologo Massimo Galli è indagato insieme ad altre 33 persone per concorsi truccati. I pm: "Verbali falsificati e accordo sui punteggi pattuiti". È il 29 gennaio 2020 - si legge sul Fatto Quotidiano - quando la Procura di Milano capisce “il livello di condizionamento dei concorsi pubblici”e il modo di agire del virologo Massimo Galli, tanto da far dire a un dirigente dell’ospedale Sacco: se va avanti così rischia di finire in galera. Nell’ottobre 2019, Galli al telefono con Claudio Mastroianni, primario all’Umberto I di Roma, commissario indagato per la vicenda, si augura di non avere rogne per l’assegnazione del posto. Dice che le domande sono due, ma che una salterà, perché sennò potrebbe venire fuori un casino. Aggiunge che il candidato Puoti sparirà per logica e non con delle pressioni. Secondo i pm il passaggio è decisivo, perché se il candidato non si fosse ritirato c’era il rischio di casini dati dal fatto di dover sminuire forzatamente il curriculum di Puoti rispetto a quello di Riva. Decisive le intercettazioni del 21 febbraio 2020 - prosegue il Fatto - tra Galli e un collega dell’Uni - versità di Brescia che lo avverte della rinuncia di Puoti. Galli, soddisfatto, spiega che così potrà risolvere il problema in amicizia senza doversi trovare a fare cose che non si addicono a nessuno di loro professori. Il dialogo, per i pm, chiarisce come fin da subito “vi era solo un simulacro di competizione”. Visto che Puoti ha un indice di valutazione (H-index) doppio rispetto a Riva. Il 3 febbraio 2020 il condizionamento si fa più forte. Puoti è ancora in corsa. Al telefono Bianca Ghisi, segretaria di Galli, parla con Riva e gli passa il virologo, il quale in modo illecito, secondo i pm, concorda con lui ciò che dovrà scrivere rispetto alle pubblicazioni. Galli è in riunione con i due commissari. Dopo il confronto in diretta con il candidato, il virologo rilegge a Riva persino la frase che scriverà nel verbale sulle sue pubblicazioni. “L’accordo preventivo” è, secondo i pm, dimostrato.
Sandro De Riccardis, Luca De Vito per repubblica.it il 7 ottobre 2021. Prima Massimo Puoti, il direttore del reparto Malattie infettive del Niguarda, che sarebbe stato penalizzato in uno dei bandi al centro dell'inchiesta e che, dopo un tentativo di minimizzare i fatti, non ha potuto che confermare che il bando era preconfezionato a favore del suo concorrente. Dopo, la virologa Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica al Sacco, che ha ribadito di essersi opposta alla composizione della commissione per un altro bando con persone fedeli a Galli, ma che ha anche allargato il recinto delle accuse. Ieri in procura sono state così puntellate le ricostruzioni dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas che, coordinati dall'aggiunto Maurizio Romanelli, indagano sulla "Concorsopoli" alla Statale di Milano, in cui sono indagati 24 professori, tra cui l'infettivologo Massimo Galli. Puoti ha di fatto confermato quanto emerso nell'indagine e dalle intercettazioni agli atti. Al telefono con la moglie il primario diceva: "Il concorso che avevo fatto a Milano, hanno valutato i titoli e m'hanno fregato". Estromesso dal bando per un posto da professore di seconda fascia presso il dipartimento di Scienze biomediche e cliniche al Sacco, escluso per far posto all'altro candidato, Agostino Riva, meno titolato di lui ma fedelissimo del professore Massimo Galli, il docente Massimo Puoti si sfogava con la moglie al telefono.
Concorsi truccati, il presidente dei rettori Morzenti Pellegrini: "Sbagliato parlare di un sistema ma serve la riforma del reclutamento"
"Sono riusciti a fregarmi sui titoli.. - le diceva - abbastanza penosi..". Nelle intercettazioni agli atti dell'inchiesta, Puoti parla della turbativa dei concorsi di medicina alla Statale. Quando si accorge di non poter vincere il concorso, si mostra comunque cordiale con Galli, gli comunica personalmente la decisione di lasciare campo libero a Riva. "Niente Massimo...un abbraccio, quella cosa lì l'ho sistemata, non so se hai visto". In cambio Puoti ottiene da Galli la promessa di essere appoggiato, nell'immediato futuro, nei prossimi bandi. Un accordo che appare esplicito. "Il mio appoggio ce l'avrai - assicura l'infettivologo - in tutte le sedi possibili eh". Con la moglie però Puoti manifesta tutta la sua amarezza. "Sono riusciti a fregarmi sui titoli nel senso che una pubblicazione sul Science è stata equiparata a una pubblicazione sulla rivista con uno di Impact Factor". Puoti ha un indice H-index (criterio per valutare quantità e impatto scientifico dei lavori di un autore) doppio rispetto a Riva, ma alla fine - secondo i nuovi parametri tarati da Galli sul suo protetto - Riva batte Puoti 69,01 a 66,04. Gismondo invece ha ribadito di essersi opposta - minacciando di fare denuncia in procura - alla nomina in commissione di fedelissimi di Galli che avrebbero poi privilegiato le candidate da lui indicate per l'assunzione a tempo determinato di quattro dirigenti biologi presso l'Asst Fatebenefratelli Sacco. Davanti ai magistrati Gismondo avrebbe però anche allargato le accuse, parlando dell'uso - a suo dire - non appropriato dei laboratori di infettivologia del Sacco che Galli avrebbe concesso in uso anche a privati. Accuse pesanti su cui ora la procura dovrà fare nuove indagini.
Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 7 ottobre 2021. «Dobbiamo ragionare, magari in due è meglio che one. Se no (i punteggi, ndr ) li metto io alla c..., sperando che non ci siano casini e menate». I punteggi del concorso universitario all'Università Statale di Milano? Il presidente della commissione giudicatrice, professor Massimo Galli, il 14 febbraio 2020 parrebbe averli fatti scegliere direttamente al candidato (Agostino Riva) che sponsorizzava nei confronti dell'unico altro concorrente (Massimo Puoti) titolare però di un indice di valutazione H-Index di 50 contro 25 di Riva. «Scendi dalla Bianca (la segretaria di Galli, ndr ) e cominciamo a lavorare sull'assegnazione...», diceva di pomeriggio Galli a Riva, quando in teoria, stando al verbale, la commissione aveva già terminato di mattina i propri lavori: «Adesso (i punteggi, ndr ) fatteli vedere dalla Bianca... che possono essere attribuiti a te e a lui per le varie questioni... Però non me lo far dire...», concludeva Galli, con inconsapevole profetico cenno alla rischiosità della cosa che i carabinieri dei Nas stanno intercettando. Simile alla rischiosità il 3 febbraio 2020 (mentre in teoria la commissione sta elaborando i criteri di valutazione) del fatto che il presidente di commissione (Galli, coautore di 63 delle 121 pubblicazioni internazionali nel curriculum di Riva, e di 9 sulle 16 allegate al concorso) chieda appunto a uno dei due candidati (Riva) come debba modellare la griglia di criteri. «Allora, senti, quanti lavori avevi presentato? Sedici? Ed erano tutti quanti a tuo primo e ultimo nome tranne uno, mi pare... E di argomento coprivano... Va beh, allora senti la frase che avevo scritto...», e gliela legge, di fatto ritagliando i criteri sui lavori del candidato, al quale chiede conferma: «C'è tutto, no? Va bene, questo potrebbe andare e risolvere la questione». La cui scivolosità Galli doveva aver presente già in partenza, quando, in risposta a uno degli altri due commissari che gli chiedeva quanti fossero gli aspiranti, si augurava che l'unico altro candidato revocasse (come in effetti poi accadrà) la propria domanda: «Spero non ci siano rogne, insomma... mi auguro che una delle due domande vada a spari'... se no viene fuori un bel casino, voglio dire... Ma sparire per logica eh, non dico per pressione». La «logica» è quella che Puoti, primario di malattie infettive all'ospedale Niguarda, capisce benissimo quando il 2 marzo si sfoga con la moglie: «Sono riusciti a fregarmi sui titoli... nel senso che una pubblicazione su Science è stata equiparata a una rivista comune... non conta l'indice di impatto della rivista, contava solo la posizione del nome nel lavoro... Lui (Riva, ndr ) mette tutti lavori del cavolo dove sei primo nome, però tutti lavori del cavolo... Così mi possono fregare anche a Napoli» in un altro concorso. Il candidato Puoti ritira allora la domanda e chiama il presidente di commissione Galli: «Niente, Massimo, quella cosa lì l'ho sistemata, non so se hai visto». E Galli: «Ti ringrazio e... ne parleremo... Il mio appoggio ce l'avrai... in tutte le sedi possibili, eh». Tema che un docente di Brescia già aveva anticipato a Galli («Puoti non si presenterà al tuo concorso... comunque lui ecco... piuttosto ci sarebbe una certa cosa... parliamone fra noi un attimo... si tratterebbe di cercare di dargli una mano lì a Napoli...»), incontrando il sollievo di Galli: «Io sono molto, molto lieto di avere la possibilità di risolvere un problema in una situazione di amicizia, senza dovermi trovare a fare cose... a dire cose che non... che non corrispondono... insomma, che non mi si addicono e non si addicono a nessuno di noi...». Anche su queste conversazioni ieri i pm Luigi Furno e Carlo Scalas, prima della teste professoressa Maria Rita Gismondo in serata, nel pomeriggio per 4 ore hanno ascoltato come teste Puoti, che all'uscita ha di nuovo voluto ribadire la propria stima per Galli.
Massimo Galli, le intercettazioni con il candidato che "spingeva": gli diceva che voto dargli. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano il 7 ottobre 2021. I telefoni sono bollenti, prima del concorso per il ruolo di professore di seconda fascia in malattie cutanee, infettive e dell'apparato digerente all'Università Statale di Milano. Da un capo della cornetta c'è Massimo Galli, primario del reparto di malattie infettive all'ospedale Sacco e professore ordinario presso il dipartimento di Scienze biomediche dell'ateneo meneghino, nonché sessantottino fiero e idolo della sinistra che tanto aspirerebbe a mettere le mani sulla sanità lombarda; dall'altro c'è Agostino Riva, protetto dell'infettivologo col vizio delle ospitate televisive, aspirante candidato alla cattedra della Statale (che otterrà nel febbraio del 2020). Le telefonate tra i due sono finite all'interno dell'inchiesta della Procura di Milano, che li vede entrambi indagati insieme ad altre 31 persone in merito a presunti concorsi pilotati nel mondo accademico. Alcune intercettazioni darebbero la cifra del sistema messo in piedi per aggiustare le nomine. Sarebbe Riva a indicare a Galli il punteggio che deve dargli la commissione giudicatrice, di cui il professore faceva parte.
SU MISURA. Non solo. Sarebbe sempre lui a decidere i "sub criteri" che vanno inseriti nel bando, ritagliati su misura. Un modo, secondo i pm Luigi Furno e Carlo Scalas, con cui si poteva bypassare l'ostacolo delle "mediane", ovvero il numero delle citazioni in articoli scientifici che erano più alte per il candidato concorrente, Massimo Puoti, direttore del reparto Malattie infettive dell'ospedale Niguarda di Milano, sentito ieri per ore dai magistrati come testimone. Ovviamente gli eventuali reati sono tutti da dimostrare, ma l'ipotese dell'accusa è chiara: è facile far vincere chi vuoi, se le regole del gioco le stabilisci tu. Martedì, appena scoppia la notizia dei concorsi truccati, Puoti non esita a esprimere pubblicamente la sua stima nei confronti di Massimo Galli «come professionista, medico e docente». Mentre finiscono nel registro degli indagati, oltre al professore star televisiva e a Riva, anche la segretaria dello stesso prof e altri due componenti della commissione giudicatrice: il professore dell'Università La Sapienza di Roma, Claudio Maria Mastroianni, e la professoressa dell'Università di Palermo, Claudia Colomba. Avrebbero attestato che il «prospetto contenente i punteggi attribuiti fosse il risultato del lavoro collegiale della commissione e che fosse stato predisposto nel corso della riunione telematica» del 14 febbraio 2020, ma stando all'indagine «in realtà, tale documento veniva concordato solo successivamente da Riva e Galli». Era il giugno del 2019 quando fu bandita la procedura per il posto da docente incriminato. In quanto presidente della commissione, Galli avrebbe condizionato l'intera gara per penalizzare Puoti e favorire Riva, falsificando anche il verbale della riunione della commissione visto che i punteggi sarebbero il risultato di quanto pattuito in separata sede. Per questo l'infettivologo è accusato pure di falso ideologico, oltre che di associazione a delinquere. Ma questo non è l'unico episodio sotto la lente d'ingrandimento degli inquirenti.
ALTRI EPISODI. Aprile 2020, sul piatto c'è un posto di professore di ruolo in Igiene generale e applicata, scienze infermieristiche e statistica: lo vince Gianguglielmo Zehender. Ma ci sono ombre, si parla della predisposizione di «un medaglione che potesse favorirlo» e «allontanasse» gli altri aspiranti. Due mesi dopo spunta una procedura di selezione per l'assunzione per otto mesi di quattro biologi da assegnare all'Unità malattia infettive del Sacco. Ma salta: Maria Rita Gismondo, titolare del laboratorio di microbiologia e pure lei sentita ieri dai pm, minaccia di denunciare tutto. Galli è accusato anche di falso ideologico in relazione a un altro concorso del luglio 2020, per professore di seconda fascia all'Università di Torino. Settimana prossima toccherà a lui chiarire la propria posizione con i magistrati.
Vittorio Sgarbi, bomba su Massimo Galli indagato: "Perché la Rai continua a invitarlo", ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2021. Tra i casi della settimana, una menzione d'onore, per certo, se la guadagna quello di Massimo Galli, l'infettivologo dell'Ospedale Sacco di Milano che risulta indagato per una vicenda di presunti concorsi pilotati all'Università statale di Milano. Il diretto interessato ha subito respinto le accuse, difendendosi la sera stessa in cui è uscita la notizia dell'indagine direttamente dagli studi di CartaBianca, la trasmissione di Bianca Berlinguer in onda su Rai 3, dove ha addirittura affermato di essere diventato "un personaggio scomodo". Sarà... Oggi, giovedì 7 ottobre, sono usciti ulteriori dettagli sull'inchiesta. Delle intercettazioni in cui è proprio lui a parlare. E sembra avere un poco la coscienza sporca: "Spero che poi non succeda nessun casino", afferma parlando con il candidato del concorso. Ma, soprattutto, allo stesso candidato propone: "Scriviamo insieme i punteggi. Dobbiamo ragionare, magari in due è meglio che one. Sennò (i punteggi, ndr) li metto io alla ca***, sperando che non ci siano casini e menate". I punteggi in questione sono quelli del concorso universitario. Insomma, intercettazioni abbastanza compromettenti. E contro Massimo Galli, tra gli altri - rilanciando su Twitter il pezzo del Corriere della Sera che dà conto delle intercettazioni - si scaglia anche Vittorio Sgarbi, il celebre critico d'arte, che insiste sul passato da "sessantottino" del virologo, un passato di "militanza rossa" di cui lui stesso ha parlato in diverse occasioni. E Sgarbi attacca: "Il sessantottino Massimo Galli (sono sempre stato di sinistra) intercettato con il candidato del concorso: Scriviamo insieme i punteggi - premette Sgarbi -. La Rai continua a invitarlo. Si sai, ai sessantottini si perdona tutto...", conclude sornione Sgarbi. Insomma, un colpo a Galli e uno alla Rai.
L'infettivologo contro il circuito mediatico-giudiziario. Galli non si fa processare da Bianca Berlinguer: “Non devo discuterlo in tv, è un argomento in mano alla magistratura”. Angela Azzaro su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Forse sia aspettava una lettera di ringraziamento da parte del presidente della Repubblica o una telefonata del presidente del Consiglio. Comunque forse sperava in un gesto che lo ripagasse dell’impegno di divulgazione in tv fatto in questi mesi difficili di pandemia, morti, lockdown. Invece, come accade anche a diversi amministratori, non ultimo Mimmo Lucano, l’infettivologo Massimo Galli ha ricevuto un altro tipo di letterina: un avviso di garanzia da parte della procura di Milano, non prima di aver letto il suo nome sui giornali. Perché prima si informa la stampa e poi i diretti interessati, non sia mai che la gogna pubblica non sia anche una bella sorpresa. Di tutti gli esperti che hanno invaso la tv Galli è quello che, anche a detta dei suoi colleghi, è il più serio, quello che davvero ci capisce e non uno dei tanti improvvisati per amore di gloria e di riflettori. Ora è accusato insieme ad altre 33 persone di avere truccato le nomine all’Università. Un’accusa tutta da dimostrare. Non c’è neanche il rinvio a giudizio. Ma in questo Paese un avviso di garanzia vale come una condanna definitiva. Galli però, in piena sintonia con la Costituzione, non si è fatto spaventare e – come è suo diritto – è andato in tv a Cartabianca, dove ha gelato la presentatrice che forse si sentiva un po’ pubblico ministero. E così, parlando dell’inchiesta prima ha tirato una frecciata al circo mediatico-giudiziario. «Ne ho avuto notizia questa mattina con un avviso di garanzia che mi è stato consegnato quando già su tutti i giornali la notizia era presente. Pare debba funzionare così…». Poi ha continuato: «Sono tranquillo, da quello che leggo non ci vedo nulla di particolare nelle contestazioni. Ci ragionerò sopra. Francamente non mi sembra che ci sia consistenza. Ho messo tutto in mano al mio avvocato, faremo le nostre controdeduzioni quanto prima». E a Berlinguer che voleva interromperlo, ha risposto: «Non devo discuterlo in tv, è un argomento in mano alla magistratura». Roba da matti: un indagato che non accetta di farsi processare in televisione ma pretende che siano i giudici a farlo!
Ps: Indovinate chi ha protestato per la sua presenza in tv perché indagato? Il solito Codacons che, tra le altre cose, evidentemente non ricorda bene la Carta, quando all’articolo 27 recita: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva…”.
Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica
Da iltempo.it l'8 ottobre 2021. Massimo Galli si dice amareggiato per l’indagine che lo vede protagonista. L’infettivologo dell’università Statale di Milano è ospite nella puntata di giovedì 7 ottobre de “L’aria che tira”, per commentare gli sviluppi dell’andamento della pandemia. Ma visto le recenti notizie sul suo coinvolgimento nell'inchiesta su presunti concorsi pilotati per le assunzioni nel mondo universitario, la conduttrice, Myrta Merlino non può fare a meno di sincerarsi dello stato d’animo del suo ospite. Il professor Galli è indagato per falso ideologico e turbativa d'asta assieme ad altri eminenti professori dell’Università di Milano per aver, secondo l’indagine, riservato i posti disponibili a persone che godevano della loro fiducia. “Le chiedo solo questo insomma è preoccupato cosa è successo?”, domanda la conduttrice. Galli sembrava attendere il quesito: “In questo momento non ho nessuna intenzione di sembrare neanche vagamente reticente ma non mi sembra né opportuno né corretto che io entri in merito”. Poi prosegue il suo discorso sottolineando l’amarezza provata nello scoprire della vicenda attraverso i media: “Posso soltanto dire che come sempre o come molto spesso accade in questo paese leggi gli eventuali capi d'accusa prima sui giornali e poi e ne hai finalmente contezza”. All’infettivologo sarebbe stato intercettato anche il telefono: “Scopro di essere intercettato da chissà quanto tempo. Va bene, si vede che è giusto così. Insomma, per quanto riguarda, per il merito delle accuse ci sarà tempo, modo e luogo per parlarne. Non voglio passare per vittima perché anche questo lo troverei come dire disdicevole. Preferisco cercare di tenere la schiena dritta per quanto uno possa essere amareggiato questa cosa credo che sia fondamentale”. La Merlino insiste: “Quindi apprende le cose dai giornali sono le stesse che leggo io”. “Ma sì poi con la questione dei trucchi veramente… Adesso verranno fuori le cose che dovranno venire fuori a tempo e modo”, ribadisce Galli. La conduttrice si arrende: “Va bene, la vedo amareggiato però andiamo avanti”.
NON STUPITEVI: LE ACCUSE A GALLI SONO LA NORMALITÀ DEL MONDO ACCADEMICO. DAGONOTA il 6 ottobre 2021. Che l’infettivologo Galli, a “Cartabianca”, su Rai3 affermi di essere “tranquillo” per il concorso universitario definito “truccato” ha perfettamente ragione, perché così son fatti tutti i concorsi universitari. Che secondo il rettore della Statale, Elio Franzini, siano “fatti gravissimi”, invece, fa sorridere, visto che lui aveva dichiarato che “i baroni non esistono, sono una invenzione dei giornali” (il 6 aprile 2011 su: www.studentistatale.it, http://www.studentimilano.it/forum/viewtopic.php?f=83&t=119773 ). Franzini, dopo l’esser stato braccio destro dell’ex rettore Decleva, la cui moglie fu condannata per un concorso, ha presieduto concorsi a cattedra alcuni finiti a carte bollate o stracci e altri sui giornali. Su “il Giornale”, ad esempio, che nel 2008 scrisse sui concorsi in Estetica di quell’anno, alcuni presieduti da Franzini in atenei citati nell’articolo e finiti al di sotto di ogni sospetto (“Ministro fermi i concorsi (di Estetica ndr) so già chi vince”). E anche dopo esser stato vicepresidente di una società filosofica che si ritrovava, come trapela da una dichiarazione dell’ex presidente Luigi Russo, per decidere i concorsi (affermazione disponibile in video sul sito della Università di Torino, anno 2011 (…): Ripetiamolo, ancora una volta per i genitori che iscrivono i figli nelle università italiane, specie quelle non scientifiche. I concorsi universitari si svolgono solo perché la Costituzione prevede che gli accessi alla Pubblica amministrazione avvengano tramite concorsi che, stabiliti i parametri premino i candidati in possesso di maggiori requisiti. Ma i concorsi universitari avvengono al contrario, sono un “raggiro”. Quando un barone ha deciso quale suo assistente tuttofare va “affrancato” dal servaggio con l’accesso al ruolo di ricercatore o associato – assistente scelto anni prima per familismo, amorevoli sentimenti, disponibilità, scambio di favori e al quale ha fatto fare il cursus dis-honorum con dottorati e pubblicazioni un po’ finte… – si bandisce un concorso. E, proprio come ha fatto Galli, si “ritaglia” nella declaratoria un bando su misura per il candidato che si vuole mettere (se questo ha studiato le zanzare il bando richiederà “studioso particolarmente attento agli insetti”, se questo, invece, ha studiato gli elefanti il bando richiederà “studioso particolarmente attento ai grandi mammiferi”). Taluni commissari come Galli, consigliano anche agli altri candidati di “non presentarsi” nemmeno per non disturbare, magari balenando loro la possibilità di un successivo bando ad hoc. Non stupisce l’operato di Galli; stupisce il finto sdegno del rettore, la noncuranza dei magistrati quando il concorso non coinvolge figure note e ancor più il menefreghismo dei Governi che, da trent’anni non scardinano questo sistema, bruciando generazioni di appassionati studiosi e lasciando che vadano in cattedra “galli d’allevamento” per cooptazione. Inutile, come richiama il neo-Nobel Parisi, stanziare più fondi per la ricerca finché non si cambiano completamente le modalità di accesso alla ricerca e alla docenza universitaria. I fondi andrebbero a finanziare gli interessi particolari di chi è già in cattedra (si chiama “autonomia della ricerca” o “autonomia universitaria” e anche i relativi sistemi di selezioni, le peer-review, index di citazioni sono tutti strumenti aggirati), la “sua” ricerca, il “suo” assistente, il “suo” circolo.
Alessandro Da Rold per "la Verità" il 12 ottobre 2021. Aveva ricevuto nei giorni scorsi un invito a comparire per questa mattina in tribunale. Ma il professore e virologo Massimo Galli, a quanto pare, a meno di sorprese dell'ultimo minuto, non si presenterà. «Dobbiamo ancora avere a disposizione tutti i documenti e una chiara documentazione sulle accuse» spiega il suo avvocato Ilaria Li Vigni. Del resto l'indagine dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas - sulla presunta concorsopoli all'Università degli Studi di Milano dove il responsabile Malattie infettive del Sacco sarebbe stato uno dei protagonisti -, non è ancora stata chiusa. Mancano all'appello atti che potrebbero risultare decisivi a giudizio. Devono anche essere formulate le accuse che variano dall'associazione a delinquere al falso ideologico, fino alla turbativa d'asta. Tutto ruota intorno alla richiesta di interdittiva nei confronti di Galli spiccata da Furno e Scalas circa nove mesi fa, tra gennaio e febbraio 2021. Inviata al gip Stefania Pepe è decaduta e lì si è fermata. Eppure in quel documento di 500 pagine è contenuto il cuore dell'inchiesta, con le intercettazioni di tutti gli indagati, 33 tra dirigenti e professori, ma soprattutto quelle di Galli. Per questo il virologo vuole avere contezza delle accuse che gli sono mosse. «Ho scoperto di essere intercettato da chissà quanto tempo», aveva detto la scorsa settimana durante la trasmissione L'aria che tira. Secondo il decreto della scorsa settimana, Galli sarebbe coinvolto in almeno quattro casi di presunta manipolazione di concorsi pubblici. Il primo è quello relativo al bando per il concorso da professore di seconda fascia al dipartimento di Scienze biomediche e cliniche dell'ospedale Sacco di Milano. Qui a vincere è stato un assistente di Galli, l'infettologo Agostino Riva. A valutare i candidati per il posto fu appunto il celebre virologo insieme con il professor Claudio Mastroianni. Stando agli atti di indagine la riunione del 14 febbraio 2020 sarebbe servita a valutare i candidati. Mentre in realtà «il risultato del lavoro collegiale della commissione» era stato concordato da Galli e dallo stesso Riva. A essere danneggiato in quel caso fu Massimo Puoti, primario del reparto di Malattie Infettive dell'Ospedale Niguarda di Milano che, ascoltato la scorsa settimana dai magistrati, ha confermato il quadro delle accuse. Altro caso è quello per il posto da professore di prima fascia all'Università degli di Milano, un incarico che prenderà Gianguglielmo Zehender, storico collaboratore di Galli. Poi c'è il caso di Arianna Gabrieli, assunta con un contratto a tempo determinato al Sacco come biologa: vicenda su cui c'erano state le proteste dell'altra virologa dell'ospedale, Maria Rita Gismondo. L'ultimo caso sotto la lente dei pm è quello di un posto di professore di seconda fascia all'Università degli Studi di Torino. Anche qui Galli era nella commissione giudicatrice. Ma in questo caso avrebbe favorito Andrea Calcagno, il candidato del professore Giovanni Di Perri. Nel frattempo giovedì prossimo Furno, titolare dell'inchiesta, dovrebbe diventare giudice del Tar, dopo aver vinto un concorso lo scorso anno. Bisognerà trovare forse un altro titolare da affiancare a Scalas, con il rischio di perdere un po' di tempo.
Concorsopoli, Galli: "Ti mando i i temi Tu rispondi solo che vanno bene". Affari Italiani il 14/10/2021. Il caso dei concorsi truccati che vede coinvolto il professor Massimo Galli, indagato insieme ad altre 32 persone, si arricchisce di nuovi dettagli. Al cellulare e con il presidente della commissione accanto. Venti minuti, non di più. Così - si legge sul Fatto Quotidiano - si è svolta la prova orale che ha consegnato ad Agostino Riva la vittoria nel concorso pubblico per professore associato. A presiedere il tutto, l’infettivologo dell’ospedale Sacco, Galli. Riva vincerà a scapito del più quotato Massimo Puoti. Così, secondo la Procura di Milano, le manovre del prof. Galli, dopo il “falso verbale” sui punteggi scritti, proseguono anche durante lo svolgimento dell'orale. Riva - prosegue il Fatto - fa l’esame in metà del tempo via cellulare con i commissari collegati, mentre il presidente Galli è accanto lui. Di più: già prima dell’esame, la stesura dei quesiti è risultata sospetta agli inquirenti che hanno "riscontrato come la procedura di assegnazione degli argomenti (...) era stata gestita interamente da Galli, con la complicità di Maria Ghisi, sua segretaria”. Il 17 marzo 2020, Ghisi dice a Galli: “Mando ad Agostino (...) i tre temi, giusto?”.“No – risponde Galli – prima devi mandarli agli altri due”. Quindi chiama il docente della Sapienza di Roma, Claudio Mastroianni (indagato). Dice: “Ti sta arrivando la richies ta”. Il collega e commissario chiede: “Che devo fare?”. L’infettivologo: “Devi rispondere: vanno bene. Domani (...) a lezione però, ci siamo capiti”.
Concorsi truccati, massoni e molestie: "Questa è la Malauniversità che ho conosciuto". Corrado Zunino, Giambattista Scirè, ricercatore di Storia contemporanea, su La Repubblica il 16 settembre 2021. Esce il libro del ricercatore siciliano Giambattista Scirè, animatore di Trasparenza e merito. Lo pubblica Chiarelettere ed è una collezione di brutture di molti atenei italiani. La scioccante storia di Linda, assistente universitaria a Bologna. Adesso la racconto io la Malauniversità di questo Paese. Giambattista Scirè è un pioniere del concorso su misura servito - oggi come ieri e l'altroieri - dagli atenei italiani. Nel suo caso Scirè, ricercatore di Storia contemporanea con la produzione di saggi su Antonio Gramsci, l'aborto e il divorzio, nel dicembre 2011 ha visto assegnare il posto per cui concorreva - ricercatore per due anni, Storia la disciplina, Università di Catania l'organizzatrice del bando.
Risolve un problema matematico discusso da 20 anni e l'Università di Palermo gli toglie il corso. Corrado Zunino su La Repubblica il 16 settembre 2021. Francesco Tulone, ricercatore dell'Università di Palermo. La rivista Proceedings of the American Mathematical Society ha appena accettato il lavoro del ricercatore Francesco Tulone. Il suo dipartimento, dopo 16 anni, gli interrompe l'insegnamento. "Spesso ho messo in discussione la gestione dei concorsi". Alle fine, lo scorso 10 agosto, l'Università di Palermo gli ha concesso l'onore di un comunicato stampa. "Il lavoro scientifico accettato per la pubblicazione dal Proceedings of the American Mathematical Society, tra le riviste più prestigiose se non la più prestigiosa al mondo per i matematici", ha scritto l'ateneo a proposito della produzione di un ricercatore interno, "dà la soluzione a un problema aperto circa 20 anni fa, a seguito di una branca della teoria dell'Analisi matematica sviluppatasi a partire dagli Anni ‘60".
Da "tgcom24.mediaset.it" il 20 settembre 2021. "Un dispetto accademico". Così Francesco Tulone, 49 anni, matematico e ricercatore l'Università di Palermo, definisce il mancato incarico del modulo di Analisi matematica 2, assegnato a una collega. Tutto ciò dopo aver dato "la soluzione a un problema aperto circa 20 anni fa, a seguito di una branca della teoria dell'Analisi matematica sviluppatasi a partire dagli Anni ‘60". Un lavoro d'equipe riconosciuto anche dalla rivista Proceedings of the American Mathematical Society. Quel lavoro Tulone, riporta Repubblica, lo aveva realizzato, insieme a due colleghi delle Università di Mosca e Chicago. Con un curriculum tutto interno all'ateneo della sua città che è passato attraverso il consolidamento di tre anni di co-dottorato alla Lomonosov di Mosca, quindi raffinamenti del sapere ad Austin, Texas, dal futuro vincitore del cosiddetto Premio Nobel per la Matematica Alessio Figalli. Tulone, il 49ennesi è cimentato in un'attività di insegnamento dal 2005, quando vinse il concorso da ricercatore a tempo indeterminato (il secondo a cui partecipava). Ha tenuto lezioni di Matematica nel suo dipartimento, sostanzialmente, ma è stato chiamato per sostituzioni a Ingegneria, Fisica, Biologia. Lo scorso maggio la proposta del Consiglio d'ateneo di riaffidargli il modulo di Analisi matematica 2 del corso di laurea più generale è stata inizialmente accettata, ma rapidamente, con una seconda votazione segreta e senza motivazione scritta, l'insegnamento gli è stato tolto per essere assegnato - "caso più unico che raro", sostiene - a una professoressa ordinaria neoassunta, già incaricata di altri corsi. Tulone ha sempre definito quell'atto "un dispetto accademico" e colpisce che dal prossimo anno, con la prospettiva del riconoscimento internazionale, un ateneo si privi delle lezioni di uno studioso ospitato per la sua intuizione dalla rivista Proceedings of the American Mathematical Society. Dice il ricercatore: "Amo insegnare, la considero la mia seconda attitudine dopo la ricerca. L'unica spiegazione che ho ottenuto dal decano del dipartimento dell'Università di Palermo è quella che non si poteva non mettere ai voti un'altra disponibilità consigliandomi di ritirare la mia per Analisi matematica 2 per evitare imbarazzi. In verità, la professoressa prescelta mi ha confessato che è stato il dipartimento stesso a spingerla a una candidatura antagonista alla mia".
Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it il 19 agosto 2021. Baroni universitari? Non certo una novità, piuttosto un male endemico che opera sempre allo stesso modo: cooptare i meno pericolosi e lasciare fuori dal recinto i migliori e più meritevoli. La biografia “La casa dalle finestre sempre accese” di Anna Folli (Neri Pozza) su Giacomo Debenedetti, presentata al Premio Comisso, introduce anche all’episodio della “cattedra mancata”, o meglio, “negata”, al più grande critico letterario del Novecento. Non facciamo i nomi di chi gliela negò, ma anche i cognomi: la prima volta presiedeva la commissione che non lo mise in cattedra Natalino Sapegno; un’altra volta Carlo Bo. Prosit. Eugenio Montale, che con quella sua inarrivabile sensibilità poetica e con quel suo curriculum così poco accademico non si pose mai l’idea di andare in cattedra (troppo bravo e, al contempo, troppo lontano dal cursus honorum) si inoltrò nel “mistero” del perché Debenedetti non fosse in cattedra, capendo perfettamente le ragioni psicologiche delle parti in causa. “C’è qui un mistero che non mi interessa chiarire”, scrive Montale con una sorta di litote. Debenedetti, chiedendo di andare in cattedra, ovvero “di salire un ulteriore gradino, commise forse una ingenuità” scrive con finta ironia Montale: era troppo importante per sperare che colleghi-competitor gli concedessero il dovuto riconoscimento. D’altra parte, aggiunge il Premio Nobel, “molto maggiore è il torto di chi respinse il suo desiderio”. Da una parte l’ingenuità; dall’altra la malafede. Siamo all’inizio degli anni Sessanta, ma a leggere i verbali della commissione (li ha approfonditi Paola Frandini) il tempo sembra essersi fermato. Quello che si legge allora sono parole che si leggono anche oggi paro paro, del tipo: il candidato dimostra grande padronanza ma…, il candidato è di grande livello ma non pertinente al raggruppamento disciplinare… ecc. ecc.Nella nota della Commissione del primo concorso al quale partecipa, Sapegno (e gli altri docenti, per altro “amici” di Giacomo) lodano la sua “inconfondibile personalità” e la sua “ricca cultura estesa ad ambiti diversi” (e già con questa affermazione si preparano a far cadere l’asino), ma la Commissione si duole che non si possa riconoscere un “progresso” nella produzione di Debenedetti (un po’ come oggi, che valgono solo le pubblicazioni degli ultimi cinque anni perché si utilizzano pseudo sistemi scientifici), al quale si rimprovera un “indubbio allontanamento, una certa involuzione dispersiva”. Come scrive la biografa Folli, “non contano le pubblicazioni dei Saggi critici, gli scritti su Saba, Proust, Svevo, Alfieri, l’ascendente sugli studenti. Conta invece che Giacomo non abbia seguito il classico curriculum di chi vuole diventare professore ordinario. E le sue esperienze nel cinema e al Cinegiornale Incom … sporcano l’illibatezza accademica”. Insomma, Debenedetti ha dovuto lavorare e questo non va bene, si è avvicinato pure al giornalismo (oggi diventata uan disciplina universitaria anch’essa) e ciò lo rende persino pericoloso: sarà in parte così anche per Umberto Eco, ma con risultato, fortunatamente, opposto. Nel ’64, Debenedetti sta per lasciare Alberto Mondadori, ci risiamo. Va al concorso ma niente da fare. Tre anni dopo, quando Carlo Bo presiede la Commissione, Debenedetti crede di farcela: ma l’esito sarà lo stesso. Gli vengono riconosciuti “cospicui meriti acquisiti nella complessiva e varia attività svolta nell’ambito della cultura” (e, di nuovo, quel varia e il troppo ampio termine cultura lasciano intendere che lo vogliono segare), ma sembra che abbia scritto troppo poco. Incredibile! Debenedetti morirà pochi mesi dopo e, immediatamente, si aprirono le cateratte del coccodrillismo: “Possedere un tale esemplare nel nostro erbario – scrisse Gianfranco Contini – e non accorgersene e cosa di cui noi tutti letterati contemporanei dobbiamo rendere ammenda”. E giù una serie di rimpianti (Walter Pedullà, Natalia Ginzburg) e scaricabarile. Buonanotte.
Irene Famà per “la Stampa” il 31 luglio 2021. «Anche un cavallo può diventare professore ordinario». Ecco come funziona in ospedale un concorso truccato. Per quanto bravo e promettente possa essere, se un candidato è un predestinato per cognome, rango familiare o affiliazione a una qualche cordata, avrà la strada spianata. E a Torino, gli atti dell'inchiesta su un concorso pubblico per un posto da professore associato nel dipartimento di Chirurgia raccontano, scrivono gli inquirenti, un «sistema consolidato e collaudato nel tempo». Il processo abbreviato si è concluso ieri con due condanne e un'assoluzione. E racconta di professori eminenti riuniti in un comitato di interessi di casta piuttosto che imparziali valutatori di meriti. Quel posto aveva già un nome, quello del dirigente medico Maria Alessandra Bocchiotti. Lo sapevano tutti e il dottor Marco Fraccalvieri, primo escluso, in una conversazione registrata nel giugno 2018 con il professor Stefano Bruschi, primario ora in pensione e all'epoca, direttore del dipartimento di Chirurgia plastica dell'Università, lo dice chiaro e tondo tirando in ballo la massima del cavallo: «Non veniamocela a raccontare». Fraccalvieri denuncia in procura: «Il professor Bruschi mi disse che quel posto era per Maria». I carabinieri avviano intercettazioni telefoniche e ambientali e la vicenda finisce in aula. Bocchiotti è stata condannata in rito abbreviato a sei mesi, il professor Bruschi a quattro. Un commissario di gara è stato assolto, altri due verranno giudicati con rito ordinario. I concorsi truccati non sono una novità ma sono difficili da provare. Lo dice l'avvocato di parte civile Michele Galasso: «In questo caso le intercettazioni audio-video della procura hanno consegnato al giudice il film di come si fa». È scritto negli atti: tutti i protagonisti della vicenda erano «perfettamente a conoscenza dei meccanismi, ne hanno alimentato l'esistenza e si sono mossi con estrema disinvoltura all'interno degli stessi». Questa è una storia di nepotismo e malcostume. Maria Bocchiotti è figlia del professor Giovanni Bocchiotti, ex direttore della Struttura complessa di Chirurgia plastica (escluso dal procedimento per le sue condizioni di salute). Bruschi a lui deve molto, dice di «dovergli fare un monumento perché a suo tempo era andato controcorrente scegliendolo per farlo sedere nel posto che ora ricopre». Così, davanti alla richiesta di dare una mano alla figlia, non si tira indietro. Il pm Giovanni Caspani, e prima il collega Roberto Sparagna, ricostruiscono i passaggi a cominciare dalla scelta della commissione esaminatrice. «La candidata si adopera per aiutare Bruschi a compilare la modulistica relativa alla nomina dei commissari». Tutte persone all'interno della sua cerchia professionale. «Si muove come se fosse lei stessa l'organizzatrice del concorso» al punto che, scrivono gli inquirenti, «in alcuni casi è parso addirittura che lei stimolasse e guidasse Bruschi». Chiedeva di inviare delle e-mail ai commissari, di capire se avevano i requisiti, assicurarsi che la pensione imminente di uno di loro non creasse problemi. «Sono agganciati per il collo», si dicevano. Poi vengono stabiliti i criteri di valutazione orientati a favorirla. E ancora: si modella il curriculum, si individuano i titoli da presentare e quelli che bisogna far risaltare. Entrambi hanno contatti con gli esaminatori prima e durante i lavori della commissione. Bocchiotti vince la selezione. «Leggeremo le motivazioni e faremo ricorso in appello» dice l'avvocato difensore Carlo Blengino. Ma le logiche di condizionamento dei concorsi universitari sono radicate come feudi cattedratici e lo spiega bene proprio Bruschi, assistito dall'avvocato Stefano Castrale, che, intercettato, racconta di quando Bocchiotti senior gli aveva detto: «A me del bisturi d'oro non me ne frega niente. Se c'è un posto da professore associato non sarà lei a prenderlo». Salvo poi cambiare idea e anni dopo chiedere il conto. «Ho guardato chi secondo me era più idoneo a prendere il mio posto - diceva Bruschi - Maria è brava e onesta». Ma hanno optato per la scorciatoia: che fosse vero o meno ora è più difficile stabilirlo.
Inchiesta sull’Università malata e sulla strage silenziosa del merito. Carlo Bonini, Antonio Fraschilla, Luca Serranò e Corrado Zunino su La Repubblica il 22 aprile 2021. “Vaffanculo barone”. Con questo titolo fulminante, il 4 marzo scorso, sulla prestigiosa “London Review of books”, John Foot, storico e saggista britannico specializzato in storia italiana, firma un amaro epitaffio della nostra università. Che ha il pregio di riassumere in una parola sola il senso e le ragioni con cui, da oltre mezzo secolo, decine di migliaia di giovani ricercatori prendono congedo dal nostro Paese. Siamo partiti dunque da quel “vaffancul...
I pm su Concorsopoli: “Un sistema mosso da logiche clientelari”. Luca Serranò su La Repubblica il 16 marzo 2021. In un’intercettazione il professor Carini cita Giani come amico di un medico di cui si interessa. Il governatore: “Non so di che cosa si parli”. “L’attività investigativa ha dimostrato come l’intero sistema dei concorsi sia mosso non dalla meritocrazia ma dalla logica del clientelismo, del favoritismo, dalla raccomandazione, e quando non sufficienti dall’induzione e dall‘imposizione”. Così, nelle richieste di interdizione a carico di 8 degli indagati (quelli accusati di corruzione) nell’inchiesta sui concorsi a Medicina, i pm fiorentini descrivono le trame che per anni avrebbe inquinato i bandi. A tirare le fila un gruppo di potere in cui un ruolo fondamentale, oltre al rettore Luigi Dei e dei Dg di Careggi Rocco Damone, lo avrebbe avuto tra gli altri il professor Marco Carini, primario di urologia a Careggi. Il primario viene indicato nelle carte come “persona di sistema”, in grado di mettere al servizio dell’associazione una importante rete di relazioni nel mondo accademico (l’inchiesta riguarda anche concorsi ad Ancona, Milano Verona). Non mancano anche contatti con la politica locale. Il 18 maggio 2020 fa Carini parla al telefono con Poggesi riguardo alcuni ritardi nel bando per il posto di professore associato di malattie odontostomatologiche: ed è proprio durante questa conversazione che spunta anche il nome di Eugenio Giani (estraneo all’inchiesta), all’epoca candidato governatore della Toscana. Carini, scrivono i finanzieri, “riferisce a Poggesi che Eugenio Giani gli avrebbe chiesto una soluzione a favore del dottor Luis José Sanchez, incardinato nel centro di senologia dell’azienda ospedaliera universitaria di Careggi- chirurgia della mammella”. La conversazione viene citata in una delle informative: “C’è Sanchez, sembra sia molto amico con Giani e che già m’ha chiesto ma che si può … cosa si può fare? E così via … quindi io vorrei chiuderla il prima possibile”. Per la verità, aldilà delle conclusioni a cui giungono i finanzieri, dalla trascrizione non è chiaro se la (presunta) richiesta a dire di Carini arrivi proprio da Giani o dal medico in questione. A questo proposito la replica del governatore, chiesta da Repubblica, è secca: «Non so di che cosa si parli». In altre occasioni Carini si rivolge all’allora assessora alla salute (ora vicepresidente della Regione) Stefania Saccardi, anche lei non coinvolta nelle indagini. Una intercettazione riguarda un “consiglio” chiesto “per il futuro professionale di una amica”, in servizio in un ospedale a Livorno. Dice l’ex assessora: “Ti chiamo per una cosa strana…. Nel senso che io c’ho una carissima amica da tanti anni …(…) è venuta a chiedermi un consiglio io non sono in grado …”. Il professore sembra disponibile, così lei prosegue spiegando le difficoltà dell’amica in particolare per il complicato rapporto con il primario: “Il tema è questo, che lei è tanti anni che lavora li (…) l’ha sempre tenuta un po’ così … insomma non che questi ragazzi li abbia fatti crescere tantissimo … e ora mi chiedeva un consiglio dice ma dove mi guardo intorno? Che cosa dovrei fare? Secondo te, dove potrei andare? L’unica persona che mi è venuta in mente, che conosce l’ambente,… solo un consiglio”. Carini ringrazia della fiducia e si informa sulle ambizioni della dottoressa, poi c’è un omissis e la conversazione prosegue con e parole di Saccardi: “No no ma lei non è che voleva … anche perché credo c’abbia nemmeno i titoli per ricoprire il ruolo di…”. Poi Saccardi precisa: “Solo per capire se magari tu sai che c’è uno spazio per fare un’esperienza e crescere da qualche altra parte (…) ti mando nome e numero di telefono”. Contattata da Repubblica, la vice presidente della regione dice di non aver chiesto nient’altro che un consiglio: «Un medico che conosco mi ha chiesto se c’era qualche opportunità per andare a lavorare in giro per la Toscana –dice - ma io notoriamente non mi occupo di concorsi e di posti e ho chiesto un consiglio a chi aveva un quadro delle necessità del sistema. Tra l’altro la dottoressa è rimasta al suo posto a Livorno».
Giuseppe Conte, terremoto all'università di Firenze: "Indagato per associazione a delinquere il rettore Dei", concorsi truccati? Libero Quotidiano il 04 marzo 2021. Luigi Dei, rettore dell’università di Firenze, è indagato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e all’abuso d’ufficio. Accuse molto gravi, che terremotano l’ateneo fiorentino, che tra l’altro ha appena riaccolto Giuseppe Conte, tornato all’insegnamento dopo la conclusione (soltanto temporanea?) Della sua esperienza politica. Dopo quasi tre anni trascorsi a Palazzo Chigi, l’ormai ex premier si è ritrovato in un’università scossa dall’avviso di garanzia recapitato al rettore, che tanto si era speso per riaverlo subito con una lectio magistralis. La Procura di Firenze ha ipotizzato un sistema che gestiva cattedre e concorsi: oltre al rettore sarebbero una trentina gli indagati. I reati ipotizzati sono l’associazione a delinquere, corruzione, concussione e abuso d’ufficio. In particolare le accuse mosse a Luigi Dei sarebbero relative a due concorsi, avvenuti tra il 2019 e i primi mesi del 2021. In mattinata è avvenuta anche la perquisizione della Guardia di Finanza negli uffici dell’università e nelle case degli indagati, tra cui quelli del rettore e del dg di Careggi, Rocco Damone. L’ateneo fiorentino ha rilasciato un comunicato ufficiale sull’avviso di garanzia ricevuto dal rettore: “Ogni documentazione ritenuta utile è stata acquisita dall’autorità giudiziaria per ogni opportuna valutazione”. Luigi Dei, difeso dall’avvocato Sigfrido Fenyes, si è detto “sereno e fiducioso che ogni vicenda potrà essere chiarita”.
Andrea Bulleri e Luca Serranò per repubblica.it il 5 marzo 2021. Altri sviluppi nell’inchiesta della procura di Firenze sui concorsi pilotati a medicina, per cui sono finite sul registro degli indagati 39 persone tra cui il rettore Luigi Dei, il direttore generale di Careggi Rocco Damone, quello del Meyer Alberto Zanobini e numerosi primari e professori universitari. Questa mattina i pm Luca Tescaroli e Antonino Nastasi hanno notificato richieste di interdizione dalle proprie funzioni a carico di 8 persone, tutte indagate per corruzione, tra cui proprio il rettore Luigi Dei. Significa la sospensione dell'attività. La richiesta riguarda anche il dg di Careggi Rocco Damone, il direttore del dipartimento oncologico e primario dell'urologia oncologica, Marco Carini, il direttore del dipartimento di medicina sperimentale e clinica dell'Università di Firenze Corrado Poggesi, il professor Niccolò Marchionni, direttore del dipartimento cardiovascolare e primario della cardiologia di Careggi, e l‘associato di chimica Sandra Furlanetto. Analogo provvedimento è stato chiesto per due professori di Ancona e Milano. La decisione sulle interdizioni spetta ora al gip Antonio Pezzuti: gli interrogatori sono fissati dal 17 al 30 marzo. L’inchiesta ipotizza storture nel sistema di co-finanziamento delle cattedre universitarie da parte dell’azienda ospedaliera, che avrebbe portato a un condizionamento degli esiti dei bandi. Secondo la Procura guidata da Giuseppe Creazzo, diversi concorsi sarebbero stati pilotati secondo uno schema che prevedeva favori reciproci. Il ruolo principale, sempre secondo le prime ricostruzioni, lo aveva un presunto centro di potere composto a sette persone, tutte accusate di aver preso parte a un’associazione a delinquere responsabile di “una serie indeterminata di reati di abuso di ufficio”, e “finalizzata alla preordinata individuazione dei vincitori di concorsi pubblici per professore ordinario, associato e ricercatori”.
Da corriere.it il 10 marzo 2021. Roberto Bernabei, professore di medicina interna e geriatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma, da fine febbraio medico personale del Papa, risulta tra i 39 indagati dell’inchiesta della procura di Firenze su presunte irregolarità nei concorsi alla facoltà di medicina del capoluogo toscano. La notizia è stata pubblicata da La Nazione e Il Fatto quotidiano. A Bernabei, che è stato anche perquisito, il procuratore aggiunto Luca Tescaroli e il pm Antonino Nastasi, titolari delle indagini condotte dalla guardia di finanza, contestano l’abuso d’ufficio: l’accusa si lega alla sua partecipazione alla commissione esaminatrice per un concorso per professore di medicina interna all’università fiorentina. La cattedra è stata poi assegnata ad Andrea Ungar: per la procura quel bando sarebbe tra quelli con «vincitore predeterminato». Ai due quotidiani Bernabei ha spiegato che gli atti del concorso sono «fatti bene». «Si è trattato di un concorso regolare», ha detto. L’inchiesta fiorentina ha portato una settimana fa a 43 perquisizioni. Tra i 39 indagati, insieme a dirigenti sanitari, universitari e docenti, anche il rettore dell’Ateneo di Firenze Luigi Dei a cui vengono contestate le accuse di associazione a delinquere, corruzione e abuso d’ufficio. Per Dei e per altri sette indagati la procura ha chiesto la misura dell’interdizione dagli incarichi.
Concorsopoli, il rettore ascoltato attraverso il trojan: “A Bechi davano il personale peggiore”. Luca Serranò su La Repubblica il 12 marzo 2021. La rilettura di Dei degli ultimi anni della medicina fiorentina: “Gli hanno fatto il peggio del peggio”. Il trojan nascosto dai finanzieri nel cellulare del rettore Luigi Dei non ha registrato “solo” le presunte trame per snaturare il percorso dei bandi. Ma anche riflessioni, parole in libertà con amici e colleghi. Parole che gli inquirenti hanno messo nero su bianco in una informativa perché considerate esemplari di uno schema consolidato, con radici “antiche”. È il 5 giugno del 2020 quando il software capta un colloquio con una ricercatrice, in cui il rettore traccia una personale “contro storia” della medicina fiorentina. Dei “spiega le dinamiche che hanno portato Paolo Bechi ad assurgere a ruolo di prorettore dell’area medico sanitaria dell’ateneo fiorentino, e la “vendetta” fatta nei confronti di quest’ultimo”. L’analisi del rettore parte da lontano: «Il maestro di Bechi era Luigi Tonelli, vecchio boss, dico io… e Bechi era uno degli allievi… cosa è successo, a un certo punto Tonelli comincia a scaricare Bechi perché intende fare andare avanti il suo figliolo che è Francesco che è fuori da Firenze (...) quando lo fa rientrare con una manfrina poi il preside di allora naturalmente Bechi viene messo in un angolo per lunghi anni perché chi doveva fare tutto era Francesco Tonelli che dirigeva la Sod». La storia prosegue con altri particolari, frutto dela personale rilettura del capo dell’Ateneo fiorentino: «Per lunghi anni a Bechi gli davano il personale peggiore (…) Certo è più giovane e quindi arriva a dirigere una Sod per diventare ordinario molto avanti, tanto è che Bechi non ha nemmeno gli anni per diventare medico perché non ce li ha venti anni di anzianità da ordinario, ce li ha mi pare a pelo pelo 15 per diventare onorario ... e in questo ostracismo cosa fanno, gli fanno il peggio del peggio, gli danno questi personaggi ...». Dei è un fiume in piena. Alla ricercatrice dice che l‘ex prorettore «aveva portato all’ateneo fiorentino molti soggetti provenienti da fuori e tali atteggiamenti – seppure condivisi con il rettore - avevano ingenerato disapprovazione tra alcuni membri dell’Università di Firenze, che avrebbero utilizzato il professor Oreste Gallo (uno degli accusatori della precedente inchiesta sui concorsi pilotati a medicina) per attaccare Bechi». Dice il rettore: «Qualche pezzettina l’abbia fatta e insomma… e anche qualche…. Ma devo dire molto spesso a fin di bene no! Perché nel senso che lui dice stava a portare a Firenze persone di valore però bisogna essere prudenti perché lui non è che in realtà … di valore anche perché poi, Gallo è un personaggio … perché poi Gallo oggi come oggi inviso a tutti perché ha scoperchiato il pentolone, era molto amico di Carini lo usavano come un maglio capito?». Il racconto entra nei dettagli, rivelando lo scompiglio creato dalla precedente inchiesta della procura fiorentina. “Ora lo hanno scaricato tutti perché è chiaro che quando te fai il maglio per rompere i coglioni a qualcuno, ma quando scoperchi la pentola e finisce indagato Poggesi, Marchionni, Carini, tutti adesso si incazzano». Concludono i finanzieri: «Nel momento in cui “ha esagerato”, Gallo è stato è stato lasciato solo».
I concorsi all'Università di Catania truccati dai baroni. I pm: "È associazione a delinquere". La procura contesta a dieci tra ex rettori e direttori di dipartimento il reato associativo. Chiesto il giudizio per 55, ma tutti gli indagati continuano a insegnare: nessuno è stato sospeso o si è autosospeso. E l’Ateneo non si costituisce ancora parte civile. Antonello Fraschilla su L'Espresso il 26 gennaio 2021. Nelle stanze del tribunale di Catania, senza molto clamore, a breve potrebbe iniziare un processo a suo modo storico. Un processo che vedrebbe imputato per associazione a delinquere un pezzo della più alta classe dirigente della città. I vertici recenti dell'ateneo, tra i più grandi d'Italia: tre ex rettori e sette direttori di dipartimento dell'Università che secondo il procuratore Carmelo Zuccaro, l'aggiunto Agata Santonocito e i sostituti Marco Bisogni, Agata Vinciguerra e Santo Distefano, si sarebbero «associati» per decidere i vincitori di una miriade di concorsi. Una sorta di grande "tavolino" per stabilire chi doveva sedersi sulle cattedre più importanti dell'ateneo. Ed è proprio questo patto, e la contestazione dell'associazione a delinquere, il salto di qualità nelle inchieste sui concorsi truccati negli atenei italiani. Nel mirino della procura gli ex rettori Francesco Basile a Giacomo Pignataro, l'ex prorettore Magnano San Lio, e i direttori di dipartimento Giuseppe Barone, Michela Cavallaro, Filippo Drago, Giovanni Gallo, Carmelo Monaco, Roberto Pennisi e Giuseppe Sessa. Questa «associazione» avrebbe fatto pressioni su concorrenti non graditi, modificato i criteri dei bandi a misura dei prescelti, promesso utilità a chi faceva un passo indietro per fare spazio al vincitore di turno. Insomma, comportamenti che vanno ben oltre quella che spesso è una cooptazione travestita da concorso. Almeno questo emerge leggendo le 43 pagine della richiesta di rinvio a giudizio. Alla prima udienza preliminare gli avvocati degli indagati hanno escluso qualsiasi reato associativo, il prossimo 17 marzo si terrà la seconda udienza preliminare e i legali hanno già annunciato che faranno dichiarazioni diversi ex rettori e docenti. Ma al di là dei reati contestati dalla procura, dalle carte, e soprattutto dalle intercettazioni dell'indagine, sembrano emergere comportamenti censurabili. Ad esempio basta vedere come sarebbe stato organizzato il concorso di professore di prima fascia di Patologia generale all'interno del dipartimento di Scienze biomediche. Per questa cattedra il favorito dall'allora rettore Basile e dal direttore di dipartimento Drago era Massimo Libra. Ma al concorso partecipa anche Lucia Malaguarnera. Un problema. Si convoca quindi una riunione alla quale partecipa, fatto davvero singolare, anche il segretario della commissione di concorso, il professore Nicoletti. Seduti attorno a un tavolo, e convocata anche la Malaguarnera, i vertici non usano giri di parole: «…scusami Lucia, insomma questo è il concorso di Massimo, non è che hai speranza», le dicono. Aggiungendo, in soldoni, che da lì a poco avrebbero chiamato un altro concorso per lei, ma che se non ritirava la domanda ecco, il "suo" concorso non sarebbe mai stato chiamato. Le indagini delle procure dentro i corridoi degli atenei sono rare, e molto delicate perché i due ambienti spesso sono frequentati dalle stesse "famiglie". Così la procura di Catania, indagando su un concorso per professore di prima fascia sempre nel dipartimento di Drago, incappa in una storia di raccomandazioni che coinvolge l'ex procuratore Vincenzo D'Agata, e la figlia Velia che ambiva a quel posto e chiedeva la chiamata con una procedura "riservata" come previsto dalla legge 240 del 2010, e non un bando aperto. Drago e Basile si spendono in questa direzione, non prima però di aver ricevuto «tale richiesta» anche dall'ex procuratore. Scrivono i magistrati nella richiesta di rinvio a giudizio: «Velia D'Agata richiedeva con insistenza (e in un'occasione alla presenza del padre che rafforzava tale richiesta interloquendo direttamente con il rettore) al direttore del dipartimento di Scienze biomediche e al rettore l'adozione del bando per Anatomia con la procedura riservata». In questo modo non avrebbe avuto concorrenti con i quali confrontarsi, visto che tra l'altro allo stesso posto era interessato un collega, Sergio Castorina. A quest'ultimo Drago dice chiaramente: «Quello che ti chiedo è che la cosa vada in questi termini…vorrei che tu facessi un passo indietro e non di presentassi a questo concorso…io nel giro di sei mesi sistemo tutto, ti bandisco un altro posto, sono io d'accodo con il rettore». In un altro caso l'ex rettore Basile avrebbe concordato di posticipare un bando per ricercatore del dipartimento di medicina e chirurgia «fino al conseguimento della specializzazione da parte di Gianluca Testa, presupposto necessario per la partecipazione alla procedura». In soldoni, il giovane specializzando aveva già pronto un posto da ricercatore, ancor prima di conseguire la specializzazione: un trattamento che molti specializzandi nemmeno si sognano. In alcuni casi il posto veniva assegnato al figlio del grande docente di turno. E per consentire l'assunzione interveniva anche il rettore di turno, invitando i colleghi a non disturbare il percorso per il figliol prodigo. Ad esempio come sarebbe accaduto al dipartimento di Economia. Il problema era far conseguire l'assunzione per un posto di docente di prima fascia ad Antonio Barone, figlio del più noto professore Giuseppe Barone, evitando però casi di incompatibilità. Scrivono i pm nella richiesta di rinvio a giudizio: «Pignataro nella qualità di rettore dopo aver deciso la chiamata di Antonio Barone e di altri due docenti ed individuato i dipartimento presso cui avrebbero dovuto prestare servizio, diramava a tutti i direttori di dipartimento un fittizio interpello ma contestualmente contattava i direttore di dipartimenti imponendo loro di non avanzare alcuna richiesta. Effettuava poi pressioni su uno dei componenti del dipartimento di Economia, Roberto Cellini, contrario alla chiamata del docente». Scorrendo le carte della richiesta di rinvio a giudizio si arriva a un caso davvero incredibile: la messa in scena di un finto convegno per pagare dei benefit a una commissaria di concorso che poi avrebbe dovuto agevolare la vittoria del predestinato di turno. La storia, secondo i pm, si svolge al dipartimento di Scienze politiche. Qui tre docenti «con artifici e raggiri, simulano anche attraverso la predisposizione di una locandina, lo svolgimento di un convegno sul tema "I volontari italiani in Russia durante la grande guerra", e inducevano così in errore gli uffici amministrativi che erogavano in favore di Giovanna Cigliano (commissaria di un concorso per contratto da ricercatore) le somme di 460 euro per il volo andata e ritorno da Napoli a Catania, 300 euro per il vitto e un'altra somma per l'alloggio». Per i magistrati il tutto sarebbe avvenuto senza comunicare nulla del raggiro alla stessa Cigliano: «Giuseppe Barone ricopriva la qualità di ideatore. Nello specifico al fine di agevolare la trasferta del commissario Cigliano (anche al fine di renderla ancor più disponibile nei confronti di uno dei candidati al concorso) incaricava una collega di ideare un convegno da lui stesso definito "fantasma" con lo specifico fine di consentire all'Ateneo di anticipare le spese di trasferta della Cigliano». In tutti sono 43 i concorsi che sarebbe stati pilotati, e in una seconda richiesta di rinvio a giudizio (nella quale però non si contesta l'associazione a delinquere) sono coinvolti altri 45 docenti. Tutti, tranne quelli andati in pensione, continuano a insegnare nell'Ateneo. Il nuovo rettore Francesco Priolo al momento non fa costituire l'Università tra le parti civili: attende il rinvio a giudizio. A colpire è comunque anche il silenzio assordante degli studenti, forse ormai assuefatti a certi meccanismi che considerano ormai normale prassi.
· Concorsi truccati nella Sanità.
Test truccati a Odontoiatria, il professor Grassi torna in cattedra ma l'Università sceglie la linea dura: aperto un procedimento. Gabriella de Matteis su La Repubblica il 27 Novembre 2021. L'ex preside Roberto Grassi, arrestato nel 2012, è stato salvato dalla prescrizione e di recente nominato alla guida del corso di Igiene dentale. Ma l'Ateneo ha scelto di bloccare tutto aprendo un fascicolo disciplinare. L'apertura di un procedimento disciplinare è facoltativa, ma l'Università di Bari ha optato per la linea dura. E adesso Roberto Grassi, professore ordinario e coordinatore del corso di laurea in Igiene dentale, rischia di essere nuovamente sospeso. Il docente nel 2012 è stato coinvolto in una inchiesta della procura sui test truccati a Odontoiatria. Salvato in secondo grado dalla prescrizione, è tornato alla sua attività in corsia e nelle aule universitarie.
Eugenia Tognotti per “La Stampa” il 9 settembre 2021. Decine di migliaia di aspiranti camici bianchi in rivolta in corsa per 14.020 posti, il Codacons sul piede di guerra, un’interrogazione parlamentare, la promessa della ministra dell’Università di annullare le domande sotto verifica o sbagliate (almeno 3, a quanto pare). E un’affermazione inequivoca, che suona come un’onesta ammissione della necessità di fare un salto di qualità in modo da “riuscire a dare qualcosa di meno debole per il prossimo anno”. Ma, intanto, si può sommessamente osservare che le graduatorie, pur emendate, che ne scaturiranno, non saranno in grado di assicurare equità tra chi ha dispiegato tempo per dare una risposta e chi è passato oltre. Anno che vai, polemiche che trovi, per quanto riguarda il test di ingresso a Medicina, inevitabilmente accompagnato dall’eterna discussione sul numero chiuso. Quest’anno però è una vera e propria conflagrazione quella che sta mobilitando l’armata degli studenti che il 3 settembre scorso, indossando la scomoda mascherina Ffp2 e a debita distanza l’uno dall’altro, hanno cercato di rispondere in 100 minuti, non uno di più non uno di meno, a sessanta impegnative domande: 12 di cultura generale, 10 di ragionamento logico, 8 di fisica e matematica, 18 di biologia, 12 di chimica, particolarmente difficili, quest’anno, stando all’unanime valutazione di “addetti ai lavori”. Se negli anni scorsi erano state le domande di cultura generale - storia, letteratura, temi politico-istituzionali, cittadinanza e Costituzione - a suscitare qualche protesta, quest’anno non si sono visti quesiti del genere: quale Stato italiano - tra la Repubblica di Venezia, il Ducato di Parma, il Regno di Sardegna, lo Stato della Chiesa e il Granducato di Toscana – è stato cancellato dalla geografia della penisola italiana dopo il Congresso di Vienna (1814-15)? In realtà, non erano, tutto sommato, particolarmente ardue le domande, con cinque opzioni di risposta, sull’anno della promulgazione delle leggi razziali; sul giorno della celebrazione della Giornata della legalità; in quale Stato si trova oggi la città di Fiume dove nel 1919 ebbe luogo la spedizione di Gabriele D’Annunzio; e neppure, perfino, quella sulla casa automobilistica che introdusse per prima la catena di montaggio; sull’autore del libro “Il mistero buffo” - per richiamarne solo alcune. Si potrebbe però osservare che 12 domande di cultura generale sono davvero troppe. Le domande di logica - che all’estero hanno un peso crescente nei criteri e nelle tecniche di valutazione - sono passate, negli ultimi tre anni, da 20 a 10. Poche, se si pensa che questo test è la prima occasione per i futuri medici di allenarsi con la pratica del ragionamento logico. Tenendo conto che l’acquisizione e il perfezionamento delle capacità di ragionamento critico costituiscono una base essenziale per un medico che, nel suo percorso professionale, deve continuamente mettere alla prova le capacità di scelta e la rapidità dei processi decisionali. Visto che si annunciano cambi di passo occorrerebbe forse, anche, sviluppare una riflessione: così com’è, la prova d’ammissione risponde all’esigenza di selezionare candidati capaci di incarnare un profilo professionale come quello del medico che dovrà rapportarsi alla malattia e al dolore, e confrontarsi non solo con casi clinici, ma con persone?
Massimo Sanvito per “Libero Quotidiano” il 9 settembre 2021. Ci dev'essere qualcosa di maledetto che aleggia sui test per essere ammessi alle facoltà universitarie di Medicina. Difficilissimi, contestatissimi, odiatissimi. Ogni anno è sempre la stessa storia e all'ultimo giro ci sono pure scappate sei domande sbagliate. Ora che si fa? Lo sanno anche i sassi che passare l'esame è un'impresa, e pochi centesimi di voto di differenza tra un candidato e l'altro possono essere decisivi. E quindi? Quindi i quesiti errati verranno annullati: parola di Maria Cristina Messa, per l'appunto ministro dell'Università e della Ricerca. Ci sarà tempo fino a oggi per denunciare altre eventuali storture, dopodiché la graduatoria che verrà stilata il 28 di questo mese sarà quella definitiva. Ovviamente, salvo complicazioni ulteriori: ancora non è detta l'ultima parola. Ma cos'è successo nella prova dello scorso 3 settembre, a cui hanno partecipato 76mila aspiranti camici bianchi? L'Unione degli universitari, che ogni anno spacca il capello in quattro per permettere a più ragazzi e ragazze di accedere alle facoltà, ha scovato sei errori nei quiz a risposta multipla «che potrebbero compromettere il risultato finale e l'accesso di tanti studenti ai corsi di studi». Già alla seconda domanda del test, parliamo di logica, c'era qualcosa che non andava: non era congruente alle regole riportate nel testo. La numero 21, di chimica, era stata inserita nel comparto di logica. Mentre la 23, di biologia, secondo gli studenti aveva un riscontro ambiguo. Altre tre domande, invece, presentavano problemi più sfumati. E allora i social si sono scatenati, così come l'immancabile Codacons, denunciando le ingiustizie. Il dossier è finito sulla scrivania del ministro Messa, che ha subito tranquillizzato tutti: «Devo riuscire a fare le graduatorie tenendo conto degli errori, quindi verosimilmente annullando le domande sbagliate o comunque quelle che sono sotto verifica. E poi vorrei incontrarmi con le commissioni che preparano i test per riuscire a dare qualche cosa di un pochino meno debole per il prossimo anno», ha spiegato alla trasmissione "The breakfast club" su Radio Capital. Già, le commissioni. Chi diamine le scrive le domande dell'esame di ammissione più chiacchierato d'Italia? Esiste un consorzio interuniversitario che si chiama Cineca: ogni anno avvia una gara per la fornitura al ministero di quesiti per le prove d'esame. Alla gara del Cineca partecipano le aziende di selezione, aziende nelle quali il lavoro dei dipendenti consiste proprio nella stesura di quiz, i cosiddetti item writer. Per quest'anno, così come l'anno scorso, è toccato a un'azienda siciliana occuparsi di elaborare le domande dei test. Poi, tra gennaio e maggio, queste vengono inviate al ministero dell'Università e della Ricerca per una revisione scientifica da parte di un'apposita commissione. È qui che viene licenziato il quiz nella sua forma definitiva, tra quesiti più o meno bizzarri e capita - sbagliati e contestabili. E dire che sono tante le teste che si chinano su quei faldoni...Intanto, l'Unione degli universitari, per voce del suo coordinatore Giovanni Sotgiu, contesta le modalità: «Negli ultimi anni c'è stato un aumento dei posti messi a bando per i corsi a numero programmato e in particolare per Medicina e Chirurgia, arrivando a 14.020 in questo 2021, ma questi interventi sono palliativi, messi in atto per gestire un problema strutturale. I test non funzionano, e a ciò si aggiungono le irregolarità che caratterizzano procedure e quesiti, sottolineando la loro inefficacia e inattendibilità. Il numero chiuso rappresenta la mancata volontà di investire in istruzione, università ericerca, anche alla luce di una crisi pandemica che ha messo in ginocchio il nostro sistema sanitario nazionale. È necessario abolire questo sistema, superare il numero programmato per Medicina, Veterinaria, Formazione primaria e Architettura e permettere a tutti l'accesso aun diritto fondamentale».
Da corriere.it l'8 settembre 2021. Non nasconde la sua irritazione per l’ennesimo incidente capitato nell’ultima tornata di test di Medicina, ma pragmaticamente lavora già a una soluzione: annullare le domande incriminate se risulteranno sbagliate e andare avanti con la graduatoria in modo da non ostacolare l’inizio dei corsi per le matricole di Medicina. «Devo riuscire a fare le graduatorie tenendo conto degli errori, annullando le domande sbagliate o comunque quelle che sono sotto verifica», ha detto questa mattina la ministra dell’università Maria Cristina Messa nel corso della trasmissione The Breakfast Club su Radio Capital, assicurando ai 70 mila candidati per gli oltre 14 mila posti di Medicina e più di mille per Odontoiatria che si occuperà personalmente di risolvere il problema delle domande sbagliate nei test di ingresso per il corso di laurea in medicina. Sì, perché per l’ennesima volta, anche quest’anno nella prova d’accesso a uno dei corsi di laurea più ambiti dai giovani italiani, sono state segnalate diverse domande (chi dice due, chi addirittura ne contesta quattro sulle 60 in totale di cui si compone la prova d’esame) imprecise se non sbagliate. I primi a lanciare l’allarme sono stati alcuni studenti siciliani; le loro segnalazioni sono state immediatamente recepite dagli studi legali fioriti in questi anni proprio grazie al lucroso mercato dei ricorsi contro il test, rilanciate da un’interrogazione parlamentare dall’onorevole Manuel Tuzi dei Cinquestelle e contemporaneamente sono state prese in carico anche dal ministero che evidentemente - vista la risposta della ministra Messa - ha accertato che i dubbi sollevati almeno per una parte delle domande erano fondati. Naturale che la ministra ne sia dispiaciuta, anche perché da anni il test d’accesso a Medicina è oggetto di contestazione e questo genere di errori sicuramente non aiuta la causa di chi sostiene la necessità di una selezione all’ingresso. Non per nulla la ministra ha promesso di far chiarezza per capire come sia potuto succedere che in un test così importante ci fossero svarioni di tal fatta. «E poi - ha detto Messa- vorrei incontrarmi con le commissioni che preparano i test per riuscire a dare qualche cosa di un pochino meno debole per il prossimo anno». Oltre agli errori, infatti, in questa edizione si segnalano anche alcune domande di cultura generale a dir poco bizzarre (voi per esempio sapete cos’è una zapoteca?). Per gli autori del test a questo punto si profila come minimo una bella lavata di capo!
Errori al test di medicina, la ministra Messa: “Annulleremo le domande sbagliate”. Le Iene News l'8 settembre 2021. Tre domande del test di Medicina ritenute per errate erano finite sotto alla lente di studenti, Codacons e Movimento 5 Stelle. Dopo l'interrogazione del deputato grillino Manuel Tuzi, la ministra dell’università Maria Cristina Messa anticipa l'esclusione dalla graduatoria finale di quelle sotto verifica. Con Fabio Agnello vi abbiamo parlato invece delle ricerche sospette su Google proprio durante il test del 2018. "Devo riuscire a fare le graduatorie tenendo conto degli errori, annullando le domande sbagliate o comunque quelle che sono sotto verifica". La ministra dell’università Maria Cristina Messa conferma così che alcuni quesiti del test di Medicina meritano un ulteriore approfondimento. Da qualche ora erano finiti sotto alla lente di studenti, Codacons e anche del Movimento 5 Stelle che ha presentato un'interrogazione parlamentare per chiedere approfondimenti. Questa volta non c’entrano trucchi e stratagemmi per copiare, ma le contestazioni che sollevano dubbi su alcune domande. Venerdì scorso oltre 76mila partecipanti si sono sottoposti al test per accedere ai 14mila posti della facoltà di Medicina e chirurgia e ai 1.200 di Odontoiatria e protesi dentaria. Quello che però non convince pienamente alcuni di loro sono alcune domande contenute nell’esame. In particolare la 2, un quesito di logica, la 21, un quesito di chimica la cui risposta è ritenuta non corretta, e la 23 che sarebbe stata formulata in maniera ambigua. Ma potrebbero essere anche di più. Al passaparola tra studenti hanno risposto anche il Codacons e il Movimento 5 stelle. Il primo ha annunciato un ricorso al Tar del Lazio per irregolarità e violazioni delle disposizioni mentre il secondo ha presentato un’interrogazione parlamentare. Manuel Tuzi, deputato M5S della commissione Cultura, ha chiesto alla ministra Cristina Messa di “far luce sulla presunta presenza di quesiti errati e di risposte non abbinate correttamente”. Secondo il deputato ci sarebbe il rischio che “gli studenti vedrebbero alterato il punteggio finale”. Dal ministero fanno sapere che sono in corso le verifiche ed eventuali segnalazioni si potranno presentare entro domani. Poi dal 17 settembre i candidati potranno conoscere riservatamente il punteggio ottenuto e una settimana più tardi potranno prendere visione del loro elaborato. Per la graduatoria pubblica invece si dovrà attendere fine mese. Nel frattempo i dubbi sollevati dovrebbero essere chiariti. Non è la prima volta che per errori nella formulazione delle domande o delle risposte si deve rivedere il punteggio complessivo dei test o addirittura rifarlo come nel 2014. Anche noi de Le Iene con Fabio Agnello ci siamo invece interessati di un caso alquanto singolare: nel 2018 durante le ore del test sono schizzate su Google le ricerche di alcune parole contenute nell’esame. Una coincidenza? Difficile crederlo anche perché abbiamo scoperto diversi trucchi e stratagemmi per copiare partendo dalla testimonianza di chi era in aula.
Medicina, un'altra farsa. Sbagliato un quiz su 10. Messa: "Non contano". Francesca Angeli il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Sono almeno sei i quesiti erronei segnalati dagli studenti. In arrivo migliaia di ricorsi. Era lecito sperare che il culmine del nonsense per i test di ingresso alla Facoltà di Medicina fosse stato raggiunto nel 2011 quando agli studenti della Sapienza fu posto il cruciale quesito: «Quali gusti serve il chiosco della grattachecca della Sora Maria a Roma»? Interrogativo collocato tra le domande di Logica. Ma invece no. Anno dopo anno l'aneddotica sui test si è arricchita di episodi surreali: la domanda sulla Chiesa dei Pastafariani, l'utilizzo indisturbato degli smartphone, orari e tempi di consegna flessibili, la violazione sistematica delle procedure. Irregolarità puntualmente segnalate dagli studenti che hanno poi seguito la strada del ricorso con il risultato che ogni anno centinaia di studenti vengono riammessi dopo essere stati esclusi con gran spreco di tempo e di energie. Anche quest'anno la tradizione viene rispettata: ieri i quesiti con errori grossolani segnalati dagli studenti nei test erano saliti a sei, ovvero il 10 per cento su 60 domande. E non è detto che non emergano altre criticità. Ora la ministra dell'Università Maria Cristina Messa, assicura che troverà una soluzione. «Devo riuscire a fare le graduatorie tenendo conto degli errori, quindi verosimilmente annullando le domande sbagliate o comunque quelle che sono sotto verifica», dice la Messa che poi si lancia nella solita promessa: «Vorrei incontrarmi con le commissioni che preparano i test per riuscire a dare qualche cosa di un pochino meno debole per il prossimo anno». Ma a questo punto l'unica domanda da fare è quando si metterà fine alla giostra dei test di Medicina, pregiudicati dalla loro stessa impostazione che punta ad una selezione non qualitativa ma soltanto grossolanamente quantitativa, perché gli Atenei non sarebbero in grado di sostenere l'impatto numerico di un accesso libero. Forse si dovrebbe avere il coraggio di aprire alle immatricolazioni con uno stop al primo anno: chi non è in regola con gli esami resta fuori. Ma quali sono le domande giudicate sbagliate e ora al vaglio del ministero? Tra le altre la numero due di Logica perché «in base alle regole fornite nel testo non è possibile collocare gli elementi negli insiemi». Insomma la domanda di Logica è assurda. Addirittura nella domanda 23 di Biologia sarebbe stato ripetuto lo stesso errore presente nei test di veterinaria che si sono svolti il primo settembre: errare è umano ma perseverare è diabolico. Anche la domanda 56 di Matematica è finita nel mirino degli studiosi perché «l'intervallo nel testo della disequazione non doveva includere gli estremi». E dunque anche in questo caso gli avvocati stanno già affilando le armi preparando una pioggia di ricorsi. Massimo Tortorella, presidente del network legale Consulcesi, attacca: « I fatti hanno dimostrato, per l'ennesima volta, che il numero chiuso, regolamentato così, continua ad essere una farsa». Come negli anni precedenti sono centinaia le segnalazioni raccolte dai legali di Consulcesi che hanno individuato almeno sei domande dubbie o presunte errate. E anche quest'anno il numero degli iscritti ai test supera di gran lunga quello dei posti disponibili. Gli aspiranti medici iscritti ai test sono oltre 77mila mentre i posti a disposizione sono poco più di 14mila. Pochi ma in aumento: erano 13mila nel 2020 e meno di 12mila nel 2019. Francesca Angeli
· Il concorso all’Inps è truccato.
Concorsi Inps, "Striscia" svela il mercato dei certificati falsi: così si gonfiano i punteggi. Redazione Tgcom24 il 29 ottobre 2021. "Striscia la Notizia" ha portato alla luce il mercato di falsi certificati che permetterebbero di scalare la graduatoria per il concorso da1858 posti bandito dall'Inps. L'inviato del tg satirico Luca Abete ha trovato gli enti di formazione in grado di fornire, a pagamento, falsi attestati di inglese e informatica, conoscenze che andrebbero ad incrementare il punteggio in graduatoria. Chi vuole ottenere una certificazione particolare deve soltanto pagare: come infatti confermato da una delle dipendenti di uno di questi enti, non c'è bisogno neanche di sostenere un esame: i prezzi vanno dai 150 ai 400 euro. Intercettata da Abete la donna, che era stata filmata grazie a una telecamera nascosta, ha negato di vendere qualsiasi tipo di certificato spacciandosi come un'allieva iscritta a uno dei corsi offerti.
· Il concorso per docenti scolastici era truccato.
Concorso straordinario scuola, l'odissea degli insegnanti di sostegno. Francesco Curridori l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. I vincitori del concorso straordinario per gli insegnanti di sostegno non sono ancora diventati di ruolo perché l'Ufficio scolastico Regionale del Lazio non ha ancora pubblicato la graduatoria di merito. Tra pochi giorni comincerà l'anno scolastico 2021/2022, il primo che si spera non sia contrassegnato dalla Dad. Per risolvere l'annoso problema della mancanza di insegnanti di sostegno, lo scorso febbraio, in piena pandemia, si è tenuto un concorso straordinario, ma i partecipanti sono ancora in attesa di conoscere il loro destino da parte dell'Ufficio scolastico Regionale del Lazio. “Il 19 luglio, con ampio ritardo rispetto ad altre classi di concorso abbiamo avuto gli esiti di questa prova concorsuale, dopo che il 20 giugno era stata rettificata per l'ennesima volta la nostra commissione. Dal 19 luglio ad oggi l'Ufficio scolastico Regionale del Lazio non ha provveduto a pubblicare la graduatoria di merito che ci avrebbe consentito, a partire da quest'anno scolastico, l'immissione in ruolo”, spiega a ilGiornale.it uno dei docenti interessati che aggiunge: “a farne le spese sono anche Marche, Abruzzo, Umbria perché sono Regioni accorpate”. La rabbia tra i partecipanti del concorso è tanta: “C'erano persone che provenivano da alcune zone rosse col tampone. Insomma si è trattato di un concorso fatto in piena pandemia, in condizioni precarie, e ora noi dobbiamo aspettare l'anno prossimo per entrare in ruolo?”, ci dicono. Sono tutti docenti che hanno superato il concorso straordinario per il sostegno nella scuola secondaria di secondo grado e che, ora, si vedono 'scavalcati' dai supplenti di prima fascia. Il decreto Sostegni bis, infatti, ha previsto ha stabilito che, una volta immessi in ruolo tutti i docenti presenti nelle graduatorie di merito (2016-2018 -2020), si dovesse accedere anche alle graduatorie provinciali per le supplenze di prima fascia “alle quali però si poteva attingere solo una volta esaurite tutte le graduatorie di merito precedenti”, sottolineano gli aspiranti insegnanti di sostegno di ruolo. In pratica “chi non ha fatto il concorso o chi non lo ha superato si ritrova immesso in ruolo e noi, invece, no”, ci dicono. Ora i partecipanti al concorso chiedono di essere immessi in ruolo tardivamente: “Noi lasciamo la supplenza e ci prendiamo il ruolo, occupando questi posti che oggi sono occupati impropriamente dai docenti che sono nelle graduatorie per le supplenze e i cui contratti prevedono una clausola risolutiva per casi come questo", chiosano i partecipanti che invocano un intervento del ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi. “Solo lui può sanare la nostra situazione”, sentenziano amaramente.
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”. Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.
Concorso straordinario scuola, la beffa dei vincitori scavalcati dai bocciati. Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 26 agosto 2021. Un’interrogazione parlamentare presentata dal Pd denuncia: «Per colpa dei ritardi del ministero, molti professori di filosofia e sostegno - ma non solo - rischiano di non ottenere la cattedra che spetta loro di diritto». Niente da fare. In Italia i concorsi della scuola sono condannati a non funzionare o, comunque, a essere segnati da incidenti, falle burocratiche, ritardi e ricorsi. L’ultima beffa è quella di cui sono rimasti vittima principalmente - ma non solo - molti aspiranti prof di Filosofia e Scienze umane e di sostegno che a febbraio hanno svolto la prova del concorso straordinario da 32 mila posti voluto - contro tutto e tutti - dall’ex ministra Lucia Azzolina, l’hanno passata ma poi sono rimasti nel limbo a causa dei ritardi degli uffici regionali nella pubblicazione dei risultati. A denunciarlo sono due deputati Pd - Lucia Ciampi e Walter Verini - che hanno presentato un’interrogazione parlamentare chiedendo al ministero dell’Istruzione di «prendere provvedimenti urgenti per evitare che i vincitori del concorso straordinario perdano la cattedra che spetta loro di diritto». «I termini procedurali previsti per l’assegnazione delle cattedre stanno per scadere - è scritto nel documento - e le inadempienze del Ministero si ripercuoteranno non solo tra gli insegnanti vincitori di concorso ma anche sugli studenti che potrebbero non avere docenti stabili necessari per garantire una efficace continuità didattica già potenzialmente a rischio a causa della pandemia. È quindi necessario un intervento che proroghi, come già previsto per altre tipologie di concorsi, la data pubblicazione delle graduatorie».
I vincitori in stand-by e i promossi a tavolino. Quest’anno, proprio per cercare di garantire un avvio ordinato o almeno meno caotico dell’anno scorso, il ministro Patrizio Bianchi ha accelerato tutte le procedure tanto che l’11 agosto ha postato un messaggio su Facebook per annunciare con soddisfazione che - con grande anticipo sulla normale tabella di marcia - già oltre 42 mila nuovi docenti erano stati immessi in ruolo. Peccato che nel frattempo l’orologio di parecchi vincitori del concorso straordinario - fra quelli rimasti «appesi» ci sono anche docenti di inglese, francese e scienze motorie - si sia fermato. La maggior parte delle segnalazioni riguardano la Toscana e il Lazio, ma anche l’Umbria, le Marche, l’Abruzzo e la Sardegna. Il punto, lamentano i malcapitati, è che a causa del ritardo nella pubblicazione delle graduatorie, non solo pur avendone diritto non potranno entrare di ruolo a settembre e dovranno aspettare un altro anno, ma - per un incrocio sfortunato di eventi - rischiano di vedersi sfilare il loro posto da colleghi assai meno titolati di loro. Quest’anno infatti, dopo lunga trattativa con i sindacati e un braccio di ferro sfibrante all’interno della stessa maggioranza - il ministero ha autorizzato con il decreto Sostegni bis l'immissione in ruolo in via straordinaria (e in subordine ai vincitori del concorso) dei supplenti di prima fascia, cioè di quelli con l’abilitazione su posto comune o con la specializzazione su sostegno. E fra questi - fanno notare i vincitori rimasti in stand-by - potrebbero esserci anche dei docenti che hanno partecipato pure loro al concorso senza però passarlo e che, in questo modo, scavalcherebbero i colleghi che invece lo hanno superato. Dopo il danno, insomma, la beffa.
· Il concorso per presidi era truccato.
Concorso presidi nella bufera, nel mirino le risposte dei candidati e i punteggi «anomali». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera 21 settembre 2021. Dopo il via libera del Consiglio di Stato, gli esclusi non si sono arresi: accumulate centinaia di segnalazioni e atti per contestare il concorso. Indaga la Procura di Roma. Compiti perfetti bocciati, compiti non eseguiti promossi, risposte appena accennate che hanno ricevuto il massimo del punteggio, quesiti completati in maniera esaustiva che hanno ricevuto il minimo. E poi: verbali di correzione poco chiari, commissari presenti contemporaneamente in sede di esame e altrove, circostanze delle prove sospette. Il concorso per presidi del 2017, quello che ha assegnato il ruolo fino ad oggi a 2920 dirigenti scolastici, rischia di essere travolto da una bufera, mediatica e giudiziaria, dopo essere stato «assolto» amministrativamente. La procedura era infatti già stata all’esame del Tar, che inizialmente aveva annullato le prove, e poi del Consiglio di Stato, per «irregolarità». Ma il ministero dell’Istruzione aveva fatto appello contro l’annullamento, anche in forza della necessità di portare quanto prima i presidi in cattedra, e l’aveva avuta vinta: la sentenza definitiva del Consiglio di Stato a gennaio scorso ha stabilito che non c’era alcuna anomalia tale da annullare il concorso. Lo stesso concorso era finito anche nel polverone politico, due anni fa, per la partecipazione della ex ministra Lucia Azzolina: il leader della Lega Matteo Salvini aveva accusato l’esponente 5 Stelle di stabilizzare se stessa, ma anche in quel caso la vicenda è stata superata dall’avvicendamento a viale Trastevere. Al concorso avevano partecipato 15 mila persone, 9600 hanno superato le prove preselettive, 3800 gli scritti, gli orali sono terminati nell’estate del 2019, il 1° agosto dello stesso anno è stata pubblicata la graduatoria, e i primi presidi hanno avuto l’assegnazione della scuola a settembre dello stesso anno, dopo il via libera del Consiglio di Stato. Negli anni gli esclusi non si sono arresi, e hanno continuato a raccogliere materiale e testimonianze: sono due i comitati che si battono per la trasparenza, uno per gli scritti e uno per gli orali.
Le indagini. E intanto sei Procure, in testa quella di Roma, hanno iniziato a raccogliere denunce e segnalazioni: un enorme fascicolo da 10 mila pagine si è accumulato dall’inizio delle indagini, ad aprile del 2019, contenente «plurime circostanze e violazioni regolamentari, che hanno concorso a connotare di permeante oscurità la procedura concorsuale» e che «pende attualmente innanzi all’autorità giudiziaria romana in fase di indagini preliminari», spiegano i legali Giuseppe Murone e Pierpaolo Dell’Anno, difensori di moltissimi partecipanti. Indagini che sarebbero sul punto di concludersi: «In ragione della molteplicità delle circostanze segnalate nel corso del tempo e della oggettiva complessità degli accertamenti, riteniamo che i tempi siano maturi per una prossima chiusura delle indagini», spiegano gli avvocati. In altre sedi giudiziarie (esemplificativamente Bologna) è già stata, d’altro canto, esercitata l’azione penale per specifiche ipotesi trasmesse dalla Procura della Repubblica di Roma per ragioni di competenza territoriale».
La correzione dei compiti. «Il concorso presidi 2017 è condito da ogni sorta di errore: la griglia di valutazione cambiata tre mesi dopo la prova scritta, quando a partita iniziata non si cambiano le regole del gioco, le misteriose modalità di assegnazione dei compiti dei candidati alle 38 sottocommissioni, le valutazioni che in moltissimi casi risultano illogiche e difformi», spiega Michele Zannini, del comitato trasparenza e partecipazione, che è riuscito ad avere l’accesso agli atti dopo vari richieste e che è pronto a depositare anche questi compiti alla procura di Roma e a notificare al responsabile del procedimento presso il ministero tutti gli errori di valutazione evidenziati. «Sono emerse innumerevoli anomalie di punteggio- spiega Zannini- Pretendiamo delle spiegazioni e dei chiarimenti da chi di dovere».
Alla prima domanda, sulle principali azioni del dirigente scolastico nel coordinamento degli organi collegiali e nell’attuazione del Piano triennale dell’offerta formativa, un candidato che risponde con un testo ragionato di 30 righe e tanti riferimenti normativi, prende 6,50 (il punteggio minimo era 4, il massimo 16) e viene bocciato, un altro candidato, che risponde con una decina di righe e un solo riferimento normativo, prende 12,25: promosso.
Seconda domanda, sulle azioni del dirigente nelle procedure di individuazione di personale esperto per l’attuazione dei progetti per l’ampliamento dell’offerta formativa: un candidato che si dilunga con una risposta ragionata ha un punteggio di 4, e viene bocciato, un altro che dà una breve risposta generica, merita un 16, e viene promosso.
Alla domanda numero tre c’è un confronto che fa quasi sorridere, se non fosse drammatico: ci sono due candidati a cui viene assegnato lo stesso punteggio, 4. Il primo, bocciato, ha dato una lunga risposta sensata sugli strumenti che il dirigente può mettere in atto per affrontare l’assenteismo; il secondo ha risposto: «Ai sensi del regolamento delle studentesse e de...», senza proseguire. Lui/lei è stato promosso.
Alla domanda 4 si chiede di descrivere le principali azioni del dirigente nel raccordo tra l’attuazione del Piano triennale dell’offerta formativa e la gestione amministrativo contabile dell’istituzione scolastica autonoma: un candidato inizia a rispondere «il dirigente scolastico, responsabile della gestione unitaria dell’istituzione scolastica», poi si blocca. Gli spetta comunque un 4. Una risposta simile data da un altro candidato alla domanda 3, quella sull’assenteismo («Il dirigente scolastico, in caso di significativo assenteismo o ritardo»), merita invece 0. Il punto è che quel 4 permetterà al primo di raggiungere il 70, il punteggio minimo per passare, mentre lo 0 escluderà l’altro candidato.
Alla domanda 5 stessa «scena»: a un candidato, bocciato, viene assegnato un punteggio di 5,5 per una lunga risposta su come il dirigente può migliorare i livelli di apprendimento degli alunni del primo ciclo. Ad un altro candidato, promosso, viene assegnato un punteggio di 4 per questa risposta: «Didattica per competenze». Stop. Persino tra i vincitori ci sono difformità incredibili: ad un candidato che risponde alla prima domanda senza citare neanche una norma, viene assegnato 16; ad un altro che cita 7 norme, correttamente, un punteggio di 8.
Corrado Zunino per repubblica.it il 15 agosto 2021. Lucia Azzolina, già ministra dell'Istruzione, è preside di ruolo. In Sicilia. Gli uffici guidati dal successore, Patrizio Bianchi, in queste ore hanno reso pubbliche le prossime 386 immissioni in ruolo di dirigenti scolastici. E, come era preventivato, è stata immessa la numero 2.544 della classifica generale (la gran parte dei presidi vincitori del concorso 2018-2019 sono già entrati), ovvero Lucia Azzolina, autrice di una prova poco più che sufficiente: 80,50 su 100 con un'asticella posta a quota 70. Il punteggio è stato realizzato dalla candidata con uno "0" in Informatica e un "5" in Inglese (dieci punti su venti). Lucia Azzolina, nata a Siracusa e cresciuta nel Comune di Floridia, aveva indicato la Sicilia per il suo incarico nonostante abbia insegnato Lettere, prima da precaria e poi a tempo indeterminato, in un istituto di istruzione superiore di Biella. E' stata accontentata e il partito ha fatto sapere che accetterà l'incarico da dirigente scolastico, ma si metterà in aspettativa per proseguire l'attività politica. L'esame per diventare preside lo aveva affrontato nel suo ruolo di deputata dei Cinque Stelle, membro della commissione Istruzione e portavoce, via via sempre più ascoltata, sui temi scolastici. Per la preparazione della prova l'ex ministra si era avvalsa della controversa figura di Max Bruschi, già suggeritore di Mariastella Gelmini ai tempi delle riforme che tolsero alla scuola otto miliardi di euro: il "tutor" sarà promosso dalla stessa Azzolina a capo del Dipartimento dell'Istruzione nel momento in cui la deputata verrà chiamata a sostituire il ministro dimissionario Lorenzo Fioramonti. Lucia Azzolina, insediata nel ruolo di vertice, non ha offerto risposte ai candidati che ricorrevano nei confronti di una prova nazionale che presentava diverse anomalie e per questo è stata accusata di non aver voluto concedere gli atti per interessi personali. Sotto il ministero Bianchi, le carte sono state date ai richiedenti e ora si scoprono nuovi particolari su questo concorso su cui indagano sette procure e, in particolare, sullo scritto della candidata-deputata Lucia Azzolina, corretto il 15 marzo 2019 in una stanza del ministero dell’Istruzione in Via Carcani 61, edificio vicino alla struttura storica di Viale Trastevere. Ecco, la sottocommissione numero 19, quella che l'ha giudicata, tre membri più la segreteria, era così composta: presidente Maria Vittoria Lumetti, membro dell’Avvocatura dello Stato, l’organo che supporta, appunto, la pubblica amministrazione nei contenziosi. Nel caso della prova per diventare presidi, l'Avvocatura offrirà al ministero dell’Istruzione elementi decisivi per la difesa di fronte al Tar e al Consiglio di Stato. Lumetti, alla data dell'esame, non si stava occupando di questioni scolastiche, ma la materia era stata oggetto della sua azione, come descrive il curriculum, nella fase in cui aveva lavorato come avvocato per lo Stato nel distretto di Bologna. Membro della Commissione Azzolina era, ancora, Elisa Borelli, promossa otto mesi prima del concorso presidi a dirigere l'Ufficio bilancio e contabilità dello stesso ministero dell'Istruzione. Quindi, terzo membro della sottocommissione 19 era una dirigente scolastica romana: Angela Gallo. Segretaria, infine, la funzionaria Miur Paola Sorrentino, insediata nella Direzione generale degli ordinamenti scolastici. I legali dei ricorrenti sostengono che nessuna delle altre 37 commissioni d'esame sia stata composta da membri così vicini al ministero dell'Istruzione e attaccano: "Ogni giorno l'ultimo esame fin qui realizzato per offrire dirigenti scolastici al Paese mostra problemi di valutazione, di regolarità delle prove, di conflitti d'interessi. Di fronte a un'assegnazione dei novemila scritti casuale rispetto alle 38 commissioni sparse in Italia, colpisce che il testo della deputata Lucia Azzolina sia stato affidato a un gruppo così vicino al ministero. Ci chiediamo quando il ministro in carica interverrà".
Maurizio Tortorella per “la Verità” il 17 agosto 2021. Tra tanti parlamentari grillini senz' arte né parte (al Movimento 5 stelle oggi restano 160 deputati e 74 deputati), Lucia Azzolina è tra i pochi ad aver risolto con sicurezza il problema di come sbarcare il lunario alla fine di questa legislatura. Dal 14 agosto, infatti, l'ex ministro grillino dell'Istruzione ha ricevuto la comunicazione ufficiale di aver vinto il famigerato concorso per oltre 3.000 presidi di scuola (lei andrà in Sicilia a fine del mandato parlamentare), svolto nel 2018-19 e per la sua opaca gestione letteralmente massacrato da una ridda di polemiche e di ricorsi legali. Docente precaria in Liguria, entrata in ruolo a Biella, l'Azzolina era passata per il rotto della cuffia alla prova scritta dell'ottobre 2018 (aveva preso 73, contro un punteggio minimo di 70), e aveva superato l'orale nel giugno 2019 con una prova poco più che sufficiente: aveva ottenuto un punteggio di 80,50 su 100, contro un minimo di 70, incassando un clamoroso zero in informatica e l'equivalente di un 5 (cioè 10 punti su 20) in inglese. Le polemiche erano nate per un evidente conflitto d'interessi: nel marzo 2018 l'Azzolina era stata eletta deputato del M5s e membro della commissione Cultura, un'istituzione che di concorsi scolastici si occupa per statuto. Sulla bontà della prova della parlamentare grillina, che nel settembre 2019 era stata poi promossa sottosegretario all'Istruzione, si erano accese dure polemiche già alla fine del dicembre 2019, quando il critico e linguista Massimo Arcangeli, che era stato tra i suoi esaminatori, aveva rivelato che la performance dell'Azzolina non era stata proprio esemplare: «Mi chiedo», aveva denunciato Arcangeli, «come si possa pensare di affidare la guida della Pubblica istruzione a chi non ha risposto a nessuna delle domande d'informatica, al punto da meritarsi uno zero». Lo scandalo, però, era stato presto silenziato. Di certo non aveva avuto alcun effetto sulla prepotente ascesa politica dell'Azzolina: il 10 gennaio 2020, come Arcangeli aveva previsto e temuto, era stata nominata ministro dell'Istruzione. E, sia pure ufficiosamente, era entrata anche tra i vincitori del concorso. A quel punto, però, molti aspiranti presidi «bocciati», riuniti in un comitato dal programmatico nome «Trasparenza è partecipazione», avevano dato battaglia legale. Attorno al Natale 2019, poco prima che l'Azzolina s' insediasse al ministero, il comitato era riuscito a ottenere dal suo predecessore, il grillino Lorenzo Fioramonti, 430 elaborati d'esame: tutti anonimi, ovviamente, ma con la valutazione delle sottocommissioni esaminatrici. Secondo il comitato, i rigidi criteri di valutazione delle prove sarebbero stati disattesi da alcune delle 38 sottocommissioni d'esame, che avrebbero attribuito punteggi irregolari a molti candidati. In certi casi venivano valutate positivamente risposte mai date, o incomplete. Una domanda del test scritto, per esempio, prevedeva 5 punti se il candidato avesse citato correttamente le norme di riferimento: in alcuni elaborati la risposta non c'era, ma i punti erano stati ugualmente assegnati. Gravi falle avrebbe mostrato anche il «codice sorgente» del sistema informatico, utilizzato per garantire l'anonimato della prova scritta. Contro queste e altre presunte irregolarità, due anni fa il comitato aveva presentato denunce penali e ricorsi in sede amministrativa. Le Procure di Roma, Bologna, Napoli, Ravenna, Catania e Santa Maria Capua Vetere avevano aperto inchieste, che però erano tutte velocemente scomparse dalle cronache. Più attivo era parso il Tribunale amministrativo del Lazio, che tra il luglio 2019 e il giugno 2020, con tre successive sentenze, aveva confermato alcune delle lamentele dei ricorrenti e aveva clamorosamente annullato il concorso, ordinando al ministero retto dall'Azzolina la piena pubblicità degli elaborati e dei risultati dello scrutinio, più il libero accesso al «codice sorgente». Da allora, però, tutto s' è arenato anche in sede amministrativa, perché nell'ottobre 2019 il Consiglio di Stato ha sospeso le decisioni del Tar. Con un doppio paradosso, perché a firmare il ricorso, affidato all'Avvocatura dello Stato, era stato proprio il ministro Azzolina: che in quel momento non soltanto era parte in causa, visto che aveva vinto il concorso, ma in quanto grillina avrebbe dovuto essere la prima garante della trasparenza degli atti. Perfino l'ex ministro Fioramonti si era dissociato: «Ho sempre creduto necessario rendere trasparenti al massimo i concorsi», aveva detto, «e trovo inaccettabile che la richiesta di accesso agli atti, che io avevo concesso, sia stata respinta dopo la mia uscita dal ministero». Alla fine, lo scorso 12 gennaio, il Consiglio di Stato ha dichiarato «non fondati» i ricorsi, e ha così convalidato il concorso. I giudici però hanno ordinato al ministero la «piena ostensione» degli atti e del «codice sorgente». Il ministero, che da febbraio è nelle mani di Patrizio Bianchi, non ha ancora dato seguito alla seconda parte della richiesta. L'ultima polemica riguarda tre dei quattro membri della sottocommissione numero 19, che a Roma ha esaminato proprio l'Azzolina: e cioè la presidente Maria Vittoria Lumetti, professionista presso l'Avvocatura dello Stato, cioè l'ufficio che ha assistito l'Azzolina contro i ricorsi dei suoi concorrenti; Elisa Borelli, promossa a dirigere l'Ufficio bilancio e contabilità del ministero dell'Istruzione otto mesi prima del concorso presidi; Paola Sorrentino, funzionaria del ministero presso la Direzione generale degli ordinamenti scolastici. I legali del comitato dei concorrenti presidi bocciati segnalano che nessun'altra sottocommissione dell'esame presidi fosse tanto vicina al ministero: «Colpisce», protestano, «che le sia stato affidato proprio l'esame della concorrente Lucia Azzolina. E ci chiediamo perché il suo successore Bianchi non sia ancora intervenuto».
I compiti non erano anonimi. Il concorso per presidi era truccato, tutti i documenti che dimostrano le anomalie. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Gli aspiranti dirigenti scolastici che da due anni mettono al microscopio le tante, troppe stranezze del Concorso bandito dal Miur nel 2017 vedono un nuovo colpo di scena nella vicenda: il Tar del Lazio ha ordinato per la prima volta nella storia dei concorsi pubblici la consegna del codice sorgente integrale a tutti i ricorrenti. È la prima volta che avviene e il concorso Dirigenti Scolastici del 2017 è destinato a diventare un caso. Di quelli seri: perché i fatti sono gravi, i ricorrenti agguerriti e tra i tanti sospetti c’è qualche nome noto. Ma andiamo con ordine. Bandito il corso-concorso per 2425 presidi nel novembre 2017, il Miur riceve decine di migliaia di domande, alla preselettiva sono circa 34.000 candidati e di questi 9000 passeranno alla prova scritta. La gestione ricade sotto il Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Marco Bussetti, “indipendente di area Lega” secondo le biografie autorizzate. Ministro tecnico o quasi, perché la sua scelta è caldeggiata da Matteo Salvini che ne fa uno dei tratti salienti dell’accordo di governo con il Movimento Cinque Stelle. È sotto il Conte I, l’avvocato del popolo, che questo paradossale sistema di valutazione concorsuale mostra i suoi limiti. Gli scritti si svolgono in più città, in tutte le regioni. Ad esaminarli vengono selezionate trentotto sottocommissioni d’esame. Diverse in particolare sono al Miur, primus inter pares. Le 38 sottocommissioni però danno valutazioni difformi e decisamente bislacche e nel marzo 2019 la pubblicazione di un elenco di idonei alla prova orale solleva un pandemonio. Tanto che 2400 tra i candidati esclusi si impuntano. Vogliono vederci chiaro, richiedono l’accesso agli atti ai sensi della legge 241/90. Le istituzioni non rispondono. Le Pec si moltiplicano, ma niente: da parte del Miur c’è la consegna del silenzio. Si attivano una decina di studi legali, ma ancora niente. L’accesso agli atti è negato e denegato fino a quando, cambiata gestione e arrivato il ministro Lorenzo Fioramonti, la pratica all’improvviso si sblocca. Si profila una Concorsopoli senza precedenti: sono già sei le Procure che hanno aperto procedimenti diversi, sollecitate da ricorrenti in ordine sparso. I docenti che hanno preso parte al concorso – in molti casi già vice Presidi – sono certi di aver risposto piuttosto bene alle domande proposte, di aver soddisfatto i quesiti posti. E vogliono vederci chiaro, loro che nella vita fanno i valutatori, sul perché di valutazioni tanto negative. È questa determinazione che li porta a fondare un comitato che si trasforma in associazione, “Trasparenza è Partecipazione”, e ad ingaggiare fior di avvocati. Attraverso primi confronti tra loro, si convincono di essere rimasti vittime di un concorso preimpostato, coltivano il sospetto di essere vittime di un meccanismo in cui i vincitori erano annunciati ancora prima di parteciparvi. Tra gli elementi che sollevano, la difformità di trattamento delle trentotto sottocommissioni che operarono nelle varie sedi dislocate in tutta Italia. Con la sentenza del Tar il presidente Sapone ha ordinato la consegna del codice sorgente, la “scatola nera” del concorso rappresentata dal software gestito dal consorzio Cineca che contiene gli identificativi alfanumerici per l’associazione dei compiti anonimi con i nomi e i cognomi dei candidati. Il sospetto, date le incongruenze sui nominativi dei compiti corretti, è che ci fosse una “predisposizione” o comunque, a voler essere generosi, la mancanza della garanzia dell’anonimato. Una condizione che, se provata, porterà non solo ad inficiare il concorso, ma anche ad aprire un nuovo fascicolo a carico. Il dubbio ponderato è sollevato dal perito di parte, un noto esperto della Procura di Roma, Marco Calonzi che ha trovato i metadati manomessi e ha certificato nella sua relazione di asseveramento di trovarsi davanti a una situazione imbarazzante, come se – al di là delle apparenze – l’anonimato non vi fosse mai stato. Non bisogna essere periti informatici, d’altronde, per vedere quello che da cronisti abbiamo potuto verificare con i nostri occhi: valutazioni più che positive attribuite a elaborati quasi lasciati in bianco. Ed è una constatazione che chiunque può fare, dopo il recente accesso agli atti con i quali si sono potute confrontare le tracce, le risposte e le valutazioni, perfino grottesche. Un accesso agli atti a cui il Ministero per due anni ha risposto picche, infrangendo la legge sulla trasparenza: è stato sotto i Cinque Stelle che l’obbligo della trasparenza è stato disatteso. Ha rimesso le carte a posto una sentenza del Tar e del Consiglio di Stato. Il Concorso Presidi 2017 è condito da ogni sorta di errore: la griglia di valutazione cambiata tre mesi dopo la prova scritta (a partita iniziata non si cambiano le regole del gioco), la misteriosa modalità di assegnazione dei compiti dei candidati alle citate trentotto sottocommissioni, le valutazioni di queste ultime che in moltissimi casi risultano essere illogiche e curiosamente difformi. I verbali di commissione mancanti, i files creati con il codice fiscale dei candidati prima delle operazioni di scioglimento dell’anonimato e privi di metadati, i punteggi inventati che nulla hanno a che vedere con quelli previsti dalla predetta griglia di valutazione, i giudizi positivi attribuiti a compiti che presentano non pochi elementi di riconoscimento, quali l’utilizzo di elenchi di parole, uno alternato di maiuscole e minuscole, e soprattutto voti decisamente positivi a fronte di compiti che umiliano il buon senso, consegnati con due frasi tronche. Tra questi errori per fortuna non è incorsa Lucia Azzolina. L’ex ministra della Pubblica istruzione, presidente della Commissione cultura alla Camera per M5s all’epoca dei fatti, Governo Conte I, ha avuto la fortuna di trovarsi a essere corretta – le estrazioni delle commissioni giudicanti erano casuali – da una delle commissioni interne al Miur, nella sede di viale Trastevere a Roma. Peraltro i commissari che hanno valutato il suo compito non hanno avuto un gran da fare, il testo della Azzolina – che pure abbiamo visionato – è davvero impeccabile, un brocardo: in pochi minuti elenca codici, leggi, circolari ben glossate da dotte citazioni, anche in latino. Un compito da manuale. I codici sorgenti consegnati pochi giorni fa ai ricorrenti, ai loro legali e ai periti di parte possono adesso rivelare un indicibile segreto: se le prove scritte, corrette telematicamente, hanno garantito o meno l’anonimato dei loro compilatori o se – come sospettano le prime perizie depositate – chi correggeva i compiti scritti aveva piena consapevolezza del nome e del cognome del candidato. La violazione dell’anonimato configurerebbe un reato penale molto grave. Certo è strano che molti commissari, durante le correzioni dei testi scritti, appena firmato il verbale, si siano dimessi in gran velocità. Sono settanta in tutta Italia i commissari che hanno provato a tagliare formalmente i cordoni che li ricollegavano alle commissioni di esame. L’area dei Cinque Stelle, e degli ex Cinque Stelle, fibrilla. L’ex Ministro Lorenzo Fioramonti si è più volte pronunciato in merito al concorso anche rilevando come «in questa situazione, che provoca caos e paradossi, si inserisce perfettamente quello che io chiamo il pasticciaccio del concorso scolastico per dirigenti scolastici del 2017. Una commissione nazionale che ha lasciato mano libera a trentotto sottocommissioni, dislocate anche in sedi quasi impossibili da raggiungere con i mezzi pubblici, che hanno agito come altrettante repubbliche indipendenti e sovrane con il risultato che alcune hanno promosso tutti gli ammessi agli orali, altre meno della metà. […] È un episodio davvero esecrabile, che mette in discussione la credibilità dello Stato nella sua interezza. Purtroppo i concorsi pubblici nel nostro Paese continuano a essere, mi si perdoni il termine poco tecnico, una grande buffonata, con la conseguenza che viene lesa completamente la fiducia che le persone hanno nelle istituzioni». Cosa chiedono i ricorrenti, che si sono visti negare il diritto di partecipare ad una prova selettiva imparziale? «Chiedono con forza al Governo Draghi, alle commissioni Cultura di Camera e Senato e al Parlamento l’attuazione di una soluzione extragiudiziale al fine di evitare di subire i tempi biblici della giustizia amministrativa, che si porrebbe come ulteriore beffa di una vicenda a dir poco paradossale. Tale soluzione potrebbe attuarsi mediante un concorso riservato, con esame finale», ci dice Michele Zannini, presidente del comitato Trasparenza È Partecipazione. C’è dalla loro una legge che glielo consente, secondo quanto previsto dall’art. 1, co. 87 della L. 107/15, che comporterebbe un risparmio per le casse dello Stato, visto che il costo per un concorso riservato ai ricorrenti non è paragonabile a quello di un concorso ordinario. Per non parlare della fine di un lungo contenzioso che si arricchirà presto – c’è da scommetterci – di altri elementi scaturenti dal recente accesso agli atti. Con la creazione di una graduatoria nazionale il cui scorrimento potrebbe avvenire nei prossimi anni scolastici puntano a risolvere l’annosa questione dei concorsi pubblici, materia su cui il ministro Renato Brunetta sta mettendo le mani. Chi, come noi, va a vedere le carte, scoperchia ogni volta un vaso di Pandora.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
· Esami universitari e tesi falsate.
Massimiliano Cassano per ilriformista.it il 31 marzo 2021. Bastava un click per risultare iscritti alla facoltà di Medicina pur non avendo superato il concorso, oppure essere spostati in una fascia di reddito più bassa per avere uno sconto sulle tasse. Su questo si basano le accuse che hanno portato agli arresti domiciliari due dipendenti dell’Università di Salerno. Il provvedimento cautelare, disposto dal gip del Tribunale locale ed eseguito dalla Guardia di Finanza, arriva al termine di un’indagine avviata dalla procura che, oltre ai due arrestati, vede in tutto 42 indagati tra studenti e familiari coinvolti nel sistema di frode. “Accesso abusivo al sistema informatico”, “falsità materiale commessa in atti pubblici” e “induzione indebita”, riferisce una nota del procuratore di Salerno, Giuseppe Borrelli, sono i capi d’accusa. Le indagini sono partite in seguito alla denuncia presentata dallo stesso Ateneo che, grazie l’Audit interno, aveva rilevato alcune irregolarità nella procedura di immatricolazione di due studenti che risultavano iscritti alla Facoltà di Medicina senza essersi classificati in posizione utile nella graduatoria unica nazionale di merito. In totale ci sarebbero 34 carriere universitarie alterate, molte delle quali – riferiscono le Fiamme Gialle – terminate con il conseguimento del titolo. Dagli accertamenti investigativi è subito emerso che l’iscrizione era stata effettuata materialmente da un dipendente dell’Università attraverso l’accesso abusivo al Sistema Informatico di Segreteria. L’indagato utilizzava le proprie credenziali anche per attestare il superamento di esami universitari in realtà mai sostenuti dagli studenti. In cambio si faceva consegnare diverse diversi “regali”, tra i quali anche alcuni “fumetti da collezione”. Un secondo indagato era pronto a indirizzare al collega gli universitari che, venuti a conoscenza del meccanismo di frode, chiedevano di essere “aiutati” in qualche modo.
Esami universitari e tesi falsate, 22 indagati a Genova. Un professore di una scuola superiore "collaborava" in tempo reale con gli studenti o scriveva di suo pugno gli elaborati: 22 denunciati dalla Guardia di Finanza con la collaborazione dell'Ateneo. La Repubblica il 25 marzo 2021. Esami di Economia aziendale dell'Università di Genova superati grazie all'aiuto di un professore di una scuola superiore, esterno all'ateneo. Che secondo le indagini inviava le risposte su WhatsApp durante lo scritto. Ma anche tesi completamente scritte dal docente e discusse dagli universitari. Il tutto dietro pagamento. Lo hanno scoperto i finanzieri del comando provinciale di Genova, che hanno denunciato 22 persone nell'ambito dell'indagine "110 e frode". L’indagine ha ricevuto l’input dalla stessa Università, che ha segnalato una sospetta compravendita dei testi per la prova scritta dell’esame di Ragioneria Generale, previsto per il secondo anno del corso di laurea in Economia Aziendale. Dall’analisi svolta sui dati estrapolati dai devices (smartphone, notebook), nonché dall’analisi della documentazione cartacea sequestrata al professore (soprattutto agende), sono emersi numerosi casi, dove il professore ha aiutato alcuni studenti anche durante le prove di statistica, ragioneria generale, test di accesso, marketing. In più il confronto degli elaborati consegnati durante gli esami o per la discussione delle tesi, con quanto rinvenuto nei notebook e nelle applicazioni di messaggistica del professore, ha provato che, in tutto od in parte, quanto presentato dagli studenti era, nella realtà, operato del professore. I reati contestati sono repressione della falsa attribuzione di lavori altrui da parte di aspiranti al conferimento di lauree, diplomi, uffici, titoli e dignità pubbliche. Intanto, Il Rettore dell'Università di Genova Federico Delfino è in attesa della comunicazione ufficiale delle denunce a carico dei 22 studenti. Lo si apprende da fonti dell'Università. La Commissione, preso atto della denuncia ed effettuate le dovute verifiche, potrà assumere provvedimenti che possono arrivare fino alla sospensione per 18 mesi.
· L’insegnamento e la Chiamata Diretta.
DAGONOTA il 15 marzo 2021. In numerosi articoli si parla del “professor Enrico Letta” che ha lasciato l’insegnamento universitario alla Scuola di affari internazionali dell’Istituto di studi politici di Parigi nel quale, dal settembre 2015, era direttore (rettore). Letta è diventato professore, e poi rettore, per chiamata, senza trafila concorsuale e cursus honorum come si fa oggi in Italia per accedere al ruolo di docente. A parte l’ex premier Giuseppe Conte - diventato da zero a docente in quattro anni e chissà perché -, in genere ne possono servire, se tutto va bene (se non si è figli di…), una quindicina-ventina passando da laureando a cultore della materia, dottorando, post-dottorando, docente a contratto, borsista, ricercatore di tipo B e/o A… infine superando il concorso per l’Abilitazione scientifica nazionale (secondo criteri assurdi stabiliti dall’Agenzia di valutazione italiana, che peggio di quella che sovrintende ai vaccini). A questo punto, se uno risulta abilitato, deve poi superare un concorso in sede locale (pilotato ad hoc dai baroni in stile esame Suarez, che scelgono prima il vincitore) diventando, finalmente, docente associato da confermare dopo un triennio. Quindi scelgono ancora i baroni. Ecco, se pensiamo che sia giusto che Enrico Letta, lasciato il Parlamento, abbia fatto il docente per meriti professionali e di studio, e noi lo crediamo, chiediamo a Letta che si mobiliti per fare in modo che anche in Italia si possa fare così. Visto che se lui cinque anni fa o ancora oggi partecipasse all’Abilitazione scientifica nazionale, poniamo in un raggruppamento disciplinare dell’area di Scienze Politiche, non avrebbe NESSUNA possibilità di superare il concorso in quanto non ha una monografia scientifica scritta negli ultimi cinque anni, non ha pubblicazioni su riviste di classe A italiane, non è stato direttore di un Prin ecc ecc ecc… e i soli titoli presentabili sono quelli che lui ha ottenuto dopo che è stato chiamato a insegnare e non prima! Quindi per lui, e per la moglie che di questi temi si occupa sul “Corriere della Sera”, un primo serio impegno ci sarebbe: farla finita in Italia con i cursus honorum costruiti fittiziamente dai baroni (finte pubblicazioni, finte peer-review, borse di studio farlocche e assegnate a chi si vuole, pseudo ricerche, pseudo parametri scientifici, nessuna importanza al lavoro, nessuna importanza allo studio individuale) per far superare ai protetti l’Abilitazione nazionale e poi costruire per loro un concorso ad hoc locale. Di contro, agevolare anche da noi la chiamata a insegnare per chi merita ed eccelle nello studio e nelle professioni. Non ci vogliono nuove leggi o nuovi soldi. Basta che per ogni nuovo docente che entra in una università attraverso l’Abilitazione scientifica e successivo concorso-farsa in sede locale quello stesso ateneo sia obbligato a inserire un altro docente per chiamata, sganciato dalle logiche dei concorsini, purché abbia qualità scientifiche e professionali dimostrabili, s’intende!
· Concorsi truccati nella Pubblica Amministrazione.
Che disastro i concorsi pubblici: il lavoro c’è ma ottenerlo è troppo complicato. Gloria Riva su L'Espresso l'8 settembre 2021. Centinaia di migliaia di assunzioni ma il criterio di selezione va a rilento e usa metodi troppo vecchi. Il rischio? Perdere l’occasione per modernizzare la burocrazia. I posti di lavoro ci sarebbero, ma ottenerli è ancora troppo complicato. E comunque non ne vale la pena: si chiedono lauree, master ed esperienze lavorative in cambio di 1.600 euro al mese. Economicamente parlando, a un giovane in gamba conviene ancora l’espatrio. Sono tante le storture del sistema di assunzione della Pubblica Amministrazione, che avrebbe bisogno di un ricambio generazionale importante e di personale competente, ma al contrario non riesce ad arruolare il personale giusto, neppure in tempi biblici: al flop estivo del concorso pubblico per 2.800 tecnici per il Sud, con ogni probabilità in settembre se ne sommeranno altri tre. Se le regole di ingaggio non cambieranno c’è il rischio di far saltare - o rinviare a data da destinarsi - tre selezioni che potrebbero offrire un totale di cinquemila posti di lavoro. Più in generale, il sistema di selezione, senza un deciso cambio di passo, potrebbe frenare l’intero Piano di Ripresa e Resilienza - che per decollare ha bisogno di 24mila professionisti a tempo determinato -, e sempre la mala gestione delle assunzioni azzopperà il grande progetto di assunzioni (da 350 a 500mila) indispensabile per svecchiare la macchina burocratica dello Stato. Per capire cosa non funziona è sufficiente ricostruire la storia dei tre concorsi sbloccati in queste settimane e che, almeno in teoria, dovrebbero concludersi in autunno. Il primo bando è quello per la ricerca di 2.736 funzionari amministrativi della Pubblica Amministrazione centrale, annunciato il 30 giugno del 2020 dall’allora ministro Fabiana Dadone, ma le cui prove selettive non hanno mai visto la luce; il secondo concorso per 1.541 profili per l’Istituto Nazionale del Lavoro, l’Inail e il ministero del Lavoro, era stato autorizzato a dicembre del 2018, più volte stoppato e insabbiato; infine il bando per la selezione di 1.052 dipendenti del ministero della Cultura, che risale addirittura al 2017. Il bando per funzionari amministrativi è quello che sta creando maggiore sconcerto fra i migliaia di aspiranti candidati che quotidianamente comunicano sul gruppo Facebook creato appositamente per affrontare insieme il concorso. In tredici mesi di decantazione le regole di ingaggio sono cambiate così tante che alcuni candidati scrivono: «Ma si tratta dello stesso concorso o di uno nuovo?». L’estate scorsa l’ex ministra Dadone aveva assicurato principi e criteri innovativi per favorire un «ripensamento globale dell’organizzazione del lavoro pubblico». Al contrario, prima l’emergenza sanitaria, poi un periodo di fermo - nonostante le dichiarazioni del ministro Brunetta del 30 marzo di quest’anno, che annunciava lo sblocco dei concorsi - hanno fatto sì che il concorso slittasse di oltre un anno e tornasse ad avere le sembianze di un concorsone vecchio stile. Infatti alla riapertura del bando si è scoperto che la prova preselettiva verrà abolita e che l’unico test di verifica sarà un quiz da 40 domande in 60 minuti. Abolita anche la prova orale e i titoli verranno valutati solo per i candidati che raggiungeranno la sufficienza nella prova scritta. Secondo gli esperti si profila rischia un flop, perché l’iter è molto simile a quello avvenuto per la ricerca dei 2.800 tecnici per il Sud, dove un numero molto basso di candidati ha raggiunto la sufficienza nel test, al punto che solo poco più di 800 persone sono risultate idonee. Il risultato è che sarà necessario indire un nuovo bando e fare un altro concorso per assumere gli altri duemila tecnici, con un’enorme perdita di tempo e risorse. Del resto, se i concorsi puntano ad assumere i migliori talenti in circolazione e le prove scritte sono effettivamente complesse, non è detto che i più brillanti su piazza vogliano candidarsi per quei posti di lavoro, soprattutto perché gli stipendi si aggirano fra i 1.450 e i 1.700 euro al mese, non proprio un salario allettante per professionisti ad elevata specializzazione. Inoltre, nonostante un lungo periodo di gestazione, i concorsi sono stati fatti in fretta e furia, affidando alla roulette di un quiz l’assunzione di personale fondamentale per garantire il funzionamento del sistema pubblico. Biblici i tempi per l’assunzione dei 1.541 ispettori del Lavoro, attesi dal 2018 per arginare gli infortuni sul lavoro e il caporalato. Invece, anche in questo caso, si è perso tempo: l’autorizzazione risale alla legge finanziaria del 2019 e le domande sono state presentate a ottobre di quello stesso anno, ma poi tutto si è fermato fino a luglio di quest’anno. Due anni dopo la pubblicazione è riapparso il bando e, anche in questo caso, si è scelto di sopprimere la prova preselettiva e l’orale, affidando la selezione a un test scritto a risposta multipla: non si è mai vista un’azienda privata affidare l’assunzione del personale a un quiz scritto senza neppure scambiare quattro chiacchiere con il futuro dipendente. Invece nel pubblico questa è la norma, con il risultato di favorire chi ha buona memoria, scartando persone con buona capacità di problem solving e gestionale. Per la selezione dei dipendenti del Mibact dall’emergere del fabbisogno sono trascorsi cinque anni e quattro governi: ci sono 210mila persone che hanno presentato domanda, ma ancora siamo a metà delle prove e nessuno è stato assunto. E per far cosa? Come accade in quasi tutti i bandi, non c’è alcuna descrizione del lavoro da svolgere, se non una sintetica indicazione «unità di personale non dirigenziale a tempo indeterminato, profilo professionale di Assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del ministero». Tutto questo sta avvenendo nel momento in cui la Pubblica Amministrazione ha toccato il minimo storico di dipendenti, che attualmente sono 3.212.450, vale a dire 31mila persone in meno rispetto al 2019, provocato dall’innestarsi dell’emergenza sanitaria sulle procedure selettive che le amministrazioni più impoverite e invecchiate fossero riuscite a compensare le fisiologiche uscite del personale. L’impatto del combinato disposto dell’invecchiamento della Pubblica Amministrazione, del blocco dei concorsi e della spinta di quota 100 al pensionamento anticipato ha fatto crollare del sei per cento il volume di dipendenti nelle Prefetture, nei Ministeri, all’Agenzia delle Entrate, negli enti pubblici e nelle Città metropolitane. Anche i Comuni, che nel 2019 avevano ripreso ad assumere riuscendo a invertire la persistente riduzione del personale, tornano oggi a perdere oltre il due per cento della forza lavoro. Questa «desertificazione della Pubblica Amministrazione», come l’ha definita il ministro Brunetta, si inserisce in un quadro già mortificante rispetto al resto d’Europa: allo stato attuale, in Italia, 13,5 lavoratori su 100 lavorano nel pubblico, sei persone in meno rispetto alla Francia dove gli impiegati pubblici sono poco meno di 20 su 100. Il valore più basso lo troviamo in Germania (10,8), non perché abbiano meno impiegati pubblici in termini assoluti (sono 4,8 milioni), ma perché hanno il tasso di disoccupazione più basso d’Europa. Infatti se in Italia ci sono 5,6 dipendenti pubblici ogni cento abitanti, in Germania sono 5,9, in Francia 8,7, in Inghilterra 7,8 e nella vicina Spagna 6,8. C’è poi da considerare l’aumento vertiginoso degli over 60, che nelle nostre pubbliche amministrazioni rappresentano il 16,3 per cento del personale, mentre gli under 30 sono appena il 4,2 per cento, dovuto per lo più alla presenza nei corpi di Polizia e nelle forze armate. Sono oltre 500mila i dipendenti pubblici over 62enni e superano i 183mila quelli che hanno oltre 38 anni di anzianità. Nelle pagine del Pnrr si legge che l’attesa di uscite dal pubblico impiego nel prossimo triennio si attesterà intorno alle 300mila unità, ma in base alle stime del Forum Pubblica Amministrazione con questa anagrafica del pubblico impiego si tratta di stime ottimistiche. Non va meglio se si esamina il pubblico impiego dal punto di vista della qualificazione. I laureati sono il 41,5 per cento e, di questi, la laurea più comune è in Giurisprudenza (30%), seguono Economia, Scienze Politiche, Sociologia. Dunque, il candidato ideale della Pubblica Amministrazione ha un profilo generalista, esperto di procedimenti amministrativi e in grado di lavorare in un contesto burocratico, con processi lavorativi rigidi e un’organizzazione gerarchica. Inoltre la foto scattata dall’ultimo rapporto Aran, Agenzia per la rappresentanza negoziale pubbliche amministrazioni, mostra un’immagine della Pa con molti lavori a bassa qualifica professionale, lontanissimi dall’urgenza di innovazione tecnologica di cui la macchina burocratica statale avrebbe bisogno. Ad esempio, i due terzi dei posti nei ministeri richiede un diploma e consiste in un lavoro impiegatizio, il sei per cento richiede solo la scuola dell’obbligo. I posti che prevedono una laurea sono poco sopra il 30 per cento: pochi se si considera che nei ministeri dovrebbero avvenire le attività a più alto contenuto professionale. Nelle Regioni i posti per i laureati sono il 25 per cento, per i diplomati il 46 per cento, mentre il 29 per cento dei posti è per lavoratori manuali o esecutivi, per cui è richiesta appena la scuola dell’obbligo. La Pubblica Amministrazione, dunque, non è solo impoverita numericamente, ma non possiede e non ha richiesto quelle professionalità che sarebbero necessarie per far fronte alle sfide della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica. È ancora il Forum Pubblica Amministrazione a stimare che almeno i due terzi degli oltre 300mila rimpiazzi dovrebbero avere in tasca una laurea in discipline Stem - Science, Technology, Engineering and Mathematics -, per riequilibrare una tenace maggioranza di profili giuridici. Al contrario i bandi continuano ad essere scritti su misura degli azzeccagarbugli, si punta quindi a stendere altro gesso su una burocrazia già parecchio ingessata.
Scegliere bene i lavoratori della Pubblica Amministrazione è indispensabile per il nostro futuro. Selezionare il personale in modo approssimativo e investire sulle persone sbagliate vuol dire compromettere i prossimi quarant’anni di attività. Fabrizio Barca su L'Espresso l'8 settembre 2021. Il Governo sta facendo ripartire la macchina dei concorsi che la pandemia e una storica lentezza burocratica avevano fermato. E si appresta a reclutare fra le 350 e le 500mila figure professionali da inserire nella Pubblica Amministrazione. È un numero gigantesco, che equivale a oltre il quindici per cento della forza lavoro nel settore pubblico. Selezionarle in modo approssimativo e investire sulle persone sbagliate vuol dire compromettere i prossimi quarant’anni di attività dell’amministrazione pubblica, mancando l’obiettivo di una macchina dello Stato capace di migliorare i servizi fondamentali per lo sviluppo equo e sostenibile del paese. Il Forum Disuguaglianze e Diversità, insieme a Forum Pubblica Amministrazione e a Movimenta, dopo il Vademecum di buone pratiche costruito in luglio sulla base delle migliori esperienze del paese, pubblicano ora un testo breve, “Oltre il Piano di Ripresa e Resilienza: rigenerare la PA intera”, con i requisiti essenziali per assumere presto e bene quella gigantesca quota di lavoratori pubblici che ci servirà nei prossimi anni. Se è vero che una parte significativa degli investimenti previsti sulla Pubblica Amministrazione guardano, necessariamente, alle misure fast track legate al Piano di Ripresa e Resilienza - cioè al personale a tempo determinato e alle semplificazioni in deroga -, tuttavia questa focalizzazione sull’emergenza e su una gestione a termine delle assunzioni contiene gravi rischi. Dobbiamo uscire dalla straordinarietà. Dobbiamo costruire una normalità virtuosa, fondata su contratti regolari e a tempo indeterminato, e per far questo, e farlo bene, bisogna partire dalla redazione dei piani di fabbisogno di personale, che vanno orientati in base alle missioni strategiche. E poi vanno rintracciati sì profili dotati di un adeguato bagaglio di conoscenze tecniche, ma soprattutto persone dotate di competenze, capacità di “risolvere problemi” e di lavorare in team, e attitudine al rischio. La Pubblica Amministrazione deve imparare a selezionare il personale come fanno le migliori aziende private, giocandosi in più l’attrattiva della “missione pubblica”. Già succede in molti luoghi. A Milano, per esempio, dove i dirigenti ricercati dal comune hanno sostenuto una prova per dimostrare le proprie capacità di governare decisioni di pubblico interesse e le competenze attitudinali con metodologie all’avanguardia: il candidato era chiamato a simulare il ruolo manageriale di Direttore di Funzione all’interno di una nuova organizzazione e doveva dimostrare di saper prendere decisioni, organizzare il lavoro, rispondere alla corrispondenza, stabilire piani d’azione, coinvolgere i collaboratori. Non bastano i manuali e le risposte a quiz, i nuovi lavoratori della Pubblica Amministrazione devono saper risolvere problemi concreti, interpretare situazioni e prendere decisioni. Il concorso di Milano e un’analoga selezione avvenuta a Ravenna hanno fatto da apripista per altre amministrazioni che ne hanno replicato il metodo, dimostrando che assumere presto e bene nella Pubblica Amministrazione non è impossibile ed è sbagliato rassegnarsi alla falsa alternativa tra velocità e completezza del processo di selezione. Queste e altre esperienze esaminate - come quella della Regione Lazio, che ha concluso in poco più di cento giorni l’iter di assunzione usando metodi innovativi - sono esempi da imitare per cambiare rotta, esempi che abbiamo dettagliatamente descritto nel Vademecum. È altresì indispensabile segnalare nei bandi la sfida che attende i nuovi assunti e le opportunità di lavoro e carriera che si aprono loro. Questo vale per tutte le funzioni, e in particolare per le alte professionalità. Bisogna coltivare ambienti di apprendimento, crescita, formazione e stimolo. Un esempio interessante è il progetto “Dote Comune” nato a Bergamo, che consente a 80 giovani di svolgere un periodo di apprendistato in municipio, permettendo alle nuove generazioni di entrare in contatto con il mondo della Pubblica Amministrazione, spesso considerato dagli under 30 vecchio e rigido. Progetti analoghi potrebbero essere utili a motivare e valorizzare il pubblico impiego: perché le politiche di incentivo non sono meno importanti di quelle di reclutamento ed è fondamentale riuscire ad avere una forza lavoro capace di focalizzarsi sulle missioni e lavorare per obiettivi, per recuperare il senso e il valore del lavoro nella Pubblica Amministrazione. A tal proposito, curare l’accoglienza dei neoassunti è fondamentale: infatti non è raro ascoltare esperienze di nuove leve accolte con sciatteria, controvoglia e quasi in modo respingente. È ancora il comune di Bergamo a offrire un esempio interessante, attraverso l’azione di un gruppo di affiancamento, per individuare la giusta collocazione dei neo assunti e verificarne l’effettiva adeguatezza al ruolo. Infatti, non prevedere con lungimiranza i meccanismi di integrazione e stabilizzazione della forza lavoro selezionata è un grave difetto della Pubblica Amministrazione che può azzerare l’investimento ingente nel reclutamento e nella formazione riducendo l’interesse dei neo assunti. E poi c’è il passaggio decisivo dei bandi e dei piani di fabbisogno. Bisogna sostituire l’inutile mole di dettagli burocratici con un’analisi accurata dei fabbisogni e con una scrittura scorrevole dei bandi di gara. Tra i casi più interessanti c’è quello della Città Metropolitana di Bologna che ha redatto un Piano di fabbisogno di personale lontano anni luce dall’aritmetica dei “tanti usciti - tanti entrati”, spesso usata per la selezione del personale, senza chiedersi quali siano le nuove esigenze dell’ente. Bologna ha messo in luce i nuovi compiti della città, ha esaminato con cura le risorse esistenti e i profili necessari che mancavano, e ha avviato concorsi di assunzione, che si sono conclusi in meno di tre mesi. Per quanto riguarda la stesura dei bandi, che sono il manifesto con cui attrarre le persone adatte, c’è poca chiarezza nella descrizione del lavoro che il candidato dovrà svolgere. È un grave errore che può pregiudicare l’attrazione dei migliori e più idonei, poiché non è chiaro quale mansione debbano essere preparati a svolgere. La selezione di 200 persone per il potenziamento dei centri per l’impiego della Regione Lazio è partita da un’istruttoria preliminare, coinvolgendo Università, Centri per l’Impiego, Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro, Confindustria e imprese, per offrire una precisa descrizione del lavoro che i vincitori avrebbero dovuto svolgere. Si tratta di un’eccezione, perché in genere nei bandi appare del tutto sproporzionata la parte dedicata alla normativa - nel bando tipo della Funzione Pubblica contiamo 51 riferimenti legislativi, stipati in quattro pagine fitte ed incomprensibili ai più, con altrettanti riferimenti che cominciano con “visto” - rispetto a quella dedicata a spiegare per che tipo di lavoro il bando è pensato o che genere di persona si cerca. Infine c’è il rischio di far saltare l’efficacia del piano di assunzioni non accompagnando le realtà locali più piccole nel processo di reclutamento. Si tratta di una parte grande del paese e decisiva per il suo sviluppo. È necessario e possibile favorire l’associazione dei comuni e degli enti locali (senza però centralizzare il processo) nella realizzazione di bandi comuni e di liste da cui attingere per l’assunzione di nuovo personale. Il recente Decreto legislativo 80/21 raccoglie le sollecitazioni venute in questa direzione, anche le nostre, ma ora la norma deve essere supportata da una costante e pervasiva azione di accompagnamento, perché, come spesso è successo, non rimangano sulla carta. Questa è la funzione decisiva del centro.
Errori nei quiz e contratti a termine. Il flop dei concorsoni pubblici. Rosaria Amato su La Repubblica il 10 luglio 2021. Dalla selezione per il Mezzogiorno alle Dogane, è falsa partenza per le assunzioni nella Pubblica amministrazione. L’autocritica di Brunetta: “Con posti a tempo e salari bassi difficile attrarre competenze specialistiche”. Errori a valanga nei quiz, prove sospese, posti non assegnati per mancanza di vincitori: la grande stagione dei concorsi pubblici, dopo dieci anni di blocco per i vincoli di bilancio e un anno e mezzo di rinvii dovuti alla pandemia, si apre tra difficoltà, passi falsi e ricorsi al Tar. E adesso, per dirla con il ministro della Pa, Renato Brunetta, la Funzione Pubblica ha avviato «un’ampia riflessione sull’attrattività della Pubblica Amministrazione per figure di elevata specializzazione».
Andrea Bassi per "il Messaggero" il 31 dicembre 2020. Provate a immaginare questo. Un giovane laureato con il massimo dei voti, che dopo la laurea, non appagato, ha deciso di proseguire gli studi con una specializzazione. Immaginate che abbia vinto anche una borsa di ricerca e magari, nei ritagli di tempo, abbia partecipato anche a un master. Immaginate, insomma, che sia uno dei quei trentenni iper-formati che, a parole, ogni governo dice di voler trattenere in Italia evitando che vadano a cercar lavoro altrove perché nel loro Paese tutte le porte sono chiuse. Ora provate a immaginare che questo stesso ragazzo voglia entrare nella Pubblica amministrazione tentando un concorso. Del resto ogni volta che accende la Tv sente il ministro di turno che dice che i dipendenti pubblici sono troppo vecchi e bisogna fare spazio ai giovani nei ranghi dello Stato. Bene, ora prendete tutto ciò che avete immaginato e cancellatelo. Il duro risveglio alla realtà si intitola «Concorso pubblico, per titoli ed esame orale, su base distrettuale, per il reclutamento di complessive n. 400 unità di personale non dirigenziale a tempo indeterminato per il profilo di Direttore, da inquadrare nell' Area funzionale Terza, Fascia economica F3, nei ruoli del personale del Ministero della giustizia Amministrazione giudiziaria». Titolo lungo in perfetto burocratese. Ma la traduzione potrebbe essere: non è un concorso per giovani. Detto al contrario, il primo bando di concorso per anziani. Al distretto di Bologna, 37 posti in palio, 332 gli ammessi, il candidato più avanti con l' età ha addirittura 73 anni. Il più giovane, ma è l' unico sotto i 40, ha 37 anni. A Roma, 54 posti disponibili, 481 ammessi all' orale, ci sono solo due 35enni, poi svariati 60enni, il più anziano dei quali ha 67 anni, l' età che, secondo la legge Fornero, dà diritto alla pensione. A Potenza (9 posti disponibili) il più giovane candidato ammesso agli orali ha 46 anni, il più anziano 62 anni. A Reggio Calabria si oscilla tra i 45 e i 65 anni, a Brescia tra i 44 e i 65 anni; a Milano c' è un solo 37enne, molti cinquantenni, diversi 60enni. Il più anziano ha 65 anni. In tutta Italia è così. Su 3.900 candidati ammessi agli orali, nessuno ha meno di 30 anni, una dozzina hanno tra 30 e 40 anni, diverse decine superano i 60 anni, la maggior parte sono nella fascia di età a cavallo dei 50 anni. Non proprio uno svecchiamento in una Pubblica amministrazione in cui l' età media è di 50,7 anni e solo il 2,9% dei dipendenti pubblici ha meno di 30 anni. Alcuni dei candidati, se dovessero passare agli orali dopo la selezione fatta solo per titoli, si troverebbero ad essere assunti solo per pochi mesi prima di andare in pensione. L' avvocato 73enne che ha passato la prima selezione a Bologna, nemmeno potrebbe essere immesso in ruolo avendo superato i 67 anni. Ma come è stata possibile questa follia? Tutto dipende dai criteri di selezione decisi dal bando del ministero guidato da grillino Alfonso Bonafede. Vediamoli. Una laurea con 110 e lode vale 5 punti. Un master universitario vale 1 punto, un diploma di specializzazione 3 punti, un dottorato di ricerca vale 4 punti. Ma attenzione, la somma dei titoli post laurea non può superare i 7 punti. Come dire, il ragazzo laureato con 110 e lode e iper specializzato non potrà avere più di 12 punti. Cosa viene premiato allora? L' anzianità. Un dipendente del ministero della giustizia ha potuto contare su 4 punti per ogni anno di servizio tolti i primi cinque; un magistrato onorario su 3 punti per ogni anno di servizio sempre tolti i primi cinque; e così un avvocato iscritto all' ordine. Più sei avanti nell' età, più esperienza hai maturato, più punti ricevi. «È l' esatto contrario della meritocrazia», dice Massimo Battaglia, segretario generale di Unsa-Confsal, che ha battezzato la selezione dei 400 direttori del ministero della giustizia «il concorso della vergogna». Si tratta, dice Battaglia, «di un' assurdità giuridica. Uno schiaffo ai comuni cittadini, magari all' operaio che ha lavorato e sudato per far studiare il proprio figlio che oggi non può concorrere a un posto da funzionario nella Pubblica amministrazione». E non è l' unico concorso che ha questo meccanismo. «C' è anche la selezione per 150 funzionari del ministero della giustizia, le cui graduatorie stanno per essere pubblicate, che ha le stesse regole», dice Giuseppe Cotruvo, esperto di didattica concorsuale, autore di diversi manuali di preparazione ai concorsi. «Diversi avvocati so che stanno preparando ricorso perché il bando ha profili di incostituzionalità», aggiunge Cotruvo. La Carta in effetti, dice che ad essere selezionati dovrebbero essere i più meritevoli, non i più anziani.
· In Polizia: da raccomandato.
Candidato idoneo nonostante il daltonismo. Posto di polizia penitenziaria in cambio di 8mila euro, il Gip: “Il mercato all’interno del Tribunale”. Viviana Lanza su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Un posto di agente penitenziario costava 8mila euro. Se sarà confermato il quadro accusatorio delineato nell’inchiesta per corruzione che ha portato, a vario titolo, in carcere e ai domiciliari cinque indagati, significherebbe che c’era un sistema per far sì che anche senza tutti i necessari requisiti si potesse lavorare nel corpo della polizia penitenziaria, a contatto con i detenuti, in un contesto che, come quello carcerario, richiederebbe invece personale non solo dotato di tutti i requisiti ma anche di un’elevata formazione. Meno di un mese fa l’inchiesta dai 117 indagati per i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ieri i cinque provvedimenti cautelari nei confronti di due agenti della polizia penitenziaria, di un funzionario del Dap, di un altro agente presunto intermediario e di un candidato risultato idoneo al concorso nonostante fosse daltonico. È un momento storico particolare per la polizia penitenziaria che, al di là di valutazioni sul merito delle accuse che dovranno seguire l’iter naturale dell’inchiesta, impone riflessioni sulla necessità di rivedere il sistema per colmarne le falle. Cosa comporterebbe affidare un lavoro tanto delicato e impegnativo come quello di agente di polizia penitenziaria a personale non perfettamente idoneo? L’interrogativo si pone di fronte alle ultime vicende giudiziarie. L’inchiesta di ieri si concentra su un singolo episodio (l’idoneità di un candidato nonostante il daltonismo dietro pagamento di una tangente di 8mila euro) ma apre uno scenario che, se confermato, ha dell’inquietante. «L’attività illecita avviene all’interno del Tribunale di Napoli», scrive il gip ricostruendo gli incontri tra gli indagati. In casa di uno di loro sono state trovate decine di migliaia di euro, in casa di un altro tracce di assegni bancari e di decine di versamenti su conti correnti, movimenti e soldi su cui sono ora in corso accertamenti. Gli inquirenti sospettano che dietro l’episodio dell’aspirante agente daltonico, che supera le selezioni a discapito di altri candidati, vi sia un sistema collaudato, una sorta di mercato dei posti in seno alla polizia penitenziaria. «Un modus operandi consolidato e reiterato nel tempo», ipotizza il gip alla luce di alcuni sequestri avvenuti a maggio scorso e che hanno preceduto la svolta investigativa di ieri. Le accuse contestate ai cinque destinatari delle misure cautelari sono recentissime e si sviluppano nei primi mesi del 2021. Questo, unito al fatto che gli indagati sono in carica – chi anche all’interno dell’organizzazione sindacale, chi al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ufficio concorsi – e unito alla spregiudicatezza che gli inquirenti ritengono di aver notato indagando sulla vicenda, sono considerati elementi sufficienti per giustificare gli arresti. È severo il gip quando motiva i provvedimenti. Degli agenti che avrebbero chiesto soldi in cambio di favoritismi al concorso, scrive: «Il loro compito istituzionale è far rispettare la legge, non violarla». Dell’aspirante agente che accetta di pagare pur di avere l’ambito posto fisso, il gip scrive: «Aspira a un ruolo il cui compito è far rispettare la legge ma non esita a violarla a discapito di tanti altri giovani che per averla rispettata sono stato dichiarati non idonei». Al di là degli sviluppi giudiziari che avrà questa storia, dei riscontri che eventualmente ci saranno alle tesi di accusa e difesa, all’attendibilità di alcune ammissioni fatte da uno degli indagati, resta la riflessione sulla necessità di una riforma del sistema, di più trasparenza, di validi rimedi alle varie troppe falle.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Michele Placido: «Ho fatto il ’68 da celerino e mi presero all’Accademia perché ero raccomandato». Emilia Costantini il 20/6/2021 su Il Corriere della Sera. (…)
Papà Beniamino e mamma Maria come la presero?
«Non benissimo, ma ero felice di essere tornato a casa, nella mia numerosa famiglia, 8 figli: cinque maschi e tre femmine... E nel mio paese, però a scuola dovetti fare i conti con il mio disturbo dell’apprendimento».
Spieghi meglio.
«Alle elementari la mia attenzione svaniva quando c’erano materie come matematica, chimica, fisica... mi distraevo, ero un vero ciuccio. Però ero attento alle lezioni di italiano, lì il mio cervello si attivava con energia superiore a quella dei compagni. La poesia mi piaceva molto, sapevo talmente bene quelle di Pascoli che, quando arrivavano a scuola gli ispettori, la maestra me le faceva recitare».
Poi proseguì gli studi al liceo classico?
«Macché! Mio padre, geometra, mi fece iscrivere all’istituto tecnico industriale. Un disastro. Venivo sempre rimandato e poi bocciato. I miei genitori erano preoccupati e chiesero a mio zio maresciallo di farmi entrare in polizia. Vinsi il concorso con il solo diploma di terza media perché, in verità, ero stato raccomandato: una nostra parente era segretaria dell’allora ministro dell’Interno Taviani. Avevo 19 anni, venni a Roma e mi ritrovai a fare il celerino quando nel ‘68 ci furono le sommosse degli studenti a Valle Giulia».
I celerini difesi da Pier Paolo Pasolini nella celebre poesia «Il Pci ai giovani»?
«Esatto. Scrisse il poeta, rivolto agli studenti: voi avete facce di figli di papà, i poliziotti sono figli di poveri. Ricordo una ragazza scalmanata che, durante gli scontri davanti alla facoltà di Architettura, mi sputava addosso. Io ero armato di manganello e, dopo tutti quegli sputi e insulti, la prendo per i capelli. Sto per darle una mazzata ma lei, guardandomi fissa, mi dice: quanto sei bello! Tra noi nacque una storiella, che durò poco: lei apparteneva a una famiglia borghese e devono averle detto, ma che ti metti con un poliziotto?».
· Precedenza ai militari.
Precedenza ai militari pure nel bando di via Arenula, è polemica. Il Dubbio il 10 gennaio 2021. Da anni l’accesso alle Forze armate è incoraggiato anche coi futuri vantaggi per le assunzioni in altri settori del pubblico impiego. Risultato: al concorso per cancellieri bandito a dicembre, un laureato in Legge è svantaggiato rispetto a un soldato diplomato. Parte fra le polemiche il concorso per 2.700 “cancellieri esperti”, a tempo indeterminato, bandito lo scorso dicembre dal ministero della Giustizia. Concorso atteso da molto tempo, vista la grave carenza di personale amministrativo negli uffici giudiziari. A causa della pandemia, l’esame per la prima volta sarà solo orale, senza alcuna prova scritta. Fra i compiti del cancelliere, la redazione e sottoscrizione dei verbali d’udienza, l’assistenza al magistrato nelle attività istruttorie o nel dibattimento, il rilascio di copie conformi e la ricezione di atti da parte degli avvocati. A far discutere è la riserva del 30 per cento dei posti “ai volontari in ferma breve e ferma prefissata delle FF. AA.” e, soprattutto, i requisiti previsti dal bando.
I requisiti controversi. Per poter partecipare bisogna essere in possesso di “diploma di istruzione secondaria di secondo grado quinquennale o altro diploma dichiarato equipollente o equivalente dalle competenti autorità”, oppure “titolo di studio superiore, riconosciuto ai sensi della normativa vigente”. Inoltre, è necessario il possesso di almeno uno dei seguenti titoli: avere prestato servizio nell’amministrazione giudiziaria per almeno tre anni, senza demerito; avere svolto le funzioni di magistrato onorario, essere stato iscritto all’albo professionale degli avvocati, per almeno due anni consecutivi, avere svolto, per almeno cinque anni scolastici interi, attività di insegnante (ivi compresi i periodi di supplenza annuale) presso scuole secondarie di secondo grado; aver prestato servizio nelle forze di polizia a ordinamento civile o militare, nel ruolo degli ispettori, o nei ruoli superiori, per almeno cinque anni. Di fatto, esplicitamente, viene riconosciuta una sorta di “equipollenza”, in termini di soddisfacimento dei requisiti, tra un candidato in possesso del solo diploma, ma che ha svolto per tre anni funzioni di agente di polizia, con un laureato magistrale in Giurisprudenza che ha superato l’esame d’avvocato ed è iscritto da due anni all’albo professionale. E che, soprattutto, conosce già quello che sarà, eventualmente, il futuro ambiente lavorativo.
La vecchia questione della “riserva” per il militari. La riserva dei posti per i militari non è, comunque, un tema di questi giorni. Eliminato il servizio militare obbligatorio, per “incentivare” gli arruolamenti, il ministero della Difesa da anni ha previsto un corsia preferenziale nei concorsi pubblici per chi, appesa la divisa al chiodo, torna alla vita civile. Diverso, invece, il discorso per chi è già in polizia. In quel caso l’Amministrazione “offre” la possibilità di cambiare lavoro senza gravare sul bilancio dello Stato, trattandosi di personale già assunto e a bilancio. Non si escludono, comunque, ricorsi al giudice amministrativo da parte, ad esempio, dei tanti laureati in Giurisprudenza che non potranno partecipare al concorso perché hanno ritardato l’iscrizione all’albo. Una petizione sul punto è stata inviata in questi giorni al ministro Alfonso Bonafede.
· Il Cartellino Rosso per gli Arbitri.
Arbitri, le chat segrete “Truccano le carriere per arrivare in Serie A”. Marco Mensurati e Fabio Tonacci su La Repubblica l'1 maggio 2021. Due arbitri denunciano alla procura di Roma un meccanismo per manipolare la graduatoria che determina le carriere e stabilisce chi sale in Serie A e chi invece va a casa. Nelle chat tra i membri della commissione di valutazione il cambio dei voti. Un plico, da qualche giorno nelle mani della Procura di Roma, promette di sconvolgere il sistema arbitrale italiano. Per i documenti che contiene e per la storia che racconta. Una storia di arbitri che accusano altri arbitri. Di valutazioni post-partita ritoccate al rialzo per manipolare la graduatoria che determina le carriere e stabilisce chi sale in Serie A e chi invece va a casa. Del giudizio falsificato dell’arbitraggio di Spezia-Chievo dello scorso campionato di B. E di una chat....
"Voti truccati...". Le ombre sul mondo degli arbitri. Marco Gentile l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Minelli e Baroni hanno presentato una denuncia alla Procura di Roma per segnalare irregolarità nell'assegnazione dei voti ai fischietti di Serie B. Si preannunciano nubi scure all'orizzonte sul mondo degli arbitri dopo una pesantissima denuncia presentata da due tesserati Aia, il 39 enne varesino Daniele Minelli e il 38 enne fiorentino Niccolò Baroni, alla Procura di Roma. Secondo quanto riporta La Repubblica, infatti, i due hanno fatto venire a galla come al termine delle partite si ritoccassero i voti a rialzo di alcuni fischietti per favorirne la promozione in Serie A. Il match pesantemente incriminato è quello tra Spezia-Chievo Verona, playoff di Serie B, dello scorso campionato cadetto, con il voto finale risultato decisivo in positivo per un arbitro. Fino alla passata stagione Minelli e Baroni erano presenti nell'organico degli arbitri di Serie B ma a fine agosto del 2020 sono stati dismessi dal Comitato nazionale dell’Aia per adeguate motivazioni tecniche: in poche parole perché risultati in teoria i "peggiori" arbitri nella categoria cadetta. Con le valutazioni, inoltre, si tendeva anche a decretare la dismissione di alcuni fischietti ed è emerso come esistesse una chat segreta tra i componenti della Commissione arbitri del campionato di Serie B in cui si discuteva del cambio dei voti: "Devi togliere un 8.60 e mettere un 8.70...", uno dei messaggi incriminati.
La ricostruzione. Nello specifico, si fa riferimento a Ivan Robilotta, che aveva concluso all'ultimo posto della graduatoria di 25 arbitri dell'ultimo campionato di B e ad Eugenio Abbatista che giunto all'ottavo anno consecutivo di permanenza nella stessa categoria, avrebbe dovuto essere sottoposto alla dismissione. Il fischietto della sezione di Molfetta invece ha finito per ricevere un voto eccellente nella sfida playoff tra Spezia e Chievo garantendosi così la possibilità di continuare ad arbitrare senza dovere appendere il fischietto al chiodo. Il voto dato ad Abbattista in quella partita da Riccardo Di Fiore (facente parte dell’organo tecnico di valutazione e presente sugli spalti del Picco), infatti, era stato di 8.60 e non di 8.70 com'è poi risultato sul referto con quello 0,10 in più che ha fatto così scattare l'incriminata promozione. Minelli e Baroni, per bocca del loro legale Gianluca Ciotti, si chiedono proprio come sia stato possibile e di chi sia stata la mano che ha di fatto corretto il voto in eccesso. Con quel bel voto Abbattista è balzato in zona promozione, terzo miglior arbitro di quella stagione del campionato di Serie B e grazie a questo ha potuto continuare ad arbitrare per un altro anni con uno stipendio di circa 120.000 euro annui.
I voti incriminati. Alla denuncia presentata dai due ex arbitri sono stati anche allegati i messaggi della chat "Commissione Can B" risalenti al 21 agosto del 2020. In questo fitto scambio di messaggi ci sono anche quelli di Di Fiore e dell'ex arbitro e all'epoca responsabile dell'organico di valutazione Emidio Morganti. "Ci mancano ancora tutti i voti dei playoff, nomi e schede di promossi e dismessi", il messaggio di Davide Garbini, membro della Can B. Morganti prende parola: "8,60 a tutti...", per poi correggersi: "Prova Abbattista 8.70. Occorre mettere 8.70 a Sacchi, a Fourneau e Abbattista…". Garbini rimanda infine il file excel modificato dove tutti hanno il punteggio di 8.70. Di certo questa notizia non farà di certo piacere alla categoria arbitrale che rischia di essere travolta dalle polemiche per via di un presunto apparato di promozioni e dismissioni arbitrali fatte a tavolino. Ora toccherà alla Procura di Roma indagare ma all'orizzonte si preannuncia una bufera.
Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.
Da ilnapolista.it l'1 maggio 2021. La Procura di Roma sta valutando un fascicolo contenente una denuncia di arbitri ad altri arbitri. Un plico che potrebbe sconvolgere il sistema arbitrale italiano. Lo racconta Repubblica. Il plico (7 pagine e 8 allegati) è stato consegnato ai pm romani da due tesserati dell’Aia: Daniele Minelli e Niccolò Baroni, fino all’anno scorso nell’organico della Serie B. Il 31 agosto 2020 sono stati “dismessi” “per adeguate motivazioni tecniche”, cioè perché avevano fatto peggio degli altri. Nella mail inviata dall’allora presidente dell’Aia, Marcello Nicchi, ai due arbitri, era indicato anche il punteggio in base al quale era stata presa la decisione di dismetterli. Repubblica scrive: “su una lista di 25 — Baroni si è piazzato 23°, Minelli 24°. Rimangono invece in B l’ultimo della graduatoria, Ivan Robilotta, e Eugenio Abbattista, un fischietto esperto ma arrivato al tetto massimo di 8 stagioni di appartenenza al ruolo”. I due esclusi iniziano a chiedersi come mai Abbattista e Robilotta restino dentro e, tramite il loro legale, chiedono l’accesso agli atti e raccolgono i referti. “Scoprono che Abbattista ha avuto un “rendimento eccellente”. È passato dalla dismissione, programmata per limiti di permanenza, alla conferma grazie a una super prestazione”. In particolare, nell’ultima partita diretta, Spezia-Chievo, dell’11 agosto 2020, Abbattista era stato valutato con il massimo dei voti: 8.70. Il referto è firmato da Riccardo Di Fiore, che fa parte dell’organico tecnico di valutazione. Con quel giudizio, Abbattista diventa il terzo miglior arbitro della Serie B. “E il regolamento federale prevede la possibilità di derogare al limite delle otto stagioni di fronte a un così fenomenale exploit tecnico”. Quanto a Robillotta, per non bocciarlo “l’Aia per la prima volta nella sua storia si appella a una norma che permette di salvare le matricole al primo anno anche quando arbitrano male”. A questo punto Minelli e Baroni fanno ricorso. Nel novembre 2020 il Tribunale federale nazionale rigetta le istanze. Li accusa di provare rancore verso i colleghi perché non vogliono accettare il verdetto del campo. Ma la storia non finisce qui, perché Minelli e Baroni vengono contattati da Riccardo Di Fiore, che dice loro che lui, quell’8.70 ad Abbattista non lo ha mai dato: si era fermato a 8.60. Quello 0.10 che gli ha fruttato la promozione glielo ha dato qualcun altro. E il referto, a cui i due arbitri riescono ad accedere, lo conferma. Da qui la denuncia alla Procura di Roma. Ad essa sono allegati anche gli screenshot di una chat WhatsApp tra i componenti della Commissione arbitri di Serie B, nella quale sono presenti, tra gli altri, anche Di Fiore ed Emidio Morganti, allora responsabile dell’organo tecnico di valutazione. I messaggi incriminati risalgono al 21 agosto 2020, quando, a campionato concluso, si stila la graduatoria finale degli arbitri. Repubblica ne riporta il contenuto. “«Ci mancano ancora tutti i voti dei playoff, nomi e schede di promossi e dismessi», esordisce Davide Garbini (membro della Can B, oggi unificata con la Can A) che ha il file Excel aperto. Morganti dà una prima indicazione: «8.60 a tutti». Poi suggerisce: «Prova Abbattista 8.70» e qualche messaggio dopo posta un’emoticon sorridente. C’è poi una terza persona, non identificata, che ha un’idea: «Occorre mettere 8.70 a Sacchi, a Fourneau e Abbattista…». Garbini rimanda l’elenco, modificato: «Viene così coi tre 8.70»”. Il quotidiano scrive di aver contattato Morganti per chiedergli se c’è una spiegazione all’accaduto. La sua risposta è stata: «Forse. Ma non la dico certo a voi». Secondo l’avvocato di Minelli e Baroni ci sono gli estremi della truffa e del falso a carico dei responsabili dell’Aia. Toccherà ai pm valutare.
· L’Amicocrazia.
I miracoli del Pnrr: i ministri si fanno eserciti di esperti e consulenti da milioni di euro. Il governo accontenta tutti, da Colao a Gelmini. Arrivano i dirigenti dell’amministrazione del futuro con chiamate dirette e percorsi agevolati. Mentre si approvano norme in silenzio che, casualmente, aiutano gli amici. Carlo Tecce su La Repubblica il 19 novembre 2021. Troppo concentrati sui miracoli si perdono di vista i giochi di prestigio nel governo di Mario Draghi. I favori ai ministri, i soccorsi agli amici, i premi ai capricciosi disseminati nelle norme del piano nazionale di ripresa e resilienza, il già familiare “Pnrr” con i suoi 221 miliardi di euro di risorse e prestiti europei. I progetti sono in ritardo, ma i ministri e i partiti hanno già centrato gli obiettivi.
Striscia la Notizia, grosso guaio per Dario Franceschini? "Chi spunta tra le nomine sospette". Libero Quotidiano il 03 dicembre 2021. "Sono 28 nomine quelle fatte dal ministero della Cultura per selezionare delle persone che diventassero sovrintendenti". A spiegarlo è Pinuccio, inviato di Striscia la Notizia, nella puntata di venerdì 3 dicembre. Qui il tg satirico di Canale 5 riporta alcuni articoli di Liberoquotidiano in cui viene scritto che Dario Franceschini ha sì fatto alcune nomine, ma senza bando. Tra queste - spiega Pinuccio - anche qualche amico di Franceschini. Una notizia a cui il ministro del Partito democratico ha replicato ribadendo che è tutto lecito. Finita qui? Neanche per sogno: "Eppure dopo il nostro format 'amici' di Franceschini, l'onorevole Corrado ha portato la questione in Parlamento", prosegue Pinuccio. Poi viene mandato in onda l'intervento in Senato di Margherita Corrado, che ricorda il servizio di Striscia: "Tra le nomine sarebbero presenti più di una pupilla del ministro e si sussurra anche che sia stato favorito il coniuge di un dirigente dell'istituto di credito vicino al Mic". Ma la battaglia per scoprire la verità - conclude l'inviato - non finisce. Insomma, su Franceschini qualche altra novità potrebbe esserci.
Francesco Specchia per "Libero quotidiano" il 19 novembre 2021. C'è un articolo della nostra angelicata Costituzione -il 97, ultimo comma che sacralizza il principio secondo il quale per entrare in un ruolo pubblico occorre perlomeno uno straccio di concorso, «salvo i casi stabiliti dalla legge» cioè le emergenze. E c'è un Ministero, quello della Cultura, che dal 2019 trasforma l'emergenza in consuetudine e la consuetudine in prassi. Da qui, il caso del drappello dei senza nome, dell'infornata dei 28 dirigenti senza concorso entrati da qualche giorno in carica nelle sovrintendenze, nei presidi archeologici, negli archivi d'Italia. Lo denunciano sia la chat dei dipendenti del dicastero di Dario Franceschini, sia il sindacato dei Beni Culturali Confsal-Unsa, sia un'interrogazione parlamentare, la 3-02934, firmata dai parlamentari Corrado-Angrisani-Granato-Lannutti del Gruppo Misto. I quali fanno notare che nessuno dei suddetti 28 assegnati a 7 direzioni generali diverse (soltanto 20 per quella di Archeologia, Belle Arti e Paesaggio) ha superato concorsi di alcun genere; e che «grazie a una deroga concessa alle amministrazioni con il decreto legge 80 del 9 giugno 2021, per facilitare il reclutamento di dirigenti nell'ambito dell'attuazione del Pnrr», i suddetti 28 sono dunque entrati a semplice "chiamata" previo curriculum valutato dal ministero. Che non è il massimo dell'accuratezza, diciamo.
LIMITE DEL 30% C'è un passaggio del ddl che recita che il ministero si riserva di scegliere "i candidati più idonei a garantire il buon andamento degli uffici e dell'amministrazione": il che significa discrezione totale del ministro. Recita l'interrogazione: «Così facendo, non solo è stato innalzato al 30 per cento il limite massimo di dirigenti non abilitati, che era già stato aumentato dall'8 al 15 per cento con il decreto-legge n. 104 del 2020 sul presupposto che al Ministero mancassero 93 dirigenti, cioè pressappoco metà del totale, ma la selezione è avvenuta, per la prima volta, con il solo invio del curriculum vitae al direttore generale di settore». E continua: «La guida di alcune Soprintendenze archeologia belle arti e paesaggio affidata a funzionari architetti e storici dell'arte senza esperienza negli uffici di tutela territoriale dimostra quale peso abbia avutola discrezionalità concessa, nell'occasione, ai direttori generali, oltre a rimarcare l'assurdità dell'aumento delle Soprintendenze mediante improvvide divisioni di territori prima gestiti unitariamente». Ergo: lo stato d'eccezione per i cosiddetti «dirigenti non abilitati» continua ad essere vigente dal 2014; ergo, alla cultura -dove i dirigenti sono 193vanno di moda ormai solo nomine fiduciarie e concorsi manco a pagarli. «Non si capisce come, ma siamo in emergenza perpetua» ci racconta la senatrice Margherita Corrado, archeologa, estensore del testo dell'interrogazione «c'è evidentemente un ministro della Cultura che sta lavorando per il depotenziamento del suo ministero, che ritiene la tutela del patrimonio una sinecura, che è molto sensibile a gruppi di pressione economica e che delega la scelta dei dirigenti più al decisionismo politico che alle competenze». Dal ministero rispondono che si è seguita la legge, e non c'è dubbio. Ma qui si tratta di tirare l'interpretazione della norma, di estenderla, finché glielo si concede. Così la buona parassi costituzionale che fino a 15 anni fa vedeva gli incarichi assegnati attraverso concorsi annuali con prove scritte e orali e una commissione interna, cade nell'oblio.
TRAFILA Nella pratica si verifica quasi sempre la stessa trafila. Si aumentano e dividono gli uffici; si creano dal nulla nuovi posti da dirigente (che mancano); e si propone una nuova emergenza al giorno. «Spesso vengono scelti funzionari per i quali non si conoscono i criteri di selezione a scapito, magari, di dirigenti interni già formati per quel settore specifico» continua la Corrado «e spesso si sguarniscono uffici di funzionari ora necessari per analizzare i progetti del Pnrr». Dal ministero fanno sapere che tanto ci sarà una normalizzazione, ci sarà un corso/concorso (che doveva essere bandito da anni) e in 12 mesi la Scuola del patrimonio franceschiniana formerà altri nuovi dirigenti. Ma i senatori dissidenti non si fidano. "Facciamo notare al ministro: tutto ciò non le "appare estremamente vulnerabile ad infiltrazioni e influenze negative dello spoils system e della politica, tanto che i legami amicali e familiari di alcuni dei 28 prescelti sono già di dominio pubblico con sommo disdoro per l'amministrazione senza che basti invocare il corso concorso per giustificare o ridurre l'anomalia?», chiedono. Si attende cortese risposta...
Il Sigillo per tag43.it il 4 novembre 2021. Fischiato il divieto di sosta davanti al Demanio per Antonella Manzione, la vigilessa che Matteo Renzi volle a Palazzo Chigi e che poi impose, tra mille polemiche, al Consiglio di Stato. Ora il ‘caso Manzione’ è all’esame del presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi che dovrà accertare se vi siano aspetti di legittimità per i ruoli che Manzione svolge in due strutture chiave dell’Amministrazione centrale una volta distaccata dal Consiglio di Stato. Lei infatti risulta come responsabile dell’Ufficio legislativo del ministro delle Pari Opportunità Elena Bonetti, renziana doc, ma anche come super consigliera di Alessandra Dal Verme, da pochi mesi contestata direttore generale del Demanio per il conflitto di interessi con suo cognato il commissario europeo per gli Affari Economici Paolo Gentiloni, il quale deve istruire i fondi del Pnrr. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi è imbarazzato nel dover rispondere sul punto a varie interrogazioni parlamentari anche perché, perpetuando questo conflitto, c’è il rischio reale che vengano bloccati i finanziamenti dalla Commissione. Un rischio che non vuole ovviamente correre.
Al Demanio Manzione si occupa del rinnovo dei contratti d’affitto dell’amministrazione
Come se non bastasse, al Demanio Dal Verme sta occupandosi del dossier più delicato dell’Agenzia, quello del rinnovo delle centinaia contratti d’affitto dell’amministrazione con i più grandi fondi immobiliari internazionali. Questa circostanza pare non fosse nota neppur alla ministra Bonetti che ne ha chiesto conto anche perché la vigilessa aveva fatto fuoco e fiamme per poter partecipare allo strategico pre-consiglio dei ministri in rappresentanza del ministero dove le piace confrontarsi con Carlo Deodato, l’attuale competentissimo capo dipartimento degli affari giuridici (Dag) della Presidenza del Consiglio del quale incredibilmente, da vigilessa del Comune di Firenze, aveva preso il posto.
Una nuova bega per Patroni Griffi e Dal Verme
Sono ancora molti quelli che si ricordano degli esordi di Manzione al Dag. Quando davanti al fior fiore di giuristi si trovava in difficoltà, interrompeva la riunione con una frase che rimane nella storia del Palazzo che pure ne ha viste tante: «Mi gioco il jolly». E chiamava Matteo Renzi che con un sì o un no decideva su norme che poi andavano regolarmente a cozzare con i successivi pronunciamenti del Tar e del Consiglio di Stato. E forse è proprio questo il motivo per cui il Consiglio di Stato ha fatto strenua resistenza per non averla nei ruoli. Non solo perché troppo giovane, ma anche perché non aveva tutti i requisiti formali. Ora per il presidente Patroni Griffi, al centro di un’indagine per ‘induzione indebita’ da parte della Procura di Roma, una nuova bega e per dal Verme un’altra grana oltre quella di presidente del collegio dei revisori delle Ferrovie dello Stato, per il quale sarebbe incompatibile come sta accertando la Corte dei Conti.
Paolo Gentiloni, l'affondo di Luigi Bisignani: "Dove ha piazzato la cognata". Fantasmi nella scalata al Colle. Libero Quotidiano il 31 ottobre 2021. Paolo Gentiloni è uno dei nomi validi per il Quirinale, ma secondo Luigi Bisignani ci sono alcuni fantasmi che potrebbero costringerlo a girare alla larga del Colle, dove a febbraio dovrà salire il successore di Sergio Mattarella. Da commissario europeo l’ex premier si è costruito un’ottima reputazione a livello internazionale, che passa da Washington, Parigi e Bruxelles. La corsa al Quirinale è però tutta un’altra storia: per farcela, Gentiloni dovrebbe dribblare un po’ di fantasmi del passato. In particolare quello legato alla “fedelissima” Alessandra Dal Verme, piazzata al Demanio - motore del Pnrr - nonostante sia sua cognata. “Una nomina denunciata in più interrogazioni parlamentari - scrive Bisignani sul Tempo - perché in pieno conflitto di interesse per il grado di parentela tra un commissario europeo e un dirigente che deve istruire i progetti per accedere ai fondi”. Ma non è finita qui, perché secondo l’ex faccendiere c’è di più in questa vicenda che riguarda Gentiloni e la cognata. “Tra le prime decisioni della Dal Verme - sottolinea Bisignani - quella di rimuovere due dirigenti chiave dell’Agenzia, quello della Regione Lazio Giuseppe Pisciotta e quello di Roma Capitale Antonio Fichy proprio coloro che avrebbero dovuto gestire i 20 milioni di euro e di beni confiscati a Luigi Lusi, tesoriere della Margherita di cui Gentiloni è stato non solo fondatore ma anche percettore, secondo Lusi, in piena legittimità, di circa 200 mila euro di spese per la campagna elettorale”.
Giacomo Amadori per "la Verità" il 15 ottobre 2021. C'è un'intercettazione tra la dirigente del Miur Giovanna Boda e l'imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco, entrambi indagati per corruzione per le utilità che lui avrebbe concesso a lei in cambio di appalti, che potrebbe imbarazzare più di uno. In primis il ministro Patrizio Bianchi e la deputata Maria Elena Boschi che avrebbero segnalato alla Boda persone da assumere. È il 6 aprile 2021 e l'allora capo dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali, è agitata e intenzionata a prendersi un anno sabbatico.
E all'amico domanda: «Sì, ma mettiamo che io da domani mi metto a fare un anno che è il mio sogno, non faccio niente per un anno ok? Con cosa vivo?».
Castelbianco la tranquillizza: «Guardami, dimmi solo l'importo... Ti fai un anno sabbatico però ti posso dire una cosa? Te ne devi anda'! lo ti faccio arrivare i soldi all'estero, ti faccio arriva' tutto. Non ti preoccupare, però, te ne devi andare [] fai l'apertura del Quirinale (dell'anno scolastico, ndr), annusi l'aria un giorno di settembre e poi vai in aspettativa». Quello che preme in ogni caso all'imprenditore prima che la Boda vada via è che sia chiusa «la 440». Il riferimento e alla legge istitutiva del fondo per l'arricchimento e l'ampliamento dell'offerta formativa e per gli interventi perequativi, ai cui bandi Castelbianco, psicoterapeuta, editore dell'agenzia Dire e imprenditore, partecipa con le sue società. «Lasci, metti, scegliti una persona tua oltre Valentina (la segretaria, ndr) che si mette lì, si prende tutte le beghe, una persona tua [] mi spiego cioè facciamo una cosa breve, ma fatta la 440, pensi per 'sti mesi io abbia problemi a risolvere tutto anche per l'anno dopo?» ragiona il settantenne professionista. Parlano di un affidamento.
Castelbianco propone una soluzione: «Io posso mettermi d'accordo con loro e dire fatemi fare il bando». Boda sembra intimorita dal fatto che a differenza di quanto accaduto con una scuola di Taranto in questo caso non conosca bene il preside, ma Castelbianco dà l'impressione agli investigatori di voler «ostinatamente trovare una soluzione favorevole ai propri interessi»: «Ma tu il bando sei contraria?» chiede. A questo punto la Boda pare voler chiudere tutte le pratiche rimaste in sospeso in vista del suo provvisorio ritiro e riporta al fidato imprenditore le richieste di assunzione che gli sarebbero arrivate dal ministro, in quel momento Patrizio Bianchi, e dall'amica Maria Elena Boschi, con cui la stessa dirigente aveva lavorato al dipartimento della Pari opportunità e con cui non ha smesso di frequentarsi: «Ho tre persone di cui due dovresti già conoscerle. Allora queste due sono del ministro, te lo dovrebbe avere già detto Valentina (Franco, la segretaria indagata, ndr) da tempo: M., che è nel terzo settore per l'accordo di programma per questa serie, e B., che ha il figlio disabile e fa il maestro del coro. Vabbé comunque son persone utili a me eh! Questi son svegli forte, sanno scrivere e possono venire ad aiutare questo ti dico sono utili anche se vengono dal ministro. Di fargli un incarico di consulenza di sei mesi, tranquillo tranquillo niente di... io gli darei 1.500, netti, però, che tu mi dici lordi, no netti». Castelbianco propone 2.000 euro. La Boda è d'accordo: «E facciamo 2.000, son proprio del ministro questi, non li avevo mai visti, né conosciuti, però, son bravi,però, cercate di calm... di chiamarmi perché a me mi servono per riscrivere il progetto Estate». Boda cita la terza presunta «raccomandata»: «Poi questa qua». La donna richiama l'attenzione del suo interlocutore: «Guardami». Quindi prosegue: «è la cognata della Maria Elena». Non è chiaro a chi si riferisca. L'ex ministra ha due fratelli, Emanuele e Pier Francesco. Ma l'unico sposato è il primo. La moglie si chiama Eleonora Polsinelli, ha 35 anni ed è nativa di Sora (Frosinone). Ha sposato Emanuele nel 2015 e, per alcuni anni, è stata dipendente dell'ex Banca Etruria, passata prima sotto le insegne di Ubi e poi di Intesa. Ha fatto parte dell'ufficio stampa dell'istituto aretino, ma dopo l'addio di Pier Luigi Boschi alla carica di vicepresidente e tutte le polemiche legate all'inchiesta sul crac della Popolare aretina la giovane ha prima lasciato l'ufficio a diretto contatto con i giornalisti, quindi si è dedicata alla maternità e, infine, si è licenziata, come aveva già fatto il coniuge. Meno probabile che la cognata in questione sia la fidanzata di Pier Francesco, una ventinovenne originaria di Montevarchi, dottore di ricerca in genetica, oncologia e medicina clinica all'università di Siena. Sia chi sia, Castelbianco ha ben in mente la ragazza: «Ah, sì già ce l'ho».
Boda è pensierosa: «Allora questa qui dobbiamo capire bene cosa fare, nel senso che lei sta aspettando da un anno il concorso al ministero che io non so neanche quanto sia opportuno, mi capisci? Però il problema è che questa sta a Firenze». Castelbianco: «Ma non ha importanza questo la domanda è: che gli fanno fa'? Lei cosa vuole fa'?». Boda: «Allora lei vuole fare comunicazioni istituzionali».
L'imprenditore sobbalza: «Eh ma comunicazioni istituzionali».
Boda: «E appunto ti sto dicendo non è una cosa semplice».
Castelbianco: «E no e comunica cosa? Il ministero?».
Boda: «No cioè o fa una cosa per l'agenzia Dire, non so che cosa».
Castelbianco: «No ma per la comunicazione sì».
Boda: «L'importante sia sganciata da me Federico, lo capisci?». Castelbianco: «Non c'è dubbio».
I due provano a escogitare una soluzione. La dirigente ragiona: «Io ho pensato se le troviamo una cosa e magari si distrae anche da noi perché pure il concorso non è comunque una cosa facile eh! Proprio un secondo, hai capito cosa voglio dirti?».
Castelbianco sembra aver afferrato il senso: «Ma lei subito?». La donna risponde affermativamente e allora l'editore dice: «Sì, sei mesi».
Boda continua: « e poi casomai si rinnova, cioè da un certo punto di vista è meglio se sta fuori [] quindi poi magari adesso vedi tu in prospettiva tra due anni diventa a tempo indeterminato [] non fa il concorso». Bando che rischia di mettere in imbarazzo la dirigente: «Perché finché io esisto se per favore non fa il concorso perciò sei mesi di prova e poi se va bene le diamo una prospettiva lì. Possiamo rischiare? No, dimmi, possiamo rischiare?».
Anche Castelbianco pensa che sia meglio evitare il concorso. L'amica prosegue: «Perché per me questo è proprio da deficienti? Lei però». Non si capisce a chi la Boda si riferisca, se alla cognata o alla Boschi stessa e Castelbianco commenta: «Lei di più». Boda: «Quindi io, cioè non vorrei adesso, su questo, veramente fare la buccia di banana, già ne abbiamo 10.000 che se non so come arriviamo ogni giorno dopo».
Castelbianco: «Sì, ci penso un attimo». Boda: «Sì questo ti volevo dire, pensaci tu lo potevo dire anche a Valentina, però, il discorso è questo che lei sta li ad aspettare il bando, io secondo me devo trovargli una cosa prima in modo che lei se ne». Castelbianco: «Oppure se lei aspetta il bando, ma il bando... vabbé Firenze». Per la Boda non è semplice: «Eh, ma il bando per Firenze non c'è perché è nazionale...». L'interlocutore ribatte: «Non ha importanza, l'importante è che vince il bando e ci va i primi sei mesi».
Boda: «No, ma il problema è che comunque, su quattrocento posti, caso strano, capito?». Castelbianco: «Ma magari arriva pure quattrocentesima, cioè l'importante è che non arrivi prima perché...». Boda: «Ma e brava, io l'ho conosciuta non è stupida». Castelbianco: «Apposta dico: quindi se vince lei non è un problema, e importante che (incomprensibile) deve andare prima fuori e poi va a Firenze». Boda: «Non penso che lei vada fuori e poi a Firenze, vabbè comunque tanto adesso».
Bianchi pare allargare il discorso a tutta la famiglia Boschi: «Adesso tu, se tu riesci a far sistemare, a fargli vincere il bando, dopo falli arrivare da te, dici senti abbiamo un problema, dici guarda pazienta sei mesi e tu dicono ah va bene grazie». Dopo che i due presunti complici hanno trovato la quadra, la situazione, purtroppo per loro degenera: passano sette giorni e la Guardia di finanza irrompe negli uffici della Boda e di Castelbianco mandando in fumo il piano di assunzioni così puntigliosamente congegnato.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 16 ottobre 2021. Un mese fa, davanti al giudice delle indagini preliminari Annalisa Marzano, l'imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco ha svelato agli inquirenti un segreto di Pulcinella, dal momento che i magistrati lo avevano già scoperto grazie alle intercettazioni telefoniche. Quel segreto era che l'amica e coindagata Giovanna Boda, ex capo dipartimento del Miur in aspettativa (è ancora dipendente di Viale Trastevere in veste di dirigente), era (o si era?) candidata a diventare ministro dell'Istruzione con l'appoggio del Quirinale e di Maria Elena Boschi. Alla cui cognata, come abbiamo scritto ieri, il 6 aprile scorso stava cercando di trovare un posto di lavoro.Il 13 settembre Castelbianco ha dichiarato, riguardo al desiderio espresso la scorsa primavera dalla Boda di lasciare il posto di lavoro per prendersi un anno sabbatico: «Stava male, stava male perché tutti la pigiavano, era stata candidata a diventare ministro della Pubblica istruzione al posto dell'ultimo ministro, tutti pigiavano su di lei, questa è la realtà». A febbraio, il nome della Boda aveva iniziato a circolare nel toto-ministri, come tecnico. E per raggiungere l'obiettivo l'indagata poteva contare sull'immagine di icona della legalità e di paladina degli ultimi che si era costruita con le sue iniziative al Miur contro la mafia e a favore degli studenti in difficoltà. Un'attività grazie alla quale aveva costruito una rete di relazioni che andavano dal Vaticano alla comunità ebraica, dal mondo della magistratura a quello della scuola, a cui si aggiungeva la benedizione dei campioni della antimafia. Della trattativa per farla ministro è rimasta traccia in una delle intercettazioni depositate agli atti dalla Procura di Roma. È datata 11 febbraio 2021, due giorni prima che il governo Draghi giurasse davanti al presidente Sergio Mattarella. Insomma eravamo alle battute finali per la formazione del nuovo gabinetto. Quelle sono le ore del dentro o fuori. E uno degli sponsor più forti della Boda sarebbe stata Maria Elena Boschi, con cui la dirigente aveva lavorato gomito a gomito al dipartimento della Pari opportunità a Palazzo Chigi. L'11 febbraio alle 19,21 Anna Rosa Rotondi (stretta collaboratrice della Boda a libro paga delle società di Castelbianco, ndr) chiama Valentina Franco, la segretaria indagata nell'inchiesta insieme con la Boda e Castelbianco. La Rotondi «racconta alla Franco di essere stata appena contattata da Maria Elena ("verosimilmente la Boschi" scrivono gli investigatori, ndr), la quale le ha detto che quella proposta è un'idea fantastica e che avrebbe fatto una serie di telefonate». Non è chiaro da chi provenga la «proposta» e se, quindi, la sera dell'11 febbraio la nomina fosse a buon punto. Ma la Rotondi continua dicendo che, «in seguito a quanto detto da Maria Elena, ha chiamato Marco (un consigliere del gruppo, ndr) per chiedergli come si sarebbe dovuta comportare e gli ha detto che ritiene che adesso debba informare Giovanna ("verosimilmente la Boda", ndr)». La Rotondi spiega anche di «aver bluffato oggi dicendo che Giovanna fosse all'oscuro di tutto e che si trovava lì davanti quando Fioroni ha chiamato la Boda». Giuseppe Fioroni è stato ministro dell'Istruzione nel secondo governo Prodi ed è molto legato alla Boda. Ma anche a Mattarella. Nel gennaio 2015 ha lanciato la sua candidatura al Quirinale e ha tessuto la trattativa tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e le altre componenti del Partito democratico e della maggioranza di governo. La Rotondi riferisce che «Marco ha acconsentito aggiungendo che "se Maria Elena ha detto di sì, lei adesso gli preparerà il terreno politico... la cosa da fare è Mattarella"». In quel momento la Boda o i suoi sponsor cercavano una sponda al Quirinale. Con cui la donna aveva un rapporto diretto. Sia con il presidente che con alcuni suoi stretti consiglieri, in particolare con Simone Guerrini, direttore dell'ufficio di segreteria del capo dello Stato, con il quale organizzava eventi come l'inaugurazione dell'anno scolastico a cui partecipava Mattarella o i viaggi della memoria ad Auschwitz con i sopravvissuti della comunità ebraica. Con il Colle la Boda aveva preparato anche la mostra sulle leggi razziali. Ieri, però, dall'ufficio stampa del Quirinale ci hanno fatto sapere che «il nome della Boda come possibile ministro non è mai stato discusso nei colloqui con il presidente del Consiglio incaricato nella fase della formazione del governo, né nessuno ne ha mai fatto cenno al presidente Mattarella». Ma continuiamo a leggere l'intercettazione. La Rotondi dice che il giorno successivo, il 12 febbraio, avrebbe chiamato «la Prof per dirle che deve immediatamente contattare Mattarella». Nella telefonata gli interlocutori non indicano l'identità della «professoressa» in grado di interloquire con il Quirinale. Nella trascrizione la Franco invita la collega, prima di prendere iniziative, a sentire Giovanna, «la quale però, a dire della Rotondi, risulta irreperibile» e confida, inoltre, «di essere ansiosa rispetto a questa situazione e che Giovanna le sta facendo la lista della gente da contattare, tra cui anche persone legate al Papa». La Rotondi conclude la chiamata dicendo che aspetta la chiamata della Boda su Whatsapp. Forse si era mosso qualcosa già un mese prima, in piena crisi di governo. Allora i finanzieri intercettarono la Boda al telefono con la madre Concetta Palazzetti, ex sindaco Pd di Casale Monferrato (Alessandria), città d'origine della famiglia. Nell'occasione la Boda confida: «Ho visto Maria Elena poi quando ci vediamo ti racconto». In sostanza avrebbe discusso con l'ex ministra di un argomento da trattare a quattr' occhi. Alla fine, però, la nomina non è stata fatta. È vero quanto affermato da Castelbianco e cioè che la Boda era stata pressata per fare il ministro, oppure era stata lei a candidarsi inutilmente, muovendo tutte le pedine a sua disposizione, dalla politica al Vaticano? O ancora: qualcuno ai vertici della Procura o della Guardia di finanza ha avvertito chi di dovere che qualcuno stava candidando a ministro un'indagata per corruzione, intercettata e a rischio di arresto? Fonti vicini agli inquirenti oltre che al Colle smentiscono questa seconda ipotesi. La vicenda difficilmente sarà chiarita, anche perché su di essa è calato il silenzio, con l'ausilio del fatto che diverse intercettazioni sul caso non sono state ritenute rilevanti e per questo non sono state depositate.
Marito e moglie capitani dei carabinieri in Puglia. Norbaonline.it il 16 settembre 2021. Lei alla guida della compagnia di Martina Franca, lui a Fasano. Avvicendamenti in corso nei comandi territoriali dei Carabinieri. Fra questi, fa notizia la vicenda di due capitani, marito e moglie, di origini campane, inviati a guidare due compagnie in Puglia. La moglie, Silvana Fabbricatore, 31 anni, è alla guida della compagnia di Martina Franca mentre il marito, Massimo Cicala, 30 anni, è il nuovo comandante della compagnia di Fasano. Potranno non solo incontrarsi a cena, ma anche collaborare nel servizio visto che i due territori sono confinanti.
Comunali a Latina, la senatrice: "Ho fatto candidare le mie 3 gemelle, che male c'è?". Clemente Pistilli su La Repubblica il 12 settembre 2021. "Non sono una No Vax ma ho fatto dei post di colore che con la politica non c'entrano. Se queste sono le critiche allora sono perfetta" spiega Marinella Pacifico, ex Movimento 5 Stelle passata al partito di Giovanni Toti, di cui è la numero due nel Lazio e la responsabile nel territorio pontino. Candidare tutti i propri figli nel partito di cui si è al vertice si può. In vista delle elezioni amministrative di ottobre, a Latina, lo ha fatto la senatrice Marinella Pacifico, ex Movimento 5 Stelle passata al partito di Giovanni Toti, di cui è la numero due nel Lazio e la responsabile nel territorio pontino. Nella lista di Cambiamo!, parte della coalizione di centrodestra a sostegno del candidato sindaco Vincenzo Zaccheo, ci sono le tre gemelle della parlamentare, Maria Carla, Maria Pia e Maria Sole Faugno, che aspirano così a tre posti da consigliere comunale.
Senatrice Pacifico, come mai ha fatto candidare tutte le sue figlie?
"Sono tre ragazze che svolgono una professione molto qualificata, che insieme ad altri ragazzi candidati si occupano di politiche giovanili e hanno l'obiettivo di dare un contributo per la crescita culturale e professionale della città. Invece di guardare al fatto che sono le mie figlie si guardi ai loro profili: una è un ingegnere edile, l'altra un medico specializzata in diagnostica e radiologia e la terza una biologa molecolare".
Hanno chiesto loro di candidarsi o le ha proposto lei la candidatura?
"Posso mai obbligarle? Hanno 27 anni ed è stata una loro scelta. Loro respirano i problemi sociali".
Avere tre figlie nella lista del partito che lei coordina non le crea alcun imbarazzo?
"Che problema c'è? Sono cittadine italiane. Hanno il desiderio di mettersi a disposizione della città e non capisco perché non dovrebbero avere tale opportunità. Ci sono tanti figli di politici che hanno fatto e fanno politica".
Con Cambiamo!, un partito giovane, quale risultato si aspetta?
"Lavoro per il sociale, in questo partito ho tale opportunità ed è quello che farò, incentivando
i servizi che mancano a Latina, dalla cittadella giudiziaria a un turismo adeguato alle aspettative dei cittadini, fino a un altro polo clinico".
Lei è entrata in politica con i 5S e poi ha aderito a Cambiamo!, sostenendo ora la coalizione di centrodestra. Sono realtà diverse.
"Il primo Governo Conte è stato formato da M5S e Lega. Si può lavorare insieme . Io ho voluto fortemente la candidatura dell'onorevole Zaccheo, perché lo ritengo il profilo migliore per far uscire la città dall'immobilismo".
Sì a vaccini e Green Pass?
"Tutto quello che viene fatto ai fini della sicurezza sanitaria per me va bene. Non sono una No Vax".
Ci sono polemiche su dei post No Vax in cui definisce Saviano un massone e la Boldrini sionista.
"Erano post di colore. La mia attività politica è trasparente. Se queste sono le uniche critiche nei miei confronti vuol dire che sono un politico perfetto".
Giampiero Mughini per Dagospia il 19 agosto 2021. Caro Dago, mi colpisce non poco la campagna che “Il Fatto” conduce da un paio di giorni (oggi addirittura con un richiamo in prima pagina) contro la nomina a direttore dell’Archivio Centrale di Stato del dottor Andrea De Pasquale (che non ho il piacere di conoscere). Tutto comincia dal fatto che contro questa nomina si sono pronunciate le associazioni delle vittime di alcune sanguinose stragi politiche, quelle di Bologna, di Piazza della Loggia e di Piazza Fontana. E che c’entra il dottor De Pasquale con quegli atti mostruosi? C’entra per il fatto che da direttore della Biblioteca Nazionale di Roma aveva manifestato gratitudine alla famiglia Rauti per il fatto di avere donato alla Biblioteca Nazionale il fondo documentario (“un ambiguo fondo” scrive “Il Fatto) relativo al lungo itinerario politico di Pino Rauti, l’intellettuale e dirigente politico che fa tutt’uno con la storia di Ordine nuovo, un gruppo dell’estrema destra italiana cui sono ascrivibili alcuni protagonisti del terrorismo stragista. Se è per questo, non sono mica pochi i terroristi assassini provenienti da formazioni dell’estrema sinistra quali Lotta continua o Potere operaio, solo che ove Toni Negri (e tanto per fare un nome) decidesse di donare alla Biblioteca Nazionale un suo eventuale fondo documentario (che in sé e per sé non avrebbe nulla di “ambiguo”), io da eventuale direttore della Biblioteca Nazionale lo ringrazierei eccome. Quanto alla persona specifica di Pino Rauti, è vero che lui venne arrestato con l’accusa di aver messo mano all’attentato di Piazza Fontana, solo che quelle accuse vennero completamente cancellate dalla sua assoluzione piena e indiscutibile. So che gli amici del “Fatto” si trovano più a loro agio con gli accusati e con gli accusandi che non con gli assolti, solo che l’assoluzione di Rauti non fa una piega in termini di civiltà giuridica. Ero un ragazzotto alle primissime armi quando Aniello Coppola, mio direttore al “Paese Sera”, mi invitò ad andare a casa di Rauti ad intervistarlo. Confesso che ero in un notevole imbarazzo perché avevo letto sul quotidiano paracomunista di cui ero un praticante un articolo in cui si diceva che la casa romana di Rauti era protetta da un cane lupo che se ne stava non ricordo più se in luogo del portiere o accanto a lui. Presi un taxi, arrivai all’indirizzo che mi avevano dato. Il cane lupo non c’era. Pigiai il tasto del citofono, mi rispose una voce femminile, era la signora Rauti. Dissi che ero “un giornalista del Paese Sera” aspettandomi una raffica di insulti. “Va bene, salga”. Entrai in una casa di media borghesia quanto più ovvia e normale, con una libreria dai montanti in ferro come erano in auge in quegli anni. Mi venne incontro Rauti, che non aveva nulla di nibelungico e bensì l’aria di un borghese medio e normale. Mi offrirono anche un caffè. Con i Rauti sono poi rimasto in rapporti amichevoli. Quando nel 1981 apprestai il documentario sulla “Nuova destra”, i cui elementi di maggiore spicco (Stenio Solinas, Marco Tarchi, Umberto Croppi. Giuseppe Del Ninno) erano stati tutti dei “rautiani” al tempo della loro militanza nel Msi, intervistai a lungo Rauti. Un paio di giorni prima della messa in onda del documentario, arrivò in Rai una lettera dell’avvocato di Rauti che ci diffidava di mettere in onda quell’intervista. Temevano che io l’avrei usata per poi scaraventare valanghe di fango sul fondatore di Ordine nuovo; non mi conoscevano a sufficienza. Dissi ai dirigenti Rai della Rete2 che della messa in onda di quella intervista me ne assumevo la piena responsabilità. Andò in onda. Dopo pochi giorni mi arrivò una lettera personale di Rauti che mi riconosceva quale “un avversario leale”. Eccome se non è prezioso il suo archivio. Più ne sapremo di quegli anni arroventati in cui sono stati in tanti a giocare con il fuoco, meglio è. Ho appena finito di leggere il libro (Sandro Forte, “Ordine Nuovo parla”, Mursia 2020) di un giornalista che negli anni Settanta e Ottanta era stato un militante del gruppo di estrema destra. Il suo ragionamento di fondo è che ci furono dei delinquenti (pochi a suo dire) in quella congrega, ma le stimmate di fondo ne furono tutt’altre: quelle di dare connotati moderni a una destra possibile nell’Europa di fine secolo. E giù un elenco affollatissimo di riviste, fogli militanti, convegni, nomi di intellettuali e giornalisti che poi presero le strade le più disparate. E’ un libro che ho letto con attenzione, prendendo appunti. Numericamente parlando, uno dei punti di forza dell’Ordine Nuovo rautiano era stata la città in cui sono nato e ho vissuto da giovane, Catania. Non erano tipi simpatici e non lo era il loro capo, uno che molti anni dopo sarebbe divenuto un consigliere politico di Arnaldo Forlani. Quando prese la parola in uno degli infuocati dibattiti che chiudevano le serate del Centro Universitario Cinematografico di cui ero presidente, alcuni dei miei compagni avrebbero voluto impedirgli di parlare. Dissi che aveva tutto il diritto di farlo. Disse la sua. Poco dopo mi riempì di insulti sul quotidiano catanese. Insulti ho detto, e furibondi. Lo querelai. Mi mandò una lettera di scuse e mi pagò le spese legali. Cose di quando eravamo giovani, cose dell’altro e lontanissimo secolo.
Gianfranco Ferroni per “Il Tempo” il 17 agosto 2021. Ugo De Carolis, additato in maniera bipartisan di essere un “uomo di fiducia dei Benetton”, ha dovuto dire “no” alla poltrona di amministratore delegato di Anas. Ma non è stato l’unico manager che ha visto sfumare un incarico per il legame con il gruppo di Ponzano Veneto. In altri casi, viene spifferato da palazzo Chigi, “è stato svolto un lungo lavoro preventivo, passando al setaccio ogni curriculum”. Pare sia stata questa la causa della bocciatura, per esempio, di Laura Cioli alla Rai: su viale Mazzini gli occhi sono sempre puntati, e sul “paper Cioli” si leggeva “Autogrill, non-executive director”. Dove Autogrill vuol dire Benetton. E quindi, il cv è finito nel cestino, per evitare guai, nonostante un passato manageriale nel mondo dell’editoria. A proposito, lo stesso discorso a quanto si apprende vale per tutti gli amministratori indipendenti delle società care ai Benetton...
Salvatore Merlo per “il Foglio” il 6 agosto 2021. Un grande manager di carriera americana, cresciuto alla Procter & Gamble, poi chiamato alla Fiat da Marchionne, il dirigente aziendale che fece la fortuna del Telepass e che poi trasformò l’aeroporto rudere di Fiumicino nel migliore aeroporto d’Europa, è stato linciato mercoledì da M5s, Lega, Pd, FI e FdI. Scelto di fatto da Palazzo Chigi secondo principi di competenza e mercato per salvare il carrozzone sfasciato di Anas, l’altro giorno Ugo de Carolis è stato spinto dai partiti a rinunciare all’incarico di amministratore delegato di questa povera azienda colabrodo. Secondo il seguente pseudo ragionamento di Danilo Toninelli, che ha ricompattato il populismo gialloverde con il concorso gregario del Pd: “Parliamo di un uomo di fiducia dei Benetton e dell’ex ad di Autostrade Giovanni Castellucci”. Poiché nulla importa che De Carolis non abbia mai lavorato in Autostrade, né mai si sia occupato di ponti e viadotti Aspi, tanto meno del Morandi, e che insomma nulla ha avuto a che fare con la tragedia di Genova, il problema di De Carolis – a quanto pare – è quello di essere stato un amministratore delegato all’interno della enorme galassia finanziaria e industriale che fa riferimento alla famiglia Benetton. Circa seicento manager, tredicimilacinquecentocinquanta dipendenti in Italia e trentunomila nel resto del mondo. Seguendo questo bislacco filo logico (logico si fa per dire), chiunque abbia lavorato con Benetton o Castellucci (pure i negozi di maglieria?), avrebbe sostanzialmente collaborato e cooperato a una specie di obiettivo societario globale che consisteva nel far crollare il ponte Morandi. Non responsabilità personale, ma responsabilità oggettiva. Tipo la Salem del 1642 (1692, ndD), ma con Toninelli giudice religioso: bruciamo sul rogo i Benetton e chiunque sia stato con loro. Pure il cane. Cucinavi a casa Benetton? Tizzone ardente. Hai guidato la macchina di Luciano? Ti impaliamo. Hai gestito l’Aeroporto di Roma? Ti tagliamo un dito. Verrebbe da ridere, se non ci fossero risvolti penosi. Si segnala infatti una prima vittoria del populismo senza cervello sul governo di Mario Draghi, che non ha saputo difendere una sua scelta. E si evidenzia la subalternità del Pd agli sciroccati del M5s. Tutti sanno che gli unici manager capaci, non solo in Italia ma nel mondo, sono quelli che vengono dal privato. Che seleziona secondo princìpi di risultato. Per questo era stato chiamato De Carolis. Perché la missione è complicata. Serviva uno che non sprecasse l’occasione offerta dai miliardi di euro del Pnrr che finiranno ad Anas, il decrepito falansterio che conta negli ultimi tre anni più crolli di ponti di quanti non ne siano avvenuti in 20 anni di Autostrade. Il semestre bianco comincia male.
ROMA, LA STRAORDINARIA CARRIERA DI FABIO BARCHIESI, IL FISIOTERAPISTA DI MALAGÒ AL VERTICE DI CDP. Estratto dell'articolo di Giuliano Foschini e Marco Mensurati per repubblica.it il 10 agosto 2021. La storia è divertente e sta occupando l'agosto della Roma dei palazzi chiusi per ferie. Ed è raccontata, più o meno, così: dopo queste Olimpiadi, Giovanni Malagò può tutto. Persino far nominare il suo fisioterapista a capo dello staff dell'amministratore di Cassa depositi e prestiti. Il punto è che non si tratta di una battuta ma di una vicenda complessa che rischia di provocare, alla ripresa, anche qualche scossone politico. Perché la partita è delicata e interessa il cuore del potere del Paese. La storia è questa: tra i primi atti del nuovo amministratore delegato di Cdp, Dario Scannapieco, c'è stata la nomina nel suo staff di un professionista esterno, il dottor Fabio Barchiesi. Barchiesi è un nome molto conosciuto a Roma, pur essendo praticamente alla sua prima esperienza di manager, per lo meno fuori dal mondo dello sport. Barchiesi è infatti il fisioterapista del generone romano la cui storia, per come la raccontano oggi, sta a metà tra una favola di riscatto all'americana e il racconto di Georges Duroy, il protagonista del Bel Ami di Guy de Maupassant. Barchiesi è un ragazzo testardo e taciturno. Comincia la sua carriera a Villa Stuart, come giovane terapista laureato in Professioni sanitarie alla Sapienza. Qui ha la fortuna di avere come paziente il presidente del Coni, Giovanni Malagò, che doveva riprendersi da un infortunio. Malagò ne rimane affascinato: per le sue qualità professionali, certo. Ma evidentemente vede oltre. Capisce che il ragazzo può fare strada. Lo porta così all'Aniene prima, e lo presenta a molti suoi amici, poi. Fino a riuscire a farlo lavorare con sé: al Coni sport Lab, l'Istituto di Medicina dello sport del Coni. Proprio come la tribuna d'onore dell'Olimpico, l'Istituto è uno dei luoghi centrali della geografia del potere romano: dal calcetto ai piccoli incidenti, si fanno male in molti. Oltre a Malagò stesso, sotto le sue cure, nel tempo, passano Azzurra Caltagirone, Franco Frattini e l'ex ad di Cdp Fabio Gallia.
Dagospia l'11 agosto 2021. LA PRECISAZIONE DELL'UFFICIO STAMPA DI CDP. L’articolo cui si fa riferimento contiene diverse imprecisioni che lo rendono fuorviante e lesivo, sia nel taglio che nei contenuti. Il dott. Barchiesi, infatti, può vantare un percorso professionale che gli ha consentito di maturare solide competenze dirigenziali: dal 2015 è stato direttore del CONI Sport Lab – dove ha conseguito negli anni risultati positivi e tangibili - e dal gennaio 2018 dirigente in una società controllata al 100% dal MEF, entrambe realtà per le quali si è occupato di aspetti gestionali e non della cura dei singoli clienti. Inoltre, è opportuno evidenziare che, contrariamente a quanto si legge all’interno dell’articolo, nessun soggetto esterno può influire su alcuna nomina nell’attuale CDP. Ufficio Stampa di CDP
Dagospia il 12 agosto 2021. Dall'account twitter di Michele Arnese. Quindi per ogni pezzo su Cdp extra comunicati stampa, Scannapieco manderà lettere, note e spiegazioni ai giornali? Mah.
Dall'account twitter di Paolo Madron
Ad agosto succede di tutto. Anche che la vicenda di un ex fisioterapista mandi in tilt #Cdp, ovvero il bancomat dello Stato italiano
SUCCESSI E FLOP DEL FISIOTERAPISTA CHE HA SCALATO I VERTICI DI CDP
Estratto dell'articolo di Giuliano Foschini e Marco Mensurati per "la Repubblica" il 12 agosto 2021. La straordinaria ascesa di Fabio Barchiesi - l'ex fisioterapista del generone romano, da qualche settimana stimato manager nello staff dell'amministratore delegato di Cassa Depositi e prestiti - è stata per l'intera giornata di ieri l'oggetto preferito delle discussioni della Roma dei palazzi. Perché, a seconda della prospettiva dalla quale la si guarda, la sua storia assume caratteristiche diverse, seppur compatibili: è il sogno americano, il ragazzo di talento che lavorando studia e riesce a scalare con merito fino ad arrivare nel cuore del potere del Paese. Ma può essere anche la fotografia di una certa Roma: Villa Stuart, i circoli sul Tevere, la laurea all'università telematica, le feste alla villa di Sabaudia di Giovanni Malagò, le relazioni con la politica e con i palazzi. Fino ad arrivare a Cassa depositi e prestiti. […] Barchiesi […] comincia la sua carriera a Villa Stuart dove incontra per la prima volta il presidente del Coni, Malagò. Un incontro che gli cambierà la vita. […] a presentarglielo fu, dopo un infortunio, il professor Mariani, il luminare del ginocchio. […] Malagò lo consigliò così a una serie di amici ma immediatamente riconobbe in Barchiesi un altro tipo di talento: guardava oltre, era un manager. […] nel 2015 quando si apre una posizione all'Istituto di medicina dello Sport (che dipendeva dal Coni servizi e dunque da Malagò che ne era presidente), lo porta come responsabile «Business e Development». La carriera è fulminea nel 2017 è direttore organizzazione. Il 14 dicembre di quell'anno la svolta: il cda, guidato da Malagò, nomina Barchiesi dirigente. I titoli erano quelli giusti: aveva conseguito la laurea in Economia all'università telematica Unicusano e preso una cattedra, a contratto, alla Link, l'università di Vincenzo Scotti. Importante, visto il curriculum, era anche lo stipendio: 182mila euro tra parte fissa (140) e variabile (42). Sin dal suo ingresso in Coni servizi Barchiesi […] ha guidato Coni Sport Lab, il vecchio istituto di Medicina dello Sport. […] In realtà la società ha un solo dipendente, lui. E molti professionisti esterni come collaboratori. Come hanno spiegato da Cdp, Barchiesi viene scelto proprio «per la sua esperienza di manager che gli ha consentito di maturare solide competenze[…] ». I bilanci degli ultimi anni non sono stati però eccellenti. A oggi la perdita annua di Coni Sport Lab è di un milione e mezzo di euro […] Si dirà, è il Covid. Ma anche l'anno precedente non era andata meglio con una riduzione dell'11 per cento rispetto al 2018. Dove sono, quindi, quei grandi risultati che lo hanno portato nello staff dell'amministratore di Cassa depositi e prestiti? […]
UN MANAGER DI PROVATO VALORE. Lettera di Dario Scannapieco, Amministratore Delegato di Cassa Depositi e Prestitia, a "la Repubblica" il 12 agosto 2021. Gentile Direttore, con riferimento all'articolo "Il salto di carriera del fisioterapista di Malagò sbarcato al vertice di Cdp", stupisce dovere leggere sul Suo autorevole quotidiano - anche alla luce della Sua formazione e visione internazionale - un articolo con tante imprecisioni e con un approccio così capzioso e fuorviante come quello sul dott. Barchiesi. L'articolo, oltre a contenere diversi errori (il dott. Barchiesi è stato dal 2015 direttore del Coni Sport Lab e dal gennaio 2018 dirigente in una società controllata al 100% dal Mef, entrambe realtà per le quali si è occupato di aspetti gestionali, non delle cure di specifici clienti), è lesivo della professionalità di un dirigente che ha sempre investito nella sua formazione con umiltà e dedizione al lavoro. Questo risulta evidente guardando al suo percorso professionale, alle capacità organizzative, di risanamento e rilancio che ha dimostrato di possedere e ai risultati positivi, concreti e tangibili che ha ottenuto sia nella sua esperienza passata che in quella attuale. Questi sono i fatti che contano. Non altri, citati nell'articolo, che appartengono più che altro alla categoria del pettegolezzo estivo. Da ultimo, desidero rassicurarla sul fatto che nessun soggetto esterno possa influire su alcuna nomina nell'attuale Cdp. Tale modo di fare, al quale i Suoi giornalisti fanno riferimento, mi auguro faccia definitivamente parte del passato del Paese. Cordialmente, Dario Scannapieco
LA CDP DI SCANNAPIECO E IL FISIOTERAPISTA DI DRAGHI. Estratto dell'articolo di Marco Palombi per il "Fatto quotidiano" il 12 agosto 2021. […] La vita di Barchiesi cambiò quando - nella romana Villa Stuart - si trovo a mettere le mani sul presidente del Coni […] Malagò evidentemente vide qualcosa nel suo fisioterapista, tanto che lo portò con sé prima all'amato Circolo Aniene e poi al suddetto al Coni, dove regna dal 2013. Barchiesi, va detto, oltre a curare i dolori dei meglio nomi di Roma, si dà da fare: si laurea in economia all'università telematica Cusano, frequenta master alla Luiss e alla Bocconi, collabora con mezzo mondo, scrive articoli scientifici. E fa bene perché nel frattempo è assurto al ruolo di dirigente e persino alla direzione generale di Coni Sport Lab, guidato in un "processo di ristrutturazione, rilancio e riposizionamento strategico". È stato un tale successo che è proprio lì che, sotto l'occhio vigile di Barchiesi, va a fare fisioterapia lo stesso Draghi. Ora, come si passi dalla manipolazione di Malagò o del premier a un ruolo rilevante nella mega-holding pubblica non è chiarissimo […] A non dire che ha "decuplicato" i ricavi del Coni Lab, che è strategico nella politica industriale del Paese, che si fa - com' è noto - tra un convegno e un massaggio: è tanto vero che Malagò ha preteso, con un comma infilato alla chetichella in un decreto di fine gennaio, di far tornare al Coni la proprietà delle mura (non le funzioni) dell'Istituto, sottraendole all'odiata Sport e Salute, ex Coni Servizi. Purtroppo la rivoluzione fisioterapica di Scannapieco ha subito un piccolo stop: a fronte delle polemiche, Cdp ha annunciato che Barchiesi sarà affiancato da un "profilo tecnico", cioè Francesco Pettenati, economista e già capo di gabinetto di Scannapieco alla Bei, il quale però - a quanto risulta - non sa nulla di colpo della strega.
Cesare Galla per tag43.it - 18 giugno 2021. Alla fine dell’anno scorso, quando sono apparse nel decreto intitolato “Criteri e modalità per l’erogazione, l’anticipazione e la liquidazione dei contributi allo spettacolo dal vivo…”, quelle due righette sono passate inosservate. Non fosse stato così, magari un minimo di discussione ci sarebbe stato: in fondo si parla del delicato, assai complicato e spesso contestato meccanismo in base al quale vengono assegnate le sovvenzioni dello Stato allo spettacolo. E le righette in questione introducono una novità che almeno sul piano del metodo non è di poco conto. Dicono infatti (articolo 4, comma 8) che «Il ministro, su propria iniziativa, può in ogni caso sottoporre alle commissioni consultive competenti per materia il sostegno a progetti speciali che rappresentano eventi di eccezionale rilevanza». Si sancisce in questo modo – per quanto nell’ambito dei soli progetti speciali – una vera e propria discesa in campo sul piano artistico del ministro della Cultura, a questo punto titolato a indicare personalmente, e con tutto il peso del suo ruolo, che cosa gli sembra degno di sovvenzione. Un ruolo “tecnico” diverso da quello politico finora sempre ricoperto, dentro al quale naturalmente influenza, competenza (ove presente) e capacità di suasion avevano un loro peso, però mai così diretto e incisivo. Le due righette sono salite alla ribalta il 9 giugno, perché sono citate nel decreto di assegnazione dei fondi ai progetti speciali musica per il 2021.
Tra i 25 assegnatari dei fondi speciali la Fondazione Ravenna Manifestazioni. Fra i 25 assegnatari che si sono divisi una dotazione di due milioni di euro, infatti, ce n’è uno che non è passato attraverso la trafila ordinaria delle istanze alla Direzione generale dello spettacolo (che in questo caso sono state 189). Si tratta della Fondazione Ravenna Manifestazioni, il cui progetto – si legge nel decreto – «ai sensi di quanto previsto dall’art. 4 comma 8 del decreto ministeriale 31 dicembre 2020» è passato prima per l’ufficio del capo di gabinetto di Dario Franceschini, e da questi, “d’ordine del ministro” è stato trasmesso alla Direzione generale dello Spettacolo, corredato dalla comunicazione «dell’intendimento del ministro di sostenere finanziariamente il suddetto progetto speciale […] tenuto conto dell’eccezionale rilevanza dell’evento». Si parla del concerto che l’orchestra giovanile Cherubini diretta da Riccardo Muti terrà nel Cortile d’Onore del Quirinale il 29 luglio, in occasione dell’incontro dei ministri della Cultura del G20.
Per il concerto della Cherubini al Quirinale stanziati 175 mila euro. L’episodio si inserisce nel quadro della ben nota sintonia esistente tra Franceschini e Muti, che assume sempre più spesso l’aspetto di una fervida collaborazione operativa. Le sovvenzioni destinate a quella che rimane pur sempre un’orchestra giovanile sono senza possibili confronti, mentre il ministro, di solito restio a queste uscite, non di rado offre testimonianza della sua attenzione presentandosi ai concerti della Cherubini. Ora, alla luce del comma 8 il suo sostegno trova modo di manifestarsi anche nei “progetti speciali”, esenti dai complessi passaggi legati alle ripartizioni del FUS, determinate dal complicato meccanismo degli algoritmi, delle valutazioni percentuali su quantità, qualità e sostenibilità economica. Considerare “progetto” un singolo concerto, sia pure inserito in un contesto di indubbio rilievo internazionale oltre che al massimo livello istituzionale italiano, denota un’idea di cultura in cui la visibilità dell’evento e il prestigio di chi assiste prevalgono sul contenuto e sul suo valore. Evidentemente non ha sollevato obiezioni la commissione consultiva Musica, che il 4 giugno ha esaminato la proposta fortemente sostenuta dal ministro. Alla fine dei dovuti passaggi, si è concretizzato un finanziamento speciale quanto il “progetto”: 175 mila euro. Non è dato sapere su quale base sia stata decisa questa cifra. In questa tornata di contribuzioni la superano solo i 250 mila euro assegnati alla European Union Youth Orchestra, che peraltro nello scorso autunno si era vista largamente sopravanzare proprio dalla Cherubini, destinataria in ambito extra Fus di quasi 700 mila euro.
Costa meno ingaggiare l’orchestra del Teatro Marinskij o dell’Accademia di Santa Cecilia. Oggi con molto meno di 175 mila euro si possono ingaggiare orchestre internazionali di prestigio e qualità indiscutibili. Ad esempio, il cachet dell’orchestra del Teatro Marinskij di San Pietroburgo diretta da Valery Gergiev, fondata in Russia nel 1783, non supera i 90 mila euro, se l’organico è sui 60 elementi. Se l’organico è più ampio, si sforano di poco i 100 mila euro. Per restare in Italia, un concerto dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, formazione di riconosciuta eccellenza, ha un prezzo che è meno della metà della sovvenzione ottenuta dalla Cherubini per suonare al Quirinale: 80 mila euro. Se poi si considera il mondo delle orchestre giovanili, le tariffe – è intuitivo – scendono decisamente e si arriva a costi per i musicisti che stanno fra i 20 e i 30 mila euro per concerto, calcolando anche un adeguato periodo di preparazione, fondamentale nella “mission” di una compagine di formazione. Le retribuzioni sono ridotte perché gli organici sono costituiti da giovani musicisti all’inizio della loro carriera, che stanno imparando a fare orchestra. In questo caso, il plusvalore non monetizzato (ma spesso notevole) è dato dalla possibilità di fare esperienze molto importanti, spesso insieme a direttori di grande valore. Fra questi, Muti non è un caso isolato: sono numerose le bacchette di alto prestigio meritoriamente impegnate con queste orchestre, in Italia e un po’ in tutto il mondo.
Per sostenere l’orchestra giovanile di Muti il ministero stanzia 1 milione di euro. In ogni caso, Dario Franceschini non ha dubbi e non sembra interessato a guardarsi attorno. La sua scelta è fatta: dopo l’extra Fus dello scorso autunno, e prima della sovvenzione senza possibili confronti sul normale mercato al progetto speciale Quirinale, a fine 2020 è apparsa sul sito del ministero una slide nella quale si annuncia «un milione di euro a partire dal 2021 per sostenere l’orchestra giovanile Cherubini fondata da Riccardo Muti». Il ministro sta con la Cherubini. L’esistenza di altre orchestre giovanili non lo riguarda. Se vogliono, se hanno le carte in regola, possono provare a chiedere un contributo alla Direzione generale dello Spettacolo, non è detto che non ottengano qualcosa. Ne conosco una, assai valida, che fruisce di una sovvenzione statale di 80 mila euro. All’anno. Però è vero: ancora nessuno l’ha invitata, o mandata, a suonare al Quirinale.
(Adnkronos il 28 luglio 2021) - ''Nello svolgimento delle mie funzioni presso Leonardo naturalmente mi asterrò dal partecipare a qualsiasi attività connessa alle materie concernenti la delega di governo attribuita a mio padre relativa allo Spazio e al Dipe''. E' quanto dichiara Simone Tabacci, figlio del sottosegretario Bruno, a seguito degli articoli apparsi tra ieri sera e questa mattina su alcune testate giornalistiche.
Leonardo: "Simone Tabacci assunto come quadro dopo selezione". (ANSA il 28 luglio 2021) - ROMA, 28 LUG - "In merito alle indiscrezioni riportate oggi da alcuni media, relative all'assunzione del dott. Simone Tabacci con la qualifica di quadro nell'ambito delle attività di Merger & Acquisition" Leonardo precisa con una nota: "In data 4 novembre 2020 l'azienda ha affidato a una società di recruiting esterna la selezione di uno o più profili con esperienza internazionale nell'ambito dell'M&A. Il processo selettivo ha portato alla individuazione di sette candidature in possesso dei requisiti richiesti. I colloqui avviati il 17 novembre 2020 hanno portato, attraverso successivi passaggi di selezione, alla scelta di due risorse da inserire nella struttura di Chief Strategic Equity Officer: nello specifico un dirigente e un quadro. Il dirigente è stato inserito in organico in data 15 marzo 2021 e il quadro (nella fattispecie Simone Tabacci) in data 1 luglio 2021". (ANSA)
DAGONEWS il 28 luglio 2021. Ieri, verso ora di pranzo, Bruno Tabacci è stato portato via in ambulanza da palazzo Chigi. Forse un calo di pressione o forse l'eccessiva gioia per l'assunzione del figlio a Leonardo, fatto sta che è stato necessario l'intervento dei medici. Chi c'è dietro la decisione di portare il rampollo Simone Tabacci a lavorare nel colosso della Difesa con uno stipendio inferiore a 100 mila euro? Per il quotidiano "Domani", la decisione è figlia dell'Ad Alessandro Profumo e del suo entourage. Quel che è certo è che Mario Draghi, di cui Tabacci padre è collaboratore e sottosegretario, non era stato neanche informato. E infatti a palazzo Chigi a qualcuno sono girati - e molto - gli zebedei. L'eterno Tabacci era già balzato agli onori della cronaca anche per la consulenza milionaria a Invitalia del fantastico Domenico Arcuri, concessa appena 10 giorni dopo la sua nomina a sottosegretario (10 marzo), a totale insaputa di Draghi, e per la scelta di chiamare come consulente l'ex ministro Elsa Fornero...
Estratto dell'articolo di Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 28 luglio 2021. Leonardo, il nostro colosso degli armamenti, qualche giorno fa ha assunto Simone Tabacci. Domani ha scoperto che non si tratta di un manager qualsiasi, ma del figlio di Bruno, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro del premier Mario Draghi, che ha deleghe fondamentali per la programmazione economica del governo e ha voce in capitolo, come vedremo, anche sulla strategica partecipata di Stato. La decisione, a quanto pare, è stata presa dall’amministratore delegato Alessandro Profumo e dai suoi uomini più fidati, che […] hanno piazzato il 49enne nella divisione chiamata Chief strategic equity officier, oggi guidata da Giovanni Saccodato. Un ufficio-chiave della multinazionale, dove si coordinano tutte le partecipazioni e delle joint venture strategiche della spa romana di Piazza Montegrappa. […] Il conflitto d’interesse è infatti triplice: non solo Tabacci padre è onorevole di Centro democratico e tra i principali consiglieri economici di Draghi di cui è amico personale «dai primi anni ‘80» come lui stesso ha raccontato, ma quattro mesi fa ha ottenuto dal premier anche le deleghe alle politiche aerospaziali italiane. Un comparto fondamentale per l’ex Finmeccanica, curato dalla divisione dove è stato assunto il figlio di Tabacci. Non a caso Saccodato, che la guida, è presidente del cda di Thales Alenia Space e vicepresidente di Mbda e Telespazio.
[…] voci aziendali segnalano che, anche se il figlio del sottosegretario è entrato in azienda pochi giorni fa, la selezione del posto si sarebbe conclusa prima della caduta del Conte I, quando Bruno era semplice deputato (assai attivo nella ricerca di “responsabili” per salvare la maggioranza M5S-Pd) ma senza le deleghe pesanti che ha oggi con Draghi. L’entourage dell’ad non sembra preoccupato nemmeno dal fatto che nei palazzi sia notorio il rapporto antico tra Profumo e Tabacci senior, che pochi giorni fa erano insieme al workshop dell’Agenzia spaziale italiana. La stima tra i due è cementata da lustri di amicizia e rispetto reciproco, tanto che nel settembre del 2011 l’ex democristiano, durante un confronto alla festa di Alleanza per l’Italia di cui era animatore politico insieme a Francesco Rutelli, rivolse al banchiere parole al miele: «[…] Uomini come Alessandro Profumo, persona libera e indipendente, devono cominciare a dare una mano alla politica. Devi sporcarti le mani, questa è la sfida per uomini come te!». […] […] La vicenda dell’assunzione del figlio, però, potrebbe mettere in dubbio la necessaria terzietà dell’azione di governo nei confronti di una multinazionale strategica, i cui vertici dipendono direttamente dall’esecutivo. Per la cronaca la carriera professionale di Simone, che prima di entrare in Leonardo lavorava in Wimmer Financial (una banca d'investimento londinese […]) si è già intrecciata in passato con faccende politiche che avevano al centro il celebre papà. Era il 2011 e Bruno, al tempo assessore del Bilancio a Milano della giunta Pisapia, fu tra i protagonisti del merge tra la Sea, l’azienda che controllava gli scali di Malpensa e Linate, e il fondo privato F2i che acquistò le quote del comune meneghino. Anche allora qualcuno alzò un sopracciglio quando si scoprì che Simone era dirigente di Alerion, una società partecipata dal fondo F2i. Le polemiche scemarono però subito, quando Alerion spiegò ai media che Tabacci junior collaborava con loro dal lontano 2001, mentre l’assessore precisò come «mio figlio ha una certa età e totale autonomia, io non mi sono mai occupato delle sue cose». Probabilmente è vero, così come è probabile che Simone sarà un bravissimo quadro a Leonardo. Ma per il governo tutto e sottosegretario di Draghi le questioni di opportunità, nell’assunzione del rampollo, restano inevase.
Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 30 luglio 2021. Bruno Tabacci, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ha passato qualche ora complicata. L’inchiesta di Domani che ha rivelato come il figlio fosse stato assunto da Leonardo, non è piaciuta affatto al premier Mario Draghi e al ministro dell’Economia Daniele Franco, che hanno chiesto conto della vicenda sia al leader di Centro democratico sia ad Alessandro Profumo, ad del colosso degli armamenti. Draghi, infatti, non sapeva nulla di un’assunzione politicamente e mediaticamente sensibile, dal momento che Leonardo è realtà controllata dallo stato, e soprattutto perché lo stesso Tabacci ha ottenuto proprio dal premier le deleghe sullo spazio, uno dei core business dell’ex Finmeccanica e del dipartimento “Chief Strategic Equity Officer” dove è entrato il rampollo con uno stipendio da 80-90 mila euro l’anno. Domani ha però scoperto un’altra vicenda, che risulta quantomeno anomala: Tabacci si è infatti adoperato nelle scorse settimane affinché l’Agenzia spaziale italiana – ente che dipende anche anche dal dipartimento per la programmazione economica dopo la scelta di Draghi di spogliarsi delle deleghe spaziali – assegnasse un progetto di ricerca retribuito al capo della segreteria tecnica del sottosegretario, il giornalista-avvocato Carlo Romano. Dal 2004 portavoce di Tabacci e da tempo tesoriere del partito centrista Centro democratico, Romano è adesso a palazzo Chigi insieme con il suo mentore che l’ha voluto capo dello staff. All’Asi, secondo gli intendimenti, dovrà occuparsi di un compito assai delicato: il monitoraggio della spesa dei soldi che arriveranno, grazie al Recovery fund, all’agenzia spaziale. Si tratta di circa 2,3 miliardi di euro. Ma come mai il presidente dell’Asi Giorgio Saccoccia ha scelto proprio Romano e non un tecnico specializzato? Contattato, Saccoccia dice: «Chi le ha dato il mio numero? Non posso rispondere a cose di questo tipo al telefono. Lei sta dicendo che ho annunciato un progetto di ricerca di Carlo Romano durante il mio cda? Guardi che è molto grave, lei mi sta dicendo cose che sono accadute nel mio consiglio di amministrazione, è gravissimo! Devo fare interventi pesanti. Stia attento! Ma da chi ha ricevuto queste informazioni? Me lo deve dire!». A domanda specifica, ossia se esiste o meno un rapporto di lavoro tra l’Asi e l’uomo di Tabacci, Saccoccia aggiunge: «Io non capisco bene che mi sta chiedendo. Allora io le dico che non ho fra i miei dipendenti Carlo Romano, in questo momento. Informatevi meglio prima di scrivere qualcosa sui giornali, create solo disturbo. Prenda informazioni più chiare, prossima volta si prepari meglio, come si permette di chiamare il presidente dell’Asi, chiami l’ufficio stampa non me. Comunque di Romano ho grandissimo rispetto per lui, è una persona di altissimo livello». Per svelare l’arcano, ossia che tipo di collaborazione si sta studiando tra il tesoriere del partito di Tabacci e l’Asi, contattiamo dunque il sottosegretario. Che ci dice solo che il suo fedelissimo, «se e quando inizierà a collaborare con Asi, non farà purtroppo più il capo della mia segreteria tecnica. Ove questo accadesse, mi auguro almeno mi mantenga il saluto». Insomma, secondo Tabacci spostare all’agenzia spaziale Romano sarebbe, per il giornalista, un sacrificio. Il giallo viene svelato dallo stesso tesoriere del Centro democratico. Modenese doc, già capo ufficio stampa dell’ex presidente del Csm Michele Vietti e “ghostwriter” istituzionale di alto livello, Romano scrive nel curriculum di essere stato anche presidente dell’associazione “I Volenterosi”, animata un tempo dal solito Tabacci e da Daniele Capezzone. Lo stesso nome, per la cronaca, usato dall’allora premier Giuseppe Conte nel gennaio scorso, quando tentò di arruolare (anche con la sponda del deputato Tabacci) parlamentari “responsabili” che votassero la fiducia al suo governo avvitato verso la crisi. Nessuna esperienza nell’aerospazio né in campo di monitoraggio economico. «Le confermo che esiste la possibilità concreta che io vada all’Asi, con un contratto a progetto che non ho ancora firmato, ma che sarà nel caso della durata di tre anni con una retribuzione, credo, di 80mila euro l’anno. Non ho ancora letto il contratto» spiega Romano a Domani. «Mi occuperò di monitoraggio della spesa dei 2,3 miliardi che arriveranno per l’aerospazio dai fondi del Pnrr. Conflitti di interesse? Non ne vedo. Nell’ipotesi che io vada all’agenzia spaziale, un minuto prima infatti concluderei il mio attuale contratto alla presidenza del Consiglio. Lascerei naturalmente anche il ruolo di tesoriere in Centro democratico. Ho già identificato un sostituto. Segnalo poi che i soldi che arriveranno sono di competenza del Dipartimento per la programmazione economica, che fa capo proprio a Tabacci. È il sottosegretario, di sua sponte, che ha deciso di girarli all’Asi per una gestione più funzionale». Al Dipe, spiegano altre fonti dell’entourage di Tabacci, non ci sarebbero infatti competenza specifiche sul settore aerospaziale, e dunque bisognerebbe fare nuove assunzioni di personale per spendere bene quei denari. «Ecco perché il sottosegretario ha deciso di darli direttamente all’Asi». Insomma, il contratto triennale non ancora firmato non sarebbe stato pensato per mettere un suo uomo a guardia della cassa, come sospetta qualcuno, ma solo per risparmiare. «Non credo che molti altri politici rinuncerebbero a gestire somme così importanti» conclude Romano «io non dovrei per forza andare all’Asi per gestire questi soldi, avrei potuto occuparmi di coordinare le spese dell’aerospazio anche come capo della segreteria tecnica del capo del Dipe. A questo punto, visto l’attenzione mediatica che lei sta dando, non so nemmeno se mi interessa davvero più andarci. Posso anche restare al Dipe, dove possiamo alla fine mantenere i fondi». Dunque, lo spostamento all’Asi non sarebbe affatto cosa anomala. Molti, all’agenzia spaziale, non sono però entusiasti del possibile arrivo del segretario. Credono infatti che quattro mesi di esperienza contabile siano troppo pochi per un giornalista per aver imparato a monitorare a perfezione somme così rilevanti in un settore strategico per il paese. Alcuni, infine, non hanno apprezzato il metodo del presidente Saccoccia: la chiamata di Romano sarebbe infatti diretta, senza bando pubblico e senza selezione. Secondo fonti interne, un’imposizione politica de facto. Nemmeno a palazzo Chigi, dove Tabacci e Draghi non si parlano da quando l’ex democristiano ha nominato in un comitato di consulenti l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero senza avvertire il premier, sanno nulla della gestione dei 2,3 miliardi previsti per l’aerospazio, né del possibile contratto a progetto del portavoce del leader di Centro democratico. Negli uffici di Draghi cadono tutti dal pero. Esattamente come per la vicenda dell’assunzione del figlio a Leonardo. Tabacci ha però sempre avuto un profilo autonomo: adesso se ne stanno accorgendo tutti. Anche il presidente del Consiglio.
Conte e i silenzi grillini sull'assunzione del figlio di Tabacci. Luca Sablone il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. Come mai l'ex premier e il Movimento 5 Stelle non commentano la vicenda? "La selezione si è conclusa quando c'era la ricerca dei responsabili per salvare Conte". Se il Movimento 5 Stelle fosse ancora quello degli anni duri e puri contro la casta e le poltrone, per domani sarebbero state già programmate manifestazioni in tutte le piazze d'Italia. E invece, almeno per il momento, i grillini e il loro leader in pectore Giuseppe Conte hanno preferito tacere in merito al caos che si è creato sull'assunzione del figlio di Bruno Tabacci. Il 49enne Simone può vantare ora di essere stato inserito in organico come quadro, dal primo luglio 2021, nella divisione chiamata Chief strategic equity officier di Leonardo. Ma a cosa è da ricondurre il mutismo del M5S? Anche se il figlio di Tabacci è entrato in azienda pochi giorni fa, la selezione del posto si sarebbe conclusa prima della caduta del governo Conte. Il che è stato confermato proprio da Leonardo: in una nota viene spiegato che il 4 novembre 2020 l'azienda ha affidato a una società di recruiting esterna la selezione di uno o più profili con esperienza internazionale, per poi avviare i colloqui dal 17 novembre. Dal punto di vista temporale, Tabacci era semplicemente un deputato senza le deleghe "pesanti" che ha oggi con l'esecutivo Draghi. Il giornalista Emiliano Fittipaldi ha fatto tuttavia notare un dettaglio di non poco conto. "Bruno era assai attivo nella ricerca di 'responsabili' per salvare la maggioranza M5S-Pd", si legge nell'articolo che porta la sua firma. Va ricordato infatti che, prima dell'approdo di Mario Draghi a Palazzo Chigi, l'avvocato Conte ha provato a tenersi stretto la poltrona provando a puntare sui "pontieri europei". Un tentativo che dal punto di vista politico si è rivelato del tutto fallimentare. A denunciare l'immobilismo del Movimento 5 Stelle sul tema è stata la Lega. Massimo Candura, vicepresidente in commissione Difesa a Palazzo Madama, ha sottolineato come a oggi Enrico Letta e Giuseppe Conte - sempre pronti per prendere le distanze e commentare le mosse di Matteo Salvini - non hanno ancora proferito parola: "Nella grottesca vicenda dell'assunzione del figlio di Tabacci in Leonardo, ciò che colpisce è l'assoluto silenzio del Pd e dei 5 Stelle rispetto a quello che pare un conflitto d'interessi in piena regola. Un vuoto assordante e per certi versi imbarazzante". La questione relativa all'assunzione del figlio di Tabacci è stata toccata anche nel corso dell'incontro tra Salvini e Draghi: il leader del Carroccio ha fatto sapere che nel faccia a faccia ha detto al presidente del Consiglio che la vicenda Leonardo-Tabacci "non mi sembra di buon gusto". All'ex ministro dell'Interno non è andato giù neanche il ritorno di Elsa Fornero: "Non mi è piaciuto che sia stata presa come consulente dal sottosegretario Tabacci. Poi peraltro, io non commento vicende familiari, ma emerge che una grande azienda di Stato come Leonardo abbia appena assunto il figlio di questo sottosegretario che riprende la Fornero e anche Arcuri".
Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri.
Cécile Kyenge, assunta come medico di base viene contestata dall'Ordine: "Procedure non rispettate". Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 04 luglio 2021. Lei si difende («Ho accettato per dare una risposta ai cittadini»), l'Ordine dei medici insorge («Non sono state rispettate le procedure»): è polemica, a Padova, perché l'ex ministro all'Integrazione del governo Letta, la dem Cécile Kyenge Kashetu, è stata assunta come medico di base nel quartiere Torre, che peraltro da circa sei mesi è alla ricerca di un camice bianco. Premessa: qui nessuno ce l'ha con Kyenge. Che i dottori di famiglia siano sempre di meno, a causa dei pensionamenti fisiologici e di un turn-over insufficiente a coprire le nuove carenze, è un problema che Libero solleva da tempo. «Non intendiamo farne un caso personale, tra l'altro la sua non è l'unica pratica sulla quale abbiamo avanzato dei dubbi», chiarisce Domenico Crisarà, il presidente dei medici padovani. Però le regole, in genere, servono a tutelare e a garantire la gente, così come i procedimenti istituzionalizzati: «Il punto è - continua, - che la dottoressa Kyenge non ha i titoli per fare il medico di famiglia». Nello specifico: si diventa medico di base dopo un corso di formazione che dura tre anni o se si è conseguita un'apposita abilitazione prima del 31 dicembre del 1994: «Lei - dice Crisarà, non ha né l'uno né l'altra». Ma allora come è possibile che, in piena pandemia, l'ex eurodeputata del Pd abbia firmato un contratto in questo senso con l'azienda sanitaria padovana? «Alla procedura ordinaria sono previste alcune eccezioni», raccontano dall'ordine di categoria: «Se nel distretto di cui si parla si conta un numero di pazienti superiore a quello che può essere assorbito dai medici già impiegati sul territorio, si può procedere con un incarico provvisorio. Lo scopo è quello di salvaguardare il diritto alla salute delle persone». Tutto a posto, dunque? No, perché Crisarà continua: «In questo caso, però, la deroga deve passare al vaglio del comitato aziendale. E non è stato fatto, tant' è che il provvedimento che ha impiegato Kyenge nell'organico dei medici di base di Torre è arrivato con un giorno di anticipo sulla riunione fissata per questa stessa assise». Intendiamoci, di medici ce n'è sempre bisogno. In tempo di coronavirus, poi, non è neanche da ripeterselo: ce l'ha insegnato la pandemia quanto siano importanti tutti i dottori che si mettono in prima fila. «Tuttavia i sistemi di garanzia dovrebbero funzionare anche nelle emergenze. Ci stiamo semplicemente chiedendo se la sua assunzione, così come altre due che hanno seguito un iter molto simile, sia stata veramente necessaria». Cécile Kyenge svolge già, a ben vedere, un ruolo molto delicato nella sanità veneta: fa la guardia medica nella stessa provincia di Padova. «Ho accettato per assicurare continuità nel servizio e superare il disagio che s' era creato» aveva risposto lei dicendo sì, pochi giorni fa, a questa offerta di lavoro che, adesso, la porterà in ambulatorio due giorni a settimana per un anno intero. Kyenge subentra a un collega dopo che già un'altra sostituta aveva rinunciato al posto. «La sua specializzazione è in oculistica- prosegue Crisarà, - il che va benissimo, ma non è lo stesso che avere un professionista formato nello specifico sulle questioni di Medicina generale». Infine c'è un ulteriore aspetto che, a Padova e dintorni, proprio non va giù: l'ex ministro gira con una scorta di sette uomini che la seguono come un'ombra. «Non c'è niente di male ed è assolutamente legittimo, ma sono anni che noi lamentiamo aggressioni e insulti durante le ore lavorative. Qualche tempo fa avevamo chiesto alle autorità di essere dotati di un braccialetto gps collegato alle stazioni di polizia in modo che, qualora uno di noi venisse maltrattato, avrebbe potuto avvertire immediatamente le forze dell'ordine. Su quel fronte non è mai stato fatto nulla». Suona un po' come una frecciatina, ma il dottore specifica subito: «Ancora, non è un affondo alla dottoressa Kyenge. Non vogliamo fare strumentalizzazioni. Solo ribadire che anche le guardie mediche rischiano ogni giorno, sarebbe il caso di avere più attenzione per tutti».
Luigi Di Maio assume il suo amico Dario De Falco al ministero degli Esteri. Mauro Munafò su L'Espresso il 17 maggio 2021. Si tratta del compagno dei tempi del liceo a Pomigliano, in passato già suo capo segreteria a Palazzo Chigi ma rimasto senza lavoro con la fine del Conte 2. E ora lo staff del 5 Stelle costa oltre 640mila euro. Cambiano i governi, ma gli amici non si dimenticano. Dopo essere riuscito a tenersi la sua poltrona di ministro degli Esteri anche nel governo Draghi, Luigi Di Maio ha avuto successo anche nel garantire un posto nel Palazzo a chi ormai da anni lo affianca nelle avventure romane. Ad appena cinque giorni dall'insediamento di Mario Draghi come nuovo presidente del Consiglio, Luigi Di Maio il 18 febbraio scorso ha infatti emanato un decreto ministeriale con cui ha riportato alle sue dipendenze l'amico di gioventù Dario De Falco. Per lui alla Farnesina un posto da 80mila euro annui fino alla fine del mandato governativo con l'incarico di “Consigliere del Ministro per le relazioni esterne in ambito nazionale”. Si tratta del terzo incarico romano per De Falco, fedelissimo di Di Maio e suo compagno al liceo classico Imbriani di Pomigliano D'Arco. Il primo incarico risale al 2018, quando De Falco venne assunto come Capo della Segreteria particolare di Di Maio a Palazzo Chigi, nello staff del vicepresidente del Consiglio del primo governo Conte: per lui un emolumento di circa 100mila euro annui. Con la caduta dell'esecutivo gialloverde e la “perdita” dell'incarico di vicepremier per Di Maio, De Falco è rimasto a Palazzo Chigi, spostandosi nello staff del sottosegretario di Stato Riccardo Fraccaro (sempre 5 Stelle) come consigliere per le questioni istituzionali e mantenendo lo stesso stipendio di 100mila euro annui. Il passaggio al governo Draghi ha invece riportato De Falco dall'amico Di Maio, con una piccola riduzione di stipendio e un posto alla Farnesina. Dario De Falco questa estate sembrava invece sul punto di abbandonare i palazzi romani per tornare a fare politica a Pomigliano. In un primo momento era stato infatti indicato come candidato sindaco per il Movimento 5 Stelle ma, in seguito a un accordo tra pentastellati e Pd, ha fatto un passo indietro agevolando la vittoria del candidato di coalizione Gianluca Del Mastro, eletto appunto primo cittadino della città campana. L'assunzione di De Falco porta a nove i membri dello staff di diretta collaborazione di Di Maio alla Farnesina, per un totale di circa 640mila euro annui. Una cifra sensibilmente superiore rispetto a quella spesa dei suoi predecessori alla Farnesina, come già scritto in passato dall'Espresso.
DAGONEWS il 12 maggio 2021. "No friend must be left behind", gli amici non si lasciano indietro. Il motto sembra addirsi molto ai "trombati di lusso" del Movimento Cinque Stelle. Come avveniva in quei vecchi partiti di cui dicevano di combattere le malefatte, i grillini sistemano sistematicamente quanti dei loro, per una ragione o per un'altra, perdono la poltrona, offrendo alle loro terga delle adeguate sistemazioni. Lo sa bene Filippo Nogarin, ingegnere ed ex sindaco di Livorno pentastellato. Dopo essere arrivato primo dei non eletti alle ultime elezioni europee, il suo amico storico, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà gli offrì una consulenza nel proprio ufficio. Poco dopo, anche Virginia Raggi si ricorda di lui: nel giugno 2020, nota Wikipedia, il sindaco di Roma lo nomina consulente al bilancio all'interno della sua giunta. Ma Nogarin deve essere davvero preziosissimo: sarà per questo che un altro suo compagno di partito, Nicola Morra, lo ha nominato nei giorni scorsi "collaboratore" della Commissione parlamentare Antimafia. Non c'è che dire! D'altra parte, Nogarin non è il primo fedelissimo che non viene lasciato "behind". Basta ricordare Giorgio Sorial, l'ex deputato M5S considerato fedelissimo di Luigi Di Maio e non rieletto in questa legislatura. Quando Stefano Patuanelli, di cui era vicecapo di gabinetto e strettissimo collaboratore al Mise, è traslocato al ministero dell'Agricoltura, Sorial non è rimasto a piedi: viene subito "collocato" da Giggino: un decreto del governo su proposta del ministro degli Esteri ha indicato stato indicato il 37enne Sorial per il CdA della Società del Traforo del Monte Bianco. Al suo fianco in quel Consiglio siedono i manager di Autostrade per l’Italia, società controllata dalla famiglia Benetton che possiede il 51% delle quote della società pubblico-privata fondata nel lontano 1957 per gestire la parte italiana del tunnel che separa l’Italia dalla Francia. Quanto tempo è passato da quando, il 12 novembre 2013, Sorial espose assieme alla collega Laura Castelli, oggi viceministro dell’Economia, una bandiera No Tav a Montecitorio…
Da vigilanzatv.it il 26 aprile 2021. Coglierà molti di sorpresa la notizia che il Direttore di Rai1 Stefano Coletta, con la sua aria stazzonata e impegnata da frequentatore di cinema d’essai di estrema sinistra, sia in realtà nipote di Lina Coletta, potentissima segretaria nientemeno che del potentissimo Gianni Letta, zio dell’attuale Segretario del Pd Enrico e soprattutto storico collaboratore e consigliere privilegiato di Silvio Berlusconi. A Viale Mazzini, donde ci giunge l’indiscrezione, solo una manciata di persone è a conoscenza del legame tra il vertice dell’Ammiraglia Rai e la signora Lina più volte citata nei libri di Bruno Vespa quale nume tutelare di Gianni; nel 2010 “graziosamente elevata” (cit. Primo Di Nicola) al rango di superdirigente generale di Palazzo Chigi durante il Governo Berlusconi IV, quando Letta era Segretario del Consiglio dei Ministri con delega ai Servizi Segreti e alle Autorità amministrative indipendenti. Quella Lina Coletta che Claudio Velardi, sempre parlando di Gianni Letta, definiva: “un suo clone […] una persona che con intelligenza ha appreso come si smista il traffico del potere. E non solo. Perché il vero uomo ombra sa trasferire potere e autorità, funzioni”. A sottolineare il ruolo determinante che, a fianco di uno degli uomini più influenti della Storia del nostro Paese, riveste la fidatissima collaboratrice. Originaria, così come la famiglia di Stefano Coletta, del paesino di Roio Del Sangro in provincia di Chieti, in Abruzzo, regione che ha dato i natali – precisamente in quel di Avezzano – allo stesso Gianni Letta. Su cotanta e blasonata parentela da parte del Direttore di Rai1, regna il riserbo più assoluto e in rete esiste solo un commento a conferma di tale agnizione: tre-quattro righe anonime a corredo di un articolo al vetriolo sul sito web di Guido Paglia, che ha ricoperto il ruolo di Direttore Comunicazione, Relazioni Esterne e Istituzionali in Rai dal 2002 al 2012 (da notare le date significative). Insomma, così come Gabriele D'Annunzio aggiunse "un'ala" al nome di Amalia Liana Cambiasi tramutandola nella celebratissima Liala, anche la nostra rivelazione raddoppia il suffisso "Letta" in quello di Stefano Coletta. Buttalo via!
L'ex sottosegretario M5S Michele Dell'Orco assunto al Ministero dell'Interno dall’amico Carlo Sibilia. Deputato dal 2013 al 2018 e poi bocciato alle elezioni, era entrato nel governo Conte I nel dicastero di Danilo Toninelli. E ora dopo un anno ai box, un nuovo contratto per lui da un altro compagno di partito. Mauro Munafò su L’Espresso il 27 aprile 2021.Nessuno resterà indietro, recitava uno degli slogan del primo Movimento 5 Stelle. E in effetti, almeno quando si parla di esponenti ed ex deputati pentastellati bocciati alle urne, molti hanno trovato una poltrona nei palazzi o nei loro dintorni. L'ultimo caso è quello di Michele Dell'Orco, appena assunto al Ministero dell'Interno come collaboratore del sottosegretario in quota Movimento 5 Stelle Carlo Sibilia. Con un decreto ministeriale del 3 marzo sono stati infatti nominati i nuovi membri degli uffici di diretta collaborazione del Viminale. Si tratta di personale di fiducia scelto con nomina diretta dai politici per lavorare al loro fianco e, come tali, il loro contratto dura solo fino alla permanenza di quel politico nel dicastero. Tra questi compare proprio anche Dell'Orco, con un contratto fino alla fine del mandato governativo, alla cifra di 32mila euro annui.
Grazie al nuovo incarico, Dell'Orco riprende il suo lavoro nei palazzi governativi. Eletto per la prima volta in Parlamento nel 2013, il pentastellato modenese era stato uno dei pochi a fallire la riconferma nel 2018 in quelle elezioni politiche che hanno visto un boom per i consensi del Movimento. Poco male: per lui era arrivata la chiamata di Danilo Toninelli che lo ha portato a lavorare come sottosegretario al ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture. Con la caduta del primo governo Conte e l'arrivo al Mit di Paola De Micheli al posto di Tonelli, si è conclusa anche l'esperienza di Dell'Orco, rimasto però molto attivo pubblicamente nel difendere le varie svolte governiste pentastellate. E ora premiato con un piccolo incarico.
Il caso di Dell'Orco si aggiunge alla sempre più lunga lista di figure del Movimento 5 Stelle rimpiazzate in altri incarichi di palazzo dopo la sconfitta alle urne. Una pratica che nel 2012 il blog di Beppe Grillo definiva con indignazione «sistemare i trombati con incarichi di sottogoverno». Prima di questo caso infatti, i 5 Stelle arrivati al governo avevano già scelto nelle loro fila di collaboratori, pagati dai ministeri, molti attivisti bocciati al voto. Riccardo Fraccaro, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, aveva preso nella sua squadra (100mila euro annui) Antonio Trevisi, ex consigliere regionale in Puglia. Luigi Di Maio, quando era ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, aveva assunto l'ex parlamentare 5 Stelle Giorgio Girgis Sorial come suo vicecapo di gabinetto (110mila euro annui), affiancandolo al già candidato alle regionali in Friuli-Venezia Giulia Francesco Vanin. Vito Crimi, da sottosegretario con delega all'editoria, aveva invece preso come capo della segreteria l'ex parlamentare 5 Stelle non rieletto Bruno Marton. Più scalpore aveva invece fatto la carriera dell'ex Iena Dino Giarrusso, candidato e non eletto in Parlamento, assunto come consulente prima nello staff in regione Lazio di Roberta Lombardi e poi al Miur allora guidato da Lorenzo Fioramonti: incarichi poi lasciati con le elezioni nel Parlamento Europeo. Anche a livello locale la pratica un tempo tanto criticata dal Movimento 5 Stelle è stata applicata con una certa frequenza: nel comune di Roma, guidato dalla sindaca 5 Stelle Virginia Raggi, sono stati aggiunti a libro paga nei vari staff degli assessori l'ex sindaco di Livorno Filippo Nogarin (poi bocciato nella corsa al Parlamento europeo e da poco nominato amministratore delegato di una controllata di ferrovie dello Stato) e l'ex parlamentare Dario Tamburrano.
La storia dell'ex capo dei vigili di Milano Barbato. Le Iene News il 02 aprile 2021. Nel 2017 l’allora capo della polizia municipale di Milano, Antonio Barbato, si dimette dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Al suo posto il Comune nomina Marco Ciacci, fino ad allora in servizio presso la Procura. Ce ne parla Fabio Agnello. “Ho vissuto una storia molto brutta, che nessuno dovrebbe vivere in un paese come l’Italia”. A parlare con il nostro Fabio Agnello è Antonio Barbato, che fino al 2017 era il comandante della polizia municipale di Milano. In quell’anno però si dimette, dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Uno scandalo che ipotizzava un presunto coinvolgimento perfino delle cosche della criminalità organizzata: Barbato viene accusato di aver incontrato dei mafiosi al fine di far pedinare un vigile sotto il suo comando. Una notizia che ha fatto discutere molto in quei giorni e che è finita al centro della cronaca cittadina. “Io sono stato sentito in qualità di testimone”, ci racconta Barbato. In quell’inchiesta infatti l’ex comandante dei vigili non venne indagato, ma sentito come persona informata sui fatti. Ma sulla stampa le cose vengono presentate in modo molto diverso. “Questa è una cosa che mi fa impazzire e non mi fa dormire la notte, sapendo quello che c’è dietro a questa storia”, ci dice Barbato: “Cioè la sostituzione del comandante Barbato con l’attuale comandante Marco Ciacci”. Al posto di Antonio Barbato il Comune, guidato dal sindaco Beppe Sala, nomina Marco Ciacci, che fino a quel giorno era a capo della polizia giudiziaria della procura di Milano. Possibile che ci sia qualcosa che non torna in questo cambio alla guida della Polizia locale della città? La Iena ce ne parla nel servizio in testa a questo articolo.
Il patto tra Procura e sindaco. Scandalo Expo, così il sindaco Sala si è piegato alla Procura (e fu salvato…). Frank Cimini su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Stop and go. Il bastone e la carota. La magistratura da tempo è consapevole di poter aumentare il potere della categoria e anche quello del singolo magistrato sia facendo le indagini che non facendole. A seconda delle convenienze e delle opportunità con tanti saluti al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale tanto celebrato nei convegni e nei comunicati stampa. Bisogna raccontare di nuovo la storia di Expo, della moratoria sulle indagini per approdare a uno “strano” incidente stradale con un morto e senza alcol test e test antidroga, una storia da nomenklatura moscovita sulla quale i giornaloni oni-oni scelsero di autocensurarsi. Beppe Sala il sindaco di Milano, pronto a ricandidarsi e a essere confermato come primo cittadino per mancanza di avversari decenti al di là dell’alleanza con i Verdi europei che in Italia e in città non esistono, fu uno dei principali beneficiari della moratoria decisa dalla mitica procura che fu di Mani pulite per salvare l’evento. Senza fare gara pubblica, Sala deus ex machina di Expo affidò la ristorazione di due padiglioni a Eatitaly di Oscar Farinetti senza che in un primo momento nessuno dicesse niente. Poi l’anomalia chiamiamola così fu segnalata dall’Anac all’epoca diretta da Raffaele Cantone. Sala venne indagato per abuso d’ufficio e non fu mai interrogato fino alla richiesta di archiviazione. Così ebbe modo di candidarsi a sindaco e di essere eletto nonostante il gigantesco conflitto di interessi tra amministratore di Expo e Comune di Milano che qualcosa da spartire con l’evento l’aveva. La procura nella richiesta di archiviazione ammetteva che di fatto Sala aveva favorito Farinetti ma senza averne l’intenzione. Insomma una sorta di “a sua insaputa” di scajolana memoria. L’accusa di abuso d’ufficio venne archiviata dal gip. Il giudice che firmò il provvedimento era stato tra i vertici del Tribunale che sui fondi di Expo giustizia avevano deciso di non fare gare pubbliche per l’affidamento dei fondi, ricorrendo ad aziende «in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione». Una di queste aziende aveva sede nel paradiso fiscale del Delaware e ancora oggi non sappiamo a chi appartenesse. Ma possiamo affermare tranquillamente che la società non era di Silvio Berlusconi. Insomma Sala fu salvato anche perché aveva assunto la stessa iniziativa dei giudici, oltre che per non far saltare del tutto l’evento. Sui fondi di Expo giustizia nacque un fascicolo di indagine che per il sospetto fossero coinvolti dei giudici in servizio a Milano fece il giro di diverse procure, Brescia, Venezia, Trento. E qui venne tutto archiviato senza neanche iscrizioni al registro degli indagati e interrogatori perché cane non mangia cane. Qui tornano in mente le parole dell’allora premier Matteo Renzi che per ben due volte ringraziò la procura che aveva dimostrato senso di responsabilità istituzionale. Per aver falsificato la data della sostituzione di due componenti di una commissione aggiudicatrice Sala venne indagato solo perché era intervenuta la procura generale della Repubblica avocando l’inchiesta. La procura aveva fatto finta di niente. Alla fine il sindaco è stato condannato sia in primo grado sia in appello a sei mesi mutuati in una sanzione pecuniaria. Nel frattempo scattava la prescrizione alla quale il primo cittadino non ha legittimamente rinunciato. A nessun imputato si può chiedere né tantomeno imporre di farlo. È un principio di civiltà. In tutta questa storia non possiamo non ricordare che la giunta Sala designò a capo dei vigili urbani Marco Ciacci fino ad allora capo della polizia giudiziaria. Ciacci una sera dell’ottobre di tre anni fa piomba letteralmente sul luogo di un incidente stradale dove era stato investito, morendo, un medico. Responsabile dell’investimento con il proprio ciclomotore era stata Alice Nobili figlia dei due procuratori aggiunti Ilda Boccassini e Alberto Nobili. Come detto all’inizio niente alcol test né test antidroga. Risarcendo il danno (la somma sicuramente congrua è coperta legittimamente da clausola di riservatezza) la ragazza è stata condannata tramite patteggiamento a nove mesi per omicidio colposo. I giornali e le agenzie di stampa non diedero neanche la notizia della condanna. Pensate a cosa avrebbero e non avrebbero scritto nel caso in cui Piersilvio Berlusconi avesse tirato sotto un pedone. Ci pensò un povero blog, poi qualche quotidiano minore tornò sulla vicenda. Adesso grazie alla trasmissione delle Iene si ritorna a parlare della nomina di Ciacci. Sarebbe cosa buona e giusta che si riparlasse pure di Expo, celebrato come una sorta di miracolo economico ma di cui non conosciamo ancora i conti. Nonostante ciò i giudici per la storia del falso hanno riconosciuto a Sala l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Quel falso materiale e ideologico nella vicenda intricata e coperta da moratoria di Expo sarà sicuramente una quisquilia ma siamo sicuri spetti ai giudici affermare che l’evento fu un fatto tutto sommato positivo? Forse sì forse no. Aspettiamo i conti, la pipì fuori dal vaso non va bene mai soprattutto se fatta dai giudici chiamati a condannare o assolvere. E basta.
Lo scoop delle Iene sul caso Barbato. La Procura di Milano ha commissariato Sala: capo dei vigili cacciato e sostituito dall’uomo di fiducia della Boccassini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2021. È vero che nel 2017 nella città di Milano ci fu un accordo sotterraneo tra il sindaco, il procuratore della repubblica e un ex leader di Mani Pulite, per far fuori il comandante dei vigili urbani e sostituirlo con un agente di polizia giudiziaria, uomo di fiducia di Ilda Boccassini? E per quale motivo il Comune di Milano avrebbe dovuto essere tenuto a balia dalla polizia di Stato, o addirittura dall’antimafia? È la vittima in persona, quell’Antonio Barbato che fu braccato dai giornalisti e spintonato dal sindaco e dall’assessore finché stremato non accettò di lasciare il suo posto di capo della polizia urbana alla persona segnalata dalla procura, a raccontarlo. Alla fine, anche con un nodo in gola, al ricordo di quel che gli capitò. Una bomba di ventisette minuti, lanciata il venerdì di Pasqua dal programma delle Iene su una Milano già deserta alla vigilia dei tre giorni di zona rossa, destinata a un potente scoppio, anche se ritardato dai giorni di festa. Se scoppio ci sarà, visto il timore reverenziale (chiamiamolo così) che ormai pervade le redazioni al solo sentire i nomi di alcuni protagonisti. Di sicuro ci saranno le reazioni politiche da parte delle opposizioni a Palazzo Marino, già preannunciate da diversi consiglieri. Se fossimo in un’aula giudiziaria, e se ragionassimo con il metro di certi pubblici ministeri, alla sbarra ci sarebbero: Il sindaco di Milano Beppe Sala, il procuratore Francesco Greco, il presidente della “Commissione legalità” del Comune, Gherardo Colombo, ex divo di mani Pulite, l’ex assessore alla sicurezza Carmela Rozza. E se quanto raccontato nel super-documentato servizio delle Iene fosse anche solo rilanciato da una bella campagna stampa in stile Repubblica (le dieci domande) – Il Fatto (corsivo travagliesco) – Domani (imitazione degli altri due), un bel reato associativo agli imputati non lo leverebbe nessuno. Lasciamo parlare i fatti, un po’ come se nel processo italiano ci fosse davvero il rito accusatorio e la prova si formasse nel dibattimento. Il giornalista delle Iene Fabio Agnello ci ha lavorato per mesi, lo si capisce, e non ha tralasciato alcun indizio, né dimenticato di sentire alcun testimone. La parte lesa in primis, Antonio Barbato. Il quale racconta che, quando nel 2016 vinse il concorso e diventò comandante della polizia municipale milanese, l’assessore alla sicurezza Carmela Rozza (oggi consigliera regionale del pd) gli disse che era stato molto fortunato. Perché? Perché c’era stata una pressione da parte della Procura della repubblica perché a quel ruolo fosse nominato un altro, ma che il sindaco Sala non aveva potuto far niente perché ormai il posto era già stato assegnato a lui. L’ “altro”, quello segnalato dalla procura, si chiamava Marco Ciacci, era un agente di polizia giudiziaria assegnato al procuratore aggiunto Ilda Boccassini, allora capo del dipartimento antimafia (andrà in pensione nel 2019). A pensarci questo aspetto della vicenda è un po’ inquietante. All’interno del corpo dei vigili urbani milanesi esistevano all’epoca, a quanto documentato anche in una relazione dell’Anci, l’associazione dei Comuni Italiani, diverse posizioni adatte a quel ruolo, tredici per la precisione. E non va dimenticato che in passato Letizia Moratti e tutti gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei Conti proprio per non aver eseguito una ricognizione interna al Comune prima di nominare dirigenti esterni. Può anche essere una regola sbagliata, ma esiste. In ogni caso, per poter collocare a quel posto dirigenziale l’appartenente a un’altra amministrazione (come la polizia di Stato), il sindaco Sala avrebbe dovuto procedere a indire un altro bando. E forse chi in procura gli aveva chiesto quel favore avrebbe dovuto saperlo. In ogni caso in quel 2016 non successe niente e Ciacci rimase al proprio posto. Comunque sarà il caso, un anno dopo, a far virare il vento. E il caso porterà il comandante Barbato proprio a testimoniare, come persona informata dei fatti, davanti alla pm Boccassini. Certo, lui avrebbe preferito essere convocato per altri motivi, per un suo esposto. Perché, da bravo capo, si era allarmato sui comportamenti di un suo sottoposto, un sindacalista della Cisl di nome Mauro Cobelli, che esagerava nella richiesta di permessi , che capitavano quasi sempre di sabato e domenica piuttosto che in feste come quella del 2 giugno o dell’8 dicembre. Cobelli finirà in seguito rinviato a giudizio in un’inchiesta giudiziaria di nome “multopoli”, perché sospettato di far annullare le contravvenzioni agli amici. E ora, intervistato dalle Iene, prende tempo nel dare le risposte, senza trovare il modo di spiegare il perché di tutti quei permessi. Comunque il comandante Barbato aveva presentato il suo bell’esposto alla procura della repubblica di Milano che, al contrario di quanto accaduto in altre città dove le inchieste sui “furbetti del cartellino” spopolavano (a volte a sproposito) con arresti e licenziamenti, non aveva preso alcuna iniziativa. Fu a quel punto che la buona sorte del comandante Barbato cominciò a girare storta. Pensò infatti il tapino di chiedere consiglio a un altro sindacalista, Domenico Palmieri, un leader della Cisl molto conosciuto che lavorava in Provincia. I due si videro e si telefonarono. Palmieri la buttò lì: perché non lo fai pedinare da un investigatore privato? E lo sventurato rispose: meriterebbe questo e altro! Fu la fine. Palmieri era intercettato in un’inchiesta milanese chiamata “mafia appalti” (come quella siciliana che potrebbe aver segnato la fine di Paolo Borsellino), condotta da Ilda Boccassini, la quale sentì subito Antonio Barbato come persona informata sui fatti (una mezzoretta in tutto, ricorda lui), e la cosa pareva finita lì. Invece no, perché aleggiava sempre qualcosa di strano nell’aria. E perché qualcuno soffiò ai giornali la storia del (mancato) pedinamento. Parte da subito Repubblica, “Intercettati dall’antimafia, Barbato nei guai”, e poi “Milano, vigile pedinato dagli uomini del clan”, eccetera. L’assessore Rozza comincia a fare pressioni perché il comandante si dimetta. Lui non capisce: ma che cosa ho fatto? Non ho neanche poi raccolto quel consiglio sul pedinamento. Ed ecco che la stessa assessore –è il racconto di Barbato già reso pubblico in altre occasioni e mai smentito- gli dice chiaramente che il sindaco Sala sta passando un brutto momento perché indagato per reati connessi all’Expo e quindi non ci si può permettere di fare uno sgarbo alla Procura della repubblica. In poche parole: devi lasciare il posto a Ciacci. Questo è quanto lui intuisce, e la storia gli darà ragione. La situazione è molto delicata e Sala è in una posizione quanto meno imbarazzante. Perché la Procura di Francesco Greco vuol lasciar cadere le accuse nei confronti del sindaco e questo determinerà un clima conflittuale con la procura generale (proprio come nei giorni scorsi per il processo Eni), che avocherà a sé l’inchiesta fino a che il sindaco di Milano sarà condannato per falso ideologico e materiale e infine godrà di una prescrizione cui non rinuncerà. Ma cui aveva diritto, anche se la cosa non era piaciuta a Marco Travaglio, che da allora lo dardeggia ogni volta in cui è possibile. Ma sulla vicenda Barbato non fa certo una bella figura. Anche perché le parti più brutte di tutta la storia sono quelle che arrivano dopo. Il sindaco è in difficoltà, perché Barbato ha vinto il concorso, e nello stesso tempo, come si fa a dire di no a una richiesta della procura? Così passa la patata bollente a qualcuno che il Palazzo di giustizia lo conosce bene, Gherardo Colombo. L’ex pm di Mani Pulite è infatti il presidente di una Commissione legalità del Comune, di cui, se mi si consente, non si capisce perché debba esistere, quasi ci fosse il bisogno di controllare, in aiuto alla magistratura, se Palazzo Marino commette reati. Così Gherardo Colombo e la sua commissione, in nome della legalità, mostrano il pollice verso che porterà infine il povero Barbato alle dimissioni. Ma non dimentichiamo che quello delle Iene è un programma satirico. E come tale non può non notare il linguaggio usato nella condanna a morte. Un linguaggio quanto meno ipocrita. Ecco il motivo della sentenza della Commissione legalità: “il solo ipotizzare di poter accettare l’ipotesi di farlo seguire… è il contrario della correttezza”. Cioè Barbato, nella telefonata con il sindacalista Barbieri, di cui ignorava (come tutti) la vicinanza a una cosca, avrebbe ipotizzato di poter accettare un’ipotesi. Naturalmente, inseguito dal giornalista delle Iene, Colombo non dà oggi nessuna spiegazione per quella decisione, così come Sala, nervosissimo. Viene anche rimandata l’immagine dei quei giorni, quando lui diceva che Barbato l’aveva fatta grossa, mentre alle sue spalle il vigile Cobelli rideva. Tutti oggi paiono voler dimenticare. Tranne la vittima. Che ricorda. Volete sapere come finisce la storia? Attenzione alle date. Barbato si dimette il 10 agosto. Il giorno dopo, 11 agosto, Franco Ciacci ha già ottenuto il nulla osta del questore ed è il nuovo comandante dei vigili di Milano. Senza ricognizione interna al Comune e senza bando di gara. Mai successo. Barbato aspetta giustizia. “Si erano messi tutti d’accordo”, dice con la voce rotta dal pianto. Aspetta giustizia. Non l’ha avuta dal sindaco Sala, non l’ha avuta dal procuratore Greco, non l’ha avuta dal presidente della legalità Colombo. Ha inviato tutta la sua documentazione all’Anac, che ha inviato una relazione alla procura di Brescia. Chissà. Non avendo molta fiducia in una nuova campagna di stampa che vada in direzione contraria alla gogna che aveva subito quattro anni fa, spera che tutti i consiglieri di opposizione di Palazzo Marino, che ci avevano già provato invano allora, si facciano sentire oggi. In una situazione particolare, con il procuratore Greco che sta per andare in pensione e il sindaco Sala ricandidato alle prossime elezioni. Ma, chiunque sarà il prossimo sindaco di Milano e chiunque sarà il prossimo procuratore capo, non sarebbe ora di separare le loro carriere?
Lo scandalo. Marco Ciacci, il fedelissimo della Boccassini: teste contro Berlusconi, promosso senza concorso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Lui c’era. Non appena è partita in quarta Ilda Boccassini, pubblico ministero antimafia distolta improvvisamente da indagini complesse sulla criminalità organizzata al nord per occuparsi dei peccati di Silvio Berlusconi, lui c’era. E fu un importante testimone dell’accusa al processo Ruby, il vicequestore Marco Ciacci, responsabile della polizia giudiziaria al Palazzo di giustizia di Milano, oggi comandante dei vigili urbani. Bisognerebbe chiedergli se quel salto di carriera, un distacco avvenuto senza bando dopo molte pressioni da parte di ambienti della procura sul sindaco Sala, sia stato per lui un premio. Certo non è routine, che un vicequestore di polizia diventi comandante dei vigili, improvvisamente uomo di potere in una città come Milano. Ma premio per che cosa? Per capacità, per lealtà? Nelle indagini sul presidente del Consiglio si era dato molto da fare, in quei mesi del 2010: intercettazioni, controlli e pedinamenti su chiunque entrasse nella villa di Silvio Berlusconi in occasione di una serie di cene, diciassette per la precisione. Marco Ciacci era stato l’uomo-macchina di Ilda Boccassini e responsabile della polizia giudiziaria. E forse sei anni dopo, quando per la prima volta si ipotizzò un suo passaggio dal palazzo del Piacentini di corso di Porta Vittoria alla piazzetta Beccaria (proprio quella dove tanto tempo fa Pietro Valpreda era stato sospettato di aver preso un taxi per percorrere venti metri fino a piazza Fontana per mettere la bomba) dove è la sede della vigilanza urbana, un premio lo meritava proprio. Certo, quando il vicequestore Marco Ciacci arriva davanti alle tre giudici della settima sezione del tribunale di Milano, quelle che Berlusconi definiva “comuniste e femministe”, e non era un complimento, parte nel racconto dal 3 settembre 2010, quando l’aggiustamento delle date è già stato fatto. Con tradizionale sistema ambrosiano, che poi è parte di quello nazionale così ben descritto da Sallusti e Palamara nel famoso libro. Se l’ex leader del sindacato delle toghe da Roma si è fatto cecchino, imbracciando il fucile nei confronti del presidente del Consiglio, a Milano ci fu un intero plotone di esecuzione in quei giorni del 2010. Lo stile ambrosiano aveva già regalato alla storia, dai tempi di Mani Pulite, ma ancor prima negli anni del terrorismo, una certa disinvoltura nell’applicazione delle regole. Competenza territoriale, diritti dell’indagato, obbligatorietà dell’azione penale, uso corretto della custodia cautelare: parole, parole, soltanto parole. Perché al sistema ambrosiano tutto era concesso. Lui era lì. Lo rivediamo impassibile nell’aula, bel ragazzo con il pizzetto alla moda, mentre snocciola l’elenco delle intercettazioni e parla di prostituzione, prostituzione, prostituzione. Silvio Berlusconi è rinviato a giudizio per concussione, prima di tutto, accusato di aver costretto un pubblico ufficiale che in realtà non si è mai sentito obbligato, a fare qualcosa contro i suoi compiti, cioè affidare la giovane Ruby a Nicole Minetti. Ma nel pentolone processuale pornografico dove si mescolano reati e peccati, parlare di sesso a pagamento è obbligatorio, se non si vuol far crollare l’interno impianto dell’accusa. Il vicequestore Marco Ciacci si presta. Viene trovata nella casa di una ragazza una lettera anonima scritta da un mascalzone che si riteneva in diritto di avvertire la madre sulla presunta professione della figlia? Ecco la prova che la ragazza sia una puttana. Certo, forse a quella ragazza sarebbe piaciuto ricevere dal vicequestore la stessa attenzione che lui dedicherà, qualche anno dopo, quando sarà già stato premiato con la nomina a comandante della polizia urbana di Milano, a un’incauta ragazza che di notte aveva investito e ucciso un pedone con il suo scooter. Era accorso subito sull’incidente, quella sera, il dottor Ciacci perché, aveva detto mentre un sindacato dei vigili protestava per quell’attenzione particolare, stava cenando in un ristorante vicino al luogo dell’incidente. Lodevole solerzia, la sua. Anche se poi nessuno aveva sottoposto la ragazza all’alcol-test, né l’aveva arrestata per omicidio stradale (reato che comunque noi consideriamo assurdo e sbagliato), come spesso succede se la persona investita decede. Lui c’era, al processo. E dichiarava di aver iniziato le investigazioni dal 3 settembre 2010, quando aveva ereditato generiche indagini su un giro di prostituzione di cui faceva parte anche Ruby. Resta il fatto che, nel frattempo, molti danni erano stati fatti. E neanche un bambino potrebbe credere a certe favolette. Perché da quella famosa sera di maggio in cui Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio in carica, aveva telefonato alla questura di Milano, ritenendo che fosse stata fermata la nipote del presidente Mubarak, era diventato lui il pesce grosso da prendere all’amo e poi giustiziare da parte dei famosi “cecchini” di cui parla Luca Palamara. Il plotone era pronto da tempo, si aspettava solo l’occasione. E quella fu ghiotta. Altro che generiche inchieste su giri di prostituzione! Non dimentichiamo che, per indagare su Berlusconi (e non su qualche Belle de jour), il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva anche sottratto le competenze al pm competente per materia, ingaggiando un robusto braccio di ferro con il suo aggiunto Alfredo Robledo, poi ghigliottinato dal Csm con l’aiuto addirittura del presidente della Repubblica. Fatto sta che le indagini, ci fosse o no il vicequestore Ciacci a condurle dall’inizio, presero origine fin da allora. E Ruby fu interrogata due volte nei primi giorni di luglio, e per mesi e mesi fu stesa la tela del ragno nei confronti di Silvio Berlusconi. Ma il leader di Forza Italia sarà iscritto nel registro degli indagati solo il 21 dicembre, e in seguito raggiunto da un invito a comparire il 14 gennaio 2011. Sistema ambrosiano, ovvio. Nel frattempo è già accaduto tutto, il controllo ogni sera, per diciassette volte, nella casa del peccato, neanche si stessero spiando boss mafiosi di Cosa Nostra, per «ricostruire lo svolgimento delle cene e chi fossero i partecipanti». Si spiava il presidente del Consiglio per frugare tra le sue pietanze e le sue lenzuola. Per mesi e mesi, senza mai informarlo, come sarebbe stato suo diritto e come prevede la legge. Anche se lui, e anche le ragazze che frequentavano le sue cene, non avevano mai ucciso nessuno. Sono state solo trattate come puttane, nel processo pornografico che non finisce mai. E nessuna di loro ha mai avuto la fortuna di trovare un buon samaritano in divisa che corresse a dar loro conforto qualora una sera si fossero trovate in difficoltà. Loro.
"Vi racconto il sistema che ha scoperchiato il concorso nel Lazio". Francesco Boezi il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. Il "caso Allumiere", per il consigliere regionale Chiara Colosimo, non è un caso isolato. Anzi, quel concorso "scoperchia" l'esistenza di un "sistema". E il MoVimento 5 Stelle sta a guardare (e non solo). Del concorso di Allumiere e del possibile ruolo della Regione Lazio rispetto a quel caso si parla poco di questi tempi, ma qualche novità c'è. Anzitutto, la relazione di Chiara Colosimo, presidente della commissione Trasparenza, è pronta. Per quanto qualcuno abbia tergiversato nell'approvare quella relazione. I commissari, per via delle "resistenze", dovranno aggiornarsi dopo le ferie estive. Inoltre, il comune di Allumiere ha inviato una lettera ai candidati del concorso in cui si inizia a parlare di annullamento. Gli effetti delle graduatorie, nel frattempo, sono state sospesi. Insomma, nella stabilità estiva, qualcosa si muove. Parliamo della "stipendiopoli" balzata alle cronache nazionali che, come ha scritto su Il Giornale, Giuseppe Marino "moltiplicato i pregiati posti di lavoro pubblico a tempo indeterminato e ne ha distribuiti almeno 24, in gran parte tra chi ha la tessera del Pd". Il Consiglio regionale del Lazio, com'è peraltro previsto, ha attinto dalla graduatoria. E le polemiche si sono scatenate. Ma c'è anche una rete di comuni coinvolta nelle assunzioni di persone ascrivibili al Partito Democratico. Il caso del "concorso dei miracoli" potrebbe essere vicino a una qualche conclusione. Il consigliere regionale Chiara Colosimo, che è espressione di Fratelli d'Italia, si è fatta questo conto: 29 su 44 assunti sono i "candidati fuori dalle pre-selettive", perché non avrebbero i requisiti; di quei 44, 34 avrebbero legami con la politica o con la commissione. L'esito dell'inchiesta, almeno per quel che riguarda la parte politica, è in divenire. Ma il "caso Allumiere", per la Colosimo, fa parte di un "sistema". Non sarebbe solo un caso isolato, dunque. Qualcosa che sarebbe ormai consolidato. Qualche giorno fa, il consigliere regionale Francesca De Vito è uscita in polemica dalla formazione pentastellata, citando il tradimento degli elettori ed il caso Allumiere tra le motivazioni. Ma il resto del MoVimento 5 Stelle laziale non è dello stesso avviso. Attorno a questa storia, possono essere elencati più aspetti: le questioni di legittimità, su cui si pronunceranno gli inquirenti; l'opportunità politica, che è al centro del dibattito; la linea tenuta dal MoVimento 5 Stelle, che su "Allumiere" e dintorni non è troppo attivo sul piano dei giudizi senza sconti, com'è invece avvenuto in altre circostanze; il peso di questa vicenda per le imminenti elezioni amministrative e per i prossimi appuntamenti.
Senta, cerchiamo di partire con un atteggiamento garantista: voi contestate l'opportunità politica o il merito giuridico?
"Ho sempre tenuto i due piani separati: l'opportunità politica è una cosa, gli errori amministrativi un'altra. E questi ultimi non sono più contestabili, perché sono palesi. C'è un tema, però, considerando pure il comunicato dei carabinieri: credo che le due cose siano andate di pari passo".
Cioè?
"Cioè che alcuni errori, che potrebbero sembrare amministrativi, siano stati fatti, in realtà, per facilitare alcuni candidati amici dei politici".
Però la sua linea è garantista..
"Ho iniziato a fare le pulci alla Regione per dimostrare come ci fosse una falla che creava un danno a chi amministrava, così come con la storia delle mascherine. A me interessa difendere l'istituzione, non condannare Tizio o Caio. Per cui, se c'è qualcuno che ha sbagliato, quel qualcuno deve pagare. E non per via del giustizialismo, bensì perché deve emergere che non siamo uguali. Perché non siamo tutti uguali".
A che punto è l'iter della relazione?
"La relazione finale è stata stilata. Però ci sono molte resistenze. Dunque, con la riapertura dei lavori darò un termine per le osservazioni agli altri commissari".
Scusi, ma resistenze in che senso?
"Nel senso che molti hanno utilizzato questa motivazione: la relazione è lunga e dettagliata. Per cui, c'è chi ha detto di aver bisogno di tempo ulteriore. La relazione non è stata approvata, come speravo, prima della chiusura dei lavori".
Quali conclusioni ha tratto nella relazione?
"Le conclusioni derivano dalle audizioni e dagli atti in nostro possesso. Al netto dell'opportunità politica, è evidente come anche la procedura amministrativa e burocratica del concorso sia stata falsata. Dalla prova pre-selettiva alle strane coincidenze all'interno delle cosiddette battterie del concorso, passando dal non comunicare la graduatoria con il punteggio ai comuni. Gli stessi che poi hanno attinto".
Il Comune di Allumiere ha inviato una lettera ai candidati...
"Sì, è l'ultima follia targata Partito Democratico e sindaco Pasquini. Gli inquirenti stanno stringendo. Cercano di venirne fuori con una sorta di sondaggione. Una cosa tipo: "Caro candidato, tu hai partecipato, che ne pensi se annulliamo?" Vorrei che qualcuno mi dicesse se è normale che accada nella pubblica amministrazione".
Ma il suo intento qual è?
"Io non sono una giustizialista, però credo nei principi. Quello che emerge con Allumiere è una completa mancanza di valori. Gli stessi che dovrebbero essere propri prima di una democrazia e poi dei singoli. Ciò che ha scoperchiato il caso Allumiere non è un caso singolo, ma un modus operandi. Nella provincia di Roma, esiste un sistema. La stesso meccanismo ha avuto luogo in altri comuni".
Ossia?
"Il sindaco uscente di Subiaco è stato assunto insieme ad un assessore di Marino che ha vinto un concorso a Guidonia. Il sindaco di Rocca Santo Stefano ha assunto il sindaco di Zagarolo. Ciò che deriva dal caso Allumiere è che alcuni hanno usato le istituzioni per sistemarsi. Secondo il mio modo di vedere, non ha nulla a che vedere con il giustizialismo, però ha molto a che vedere con come si concepisce la politica. Per questo, non farò nessuno sconto. La verità è che c'è un sistema".
Sì, ma se lei mi parla di "sistema", io le devo chiedere da chi è composto..
"Non io ma i casi citati fin qui ci dicono che per ora i comuni coinvolti sono ascrivibili al Partito Democratico e, nello specifico, al Pd della provincia di Roma. Però, prendendo in considerazione la questione relativa alla Asl di Latina, si fuoriesce da Roma e provincia. Io credo si sia sviluppato un sistema che è a metà tra chi governa e chi dirige. Perché non dobbiamo dimenticare la parte recitata dai dirigenti o dai commissari in questi processi".
Passiamo alla politica. Il MoVimento 5 Stelle è il convitato di pietra di questa storia? Governano col Pd senza remore?
"Il sindaco di Guidonia è grillino. Sono il più grande bluff della storia. Non sono stati in grado di fare opposizione, dunque hanno pensato bene di entrare in maggioranza. L'unica che faceva opposizione (Roberta Lombardi, ndr) oggi fa l'Assessore. Non l'ho vista alzare un sopracciglio su Allumiere. I grillini non sono proprio convitati di pietra...".
Cioè?
"Cioè, almeno per le assunzioni in Consiglio regionale, sono parte in causa: i grillini esprimono un membro del Consiglio di presidenza. Per quello che ne sappiamo, poi, qualcuno legato al MoVimento 5 Stelle è stato assunto con l'infornata di Allumiere, ma come dimostra Guidonia, sono diventati il tonno delle scatolette in un batter d’occhio".
E la linea Zingaretti qual è?
"Zingaretti è immune. È inspiegabile come possa continuare a far finta di niente, le mascherine mai arrivate ma profumatamente pagate erano fake news (c’è ancora la grafica della regione sui social), le nomine politiche in piena pandemia polemiche sterili, i debiti fuori bilancio non erano un problema (fin quando non è arrivata la corte dei conti) e su “Concorsopoli” nemmeno una dichiarazione ufficiale, solo un tentativo di maquillage. La miglior foto ricordo di Zingaretti è la sua potente dirigente sui rifiuti, già vicesindaco del Pd, che dopo l’arresto si candida sindaco nel suo comune viterbese di Vetralla. Incredibile ma vero...".
Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento
"Nomi pesanti vicini al Pd". Bufera sul maxiconcorso che fa tremare i dem. Il "concorso dei miracoli" continua a far discutere: adesso spuntano i nomi. E l'ex sindaco Ignazio Marino tira fuori il racconto che imbarazza il Partito democratico. Luca Sablone - Lun, 12/04/2021 - su Il Giornale. "Di questo concorso sottovoce si diceva da parecchio. È stato superato il limite: gli assunti sono nomi pesanti, persone vicine al sindaco e a molti esponenti del Partito democratico". Continua a far discutere il maxiconcorso di Allumiere, finito al centro delle polemiche tanto da aver ritenuto necessario richiedere la creazione di una commissione d'indagine. Le domande su cui si vuole far chiarezza restano ancora diverse: come è possibile che ben 85 persone siano finite a pari merito nel punteggio finale? Per quale motivo gran parte degli idonei proviene dal mondo della politica? Intanto Mauro Buschini ha deciso di dimettersi da presidente del Consiglio regionale del Lazio. Delle assunzioni definitive avrebbero beneficiato alcuni collaboratori fiduciari dei consiglieri regionali del Partito democratico (ma anche di Movimento 5 Stelle e Lega), dei militanti e addirittura un consigliere capitolino.
Spuntano i nomi. Come riportato da Il Fatto Quotidiano, nell'elenco dei neo-assunti figurerebbero molteplici esponenti del settore della politica: due collaboratori di Buschini; Matteo Marconi, segretario del Pd di Trevignano Romano (Roma); Arianna Bellia, assessore Pd di San Cesareo (Roma); Augusta Morini, consigliere e assessore Pd di Labico (Roma); Paco Fracassa, segretario Pd di Allumiere (Roma); un componente del circolo Pd di Frosinone (città di Buschini); tre militanti dem (Allumiere, Civitavecchia e Roma). Su 16 posti disponibili, a dicembre la Regione avrebbe contattato in totale 24 persone ma in otto avrebbero rifiutato. Il 28 dicembre il Comune di Guidonia avrebbe stipulato un accordo con Allumiere e avrebbe deciso di assumere otto funzionari prendendoli dallo stesso elenco-idonei. Tra loro vi sarebbe stato anche Marco Palumbo, consigliere del Partito democratico in Campidoglio e presidente della commissione Trasparenza. I dem hanno preso subito preso posizione e non si sono nascosti, anche se si continua a ritenere che la procedura sia "regolare e limpida". Per Matteo Orfini si tratta "di una vicenda sulla quale è necessario fare chiarezza subito, senza timidezze". Il deputato del Pd si è detto sconcertato per quanto accaduto poiché così si rischia di minare "la credibilità delle istituzioni". Un eletto del Partito democratico, scrive La Repubblica, chiede di valutare l'annullamento di tutto il pacchetto di nomine: "Nicola (Zingaretti, ndr) è fuori di sé. Come dargli torto? Nel Consiglio di presidenza hanno combinato questo pasticcio e ora dovrebbero fare un passo indietro".
La testimonianza di Marino. Ad aumentare l'imbarazzo per il Pd è stato un racconto fornito da Ignazio Marino nel corso della trasmissione Non è l'arena su La7 condotta da Massimo Giletti. L'ex sindaco di Roma ha rivelato un retroscena risalente al periodo in cui stava cercando persone competenti per guidare le aziende del Comune: "Spesso il capogruppo del Pd mi proponeva alcuni curricula e in particolare me ne proponeva sempre uno che a me non impressionava". A quel punto il primo cittadino decide di incontrare il candidato, convocandolo per fare un colloquio in vista di un ruolo da amministratore delegato. Nel curriculum però non vi è alcun riferimento alla preparazione sul settore rifiuti. "Te la senti di affrontare questa sfida epocale? Rinunceresti a tutti i tuoi incarichi?", gli chiede Marino. E la risposta del candidato si commenta da sé: "Assolutamente no, non rinuncio alle altre mie posizioni". Però l'uomo si fa venire in mente un'idea: farsi nominare presidente, piuttosto che amministratore delegato, "così ho un impegno che mi prende massimo tre pomeriggi al mese". L'ex sindaco rimane spiazzato e chiama il capogruppo per denunciare la situazione, ma la replica è stata tutt'altro che di indignazione per quanto accaduto: "Ma che cosa ti costa? Sono solo 100mila euro di stipendio e ti metti un po' in pace con il Partito democratico con cui non vai d'accordo".
Giuseppe Marino per "il Giornale" il 6 aprile 2021. Il trucco è chiaro nella sua semplicità: un piccolo Comune bandisce un concorso. Partecipano in massa eletti, militanti e portaborse di un partito, ma non ci può essere posto per tutti in un Comune che non arriva a quattromila abitanti. Fa niente: in questo caso, davvero, l' importante è partecipare (e risultare idonei). Pochi giorni dopo la pubblicazione della graduatoria, altri enti, casualmente, decidono di assumere sfruttando la norma che consente di ricorrere alla graduatoria dell' ultimo bando di concorso dello stesso territorio. E il gioco è fatto. Alla Regione Lazio ormai lo chiamano tutti «concorso dei miracoli»: l' esame che ha moltiplicato i pregiati posti di lavoro pubblico a tempo indeterminato e ne ha distribuiti almeno 24, in gran parte tra chi ha la tessera del Pd. Fino a prova contraria, in modo del tutto legale. L' epicentro della vicenda è Allumiere. In 300 si presentano per un posto nel paesino dell' hinterland a nord di Roma e il 14 dicembre viene stilata la graduatoria che ha una particolarità: i vincitori sono cinque, tutti della zona, ma c' è un numero spropositato di idonei, quasi novanta, che arrivano da zone diverse del Lazio. Nei giorni successivi accade il vero miracolo: il Consiglio regionale del Lazio decide di assumere sedici funzionari e per farlo pesca, come prevede la legge, dagli ultimi concorsi. Il grosso delle chiamate arriva ai fortunati idonei del concorso dei miracoli. Tra i prescelti il segretario del Pd di Trevignano romano Matteo Marconi, l'assessore dem di San Cesareo Arianna Bellia, Augusta Morini assessora Pd di Labico, Paco Fracassa segretario piddino di Allumiere. Ma, soprattutto, c' è un lungo elenco di nomi di consulenti a tempo determinato della presidenza del Consiglio della Regione Lazio guidata dal Pd Mario Buschini, o provenienti dal suo collegio elettorale, la provincia di Frosinone. A chiudere il cerchio c' è un dettaglio inquietante: il sindaco di Allumiere, Antonio Pasquini, da tre anni lavora con Buschini. Ma quella che è stata battezzata «stipendiopoli Pd», pare più ancora più ampia. A sorpresa alcuni candidati rifiutano il posto. Come Marco Palumbo, consigliere comunale di Roma e presidente della Commissione trasparenza, uno dei «moralizzatori Pd» che con una firma dal notaio ha posto fine alla carriera da sindaco di Ignazio Marino, o l' altro dem Massimo D' Orazio, collaboratore di Buschini e assessore a Isola del Liri, paese del frusinate che dista 190 km da Allumiere o Matteo Manunta, ex consigliere comunale 5s di Civitavecchia e collaboratore di un altro pezzo grosso della Regione, il vicepresidente grillino David Porrello. Uomini fortunati perché, solo cinque giorni dopo il loro rifiuto, il Comune di Guidonia, assume altre otto persone dalla stessa graduatoria e li chiama. Lo scandalo emerge e il Consiglio regionale difende le assunzioni: tutto in regola. Ma ora si scopre che al meccanismo hanno partecipato altri Comuni del Lazio, per lo più a guida Pd o 5s e ci sarebbe almeno un' assunzione legata a un altro vicepresidente, il leghista Giuseppe Cangemi. A denunciare il caso però sono stati anche esponenti della Lega, come Fabrizio Santori e Arianna Cacioni, capogruppo a Guidonia. Nicola Zingaretti tace ma sarebbe in grave imbarazzo, vista la dinamica dello scandalo che punta dritto verso la presidenza del Consiglio regionale. Anche perché modi e tempi della vicenda farebbero presupporre una regia nelle assunzioni scaglionate tra più enti. «La mancanza di alcuni documenti concorsuali e le modalità di questa storia - attacca la consigliera regionale Chiara Colosimo di Fratelli d' Italia - sono tali da richiedere un chiarimento immediato. E credo che anche nel Pd ci sia chi in queste ore è in forte imbarazzo».
Concorsopoli in Regione, "Così hanno favorito i figli dei politici dem al concorso per l'Asl". Clemente Pistilli su La Repubblica il 21 maggio 2021. Arrestati Claudio Rainone, ex direttore amministrativo dell'Azienda sanitaria di Latina e Mario Graziano Esposito avevano passato i test ai candidati raccomandati. Sono passati quattro mesi dalle proteste degli esclusi e dagli esposti per il concorso dell'Asl di Latina in cui ai primi posti comparivano tanti "figli di". L'inchiesta aperta dal sostituto procuratore Valerio De Luca si è allargata anche a un'altra prova concorsuale e questa mattina, con l'accusa di falsità ideologica in atti pubblici e rivelazione di segreti di ufficio aggravati, un dirigente e un funzionario dell'Azienda sanitaria sono stati arrestati.
Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per roma.repubblica.it. l'1 luglio 2021. Corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Con queste accuse la polizia e la Guardia di Finanza di Latina hanno arrestato il dirigente della Asl locale Claudio Rainone e il segretario provinciale del Pd, Claudio Moscardelli, coinvolti in un'inchiesta su presunti concorsi truccati. L'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari è stata disposta dal gip del Tribunale. Rainone, tra l'altro, era stato raggiunto da analoga misura cautelare lo scorso 21 maggio.
(ANSA l'1 luglio 2021) Corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Con queste accuse la polizia e la Guardia di Finanza di Latina hanno arrestato il dirigente della Asl locale Claudio Ramone e il segretario provinciale del Pd, Claudio Moscardelli, coinvolti in un'inchiesta su presunti concorsi truccati. L'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari è stata disposta dal gip del Tribunale. Ramone, tra l'altro, era stato raggiunto da analoga misura cautelare lo scorso 21 maggio. Le indagini delegate dalla Procura di Latina alla Sezione anticorruzione della Squadra Mobile e al Nucleo di Polizia Economico finanziaria della Guardia di Finanza si riferiscono in particolare alle irregolarità riscontrate nel concorso per 23 posti di collaboratore amministrativo professionale indetto da Asl di Frosinone, Latina e Viterbo. Già il 21 maggio scorso, in seguito alle prime indagini, venivano posti ai domiciliari Claudio Rainone e Mario Graziano Esposito, rispettivamente presidente e segretario della commissione per il concorso, con l'accusa di falso e rivelazione di segreto d'ufficio. In particolare emergeva che Rainone, nei giorni precedenti alla prova orale, rivelava gli argomenti che sarebbero stati oggetto di esame. Le indagini, inoltre, hanno consentito di identificare 6 concorrenti che hanno beneficiato delle 'soffiate' e per questo indagati a vario titolo per abuso d'ufficio e rivelazione di segreti d'ufficio. I nuovi approfondimenti investigativi hanno permesso di riscontare come due di questi candidati venivano segnalati da un politico locale, il quale con lo stesso dirigente dell'Asl di Latina s'impegnava, in cambio, a promuovere la sua promozione a direttore amministrativo dell'azienda sanitaria, incarico che in effetti ha rivestito quale facente funzioni dal dicembre 2020 ad Aprile 2021. Rainone, in veste di presidente della commissione, rivelava ai candidati gli argomenti che avrebbe proposto alla prova orale, nonché ritardava l'approvazione della graduatoria dello stesso concorso al fine di posticiparla rispetto alla sua nomina di direttore amministrativo, in modo tale da potere individuare lui stesso i luoghi di destinazione lavorativa dei neo assunti.
Il vizietto del Pd sui concorsi truccati: arrestato Moscardelli, segretario provinciale di Latina. Paolo Lami giovedì 1 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Claudio Moscardelli, segretario provinciale del Pd a Latina, e Claudio Rainone classe 1962, dirigente Asl di Latina, sono finiti agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte irregolarità riscontrate nella procedura concorsuale riguardante il concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura a tempo indeterminato di 23 posti di collaboratore amministrativo professionale cat. D, indetto in forma aggregata tra la Asl di Frosinone, Latina e Viterbo. A Moscardelli sono contestate le accuse di corruzione in concorso e istigazione alla rivelazione di segreti di ufficio. Ed è stato arrestato perché, per il giudice, esiste il pericolo di reiterazione reato e quello dell’inquinamento delle prove. Intercettati, Moscardelli e il presidente della Commissione parlavano, addirittura, di “nostro concorso”. Un atteggiamento spregiudicato che restituisce perfettamente qual’è il concetto di meritocrazia del Pd e il suo rispetto delle regole e delle istituzioni. Secondo i magistrati di Latina, le domande d’esame del concorso Asl venivano comunicate al telefono prima dell’orale. Secondo l’ordinanza, il giorno prima del concorso, Moscardelli inviò i numeri di 2 candidati al presidente. L’ordinanza del giudice di Latina che ha spedito agli arresti Moscardelli svela anche che l’episodio non è un fatto isolato ma fa parte di un metodo consolidato tant’è che il direttore del reclutamento della Asl, Rainone, ha gestito due concorsi in modo illecito. Ed anche per Rainone il giudice ipotizza il pericolo di reiterazione del reato e il rischio di inquinamento delle prove. Il 21 maggio scorso Rainone e Mario Grazieno Espositi, rispettivamente presidente e segretario della commissione per il concorso, erano stati arrestati e indagati per falso e rivelazione di segreto d’ufficio poiché era emerso che il dirigente Asl, nei giorni precedenti alla prova orale, aveva rivelato gli argomenti che sarebbero stati oggetto di esame. Successivamente gli investigatori delle Fiamme Gialle avevano identificato con certezza 6 concorrenti, che hanno beneficiato di quelle rivelazioni e che erano stati indagati a vario titolo per abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. I nuovi approfondimenti investigativi hanno ora permesso di riscontare come due di questi candidati venivano segnalati da Moscardelli, il quale con lo stesso dirigente dell’Asl di Latina s’impegnava, in cambio, a promuovere presso la Regione Lazio, la sua nomina a Direttore Amministrativo dell’Asl, incarico che in effetti Raimone ha rivestito quale facente funzioni dal mese di Dicembre 2020 al mese di Aprile 2021. In tale contesto, Rainone, in veste di presidente della commissione rivelava ai candidati gli argomenti che avrebbe proposto alla prova orale, nonché ritardava l’approvazione della graduatoria dello stesso concorso al fine di posticiparla rispetto alla sua nomina di Direttore Amministrativo, in modo tale da potere individuare lui stesso i luoghi di destinazione lavorativa dei neo assunti. Resta ora da capire il passaggio successivo: chi garantiva dentro alla Regione Lazio, guidata da Zingaretti, al segretario provinciale del Pd, la nomina di Rainone?
“Desidero ringraziare la Procura di Latina e le Forze dell’Ordine per la celerità delle indagini relative al concorso Asl – dice il consigliere regionale di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Trasparenza e Pubblicità della Regione Lazio, Chiara Colosimo. – Quanto emerso è senza dubbio sconcertante, soprattutto per l’uso spregiudicato delle Istituzioni. Insieme alle anomalie emerse sul concorso di Allumiere, sembra essere confermato non come un singolo caso, ma come una modalità ben strutturata e radicata sulla quale ci auguriamo sarà sempre la magistratura ad accertarne la reale consistenza. Da parte continueremo a vigilare e a denunciare le situazioni che ci appaiono poco chiare e trasparenti”. Preso in contropiede dalla imbarazzante faccenda, Letta ha cercato di metterci una pezza a colori nominando l’ex-viceministro degli Interni, ora deputato e responsabile Pd per l’Immigrazione, Matteo Mauri, commissario del Partito Democratico della provincia di Latina mentre la Commissione nazionale di garanzia del Pd sospendeva dal partito Claudio Moscardelli. Ma oramai la frittata è fatta.
Scandalo concorsopoli, nel mirino l'assunzione del presidente Pd del Lazio. Lorenzo D'Albergo su La Repubblica il 5 aprile 2021. Si allarga lo scandalo dello stipendificio dem alla Pisana. Sotto il fuoco dell'opposizione l'assunzione di 14 statistici tra i quali Andrea Alemanni. Durissima Giorgia Meloni: "Gli italiani in ginocchio e il Pd nel Lazio sistema gli amici". Non solo la graduatoria di Allumiere da cui il Consiglio di presidenza della Regione e il comune grillino di Guidonia hanno pescato 24 funzionari, tra cui una dozzina abbondante di politici, segretari dem e collaboratori di consiglieri regionali del Pd (ci sono anche casi in quota 5S e Lega) a cui garantire un'assunzione a tempo indeterminato. Le opposizioni, Fratelli d'Italia in testa, vogliono vederci chiaro sulla Concorsopoli della Pisana e hanno preso a scavare negli archivi regionali. A chiedere di concentrarsi sulla vicenda che imbarazza i dem è stata Giorgia Meloni in persona. La prova? Lo slogan pubblicato ieri su Facebook: "Gli italiani in ginocchio e il Pd nel Lazio sistema gli amici". Una dichiarazione di guerra che fa il paio con gli ultimi bandi finiti nel fascicolo di FdI: nel mirino ora è finita la procedura con cui il 25 febbraio la Regione ha assunto 14 esperti in statistica. Tra i vincitori c'è Andrea Alemanni, presidente del Pd del Lazio. Il suo nome non è sfuggito ai meloniani: dal 26 novembre 2020 nel cda dell'Istituto romano San Michele su nomina firmata dal governatore Nicola Zingaretti, Alemanni è già stato assessore al II municipio e per quattro anni, dal 2014 al 2018, ha lavorato a palazzo Chigi per il dipartimento Funzione pubblica. Nel 2005 si è laureato in statistica economica alla Sapienza e ora non ci sta a finire nel tritacarne: "Ho studiato a lungo - spiega il dirigente dem - e il mio caso non c'entra niente con Allumiere. È tutto in regola". Lo stesso concorso ha portato in Regione anche Andrea Giansanti, ex segretario del Pd di Latina e già collaboratore di eletti dem in consiglio regionale. Tornando nella Allumiere del sindaco Antonio Pasquini, da tre anni al lavoro proprio tra le fila del Consiglio di presidenza del Lazio, spunta il caso di Silvia Sestili. Tra le vincitrici del bando delle polemiche, è anche la presidente di Eureka, associazione attiva nel paesino sui monti della Tolfa e destinataria di finanziamenti trasferiti dalla Regione per allestire le luminarie dell'ultimo Natale. Un altro caso che FdI affronterà nella commissione d'inchiesta di cui ha già chiesto la presidenza. Intanto alla Pisana prova a fare la voce grossa anche la Lega: il Carroccio ha presentato un'interrogazione per chiedere conto della struttura Cinema. A guidarla per 115 mila euro annui è Giovanna Pugliese, assessora al Turismo e alle pari opportunità uscita dalla giunta per far spazio alla 5S Valentina Corrado e ora alla guida della nuova creatura che lavora in collaborazione con il Gabinetto del presidente Zingaretti.
La rete dei Comuni che assume i dem. Pd graziato dai media. La "stipendiopoli" della Regione Lazio coinvolge altri centri. Scandalo silenziato. Giuseppe Marino - Mer, 07/04/2021 - su Il Giornale. Non solo la Regione: c'è anche una rete di sindaci che ha contribuito a trasformare il bando per cinque assunzioni presso un piccolo Comune laziale nel «concorso dei miracoli». Il meccanismo è sempre lo stesso: un nugolo di amministratori locali, militanti e tesserati, in larghissima parte del Pd, ha partecipato al concorso per cinque impiegati generici (categoria C1). Molti di loro già collaborano con l'ufficio di presidenza del Consiglio della Regione Lazio, ma non vincono il posto nella minuta Allumiere, paesino dell'entroterra romano che per alcuni dei candidati sarebbe risultata una destinazione non così interessante, non fosse altro per la distanza da casa. In compenso, risultano idonei. E molti di loro, coincidenza, con lo stesso identico punteggio: 74. Un numero fortunato evidentemente. Perché a pochi giorni dalla chiusura del bando, molti di loro si vedranno piovere offerte di lavoro da altre amministrazioni che decidono di attingere alla graduatoria con un tempismo incredibile. Oltre ai 16 della Regione Lazio, nove vengono chiamati dal Comune di Guidonia (a guida 5s, come il vice presidente del Consiglio regionale Devid Porello che sarà uno dei firmatari dell'atto che decide le assunzioni in Regione), altri da Comuni più piccoli. C'è perfino un consigliere comunale di Roma, Marco Palumbo, che rifiuta il posto in Regione e lo accetta a Guidonia, più vicino a casa. A Guidonia si sistema pure Matteo Manunta, ex consigliere provinciale 5s, assunto come impiegato semplice, ma protagonista di una carriera rapidissima: è già responsabile dei social del Comune grillino. Anche il Comune di Monterotondo (a guida Pd) si butta nella mischia. L' assessore al personale Alessandro Di Nicola che propone le assunzioni, altra coincidenza, lavora come capo della segreteria di Gianluca Quadrana, consigliere regionale della Lista Zingaretti e anche lui firmatario della delibera delle assunzioni in Regione. Perfino il piccolo e incantevole Comune di Anguillara Sabazia non vuole farsi scappare una delle partecipanti al concorso: è la figlia del sindaco di un altro paesino Manziana. A Tivoli trovano posto le gemelle Carlini, sorelle di un ex consigliere comunale grillino di Civitavecchia. Tra la Regione e il Comune di Ladispoli trovano posto anche persone che lavorano con il leghista Giuseppe Cangemi, vice di quello stesso ufficio di presidenza della Regione Lazio guidato dal Pd Mario Buschini, il luogo a cui sembrano ricondurre tutti i fili di questa intricata vicenda. Compreso quello che porta al sindaco di Allumiere di Antonio Pasquini, il primo cittadino che ha bandito il «concorso dei miracoli». E che è anche vice capo segreteria di Buschini. Un mosaico di assunzioni incrociate in odore di conflitto di interesse in cui ci si perde. In Regione solo imbarazzo di fronte alle richieste di chiarimenti della consigliera regionale di Fratelli d'Italia Chiara Colosimo, che ha chiesto lo stop alle assunzioni. Tace il presidente della Regione Nicola Zingaretti, nonostante nel Pd qualcuno abbia sommessamente espresso disagio. Eppure la «stipendiopoli» che sotto Natale, con tanti italiani in lockdown a chiedersi come arrivare a fine mese, ha distribuito posti di lavoro pubblico a tempo indeterminato a persone legate alla politica, ha avuto una eco smorzata. Ne ha scritto il Fatto e Repubblica ha confinato la notizia nella cronaca di Roma. Altri grandi quotidiani non pervenuti. È il solito «sconto sulla fiducia» mediatico su cui la sinistra sa di poter contare.
Giuseppe Marino per "il Giornale" l'8 aprile 2021. Volare basso e fischiettare. La strategia dell' indifferenza non regge. E così ieri mattina Mauro Buschini ha scritto a tutti i consiglieri regionali del Lazio, annunciando la necessità che per fare luce sulla stipendiopoli della Regione «ci sia un altro presidente». Quarantadue anni, una carriera tutta all' ombra del Pd, grande elettore di Zingaretti a Frosinone, Buschini è finito al centro dello scandalo delle assunzioni di uomini del Pd tra la Regione e una serie di Comuni «amici», ma ha anche avuto la forza di un sussulto di dignità, il primo in una storia dai contorni incredibili: all' ombra di una legalità degli atti che al momento non è messa in discussione, si sono distribuiti decine di posti di lavoro pubblici a tempo indeterminato a personale politico prevalentemente del Pd, dai semplici tesserati ai consiglieri comunali. Dopo giorni in trincea, difesi dall' imbarazzato silenzio rotto solo da voci isolate dei dem, come quella di Matteo Orfini, è spuntata una exit strategy: Buschini rivendica la correttezza del suo operato e annuncia una «commissione trasparenza» presieduta da un consigliere d' opposizione per «affrontare tutti i temi rispetto ai quali ci sia necessità di approfondimento, a partire dalle assunzioni dei dipendenti». La commissione diventa così un palcoscenico su cui spostare la battaglia politica interna e anche l' occasione per farsi da parte con «un atto d' amore verso questa istituzione». Come da copione, Buschini raccoglie l' apprezzamento della maggioranza per il suo gesto e finalmente anche Nicola Zingaretti interrompe il mutismo sulla questione, anche se solo per «ringraziare Buschini per il gesto di responsabilità» e lodare la scelta di istituire una commissione. Resta da capire se le dimissioni del presidente siano frutto anche del disagio interno al Pd. Di sicuro la vicenda non è finita. Dopo il clamoroso passo indietro dell' esponente dem, il caso approda in Parlamento. Da Maurizio Gasparri a Fabio Rampelli, si annunciano esposti in Procura sulla stipendiopoli che, partendo dal «concorso dei miracoli» in un paesino di 4mila anime come Allumiere ha portato ad almeno 24 assunzioni tra la Regione e il Comune a guida grillina di Guidonia, più varie altre in una sfilza di Comuni più piccoli. Nell' elenco degli assunti molti uomini legati ai partiti che collaborano con il presidente dimissionario ma anche con i vice presidenti Devid Porrello (M5s) e Giuseppe Cangemi (Lega). A votare la delibera che ha dato il via alle assunzioni in Regione anche la moglie del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, Michela Di Biase contro cui si è scagliato l' ex sindaco di Roma Ignazio Marino. La Di Biase fu tra i dem che lo silurarono e oggi Marino, tornato a fare il medico, rivendica la sua distanza da «Lady Franceschini»: «Va riconosciuta la orgogliosa coerenza di chi, come i membri del Pd, sceglie amici o compagni di partito quando ci sono assunzioni da fare». La consigliera regionale di Fdi Chiara Colosimo, che aveva denunciato il caso, rende l' onore delle armi a Buschini ma insiste: «Dovrebbero dimettersi tutti i componenti dell' ufficio di presidenza, il sospetto di assunzioni di amici degli amici non è accettabile a fronte di un Paese devastato dalla pandemia e dalle sue ripercussioni economiche». La vicenda potrebbe dunque avere altri risvolti, considerando anche che il metodo partitocratico che ha portato al «concorso dei miracoli» non pare isolato. La Regione Lazio è piena di eletti Pd in amministrazioni minori messi sotto contratto per lavorare negli staff dei consiglieri regionali di riferimento. Difficile capire che fine faranno le assunzioni già deliberate. «Vanno tutte annullate -dice il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (Fdi)- altrimenti la commissione trasparenza dell' ultimo minuto è solo una furbata».
Lorenzo D’Albergo per "la Repubblica - Edizione Roma" l'8 aprile 2021. Sulla Parentopoli grillina adesso indaga la procura della Corte dei Conti del Lazio. I pm di viale Mazzini hanno ricevuto l' esposto messo nero su bianco da Davide Bordoni, consigliere della Lega, e hanno deciso di approfondire l' ultima infornata di nomine varata dalla giunta Raggi per verificare se le ultime 11 assunzioni capitoline possano aver causato eventuali danni alle casse del Comune. I casi sono noti. Il più imbarazzante resta quello della fidanzata di Gianni Lemmetti, assessore al Bilancio del Comune. Silvia Di Manno, 44enne libraia di Pietrasanta, era entrata nello staff del titolare dell' Urbanistica, Luca Montuori, grazie a una delibera votata durante la riunione di giunta del 17 marzo. La sua assunzione in veste di segretaria politica e il contratto che le avrebbe garantito 23 mila euro lordi fino alla fine della consiliatura pentastellata hanno fatto scatenare Raggi. Impossibile far finta di nulla davanti al video pubblicato da Di Manno su Facebook, un filmato (nel frattempo sparito dai social) in cui Lemmetti baciava proprio la neoassunta a palazzo Senatorio. Il contratto di Di Manno è durato appena 5 giorni, poi sono arrivate le dimissioni. L'altro stipendio su cui si concentreranno il pool coordinato dal procuratore regionale Pio Silvestri è quello di Cristiano Battaglini. Lemmetti lo ha conosciuto sui campi dell' Unione pallavolo camaiorese. Poi il titolare dei conti di palazzo Senatorio ha chiamato l' amico a Roma. Arrivato nel 2017 da diplomato, con un contratto da 41 mila euro annui, Battaglini nel frattempo si è laureato all' università telematica eCampus e ha ottenuto una doppio scatto di stipendio. Prima il suo salario è salito a 55 mila euro all' anno. Poi, promosso capostaff nel corso della riunione di giunta ora nel mirino della Corte dei Conti, ha portato a casa un accordo da 91 mila euro annui. Sulla sua delibera è scoppiato il caso scovato da Fratelli d' Italia. Nella delibera che assicura il nuovo aumento, il collaboratore di Lemmetti si presenta come ingegnere. Ma il Consiglio nazionale degli ingegneri sul punto è categorico: « Battaglini non risulta iscritto al nostro albo e solo chi ne fa parte può fregiarsi del titolo di ingegnere » . In Campidoglio, dove la sindaca sarebbe stata sul punto di chiedere anche la testa del nuovo capostaff all' assessore al Bilancio, il caso è rientrato. Adesso, però, la palla passa alla procura di viale Mazzini. I pm contabili si concentreranno di nuovo su Lemmetti ( nel frattempo è stata archiviata l' indagine sui rimborsi chilometrici per l' andirivieni in auto dell' assessore tra Roma e la sua Camaiore, in Toscana) ma anche sulle altre nomine formalizzate il 17 marzo. Nel pacchetto ci sono comunicatori, videomaker ed esperti in media e politica. Assunzioni last minute che sommate pesano per 300 mila euro sui conti del Campidoglio e che hanno immediatamente sollevato le polemiche delle opposizioni: « La sindaca Virginia Raggi sta pagando la sua campagna elettorale con i soldi dei romani». Posizioni su cui è subito schierata la Lega che ora chiede alla Corte dei Conti di fare chiarezza sull' ultima infornata grillina.
Estratto dell'articolo di Daniele Autieri per “la Repubblica - ed. Roma” il 23 marzo 2021. Anche Virginia Raggi è inciampata sui "famigli". I due recenti tentativi corsari di inserire tra i collaboratori degli uffici di giunta prima Massimiliano Capo, amico del cuore della neo-assessore alla Cultura Lorenza Fruci, quindi Silvia Di Manno, compagna dell' assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, permettono di riaprire il libro della parentopoli […] Stando ai calcoli del dipartimento Risorse Umane del Campidoglio sono oggi 97 i "collaboratori politici", ovvero i dipendenti non a tempo indeterminato assegnati agli uffici di diretta collaborazione agli organi politici, assunti ai sensi dell'ormai famigerato articolo 90 del decreto legislativo del 2000. Un bel numero che mette Virginia Raggi, la paladina della battaglia giudiziaria contro la vecchia Parentopoli di Alemanno, davanti all' ex-sindaco e al suo successore Ignazio Marino, che tentò di ridurre al massimo il numero dei collaboratori. Nel solo 2020 il Comune di Roma ha speso 5,3 milioni di euro per gli stipendi al personale di supporto politico, un risultato che permette alla Raggi di battere i suoi predecessori. Nel 2013 la giunta Marino arrivò a spendere 3,8 milioni, mentre Gianni Alemanno - passato alla storia anche per le inchieste sulle Parentopoli delle società municipalizzate - si fermò a 2,8 milioni, una cifra comunque superiore a quella dei più grandi comuni italiani. A distanza di un decennio, il Comune a trazione Raggi spende più del doppio di quanto non faccia Milano, che nel 2020 ha stanziato per questo genere di contratti 2 milioni di euro. Oltre al dato complessivo, è interessante registrare come con il passare dei mesi e l' avvicinarsi dell' ormai prossima tornata elettorale, il costo del personale sia aumentato. […]
Francesco Pacifico per “il Messaggero” il 23 marzo 2021. Virginia Raggi ieri mattina ha piegato le ultime resistenze di Gianni Lemmetti e così Silvia Di Manno, compagna dell' assessore, ha rinunciato all' incarico ricevuto mercoledì scorso nello staff del responsabile dell' Urbanistica, Luca Montuori. Il caso ha creato non pochi imbarazzi in Campidoglio e alla sindaca, che soltanto 24 ore aveva posto Lemmetti davanti un aut aut: se la donna non si fosse dimessa velocemente, il Comune avrebbe revocato la delibera di nomina. Ma ci sarebbero state ripercussioni nei confronti dello stesso responsabile del Bilancio capitolino. Alle 13.31 di ieri la vicenda ha visto la sua conclusione. Un esito a detta di molti previsto, ma meno scontato rispetto alle polemiche degli ultimi giorni. A quell' ora - e diretta alle Pec delle Risorse umane, della segreteria della sindaca e degli assessori Antonio De Santis (Personale) e Montuori - è arrivata una mail della Di Manno: «La sottoscritta comunica di rassegnare le dimissioni dal rapporto di lavoro con Roma Capitale con effetto immediato». Firmato Silvia Di Manno. Ma difficilmente queste poche righe riusciranno a chiudere un caso, che tanto ha sconvolto Palazzo Senatorio e potrebbe avere ancora ulteriori strascichi. La Di Manno, libraia di Viareggio e soprattutto compagna dell' assessore al Bilancio, Gianni Lemmetti, è finita nel mirino dopo che le era stato affidato un incarico (stipendio 23mila euro all' anno) nello staff di Luca Montuori, titolare dell' Urbanistica. Una scelta in chiaro conflitto d' interessi, che ha fatto non poco imbufalire la sindaca Virginia Raggi. La quale si è detta all' oscuro della cosa e avrebbe anche minacciato di far saltare gli assessori coinvolti: cioè Lemmetti e Montuori. «Sulla trasparenza - avrebbe detto ai suoi nel pieno della crisi - qui non si scherza, non guardiamo in faccia a nessuno». Perché la crisi si è sfiorata. In mattinata era girata la voce che il potente assessore al Bilancio rischiasse di perdere il posto. Anche perché domenica, in una telefonata molto dura con la stessa sindaca, Lemmetti avrebbe provato a resistere all' aut aut e avrebbe difeso l' onorabilità sua e della fidanzata. Secondo alcuni, avrebbe anche tentato fino alla fine di non far dimettere la sua compagna. Ieri, a ora di pranzo, l' epilogo della vicenda. Come detto, potrebbe non bastare per chiudere il caso e non soltanto perché in maggioranza molti criticano lo strapotere dell' assessore e la sua gestione di partite importanti come il salvataggio di Ama, nel quale il Consiglio si sente tenuto all' oscuro. Le opposizioni - Pd, Fratelli d' Italia - chiedono di convocare la commissione Trasparenza, la Lega promette esposti alla Corte dei Conti. Dal Nazareno il capogruppo Giulio Pelonzi nota: «Resta da chiarire il fatto politico rilevante: cioè la sindaca ha il controllo di ciò che succede in Campidoglio rispetto alle decisioni della sua giunta e del cerchio dei fedelissimi che ha messo nei posti chiave dell' amministrazione? Ci domandiamo se la sindaca riesca a guidare l' amministrazione o subisca decisioni altrui». Da Fdi il consigliere Francesco Figliomeni fa sapere che è stato richiesto anche «un dettagliato accesso agli atti a varie strutture del Campidoglio, tra cui gabinetto del sindaco, segretario generale e capo dell' Avvocatura» per avere riscontri su altre nomine fatte da Lemmetti. Come quella a Cristiano Battaglini, nello staff dell' assessore con uno stipendio di circa 91.000 euro annui», il quale - «con esperienze nella pallavolo e nel settore turistico» - secondo il consigliere del partito della Meloni avrebbe registrato in pochi anni un fortissimo aumento del suo emolumento, passando da 40mila a 91mila euro. Duri anche i consiglieri ribelli M5S come Donatella Iorio, Angelo Sturni e Marco Terranova: «La sindaca e la giunta facciano immediata chiarezza venendo in Assemblea Capitolina. Ci aspettiamo qualcosa di più rispetto ad annunci di revoche e giustificazioni legate ad assenze».
Lettera pubblicata da “la Repubblica” il 27 marzo 2021. Caro Merlo, due erano le ipotesi Raggi: o una sindaca colpevole o una sindaca "ingenua". In tutti e due i casi non votabile. Norman Accardi
La risposta di Francesco Merlo. Né colpevole né ingenua. Ma onesta e inadeguata. Penso che Roma sia governata malissimo e infatti Repubblica ne racconta da più di dieci anni il degrado. Eviterei però la parola colpevole che rimanda sia alla liquidazione della politica per via giudiziaria sia al battersi tre volte il petto del catechismo: « mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa ». Né credo che Raggi sia ingenua. Ne è prova la sapiente tenacia con cui sfida i 5 stelle pur restandovi dentro. Rifiutò persino il posto consolatorio da sottosegretario che le offri il Conte2: «Come minimo me dovevano fa' vicepremier». Ora, con una nuova luce di libertà perdente, si oppone all' accordo tra Pd e grillini, che non può certo puntare sulla sua ricandidatura a Roma: «Non mi piacciono i giochi tra i partiti». Pessima sindaca ma ottima combattente.
Lorenzo d' Albergo per “la Repubblica – ed. Roma” il 27 marzo 2021. I dissidenti grillini, gli stessi che tengono in piedi la maggioranza 5S ormai appesa a un filo, attaccano sull' ultima infornata di nomine della giunta Raggi. E nel frattempo emergono nuovi dettagli sull' incarico affidato a Silvia Di Manno, libraia di Pietrasanta e fidanzata di Gianni Lemmetti, assessore al Bilancio, assunta nello staff di Luca Montuori, collega titolare dell' Urbanistica. Ieri mattina il caso è stato sviscerato in commissione Trasparenza, alla presenza dei dirigenti che hanno firmato le 11 delibere approvate il 17 marzo. Assente, invece, la controparte politica. Nel corso delle due ore di discussione non si è visto nemmeno un raggiano. Assente anche l' assessore al Personale, Antonio De Santis, convocato per commentare la vicenda Di Manno e dare un parere sul resto delle assunzioni. Parola, allora, alla fronda 5S. Per Marco Terranova, uno dei quattro che si è già schierato contro la ricandidatura di Virginia Raggi, «il fatto è ampiamente documentato. La mia opinione sull' accaduto è critica ed è la stessa che aveva un tempo anche il resto del Movimento». Chiuso l'amaro momento amarcord, il consigliere "ribelle" punta dritto sulla riunione di giunta in cui sono state votate 11 tra assunzioni e promozioni di collaboratori degli assessori: « Risulta che la sindaca fosse assente. La prima cittadina fa bene a essere irritata. Ma se dei miei collaboratori facessero alle mie spalle e in mia assenza cose a me non gradite, altro che arrabbiatura o irritazione. Sul resto degli incarichi, dico che vanno bene se devo sostituire chi è andato via. Ma mancando solo 4 o 5 mesi...mi chiedo quanto sia utile chi entra in uno staff già al lavoro da 5 anni». Un dubbio condiviso dalla compagna di fronda, Donatella Iorio. La consigliera 5S sembra faticare a credere alla versione di Raggi. Fa difficoltà a pensare che nessuno sapesse niente dell' assunzione che ha messo in imbarazzo il Campidoglio: « Credo che tutti gli assessori siano informati delle delibere in discussione in giunta. E che il sindaco sia sempre avvertito preventivamente». Ma la versione della sindaca non cambia: « Era assente e non sapeva nulla di quelle nomine», ripetono in Campidoglio. Non si può dire lo stesso, almeno a giudicare dagli atti recuperati dalle opposizioni, degli altri due assessori che hanno confezionato l' incarico di Silvia Di Manno. La richiesta di metterla sotto contratto, firmata dall' assessore Luca Montuori, è datata 11 febbraio. Il 4 marzo alla direzione Risorse umane dall' Urbanistica arriva anche il curriculum della compagna di Lemmetti. Il 15 marzo la delibera di nomina viene firmata dall' assessore al Personale, Antonio De Santis. Infine il voto del 17 marzo. Con giallo: l' assessore al Bilancio, coinvolto personalmente nell' operazione, a un certo punto della seduta lascia la sala delle Bandiere. Lo stesso, come raccontato da Repubblica, fa Montuori. Collegato in videoconferenza, dopo aver provato ad avvertire Raggi dell' assunzione sospetta, interrompe le comunicazioni. Entrambi sarebbero stati assenti al momento del voto della delibera. « Pretendere che al servizio di Roma vengano chiamate persone competenti e non solo amici o fidanzate riteniamo sia il minimo che debba fare un rappresentante eletto dai cittadini » , attacca Figliomeni. I meloniani, così come la Lega, a breve depositeranno un dettagliatissimo esposto alla procura della Corte dei Conti.
Lorenzo D’Albergo per “la Repubblica” il 27 marzo 2021. In Campidoglio hanno messo nel mirino Gianni Lemmetti, l' assessore al Bilancio che ha fatto assumere la sua fidanzata. Ma nella Regione di Nicola Zingaretti, presidente del Lazio ed ex segretario del Pd, i dem sono in difficoltà. In imbarazzo per il pacchetto di assunzioni che a cavallo delle ultime feste di Natale ha garantito un posto a tempo indeterminato a 24 tra politici, collaboratori e attivisti di fede piddina. Nessuna irregolarità amministrativa. Ma, considerati tempistica e nomi in ballo, non si fatica a comprendere i mal di pancia della maggioranza di centrosinistra e il silenzio dei 5S, appena entrati in giunta. Per ricostruire la vicenda bisogna partire da Allumiere, 3.800 anime in provincia di Roma, per poi spostarsi in Regione. È il 18 dicembre quando il Consiglio di presidenza della Pisana decide di assumere 18 funzionari. La normativa permette di selezionarli dall' ultimo bando chiuso nel proprio territorio. Il concorso più recente, concluso solo quattro giorni prima, è quello del comune di Allumiere. Il sindaco? È Antonio Pasquini, da tre anni in comando proprio negli uffici della Regione che hanno prosciugato le graduatorie del suo paese. Nell' elenco degli assunti (è il 28 dicembre) ci sono due collaboratori del presidente del Consiglio, Mauro Buschini. Con loro anche Matteo Marconi, segretario Pd di Trevignano e Arianna Bellia, assessora di San Cesareo. Ancora, Augusta Morini, assessora di Labico, Paco Fracassa, segretario dem di Allumiere, un componente del circolo di Frosinone e tre militanti di Allumiere, Civitavecchia e Roma. Spunta pure un collaboratore del vicepresidente del Consiglio in quota Lega, Giuseppe Cangemi. Restano da sistemare altre 8 assunzioni. Ci pensa Guidonia, comune alle porte della capitale guidato dal pentastellato Michel Barbet: è sempre il 28 dicembre quando il grillino assume Marco Palumbo, consigliere dem in Campidoglio, presidente della commissione Trasparenza - che giusto ieri ha vagliato le nomine della sindaca Raggi - e già in Regione con Buschini. Lo accompagna Matteo Manunta, collaboratore di Devid Porrello, vicepresidente 5S del Consiglio. Chiude la lista Massimo D' Orazio, assessore di Isola del Liri e altro collaboratore di Buschini. Contattato da Repubblica , il presidente del Consiglio si limita a ribadire la «regolarità» dell' intera procedura. Nulla da dire sull' opportunità di assumere in massa personale di area dem, con un paio di comparse 5S e leghiste. Nel Pd, però, non si discute d' altro. Il deputato Matteo Orfini, ex commissario dei dem romani nel post Mafia Capitale, è incredulo: «È sconcertante. È necessario fare chiarezza subito, senza timidezze ». Sono d' accordo i consiglieri di maggioranza che ora sperano nello sfogo consegnato ai suoi da Zingaretti: «Non posso caricarmi sulle spalle il mondo. Nessuno chiede a Draghi cosa fanno alla presidenza della Camera». Un' esplosione d' ira che, lo auspicano i piddini in Regione, potrebbe ancora far ballare le assunzioni politiche.
(ANSA il 21 giugno 2021) - Richiesta di rinvio a giudizio per l'ex rettrice dell'Università per Stranieri di Perugia Giuliana Grego Bolli e altri tre indagati per l'indagine legata all'esame per la conoscenza dell'italiano sostenuto da Luis Suarez nel settembre dell'anno scorso. Il provvedimento della procura perugina riguarda anche l'allora direttore generale Simone Olivieri, la professoressa Stefania Spina e l'avvocato Maria Cesarina Turco. Falsità ideologica e rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio i reati ipotizzati a vario titolo. L'inizio dell'udienza preliminare è stato fissato per il 28 settembre prossimo.
(ANSA il 21 aprile 2021) - Chiusa l'inchiesta sull'esame "farsa" per la conoscenza della lingua italiana sostenuto da Luis Suarez all'Università per Stranieri di Perugia nel settembre 2020. La procura di Perugia ha infatti notificato l'avviso di conclusione indagini all'ex rettrice Giuliana Grego Bolli, all'allora direttore generale Simone Olivieri, alla professoressa Stefania Spina e all'avvocato Maria Cesarina Turco. Falsità ideologica e rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio i reati ipotizzati a vario titolo.
Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 22 aprile 2021. Otto mesi di indagini, interrogatori e accertamenti non hanno cambiato la sostanza dell' affaire Suarez, così come s' era svelato dai primi indizi: per il centravanti uruguayano all' epoca in forza al Barcellona fu organizzato, nel settembre scorso, un «esame farsa» utile a certificare la sua conoscenza della lingua italiana, in modo da ottenere un passaporto europeo ed essere acquistato dalla Juventus come cittadino comunitario. La prova fu effettivamente sostenuta dal calciatore, che conseguì il diploma, ma poi il trasferimento alla società bianconera saltò. Particolare che non è servito a evitare l' inchiesta e adesso il suo atto finale, che conferma l' ipotesi iniziale: a orchestrare l' esame truccato, secondo l' accusa, contribuì anche l' avvocata torinese Maria Cesarina Turco, «legale incaricato dalla società Juventus football club», in qualità di «concorrente morale e istigatrice». È scritto nell' avviso di conclusione indagini della Procura di Perugia, notificato ieri all' avvocata Turco e ad altri tre indagati dell' Università per stranieri del capoluogo umbro: l' ex rettrice Giuliana Grego Bolli, il direttore generale (sospeso dall' incarico) Simone Olivieri e la professoressa Stefania Spina, anche lei interdetta dalle funzioni. Un quinto indagato, Lorenzo Rocca, esaminatore di Suarez, è uscito dall' inchiesta patteggiando la pena (sospesa) di un anno. L' accusa che coinvolge la legale incaricata dalla Juventus di seguire la vicenda del centravanti straniero che doveva diventare prima italiano e poi bianconero, è falso in atto pubblico. Secondo i pubblici ministeri Paolo Abbritti e Gianpaolo Mocetti, coordinati dal procuratore Raffaele Cantone, il reato fu commesso quando, il 9 settembre, l' università perugina fissò una sessione straordinaria d' esame per il successivo giovedì 17, «attestando falsamente» che il motivo derivasse da «esigenze logistiche (connesse all' occupazione di aule) e di sicurezza (connesse alla necessità di evitare assembramenti in relazione all' emergenza legata alla diffusione del Covid-19)»; in realtà, sostiene la Procura, quella sessione venne «istituita ad personam , per consentire al calciatore Luis Alberto Suarez di ottenere, nei tempi richiesti dalla Juventus, e all' esito di una fittizia procedura di esame, la certificazione linguistica» necessaria al conseguimento della cittadinanza. Gli altri reati, la rivelazione di segreto e un ulteriore falso, vengono contestati ai soli dipendenti dell' ateneo per stranieri. Il primo è conseguenza del fatto che la professoressa Spina, responsabile del corso di preparazione seguito da Suarez prima dell' esame, gli trasmise in anticipo «il file pdf contenente l' intero svolgimento della prova poi tenuta il 17 settembre». In pratica il calciatore arrivò in Italia, a bordo di un aereo privato, sapendo già le domande a cui avrebbe dovuto rispondere. Con un «vantaggio patrimoniale» per lui, che a cittadinanza ottenuta sarebbe stato ingaggiato dalla Juve, ma anche per l' Università, che incassò i soldi dell' iscrizione all' esame e al corso preparatorio (1.748 euro) insieme alla «prospettata attivazione di un rapporto convenzionale con la richiamata società calcistica (sempre la Juventus, ndr) per future stabili collaborazioni nel settore della formazione linguistica di calciatori stranieri», oltre che dalla promozione d' immagine dell' ateneo «sui principali media nazionali ed esteri». Infine c' è l' ulteriore falso di un diploma che attesta la conoscenza della lingua italiana da parte del candidato a livello B1, richiesto per avere il passaporto. Fu il frutto di una «verifica fittizia», accusano i pm, forti anche delle intercettazioni in cui gli indagati, prima dell' esame, dicevano fra loro che Suarez «non spiccica 'na parola», e parla un «italiano para amigos ». La conclusione delle indagini prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati a cui è stata comunicata, ma si tratta di uno stralcio rispetto all' inchiesta principale che resta aperta. In quel fascicolo sono iscritti fra gli indagati anche il dirigente juventino Fabio Paratici e l' avvocato della società Luigi Chiappero, per «false informazioni al pm». Paratici in particolare aveva negato qualunque contatto con il ministero dell' Interno o altri ministeri sull' istanza di Suarez. In realtà aveva chiesto lumi all' allora ministra dei Trasporti Paola De Micheli, sua amica, che girò le domande al Viminale. Quanto basta per far dire ai pm che la Juventus «si è mossa ai massimi livelli istituzionali per velocizzare la pratica ministeriale».
Caso Suarez, chiuse le indagini di Perugia. L'avvocata della Juve "istigatrice morale". Fabio Tonacci su La Repubblica il 21 aprile 2021. Cinque gli indagati nell'inchiesta sull'esame farsa sostenuto il 17 settembre scorso dal calciatore uruguaiano presso l'Ateneo per stranieri. Le accuse: falso ideologico e materiale, rivelazione di segreto d'ufficio. Non c'è più l'ipotesi corruzione. Adesso i pm dovranno formulare la richiesta di rinvio a giudizio. Chiuse le indagini sul caso dell'esame farsa di Luis Alberto Suarez. Rimane l'accusa per l'avvocata della Juventus, Maria Turco, definita "concorrente morale e istigatrice” dell'intera vicenda. La procura di Perugia ha appena inviato ai cinque indagati l'avviso con cui si segnala la conclusione della fase istruttoria, prodromica alla richiesta di rinvio a giudizio. Sono 5 pagine. Vediamole nel dettaglio. Alla ex rettrice dell'Università per Stranieri Giuliana Grego Bolli, al direttore generale Simone Olivieri, ai due professori Stefania Spina e Lorenzo Rocca (che ha già patteggiato una pena) e a Maria Turco, avvocata della Juventus, i pm contestano il reato di falso ideologico in concorso. In particolare, scrivono i magistrati guidati da Raffaele Cantone, Maria Turco, “in qualità di legale incaricato dalla società Juventus, quale concorrente morale e istigatrice”, e gli altri quattro, “in veste di pubblici ufficiali”, attestavano falsamente nella delibera del Centro di Valutazione e Certificazioni linguistiche del 9 settembre” che la sessione straordinaria del 17 settembre fosse necessaria “per esigenze logistiche e di sicurezza”, quando invece “veniva istituita ad personam solo per consentire a Suarez di ottenere, nei tempi richiesti dalla Juventus e all'esito di una fittizia procedura di esame, la certificazione linguistica”. I pm ritengono i vertici dell'Ateneo responsabili anche del reato di rivelazione di segreto d'ufficio in concorso per il file pdf “contenente l'intero svolgimento della prova tenutasi poi il 17 settembre 2020” che venne inviato via mail al calciatore uruguaiano il 12 settembre dalla professoressa Spina. Il fine era, secondo gli inquirenti, era ottenere vantaggi patrimoniali “derivanti dalla prospettata attivazione di un rapporto convenzionale con la Juventus per future collaborazioni nel settore della formazione linguistica di calciatori stranieri, anche del settore giovanile, e dalla diffusione a alivello internazionale dell'immagine dell'Ateneo, sui principali media nazionale ed esteri”. Gli stessi Grego Bolli, Olivieri, Spina e Rocca sono di conseguenza accusati anche di falso ideologico e materiale, per il verbale d'esame redatto dalla commissione che ha promosso Suarez, attestando un livello di conoscenza dell'italiano di livello B, necessario per mandare avanti la procedura di ottenimento del passaporto comunitario. Sparita laccusa la corruzione, inizialmente ipotizzata in fase di indagine.
(ANSA il 30 aprile 2021) "Mi chiamo Luis... sono nato in Uruguay... sono sposato con mia moglie da dieci anni... ho tre figli... sono calciatore professionista": a parlare è Luis Suarez nel cosiddetto esame "farsa" per la conoscenza dell'italiano sostenuto all'Università per Stranieri di Perugia. Una prova intercettata con una microtelecamera nell'ambito dell'indagine condotta dalla procura del capoluogo umbro e ora tra gli atti depositati dopo l'avviso di conclusione indagini agli ex vertici dell'Ateneo. Magliettina bianca, calzoni corti jeans e scarpe da tennis, l'attaccante compare in una piccola aula davanti ai due esaminatori. "Ciao, tutto bene?" chiede loro Suarez. "Tutto bene la risposta". Seduto a una scrivania, si vede l'attaccante, ripreso di spalle, compilare un modulo con i dati anagrafici. In un clima apparentemente disteso. "Possiamo cominciare l'esame" gli dice uno degli esaminatori che gli chiedono poi di parlare di sé e di presentarsi. Suarez parla quindi della sua famiglia, delle sue squadre di club - "da quanto gioca con il Barcellona?" una delle domande, "sei anni" la risposta - e con la nazionale. "E nel tempo libero cosa le piace fare?" è un'altra delle domande. "Mi piace stare con la mia famiglia, gioco alla play station con i miei figli", la risposta.
(ANSA il 30 aprile 2021) "Bambino porta cocomera... cocomero... perperoni... frutta e verdura con il carrello": Luis Suarez usò queste parole nell'esame per la conoscenza della lingua italiana all'Università per Stranieri di Perugia. Lo fece quando gli esaminatori gli chiesero di descrivere due immagini. Mentre una telecamera fatta installare dalla procura di Perugia riprendeva il tutto. "In questa immagine sono una mamma e un bambino che fa i compiti" si sente dire Suarez. "E nell'altra?" chiede l'esaminatore. "Ci sono quattro persone, papà, mamma, bambino e bambina... per fare spesa... bambino porta cocomera...", le parole del "pistolero".
Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 30 aprile 2021. Spuntano le immagini dell’esame farsa di Luis Suarez, sostenuto il 17 settembre scorso presso l’Università per Stranieri di Perugia per ottenere la cittadinanza italiana ed essere tesserato dalla Juventus. Le immagini riprese con la telecamera nascosta. Sulla vicenda indaga la Procura di Perugia che, prima dell’esame del calciatore, avrebbe fatto installare una telecamera nascosta nella stanza. L’ateneo è nel mirino degli inquirenti da tempo: le intercettazioni non riguardano solo il caso del calciatore uruguaiano.
Le Iene News il 30 aprile 2021.Gli inquirenti avevano ripreso con una telecamera nascosta l’esame d’italiano di Luis z in settembre e il video e le sue parole circolano oggi. Quell’esame, per avere la cittadinanza italiana e passare alla Juventus (l’affare è poi sfumato), sarebbe stato concordato perché il calciatore uruguaiano non conosce la nostra lingua. “Hermano”, “cocomella” e altre perle sembrano confermarlo, com’era già successo con i nostri Corti e Onnis! “Mi chiamo Luis… sono calciatore professionista". Ora c’è anche un video che circola con tutto l’esame farsa di italiano sostenuto dal calciatore Luis Suarez all'Università per stranieri di Perugia. Con tutte le sue parole. È stato girato con una microcamera messa nella plafoniera dagli inquirenti e figura agli atti dopo l’avviso di chiusura delle indagini. L’attaccante uruguaiano, al tempo al Barcellona e oggi all’Atletico Madrid, aveva sostenuto il 17 settembre scorso quell’esame per poter passare alla Juventus senza entrare in “quota extracomunitari” (l’affare poi non andrà in porto). Doveva ottenere la certificazione linguistica B1 per ottenere la cittadinanza italiana. L’ipotesi delle indagini, che scatenarono subito immediate e fortissime polemiche, è che tutto fosse stato concordato facendogli avere le domande in anticipo perché non sa l’italiano. E in effetti, nonostante l’aiutino improprio, molte parole che usa sembrano confermarlo. Noi, con il servizio dell’8 ottobre scorso di Stefano Corti e Alessandro Onnis che vedete qui sopra, eravamo andati a interrogare in italiano prima tre campioni nostrani Antonio Cassano, Nicola Ventola e Christian Abbiati, poi eravamo andati a parlare direttamente con Luis Suarez che anche in quell’occasione non aveva in effetti brillato nella nostra lingua! “Ho cinque hermano” (cinque fratelli, evidentemente), dice per esempio durante l’esame Suarez, che usa spesso in realtà i verbi solo all’infinito, senza declinarli. Descrive così un'immagine: “Ci sono quattro persone, papà, mamà e bambino e bambine a fare cibo. Il supermercato, la spesa. A mangiare, il bambino porta cocomella”. Il “pistolero”, secondo il suo soprannome calcistico, voleva dire “cocomero”. E non sono le uniche “perle” di un esame che non sembrerebbe meritare il buon livello di certificazione B1 che pure in un primo tempo gli era stata concesso.
Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 28 aprile 2021. La vicenda del calciatore Luis Suarez «è stata gestita interamente dal direttore sportivo Fabio Paratici». Così il 26 gennaio scorso, davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone e ai pubblici ministeri che indagano sull’esame che doveva consentire al giocatore uruguaiano di ottenere la cittadinanza italiana, il presidente della Juventus Andrea Agnelli nega di aver mai avuto un ruolo nella procedura. E aggiunge: «Paratici ha ampia delega nei limiti del budget assegnato. A lui compete la scelta in relazione all’ingaggio dei calciatori. Naturalmente mi informa in modo occasionale e casuale». Ma il manager Maurizio Lombardo rivela: «Il 30 agosto 2020 prima di mandare la mail all’avvocato Zaldua ho provato a chiedere il nulla osta paratici a Paratici. Lui nel messaggio di risposta mi ha scritto di mandarla prima al presidente Andrea Agnelli e poi all’avvocato del calciatore. Io risposi che avevo già mandato tale proposta al presidente un’ora prima perché Paratici mi aveva già detto di procedere in tal senso. Il presidente non mi ha mai risposto ma paratici mi ha riferito che aveva parlato lui e che potevo procedere con l’invio all’avvocato Zaldua».
I reati di falso. La procura, sulla base delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza, ha chiuso le indagini nei confronti della professoressa Stefania Spina, della ex rettrice Giuliana Grego Bolli e del direttore dell’Università per gli stranieri di Perugia Simone Olivieri contestando il falso e la rivelazione di segreto. Il reato di falso è stato contestato all’avvocatessa della Juventus Maria Turco. Paratici e l’avvocato Luigi Chiappero sono invece indagati per fale informazioni al pubblico ministero. Agnelli, sentito come testimone, dichiara: «Per quanto attiene a Suarez ricordo che durante un pranzo svolto mi pare a fine agosto Nevdev, il vice presidente, mi disse che il calciatore del Barcellona si era proposto con un sms, per un ingaggio alla Juventus. In quel periodo erano in piedi trattative per Dzeko, Milik, Cavani e Morata che poi è stato acquistato, oltre all’ipotesi relativa a Suarez. All’inizio di settembre fu informato che l’ingaggio di Suarez era di difficile realizzazione perché era risultato che non aveva la cittadinanza comunitaria». I magistrati contestato al presidente della Juventus di aver ricevuto mail con la proposta contrattuale per Suarez, ma anche in questo caso Agnelli nega: «Non ricordo la mail tuttavia non mi occupo delle condizioni contrattuali». Subito dopo fa un controllo e deve ammettere di averla ricevuta. E poco dopo, sempre rispondendo alle domande dei pm è costretto ad ammettere: «Lombardo mi fece presente di aver formulato la richiesta di tesseramento per verificare se si potesse inserire un calciatore nelle liste Champions anche successivamente alla scadenza fissata per i primi di ottobre. Tale parere costituisce prova secondo me del fatto che il 14 settembre era già chiaro che Suarez non poteva essere tesserato in tempo». Agnelli aggiunge di essere stato informato della vicenda relativa all’esame di italiano «dai giornali e ricordo che chiamai il calciatore in un’unica occasione per ringraziarlo di essersi proposto nutrendo stima nelle capacità sportive del calciatore e ritenendo che la sua proposta fosse ragione di orgoglio per la nostra società». E sulle richieste di intervento dell’allora ministra Paola De Micheli sollecitate dallo staff della Juventus dice: «Non mi ha sorpreso perché sono a conoscenza dei rapporti personali tra De Micheli e Paratici e trattandosi di una richiesta di informazioni sull’ufficio da contattare non mi è parso ci fosse nulla di strano». Racconta Lombardo: «Il 3 settembre Fabio Paratici mi invia un Sms recante il numero di telefono di una sua conoscente amica di infanzia che è il ministro Paola De Micheli e mi invia altresì il documento del ministero dell’Interno che attestava in relazione alla pratica di cittadinanza di Suarez la mancanza della certificazione di lingua. A seguire mi chiama e mi spiega che il numero che mi ha mandato è quello di Paola. E mi invita a inviarle un WhatsApp con i documenti di Suarez che avevo ricevuto da Zualda. Sicuramente allega il deposito della domanda di Suarez del gennaio 2019 però dice non mi dice nulla sul motivo per il quale devo mandare i documenti alla De Micheli nei io chiesi nulla i messaggi con il ministro non li ho tenuti in memoria ma cancellati ricordo che il messo non mi risponde in alcun modo. Racconta Lombardo: «Il giorno in cui sono stato convocato dalla finanza ho avvisato Chiappero che mi ha dato appuntamento per le 17 a studio dove l’ho incontrato ed era presente anche l’avvocato Turco. Ho percorso con loro sommariamente i fatti e mi hanno consigliato di non fare riferimento ad Anna Maria Ciaravola della scuola di lingua e al ministro Paola De Micheli. In particolare la Turco mi disse che Annamaria aveva già fatto un gran casino in questa vicenda il corso di lingua mentre chi ha però mi dice che non era il caso di citare una persona molto esposta come il ministro.al termine avvisato che è vero della conclusione dell’atto che tutto era andato bene il giorno successivo erano d’accordo e vederci ma poi anche in considerazione notizie ho preso la stampa pronunciata incontrarlo. Da quel momento ho sentito l’esigenza di non avere più contatti con nessuno entourage della squadra e sono tornato a Brescia dalla mia famiglia».
Esame farsa: Suarez tira dentro la Juventus. "Contattato da Nedved e Paratici. Poi Agnelli..." Il calciatore uruguaiano svela di aver ricevuto un pdf con le risposte da dare ai test all'Università degli stranieri. "Il presidente mi telefonò per dirmi grazie". Luca Fazzo - Mar, 16/03/2021 - su Il Giornale. L'intero stato maggiore della Juventus: Pavel Nedved, Fabio Paratici e persino il presidente Andrea Agnelli. Interrogato dai pubblici ministeri di Perugia, Luis Suarez chiama in causa la dirigenza bianconera per il ruolo svolto nel tentativo di portarlo a giocare a Torino, culminato nel surreale esame di italiano davanti ai docenti dell'Università del capoluogo umbro. Un esame di cui, chiudendo di fatto uno dei pezzi cruciali dell'inchiesta, Suarez conferma di avere ricevuto in anticipo per posta elettronica le domande. Suarez risponde alle domande degli inquirenti protetto sia dalla distanza (è collegato in teleconferenza dalla Spagna) sia dallo status che la Procura di Perugia gli ha riservato: semplice testimone, non è finito nel registro degli indagati nonostante alcuni tentativi della Juventus, almeno agli esordi dell'indagine, di scaricare su di lui e sul suo staff la responsabilità degli accordi sottobanco con l'ateneo italiano. La linea della Procura è chiara: anche se era il principale beneficiario dell'esame farsa, non c'è traccia che Suarez abbia avuto alcun ruolo nei due reati su cui è incentrata l'accusa, ovvero la falsificazione dei verbali da parte dei docenti e la corruzione dei docenti da parte dei legali di fiducia del club bianconero. Di quello che ha visto accadere intorno a lui, Suarez può dunque parlare serenamente, senza paura di darsi la zappa sui piedi. Così l'attaccante uruguaiano racconta gli esordi della trattativa: «Verso fine agosto, inizio settembre, ho ricevuto prima una chiamata da Nedved, poi da Paratici. All'inizio era soltanto per sapere se ero interessato alla trattativa, dopo se n'è occupato il mio avvocato». Il giocatore racconta di avere spiegato quasi subito alla Juve di non poter ancora essere tesserato come comunitario: «Paratici mi disse che mi avevano contattato perché pensavano che avessi il passaporto italiano come mia moglie. Gli risposi che non lo avevo, avevo solo iniziato a fare la relativa pratica chiedendo tutti i certificati necessari nei paesi in cui ho vissuto». Come extracomunitario Suarez non può essere tesserato, così parte la gara contro il tempo per superare l'esame di italiano. «Avevo già contattato il consolato e sapevo che dovevo venire in Italia per sostenere l'esame. Mi è stata indicata solo Perugia come sede di esame». Chiedono i pm: con quali referenti della Juventus ha avuto contatti in questo periodo? «Con Nedved per l'aspetto sportivo, con Paratici e col presidente Agnelli, due o tre giorni dopo l'esame di lingua, che mi ha ringraziato per lo sforzo che avevo fatto per liberarmi dal Barcellona». Per la Procura di Perugia, il giorno in cui sostenne l'esame di italiano, il giocatore sapeva già per filo e per segno le domande che gli sarebbero state rivolte, come dimostra una mail con allegato un file pdf inviatogli per tempo. Interrogata dai pm, la docente che inviò la mail ha sostenuto che si trattava di una «simulazione», una prova come se ne fa per ogni esame. Ma nel suo interrogatorio (reso il 18 dicembre e divenuto pubblico solo ieri grazie a uno scoop del sito di Repubblica) il giocatore dell'Atletico Madrid la racconta un po' diversamente: «Ha detto che dovevo studiarlo bene perché quel testo poteva essere chiesto all'esame». L'andamento fu comunque fantozziano, «il bambino porta cucumella». Ma lo promossero.
Da calciomercato.com il 15 marzo 2021. "La professoressa Spina mi ha mandato la mail con l'allegato pdf e ha detto che dovevo studiarlo bene perché quel testo poteva essere chiesto all'esame". Questo - scrive Repubblica - è il passaggio chiave dell'interrogatorio di Luis Alberto Suarez, sostenuto il 18 dicembre scorso in videoconferenza con i pm Paolo Abbritti e Giampaolo Mocetti, alla presenza di una interprete di lingua spagnola. Passaggio chiave perché, per la pubblica accusa, avvalora la tesi che il test di italiano superato all'Università per Stranieri di Perugia è stato una farsa, in quanto al giocatore uruguayano è stata data la possibilità di conoscere in anticipo le domande e imparare a memoria le risposte. Per l'avvocato David Brunelli, invece, la frase dimostra che non c'era la certezza matematica che il contenuto di quell'allegato (chiamato "esame") diventasse oggetto della prova. "Le parole del calciatore - sostiene il legale di Stefania Spina, che ha fatto ricorso contro la decisione del gip di sospendere la professoressa per otto mesi - non contraddicono la versione della mia assistita: stavano facendo una simulazione, nel corso delle lezioni lei gli ha inviato anche altro materiale didattico". Nell'inchiesta della procura perugina guidata da Raffaele Cantone sono indagati per falso ideologico e materiale gli ex vertici dell'Università per Stranieri, l'esaminatore Lorenzo Rocca (ha già patteggiato una condanna di un anno), Stefania Spina e l'avvocata della Juve Maria Turco. Il direttore sportivo Fabio Paratici e l'altro avvocato del club, Luigi Chiappero, sono accusati di false dichiarazioni ai pm. All'inizio di settembre la società bianconera era interessata a comprare Suarez ma serviva che lui ottenesse la cittadinanza italiana. Le domande degli inquirenti all'ex attaccante del Barcellona (che non è indagato) cominciano proprio da lì. Questo il materiale a disposizione di Repubblica:
Quando viene a conoscenza dell'interessamento della Juventus?
"Verso fine agosto, inizio settembre, ho ricevuto prima una chiamata da Nedved, poi da Paratici".
C'era un accordo sui termini del contratto?
"No, all'inizio era soltanto per sapere se ero interessato alla trattativa. Dopo se n'è occupato il mio avvocato".
Quando ha saputo che la Juventus intendeva tesserarla come comunitario?
"Non ricordo, ma Paratici mi disse che mi avevano contattato perché pensavano che avessi il passaporto italiano come mia moglie. Gli risposi che non lo avevo, avevo solo iniziato a fare la relativa pratica chiedendo tutti i certificati necessari nei Paesi in cui ho vissuto".
Quando le dicono che avrebbe dovuto sostenere l'esame di lingua italiana?
"Sarà stato tra l'8 e il 10 settembre, quando ho iniziato le lezioni".
Durante le lezioni online era presente solo la professoressa Spina?
"I primi due giorni c'era un'altra ragazza, una sorta di tutor che interveniva per alcune traduzioni in spagnolo. Un altro giorno c'era Lorenzo (Rocca, ndr)".
Cosa avete fatto con Lorenzo?
"Lo stesso che facevo con Stefania: mi faceva domande su ciò che avrebbero potuto chiedere in sede di esame".
Le ha fatto vedere delle immagini?
"Sì, 15-20 immagini tra le quali scegliere, io dovevo descriverle. Me le ha fatte vedere tutte dicendo che due o quattro, a scelta, avrebbero potuto essere oggetto dell'esame".
Spina le inviava materiali da studiare?
"Mi mandava il materiale di tutto quello che si faceva nella lezione online" (...)
Quante lezioni ha seguito?
"Nove o dieci".
Dalle indagini risulta che la professoressa Spina le ha mandato una mail con un allegato pdf, scrivendo che era il testo per l'esame: ricorda di avere ricevuto tale messaggio?
"Sì".
Le ha detto che doveva studiare specificatamente bene quel testo?
"Ha detto che dovevo studiarlo bene perché quel testo poteva essere chiesto all'esame".
Si ricorda chi gli disse, e quando, che l'accordo con la Juve stava venendo meno?
"Non ricordo. Il mio avvocato aveva parlato con Paratici e aveva saputo che era difficile ottenere la cittadinanza. Allora ho deciso di proseguire comunque la pratica per ottenere il passaporto. Non ricordo la data esatta ma era durante le lezioni".
Fino al 14 settembre lei si diceva contento di venire a Torino per vincere la Champions, ce lo conferma?
"Sì, però dopo ho detto a Spina che non sarei più venuto alla Juve".
Dopo l'esame ha parlato con la Juventus?
"Sì, il giorno stesso. Paratici mi chiamò quando ero in aeroporto per dirmi che avevo fatto la scelta migliore per la mia famiglia. Due giorni dopo mi chiamò il presidente Agnelli per dirmi che era dispiaciuto che la trattativa non era andata a buon fine e mi ringraziava per quanto avevo fatto per facilitare la trattativa, anche forzando i rapporti con il Barcellona".
Chi chiamò il taxi che l'ha portata dall'aeroporto all'Università?
"La società che si è occupata dell'organizzazione del volo".
Le è mai stata prospettata la possibilità di fare l'esame a Barcellona? E in altre città d'Italia?
"No, avevo già contattato il Consolato e sapevo che dovevo venire in Italia per sostenere l'esame. Mi è stata indicata solo Perugia come sede di esame".
Con quali referenti della Juventus ha avuto contatti in questo periodo?
"Con Nedved per l'aspetto sportivo, con Paratici e col presidente Agnelli, due o tre giorni dopo l'esame di lingua, che mi ha ringraziato per lo sforzo che avevo fatto per liberarmi dal Barcellona. Agnelli mi disse che con il calcio non si possono mai fare programmi certi. Con Agnelli non avevo parlato prima di allora".
Da fanpage.it il 25 febbraio 2021. Prima sentenza sul caso di Luis Suarez e dell'esame farsa sostenuto presso l'Università per Stranieri di Perugia per l'ottenimento della cittadinanza italiana. Il professor Lorenzo Rocca, membro della Commissione che ha ascoltato il calciatore nella mattinata di oggi, come riportato da Umbria24.it, ha patteggiato un anno con pena sospesa. Lorenzo Rocca era uno degli esaminatori dell'Università per Stranieri di Perugia che ha ascoltato Luis Suarez nel corso dell'esame per l'ottenimento della certificazione necessaria per la lingua italiana, lo scorso 17 settembre, finito poi al centro di un'inchiesta della Procura di Perugia. Il professore indagato in concorso con la rettrice Giuliana Grego Bolli, la professoressa Stefania Spina, il direttore generale Simone Olivieri con l'accusa di aver rivelato i contenuti dell'esame orale al calciatore, ha deciso di patteggiare, un anno con pensa sospesa. Revocata dunque la misura cautelare interdittiva della sospensione per otto mesi, con la sua posizione che è stata dunque stralciata dal fascicolo principale. Nessuna revoca invece per la professoressa Stefania Spina, ovvero quella che avrebbe inviato al centravanti dell'Atletico Madrid l'intero testo dell'esame. Una situazione legata all'ammissione di Luis Suarez (è quanto sostenuto dal gip, in un provvedimento legato alle indagini) sulla ricezione in anticipo rispetto alla prova del testo dell'esame che avrebbe poi sostenuto. La docente dal canto suo si è difesa ribadendo di aver solo suggerito all'attuale centravanti dell'Atletico Madrid, di approfondire gli stessi argomenti trattati durante le lezioni. L'inchiesta è entrata nel vivo e nei prossimi giorni potrebbero arrivare ulteriori novità, con avvisi di conclusione delle indagini.
Da repubblica.it il 23 febbraio 2021. Parla di "ammissione del calciatore Suarez" di "avere ricevuto dalla prof. Spina" il file con il testo dell'esame per la conoscenza dell'italiano sostenuto all'Università per Stranieri di Perugia il gip in un provvedimento legato all'inchiesta che coinvolge anche gli ormai ex vertici dell'Ateneo. Lo fa motivando le decisione di respingere la richiesta di revoca della misura interdittiva applicata alla stessa professoressa Stefania Spina. Secondo il gip la docente - sospesa per otto mesi - aveva "sollecitato" lo studio del file inviato a Suarez che a sua volta "aveva assicurato di ripassare bene anche durante il volo verso Perugia". Interrogata dal pm, Spina ha però negato di avere fornito a Suarez il testo dell'esame. "Non si tratta di un copione - ha detto ai magistrati - ma di materiale che abbiamo usato a lezione. Ho detto a Suarez soltanto di prepararsi su tutto quello che avevamo fatto a lezione. Il testo del pdf contiene la presentazione con cui avrebbe cominciato l'esame e perciò avrebbe dovuto memorizzare quella parte di testo". Secondo il gip però Spina - docente della Stranieri ed ex direttrice del Centro di valutazione e certificazioni linguistiche - avrebbe contribuito "in maniera determinante" al quello che secondo gli inquirenti è stato "l'esame farsa" di Suarez all'Università per Stranieri di Perugia. L'inchiesta della procura perugina appare ormai alle ultime battute e non è escluso che a breve i pm possano inviare eventuali avvisi di conclusione delle indagini o formulare richieste di archiviazione.
Siamo tutti juventini. Per quale ragione l’Università di Perugia agevolò oltre le soglie della decenza l’esame di italiano del calciatore...Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'11/2/2021. Per quale ragione l’Università di Perugia agevolò oltre le soglie della decenza l’esame di italiano del calciatore uruguagio Suarez, uno che parla la nostra lingua come Renzi l’inglese? A cinque mesi dalla farsa, l’ex rettrice Giuliana Grego Bolli ha svelato il mistero. Gli esaminatori erano ultrà della Juventus, la squadra presso cui Suarez si sarebbe dovuto accasare. Quanto alla Grego Bolli, agnostica in fatto di tifo, la sua presenza accanto al calciatore facilitato era dovuta alla necessità di racimolare un autografo per il nipote, lui sì assai juventino. Dalle parole della cattedratica emerge una realtà ben nota a chiunque in cuor suo bazzichi quella brutta bestia che è il tifo: l’appartenenza calcistica è la lobby più diffusa d’Italia. Altro che Gruppo Bilderberg o logge segrete. Tra tifosi della stessa squadra esiste un filo invisibile di fratellanza che si trasforma in canale preferenziale. Un imprenditore con il poster di Totti dietro la scrivania assumerà più volentieri un romanista o un laziale? Esistono milanisti di sinistra che sono finiti in analisi perché non riuscivano a detestare Berlusconi. E, se ti chiami Diego, i tassisti napoletani ti fanno lo sconto. Lungi da me l’intenzione di giustificarla, ma, nella patria delle corporazioni, quella del tifo è una delle poche a essere mossa da qualcosa che assomiglia, per gli affiliati, a un ideale disinteressato.
Caso Suarez, interrogata la professoressa Spina: "Non ho mai dato al giocatore un copione da seguire". Fabio Tonacci su La Repubblica il 15 febbraio 2021. E' stata sentita per due ore dagli inquirenti di Perugia, a proposito dell'esame "farsa" sostenuto dal giocatore lo scorso 17 settembre. Nell'inchiesta sono indagati anche dirigenti della Juventus. "La prova era facilitata a causa del Covid". "Non ho mai dato a Suarez un copione da seguire". Così, davanti ai pm, si è difesa Stefania Spina, la professoressa che ha preparato l'attaccante uruguaiano Luis Alberto Suarez per l'esame di italiano sostenuto presso l'Università per stranieri di Perugia. Lei è accusata di aver inviato al calciatore il pdf col testo integrale della prova. Esame, tenutosi lo scorso 17 settembre, che i pubblici ministeri guidati da Raffaele Cantone non hanno esitato a definire "farsa", per le modalità in cui si è svolto e per la decisione dell'Ateneo di anticipare la sessione solo per Suarez. L'inchiesta, aperta cinque mesi fa, ipotizza i reati di falso ideologico, falso materiale e rivelazione di segreto d'ufficio. La professoressa Spina, che si è affidata allo studio legale Brunelli per tutelarsi, è stata interrogata per due ore e ha risposto a tutte le domande degli inquirenti. Ha rivendicato la piena correttezza del suo operato. Ha contestualizzato alcuni passaggi delle intercettazioni, diventati ormai celebri, come "Suarez non spiccica una parola di italiano", "parla all'infinito", "non coniuga i verbi", "è al massimo un A1 (livello di conoscenza base, inferiore al B1, necessario per prendere la cittadinanza italiana, ndr). La professoressa ha poi distinto il suo ruolo nella preparazione del candidato da quello delle persone che lo hanno esaminato il 17 settembre, ricostruendo le sue interlocuzioni con l'esaminatore Lorenzo Rocca e in particolare i contenuti del pdf che gli ha inviato "al solo fine di illustrargli come si era svolta la preparazione". Sostiene che il suo pronostico circa il buon esito della prova dipendeva dal fatto che si trattava di un test molto semplificato a causa del Covid e che la commissione non avrebbe potuto che scegliere come argomento da sottoporre al candidato il tema della famiglia, tra quelli che figuravano come possibili. "Suarez non era mai stato in Italia per un certo periodo di tempo e quindi non sarebbe stato possibile farlo parlare di altri argomenti che presupponevano una certa conoscenza della realtà italiana, quali la sicurezza sul lavoro, il sistema fiscale, la scuola", ha detto. I pm hanno ascoltato e preso nota. Stefania Spina è indagata per falso e per rivelazione di segreto d'ufficio. Sono iscritti nel registro degli indagati anche il dirigente della Juventus Fabio Paratici (l'accusa è false dichiarazioni al pm) e l'avvocata del club bianconero Maria Turco.
Fabio Tonacci per "la Repubblica" il 10 febbraio 2021. Tra la professoressa Giuliana Grego Bolli e il bomber dell' Atletico Madrid, Luis Alberto Suarez, non ci sono sei gradi di separazione. Ce ne sono almeno seimila. Vivono in universi paralleli che si sono toccati solo una volta, il 17 settembre scorso, giorno dell'esame "farsa" sostenuto dal calciatore obiettivo di mercato della Juventus. E a bruciarsi è stata la rettrice (ora dimissionaria) dell'Università per stranieri di Perugia. Grego Bolli (69 anni) è indagata per falso e rivelazione di segreto d'ufficio. È difesa dallo studio legale Brunelli. Da quando è scoppiato lo scandalo, non ha mai voluto parlare. Né con i giornalisti, né con i magistrati. Adesso consegna a Repubblica la sua versione dei fatti.
Sapeva chi era Suarez?
«No. Quando mi hanno chiamato per dirmi che la Juventus stava cercando di fargli fare l'esame di italiano, mi hanno dovuto spiegare chi fosse. Nella mia famiglia sono tutti juventini, io non guardo le partite».
La sua prima reazione?
«Ho pensato che fosse un buona opportunità per rilanciare la visibilità del mio Ateneo».
È stata mai contattata dai manager bianconeri?
«No, mai. Ci parlava il direttore generale Simone Olivieri, a cui ho affidato l'organizzazione».
È noto che la Juve avesse fretta di far ottenere la cittadinanza all' attaccante. Avete anticipato una sessione di esame di soli cinque giorni e su richiesta di un solo candidato. È normale?
«La nostra scelta è stata parte dell'operazione di promozione dell' Ateneo ed è legittimo istituire una sessione aggiuntiva».
L'avrebbe fatto anche se il candidato non si fosse chiamato Suarez?
«Sì. Inoltre mettere l'esame il 17 serviva a evitare i rischi di assembramento dovuti alla presenza di un calciatore così famoso».
Rischi che c'erano il 22 settembre così come il 17. La pandemia usata come scusa?
«Il 22 ci sarebbero stati altri 40 candidati a sostenere l'esame di lingua e, in concomitanza, i test di ingresso per i corsi di laurea. È stata una mossa giusta, la rivendico».
I finanzieri hanno scoperto che la professoressa Stefania Spina aveva consegnato a Suarez il pdf con l'intero testo dell' esame. È normale anche questo?
«Non ho avuto alcun ruolo nella preparazione né dell'esame, né del certificato di prova superata».
È davvero convinta che l'esame livello B1 sia stato regolare?
«Il B1 richiede una capacità di farsi capire a livello medio-basso. Essendo ispanofono, Suarez era facilitato. Durante la pandemia l'esame di B1 si tiene solo in forma orale e dura circa 12 minuti. A queste condizioni risulta più accessibile. Avendo studiato, Suarez poteva superare un B1. Però io non l'ho mai sentito parlare».
Lo ha sentito la professoressa Spina. In un messaggio le spiega che Suarez ha una preparazione di livello inferiore, l'A. E lei risponde: "No, è un B1".
«Era una battuta, scherzavamo».
Sempre Spina, al telefono: "Suarez parla all' infinito" e "non coniuga i verbi". Scherzi anche questi?
«Non potevo sentire cosa si dicevano al telefono i miei collaboratori. Di sicuro c'è stata una sovrabbondanza di chiacchiere, un'euforia dovuta in parte alla legittima voglia di promuovere l'Ateneo e in parte alla fede calcistica. Spina e Olivieri sono juventini. C' era un clima da stadio».
L'impressione è che l' intero Ateneo si sia messo a disposizione.
«Non ho mai avuto questa sensazione, né pressioni di alcun genere. A me di Suarez non importava niente».
Veramente si è fatta fotografare insieme a lui dopo il test.
«Ero lì perché mio nipote mi aveva chiesto di portagli l' autografo».
Alla vigilia l' esaminatore Lorenzo Rocca teme che Suarez possa incontrare i giornalisti. "Gli fanno due domande in italiano e va in crisi...". Lei risponde: "Va fatto uscire dalla porta secondaria".
«Suarez è uscito da dove è entrato. La mia premura era evitare che i giornalisti gli chiedessero del contratto con la Juve. Argomento riservato e che niente c' entra con l'ambito universitario».
Quella conversazione si chiude con Rocca che le dice: "In due mesi riuscirà a diventare B1". Aggiunge che Suarez "sta memorizzando parti dell'esame". Sinceramente, ha mai rischiato di essere bocciato?
«Dal mio punto di vista, sì».
La Juventus vi aveva promesso qualcosa?
«Olivieri mi parlò della possibilità di stipulare una convenzione per i giocatori della primavera. L'ho ritenuta una buona opportunità, ma non l'ho mai presa sul serio».
Suarez era il primo studente famoso che vi capitava?
«In passato abbiamo avuto padre Georg Gänswein, l'assistente di papa Ratzinger. Se me l'avesse chiesto, avrei anticipato la sessione d'esame anche per lui perché siamo un'istituzione pubblica. Mi ferisce la cattiveria di chi ha pensato che volessi favorire un ricco, cosa proprio contraria ai miei principi».
Lei ha denunciato l'ex dg Cristiano Nicoletti. Perché?
«Appena diventata rettrice ho scoperto un ammanco di 3,2 milioni di euro per mancati incassi relativi ai programmi Turandot e Marco Polo dedicati a studenti cinesi. Le anomalie amministrativo contabili arrivavano fino al 2014. Abbiamo depositato un esposto in procura e preso i provvedimenti conseguenti interni tra cui il licenziamento di Nicoletti. Il quale ha fatto ricorso contro il licenziamento e ha portato alla procura una contro-denuncia contro di me e Olivieri, con la conseguenza di mischiare le acque e deviare l'attenzione dagli ammanchi. Dei miei esposti non so più niente, tranne che Nicoletti è indagato. Io ho lasciato l'Ateneo in buono stato, con un consuntivo 2019 in positivo di 2,9 milioni di euro».
C'è qualcosa che non rifarebbe?
«Non mi riavvicinerei al mondo del calcio. Se ritornasse un Suarez a chiedere di fare l'esame, direi di no. Non per Suarez, ma per il clamore che si porta dietro il calcio. Adesso ho paura di tutto».
Giuseppe China per “la Verità” il 16 gennaio 2021. Emergono nuovi particolari sull' inchiesta della Procura di Perugia sul caso dell' esame fasullo del calciatore Luis Suarez. Nelle ultime ore - oltre al coinvolgimento attivo del ministro delle Infrastrutture in quota Pd, Paola De Micheli (non indagata) - si va delineando il ruolo avuto da un dirigente juventino: Maurizio Lombardo, segretario generale della società bianconera fino al 31 ottobre 2020. Come riportato da Repubblica, l' uomo è già stato ascoltato in due occasioni dai pm perugini, ma i verbali sono sono stati secretati. Inoltre risulta che Lombardo non sia stato inserito nel registro degli indagati. È il 3 settembre scorso quando la titolare del Mit, De Micheli viene contattata da un altro dirigente della Juventus, Fabio Paratici. Egli confida all' amica d' infanzia (entrambi sono originari di Piacenza) che il club di Torino sta per acquistare Suarez. «Mi spiegò (Paratici, ndr) che non aveva il passaporto italiano e che Suarez aveva già presentato domanda al Consolato italiano di Barcellona per l' ottenimento della cittadinanza, ma la domanda», ha dichiarato De Micheli ai magistrati lo scorso 13 novembre, «non si era completata ed era necessario verificare se potesse in qualche modo completare l' iter, chiedendomi a tal fine un supporto». Ed è qui che entra in gioco Lombardo che, dopo la conversazione tra De Micheli e Paratici (indagato per false dichiarazioni ai pm), invia alla dem tutta la documentazione per sbloccare e completare la pratica di Suarez. Sul cellulare della titolare del Mit arrivano la domanda di cittadinanza, il primo rigetto del ministero, il passaporto spagnolo dell' attaccante e alcuni certificati di buona condotta rilasciati da autorità straniere. Che De Micheli si sia appassionata alla vicenda del campione lo dimostrano due circostanze.
Primo: fino al 17 settembre, giorno dell' esame farsa di Suarez all' Università per stranieri di Perugia, i tabulati hanno evidenziato un giro di almeno nove telefonate e sette messaggi tra i manager e la politica del Pd.
Secondo: è stata De Micheli a contattare e a inoltrare al capo di gabinetto del ministero dell' Interno, Bruno Frattasi, parte delle carte ricevute da Lombardo. Quest' ultimo inoltre segnalerà a Federico Cherubini, braccio destro di Paratici, il nome di Maurizio Oliviero, rettore dell' Università di Perugia, che presenterà ai manager juventini Simone Olivieri, dg dell' ateneo per stranieri. Intanto, in seguito al forfait di un membro del cda, ieri si è dimessa la prorettrice Dianella Gambini, che era subentrata a Giuliana Grego Bolli, coinvolta nel caso Suarez.
Luis Suarez, la ministra Paola De Micheli e la pratica: «C’è un contatto per accelerare?» Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 14/1/2021. La chat di Paola De Micheli col capo di gabinetto del ministero dell’Interno. E Paratici rivela: l’affare era fatto per 10 milioni. «La Juventus mi chiede notizie di questa richiesta di cittadinanza. Mi aiuteresti?». Comincia da questo messaggio della ministra dei Trasporti Paola De Micheli al capo di gabinetto del ministero dell’Interno Bruno Frattasi, inviato alle 11,34 del 3 settembre 2020, la storia dell’«esame farsa» di Luis Suarez ricostruita dalla Procura di Perugia; in quel momento s’innesca il meccanismo che ha portato all’indagine su vertici e dipendenti dell’Università per stranieri (dimessisi o sospesi), sul dirigente bianconero Fabio Paratici e due avvocati della società.
«Indirizzali a me, poi ci penso io». La ministra allega gli estremi della pratica avviata in passato dal centravanti uruguayano ancora del Barcellona, e alle 17,14 Frattasi le trasmette la risposta ricevuta dal Dipartimento competente: istanza rigettata nel 2019 per mancanza di conoscenza della lingua italiana; «se, come credo, vogliono riproporre una nuova istanza di concessione possiamo supportarli», in modo da «produrre correttamente quanto richiesto». Quattro minuti dopo De Micheli spiega: «Trattasi di un giocatore che la Juve vuole comprare. Non ha fatto l’esame perché sta da 11 anni in Europa. Ma non lo ha scritto nella domanda. Quindi mi consigli di mettere in contatto la Juve con un tuo dirigente per accelerare????». Risposta di Frattasi: «Sì, indirizzali a me, poi ci penso io».
Le ammissioni del ministro. Il seguito l’ha raccontato lo stesso capo di gabinetto ai pm perugini. La stessa sera del 3 settembre lo chiamò l’avvocato della Juventus Luigi Chiappero, al quale trasmise il numero del telefono del prefetto Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le libertà civili e Immigrazione. E la ministra dei Trasporti svela nel verbale del 13 novembre scorso che la richiesta di aiuto per «accelerare » la pratica Suarez derivava da una telefonata ricevuta dal suo concittadino e amico d’infanzia Paratici: «Mi disse che la Juve stava comprando Suarez e l’accordo era quasi fatto... Si erano accorti che non aveva passaporto comunitario, cosa emersa a trattativa quasi conclusa, e quindi il requisito della cittadinanza era indispensabile per il buon fine dell’operazione».
L’accordo sul calciatore. La conferma arriva proprio da Paratici, il quale nell’interrogatorio dell’11 novembre rivela che l’affare Suarez era fatto: «L’interlocuzione consentì di raggiungere un accordo del valore di circa 7,5 milioni di euro all’anno netti, comprensivi di circa 1,5 milioni di bonus facilmente raggiungibili. C’erano poi altri bonus più difficili da raggiungere, fino a un totale di 10 milioni. L’accordo era un anno più 1 o 2 con una clausola di recesso a favore della società, dopo il primo anno».
La mancanza del passaporto. L’accordo si chiude il 30 agosto, con i dirigenti bianconeri convinti che Suarez fosse già un cittadino comunitario, «perché questo dicevano tutti i siti specializzati». Ma nottetempo Paratici viene assalito da un dubbio e la mattina dopo scrive al procuratore di Suarez: «Una pregunta por hacer seguro: Luis tiene pasaporte comunitario tambien, verdad?». Risposta: «Buenos dias Fabio. No tiene pasaporte europeo». C’era solo la vecchia domanda respinta.
Il ruolo dell’avvocato. Paratici racconta che a quel punto la pratica fu affidata all’avvocato Chiappero per capire se e come fosse possibile superare il problema, e precisa che il legale fu contattato «sicuramente dopo il 5 settembre, mi pare il 6-7 settembre». Non è vero, visto che già la sera del 3 Chiappero chiamò al Viminale, e il dirigente juventino omette di nominare la ministra De Micheli. Anzi, a specifica domanda su «eventuali interlocuzioni con il ministero dell’Interno o altri ministeri, sia con referenti amministrativi che politici», nega: «Escludo di aver avuto contatti con il ministero dell’Interno o con altri ministeri. La mia partecipazione sulla vicenda si ferma ad aver dato mandato all’avvocato Chiappero, come già riferito». Per questa risposta Paratici è indagato per false dichiarazioni al pm, e l’inchiesta prosegue per individuare altri eventuali coinvolgimenti e scoprire il motivo per cui — ottenuto il certificato di conoscenza della lingua italiana grazie all’«esame farsa» organizzato dall’Università per stranieri di Perugia, contattata tramite il direttore sportivo Fabio Cherubini — la Juve mollò l’affare Suarez nonostante ci fossero ancora i tempi per ottenere la cittadinanza. Tanto più che, come ricordato dalla vice-prefetta Antonella Dinacci, «l’urgenza della pratica era stata evidenziata dai miei superiori».
Da "la Nazione" il 14 gennaio 2021. Il 17 settembre scorso l' attaccante del Barcellona (ora è all' Atletico Madrid), Luis Suarez (in foto con l' ex rettore Giuliana Grego Bolli), supera l' esame di italiano per la cittadinanza all' Università per stranieri di Perugia. I pm Raffaele Cantone apre un' inchiesta: Suarez conosceva le domande, l' esame era concordato. I vertici dell' università e i manager della Juventus, che voleva comprare il calciatore, vengono indagati. Il rettore Grego Bolli si dimette.
Erika Pontini per "la Nazione" il 14 gennaio 2021. Il ministro dei Trasporti, Paola De Micheli, chiese al capo di gabinetto del Viminale, Bruno Frattasi, un 'aiuto' per la cittadinanza di Luis Suarez, per conto del ds della Juventus, Fabio Paratici suo amico di infanzia. «La Juventus mi chiede notizie di questa richiesta di cittadinanza. Mi aiuteresti?», scrive la De Micheli in un messaggio WhatsApp il 3 settembre scorso. E quando Frattasi le comunica che «l' istanza è stata rifiutata per mancanza del requisito della conoscenza della lingua italiana dal consolato di Barcellona», la ministra aggiunge: «Trattasi di un giocatore che la Juve vuole comprare. Non ha fatto l' esame perché sta da 11 anni in Europa. Mi consigli di mettere in contatto la juve con un tuo dirigente x accelerare????». Alla risposta affermativa di Frattasi la De Micheli comunica il nominativo dell' avvocato del club, Luigi Chiappero, che si confronta con Frattasi per poi essere messo in contatto con il prefetto Michele Di Bari e, di lì con la dirigente Antonella Dinacci. I messaggi tra la De Micheli e Frattasi sono stati consegnati da quest' ultimo, in occasione dell' audizione del 4 novembre davanti ai pm di Perugia, Paolo Abbritti e Gianpaolo Mocetti nell' ambito dell' indagine sull' esame-farsa del campione uruguaiano che ha portato alla sospensione per 8 mesi della rettrice, Giuliana Grego Bolli (che si è poi dimessa), del dirigente generale, Simone Olivieri, della professoressa Stefania Spina e dell' esaminatore Lorenzo Rocca (che ha già chiesto il patteggiamento a un anno). La ministra, sentita il 13 novembre dai magistrati, ha ammesso l' interessamento: «Durante il calciomercato fui contattata da Fabio Paratici, mio amico di infanzia. Mi disse che la Juve stava comprando Suarez, che l'accordo era quasi fatto. Mi spiegò che non aveva il passaporto italiano, non si erano accorti e quindi il requisito della cittadinanza era indispensabile per il buon esito dell' operazione. Paratici mi disse che Suarez aveva già presentato domanda al consolato italiano di Barcellona ma che la domanda non si era completata e che era necessario verificare se si potesse in qualche modo completare l'iter, chiedendomi, a tal fine supporto. Io risposi che non avendo competenza avrei contattato il capo di gabinetto del ministero dell' Interno (Bruno Frattasi, ndr), cosa che feci subito». I magistrati chiedono se successivamente abbia avuto altre interlocuzioni circa la vicenda. «Non ho più avuto alcun riscontro, né dal ministero, né da Paratici. Con lui mi sono sentita diverse volte, ma non mi ha fatto più alcun cenno alla vicenda Suarez». Il verbale della ministra smentisce però Paratici, indagato dalla procura per false dichiarazioni, come pure l' avvocato Chiappero. Entrambi mentirono sui contatti avuti ai vertici, secondo gli inquirenti, ostacolando le indagini. «Escludo di aver avuto contatti con il ministero dell' Interno o con altri ministeri. La mia partecipazione alla vicenda si limita ad aver dato mandato all' avvocato Chiappero». L' ipotesi della procura, diretta da Raffaele Cantone, è che la trattativa con Suarez saltò non tanto per i tempi della cittadinanza, visto che la dirigente del ministero dell' Interno Antonella Dinacci ha sostenuto che avrebbe potuto 'sollecitare il consolato', quanto perché sapevano dell' indagine in corso. Sentito l' 11 novembre infatti Paratici racconta i retroscena della trattativa per l' acquisto del campione. «Di fatto l' accordo con Suarez era stato raggiunto: 7,5 milioni di euro netti, comprensivi di un bonus di 1,5 milioni», oltre a «bonus più difficili da raggiungere fino a un totale di 10 milioni di euro». «La trattativa la chiudiamo il 30 agosto. Noi eravamo convinti, perché questo dicevano i siti specializzati che il calciatore avesse cittadinanza comunitaria e in particolare italiana in quanto aveva moglie e figli italiani ed era in Europa da 11 anni». Ma il dubbio lo assilla: «Una notte chiesi a Ivan (il fiscalista di Suarez, ndr) conferma del fatto che fosse comunitario: «Una pregunta por hacer seguro: luis tiene pasaporte comunitario tambien verdad?». La speranza si infrange alle 8.45 del mattino: «Buenas dias Fabio. No tiene pasaporte europeo». A quel punto il ds contatta l' avvocato della squadra, Luigi Chiappero. «Il 10 settembre facemmo una riunione con lo staff di Chiappero nella quale fu chiarito - spiega sempre Paratici - che il calciatore avrebbe seguito un corso online e che Suarez avrebbe tenuto l'esame il 17 settembre a Perugia» ma «intorno al 12-13 settembre Chiappero mi contattò e mi disse che, nonostante l' eventuale raggiungimento della certificazione linguistica non avremmo fatto in tempo a conseguire la cittadinanza entro il 5 ottobre». I dubbi della procura restano.
Paolo De Micheli, l'intercettazione sul caso Suarez-Juve. "Mi aiuteresti?", roba da dimissioni immediate. Libero Quotidiano il 14 gennaio 2021. "La Juventus mi chiede notizie di questa richiesta di cittadinanza. Mi aiuteresti?". Questo il messaggio della ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, al capo di gabinetto del ministero dell'Interno Bruno Frattasi, per l'"esame farsa" di Luis Suarez su cui sta indagando la Procura di Perugia. La ministra manda a Frattasi gli estremi di una vecchia pratica di Suarez, quando chiede la cittadinanza spagnola all'epoca del suo sodalizio con il Barcellona, e il capo di gabinetto le risponde con la risposta ricevuta dal Dipartimento competente: "istanza rigettata nel 2019 per mancanza di conoscenza della lingua italiana". Frattasi, però, aggiunge, "se, come credo, vogliono riproporre una nuova istanza di concessione possiamo supportarli in modo da produrre correttamente quanto richiesto". La controrisposta della De Micheli è immediata: "Trattasi di un giocatore che la Juve vuole comprare. Non ha fatto l'esame perché sta da 11 anni in Europa. Ma non lo ha scritto nella domanda. Quindi mi consigli di mettere in contatto la Juve con un tuo dirigente per accelerare????". Risposta di Frattasi: "Sì,indirizzali a me, poi ci penso io", scrive il Corriere della Sera riportando l'intercettazione che incastra la De Micheli e che mette la ministra di fronte alle sue responsabilità: c'è già chi invoca le dimissioni. La stessa ministra dei Trasporti, ha raccontato ai magistrati nell'incontro con i magistrati di Perugia il 13 novembre, di aver avuto una richiesta di aiuto per "accelerare" la pratica Suarez da una telefonata ricevuta dal suo concittadino e amico d'infanzia Paratici, l'ad della Juventus. "Mi disse che la Juve stava comprando Suarez e l'accordo era quasi fatto... Si erano accorti che non aveva passaporto comunitario, cosa emersa a trattativa quasi conclusa, e quindi il requisito della cittadinanza era indispensabile per il buon fine dell'operazione".
Caso Suarez, ecco le chat tra la Juve, De Micheli e il Viminale. Un terzo dirigente bianconero dai pm. Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 15 gennaio 2021. Quelle nove telefonate e quei sette messaggi per riuscire a garantire al calciatore il passaporto italiano. Il ruolo di Maurizio Lombardo. Non solo Paratici e Cherubini. Nell'inchiesta sull'esame farsa di Luis Suarez finisce anche un terzo dirigente juventino, ormai ex visto che ha lasciato Torino lo scorso 31 ottobre per risoluzione del contratto. Si tratta del triestino Maurizio Lombardo, per nove anni - dal 2011 al 2020 - segretario generale del club bianconero. L'uomo che si occupava dei contratti, dei documenti, dei regolamenti. Il suo nome è citato nei verbali dei testimoni e degli indagati ascoltati dalla procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone. Lombardo è stato sentito già due volte dai pm. Il suo verbale è ancora secretato e lui non risulta indagato. Ma da quel che si può ricostruire dagli atti sin qui depositati, Lombardo ha avuto un ruolo, seppur in apparenza minore, nella genesi del pasticcio dell'esame sostenuto il 17 settembre presso l'Università per Stranieri. Che venne preceduto, documentano i tabulati, da un giro di almeno 9 telefonate e 7 messaggi tra manager juventini, la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli, il capo di gabinetto del Viminale. Conversazioni di cui vi è traccia nelle chat allegate agli atti.
"Lombardo mi ha dato i documenti di Suarez". Paola De Micheli viene chiamata il 3 settembre da Fabio Paratici, il responsabile dell'area tecnica della Juventus. I due, entrambi di Piacenza, sono amici da tempo. "Mi disse che la Juve stava comprando Suarez e che l'accordo era quasi fatto", dirà la ministra ai pm. "Mi spiegò che non aveva il passaporto italiano e che Suarez aveva già presentato domanda al Consolato italiano di Barcellona per l'ottenimento della cittadinanza, ma la domanda non si era completata ed era necessario verificare se potesse in qualche modo completare l'iter, chiedendomi a tal fine un supporto". Subito dopo la chiamata di Paratici, sul telefonino della ministra arriva via whatsapp tutta la documentazione necessaria per riavviare la pratica Suarez e portarla a completamento: la domanda di cittadinanza, il primo rigetto del ministero, il passaporto spagnolo del calciatore e alcuni certificati di buona condotta rilasciati da autorità straniere. A inviarglierli è Lombardo. Che sarà anche colui che qualche giorno dopo, precisamente il 7 settembre, durante una riunione per decidere dove far svolgere l'esame a Suarez, segnala a Federico Cherubini, braccio destro di Paratici, il nome di Maurizio Oliviero. E' il rettore dell'Università di Perugia che metterà la Juve in contatto con Simone Olivieri, direttore generale dell'Università per Stranieri (indagato per aver anticipato e organizzato una sessione ad hoc per il calciatore). Ma torniamo a quel 3 settembre.
La chat De Micheli-Frattasi per accelerare la pratica. La ministra si attiva subito con il capo di gabinetto del Viminale, il prefetto Bruno Frattasi, che contatta via Whatsapp alle 11.34 di mattina."So che oggi sei in giro (era con la ministra Lamorgese a Palermo per la commemorazione dell'uccisione del generale Dalla Chiesa, ndr). Ma la Juventus mi chiede notizie di questa richiesta di cittadinanza. Mi aiuteresti?". Gli invia alcuni dei documenti ricevuti da Lombardo. "Appena arrivo a Roma mi attivo", risponde il prefetto.
Alle 17.14 Frattasi le inoltra un messaggio di uno dei suoi collaboratori. E aggiunge: "Se, come credo, vogliono riproporre una nuova istanza di concessione, possiamo supportarli". La ministra: "Trattasi di un giocatore che la Juve vuole comprare. Non ha fatto l'esame perché sta da 11 anni in Europa. Ma non lo ha scritto nella domanda. Quindi mi consigli di mettere in contatto la Juve con un tuo dirigente x accelerare???". Frattasi è disponibile. "Sì, indirizzali anche a me, poi ci penso io". De Micheli indica l'avvocato Luigi Chiappero, storico legale della Juve. Sarà lui a occuparsi di tenere i contatti col Viminale per avere informazioni sullo stato di avanzamento della pratica. Nei tabulati della sua utenza, i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Perugia hanno trovato due chiamate a Frattasi tra il 3 e il 4 settembre, altre tre telefonate (due il 4 settembre, una l'8) a un numero fisso del Dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero, tre contatti con un altra utenza intestata al ministero successivi all'esame (il 28 settembre, il primo e il 5 ottobre).
"Ottenere il differimento dei termini della Lega Calcio". Frattasi chiede al prefetto Michele Di Bari, capo del Dipartimento dell'Immigrazione, di tenerlo aggiornato. La catena di comando del Viminale deve essere tenuta al corrente della pratica Suarez-Juve. Un primo riscontro Di Bari glielo dà già il 4 settembre, inoltrandogli il messaggio di uno suo funzionario: "Riferito all'avvocato Chiappero della possibilità di ripresentare subito la domanda (...). Abbiamo dato disponibilità a aiutare sia per gli aggiornamenti penali sia per certificazione di italiano". La chat tra il capo di gabinetto del Viminale, Bruno Frattasi e il prefetto Michele Di Bari, capo del Dipartimento dell'Immigrazione L'11 settembre, a meno di una settimana dall'esame di Perugia, non sembrano esserci particolari problemi. "Per la cittadinanza italiana al calciatore Suarez - relaziona Di Bari a Frattasi - è stato indicato all'avv.Chiappero della Juve quali sono i passi da compiere per presentare la domanda al consolato di Barcellona. Il legale ha riferito di presentare rapidamente i documenti mancanti e di ottenere il differimento dei termini previsti dalla Lega Calcio per l'iscrizione al campionato di Suarez nelle fila della Juventus. Si attende riscontro". Eppure ventiquattrore dopo la Juve molla la presa sull'uruguaiano. "Intorno al 12-13 settembre - metterà a verbale Paratici, indagato per false dichiarazioni ai pm per aver negato di aver interessato la ministra - Chiappero mi contattò e mi disse che, nonostante l'eventuale raggiungimento della certificazione linguistica, non avremmo fatto in tempo a prendere la cittadinanza entro il 5 ottobre (termine per presentare la rosa alla Uefa, ndr)".
"No tiene pasaporte europeo". Era stato proprio Paratici, la notte del 31 agosto, poco dopo aver portato a casa un pre accordo per il il trasferimento di Luis Alberto Suarez alla Juve (7,5 milioni all'anno netti che con i bonus arrivavano a 10), a farsi venire il dubbio. E a inviare un sms all'avvocato del calciatore, Ivan Zaldua, per togliersi il pensiero. "Una pregunta por hacer seguro: luis tiene pasaporte comunitario tambien verdad?", chiede Paratici. "Buenos dìas Fabio. No tiene pasaporte europeo".
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Esame di Abilitazione Truccato.
E' risaputo che, dati alla mano, le Commissioni d'esame di avvocato nordiste sono più malevoli nei confronti dei candidati meridionali (30% di ammessi all'orale). Ma fa notizia il fatto che i candidati padani non siano tutti promossi.
Sesso o soldi per superare l’esame da avvocato, condannato ex funzionario. Il tribunale di Bari ha condannato a 2 anni di reclusione, con pena sospesa, un ex funzionario della Corte di Appello di Bari accusato di aver garantito a una aspirante avvocata il superamento delle prove orali dell'esame di abilitazione professionale in cambio di prestazioni sessuali o denaro. Il Dubbio il 6 ottobre 2021. Il tribunale di Bari ha condannato a 2 anni di reclusione, con pena sospesa, l’ex funzionario della Corte di Appello di Bari Angelo Scivetti, oggi in pensione, accusato di aver garantito a una aspirante avvocata il superamento delle prove orali dell’esame di abilitazione professionale in cambio di prestazioni sessuali o, in alternativa, di denaro. I fatti contestati risalgono al 2014, quando – secondo l’ipotesi accusatoria condivisa dai giudici – Scivetti avrebbe tentato di indurre la donna a ripagare, con favori sessuali o con una cifra di 10mila euro, l’aiuto che il funzionario avrebbe potuto fornirle per superare il secondo step dell’esame da avvocato. Un aiuto rifiutato dalla candidata, che ha presentato la denuncia dalla quale è scaturita l’indagine. La prima sezione penale del Tribunale, presieduta da Rosa Calia Di Pinto con i giudici del collegio Giovanni Abbattista e Antonio Coscia, ha derubricato il reato contestato da tentata concussione in tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, condannando l’ex funzionario. Il co-imputato, Alfredo Fazzini, difeso dall’avvocato Rosario Cristini, è stato assolto «perché il fatto non costituisce reato». Secondo l’accusa sarebbe stato il tramite tra Scivetti e la donna. Alla quale il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento danni quantificato in 10mila euro.
L’ESAME IMPEDITO.
"Esame impossibile". È caos per gli aspiranti avvocati. Alessandro Ferro l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. È bufera sull'esame da avvocato: ecco perché. Negli ultimi giorni è scoppiata la polemica relativa ai praticanti avvocati che non possono accedere all'esame se entro il 10 novembre non hanno concluso la pratica forense.
Cosa dice la legge
L'inghippo nasce dal fatto che poi, per iscriversi all'esame di avvocatura, la domanda si può presentare fino al 7 gennaio 2022, in pratica ci sarebbero altri due mesi di tempo considerando, tra l'altro, che le prove orali non avrebbero inizio prima del 21 febbraio. Perché, quindi, escludere centinaia (se non migliaia) di praticanti in tutta Italia facendogli, di fatto, saltare un anno, se le domande di ammissione possono essere presentate fino ai primi giorni del nuovo anno? Come spiega l'Upa (Unione Praticanti Avvocati) è stato mantenuto, anche per quest’anno, il requisito di cui all’art. 19, comma 4, del R.D. 1578/1933, il quale dispone che "agli esami possono partecipare i praticanti che abbiano compiuto la prescritta pratica entro il giorno 10 del mese di novembre". L'Unione ritiene che questa disposizione sia "irragionevole e foriera di discriminazioni" perché "non si comprende" come possano essere esclusi dalla sessione 2021 i praticanti avvocati che "abbiano completato la pratica forense prima della scadenza del termine di presentazione delle domande di partecipazione (ad oggi fissato al 7 gennaio 2022)".
Cosa chiede l'Upa
Claudia Majolo, presidente Upa, ha spiegato a ilGiornale.it come sia stata fatta "la richiesta di modifica" dell'attuale legge in vigore "con un decreto ministeriale di questo termine dopo aver ricevuto centinaia di segnalazioni da parte dei praticanti avvocati di poter partecipare al bando perché alcuni, anche solo per un giorno, si sono visti preclusi la possibilità di iscriversi e partecipare alle prove orali". Facendo un piccolo passo indietro, l'Unione Praticante Avvocati aveva ottenuto un incontro istituzionale presso il Ministero della Giustizia nella giornata di lunedì 29 novembre per sottoporre la delicata questione dei praticanti.
"Siamo stati ascoltati con particolare attenzione e interesse le nostre argomentazioni, impegnandosi a rivalutare la questione - ha affermato l'avvocato - stanno valutando la possibilità di fare un decreto per modificare l'attuale termine, siamo in attesa". Nella vicenda, un ruolo molto importante lo gioca anche il Cnf, ossia il Consigio Nazionale Forense, la cui domanda di riapertura dei termini è stata posta anche al vaglio e si attende una risposta sulla questione. "Sono ottimista, la Cartabia è un grande ministro che crede nei giovani così come il presidente del Cnf, Maria Masi, una donna che tiene molto ai praticanti", ha aggiunto il presidente Majolo.
Come è cambiato l'esame per diventare avvocato
Come detto all'inizio, la legge che regola la domanda di ammissione per i praticanti all'esame di avvocatura è in vigore dal 1933, quasi un secolo fa. La pandemia e i tempi che cambiano, probabilmente, spingono nella direzione di una riforma che potrebbe prendere vita in futuro anche a seguito di un'eventuale proroga dei termini di quest'anno (se verrà accolta). Così come, negli anni, è cambiato anche l'esame per diventare avvocati: non più scritto e orali ma doppio orale, dove nel primo c'è un quesito con tre buste e il candidato, nel bando, deve scegliere tra penale, civile o amministrativo. "C'è un quesito, un parere, che va risolto. È il vecchio scritto che è diventato orale", ci spiega la Majolo. La prima prova orale dura 30 minuti, si svolge da remoto e la commissione dopo essersi ritirata in camera di consiglio esprime un parere positivo o negativo in base al quale il candidato sa se poi dovrà affrontare il secondo e decisivo orale o ripetere la prova l'anno successivo. "Adesso è molto più veloce, dinamico, meritocratico, trasparente", aggiunge, manifestando tutto il proprio interesse a rappresentare i praticanti specialmente con il periodo precario che stiamo vivendo a causa della pandemia.
Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.
Esame forense, sì di Cartabia alla soluzione di Sisto e Gatta: termine per il tirocinio prorogato al 6 gennaio. La guardasigilli firma il decreto ministeriale che sposta dal 10 novembre al giorno dell’Epifania la data utile per il completamento della pratica e il conseguente accesso alle prove di abilitazione. Determinante l’interpretazione normativa, proposta dal sottosegretario e dal consulente della ministra per le professioni, che ha rinnovato il “doppio orale”. Soddisfazione da Aiga e Unione praticanti. Valentina Stella su Il Dubbio il 3 dicembre 2021. Ottime notizie per i praticanti avvocati. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha firmato poco fa un decreto ministeriale che amplia la platea dei praticanti ammessi a partecipare alla prossima sessione dell’esame di Stato per l’abilitazione alla professione forense. Potranno presentare domanda di ammissione, entro il termine ultimo del 7 gennaio 2022, i praticanti avvocati che completeranno il tirocinio forense entro il 6 gennaio 2022. Il decreto ministeriale, venendo incontro alle richieste dei praticanti, proroga il termine per la compiuta pratica inizialmente previsto al 10 novembre 2021. Le prove inizieranno il prossimo 21 febbraio 2022. Come spiega un comunicato di via Arenula, la proroga del termine per la compiuta pratica – tradizionalmente fissato il 10 novembre di ogni anno – è motivata dal protrarsi dell’emergenza sanitaria in corso, per cui le prove d’esame inizieranno a febbraio e non a dicembre come di solito avviene. La pubblicazione del decreto ministeriale nella Gazzetta Ufficiale, quarta serie ‘Concorsi ed esami’, è programmata per martedì prossimo. La piattaforma online del ministero, per la presentazione delle domande, è stata aggiornata con previsione del nuovo termine per la compiuta pratica.
Esame da avvocato, decisiva una interpretazione della norma per la sessione 2021
Con questa decisione, si risolve per il meglio una situazione di disagio e preoccupazione per centinaia e centinaia di praticanti avvocati impossibilitati inizialmente ad accedere alla prossima sessione. Preso atto di questo malcontento e tenuto conto che la pandemia ha trasformato l’ultimo biennio in un vero e proprio percorso a ostacoli per lo svolgimento del tirocinio forense, il sottosegretario Francesco Paolo Sisto e il consigliere della ministra per le libere professioni Gian Luigi Gatta hanno studiato la norma vigente, e grazie ad una particolare interpretazione è stato possibile allargare la platea dei tirocinanti.
Sisto, che a propria volta ha la delega ai rapporti con le professioni, e Gatta hanno infatti rilevato come la norma di legge che ha rinnovato, per la prossima sessione, le modalità già adottate per l’esame 2020, vale a dire il “doppio orale”, si richiama si alla disciplina generale dell’abilitazione, ma con un inciso, “in quanto compatibili”, che alla fine si è rilevato decisivo perché ci si potesse discostare dalla tradizionale cadenza, e dalla data del 10 novembre, e prolungare il tempo utile per completare la pratica fino al 6 gennaio.
La ministra Cartabia, verificata la possibilità di agire senza dover ricorrere a una nuova norma primaria, ha immediatamente dato via libera al recepimento delle richieste dei praticanti.
Soddisfazione da Aiga e Unione praticanti
L’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) accoglie «con favore» la notizia: «Il ministero si è dimostrato attento alle vicende dei giovani praticanti – ha commentato il presidente Aiga Francesco Paolo Perchinunno – attuando, di fatto, quella espressa previsione contenuta nella proposta di riforma dell’esame di abilitazione, a firma dell’onorevole Miceli, sulla quale l’Aiga auspica l’immediata ripresa dei lavori».
L’avvocato Roberto Scotti, coordinatore del dipartimento Aiga sull’accesso alla professione, ha aggiunto: «La continua e proficua interlocuzione con il ministero della Giustizia è la conferma della necessità di agire con immediatezza sulla riforma».
Soddisfazione arriva anche dall’Upa (Unione praticanti avvocati): «Siamo davvero lieti di annunciare che ancora una volta, Upa, nella persona della presidente Claudia Majolo, è riuscita ad ottenere il risultato sperato»
Ufficio per il processo,quasi 10mila idonei
Un’altra importante novità che riguarda il ministero della Giustizia è che al termine delle prove del concorso per la selezione di 8.171 unità, a tempo determinato, da assumere per il ministero con la qualifica di addetto all’Ufficio per il processo, sono risultati idonei 9.915 candidati. Alle selezioni erano stati convocati in 65.510. I presenti alle prove sono risultati 33.399, con una percentuale del 50,98%, più alta del tasso medio di partecipazione agli ultimi concorsi, «a conferma che i laureati credono nelle occasioni offerte dalle assunzioni previste dal Pnrr», si legge in una nota del Formez Pa.
LE COMMISSIONI BENEVOLI.
LA DENUNCIA SUI SOCIAL DEI CANDIDATI BRESCIANI. «Non possiamo promuoverli tutti»: il microfono rimasto aperto all’esame da avvocato. L’episodio, durante l’esame per l’abilitazione da avvocato con i candidati di Brescia esaminati dai commissari di Lecce, documentato in un audio è finito sui social. Verifiche del Ministero. Wilma Petenzi il 4 giugno 2021 su Il Corriere della Sera. «Quanti ne avete promossi fino ad ora? Non possiamo promuoverli tutti stiamo bassi»: è accaduto stamattina durante l’esame per l’abilitazione da avvocato con i candidati di Brescia esaminati dai commissari di Lecce. L’audio della riunione della commissione pugliese, due erano in corte d’appello, mentre un terzo interveniva da remoto e proprio sua è la svista, è rimasto acceso mentre si discuteva il giudizio da dare a uno dei candidati e tutti gli aspiranti avvocati che erano in collegamento hanno ascoltato in diretta la discussione. Che poco dopo è finita sui social e in particolare su Instagram. Al commissario che invita i colleghi a non promuovere il candidato viene risposto: «Ho fatto apposta una domanda». E un altro commenta: «Io una domanda insidiosa posso farla». Alla fine il candidato ha ottenuto 18 «perché i due avvocati si sono impuntati» è la denuncia sui social. Ma nel corso della mattinata alcuni aspiranti avvocati bresciani non hanno superato la prova. E sì che fino all’latro giorno su trenta esaminati ne erano stati promossi 26. Sono 475 i candidati bresciani che stanno affrontando la prova per l’abilitazione alla professione, con questa nuova formula – solo un orale e niente scritto – a causa del Covid. Gli aspiranti bresciani sono esaminati dalla commissione di Lecce, mentre la commissione bresciana esamina le prove di Ancona. Finora era filato tutto liscio, ma quel microfono rimasto aperto ha creato un terremoto. E non solo sui social. Il ministero della Giustizia sta effettuando verifiche sulla regolarità della situazione.
La "svista" a Lecce per l’esame dei candidati di Brescia. Esame da avvocato, l’audio dei commissari resta aperto: “Non possiamo promuoverli tutti”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Una "svista" clamorosa che ha portato il Ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia ad effettuare verifiche. È quanto accaduto a Lecce nella mattinata di venerdì 4 giugno, durante l’esame per l’abilitazione da avvocato con i candidati di Brescia esaminati dai commissari locali. Durante la riunione della commissione, due membri in Corte d’Appello e un terzo collegato da remoto, l’audio interno è rimasto acceso mentre si discuteva il giudizio da dare a uno dei candidati, con gli altri aspiranti avvocati in collegamento che hanno potuto ascoltare tranquillamente la discussione. Un colloquio poi finito sui social, tramite il profilo Instagram di "Il praticante medioevale". Nell’audio, che gli aspiranti avvocati hanno potuto ascoltare perché il commissario collegato da remoto aveva lasciato il microfono acceso, si sente dire: “Quanti ne avete promossi fino ad ora? Non possiamo promuoverli tutti stiamo bassi”. I commissari leccesi quindi si confrontano tra di loro: “Ho fatto apposta una domanda”. E un altro commenta: “Io una domanda insidiosa posso farla”. Alla fine il candidato in questione, come segnalato sui social, è stato giudicato idoneo con 18 “solo perché i due avvocato si sono impuntati per la promozione mentre il magistrato voleva bocciarlo”. Una vicenda che avanza ulteriori dubbi sulla nuova formula dell’esame di Stato messa in piedi durante la pandemia, che prevede solo un orale e nessun scritto, come invece previsto dalla precedente formula pre-Covid.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Rimane aperto l’audio dei commissari durante l’esame da avvocato: “Non possiamo promuoverli tutti”. Svista da parte dei commissari impegnati a valutare l’esame di stato degli aspiranti avvocati bresciani. Uno degli esaminatori ha lasciato l’audio acceso e si è sentito: “Quanti ne avete promossi fino ad ora? Non possiamo promuoverli tutti stiamo bassi”. Ad ascoltare tutto c’erano i candidati che in quel momento erano in diretta: l’audio così è finito sui social mentre il Ministero della Giustizia ha avviato degli accertamenti. Giorgia Venturini su Fanpage.it il 4 giugno 2021. "Non possiamo promuoverli tutti". Non lasciano dubbi le parole riportate dai commissari pugliese impegnati questa mattina nella correzione delle prove dei candidati di Brescia nell'esame per l'abilitazione da avvocato. Le stesse parole che dopo poco tempo sono finite in un audio pubblicato da alcuni candidati sulle pagine social. Già perché per sbaglio l'audio della riunione dei tre esaminatori di Lecce, due erano in corte d'appello, e un terzo da remoto, è rimasto acceso proprio quando, come cita Il Corriere di Brescia, si discuteva della prova di uno dei candidati. L'errore non è sfuggito agli aspiranti avvocati che in quel momento erano in diretta e hanno ascoltato la discussione. Qualcosa infatti deve essere andato storto in questa nuova formula di esame di stato messa in campo in questo momento di pandemia: ovvero solo un orale e niente scritto, cosa che invece prevedeva la formula precedente alla pandemia. Nell'audio si sente dire: "Quanti ne avete promossi fino ad ora? Non possiamo promuoverli tutti stiamo bassi". Poi si sente quasi un battibecco tra due commissari. "Ho fatto apposta una domanda insidiosa". E l'altro: "Io una domanda insidiosa posso farla". Dopo uno scambio di battute il candidato riesce a passare strappando un 18, ma solo perché due esaminatori hanno insistito. La stessa fortuna non l'hanno avuta tutti i 475 candidati bresciani impegnati con codici e sentenza per poter accedere all'albo per convincere la commissione pugliese, quella incaricata alla correzione. Sembrava tutto filare liscio, anche perché uno dei giorni precedenti dei 30 esaminati ne erano stati promossi 26. Poi però quel microfono che è rimasto aperto ha suscitato l'ira dei candidati e non solo. A denunciare quanto accaduto infatti non sono stati solo gli aspiranti avvocati sui social ma si è mosso anche il Ministero della Giustizia che ora chiede chiarimenti. Non resta nel frattempo attendere quanti verranno promossi e quanti no.
Lecce, «Non promuovete tutti»: bufera sull’esame da avvocato. La frase infelice di un commissario diventa un caso. La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Giugno 2021. «Quanti ne avete promossi fino ad ora? Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi...». È questa la frase incriminata finita su Instagram che ha scatenato un vero e proprio putiferio fra i candidati all’esame di avvocato della Corte d’Appello di Brescia. A pronunciarla un membro della commissione di Lecce, competente a giudicare la prova degli aspiranti avvocati bresciani. Tutto sarebbe accaduto nel corso di una riunione tenutasi venerdì mattina: due commissari si trovavano in Corte d’Appello, mentre un terzo interveniva da remoto. Pare che sia stato proprio quest’ultimo a lasciarsi sfuggire la frase, commentando la prova di un candidato poi promosso con 18, senza rendersi conto che il microfono era ancora accesso. «Ho fatto apposta una domanda», si sente, e poi ancora: « Io qualche domanda insidiosa la posso fare». Questo è ciò che i candidati, anche loro collegati per assistere all’esame, avrebbero sentito». L’audio è stato diffuso sui social, ed in poche ore è diventato virale. «Non abbiamo elementi per giudicare cosa sia realmente accaduto, valuteremo se intervenire ma dubito che questa vicenda ricada nella competenza del consiglio dell’ordine - dichiara l’avvocato Sergio Limongelli, segretario dell’ordine forense di Lecce - ad ogni modo auspico che tutto si svolga nella maniera più corretta nell’interesse dei candidati più in generale posso dire che i commissari non devono avere pregiudizi nè darsi delle percentuali. È giusto che ogni commissione abbia dei criteri di valutazione, che però devono essere corretti. Il buonsenso in questi casi dovrebbe guidare l’agire di tutti». Intanto, in un comunicato ufficiale l'Upa, l'Unione Praticanti Avvocati, ha stigmatizzato l'accaduto specificando che «quanto asserito è totalmente infondato e basato sulla volontà di destabilizzare i candidati che si apprestano a sostenere l'esame».
Scandalo abilitazione, commissari: «Non possiamo promuoverli tutti». Serena Reda il 5 Giugno 2021 su metropolitanmagazine.it. La situazione dell’esame di abilitazione forense sembra fuori controllo. Dopo la divulgazione di dati personali dal sito del Ministero della Giustizia e la segnalazione di assegnazione di tracce degli scorsi anni (da risolvere in sette ore mentre oggi vengono dati appena 30 minuti) arrivano quelle gravissime parole dei componenti di una sottocommissione esaminatrice. «Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi». La vicenda riguarda circa 26.000 ragazzi italiani che ancora faticano, nonostante le battaglie dell’ultimo anno, a far emergere la propria condizione a livello mediatico. Ciò che per anni è rimasto un mero dubbio, ora emerge grazie ai social network. Internet inchioda infatti, in modo circostanziato, le decine di gravi violazioni alle linee guida ministeriali. Benché ciascuna di queste rappresenti un singolo episodio, nel complesso, la condotta delle commissioni ampiamente autonome rispetto al Ministero centrale, getta più di un’ombra sulla validità dello stesso esame di abilitazione. Da Instagram, in cui anche l’Avvocato Francesco Leone denuncia la grave situazione, a Facebook migliaia di giovani stanno urlando una verità che merita di essere condivisa e di uscire allo scoperto. Ma andiamo per gradi. È passato meno di un mese da quando, nel silenzio generale, migliaia di aspiranti avvocati hanno visto i propri dati violati proprio lì dove doveva essere più al sicuro: nella piattaforma del Ministero della Giustizia. Ad inizio maggio il portale è infatti andato in tilt e ha subìto quello che viene definito un “data breach”, cioè la violazione e il rilascio di informazioni private. In quell’occasione, fatto l’accesso, i ragazzi sono entrati sì in una pagina personale, ma di altri candidati. Nome, cognome, data di nascita, residenza, numeri di telefono, f23, e i voti degli esami di abilitazione sostenuti in anni precedenti. Alcuni, credendo si trattasse di un errore hanno addirittura rinunciato, impedendo così, involontariamente ad altri di sostenere l’esame. Claudia Majolo dell’Unione Praticanti Avvocati aveva inoltre raccontato di colleghi “preoccupati per la vicenda che sta assumendo toni grotteschi”. Già in quell’occasione era emersa “Una circostanza di gravità assurda”. Ma veniamo al più grave degli episodi. Siamo alla Corte di Appello di Brescia, candidati esaminati da remoto da commissari di Lecce. Altri esaminandi in ascolto, con microfono e camera disattivati. Terminato l’esame di un candidato i Commissari, convinti di non essere ascoltati, commentano: «Quanti ne avete promossi fino ad ora? Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi». Poi proseguono: «Ho fatto apposta una domanda insidiosa» e ancora: «Io una domanda insidiosa posso farla». Dopo uno scambio di battute il candidato riesce a passare strappando il voto minimo. Questo fatto ha creato un terremoto e oggi anche il Ministero della Giustizia chiede chiarimenti. Già, perché il dubbio su un trattamento ingiustificatamente anomalo, insidioso e pesante rispetto a tutte le altre professioni con abilitazione, circola in rete da almeno un anno. Imprevedibili ora gli sviluppi, che possono esserci con risonanza mediatica. Tutte le associazioni di rappresentanza, infatti, invitano alla massima condivisione. Nei giorni scorsi l’UPA aveva espresso «sconcerto» ed «indignazione» per la redazione dei quesiti. Ora fa eco anche l’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) per evidenziare il mancato rispetto delle Linee guida ministeriali. La Consulta dell’AIGA, infatti, afferma di aver appreso «con sommo dispiacere che molte Sottocommissioni esaminatrici, nel sottoporre le tracce ai candidati, non si stiano adeguando alle Linee guida emanate dal Ministero». L’Associazione afferma inoltre di aver ricevuto molteplici segnalazioni di quesiti “non inerenti le materie oggetto di esame in totale spregio delle linee guida ministeriali”. Oppure, in altri casi, le tracce proposte ai candidati sono quelle degli esami degli scorsi anni, quando i candidati avevano 7 ore di tempo e non 30 minuti. Le tracce, in questi casi, sono “molto lunghe, complesse e non di pronta soluzione”. Secondo l’Aiga l’attuale confusione è «l’amara conseguenza» di un’eccessiva autonomia lasciata alle sottocommissioni.
Esami orali per gli avvocati: «Stiamo bassi con i promossi». Mara Rodella il 6 giugno 2021 su msn.com. Fornito da Corriere della Sera (Ansa). Presentarsi a un appuntamento «cruciale» con il futuro (professionale) davanti a una commissione esaminatrice, con il timore che non decida solo in base a meriti e competenze, succede quasi sempre. Ma sentire con le proprie orecchie che dietro alla valutazione si celerebbero ben altri meccanismi è tutta un’altra storia. E pare sia successo, alla quarantina di candidati bresciani (in tutto sono 475) che venerdì mattina erano collegati sulla piattaforma Teams per sostenere da remoto la prima delle due prove orali per l’esame di abilitazione da avvocato. A giudicarli, la quarta sottocommissione di Lecce, formata da due avvocati, di cui uno è presidente, e un magistrato: tutti in Corte d’appello a Lecce.
Microfono aperto. Ed è proprio quest’ultimo ad aver commesso una «svista» che ha scatenato un putiferio: lasciare sbadatamente acceso l’audio del microfono durante la discussione sul giudizio da assegnare al candidato appena esaminato. «Quanti ne avete promossi finora? Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi». Due su due avevano già superato l’esame. Chiaro che queste parole le abbiano sentite in diretta anche tutti gli aspiranti avvocati al di là dei monitor, e che siano poi finite anche sui social, Instagram in particolare. Quel candidato, alla fine, se l’è cavata con un 18, «ma perché i due avvocati si sono impuntati», denunciano i ragazzi in Rete.
La domanda «insidiosa». Poco prima, lo stesso magistrato che esortava gli altri commissari a non promuovere troppo, sottolineava: «Io una domanda insidiosa posso farla» (in realtà no, stando alle linee guida, perché l’esposizione dovrebbe essere un «monologo» del candidato). E ancora: «Se promuoviamo tutti quelli che arrivano alla fine poi dobbiamo bocciare».
Verifiche. Il ministero della Giustizia sta già conducendo una serie di verifiche per valutare la regolarità della prova «incriminata». Il presidente della Corte d’appello di Brescia, Claudio Castelli si spinge oltre: previo un confronto con il presidente dell’ordine degli avvocati bresciani e con il suo alter ego a Lecce, il giudice Lanfranco Vetrone, «chiederò se sia possibile rifare l’esame», annuncia. «Cercherò di capire cosa abbiano intenzione di fare nei confronti del componente della commissione» a cui sono attribuite le «spiacevoli» dichiarazioni. Ma l’obiettivo più importante, dice, «è consentire ai ragazzi di sostenere l’esame in assoluta serenità». Quindi, se sarà il caso, di ripeterlo. Ha alzato il telefono anche il presidente della commissione distrettuale di Lecce, l’avvocato Ottavio Martucci — che non era presente alla prova «incriminata» — responsabile delle cinque sottocommissioni: lo ha fatto per chiamare l’avvocato Ennio Buffoli, del Foro di Brescia, che ricopre il suo stesso ruolo. «Avvierò tutti gli approfondimenti necessari per fare chiarezza» ha anticipato al collega.
Interrogazione parlamentare. Il deputato leghista Luca Toccalini annuncia un’interrogazione parlamentare al ministro Marta Cartabia, così come il collega del Pd Carmelo Miceli, in Commissione giustizia e antimafia: «Praticanti e avvocati come carne da macello per mera statistica. E il merito? E i sacrifici di anni di studio e pratica?» ha scritto su Twitter. Non è invece convinta che le cose siano andate così Claudia Majolo, presidente dell’Unione praticanti avvocati: «Quanto asserito è infondato, invitiamo i candidati a mantenere la calma». «Tutto vero, purtroppo», dice Alessandra Nodari, presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati di Brescia: «Sono davvero rammaricata: già l’esame è uno scoglio duro, essere pure in balia dei numeri è fuorviante. Anche a livello nazionale Aiga si muoverà per capire e non potranno non farlo il ministero e le Corti d’appello». Pausa. «Mi dispiace per i ragazzi, non è così che ci si affaccia alla professionale, confido che sia fatta chiarezza sulla questione. Sono diventata avvocato perché ci credevo, nella giustizia. Subire simili ingiustizie all’inizio è troppo».
LE COMMISSIONI MALEVOLI.
Sicilia, forche caudine per diventare avvocati: idonei meno della metà. Michele Guccione il 23/01/2021 su lasicilia.it. A superare gli esami di abilitazione 1.112 candidati su 2.295; Caltanissetta ultima in Italia. Al via corsi di perfezionamento. Palermo - In un periodo di grande fabbisogno di medici, in Italia l’accesso alle scuole di specializzazione di Medicina resta incredibilmente limitato a pochissimi posti disponibili (la maggior parte nelle università del Centro-Nord) e alla fortuna di superare una sorta di roulette russa costituita da test di ammissione con domande che spesso hanno poco a che vedere con le materie da studiare. Ma c’è un’altra professione di cui c’è bisogno e sulla quale puntano i giovani per costruire un futuro, ma la cui via di accesso (l’esame di abilitazione) mantiene anch’essa le caratteristiche delle forche caudine: quella di avvocato. Non si capisce da cosa dipenda, se dalla severità delle commissioni esaminatrici o dal grado di preparazione dei candidati, o da entrambe le cose. Fatto sta che i numeri evidenziano la gravità del fenomeno, che peggiora di anno in anno e che, come era prevedibile, vede la Sicilia in coda alla classifica. Su 18.037 candidati dell’ultima tornata di esami a livello nazionale, quella del 2019, solo 8.150 hanno avuto finora un esito positivo, ovvero il 45,18%. Gli esami si svolgono nelle città sedi di Corte d’appello e a valutare gli elaborati sono commissioni provenienti da altre Corti scelte tramite sorteggio. La sede con la percentuale più alta di promossi risulta Torino con il 60,66%, mentre la sede di esame con la valutazione più severa è Caltanissetta con nemmeno il 25% di candidati idonei. In Sicilia si sono registrati questi dati: a Palermo (commissione proveniente da Catanzaro), su 1.016 elaborati sono stati giudicati in maniera positiva 584 compiti (57,04%); a Messina, su 306 elaborati esaminati dalla commissione proveniente da L’Aquila, sono risultati idonei quelli di 145 aspiranti avvocato (47,3%); a Catania (commissione di Firenze), su 776 compiti, idonei in 335 (43,1%); a Caltanissetta (commissione di Trento), su 197 compiti solo 48 sono stati considerati sufficienti, pari al 24,3%. In totale, quindi, su 2.295 aspiranti siciliani, gli idonei sono solo 1.112, poco meno della metà.
Esame di Avvocato: il Codacons aiuta i giovani della Campania. Salernonotizie.it l'1 Giugno 2021. Il Codacons si attiva per aiutare i giovani della Campania alle prese con le prove dell’esame da avvocato, e per tutelare i loro diritti in caso di irregolarità o bocciature ingiuste. L’associazione ha organizzato in tal senso un webinar che si terrà giovedì 3 GIUGNO alle ore 16, nel corso del quale gli esperti e i legali dell’associazione forniranno agli aspiranti avvocati della Campania non solo consigli utili per superare l’esame e prepararsi alle prove, ma anche informazioni pratiche su come impugnare bocciature ingiuste e tutelare i propri diritti. Nel corso dell’incontro online saranno illustrate le tante sentenze dei Tar che hanno promosso candidati inizialmente bocciati dalle commissioni, proprio a causa delle troppe anomalie e irregolarità che caratterizzano tali esami.
Esame da avvocato, i praticanti alla ministra: “Le tracce non rispettano le linee guida”. Per la presidente dell’Unione Praticanti Avvocati, «come ampiamente pronosticato, molte delle tracce proposte non hanno affatto rispettato le linee guida emesse dalla Commissione Centrale con riguardo alla redazione dei quesiti assegnati durante questi primi giorni d'esame». Valentina Stella su Il Dubbio il 2 giugno 2021. A una settimana dall’avvio dell’esame di Stato per l’abilitazione alla professione forense è subito polemica, nonostante l’impegno profuso negli ultimi mesi dal ministero della Giustizia affinché la nuova modalità del “doppio orale” procedesse senza intoppi. Invece, secondo Claudia Majolo, presidente dell’Upa (Unione praticanti avvocati), «come ampiamente pronosticato, molte delle tracce proposte non hanno affatto rispettato le linee guida emanate dalla Commissione centrale con riguardo alla redazione dei quesiti assegnati durante questi primi giorni d’esame». Il riferimento è alle Corti d’appello di Genova, Firenze, Salerno e Lecce, ma il timore è che accadrà lo stesso anche in tutte le prossime sedi in cui a stretto giro inizieranno le prove. Eppure il ministero, in più occasioni, aveva indicato la strada da intraprendere, pubblicando sul proprio sito anche degli esempi di traccia da seguire. Ma, ha scritto Majolo in una richiesta di incontro inviata alla guardasigilli, «si rileva innanzitutto che le tracce assegnate hanno sottoposto, in alcuni casi, problematiche giuridiche attinenti a materie tassativamente escluse dalle linee guida. Tali problematiche, a volte marginali, a volte centrali, rispetto alla soluzione del quesito sono, comunque, potenzialmente fuorvianti per i candidati i quali, ovviamente, non si sono preparati in quelle specifiche e peculiari discipline di cui sapevano che l’analisi era da escludere». E porta degli esempi di quesiti che i 22.786 candidati non avrebbero dovuto affrontare perché esclusi preventivamente: uno di Diritto civile in cui il soggetto assistito era in una condizione di “curatela fallimentare”; un altro di Diritto penale concernente il reato di “Morte o lesioni come conseguenze di altro delitto” (articolo 586 c.p.), il cui delitto presupposto atteneva al Testo unico sugli stupefacenti (legge speciale, esclusa dalle linee guida). Ma per Majolo non finisce qui, perché sarebbero state proposte tracce «non proporzionate al tempo disponibile (30 minuti) per la disamina delle stesse». E via con un altro esempio: «La Corte d’appello di Genova ha assegnato una traccia simile, per natura delle questioni sottese alla stessa, per modalità della condotta e anche solo banalmente, per lunghezza del testo a quella assegnata nella sessione 2018 in sede di prima prova scritta in materia penale, per la quale i candidati avevano avuto a disposizione un tempo adeguato per svolgerla, vale a dire 7 ore, e non invece 30 minuti. Il candidato è stato, come prevedibile, bocciato». E il problema delle bocciature non è affatto da sottovalutare, per la presidente dell’Upa: «La situazione è difficile, molti praticanti sono stati bocciati perché i quesiti non sono quelli previsti dalle linee guida o perché presi dal panico dinanzi a questioni impossibili da interpretare e spiegare nei pochi minuti che ci sono concessi. Sembra che i commissari non abbiano raccolto e fatte proprie le dichiarazioni della ministra Cartabia». Il riferimento è a quanto detto dalla guardasigilli alla vigilia dell’inizio del nuovo esame d’avvocato, quando aveva augurato buon lavoro alle sub-commissioni: «La modalità che è stata pensata per lo svolgimento di questo esame non deve essere considerata – vi prego – un ripiego dettato soltanto dalla pandemia, ma vorrei che fosse un’occasione per poter utilizzare questa prova così anomala allo scopo che a mio parere l’esame di avvocato deve avere: è quello non tanto di verificare le conoscenze nozionistiche o informative dei nostri candidati ma quello di poter verificare la loro capacità di inquadrare dal punto di vista teorico e sistematico un problema e soprattutto di svolgere un ragionamento giuridico e di argomentarlo anche magari se poi il risultato è sbagliato». Dunque, spiega Majolo, «le commissioni dovrebbero valutare il ragionamento, anche perché la pratica ci insegna che non esiste un solo modo per portare avanti la difesa».
Per tutte queste ragioni, «pur ringraziando e stimando profondamente la ministra della Giustizia Marta Cartabia per lo sforzo profuso sino ad ora» ma considerata «l’esclusione della centralizzazione dei quesiti proposta a suo tempo da Upa e dal Cnf, si torna a ribadire la necessità che le linee guida vengano applicate in modo stringente e letterale». Senza dubbio questo è anche l’auspicio del ministero, che più volte ha evidenziato e reso disponibile la cornice entro la quale le sub-commissioni dovrebbero muoversi.
Mara Rodella per il "Corriere della Sera" il 7 giugno 2021. Presentarsi a un appuntamento «cruciale» con il futuro (professionale) davanti a una commissione esaminatrice, con il timore che non decida solo in base a meriti e competenze, succede quasi sempre. Ma sentire con le proprie orecchie che dietro alla valutazione si celerebbero ben altri meccanismi è tutta un'altra storia. E pare sia successo, alla quarantina di candidati bresciani (in tutto sono 475) che venerdì mattina erano collegati sulla piattaforma Teams per sostenere da remoto la prima delle due prove orali per l'esame di abilitazione da avvocato. A giudicarli, la quarta sottocommissione di Lecce, formata da due avvocati, di cui uno è presidente, e un magistrato: tutti in Corte d'appello a Lecce. Ed è proprio quest' ultimo ad aver commesso una «svista» che ha scatenato un putiferio: lasciare sbadatamente acceso l'audio del microfono durante la discussione sul giudizio da assegnare al candidato appena esaminato. «Quanti ne avete promossi finora? Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi». Due su due avevano già superato l'esame. Chiaro che queste parole le abbiano sentite in diretta anche tutti gli aspiranti avvocati al di là dei monitor, e che siano poi finite anche sui social, Instagram in particolare. Quel candidato, alla fine, se l'è cavata con un 18, «ma perché i due avvocati si sono impuntati», denunciano i ragazzi in Rete. Poco prima, lo stesso magistrato che esortava gli altri commissari a non promuovere troppo, sottolineava: «Io una domanda insidiosa posso farla» (in realtà no, stando alle linee guida, perché l'esposizione dovrebbe essere un «monologo» del candidato). E ancora: «Se promuoviamo tutti quelli che arrivano alla fine poi dobbiamo bocciare». Il ministero della Giustizia sta già conducendo una serie di verifiche per valutare la regolarità della prova «incriminata». Il presidente della Corte d'appello di Brescia, Claudio Castelli si spinge oltre: previo un confronto con il presidente dell'ordine degli avvocati bresciani e con il suo alter ego a Lecce, il giudice Lanfranco Vetrone, «chiederò se sia possibile rifare l'esame», annuncia. «Cercherò di capire cosa abbiano intenzione di fare nei confronti del componente della commissione» a cui sono attribuite le «spiacevoli» dichiarazioni. Ma l'obiettivo più importante, dice, «è consentire ai ragazzi di sostenere l'esame in assoluta serenità». Quindi, se sarà il caso, di ripeterlo. Ha alzato il telefono anche il presidente della commissione distrettuale di Lecce, l'avvocato Ottavio Martucci - che non era presente alla prova «incriminata» - responsabile delle cinque sottocommissioni: lo ha fatto per chiamare l'avvocato Ennio Buffoli, del Foro di Brescia, che ricopre il suo stesso ruolo. «Avvierò tutti gli approfondimenti necessari per fare chiarezza» ha anticipato al collega. Il deputato leghista Luca Toccalini annuncia un'interrogazione parlamentare al ministro Marta Cartabia, così come il collega del Pd Carmelo Miceli, in Commissione giustizia e antimafia: «Praticanti e avvocati come carne da macello per mera statistica. E il merito? E i sacrifici di anni di studio e pratica?» ha scritto su Twitter. Non è invece convinta che le cose siano andate così Claudia Majolo, presidente dell'Unione praticanti avvocati: «Quanto asserito è infondato, invitiamo i candidati a mantenere la calma». «Tutto vero, purtroppo», dice Alessandra Nodari, presidente dell'Associazione italiana giovani avvocati di Brescia: «Sono davvero rammaricata: già l'esame è uno scoglio duro, essere pure in balia dei numeri è fuorviante. Anche a livello nazionale Aiga si muoverà per capire e non potranno non farlo il ministero e le Corti d'appello». Pausa. «Mi dispiace per i ragazzi, non è così che ci si affaccia alla professionale, confido che sia fatta chiarezza sulla questione. Sono diventata avvocato perché ci credevo, nella giustizia. Subire simili ingiustizie all'inizio è troppo».
Esame da avvocato, caos a Brescia: «Non possiamo promuoverli tutti». A pronunciare la frase incriminata uno dei tre commissari in collegamento da Lecce che parlava a microfono aperto. Presentate due interrogazioni alla ministra della Giustizia Cartabia, che ha avviato approfondimenti sulla vicenda. Simona Musco su Il Dubbio il 7 giugno 2021. «Quanti ne avete promossi finora? Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi». La frase, agghiacciante, sarebbe stata pronunciata venerdì scorso da un componente della commissione durante l’esame di abilitazione alla professione di avvocato dei candidati di Brescia, collegati su Teams con la triade di Lecce per svolgere la prima delle due prove orali previste quest’anno. Ad ascoltare le parole pronunciate maldestramente a microfono aperto circa una quarantina di candidati sui 475 che stanno sostenendo la prova a Brescia, che verranno giudicati dalla quarta sottocommissione di Lecce, composta da due avvocati, di cui uno presidente, e un magistrato. E sarebbe proprio quest’ultimo, stando alle testimonianze, ad aver pronunciato la frase incriminata, ora finita al centro di un’interrogazione parlamentare e di approfondimenti da parte del ministero della Giustizia. Secondo quanto riferito e diffuso via social da alcuni dei candidati, il commissario avrebbe invitato i colleghi a non promuovere troppe persone. «Io una domanda insidiosa posso farla», avrebbe dunque detto il magistrato, convinto che «se promuoviamo tutti quelli che arrivano alla fine poi dobbiamo bocciare». Il presidente dell’ordine degli avvocati di Brescia, Fausto Pelizzari, si è messo in contatto con il presidente della Corte d’appello di Brescia, Claudio Castelli, che dopo un confronto con Lanfranco Vetrone, presidente della Corte d’Appello di Lecce, ha annunciato di voler chiedere «se sia possibile rifare l’esame». «Attendiamo novità da Lecce – spiega Pelizzari -, novità che potrebbero nascere da valutazioni sull’opportunità che il componente che ha fatto questa considerazione possa stare o meno in commissione. Si tratta di una situazione imbarazzante e sconcertante – prosegue -, ho manifestato al presidente Castelli il disappunto dei candidati di fronte ad una frase infelice». In merito all’affermazione, Pelizzari precisa che «le valutazioni vanno fatte esclusivamente sulla base della preparazione dei candidati. L’obiettività è la prima cosa, avendo anche a che fare con giovani che hanno delle aspirazioni e meritano di essere giudicati per quello che sono e quello che sono in grado di far capire circa la loro preparazione. Forse è un ragionamento banale, ma la selezione va fatta esclusivamente in base alle capacità. L’importante è che si torni ad un’atmosfera serena che consenta ai candidati bresciani di svolgere la propria prova sapendo che non verranno valutati sulla base del numero di promozioni precedenti». Intanto sono già due le interrogazioni alla ministra della Giustizia annunciate sulla vicenda: quella di Gianfranco Di Sarno, deputato del MoVimento 5 Stelle componente della commissione Giustizia, e quella del deputato Luca Toccalini, coordinatore federale Lega Giovani. «Se confermato – ha commentato Di Sarno -, l’episodio violerebbe le garanzie di trasparenza richieste nella correzione delle prove, oltre che il diritto dei candidati ad una valutazione imparziale, dimostrando ancora una volta la necessità di procedere ad una riforma complessiva dell’esame di abilitazione alla professione forense». Per Toccalini, «le valutazioni devono essere fatte esclusivamente su base meritocratica. Oggi presenterò un’interrogazione al ministro Cartabia affinché si faccia chiarezza su quanto accaduto e venga garantita un’equa valutazione a tutti gli aspiranti avvocato». Dura anche la reazione della Consulta nazionale praticanti Aiga, secondo cui «si tratterebbe dell’ennesima manifestazione dello scarso interesse sull’esame di abilitazione di avvocato e sulla formazione di una classe professionale meritocratica – si legge in una nota -. Riteniamo inaccettabile che la valutazione di un candidato venga effettuata non già sul merito, quanto sul numero dei candidati precedentemente promossi. Gli sforzi delle migliaia di praticanti, dopo anni di fatica e di investimenti, non possono essere vanificati a causa di questioni esterne alla preparazione in diritto». Più cauta, invece, la reazione dell’Unione praticanti avvocati. «Ho avuto modo di parlare con le persone interessate, le quali hanno assistito alla seduta d’esame e sono emerse dichiarazioni differenti ma soprattutto contrastanti tra loro e con quanto pubblicato sui social – ha dichiarato la presidente Claudia Majolo -. L’onere della prova dovrebbe essere per noi giuristi pane quotidiano, la bussola che dirige il nostro cammino e queste polemiche senza alcun fondamento (almeno per il momento) non credo sia il modo di portare avanti un’azione lungimirante e a tutela di tutti noi praticanti».
Esame da avvocato, Via Arenula sul caso Brescia: la frase incriminata è stata detta. «Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi». Il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto conferma: il commissario lo ha detto davvero, si tratta di un magistrato...Valentina Stella su Il Dubbio il 12 giugno 2021. «Quanti ne avete promossi finora? Non possiamo promuoverli tutti, stiamo bassi»: ricordate l’infelice frase che sarebbe stata pronunciata da un magistrato della sub-commissione istituita presso la Corte di Appello di Lecce, chiamata a valutare le prove d’esame dei candidati di Brescia per l’abilitazione alla professione forense? Tutti i dubbi ora sono fugati: l’espressione è stata veramente proferita ma avrebbe un significato diverso da quello attribuito ad essa nelle cronache di questi giorni. Ad illustrare tutti i dettagli della vicenda ci ha pensato ieri il sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto che ha risposto all’interpellanza di Gianfranco Di Sarno, deputato del MoVimento 5 Stelle, a cui erano seguite le interrogazioni del deputato leghista Luca Toccalini e di Carmelo Miceli del Partito democratico. L’onorevole Sisto ha dichiarato che «il presidente della prima sottocommissione costituita presso la Corte di Appello di Lecce ha trasmesso al Ministero una relazione firmata da tre commissari della IV sottocommissione (due avvocati e un magistrato)». Dalla relazione emerge che «nella giornata del 4 giugno 2021 sono stati esaminati cinque candidati di cui i primi tre ritenuti idonei (il primo e il terzo con il punteggio di 18/30 e la seconda con il punteggio di 22/30) e il quarto e il quinto non idonei con il punteggio rispettivamente di 12/30 e 14/30. Al momento dell’esame del terzo candidato mutava la composizione della commissione attraverso la sostituzione di un componente professore con un componente magistrato che si collegava da remoto. In questa fase sarebbero state proferite le espressioni riportate dagli organi di informazione». Ricordiamole: oltre a quella incriminata su citata, il magistrato avrebbe aggiunto: «Io una domanda insidiosa posso farla», convinto che «se promuoviamo tutti quelli che arrivano alla fine poi dobbiamo bocciare». Ad ascoltare il tutto c’erano circa una quarantina di candidati sui 475 che stanno sostenendo la prova a Brescia. Lo sprovveduto della commissione ha lasciato il microfono aperto e i praticanti, già in ansia per la nuova modalità di esame, hanno visto il loro destino segnato dalla scure del severo magistrato. Che però si difende, come racconta Sisto: «Nella relazione si legge che “con riferimento alla frase attribuita dalle notizie di stampa al componente magistrato ‘non possiamo promuovere tutti, stiamo bassi’ deve precisarsi che tale espressione non riflette correttamente quanto dichiarato dal [commissario], il quale in prima battuta chiedeva agli altri componenti notizie sugli esiti delle prime prove alle quali non era stato presente, invitando come sovente accade nelle discussioni interne ad una commissione giudicatrice a valutazioni più rigorose, mentre con riferimento all’espressione stiamo bassi la stessa si riferiva non al dato numerico degli idonei alle successive prove orali, ma alla valutazione della singola prova di esame in base al rendimento del candidato”». Preso atto della versione del magistrato commissario, permetteteci qualche domanda: perché un magistrato dovrebbe essere più bravo dei commissari avvocati a ripristinare il rigore? Crede forse che per spirito di appartenenza alla categoria sarebbero disposti a promuovere tutti? E poi perché si dovrebbe partire già con l’intenzione di valutazioni basse, senza prima aver ascoltato il candidato? Ha detto bene il presidente dell’ordine degli avvocati di Brescia Fausto Pelizzari quando ha ricordato che «le valutazioni vanno fatte esclusivamente sulla base della preparazione dei candidati. L’obiettività è la prima cosa». Comunque il Ministero della Giustizia sembra prendere le distanze da quanto accaduto, impossibilitato a controllare il lavoro di ogni sub-commissione: «Deve essere in questa sede sottolineata l’estraneità del Ministero ai profili attinenti alla valutazione dei candidati, che costituisce prerogativa esclusiva delle commissioni sulla base dei criteri elaborati dalla Commissione centrale costituita presso il Ministero». Ma rassicura: «Va sottolineato, anche per la serenità dei candidati in vista delle loro prove, che si tratta di un esame di abilitazione per il quale non è previsto alcun limite al numero degli idonei». Per Claudia Majolo, Presidente Unione Praticanti avvocati, «la verità è figlia del tempo e ad oggi (ieri, ndr), il Ministero della Giustizia, che sin da subito si è mostrato sensibile alle istanze dei praticanti, ha messo il punto alla situazione mettendo a tacere ogni polemica».
Eppure io ispettore dico: a volte le tracce sono fin troppo facili. Ezio Menzione su Il Dubbio il 7 giugno 2021. Si è accesa una polemica sul nuovo modo di fare gli esami per diventare avvocati, investendo le prove orali che sostituiscono, causa pandemia, le usuali prove scritte per essere ammessi agli orali veri e propri. La rappresentante dell’associazione praticanti, la collega Majolo, lamenta che le commissioni di esame presso alcune Corti d’appello starebbero proponendo tracce o quesiti troppo complessi che difficilmente potrebbero trovare soluzione in un esame fatto di trenta minuti per studiare il caso e trenta minuti per esporre la soluzione. Anche il presidente del Consiglio dell’Ordine di Catanzaro, Avvocato Antonello Talerico, si è espresso con toni analoghi lamentando tracce troppo complesse, considerando che i candidati hanno solo trenta minuti per studiare e orientarsi: colpa dunque delle sottocommissioni di Bologna che hanno l’incarico di vagliare i 1200 candidati catanzaresi. A me capita di essere Ispettore ministeriale proprio per le sottocommissioni bolognesi e dunque ho passato questi primi giorni attaccato al computer per vedere come si svolgono questi esami pre-orali. Diciamo subito che mi sembra un po’ troppo presto per valutare l’operato degli esaminatori. Io in tre giorni ho seguito sei sottocommissioni e non mi sentirei di trarre alcuna valutazione sul loro operato: siamo solo agli inizi e certo occorre che le commissioni precisino meglio le modalità della prova. Ma una cosa si può dire fin da ora: le tracce elaborate dalle sottocommissioni se hanno un difetto è che sono troppo semplici. Siamo lontanissimi dalla complessità sia tematica che metodologica che caratterizzava gli scritti degli altri anni. Qui esse vertono sulla materia scelta dal candidato (civile, penale, amministrativo: con molte zone “vietate”) il che già riduce di molto la possibile complessità. Sono tracce dalla risposta per così dire “aperta”: non è cioè richiesto che il candidato dia la risposta giusta e unica (che in genere nei casi giuridici non c’è), ma che si orienti sugli istituti coinvolti e su come maneggiarli. Non è neanche vero che tutti i candidati di Catanzaro stiano facendo pessimi esami: ho assistito a prove egregie, che infatti hanno avuto valutazioni più che positive. Altri hanno fatto scena muta o hanno esposto in maniera confusa e non centrata, e non sono stati dichiarati ammessi all’esame. Tutto qui. Una cosa mi sembra di poter dire sin d’ora (ma pronto a rimangiarmela se ce ne fosse motivo): il comportamento dei commissari bolognesi è ineccepibile per correttezza e anche umanamente, nel mettere i candidati a loro agio e cercare di trarne il massimo. Ineccepibili – anzi, forse un pochino troppo facili – sono le tracce, tutte rispondenti alle linee guida dettate dalla Commissione centrale presso il Ministero. Piuttosto, pare a me che fin d’ora si noti una sorta di squilibrio: trenta minuti per riflettere e studiare in certi casi (per la verità assai rari) potrebbero rivelarsi un po’ poco. Trenta minuti per l’esposizione sono sempre troppi: troppi per chi fa un’imbarazzante scena muta e troppi per chi, avendo individuato correttamente temi e problemi, se la cava egregiamente in 10-15 minuti. Ambedue le tipologie di solito rinunciano ai minuti residui. Ma così ha dettato il ministero e le molte sottocommissioni non possono violare la regola.
· La Casta precisa: riforme non per tutti...
Lauree abilitanti, Sisto precisa: "Non per avvocati, ingegneri, notai..." HuffPost il 24/04/2021. Il sottosegretario alla Giustizia chiarisce come si tratta di "percorsi professionali che, per specificità, sono esclusi da tali eventuali ipotesi". La “riforma delle lauree abilitanti” che trova spazio nel Recovery Plan italiano, poteva sembrare una rivoluzione copernicana, ma le precisazioni del sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ne ridimensionano immediatamente la portata. “Preciso che l’ipotesi di lauree idonee da sole a far conseguire abilitazioni professionali non trova applicazione né per gli avvocati né per altre categorie professionali come i commercialisti, gli ingegneri e i notai. Si tratta, infatti, di percorsi professionali che, per specificità, sono esclusi da tali eventuali ipotesi”. Nel testo si leggeva come “la riforma prevede la semplificazione delle procedure per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, rendendo l’esame di laurea coincidente con l’esame di Stato, con ciò rendendo semplificando e velocizzando l’accesso al mondo del lavoro da parte dei laureati”. L’idea era stata già proposta dall’ex ministro dell’Università, Gaetano Manfredi, per rendere più veloci i processi di abilitazione alle professioni: da capire, però, a questo punto, quali professioni.
SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Palazzi immortali. La seconda vita del Cnel, l’ex carrozzone che tutti volevano abolire. Marco Fattorini su L'Inkiesta il 15 Dicembre 2021. Da destra a sinistra, quasi tutti i partiti hanno provato a eliminarlo senza riuscirci. Il Csm voleva prendersi la sua sede a Villa Borghese. Oggi l’ente costituzionale, definito inutile e sprecone, sogna in grande. Propone leggi e monitora l’attuazione del Pnrr. Il presidente Treu vorrebbe assumere altro personale: «Siamo francescani, facciamo tutto gratuitamente e abbiamo dimostrato di essere utili». Avrebbero dovuto abolirlo, il funerale era pronto. I suoi dipendenti sarebbero stati spostati alla Corte dei Conti. Qualcuno aveva già preparato gli scatoloni. E la sede di Villa Lubin, un magnifico palazzo in stile liberty e neobarocco nel cuore di Villa Borghese, era stata prenotata dal Consiglio Superiore della Magistratura. Era il 2016, l’anno in cui il referendum sulla riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi avrebbe dovuto cancellare il Cnel, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Poi in quel famoso 4 dicembre vinse il No. Il Cnel era incredibilmente salvo, ma in tanti hanno riprovato a eliminare l’organo di rilievo costituzionale nato per essere una sorta di cerniera tra governo, Parlamento e categorie produttive. Un ente che fa consulenza all’esecutivo, elabora studi e proposte di legge. Costato un miliardo di euro dalla sua fondazione, non era mai riuscito a raggiungere l’operatività che ci si aspettava.
Dal Movimento 5 Stelle alla Lega passando per il Partito democratico, in molti hanno sostenuto progetti di legge per depennare il Cnel dalla Costituzione. La questione faceva parte del programma del governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte. Prima ancora ci aveva pensato Massimo D’Alema con la Bicamerale. Destra e sinistra, erano quasi tutti d’accordo ad abolire quello che è sempre stato descritto come un ente inutile, un simbolo della Casta e un cimitero degli elefanti. «A qualcuno piace il Cnel? I suoi estimatori sono più rari dei Pokemon», diceva Matteo Renzi durante la campagna referendaria.
Fino al 2016 il Cnel aveva prodotto solo 14 disegni di legge, sostanzialmente ignorati dal Parlamento. In compenso aveva fatto parlare di sé per consulenze, stipendi e assenteismo dei consiglieri. «Se la sono presa con un microbo quando in giro c’erano gli elefanti – spiega l’attuale presidente Tiziano Treu – Oggi siamo dei francescani, facciamo tutto gratuitamente e le spese sono solo quelle di funzionamento, siamo una carrozzina più che un carrozzone». Il bilancio previsionale del 2022 vale 11,8 milioni di euro, di cui quasi sei per il personale e uno per la manutenzione della prestigiosa sede.
Tutti ci hanno provato, ma nessuno è riuscito a sbarrare le porte di Villa Lubin. Così ora il Cnel vive una seconda vita. Si candida addirittura ad avere un ruolo nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. E vorrebbe assumere nuovo personale. A Villa Lubin, un gioiello di inizio Novecento con affreschi, fontane e biblioteca da 75mila volumi, sono tornati gruppi di studio e convegni. Si elaborano progetti di riforme e proposte per la politica. La scossa del referendum del 2016 sarà pur servita a qualcosa. «Il Cnel deve dimostrare di essere utile riguadagnandosi il suo ruolo», dice a Linkiesta Tiziano Treu, che dal 2017 guida l’organo costituzionale più disprezzato dalla politica.
Giuslavorista e accademico di fama internazionale, tre volte ministro, Treu aveva fatto campagna per il Sì nel 2016. Ironia della sorte. «Condividevo quasi tutti i punti della riforma ma non l’eliminazione del Cnel, che rappresentava un centesimo di quel testo».
In ogni caso, sembra passata un’era geologica. Oggi intorno a Villa Lubin si respira un clima diverso. «Abbiamo ripreso a fare consulenza per il governo, rafforzato i rapporti con l’Europa e facciamo ricerca con le università. In più portiamo avanti un monitoraggio del Pnrr: così possiamo denunciare ritardi e ostacoli nella sua attuazione».
C’è un dato che, più di altri, spiega la rinascita dell’ente. In questa legislatura il Cnel ha inviato 22 disegni di legge al Parlamento, il doppio di quelli scritti nelle tre legislature precedenti. Ma soprattutto, dopo tempo immemore, è riuscito a far approvare una legge: il codice unico dei contratti. Insieme all’Inps, ha istituito un’anagrafe dei contratti collettivi nazionali che permetterà di scoprire i cosiddetti ‘accordi pirata’. Poi ha presentato un ddl per aumentare le tutele dei lavoratori autonomi. Ma anche un documento di osservazioni e proposte che prevede l’obbligo di casco e assicurazione per i monopattini elettrici.
Nel parlamentino del Cnel siedono 64 consiglieri che rappresentano sindacati, Confindustria e terzo settore. Oltre a loro una sessantina di dipendenti, quasi tutti amministrativi. Gli esperti sono soltanto dieci e part-time, condivisi con le università. Troppo pochi, per i progetti di rilancio. Così il nuovo Cnel vuole assumere. Il professor Treu non ha dubbi: «Per il tipo di lavoro che facciamo, abbiamo chiesto al ministro Brunetta se possiamo avere ricercatori a tempo pieno. Il Cnel francese ha 80 dipendenti e sono tutti ricercatori».
L’ex carrozzone non è più alla deriva. Le minacce di abolire l’ente non sono più così pressanti. E con il governo c’è piena sintonia. Il premier Draghi ha nominato Treu coordinatore del tavolo di Palazzo Chigi per il partenariato economico e sociale nell’ambito dell’attuazione del Pnrr. Treu ne è convinto: «Sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza il Cnel potrà dire la sua». Superato anche «il vento di disintermediazione» favorito negli anni scorsi dai Cinque Stelle, Villa Lubin sogna in grande. «I corpi intermedi non sono mai inutili e il Cnel va potenziato». Chi l’avrebbe mai detto.
LE SOCIETA’ “INVISIBILI” DEI COMUNI E DELLE REGIONI CONTINUANO A DILAGARE. Il Corriere del Giorno il 20 Agosto 2021. Le società sono circa 5 mila (4.880 per l’esattezza). I Comuni (a cui fa capo il 97% delle quote) sono presenti nelle società e negli enti con un groviglio intricatissimo di partecipazioni sia dirette che indirette. Nei libri sociali la presenza nel capitale dei sindaci e dei governatori è iscritta 101mila e 500 volte. Altro che “tagli”. A quasi sette anni dalla promessa pronunciata dall’allora governo Renzi, il capitalismo municipale è vivo e vegeto. Lotta e, soprattutto, resiste. L’ultima ricognizione delle società e degli altri organismi partecipati e controllati dagli enti territoriali (dovevano essere drasticamente ridotte da 8.000 a a 1.000). Un censimento complesso, fatto dalla Corte dei Conti, realizzato incrociando banche dati e acquisendo le comunicazioni che i sindaci ed i governatori delle regioni italiane sono obbligati a fare ma sui quali, più di qualche volta sorvolano. La galassia delle società controllate dagli enti pubblici territoriali partecipa e controlla ancora ben 7.154 tra società, enti, consorzi, fondazioni. Di queste per la precisione le società sono circa 5 mila (4.880 per l’esattezza). I Comuni (a cui fa capo il 97% delle quote) sono presenti nelle società e negli enti con un groviglio intricatissimo di partecipazioni sia dirette che indirette. Nei libri sociali la presenza nel capitale dei sindaci e dei governatori è iscritta 101mila e 500 volte. Altro che “tagli”. Solo per le società che hanno bilanci e note integrative depositate nei pubblici registri (4.656 sulle 4.880 totali), sottolinea la Corte dei Conti, emerge un dato che da solo racconta il fallimento, fino ad ora, del tentativo di razionalizzazione delle società partecipate. Quasi 1.200 (per l’esattezza 1.197) delle 4.656 società esaminate, si trova in una delle “condizioni” che tecnicamente dovrebbero portare alla loro chiusura. I criteri sono definiti ormai da anni nella legge. Che prevede tre regole fondamentali. Il primo: vanno chiuse le società che hanno più amministratori che dipendenti. In pratica i “poltronifici”. Secondo: vanno chiuse le società che fatturano meno di 500 mila euro l’anno. Terzo: vanno chiuse le società che non producono servizi essenziali per l’ente o che hanno gli ultimi quattro bilanci su cinque in perdita. Queste ultime, spiega la relazione della Corte dei Conti, sono 350 ed hanno bruciato dal 2014 al 2018 qualcosa come 2,6 miliardi di euro. Queste regole, sono state allungate nel tempo di anno in anno e rese meno vincolanti. La revisione straordinaria che doveva portare al taglio, per esempio, è stata prorogata fino alla fine di quest’anno. Ma i sindaci ormai, possono accampare diverse scuse per non dismettere le partecipazioni. Ma in realtà ormai nemmeno si sforzano più di farlo. Il MEF (ministero dell’Economia) e la Corte dei Conti, hanno una piattaforma che si chiama “Partecipazioni”. I sindaci e i governatori devono spiegare attraverso questa piattaformaI cosa intendono fare delle loro quote, a cominciare da quelle che andrebbero in qualche modo, come prevede la legge, “razionalizzate”. Nella Relazione dei magistrati contabili si legge che “Dall’analisi è emerso infatti che è stato deliberato il mantenimento (con o senza interventi di razionalizzazione) del 90% delle partecipazioni in società che svolgono servizi pubblici locali e dell’81% delle società strumentali“. Questo comportamento, spiega ancora la Corte dei Conti, si riscontra diffusamente nei Comuni mentre le Province e le Città metropolitane, insieme alle Regioni e alle Province Autonome hanno dimostrato condotte più attive. I Comuni Infatti hanno scelto di mantenere le partecipazioni (con o senza interventi di razionalizzazione) nell’87% dei casi, a fronte di un valore del 59% e del 67%, rispettivamente, delle Regioni e delle Province autonome e delle Province e Città metropolitane. Un altro elemento che viene messo in risalto dalla Corte dei Conti è che la forma di affidamento prevalente dei servizi pubblici locali resta quella diretta. Si tratta di un punto centrale, soprattutto in vista dell’approvazione attesa in consiglio dei ministri entro settembre, del disegno di legge sulla concorrenza. Il tema è delicato. Il provvedimento del governo è previsto dal Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato con 191,5 miliardi dall’Europa. Uno dei punti centrali di questo provvedimento riguarderà proprio il capitalismo municipale. Gli affidamenti in house dei Comuni alle loro partecipate, diventeranno sempre più difficili. I sindaci dovranno spiegare prima dell’affidamento perché affidare il trasporto pubblico o la raccolta rifiuti a una propria partecipata è più vantaggioso per gli utenti che fare una gara. E stavolta, con i fondi europei del Recovery in ballo, sarà molto difficile riuscire a trovare delle scappatoie.
Bilanci colabrodo, in perdita il 23% delle società a controllo pubblico. Le partecipate dagli Enti pubblici continuano a produrre buchi, non offrendo sempre servizi all’altezza, con un risultato d’esercizio negativo totale di 555 milioni. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 20 agosto 2021. Tutto cambia, tranne nel mondo delle società partecipate dagli Enti pubblici che continuano a produrre buchi nei bilanci, non offrendo sempre servizi all’altezza. Ed è al Nord che il “fenomeno” appare più sviluppato, anche se in questo settore l’Italia appare davvero unificata. È quanto emerge dalla relazione della sezione delle Autonomie della Corte dei Conti approvata ieri su “Gli organismi partecipati dagli enti territoriali e sanitari”, report che analizza, attraverso i dati disponibili aggiornati al 2018, la diffusione, la rilevanza economica e la tendenza evolutiva del fenomeno delle partecipazioni pubbliche. “L’obiettivo – spiegano i magistrati contabili – è quello di esaminare l’impatto delle esternalizzazioni sui bilanci degli enti partecipanti, verificando, inoltre, in quale misura gli stessi enti si siano attenuti all’obbligo di ricondurre il mantenimento delle partecipazioni nell’alveo dei principi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa”. La Corte dei conti ha individuato 7.154 organismi partecipati in via diretta e indiretta dagli enti territoriali (Comuni, Province e Regioni) e ha rilevato complessivamente 101.478 partecipazioni, di cui 23.154 dirette e 78.324 indirette, per la maggior parte riferite ai Comuni (quasi il 97%) e localizzate prevalentemente al Nord Italia (75%). Dei 7.154 organismi, la magistratura contabile ne ha esaminati 4.880, cioè quelli di cui sono disponibili i dati di bilancio del 2018, con un focus specifico sulle società a totale e diretto controllo pubblico, cioè 2.656.
I NUMERI PER REGIONE
Se Regioni e Province stanno cercando di mettersi in riga, i Comuni sono ancora molto indietro nell’opera di razionalizzazione e “dismissione” delle partecipazioni. “I Comuni – si legge – hanno scelto di mantenere le partecipazioni nell’87,38% dei casi, a fronte di un valore del 59,48% e del 67,52%, rispettivamente, delle Regioni/Province autonome e delle Province/Città metropolitane”.
Delle 4.880 società esaminate dalla Corte dei Conti, 739 si trovano in Lombardia, 422 in Toscana, 395 in Emilia Romagna, 368 in Veneto, 339 in Piemonte, 208 nella piccola Provincia autonoma di Bolzano, che supera persino la Puglia (201).
Al Sud il maggior numero di partecipate si concentra in Campania, dove comunque sono “soltanto” 280, segue la Sicilia (244), poi Puglia e Calabria (119). Il divario è palese.
I RISULTATI ECONOMICI
La Corte dei Conti ha poi analizzato i bilanci, concentrandosi solo sulle 2.656 società a totale e diretto controllo pubblico. Esaminando soltanto il 2018, risultava in perdita circa il 23% delle 2.656 società a controllo pubblico, con un risultato d’esercizio negativo che si attesta sul valore di 555 milioni di euro di cui 115 milioni di perdite registrate dalle partecipate della Lombardia, un quinto del totale.
Ma se si guarda al totale dei debiti accumulato dalle società nel corso degli anni i numeri fanno rabbrividire: nel complesso ammontano a 42,8 miliardi contro un totale crediti di 24,2 miliardi circa.
“La maggior parte di tali debiti (il 57%) è stata contratta dalle partecipate dell’area settentrionale (rispettivamente il 34% nel Nord-Ovest e il 23% nel Nord-Est) – evidenzia la Corte dei Conti – con una forte concentrazione in Lombardia (8,29 miliardi), Veneto e Piemonte (rispettivamente 4,08 e 3,77 miliardi). Tra le Regioni del Centro, spiccano le società del Lazio (4,07 miliardi) e della Toscana (3,5 miliardi); nel Meridione, i valori più elevati si registrano in Campania e Sicilia (3,13 e 1,98 miliardi)”. La situazione è ancora più drammatica se si considerano solamente le società controllate ma non a controllo pubblico: su 1.282 ben 457 sono in perdita, il 35%.
IL NUMERO DI SOCIETÀ IN PERDITA
Se si dà uno sguardo, invece, al numero di partecipate in “rosso”, in totale sono 601 su 2.656 e l’incidenza è maggiore al Sud questa volta. In Molise, ad esempio, 8 su 15 hanno un bilancio in “rosso”; in Basilicata 7 su 16; in Calabria 17 su 46; in Campania 41 su 128; in Sicilia 38 su 120.
Non che al Nord la situazione sia particolarmente più rosea: in Piemonte 43 su 206 sono in perdita; in Veneto 46 su 222; in Toscan 49 su 246; in Emilia Romagna 43 su 258; in Lombardia 92 su 472. Calabria svetta in cima alla classifica relativa: 17 su 46 sono in perdita, il 36%. Segue la Campania (41 su 128, il 32%).
LE PARTECIPAZIONI CHE DOVREBBERO ESSERE DISMESSE
Stando alle verifiche dei magistrati contabili, delle 4.656 società controllate ben 1.197, il 25,7%, presentano almeno una criticità prevista per legge che dovrebbe portare alla loro liquidazione: ad esempio, società prive di dipendenti o che hanno un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti; società che, nel triennio precedente, hanno conseguito un fatturato medio non superiore a 500.00 euro; società diverse da quelle costituite per la gestione di un servizio d’interesse generale che abbiano prodotto un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti. I dipendenti delle società interessate sono complessivamente 5.578; a livello territoriale, la percentuale più elevata si registra in Valle d’Aosta (42,42%), seguono Abruzzo (40,11%), Basilicata (39,58%), Friuli-Venezia Giulia (36,13%).
IL GIUDIZIO DELLA MAGISTRATURA
“Il quadro complessivo – scrive la Corte dei Conti – è variegato: si registrano alcuni progressi rispetto alla precedente rilevazione, ma il cammino verso il pieno adeguamento ai canoni imposti dalla normativa di settore appare ancora lungo da percorrere. Nei servizi pubblici locali meno di 1/5 delle società controllate è in perdita (16,36%), mentre nei servizi strumentali quasi 1/3 (27,73%) presenta un risultato di esercizio negativo. Come rilevato in passato, gli enti tendono a “conservare” le partecipazioni detenute, senza alcun intervento di razionalizzazione, con percentuali superiori all’80%”.
Nell’area dei servizi pubblici locali “si registra la maggiore concentrazione degli affidamenti in termini sia di numerosità delle procedure sia di impegni di spesa. Tuttavia, la forma di affidamento prevalente dei servizi pubblici locali resta quella diretta”. Mentre per gli enti sanitari, “sono stati individuati 149 organismi partecipati in via diretta e indiretta e sono state rilevate, per le società partecipate, 267 partecipazioni, di cui 238 dirette e 29 indirette. Nell’esercizio esaminato, registrano perdite 19 società su 90 (21,11%), con un risultato d’esercizio negativo pari a circa 3,9 milioni di euro”.
Lo Stato ripiana i buchi dei sindaci giallorossi. Il conto è da 660 milioni. Antonella Aldrighetti il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. I Comuni in dissesto salvati dall'intervento pubblico. I peggiori: Napoli, Torino e Salerno. Il virtuosismo ostentato di sinistra prova ancora a farsi strada, ma solo a chiacchiere perché davanti ai fatti si schianta dimostrando tutta l'incapacità gestionale in fatto di pubblica amministrazione. Lo dimostra esplicitamente il report realizzato da Csel (Centro studi enti locali) per Adnkronos dove vengono esaminati i bilanci degli enti locali, salvati dallo Stato attraverso l'assegnazione di ben 660 milioni di euro per tamponare quei buchi che rischiavano di far saltare il banco facendoli finire in dissesto o in pre-dissesto, o peggiorando ulteriormente un quadro già di base emergenziale. La maglia nera su 326 enti locali spetta alla Napoli di Luigi de Magistris, che da sola si accaparra il 37% delle risorse, pari a 246,5 milioni per coprire i disavanzi. Quanto al resto della classifica sulla quota dei debiti l'83% dei comuni (ovvero 271 su 326) sono nel Mezzogiorno, diventando destinatari del 78% delle risorse: 519.490.0213 euro sui 660 milioni totali. A seguire il centro Italia con 42 enti locali (13% del totale) e uno stanziamento complessivo pari a 25.471.045 euro. Dietro ancora il settentrione che, sebbene abbia solo 13 enti compresi nell'elenco, si è visto assegnare oltre 115 milioni di euro. Una disamina puntuale dei numeri vede Napoli seguita a stretto giro da Torino con 111,9 milioni dove, anche la pentastellata Chiara Appendino, ha confermato un sostanzioso compendio debitorio. A seguire Reggio Calabria con 45,8 milioni, Salerno, già feudo del dem De Luca, con 33,1 milioni e Modica, nel ragusano, che si è vista assegnare oltre 11 milioni. Se si va a rapportate il debito complessivo alla popolazione residente può essere estrapolato anche un altro dato: il comune dove i cittadini sono i più indebitati è Polino, in provincia di Terni: un'amministrazione che conta 215 abitanti, per i quali i 139.555 euro equivalgono a 649 euro a testa. Insegue Rea, nel pavese, che sta per incamerare 221,4 milioni, e considerati i soli 400 abitanti, significa 553 euro pro capite. Al terzo posto il comune di Castelmola, in provincia di Messina (534 euro a testa). A dare manforte al debito campano arrivano anche Camigliano, in provincia di Caserta e Roccarainola (Napoli). Vagliando lo stato debitorio delle regioni è la Calabria a farla da padrona con 118 enti inclusi nell'elenco, addirittura 1 su 3: (circa 1 su 3). Vengono dietro altri 48 comuni siciliani (47.878.573 euro), 26 enti laziali (12.433.227 euro), 11 comuni pugliesi (11.433.646 euro), 9 enti abruzzesi (9.587.150 euro), 7 comuni del Molise (532.776 euro), 7 enti piemontesi che, grazie all'ingombrante presenza di Torino, hanno assorbito poco meno di 112 milioni di euro. Tutta la lista, che si ferma al 31 dicembre 2020, comprende 320 comuni, 4 province, una comunità montana e un'unione di comuni cui l'esecutivo, con il Decreto Sostegni bis, ha elargito le coperture. ll fondo, spiega il Cesl, rappresenta una delle soluzioni individuate dall'esecutivo per tamponare gli effetti della sentenza n.80 (29 aprile 2021), della Consulta che ha creato grande scompiglio, rischiando portare al collasso numerosi enti, primo tra tutti il capoluogo campano. Antonella Aldrighetti
· Lo scandalo della Pedemontana Veneta.
Ritardi, errori e costi insostenibili: lo scandalo Pedemontana veneta finisce in Parlamento. È di certo la superstrada più cara d’Europa: 80 milioni al km + Iva. Dopo la denuncia del nostro giornale arriva l'interrogazione della senatrice Vanin. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. Il “caso Pedemontana” finisce in Parlamento. Pedaggi alle stelle, costi non più sostenibili, un mix di calcoli errati e di flussi dimezzati. Un flop che rischia di pesare per i prossimi due decenni sulle tasche dei veneti e sui conti della Regione e servirà a stabilire un nuovo primato europeo: 15 miliardi di euro. La superstrada più cara d’Europa. In passato era stato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Inca, a esprimere le sue perplessità per la cifra che in 39 anni la Regione guidata dal presidente Luca Zaia dovrà corrispondere al concessionario, 12 miliardi e 108 milioni, cui si aggiungono i finanziamenti erogati dallo Stato e dall’ente locale. A raccogliere la denuncia, rilanciata dal Quotidiano del Sud, è la senatrice 5Stelle Orietta Vanin che ha presentato un’interrogazione urgente al ministro alle Infrastrutture e alla sostenibilità della mobilità, Enrico Giovannini. L’atto di sindacato ispettivo riassume la gestione travagliata.
LA TELA DI PENELOPE. Progettata come superstrada a pedaggio, finanziata con project financing a prevalente capitale privato e con l’apporto di fondi pubblici della regione Veneto, la Pedemontana Veneta si sta trasformando sempre più in un’idrovora che assorbe risorse. Un cantiere a peso d’oro, una delle infrastrutture più straordinariamente costose: circa 80,14 milioni + Iva al km. Ai costi non corrispondono in alcun modo i benefici: 94,5 km di lunghezza + 68 km di opere complementari, una lunga striscia d’asfalto che, una volta ultimata, sarà data in concessione al privato costruttore per 39 anni. Al netto delle obiezioni degli ambientalisti per l’impatto sul paesaggio, resta l’“effetto Penelope”. «La tela cucina e scucita di un’opera che avrebbe dovuto essere completata entro gennaio 2016, poi slittata a dicembre 2018 e infine a settembre 2020 senza che la Regione Veneto ritenesse di voler incassare le penali per ritardata consegna dell’opera» rileva Enrico Cappelli che, svestiti i panni di senatore 5Stelle, ha lasciato palazzo Madama ed è tornato a occuparsi del suo territorio. Suo l’esposto all’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) per stabilire che la metodologia utilizzata per quantificare il canone di disponibilità è inadeguata. Non è infatti ammissibile che slittino i termini di ultimazione lavori senza una corrispondente riduzione del termine di durata della gestione. I ritardi nella consegna dell’opera si riflettono quali mancati introiti della gestione dell’infrastruttura. La Corte dei conti riporta le stesse deduzioni dell’Anac, concordando sul fatto che sarebbe alterata l’allocazione del rischio di costruzione del concessionario.
RIFLETTORI SPENTI. I dubbi sulla Pedemontana si trascinano da anni. Ciò nonostante, l’influenza del doge-governatore tiene spenti i riflettori. Il ministro alle Infrastrutture dovrà rispondere su tutte le questioni più dolenti, elencate una per una. A partire dalla prima, che suona provocatoria, se «sia a conoscenza dei fatti esposti; se sia a conoscenza di altra analoga infrastruttura, in costruzione in Italia, che preveda un esborso pubblico altrettanto straordinariamente elevato». Quindi si chiede se corrisponda al vero che «la Regione Veneto ha ritenuto di non incassare le penali per ritardata consegna dell’opera e se non ritenga che, con l’assunzione da parte della Regione del connesso “rischio di disponibilità”, venga meno un requisito indispensabile per sostenere il progetto di finanza. Infine, se conosca le ragioni che hanno indotto la Regione Veneto a disapplicare la citata delibera Anac nella parte in cui stabilisce che «non è ammissibile lo slittamento del termine di ultimazione dei lavori al 30.9.2020 senza una corrispondente/adeguata riduzione del termine di durata della gestione». La gestione della rete autostradale fa parte ormai del core business della Regione. Non pochi pensano, infatti, che dietro le ambizioni della Cav Spa, la concessionaria per metà della Regione e per l’altra metà dell’Anas che gestisce il Passante di Mestre, vi sia la necessità di finanziare la Pedemontana senza rischiare la bancarotta. Tutto nasce dalle difficoltà per il concessionario privato a far fronte al closing finanziario e dalla decisione di Cdp e Bei di non partecipare al finanziamento. Una scelta dettata da uno studio sulle stime di traffico molto inferiori alle previsioni. Nonostante la stipula del Tac (Terzo atto convenzionale) che ha rivisto le clausole contrattuali, i dubbi su un eccesso di remunerazione del concessionario restano. Senza dire che il nuovo schema contrattuale continuerebbe a essere in contraddizione con la ratio originaria della finanza di progetto (project financing). Il concessionario privato non rischia nulla e incassa il canone. Mentre la Regione, nel corso dei 39 anni, sborsa solo costi di gestione non quantificabili.
LE ALTRE INCOGNITE. A questo si aggiungono altri fattori e uno su tutti: i tempi di realizzazione delle interconnessioni con le autostrade A4, A31 e A27. La piena funzionalità della “Pedemontana Veneta” presuppone l’interconnessione diretta con le autostrade. Non risulta, inoltre, ancora definita la riclassificazione infrastrutturale, non si possono superare dunque i 110 km/h. A Palazzo Chigi è arrivato nei giorni scorsi un dossier dettagliato, un documento riservato che ai leghisti piace poco.
Dice, tra l’altro, che per la tratta già in funzione il pedaggio è di 0,16,420 euro al km per le auto e di circa 0,30 euro per i veicoli pesanti. Carissimo, E che i conti si pareggiano solo se vi circolano 27mila veicoli al giorno, un obiettivo ancora lontano. E Pantalone continua a pagare.
· Immobili regalati o abbandonati.
Inps, migliaia di case regalate ai raccomandati: immobili abbandonati e affitti fuori mercato. Sandro Iacometti, Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 13 aprile 2021. L'Inps è il pilastro del nostro tessuto sociale. Come ente previdenziale, dovrebbe sempre essere in equilibrio finanziario. Invece batte cassa, ha accumulato negli anni un rosso monstre di 26 miliardi; e le pensioni vacillano; e il reddito di cittadinanza -fatto così, male - rimane una iattura invincibile; e le (giuste) erogazioni straordinarie ai lavoratori causa Covid lo stanno strangolando, e con lui strangolano il nostro welfare. Il problema vero è che il bilancio dell'Inps è in rosso anche quando non ci sono emergenze, e i debiti si accumulano anno su anno. Il buco è economico, ma riguarda - almeno finora - una mentalità affogata nella burocrazia. A partire da quella che caratterizza la gestione dell'immenso patrimonio immobiliare, che per gran parte (17.772 immobili, dati Inps 2019) è inutilizzato, per una piccola parte (1.573) usato direttamente e per il resto (7.621) messo a reddito con un rendimento complessivo negativo, come sostiene la Corte dei conti nelle sue ultime indagini. L'amministrazione Tridico, sotto la direzione al Patrimonio di Diego De Felice ha portato, meritoriamente, in due anni di dismissioni gli immobili da 27mila del dicembre 2019 ai 26.400 dell'ottobre 2020 (come specificato dallo stesso funzionario a Libero alcune settimane fa); di questi immobili il 38% (9348) è fatto di abitazioni, il 47% (10.868) di unità secondarie e il resto di uffici e magazzini. Quest' anno, l'Inps, in dismissioni e conferimenti a fondi (che a loro volta hanno venduto e gestito gli immobili), ha introitato circa 90 milioni di euro. Paradossalmente la pandemia ha reso l'ente attivissimo. Ma non basta. Urge una sua riforma strutturale che parta dalla tanta auspicata divisione fra la gestione pensionistica e quella assistenziale. E urge, perlomeno, evitare gli sprechi e mettere davvero a reddito il patrimonio. L'Inps è proprietaria di circa 2,5 miliardi di euro tra abitazione, ville, residenze, box, cantine, rimesse, negozi, soffitte, terreni. Negli anni questo patrimonio è stato oggetto di abbandono e inefficienze leggendarie in assonanza assoluta con le inefficienze dello Stato. La situazione è nota. Libero si è fatto un giro, nelle principali città italiane, per toccare con mano questa realtà. Fatta spesso di immobili in deperimento perché inutilizzati o di immobili concessi in locazione o in vendita ad un pugno di euro. Certo, meglio oggi che un tempo. Ma lo scopo della nostra inchiesta è benefico: indicare al dottor Tridico i gangli di inefficienza da potere eliminare, e denunciare le ingiustizie che, specie di questi tempi, possono portare a una tensione che può mettere a dura prova la tenuta sociale del Paese. Malgrado gli sforzi, infatti, la gestione dell'economista chiamato da Di Maio è ancora lontana dall'aver ottenuto risultati tangibili. È anche per aiutarlo nella sua missione che, nei prossimi giorni, oltre a raccontare i casi più eclatanti di spreco, pubblicheremo gli elenchi di tutti gli immobili posseduti dall'ente, indicando destinazione d'uso (quando c'è) e canone d'affitto.
Inps, il palazzo in pieno centro a meno di 100 euro nella Milano degli affitti folli. Matteo Legnani su Libero Quotidiano il 14 aprile 2021. Sei piani in cemento armato nudo, le finestre piccole e le griglie che nascondono i condizionatori dell'aria che paiono tante feritoie. A Milano il luogo-simbolo degli sprechi dell'Inps nella gestione del suo patrimonio immobiliare è lo stabile al civico 51 di Corso di Porta Romana, a pochi passi dalla Cerchia dei Navigli. Nel capoluogo lombardo l'Istituto vanta la proprietà di 297 immobili definiti come "abitazioni", 162 dei quali (il 55%) risultano "non utilizzati". Una parte consistente di questi numeri esce da lì, dal "fortino" di Porta Romana, dove l'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale possiede, stando ai dati 2019 (gli ultimi ufficiali disponibili) 90 appartamenti, oltre a un numero simile di pertinenze (cantine e box). Un numero calato in tre anni di 24 unità, che sono evidentemente state vendute. Ma se nel 2016, su 114 appartamenti ne risultavano sfitti 19, ora la percentuale di abitazioni "non utilizzate" (secondo la terminologia ufficiale usata dall'Istituto) è assai più alta: 35 su 90, ovvero quasi il 40%. Il titolare della storica Ferramenta Spinardi, che si trova quasi di fronte al "fortino", conferma che «c'è molto turnover nello stabile. Lo so perchè tutti, dal 51, vengono qui a comprare maniglie, lampade, accessori e di clienti "storici" che abitino lì non ne abbiamo mai avuti». Sarà perché lo stabile è davvero brutto. Di certo, non per gli affitti che L'Inps fa pagare ai suoi inquilini. Scorrendo la lista dei "canoni con locazione attiva" relativa a Corso di Porta Romana 51, ci si trova di fronte a cifre persino al di sotto dei 2mila euro annui, con le quali a Milano si può pensare di affittare un box auto in una zona periferica, non un appartamento, pur piccolo che sia, in centro. In alcuni altri casi si sale a 5-6mila euro, mentre un solo appartamento spicca fra tutti coi suoi 13.825 euro di affitto annuo (1.152 euro al mese).
LA MISERIA DEI RICAVI. In tutto, secondo la tabella dei Canoni di locazione attiva, nel 2019 l'Inps ha "tirato su" dagli affitti degli appartamenti di Porta Romana 51 la miseria di 60.500 euro, cioè molto meno di quanto aveva ricavato nel 2016, quando dai 95 alloggi affittati aveva ricavato 101.000 euro. La media di ricavi per appartamento, comunque, è assai simile: erano 1.063 euro l'anno (88,50 euro al mese) nel 2016, 1.100 euro tondi (91,60 euro al mese) nel 2019. In quella zona, ovviamente, gli affitti chiesti dai privati sono tutt' altra cosa. Anzi, roba dell'altro mondo: basta scorrere gli annunci su un qualsiasi portale di compravendite immobiliari per trovare, in quello stesso tratto di corso di Porta Romana compreso tra la circonvallazione dei Navigli e largo Crocetta, un 50 metri quadrati "vuoto" per il quale sono richiesti 1334 euro al mese, un 76 metri quadrati "parzialmente arredato" da 2.000 euro al mese, un 75 metri quadrati "ristrutturato" che sta anch' esso a 2.000 euro al mese. Ovvero, tra le 15 e 20 volte quel che in media l'Inps incassa da ciascun suo appartamento. Anche i privati che possiedono abitazioni nel "fortino", li affittano a cifre dieci più alte di quelle dell'Istituto di Previdenza. Sempre dando un'occhiata su internet, si può trovare un "bilocale, 65mq, arredato" per il quale chiedono 1.100 euro al mese (casa.it), e un "60mq ristrutturato e arredato" che viene a 1.000 euro tondi al mese (bakeka.it). Il sito specializzato borsinoimmobiliare.it parla chiaro: per gli appartamenti in stabili di fascia "media" in zona Porta Romana/Crocetta, le quotazioni vanno dai 16,50 ai 21,50 euro al metro quadro al mese. Tradotto: da 990 euro a 1.300 euro al mese per un appartamento di 60metri quadrati. Restando in pieno centro a Milano, ma spostandosi in una zona ancora più prestigiosa e costosa, un altro caso che grida vendetta è quello degli appartamenti che l'Istituto possiede al civico 34 di via Carducci, a cento metri dalla basilica di Sant' Ambrogio. Anche, qui, come in Porta Romana, lo stabile è un pugno in un occhio. Qualche cultore dell'architettura potrebbe associarlo allo stile brutalista che era in voga negli anni '50 e '60, ma nelle condizioni in cui è oggi lo si può definire semplicemente brutto, annerito dallo smog di una delle vie più trafficate del centro città e con bizzarre tende parasole rosse che penzolano, sbrindellate, dalla gran parte delle lunghe e strette finestre. Qui gli appartamenti e uffici di proprietà Inps sono in tutto 18, undici dei quali "non utilizzati". Al piano terra su strada ci sono due locali commerciali che nel 2019 risultavano dai "in uso a titolo oneroso a privato", ovvero affittati, mentre oggi uno dei due ha alle vetrine enormi cartelli "svuoto tutto" ed è effettivamente vuoto.
CONFRONTO IMPIETOSO. Dai sette appartamenti affittati, Inps ricava 68.350 euro l'anno (ovvero più che dai 55 alloggi in Porta Romana), con il più caro che sta a 22.833 euro l'anno. Seguono due altri alloggi a 18.900 euro e 15.350 euro l'anno, dopo di che si precipita a 4.600, 3.200, 1.830 e 1.665 euro l'anno. Non conoscendo la superficie dei tre più costosi alloggi, è impossibile conoscerne il costo al metro quadrato, e quindi in che proporzioni il canone di locazione sia al di sotto di quello di mercato. Ma l'affitto in valori assoluti degli altri è talmente irrisorio, in quella che è una delle zone più lussuose e costose della città, da spingere a confrontare le cifre con quanto ilborsinoimmobiliare.it dice sul costo al metro quadro per l'affitto non di un appartamento, ma di un box auto in zona: da 9 a 13 euro al metro quadro al mese, ovvero (considerando in 15mq la dimensione di un box medio) da 1.620 a 2.340 euro l'anno. Tradotto: abitare in due degli appartamenti Inps in via Carducci 34 è più conveniente che mettere l'auto al coperto in un "bel" box nella stessa zona.
Inps, il palazzo romano abbandonato da 10 anni e pagato con i soldi delle pensioni degli italiani. Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 13 aprile 2021. Guardandolo a distanza si potrebbe anche cadere in errore. Arrivando da via Agostino Magliani l'edificio costruito al centro di un gruppo di palazzine può essere scambiato per uno dei tanti centri commerciali disseminati ad ogni angolo del Paese. E in effetti lo era. Solo che adesso è completamente abbandonato. E tutto intorno c'è una recinzione metallica con numerosi cartelli che avvertono gli incauti che dovessero avvicinarsi del pericolo di crollo. È questo, uno stabile fatiscente e pericolante, quello che resta dell'investimento fatto dall'Inps coi soldi dei pensionati. Uno dei tanti, qualcuno stima che solo nella Capitale ci siano diverse migliaia di immobili inutilizzati, messi a segno negli anni dall'istituto ora guidato da Pasquale Tridico. Lo stabile che si trova in via Magliani 15, al confine tra i quartieri Trullo e Corviale a Roma, è oggetto di numerose segnalazioni da parte di residenti ed esponenti di Fratelli d'Italia: abbandonato da 10 anni potrebbe anche nascondere pericoli per la salute dei cittadini, che invece ornano i loro balconi con i fiori Il monumento all'inefficienza dello Stato, che centinaia di residenti sono costretti a rimirare ogni giorno dalle proprie finestre, per non dimenticare, si trova in località Colle del Sole. Una zona residenziale di Roma situata al confine tra due quartieri popolari nella parte Sud-Ovest della Capitale, il Trullo e il Corviale. Quest' ultimo conosciuto in tutta Italia per il terrificante esperimento di edilizia sociale realizzato negli anni Settanta: il famigerato Serpentone. Un chilometro di cemento dove, secondo i sociologi di sinistra, gli abitanti sarebbero vissuti uno schiacciato all'altro in perfetta armonia, ma che è rapidamente diventato il regno di emarginati e disperati che hanno fatto fuggire chi aveva la possibilità di farlo. Gli altri, con dignità e determinazione, hanno cercato di sopravvivere. In attesa di un piano di recupero di tutto il complesso che numerose associazioni, con l'aiuto delle autorità locali, stanno cercando di realizzare. Nell'area dove sorge l'ex centro commerciale si respira un'altra aria. Molte palazzine sono in cortina, i balconi sono pieni di fiori, il verde non manca e non si ha la sensazione di doversi guardare le spalle mentre si cammina. A rovinare il clima ci ha pensato l'Inps. Per l'ente di previdenza l'immobile di due piani, con ampie vetrate a specchio e un grosso impianto di riscaldamento ed aerazione a vista che campeggia a Colle del Sole, è solo una riga sulle circa 27mila (anche se dall'istituto ora sostengono che si è scesi a 26mila) che compongono il faldone sul patrimonio immobiliare del 2019, l'ultimo disponibile: «Via Magliani 15, ufficio strutturato ed assimilabili, non utilizzato». Ma per chi tutti i giorni vive lì è qualcosa di più. All'inizio, spiega la signora Lilli, che abita di fronte allo stabile, «aveva aperto un supermercato Sir, poi è arrivata la Conad, infine il nulla». L'immobile, malgrado le proteste dei residenti, è abbandonato da circa (nessuno ne ha più esatta memoria) 10 anni. Il caso amianto - Nel 2015 scoppia il caso amianto. Tra i primi a sollevare il problema c'è Marco Palma, di Fratelli d'Italia, consigliere storico dell'XI Municipio. A forza di interrogazioni ed ordini del giorno, si muove la presidente della Commissione Lavori pubblici del parlamentino territoriale, Giulia Fainella, che scrive all'autorità sanitaria locale e al comando di polizia per «verificare la consistenza di amianto eventualmente presente e l'indice di degrado». Nessuno interviene. L'esponente di Fratelli d'Italia, però, non si dà per vinto e qualche anno dopo riparte all'attacco. Non solo denunciando il degrado urbano. Già, perché accanto al danno al quartiere c'è anche quello ai conti pubblici. Possibile che l'Inps debba tenersi sul groppone immobili inutilizzati che portano solo guai ai luoghi che li ospitano invece di ricavarne qualche quattrino che aiuterebbe i traballanti bilanci dell'ente? È con questo pensiero che nel 2019 Palma, oltre a tornare a battagliare in Municipio, invia anche una segnalazione alla Corte dei Conti. «Non è possibile dover subire riforme pensionistiche peggiorative quando poi ci sono degli immobili che potrebbero essere messi a reddito», dice. Oggi, nel 2021, tutto è rimasto uguale. Anzi, la situazione, col passare degli anni, è peggiorata. Anche perché le piccole catene che di tanto in tanto qualcuno, presumibilmente incaricato dall'Inps o dalle autorità locali, appone agli ingressi non costituiscono davvero un problema per chi vuole accedere all'interno dell'edificio. «A volte», ci spiega Palma, «i lucchetti neanche sono della proprietà, ma di qualche criminale che controlla la zona. Impossibile saperlo. Ma di sicuro il centro commerciale è diventato il rifugio di sbandati e tossici che vengono qui a fare i loro comodi». Insomma, invece di una risorsa per alimentare i flussi miliardari (mai sufficienti) di prestazioni ad anziani, disabili e disoccupati l'immobile è diventato fonte di pericolosità sociale, di degrado urbano e, forse, anche di rischi per la salute dei residenti. Meglio di così, era davvero difficile fare.
· Storia di un maxi spreco. Il super jet di Renzi.
Storia di un maxi spreco. Il super jet di Renzi abbattuto da Toninelli. Con lo stop all'Airbus 340 furono gli ex ministri grillini a creare il danno maggiore. Chiara Giannini - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. Matteo Renzi lo volle a ogni costo, facendo buttar via all'Italia milioni di euro. Danilo Toninelli, Luigi Di Maio e i 5 stelle lo dismisero con uno show a Fiumicino degno del Grande Fratello, ma la verità che nel fermare l'Airbus 340 dell'Alitalia, meglio conosciuto come «Air Force Renzi», fecero peggio. A dimostrarlo è un documento che riporta quella che fu la proposta dell'Aeronautica militare per salvare capra e cavoli, mai presa in considerazione dai governi. All'epoca del suo esecutivo, l'ex premier di Rignano sull'Arno si incaponì per avere il velivolo principe della flotta di Stato, di fatto avviando un leasing da 168 milioni 205mila euro con Etihad (Emirati Arabi), proprietaria di Alitalia. I vertici dell'Aeronautica sconsigliarono vivamente l'operazione, perché il prezzo dell'aereo sul mercato era di non più di 70 milioni di euro. Non ci fu ragione che tenesse e per prendere la nuova «ammiraglia dei cieli» furono sacrificati due A-319 assegnati alla Presidenza del Consiglio. Uno fu venduto, l'altro fermato. Ma fu fatto un grande sbaglio, perché quello bloccato aveva doppi serbatoi, ovvero era l'unico in grado di raggiungere senza scali quasi ogni parte del mondo. Renzi, con la scusa che in aereo non riusciva a guardare il meteo per lavoro, si incaponì, raccontano i bene informati e pretese che a bordo dell'A-340 si mettesse il Wi-Fi, per la modica cifra di 3 milioni euro, quando esistevano già apparati radio molto avanzati. Il contratto per la rete internet, però, fu firmato sotto l'amministrazione del ministro della Difesa Elisabetta Trenta. A fine 2017, secondo il documento di cui siamo venuti in possesso, l'Aeronautica informò la Presidenza del Consiglio «che il velivolo, impiegato da equipaggi del 31° Stormo, svolgeva una limitata attività di volo (382 ore aggiornate alla data del 30 novembre) rispetto al perimetro autorizzato e contemplato dal contratto». Si spiegò che l'aereo avrebbe potuto essere utilizzato per portare i militari impegnati in missione all'estero in teatro operativo e che si sarebbe potuto proporre anche all'Eatc (agenzia europea per i voli militari) di fare la stessa cosa a pagamento per i militari delle altre nazioni. Oltretutto ciò avrebbe consentito di usare altri velivoli della Forza armata per altri scopi. Dall'allora premier Paolo Gentiloni non giunse risposta. La cosa fu riproposta nel 2018 al nuovo esecutivo gialloverde. Ma Di Maio e Toninelli preferirono lo show mediatico seguito da un totale abbandono dell'aereo, che è attualmente parcheggiato a Fiumicino, come più volte raccontato dal Giornale, in dismissione e destinato a essere venduto a pezzi. La direzione per gli armamenti aeronautici (Armaereo) negoziò un'uscita, quale eliminazione delle responsabilità contrattuali del governo italiano che a suo tempo aveva sottoscritto l'accordo. Da quanto sappiamo, sono stati sborsati 60 milioni di euro circa dei quasi 170 dovuti, con una penale di 7-8 milioni. Ma che cosa accadrebbe se Etihad decidesse di proporre arbitrato nei confronti dell'Italia nonostante gli accordi? Probabilmente lo vincerebbe, condannandoci a pagare l'intero importo. Cosa certa è che resta l'amaro in bocca per la scelta prima di Renzi e poi dei 5 stelle, vista la dismissione di un aereo perfettamente funzionante e che, in periodo di pandemia, avrebbe consentito al Paese di recuperare praticamente ovunque dispositivi medici, invece portati da compagnie private a costi altissimi.
· Alitalia: pozzo senza fondo.
Da huffingtonpost.it il 15 ottobre 2021. Il marchio Alitalia va a Ita per 90 milioni di euro. Come si legge in una nota si è conclusa, in data odierna, la procedura di offerta pubblica avente per oggetto il marchio Alitalia Spa e il dominio Alitalia.com. Ad aggiudicarsi l’oggetto della procedura competitiva è stata la società ITA Spa ad un valore di 90 mln di euro.
(ANSA il 15 ottobre 2021) È Ita Airways il nuovo nome di Ita. Lo ha annunciato l'a.d. di Ita Fabio Lazzerini durante la conferenza stampa per il decollo della nuova compagnia. "Dovevamo dirlo con un nome preservando la nostra freschezza. Abbiamo un nuovo nome che oggi siamo pronti a far vedere", ha detto, mostrando il nuovo nome Ita Airways. "Da oggi il nome dell'azienda è questo. È un nome che guarda avanti, guarda al futuro", ha aggiunto, precisando che però rimane un po' di passato. "Abbiamo voluto mantenere i colori, verde e rosso sono gli stessi di Alitalia, e l'acquisto del marchio di ieri rispecchia questa logica: non disperdere un valore”.
Estratto dell’articolo di Brunella Giovara per “la Repubblica” il 15 ottobre 2021. E tanti saluti dall’amministratore delegato, e tanti saluti dal presidente. Un debole applauso per ringraziare, poi finalmente si dorme tutti come bambini, a bordo del primo volo targato Ita, l’AZ 1637 decollato oggi da Linate alle 6,20, atterrato persino con qualche minuto di anticipo rispetto alle previsioni. Sette e 35, e si è a Bari. Emozioni, nessuna. “E’ tutto come prima, anche l’aereo!”, e in effetti sulla pista di Milano c’era, l’aereo pubblicizzato con la nuova livrea Ita: “Born in 2021”, già con le luci accese, ma poi il bus ha tirato dritto e si è fermato davanti a un normale aereo Alitalia battezzato Fryderyk Chopin, e qui come sempre si è aspettato che a bordo finissero le pulizie, e infine, saliti e allacciate le cinture, partiti. Intervento del comandante Fabrizio Campolucci: “La giornata di oggi segna l’inizio di Ita, questo è il nostro primo volo e voi siete i nostri primi ospiti. Vi porto i saluti del nostro presidente Alfredo Altavilla e dell’amministratore delegato Fabio Maria Lazzarini, che mi hanno appena telefonato per farvi un in bocca al lupo”. “E adesso ci daranno lo champagne…” (imprenditore di Varese). “Ma non gli hanno neanche cambiato le divise?” (tecnico informatico in trasferta, da Monza). No, le divise sono le stesse, e anche i poggiatesta, e i tovagliolini. Stessa povertà di rinfreschi a disposizione: “Gradisce un succo?”. “Sì, che gusti ha?”. “Pera”. “Oppure?”. “Pera”. “Ok, allora pera”. Passa la hostess: “Qualcuno ha problemi a fare una foto?”. Pare di no, ma poi si decolla e quindi niente foto. Studente Ied che rientra a casa: “Io manco lo sapevo che cambiava la compagnia, ho fatto il biglietto ed eccomi qua. Poi però non riuscivo a fare il check-in perché non trovavo il sito giusto. Ita non mi usciva, poi ho scoperto che era ‘Ita Spa’”. Sei emozionato? “Boh”.
Ita Airways, se c'è nebbia vietato atterrare: la regola (folle) che sgambetta la nuova Alitalia. Tobia De Stefano su Libero Quotidiano il 27 ottobre 2021. Qual è il colmo per una compagnia aerea italiana che fa di Milano uno dei suoi scali principali? Facile: non poter atterrare a Linate quando c'è nebbia. Il problema è che l'assurdo divieto non fa parte degli aneddoti scherzosi con i quali si prova a strappare un sorriso ad amici o parenti nelle riunioni conviviali. Purtroppo no. Si tratta di una norma per le nuove compagnie dettate dall'Icao, l'ente mondiale per l'aviazione civile, con la quale Ita Airways ha dovuto fare i conti suo malgrado. Il gruppo nato dalle ceneri di Alitalia ha inaugurato i suoi voli lo scorso 15 ottobre e una settimana dopo è stato costretto a dirottare otto aerei che si stavano dirigendo verso Linate. Sette hanno fatto tappa a Malpensa e uno a Genova. I poveri piloti, inconsapevoli delle pastoie burocratiche nelle quali erano stati infilati, si sono visti negare il permesso a iniziare le manovre mentre altri vettori facevano tranquillamente scalo. Immaginarsi lo stupore. A terra non c'era nessuna criticità di rilievo, a parte una debole nebbia che avrebbe ridotto la portata visiva al di sotto dei 550 metri valicando però i limiti delle autorizzazioni concesse a Ita. Secondo questi originali regolamenti, validati sia dall'Easa (sicurezza aerea) che dall'Enac (l'ente nazionale per l'aviazione), l'ex Alitalia può effettuare solo operazioni di "Categoria I". Nella sostanza quelle che prevedono l'avvicinamento strumentale di precisione e l'atterraggio con una visibilità generale «non inferiore a 800 metri o portata visiva della pista non inferiore a 550 metri». Il vero problema è che siamo solo ad ottobre e che tra qualche settimana la nebbia in Val Padana da episodio isolato potrebbe trasformarsi in una costante. Insomma, a breve Ita potrebbe essere costretta a rinunciare a buona parte dei suoi viaggi verso Linate che rappresentano circa il 50% delle operazioni giornaliere. E pensare che i piloti della nuova compagnia arrivano quasi tutti dalla vecchia Alitalia ed hanno quindi migliaia di ore di volo alle spalle. E adesso? L'iter di questi strampalati regolamenti prevede che le nuove compagnie viaggino a scartamento ridotto, quindi solo nelle condizioni di visibilità quasi perfette, per circa sei mesi. Per Ita sarebbe un disastro. Proprio per questo l'Enac si sta dando da fare per accelerare il procedimento e consentire a quella che fu la compagnia di bandiera di atterrare a Milano anche se c'è un po' di nebbia. Ci sembra il minimo. Anche perché le grane per l'equipaggio e i dipendenti non sono finite qui. Secondo quanto anticipato dal Sole 24 Ore la vecchia Alitalia vorrebbe «tassare» i suoi ex piloti e gli altri ex lavoratori che sono passati ad Ita. Motivo? Il mancato preavviso delle dimissioni. L'amministrazione straordinaria e i tre commissari fanno sul serio al punto che hanno già inviato una lettera con la richiesta di pagamento di diverse mensilità a 420 piloti, 780 assistenti di volo più altre categorie di terra. Gli importi variano da 17 mila fino a 32 mila euro e vanno versati entro dieci giorni, neanche un'ora di più. Una mazzata. Che si va ad aggiungere al taglio degli stipendi. Nel passaggio da una compagnia all'altra, infatti, sia i piloti che gli altri neo-assunti hanno accettato di ricevere delle buste paga ridotte di circa il 40% rispetto ai loro vecchi salari. Oltre al taglio sia dei riposi mensili che dei giorni di ferie. Una beffa, considerando che chi invece è rimasto nella vecchia società, grazie alla proroga della cassa integrazione, guadagna quanto loro e in alcuni casi anche di più. L'ennesimo paradosso della saga Alitalia.
Sul primo volo Ita il solito succo alla pera: “Ma basta che funzioni”. Brunella Giovara su La Repubblica il 15 ottobre 2021. Il Linate-Bari delle 6,20 dà il via alle attività della compagnia. Le voci dei passeggeri: "È tutto come prima anche l'aereo". E tanti saluti dall'amministratore delegato, e tanti saluti dal presidente. Un debole applauso per ringraziare, poi finalmente si parte e si dorme tutti come bambini, a bordo del primo volo targato Ita. Decollato ieri da Linate alle 6,20, atterrato persino con qualche minuto di anticipo rispetto alle previsioni. Sette e 35, e si è a Bari.
ADDIO ALLO STORICO LOGO ALITALIA SOSTITUITO DA ITA AIRWAYS CHE AVRA’ LA LIVREA AZZURRA E SULLA CODA UNA FASCIA TRICOLORE. Il Corriere del Giorno il 15 Ottobre 2021. Molti si sono chiesti che fine farà lo storico logo Alitalia. E’ stato acquistato della newco che ha sborsato 90 milioni di euro per comprarselo (assieme al sito web alitalia.com) non per utilizzarlo, ma per evitare che venisse acquistato da altre compagnie aeree rivali. Il nuovo sito sarà ita-airways.com. Con un vero e proprio colpo di scena in occasione della conferenza stampa odierna con cui è stata presentata la nuova compagnia aerea italiana di bandiera è stato rilevato quello che sarà il vero nome: la nuova Alitalia nei prossimi mesi si chiamerà Ita Airways. Cambiata anche la colorazione base sulla fusoliera della flotta aerea che sarà azzurra. Per alcune settimane gli aerei voleranno con la precedente livrea classica di Alitalia, ma quando arriveranno i nuovi aeromobili ordinati da Airbus e noleggiati all’estero sulla coda apparirà una fascetta tricolore. “Si chiamerà Ita Airways la compagnia di bandiera”, ha reso noto Fabio Lazzerini il nuovo ad della compagnia aerea di bandiera (proveniente da Emirates) durante la conferenza stampa per il decollo della nuova compagnia. “Dovevamo dirlo con un nome preservando la nostra freschezza. Da oggi il nome dell’azienda è questo. È un nome che guarda avanti, guarda al futuro” ha spiegato. Parlando del vecchio marchio Alitalia ha spiegato che “abbiamo voluto mantenere i colori, verde e rosso sono gli stessi di Alitalia, e l’acquisto del marchio di ieri rispecchia questa logica: non disperdere un valore”. “Questa sarà una compagnia aerea per un Paese che ha una vocazione turistica così forte e un made in Italy famoso in tutto il mondo e con imprese famose in tutto il mondo, è un obbligo avere una compagnia di bandiera“, ha detto Alfredo Altavilla presidente di Ita . “Nella mia testa Ita Airways c’è sempre stata, ma anche il desiderio e la necessità acquistare marchio Alitalia“, ha aggiunto Altavilla. “Un brand che non poteva appartenere a nessun altro che alla nuova compagnia di bandiera del Paese“. La nuova livrea sarà tutta azzurra, con il logo Ita Airways in bianco, ali bianche, tricolore sulla coda. “Vogliamo qualcosa che ci rappresenti con onore nel mondo“, ha spiegato Giovanni Perosino, chief marketing officer di Ita Airways. “Vedete un azzurro, vedete un tricolore, vedete un logo che sarà in oro bianco. Tutto questo sarà tradotto in tutto quello che faremo. Questo aereo ancora non esiste, esisterà a brevissimo, nei prossimi mesi, non appena l’avremo declinato in tutto, negli aerei, nelle divise”. Mantenere per qualche mese il brand Alitalia serve solo a garantire una transizione ordinata. “Gli stipendi ridotti ai dipendenti? Una parte della retribuzione è legata alla redditività dell’impresa e alla soddisfazione dei viaggiatori. Mi riferisco a qualsiasi retribuzione, a partire dalla mia”. Altavilla confida in ogni caso di raggiungere un’intesa con i sindacati, che contestano la mancata applicazione del Contratto nazionale del settore: “Ci sono dei passi in avanti. Confido in un accordo: non so come si chiamerà l’intesa, se Contratto nazionale o integrativo“. Molti si sono chiesti che fine farà lo storico logo Alitalia. E’ stato acquistato della newco che ha sborsato 90 milioni di euro per comprarselo (assieme al sito web alitalia.com) non per utilizzarlo, ma per evitare che venisse acquistato da altre compagnie aeree rivali. Il nuovo sito sarà ita-airways.com. Ita Airways parte con 52 aerei, dimensionata nel modo ottimale, sia in termini di flotta che di gestione. “Non ci portiamo dietro l’eredità negativa di dimensioni troppo grandi — ha spiegato il presidente Altavilla —, che poi necessariamente si scontrano con la sostenibilità economica. Noi non dobbiamo avere nessun sogno di grandezza e l’ambizione di dimostrare nulla a nessuno. Noi dobbiamo dimostrare ai contribuenti italiani, che sono i nostri azionisti, che noi saremo attenti all’uso che facciamo del loro capitale”. Il nuovo presidente esecutivo Alitalia ha sferrato anche una stilettata alle altre compagnie aeree operanti in Italia, rispondendo agli amministratori delegati delle low cost Ryanair e Wizz Air secondo i quali “la start up Ita è destinata a fallire come è successo anche per Alitalia“. La replica molto dura: : “Io faccio volare aerei e persone, loro polli in batteria” esortando i giornalisti presenti ad analizzare i bilanci delle compagnie aeree, in particolare senza considerare la voce degli incentivi e dei sussidi aeroportuali che quasi sempre finiscono nelle tasse delle low cost. Il programma Millemiglia, ormai estinto, verrà sostituito da un nuovo meccanismo, dal nome “Volare“. La compagnia avrà presto una flotta omogenea, fatta solo di Airbus. A breve, il vettore punterà sui voli intercontinentali perché più redditivi. A bordo ci saranno quattro classi diverse: business, premium, comfort ed economica. Ancora l’ amministratore delegato Lazzerini: “Nel 2019, prima ancora della pandemia, gli italiani erano sottoserviti. Non avevano voli sufficienti, penso soprattutto a quelli internazionali. Adesso la nostra compagnia aerea rimedierà a questo vuoto”. La rotta Roma-Milano Linate, che resta importante, verrà coperta in modo diverso rispetto al passato. Spiega Lazzerini: “Una volta c’era 23 aerei che andavano e 23 che tornavano. Forse troppi. Noi guardiamo soprattutto a una clientela business concentrando i voli in alcune fasce funzionali alle esigenze degli uomini di affari“.
La livrea celebrativa di Ita sarà “Born in 2021”. Ultimo volo di Alitalia, l’addio dopo 74 anni: domani parte Ita ma tanti dubbi e poche certezze. Riccardo Annibali su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. La compagnia di bandiera farà il suo ultimo volo dopo 74 anni di storia. Decollerà da Cagliari alle 22.05 e atterrerà all’aeroporto di Roma Fiumicino alle 23:10. Da venerdì 15 ottobre il suo posto sarà preso almeno in parte da Italia Trasporto Aereo (Ita), la nuova società pubblica di proprietà del ministero dell’Economia e delle Finanze la cui costituzione è arrivata dopo una una complessa operazione di ristrutturazione aziendale pensata con l’obiettivo di mettere fine alla crisi in cui Alitalia si trovava da trent’anni. Il volo inaugurale partirà a meno di sette ore dall’ultimo di Alitalia, ovvero alle 6.20 da Milano Linate, diretto a Bari. Il passaggio è però stato molto travagliato. La nuova compagnia avrà meno asset e gestirà meno tratte, e ci sono ancora numerose questioni da risolvere a proposito dei dipendenti di Alitalia e anche dei molti servizi offerti dalla vecchia compagnia. La nascita di Ita è il frutto dell’unione tra il governo italiano e la Commissione Europea che prevede che tra vecchia compagnia e la nuova ci sia una “totale discontinuità economica”. Ita quindi ha dovuto cominciare quasi da zero e ottenere tramite gare pubbliche la gestione dei servizi della vecchia Alitalia, come la manutenzione, il marchio e i servizi a terra, ma significa al tempo stesso che non erediterà i debiti della vecchia azienda. Ancora persistono però molti legami tra le due società. Il primo volo di Ita avrà come codice AZ1637, dove AZ è la sigla che contraddistingue i voli di Alitalia. Il primo volo avrà una livrea celebrativa con la scritta ‘Born in 2021’ (Nati nel 2021), ma è probabile che tutti gli altri aerei avranno la stessa livrea dei vecchi aerei Alitalia, così come anche le divise del personale di terra di volo. I manager di Ita hanno volato molto basso e prevedono una ripresa del mercato solo nella primavera del 2022. In attesa di quella fiammata, al momento porteranno Ita in appena 16 aeroporti italiani (senza Firenze), in 20 tra Europa, Nord Africa e Medio Oriente, in due intercontinentali (New York e Tokyo), con una flotta di 52 velivoli. Ita quindi esordirà con un perimetro d’azione più limitato rispetto a Alitalia sospinta però da una prima ripresa del turismo. Il sito per ora funziona in modalità provvisoria ed è labirintico e macchinoso tanto che alcune agenzie di viaggio non sono neanche riuscite a vendere i biglietti consigliando ai potenziali clienti di Ita di comprarli in aeroporto. Fino all’ultimo momento, Ita ha cercato di comprare il marchio Alitalia dai commissari straordinari della ormai ex compagnia. La trattativa diretta continuerà e i commissari lo hanno proposto a 290 milioni, con il solo risultato di mandare deserte le aste. Ita lo quota 50 milioni confidando sulle difficoltà economiche di Alitalia, dove solo ieri i commissari sono riusciti a pagare ai dipendenti la seconda metà degli stipendi di settembre. In attesa di una schiarita. Ita ha vestito a festa uno solo dei suoi 52 aerei. Tutti gli altri sono in arrivo da Alitalia e ne conservano il marchio sulle carlinghe. Riccardo Annibali
Ettore Livini per "Venerdì - la Repubblica" l'1 ottobre 2021. Volare sì, ma nel blu dipinto di rosso, quello dei conti. I 74 anni di storia di Alitalia sono una sorta di manuale di economia applicata al contrario. Dove tutto quello che poteva non funzionare non ha funzionato. I numeri sono pietre: i bilanci della compagnia di bandiera hanno chiuso in utile solo tre volte in tre quarti di secolo. I contribuenti italiani hanno speso 13 miliardi di euro per provare a tenerla in volo, senza riuscirci. Lo Stato (che l'ha gestita dal 1946 al 2008) non è mai riuscito a farla funzionare. Affidarla alle cure dei privati è servito a poco, visto che anche loro hanno perso 3,3 miliardi di euro in un decennio. Nel 1965 l'aerolinea tricolore era il settimo vettore mondiale e aveva dimensioni superiori a Lufthansa. Oggi i tedeschi sono sette volte più grandi e il numero uno dei cieli italiani è Ryanair (39 milioni di passeggeri contro i 21 di Alitalia). Cosa è successo? Perché la nostra compagnia ha perso miliardi e quote di mercato anche quando i rivali guadagnavano milioni di euro? Questione di scelte sbagliate o mancate. Eccole.
Liberalizzare stanca. Il primo treno perso dall'Alitalia, il più importante, è quello della liberalizzazione del mercato. Fino a fine anni Sessanta, il trasporto aereo era un mosaico di monopoli nazionali. Il nostro vettore controllava l'80 per cento del traffico domestico e il 40 di quello da e per l’estero. E solo le manìe di grandeur dell'Italia degli anni del boom e la gestione un po' parastatale impedivano allora di chiudere i conti in attivo. Il vento però, poco alla volta, ha iniziato a girare: negli anni Settanta gli Stati Uniti hanno aperto alla concorrenza il mercato interno. La Gran Bretagna di Margaret Thatcher ha seguito a ruota privatizzando British Airways, l'Europa ha lanciato un programma per la liberalizzazione completa entro il 1997. E le regole di ingaggio dei cieli globali sono cambiate: la concorrenza ha fatto crollare costi dei biglietti e guadagni con i fallimenti di grandi nomi come Pan Am e Twa. Gran parte delle aerolinee si sono adeguate a questa nuova realtà investendo per crescere, cercando capitali sul mercato e alleandosi tra di loro. Alitalia no. Il controllo statale era un dogma. Le alleanze erano tabù. E tra il 1970 e il 1990 la nostra compagnia è cresciuta a un terzo del ritmo dei rivali continentali.
Meglio il divorzio. Il tempo per recuperare parte del terreno perduto c'era però ancora. Il governo Prodi nel 1996 colloca in Borsa il 37 per cento della compagnia e ne affida la cloche come ad a Domenico Cempella. Il mercato tirava ancora, il neo manager riporta sotto controllo i costi e per tre anni consecutivi l'azienda riesce a chiudere i conti in attivo, aprendo un tavolo per la fusione con gli olandesi di Klm e inaugurando un hub nel ricco mercato del Nord a Malpensa, previa chiusura di Linate. La strada, con il senno di poi, l'hanno ammesso tutti, era quella giusta. Le scelte sembravano vincenti. Peccato non ne sia andata in porto nessuna. La politica e le lobby interne all'azienda hanno faticato a digerire la spartizione di potere con Amsterdam. Linate non ha chiuso. Fiumicino ha remato contro il lancio di Malpensa. E nel 2020 gli olandesi, esasperati, hanno chiesto il divorzio accettando di pagare 150 milioni di euro pur di tornare single, uscire dal pantano italiano e accasarsi felicemente con Air France.
Silvio inizia a volare. Alitalia, a quel punto, doveva ripartire da zero. Era troppo grande e strutturata per competere con le low-cost e troppo piccola per la sfida del lungo raggio. Né carne né pesce. E ha provato a rimediare agganciandosi a una delle grandi alleanze tra vettori nate in quegli anni. Facendo l'ennesima scelta sbagliata: a luglio 2001 è entrata in SkyTeam, l'asse con Delta, Air France e Klm. Ma essendo l'ultima arrivata, ha accettato di perdere 1,5 miliardi di euro di voli intercontinentali dall'Italia (tagliando i servizi) per veicolare il traffico a lungo raggio verso Parigi e Amsterdam. Rinunciando a parte delle tratte più redditizie. L'11 settembre di quell'anno, con l'attentato alle Torri Gemelle, il trasporto aereo mondiale è andato sotto choc. Le compagnie aeree mondiali hanno perso soldi per cinque anni di fila. Chi aveva le spalle forti poteva permettersi di curare le ferite con il fieno messo in cascina negli anni di vacche grasse. Alitalia no. I conti sono sempre stati in rosso, Ryanair e Easyjet stavano rubandole il mercato interno, abbassando le tariffe a livelli che lei non poteva permettersi. E il nuovo governo Prodi nel 2007 ha raggiunto un accordo per cedere la compagnia ad Air France, un modo per passare l'onere di risanarla - spese comprese - ai transalpini. Fine dell'incubo? No. Di mezzo, questa volta, si è messo per motivi politici Silvio Berlusconi. In calendario c'erano le elezioni. Il Cavaliere ha lanciato lo slogan "Io amo l'Italia, io volo Alitalia", tuonando contro la cessione agli stranieri. E una volta uscito vincitore dalle urne ha dato il benservito a Parigi affidando la compagnia (nel frattempo finita in amministrazione straordinaria dopo il crac Lehman) al Progetto Fenice, una cordata di imprenditori - spesso in affari con lo Stato su altri fronti - inesperti di aeronautica e coordinati da Banca Intesa.
Capitani coraggiosi. L'obiettivo era far rinascere la società molto più piccola di prima (poco più di 3 miliardi di fatturato contro i 6 del 2000) con un nuovo piano industriale. Unico problema: il piano era sbagliato. Si concentrava sui tagli di costi del personale che non erano poi molto diversi da quelli dei rivali e dimenticava le rotte intercontinentali per concentrarsi sul medio e breve raggio dove le compagnie a basso costo dettavano ormai legge. E scommetteva sulla Roma-Milano, all'epoca la rotta più redditizia d'Europa, proprio alla vigilia del boom dei Frecciarossa. Risultato: dopo cinque anni di perdite i "capitani coraggiosi" hanno passato il cerino (alias il 49 per cento del capitale) agli emiri di Etihad. Ma le strategie non sono cambiate. Tra il 2009 e il 2018, un decennio in cui le aerolinee mondiali hanno guadagnato 196 miliardi di dollari, Alitalia ha perso un milione al giorno. E alla fine è tornata in amministrazione straordinaria. Con due paradossi: il primo è che nei nove anni di gestione privata lo Stato ha dovuto sborsare tra ammortizzatori sociali e prestiti ponte mai rimborsati, 5 miliardi di aiuti. Il secondo è che la crisi della compagnia non ha minimamente frenato la crescita del trasporto aereo nel nostro Paese. Nel 2019 (ultimo anno a pieno regime per il traffico nei cieli) i passeggeri passati negli aeroporti tricolori sono stati 191 milioni, quasi il 50 per cento in più del 2008.I viaggiatori, insomma, sono di più. Ma non salgono a bordo di aerei Alitalia: la ex compagnia di bandiera garantisce solo il 7,7 per cento del traffico internazionale da e per il nostro Paese. Anche sui voli interni, ormai, è stata superata da Ryanair. Ora il testimone (pare) passerà a Ita, puntellata da altri 1,4 miliardi di soldi pubblici. Ma senza idee chiare, piani giusti e alleati all'altezza della sfida, il rischio che l'eterna telenovela di Alitalia si ripeta uguale a se stessa come in un infinito giorno della marmotta è molto alto.
Sergio Rizzo per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 6 settembre 2021. Quando nel 2008 franò la prospettiva di cedere Alitalia al gruppo Air France-Klm, il ministro dell'Economia Padoa Schioppa confessò di essersi sentito come l'autista di un'ambulanza che trasportava un malato grave nell'unico ospedale disposto ad accettarlo. Ambulanza alla quale qualcuno aveva bucato le ruote: Silvio Berlusconi con la complicità dei sindacati. E quella era davvero l'ultima spiaggia. Mai come adesso, 13 anni dopo, di fronte al terzo surreale tentativo di accanimento terapeutico sul defunto tenuto artificialmente in vita, quell'episodio va ricordato per spiegare come in questo Paese certa politica non abbia mai voluto fare i conti con la realtà. Peccato che poi ne facciano le spese i contribuenti. Ne sono testimonianza i 10 miliardi (cifra calcolata forse per difetto) che le Alitalia ci sono costate finora. Collezionando record inarrivabili di spreco. È appena il caso di citare che oggi, caso unico, esistono ben due Alitalia in amministrazione straordinaria con annessi e connessi. Per non parlare di taluni trattamenti principeschi concessi a piloti e altri dipendenti rimasti senza lavoro grazie a uno speciale fondo integrativo della cassa integrazione gestito dall'Inps: ancora nel 2017 ne usufruivano ben 6.845 persone, di cui 280 con prestazioni comprese fra 5 e 10 mila euro mensili, 138 fra 10 e 20 mila euro e addirittura 56 con assegni che superavano i 20 mila euro al mese. E adesso si riparte daccapo, con una compagnia nuova di zecca, un nuovo cda, un nuovo piano industriale e altri (tanti) soldi. Tre miliardi sono stati stanziati. Mentre la giostra delle amministrazioni straordinarie, dei commissari, dei consulenti, delle cause legali e relative parcelle dei legali, del passaggio di beni e attività da una mano all'altra, continua imperterrita a girare. Eppure si ricomincia, rimettendo le lancette dell'orologio indietro di 13 anni, quando la compagnia di bandiera era di proprietà dello Stato. Con la differenza che questa volta si ricomincia con un terzo degli aerei, una cinquantina appena, e la prospettiva di arrivare a 105 nel 2025, cioè due terzi di quanti ce n'erano nel 2008. Non è necessario essere espertissimi di trasporto aereo per capire che già qui c'è qualcosa che non va. Basta dare un'occhiata ai numeri. Il gruppo Lufthansa di aerei ne ha più di 600, Air France-Klm e Iag (British airways più Iberia e Air Lingus) circa 550 ciascuna, Ryanair più di 300, Easyjet oltre 250. Per trovare un vettore internazionale con una cinquantina di velivoli bisogna scendere fino ad Air Europa, terza compagnia spagnola. Tanto da chiedersi che senso ha tutto questo. Mettere il turbo al turismo, come non si stancano di sostenere i fautori di questa nuova insensata avventura, ripetendo il concetto con cui Berlusconi nella campagna elettorale del 2008 bloccò la vendita di Alitalia ai francesi? Come se i turisti stranieri non venissero in Italia perché non c'è una compagnia di bandiera con il tricolore sulla coda che ce li porta. Nel 2018 il traffico aereo da e per l'Italia ha toccato i 100 milioni di persone, con l'Alitalia che ne ha trasportate meno del 10 per cento (9,8 milioni). E allora aveva circa 120 aerei. Per fare un paragone, la sola Ryanair ha trasportato il triplo dei passeggeri: prova che nemmeno questa banale argomentazione turistica sta in piedi. «Non stiamo organizzando un'azienda mini. Ma stiamo organizzando un'azienda che parte necessariamente allineata con la capacità che ha il mercato di assorbire la domanda e dall'altra con una prospettiva di competitività e di crescita», diceva appena quattro mesi fa alla Camera l'allora presidente della nuova compagnia, Francesco Caio, nominato dal governo Conte un anno prima e ora già uscito di scena per andare alla guida di Saipem. Lo stesso Caio che quando era amministratore delegato delle Poste e quindi azionista di Alitalia si diceva «incoraggiato» dal lavoro che stava svolgendo Etihad: lavoro che ben presto avrebbe rivelato effetti catastrofici. La sensazione netta è che le motivazioni alla base della decisione di creare Ita (per inciso devono anche aver studiato a lungo, nonché pagato qualcuno, per partorire una sigla così innovativa) siano ben distanti dalla realtà della competitività e della crescita promesse allora. Comunque misteriose, e in ogni caso oggi nemmeno giustificabili, per il costo che comporta, dall'esiguità del bacino elettorale che un tempo Alitalia rappresentava. Ma ancora più netta è la sensazione che a fronte di un piano industriale giudicato da molti discutibile, soprattutto l'orizzonte sia avvolto da una nebbia nella quale la politica avanza a tentoni. Qualche giorno fa il ministro dello Sviluppo economico Giorgetti ha di nuovo tirato fuori la vecchia storia ferroviaria, ipotizzando una qualche integrazione fra la minuscola compagnia aerea pubblica e le Fs. Progetto già messo in campo dal primo governo Conte e poi tristemente accantonato per palese impraticabilità. Una suggestione, peraltro, che risale nientemeno che all'inizio degli anni 90, quando si cercava una soluzione per l'Alitalia, già all'epoca in crisi profonda al punto da non riuscire a chiudere in trent' anni un solo bilancio in utile.
Comandanti, hostess e colletti bianchi, la carica dei 30 mila per un posto in Ita. Lucio Cillis su L'Espresso il 4 settembre 2021. Le domande arrivate sono dieci volte più dei ruoli disponibili. Tanti piloti da Alitalia, ma anche avvocati in cerca di un futuro. La carica dei 30 mila è a un passo dal traguardo, fissato per lunedì. L'asticella delle domande di assunzione in Ita - la compagnia di bandiera che da metà ottobre prenderà il posto di Alitalia - ieri sera alle 19 ha sfiorato quota venticinquemila, ma per le prossime ore è prevista un'accelerazione che potrebbe portare appunto a circa 30 mila candidature, ossia più di dieci domande per ognuno dei 2.800 posti disponibili. Dopodomani il sito allestito per accoglierle chiuderà e nelle ore successive il presidente di Ita Alfredo Altavilla potrebbe annunciare la chiusura dell'operazione e il via ufficiale alla società che fa capo al ministero dell'Economia. Quello di Ita sarà un popolo con storie differenti e con impieghi diversi. Le operazioni di volo saranno gestite da 2.800 persone per 52 aerei, rispetto alle 10.500 che invece timbravano il cartellino in Alitalia, anche se i servizi (e il personale) di carico e scarico bagagli, la manutenzione, saranno ceduti e affidati a società esterne. Dei nuovi dipendenti di Ita, circa 1.600 appartengono alla categoria "volo" in senso stretto e cioè comandanti e primi ufficiali, assistenti di volo e così via. Mentre altri 1.200 - un bel numero visto che nella Alitalia vecchia maniera ne venivano occupati 1.400, ma con una flotta doppia - saranno dipendenti operativi di terra: qui c'è di tutto; si va dal tecnico che opera sotto la pancia dell'aereo fino al responsabile comunicazione o all'avvocato dell'ufficio legale. Nel dettaglio la metà delle 2.400 candidature per posti di pilota registrate finora dal sito Ita arrivano da ex dipendenti Alitalia. Così come il 30%, cioè duemila, delle 6.900 domande per assistente di volo. E circa il 13% (oltre 2.000) su 15.500 curricula relativi ad operazioni e staff sono stati inviati da lavoratori della vecchia compagnia. Al di là dei reduci di Alitalia, gli altri aspiranti piloti sono professionisti che hanno lavorato in Air Italy, Meridiana, Blue Panorama o che si giocano la carta Ita dopo aver provato quella delle low cost. La corsa per chi aspira al ruolo più ambito, la guida di un aereo, si preannuncia però piena di ostacoli, considerato che si parla di circa 600 assunzioni. Per molti piloti il sogno rischia di infrangersi sull'esperienza accumulata nella propria vita professionale e su un paletto difficilmente aggirabile e cioè, molto banalmente, l'aereo da pilotare. I brevetti, infatti, coprono una tipologia ristretta di velivoli: chi oggi comanda un Airbus A330 con molta probabilità avrà un posto in Ita. Mentre chi ha in tasca la "licenza" per pilotare un Boeing 777 (Alitalia ne ha diversi in flotta) potrebbe trovare la porta chiusa se la scelta della nuova compagnia di bandiera dovesse - come sembra - indirizzarsi verso il marchio di aerei franco-tedesco e non sul costruttore americano. Il passaggio è possibile solo al costo di molte ore di simulatore, che costano un occhio. Oltre al personale di volo Ita dovrà riempire molte altre caselle: avvocati o dirigenti e tecnici disposti a rischiare il futuro. Vero che si tratta di una nuova linea aerea e si parte da zero, ma è altrettanto vero che alcuni degli ingranaggi arrugginiti che hanno fatto saltare negli anni i conti di Alitalia verranno utilizzati anche qui. Ad esempio il ricorso a quei 1.200 stipendi per il personale operativo non di cabina: in alcune compagnie low cost europee questi lavoratori sono in media quattrocento con flotte da 300 o 400 aerei. Un lavoratore circa per aeromobile, contro i 23 per ciascuna macchina previsti da Ita. Ultimo nodo quello dei contratti e degli stipendi: Altavilla ha in mente un piano di decollo rapido e probabilmente doloroso, con salari tagliati fino al 20% rispetto ad Alitalia (ma con premi di risultato previsti dal secondo anno), almeno nella fase iniziale.
Dagospia l'1 settembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: “In merito a quanto recentemente pubblicato da alcuni organi di stampa e ripreso dal sito Dagospia, si precisa che con riferimento al procedimento penale dinanzi al Tribunale di Civitavecchia avviato a seguito della dichiarazione di insolvenza di Alitalia CAI s.p.a. il giudice per per le indagini preliminari ha disposto l’archiviazione della posizione di Roberto Colaninno, all’epoca consigliere non esecutivo della società , per tutti i capi di imputazione ad eccezione di uno, relativo al trattamento contabile dei proventi della vendita degli slot di Heathrow per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio che verrà discusso in una prossima udienza”. Image Building (ufficio stampa del presidente Roberto Colaninno).
Daniele Martini per “Domani” l'1 settembre 2021. Per il pubblico ministero si sarebbe dovuto archiviare mettendoci una pietra sopra. Il giudice per le indagini preliminari (Gip) del tribunale di Civitavecchia, Giuseppe Coniglio, è stato di parere completamente diverso e ha disposto l’imputazione coatta di sette tra amministratori e dirigenti di Alitalia ai tempi in cui era diventata araba, cioè era finita sotto la guida di Etihad, la compagnia di proprietà dell’emiro di Abu Dhabi. Il procedimento giudiziario prosegue nei confronti dei sette manager sulla base di reati contestati gravi: bancarotta fraudolenta e falso in bilancio. Entro dieci giorni il pubblico ministero ha l’obbligo di comunicare l’imputazione ai soggetti interessati, dopo ci sarà per tutti un’udienza preliminare. A quel punto il procedimento potrebbe essere unificato con l’altro già in corso sullo stesso argomento e nel quale sono coinvolti altri personaggi di spicco, dal presidente Alitalia del tempo, Luca Cordero di Montezemolo, al vicepresidente James Hogan, un manager australiano che godeva la fiducia dell’emiro. Sia i protagonisti dell’uno sia dell’altro troncone giudiziario cooperarono per condurre Alitalia a un esito disastroso: il fallimento a cui seguì l’ingresso di commissari per l’amministrazione straordinaria che senza aver mai brillato dovrebbero lasciare il posto a Ita dal 15 ottobre. Nella speranza che anche Ita non si infili nel solco delle perdite a ripetizione che si susseguono ormai da 20 anni. L’operazione Alitalia araba fu voluta con determinazione dal presidente del Consiglio di allora, Matteo Renzi, partì ufficialmente all’inizio del 2015 e durò appena due anni e mezzo lasciandosi dietro un’infinità di polemiche e di iniziative giudiziarie. In quel periodo Etihad, pur non potendo superare il 49 per cento del capitale in omaggio alle normative europee, di fatto era diventata l’azienda che a Fiumicino faceva e disfaceva. In un primo momento i magistrati di Civitavecchia avevano deciso di far uscire dall’inchiesta nove personaggi, il Gip ora ne recupera sette. Ecco i loro nomi: James Rigney, Giovanni Bisignani, Corrado Gatti, Claudio Di Cicco, Silvano Cassano, Roberto Colaninno e Alessandro Cortesi. Colaninno è uno degli imprenditori italiani più in vista, presidente della Piaggio, scelto nel 2008 dall’allora capo del governo, Silvio Berlusconi, per guidare una cordata di una ventina di imprenditori, i «patrioti», che avrebbero dovuto per l’ennesima volta rilanciare Alitalia. Ai tempi dell’ingresso in partita di Etihad l’esperimento berlusconiano era già ampiamente naufragato e Colaninno era uno dei pochi di quella variegata compagine rimasti in pista. Rigney era l’amministratore della compagnia araba, Bisignani consigliere di amministrazione Alitalia dopo essere stato amministratore delegato una trentina d’anni prima, Cassano amministratore delegato da novembre 2014 a settembre 2015, Di Cicco vice presidente del settore finanziario, Corrado Gatti e Alessandro Cortesi del collegio sindacale. Anche dopo l’intervento del Gip rimangono fuori due personaggi eccellenti: Enrico Laghi e Jean Pierre Mustier, i quali avevano partecipato in maniera molto diversa e con responsabilità assai differenti all’avventura di Alitalia araba. Mustier era l’amministratore delegato di Unicredit, una delle banche più esposte per i finanziamenti elargiti alla traballante compagnia di Fiumicino. Laghi, invece, era molto più dentro la gestione dell’azienda essendo il rappresentante legale di Midco, la società che deteneva il 51 per cento del capitale Alitalia e nello stesso tempo anche consulente della stessa azienda. Laghi ha poi ricoperto un ruolo decisivo anche dopo la parentesi Etihad diventando commissario straordinario con il compito di valutare l’operato della precedente gestione di cui lui stesso era stato uno dei portabandiera, senza che nessuno abbia mai censurato l’evidente conflitto di interessi che lo riguardava. Nei confronti dell’archiviazione della posizione di Laghi potrebbe di nuovo fare opposizione Alitalia in amministrazione straordinaria, così come la fece a dicembre di un anno fa con un atto di opposizione che oltre a lui riguardava altri otto manager. Con quell’atto i magistrati di Civitavecchia venivano invitati a effettuare indagini suppletive «tese ad accertare i rapporti personali così come ricavabili ex aliis da mail, frequentazioni, attività professionali e incarichi ricoperti all’epoca dei fatti e anche in precedenza esistenti tra amministratori operativi e non operativi, sindaci e consulenti». Il Giudice per le indagini preliminari di Civitavecchia ha deciso di ripescare nel procedimento giudiziario i sette esclusi basandosi soprattutto su una consulenza tecnica condotta dai periti Stefano Martinazzo e Ignazio Arcuri, definita dallo stesso Gip «completa, esaustiva e ben motivata nei passaggi tecnici e logici». Tra i vari episodi esaminati dal Gip per arrivare all’imputazione coatta c’è anche quello della vendita degli slot dell’aeroporto di Heathrow da Alitalia a Etihad e poi ripresi in affitto dalla stessa Alitalia. Scrive il giudice Coniglio: «Le poste di reddito inesistenti iscritte a bilancio per un importo pari a 39 milioni di euro, generate da una pretestuosa valutazione degli slot al primo gennaio 2015, ha consentito, infatti il progressivo aumento dell'esposizione debitoria. Il Consiglio di amministrazione aveva avuto contezza della illecita iscrizione nella relazione finanziaria annuale e nella relazione semestrale di Alitalia».
Gabriele De Stefani per “la Stampa” il 13 febbraio 2021. Un miliardo e 300 milioni di prestiti tra il 2017 e il 2019, 350 milioni di ristori Covid, tre miliardi per capitalizzare la newco Ita, qualche centinaio di milioni per la cassa integrazione. Totale: più di 5 miliardi in tre anni e mezzo per salvare Alitalia e la sostanza è che, ad oggi, non si riesce a pagare gli stipendi della vecchia compagnia e la nuova nemmeno ha le licenze per volare. E intanto ogni mese vanno in fumo 50 milioni di euro. «La commissione non è incline a nuovi aiuti» filtra da Bruxelles e, anzi, dei 77 milioni attesi dal decreto Ristori non ne saranno sbloccati più di 55. Alitalia e Ita, a caccia di un' alternativa, provano a dare una lucidata a una vecchia idea da giocarsi a Bruxelles: lo spezzatino degli asset, vendendo progressivamente - e senza gara ad hoc - aerei e slot necessari a far partire i primi voli targati Ita, in attesa di tempi migliori. I margini però sono stretti: servirà quanto meno un grande lavoro diplomatico per convincere la commissaria alla Concorrenza Margreth Vestager che si tratta di una soluzione di mercato. Giuseppe Leogrande, commissario di Alitalia, è al lavoro per scrivere il bando di gara per mettere all' asta aerei, slot e servizi della compagnia. Servono soldi in fretta, perché le casse sono vuote e vanno pagati 10.500 stipendi. Alitalia attende 77 milioni di ristori, ma Bruxelles fa sapere che «gli indennizzi dovranno essere commisurati alle perdite effettivamente subite». Dagli uffici filtrano cifre al ribasso: sforbiciata da 77 a 55 milioni, 20 milioni per novembre e circa 35 per dicembre. Nel frattempo, con gli aerei svuotati dalla pandemia, i ricavi non saliranno a breve. Il nuovo governo deciderà per altri aiuti? L'Ue lascia pochi margini, anche se i sindacati lamentano una maggiore generosità riservata alle compagnie di bandiere straniere (che però hanno altre dimensioni). Sul fronte di Ita, l'ad Fabio Lazzerini sta rivedendo il piano industriale sulla base dell' andamento del mercato e dei tempi allungati (se tutto va bene si partirà a luglio inoltrato). Bruxelles ha una sola domanda, circostanziata e dirimente: dove sta la discontinuità con Alitalia se si punta a rilevarne hub, aerei, tratte e dipendenti? Nel dialogo con la Commissione, Lazzerini fa leva su tre punti: la modernizzazione della flotta, la scelta delle sole rotte profittevoli, la svolta strategica del ribilanciamento tra corto e lungo raggio. Di certo, Ita deve fare presto: troppo importante essere pronti nel momento in cui la pandemia allenterà la morsa e il mercato si riattiverà. Già ora ci sono compagnie, come Easyjet, che hanno prenotazioni per l' estate triplicate rispetto al 2020. L'idea del compromesso Fin qui il governo aveva frenato Leogrande sull' asta per gli asset Alitalia. Nella speranza di poter andare a trattativa privata con Ita ma, anche qui, Bruxelles ha già fatto intendere che non se ne parla, dopo gli altolà di compagnie concorrenti come Ryanair. Ita potrebbe cercare alternative sul mercato? Qui pesano le ragioni politiche, e non certo di mercato, che rendono inverosimile che una società controllata al 100% dal Tesoro guardi in direzione diversa dal trasferire ossigeno ad Alitalia. E allora, per provare ad accelerare e dare respiro alla vecchia compagnia di bandiera, le due società e la politica pensano ad uno spezzatino-ponte: offerta di Ita per aerei, personale e slot per le sole rotte già operative. In poche settimane Alitalia inizierebbe a riempire le casse e a tagliare costi, Ita a volare e ad assumere. Passerebbero di mano tutti asset già andati all' asta (deserta) un anno fa e proprio l'insuccesso del bando del marzo 2020 potrebbe essere l' argomento su cui fare leva nel negoziato con l'Ue. Il rischio che la Commissione lo consideri solo un espediente per aggirare gli ostacoli, però, è concreto. E senza l' ok di Bruxelles l' eterno gioca dell' oca non può che ripartire dalla casella iniziale: due compagnie paralizzate, una senza i soldi per gli stipendi e l' altra con 3 miliardi accessibili, ma le mani legate. "Troppe pressioni" «Se non spiegheranno in maniera convincente come pensano di rendere le rotte profittevoli e dove sia la discontinuità, l' ok dell' Ue non lo avranno mai» è il parere secco di Andrea Giuricin, economista dell' università Milano Bicocca esperto di trasporto aereo. Che spiega: «È evidente che è in corso una trattativa che comprende anche i prestiti ponte. Draghi si trova tra le mani la solita patata bollente dei predecessori. Mi aspetto che lavori nel solco indicato da Bruxelles, con una procedura di mercato e una vera gara internazionale per gli asset: ma non sarà facile, le pressioni politiche saranno fortissime».
· Giù le mani dalle auto blu.
Francesco Bisozzi per ilmessaggero.it il 21 maggio 2021. Si sbloccano i controlli sulle auto blu, rimasti fermi per Covid e insabbiati dai Cinquestelle. Perlustrati, da febbraio a oggi, sette garage dello Stato su dieci. Individuate 2.371 auto blu di cui si era perso traccia, 707 a uso esclusivo con autista e il restante a uso non esclusivo. Ammontano invece in tutto a 25 mila le auto di Stato rilevate con la nuova tornata di controlli, di cui quasi 20 mila sono di proprietà delle amministrazioni e 5 mila a noleggio. Nei cortili delle amministrazioni dello Stato (ministeri, Palazzo Chigi e non solo) le auto blu sono più di 700, circa 600 nei Comuni e nelle città metropolitane, poco più di 300 nelle Regioni. «Nel 2010 ho avviato il primo monitoraggio per garantire la massima trasparenza delle amministrazioni pubbliche. Allora eravamo al primo posto nel mondo per auto blu, con 10 mila auto blu per milione di abitanti», spiega il ministro della Pa Renato Brunetta. Palazzo Vidoni punta a recuperare il tempo perso dalla precedente ministra Cinquestelle Fabiana Dadone, che sulle auto blu aveva chiuso più di un occhio nonostante anni di narrazione anti-casta a trazione M5S. Complice la pandemia, con la Dadone alla Funzione pubblica i controlli avevano fatto breccia in un’amministrazione su dieci e così alla fine il monitoraggio sulle auto blu, che per legge deve avere una cadenza annuale (è obbligatorio dal 2014), era stato seppellito. Nel 2018, anno al quale si riferiscono i dati dell’ultima rilevazione resa pubblica, erano i tempi del Conte 1, le auto blu conteggiate erano state più di 3.300, per un totale di 33.527 veicoli censiti nei garage pubblici, ma il tasso di risposta delle amministrazioni pubbliche al monitoraggio era risultato pari all’80 per cento, mentre questa volta l’asticella si è fermata più in basso, al 70 per cento. Risultato? Fin qui emerge che il parco auto della Pubblica amministrazione si è ridotto nel suo complesso del 23,4 per cento rispetto al 2018 e del 12,1 per cento rispetto al 2017, quando le vetture di servizio emerse erano state 29.195 e il tasso di risposta era stato del 67 per cento circa. Ma è ancora presto per parlare di un calo delle supercar. Per avere un quadro più completo bisognerà aspettare il 30 giugno, termine entro cui le amministrazioni sono tenute a comunicare i dati relativi alle autovetture di cui disponevano (a qualunque titolo) al 31 dicembre 2020. Il censimento aggiornato al 31 dicembre del 2019 evidenzia nel frattempo che le auto blu nelle università pubbliche sono 65, negli enti pubblici nazionali 71, nelle province 89. Nelle agenzie fiscali arrivano a 24, bene le Authority dove sono soltanto sette. Nei Comuni, che possiedono da soli oltre 11 mila mezzi, ossia poco meno della metà del totale dei mezzi a disposizione della Pa, le auto blu a uso esclusivo con autista sono quasi 300 e altrettante quelle a uso non esclusivo. Nella Sanità, infine, si contano 162 veicoli a uso esclusivo con autista e 217 con autista ma a uso non esclusivo. Più nel dettaglio, hanno risposto alla nuova indagine il 100 per cento delle amministrazioni dello Stato e delle agenzie fiscali, il 93 per cento delle città metropolitane, l’86 per cento delle province, l’85 per cento dei Comuni capoluogo e il 71 per cento degli altri Comuni. Male Regioni e Province autonome, con un tasso di risposta inferiore al 70 per cento. Le amministrazioni rispondenti sono state in tutto 7.074 sulle circa diecimila interessate dal monitoraggio. Previste sanzioni per gli enti che dribblano i controlli: vanno incontro al dimezzamento delle risorse per l’acquisto, il noleggio e la manutenzione di autovetture.
Francesco Bisozzi per “il Messaggero” il 13 febbraio 2021. Giù le mani dalle auto blu. Le amministrazioni pubbliche hanno preso la pandemia al balzo e per la prima volta non hanno comunicato il numero delle vetture in loro possesso, blu e non solo. Risultato? Il censimento annuale delle supercar, di cui è responsabile il ministero della Funzione pubblica, a gennaio è stato definitivamente insabbiato. «Troppo bassa la percentuale di adesione degli enti pubblici all' indagine, crollata ai minimi storici, perciò i dati raccolti non sono rappresentativi», spiegano da Palazzo Vidoni non senza una punta di imbarazzo. Le berline di Stato sono uno dei simboli della casta contro cui i Cinquestelle si sono scagliati fin dal loro ingresso in politica. Fa ancora più specie, perciò, che abbiano smesso di contarle (e di ridurle) una volta al governo.
I DATI. Gli ultimi dati certi sul parco auto dello Stato risalgono al 31 dicembre 2018 e sono contenuti nel report pubblicato a maggio 2019 dall' allora ministra della Pa Giulia Bongiorno. Allora aderirono al censimento l' 80% delle amministrazioni pubbliche, vennero conteggiate 33 mila vetture, tra cui 3 mila auto blu. Quelle effettivamente in circolazione sarebbero però circa il 20 per cento in più secondo le stime dei tecnici di Palazzo Vidoni: le auto pubbliche senza autista potrebbero essere persino più di 36 mila, contro le 31 mila censite nel 2018, mentre le blu ammonterebbero nel complesso a circa 4 mila (alla fine del 2018 invece ne sono state conteggiate 3.366). La fuga delle amministrazioni pubbliche dal censimento si è consumata in piena emergenza sanitaria: quando gli sguardi erano tutti rivolti alla curva dei contagi, nei garage dello Stato è stata spenta la luce. A non aver comunicato i dati sarebbero stati soprattutto gli enti locali, i Comuni in primis, che possiedono a vario titolo almeno 16 mila mezzi, la metà dell' intera flotta dello Stato. Nei garage di Regioni, Province e città metropolitane ne sono parcheggiate 3 mila, stando ai dati dell' ultimo censimento. Nei cortili dei ministeri e della presidenza del Consiglio, sempre nel 2018, sono stati censiti 166 mezzi, di cui 70 supercar: il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con 96 mezzi a disposizione, di cui 10 a uso esclusivo con autista e 7 a uso non esclusivo con autista, figurava allora in testa alla classifica delle amministrazioni dello Stato con più vetture, blu e grigie. Scorrendo con lo sguardo i dati dell' ultimo censimento disponibile balzano poi agli occhi le 133 auto del Comune di Roma, di cui 131 con autista, sei volte di più rispetto a quelle del Comune di Milano, che sempre nel 2018 si era fermato a 22 mezzi di cui 17 blu. Impossibile non notare poi le 119 auto a disposizione della Regione Abruzzo (ma quelle con autista sono 8), le 84 della Regione Sardegna (ben 55 in questo caso quelle di lusso con autista incluso), le 59 auto blu della Campania e le 58 della Calabria. Infine emergono dalla lista una serie di piccoli e a volte piccolissimi Comuni con i garage pieni fino all' orlo. Per esempio: il Comune di Zoppola, in provincia di Pordenone, con meno di diecimila abitanti, famoso per le sue distillerie ma anche per le sue auto blu, 6 secondo il censimento pubblicato nel 2019. Dal 2014 le amministrazioni pubbliche hanno l' obbligo di comunicare i dati delle auto di servizio utilizzate per consentire alla Funzione pubblica di avere un quadro completo della situazione. I termini per partecipare al monitoraggio delle vetture usate dalle amministrazioni fino al 31 dicembre 2019 sono stati prorogati due volte lo scorso anno per effetto dell' emergenza, prima al 30 settembre e poi al 23 novembre. Nonostante il più tempo concesso la maggior parte degli enti non ha risposto però all' appello: nel 2018 la percentuale di adesione era stata dell' 82% contro il 67% dell' anno precedente, mentre questa volta sarebbe precipitata sotto la soglia del 50%. Il prossimo inquilino di Palazzo Vidoni dovrà far ripartire il conteggio da zero per capire di quante vetture dispone effettivamente lo Stato oggi e assicurarsi che le sanzioni nei confronti degli enti che hanno fatto scena muta vengano applicate. La norma prevede in questi casi la riduzione della capacità di spesa destinata all' acquisto di auto e buoni taxi.
· Le Missioni dei Politici.
Il dossier sulle spese di Minenna: spunta un esposto. Stefano Iannaccone il 30 Settembre 2021 su Il Giornale.
L'operato direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli è stato oggetto di un esposto alla Procura di Roma: il suo ex vice, Alessandro Canali, denuncia una gestione poco chiara. Soprattutto con il braccio destro Patrizia Bosco. Dalla photo opportunity con Beppe Grillo all’attacco per la gestione dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli. Per l’economista vicino al Movimento 5 Stelle, Marcello Minenna, sono settimane movimentate. Sotto osservazione ci sono viaggi in business class sui treni e pernottamenti in hotel con camera suite, insieme a una sua stretta collaboratrice, Patrizia Bosco. Con immancabile autista al seguito. Da Lampedusa, in pieno agosto, a Venezia, durante il Festival del Cinema, tutto messo sul conto dell’ufficio di quello che era il suo vice. E che, proprio per questo, ha chiesto qualche spiegazione, senza ricevere risposta. Anzi, secondo la versione fornita dall’ex numero due dell’Agenzia, dopo poche ore è stato salutato: il suo ufficio è stato soppresso, lui è rimasto appiedato. “Solo una riorganizzazione”, è la posizione ufficiale dell’Agenzia. Nessuna misura mirata. Tutto lecito, fino a prova contraria, perché spetterà al Tribunale di Roma fare chiarezza sui fatti denunciati in un esposto. Il quotidiano Domani ha già raccontato la vicenda in anteprima, ma ora dopo ora ci sono sviluppi, secondo quanto apprende IlGiornale.it.
Il rapporto sotto osservazione
“Se questa storia fosse vera sarebbe una cosa drammatica, ancora di più perché accade nel Movimento 5 Stelle che è nato contro queste cose, ha fatto intere campagne elettorali”, osserva Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva, che aveva già mostrato perplessità per la visita di Minenna a Grillo. “Non si capisce perché abbia portato il libro blu a un leader di partito”, osservò il parlamentare di Iv. Il punto certo è che l’operato del direttore Minenna è stato oggetto di una querela, depositata alla Procura di Roma. Aprendo una frattura nell’universo del Movimento: Alessandro Canali, vicedirettore dell’Agenzia fino a pochi giorni fa, è un grillino duro e puro degli esordi. Il focus è concentrato sulla gestione della collaborazione con Patrizia Bosco, che dal luglio 2021 ha fatto ingresso nella direzione generale dell’Agenzia, dopo il distacco temporaneo dall’Autorità di regolazione dei Trasporti. E proprio le varie missioni di Bosco e Minenna hanno scatenato le polemiche interne, a causa delle spese significative delle trasferte, smentendo il pauperismo, un tempo totem intoccabile del grillismo.
La questione non è infatti solo interna all’Agenzia delle dogane e dei monopoli: ha pesanti risvolti politici. Minenna è da sempre un economista di riferimento del Movimento 5 Stelle. Nel 2016 è stato assessore al Bilancio del Comune di Roma, nella giunta guidata da Virginia Raggi. Ma dopo poche settimane, si dimise dall’incarico al Campidoglio, restando comunque un faro per il M5S. Appena qualche settimana fa, Minenna si è fatto immortalare sui social mentre illustrava il libro blu 2020, la raccolta dei risultati dell’Agenzia, a Beppe Grillo. E chi c’era con loro? L’onnipresente Bosco. Durante il colloquio, il numero uno dell’Agenzia avrebbe parlato del ruolo che la sua struttura dovrebbe “ricoprire in relazione ai temi connessi alla salvaguardia ambientale”. Un incontro che conferma la vicinanza al fondatore del Movimento e un solido legame con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Ma Grillo e Di Maio non sapevano la bufera che stava per abbattersi su Minenna.
Il low cost dimenticato dal grillino
Secondo l’esposto presentato da Canali, e visionato da IlGiornale.it, tra Minenna e Bosco, ci sarebbe una “relazione di tipo sentimentale”. Certo, si tratta di una versione parziale, su cui bisognerà fare chiarezza. Anche perché dall’Agenzia replicano che il direttore ha portato a termine “missioni istituzionali”. Resta inoppugnabile, però, che il risparmio negli spostamenti non è stato un dogma di Minenna in vari viaggi delle ultime settimane. Se per i voli su Alitalia ha sempre optato per l’economy, le prenotazioni in treno sono state fatte in business class. Un solo viaggio Roma-Milano è costato anche 122 euro. E non solo. Il 13 settembre, per una notte trascorsa a Genova da Bosco, è stata sborsata dall’Agenzia la cifra di 315 euro per una camera suite, ovviamente con prima colazione inclusa. Di lì a poco si è ripetuta una spesa superiore ai 200 euro, a Milano, sempre un singolo pernottamento, mentre altri 170 sono stati spesi per una notte a Venezia, nei giorni del Festival del Cinema. E così via per altre trasferte fatte a Trento, Bologna, Marsala. Scelte legittime, certo. Ma non improntate al low cost più sfrenato. Resta fronte ai continui spostamenti, Canali è andato in fibrillazione, consapevole che le spese erano a carico del suo ufficio. Quindi ha chiesto delucidazioni a Minenna, rilevando che Bosco non seguiva le procedure interne come la semplice operazione di timbrare il cartellino. Perciò il vice avrebbe voluto incontrare il direttore per un chiarimento, ricevendo in cambio la riorganizzazione degli uffici. Con la soppressione proprio di quello affidato a Canali.
Stefano Iannaccone. Irpino di nascita, classe '81, vivo e lavoro a Roma dal 2005. Sono giornalista politoc-parlamentare e scrittore. Dagli studi in Scienze della Comunicazione ai primi passi nel mondo del giornalismo, sono trascorsi sati qualcosa come due decenni. Oltre che per IlGiornale.it scrivo per Panorama, IlFattoquotidiano.it, Impakter Italia e Fanpage. In passato ho lavorato per il quotidiano La Notizia e Lettera 43. Mi aggiro per i Palazzi della politica, in particolare Montecitorio. Quindi, le inchieste sugli sprechi, la politica in ogni sua sfaccettatura sono alla base del mio lavoro. Ma mi occupo anche di esteri e attualità. E sogno di seguire, da inviato, un Giro d'Italia. Finora (spero che ce ne siano altri) ho scritto cinque libri. L'ultimo è un romanzo, intitolato
Ecco i politici "in missione": in viaggio verso casa propria a spese dello Stato. I rientri nella propria città pagati dallo Stato. Le affollatissime delegazioni di Conte. I voli intercontinentali di Costa (Ambiente). E Di Maio che non pubblica i rendiconti. Ecco come, nell’anno del lockdown, ministri e sottosegretari hanno viaggiato facendo pagare la collettività. Vittorio Malagutti l'08 gennaio 2021 su L'Espresso. Non c’è lockdown che tenga. In un anno funestato dalla pandemia, tra divieti vari e zone rosse, la squadra di governo di Giuseppe Conte non ha rinunciato alle trasferte. Ministri, viceministri e sottosegretari si sono mossi eccome, in Italia e all’estero. Decine e decine di viaggi a carico delle casse pubbliche. Tutte missioni di stato? Dipende. L’Espresso ha esaminato i rendiconti pubblicati dai ministeri e ha scoperto che qualcuno si è spostato da Roma più che altro per tornare verso casa propria. Uno su tutti: il veneziano Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia in quota Pd, ha viaggiato quasi sempre con destinazione Veneto. Altri, come il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, hanno affrontato voli intercontinentali per partecipare a eventi giudicati imperdibili, anche se a prima vista si direbbe il contrario.
Da lanotiziagiornale.it il 28 aprile 2021. 124 voli di Stato in un anno. A causa dell’emergenza coronavirus. Durante la pandemia la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati ha usato un numero record di voli blu. Da maggio 2020 ad oggi il Falcon 900 dell’Aeronautica (31° esimo stormo di Ciampino), a disposizione della seconda carica dello Stato, ha volato 124 volte. Di queste, 97 sulla rotta Roma-Venezia. Andata e ritorno. Si tratta della rotta per tornare a casa, visto che lei abita a Padova
I 124 voli di Stato di Elisabetta Casellati in un anno. Oggi Repubblica parla dei voli di Stato della presidente del Senato. Grazie al registro di volo del Falcon (sigla IAM9003) in uso alla presidente del Senato, la quale, per l’incarico che ri[]copre, e a differenza dei ministri del governo, non ha bisogno di autorizzazione per prendere l’aereo blu. Prima dell’emergenza Covid — fanno sapere fonti di Palazzo Madama — Casellati copriva la tratta Padova-Roma prevalentemente con voli di linea o in treno. Quando però il Paese viene investito dal contagio, qualcosa cambia. Secondo quanto riferisce il suo staff, da marzo a maggio dello scorso anno, durante il lockdown, «la presidente rimane sempre a Roma». Poi comincia a usare in modo intensivo il Falcon di Stato, come documentano i piani di volo. Per ragioni di tutela della salute, dicono fonti di Palazzo Madama: Casellati non può fare lunghi percorsi in macchina per un problema alla schiena. E quindi Il velivolo dell’Aeronautica, da un anno a questa parte, fa la spola, talvolta settimanalmente, tra gli scali di Roma Ciampino e Venezia Tessera. Viaggia con a bordo la presidente. O si muove, vuoto, per andarla a prendere. La frequenza è aumentata negli ultimi mesi, nonostante la ripresa dei voli di linea e la possibilità di viaggiare in sicurezza, con la garanzia del distanziamento sociale, sui treni ad Alta Velocità. Per esempio, per restare alle scorse settimane: il 2 aprile alle 10 il Falcon parte da Ciampino per Venezia, il 6 aprile da Venezia torna a Roma; il 9 da Roma a Venezia, il 12 ancora da Roma a Venezia per poi subito rientrare alla base e così, di nuovo, doppio tragitto in giornata il 16 e il 19. Questo mese i voli sono stati sinora 9, a marzo 16, a febbraio 11, a gennaio 11. Per avere un termine di paragone, nello stesso periodo l’aereo a disposizione del presidente della Camera, Roberto Fico, si alza in volo tre volte nello stesso giorno, il 25 gennaio, per le tratte Napoli-Capodichino, Roma Ciampino e Trieste-Ronchi dei Legionari.
Voli di Stato, la presidente Casellati si giustifica (in un fuorionda): "Non c'erano treni né aerei". Andrea Lattanzi su La Repubblica l'1 maggio 2021. Dopo l'inchiesta di Repubblica sull'uso dei voli di Stato della presidente del Senato durante la Pandemia (124 viaggi), Maria Elisabetta Alberti Casellati ha evitato di rispondere alle domande dei cronisti a margine della cerimonia di intitolazione delle prime vie e piazze dell'area Expo 2015 a Milano. Durante una conversazione con il sindaco Beppe Sala, si è però difesa: "2018, zero voli. 2019, zero voli". I voli intrapresi nel 2021 per motivi istituzionali: "Tutto per arrivare a lavorare - ha detto intercettata in un fuorionda - non c'erano treni, non c'erano aerei, questo nessuno lo dice". Secondo quanto ricostruito da Repubblica la presidente del Senato avrebbe utilizzato il Falcon di Stato anche per andare in Sardegna in pieno agosto.
Le Iene e i 3 errori nel caso Casellati. Suor Anna Monia Alfieri il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Sulla presidente del Senato cade la gogna del privilegio: eccessivo utilizzo dei voli di Stato, le vacanze, il parrucchiere. Ed ecco confezionata la notizia a base di sensazionalismo. Il servizio andato in onda martedì sera durante la trasmissione LE IENE mi pare sia un esempio concreto di quel processo volto a rompere il rapporto fiduciario tra i cittadini e le istituzioni, in particolare avverto il tentativo di attuare quel processo che vuole minare le fondamenta della libertà dei cittadini. In che modo? Innanzitutto è stato cancellato il valore della cultura, dello studio, dell’approfondimento: il fatto è che, però, senza conoscenza non si riesce neanche a pensare e ad orientarsi fra le svariate narrazioni della realtà, spesso contraddittorie. Risultato: si diventa facilmente manovrabili. Il secondo passo è stato ledere il rapporto fiduciario fra i cittadini e la magistratura: occorre, infatti, ricordare il principio secondo il quale, fino al terzo grado di giudizio, l’indagato è innocente. Ricordare questo principio è un atto dovuto a quei magistrati eroici che danno la vita per i cittadini. Il terzo e ultimo passo è muovere accuse infondate contro le massime cariche dello Stato che, guarda caso, rappresentano il volto pulito della Nazione. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato accusato, negli ultimi anni, di non consentire agli eletti di governare: peccato, poi, per il fatto che proprio chi lo accusava si è trovato costretto a salire al Colle per implorare aiuto nel sanare la litigiosità interna. E i cittadini pagavano, intanto, con una crisi economica senza precedenti. Ma il Presidente Mattarella, da servitore del Paese, con un lavoro indefesso, continua a servire e a custodire la classe politica e i cittadini. Poi è venuta la volta del Premier Mario Draghi, accusato di scarsa empatia e scarne dichiarazioni. Proprio lui, impegnato a traghettare l’Italia fuori da una crisi senza precedenti, crisi dovuta anche al chiacchiericcio che ha generato confusione. Anche lui, come il Presidente Mattarella, prosegue con il suo lavoro, a testa bassa, con tutto il Governo, e scrive una nuova pagina di storia fatta di istituzioni al servizio dei cittadini. Ora tocca alla presidente Maria Alberti Casellati. Su di lei cade la gogna del privilegio: eccessivo utilizzo dei voli di Stato, le vacanze, il parrucchiere. Ed ecco confezionata la notizia a base di sensazionalismo. Ci sono tutti gli ingredienti per lo scandalo: il falso pietismo, lo sdegno per i soldi pubblici sprecati mentre la gente muore di fame, la morale. E così si monta lo sdegno fra i cittadini che, in realtà, rimangono danneggiati e isolati. Tutto questo dimostra chiaramente che il rispetto della dignità della persona e delle istituzioni è un principio etico. La verità sui voli è questa. Quella porzione di verità omessa. I voli di Stato sono previsti per le massime cariche, non solo per garantirne l’incolumità ma anche per tutelare i passeggeri che, insomma, non hanno fatto nulla di male per trovarsi nella carrozza che salta per aria… Ma la Presidente del Senato Casellati ha scelto per gli anni 2018 e 2019 di viaggiare in treno. Le piace viaggiare in treno perché pensa, studia: è noto a tutti, tranne al giornalista che probabilmente ha ritenuto poco funzionale allo scoop, che la Presidente sia una stacanovista. Carriera di indiscutibile profilo, ore e ore in ufficio, un alto senso delle istituzioni tanto da tenere aperto il Senato in tempi di Covid. Altissime le misure di sicurezza per consentire ai senatori di essere presenti, lei stessa per tre mesi non si è mossa da Roma. In un ordine di priorità, eravamo in tempi di pandemia, annullati tutti i convegni, era necessario che il Senato funzionasse, considerato che, oltre all’emergenza sanitaria, era da affrontare anche quella democratica, con un Governo che procedeva a colpi di DPCM e, dal dicembre 2018, agiva a colpi di voti di fiducia. Non a caso, il Presidente Mattarella è intervenuto e ora siamo passati ad un Governo di unità nazionale. Ma al giornalista non serve questo pezzo di verità: una donna, una mamma, una nonna, lontana dagli affetti. Si tratta di scelte: chi decide di servire la nazione lo fa fino in fondo. Andiamo avanti: i voli di Stato sono previsti e spesati sia che volino, sia che non volino per 350 ore annue ciascuno. Quindi i sei Falcon sono pagati per volare o non volare. Quindi non è chiaro dove sarebbe lo spreco, se la seconda carica dello Stato ha preso per un centinaio di ore l’aereo per ragioni istituzionali, per risparmiare tempo, per essere a Milano, prossima ai cittadini, insomma per fare il suo dovere. Inoltre ai cittadini contribuenti non è chiara la ragione per la quale avrebbero dovuto pagare i sei Falcon per non volare e in più pagare la macchina, l’aereo di linea alla Presidente per svolgere il proprio servizio. Lo chiedo alla giornalista e ai suoi intervistati. Geniale la proposta del doppio costo e dello spreco di tempo sottratto ad un Paese che vive una emergenza senza precedenti. Da economista sono sbigottita nel non averci mai pensato prima di ieri. Ancora: la scorsa estate la Presidente Casellati è andata in vacanza con il marito (peccato per le centinaia di emendamenti da studiare che si è portata in borsa) in un tempo di crisi, quella aperta da Salvini, e lei doveva essere reperibile e recarsi a Roma in breve tempo e con nessun preavviso. Allora, ragazzi, per concludere, la vicenda ci insegna che 1) “uno non vale uno” senza equità non c’è progresso e non c’è sviluppo, bensì schiavitù la vostra in questo caso; 2) è necessario approfondire, perché la verità è sempre più complessa di quella che ci viene descritta; 3) occorre fare l’analisi costi/benefici. Ci sono dei costi cattivi che producono povertà e dei costi buoni che producono progresso: alto senso civico, servizio della nazione, cultura e competenza. Papa Giovanni Paolo II è rimasto nei cuori di molti per la sua capacità di farsi vicino: viaggiava molto, raggiungeva tutti; eppure, anche a lui si rimproverò proprio che sprecava i danari della Chiesa, dei poveri, per i suoi viaggi. Giuda Iscariota, che teneva la cassa dei Dodici, rimproverò la donna che sprecava il nardo che poteva essere venduto e dato ai poveri. Lui, però, non rifiutò i trenta denari. Carissimi, la domanda rimane sempre la stessa: tu che parli, tu che scrivi, cosa stai vendendo? Io, ve lo assicuro, vendo una disperata voglia di libertà.
Dagospia il 5 maggio 2021. CASELLATI IN ARIA - "LE “IENE”: LUNEDÌ 3 MAGGIO LA PRESIDENTE DEL SENATO HA CHIESTO, E OTTENUTO, PER L’ENNESIMA VOLTA UN VOLO DI STATO PER COPRIRE LA TRATTA ROMA VENEZIA? MA POI IL SERVIZIO SPARISCE DAL SITO E DAI SOCIAL DELLA TRASMISSIONE. COME MAI? – IL FUORIONDA CON LA RISPOSTA STIZZITA A GIULIA INNOCENZI: “NON C’ERANO AEREI, NÉ TRENI” - LA SCUSA UFFICIALE È IL COVID, E UN PROBLEMA ALLA SCHIENA DELLA POVERA CASELLATI MAZZANTI VIENDALMARE (UN CUSCINO NO?)
Da iene.mediaset.it (poi rimosso). Con Giulia Innocenzi e Marco Occhipinti siamo riusciti a chiedere, nonostante i placcaggi della sicurezza, alla Presidente del Senato Casellati dei 124 voli di Stato che avrebbe preso nell'ultimo anno. Lei risponde fuori onda: "Non c'erano treni, non c'erano aerei". La gran parte sarebbero sulla tratta Venezia-Roma, insomma "casa-lavoro". Guardate le nostre immagini esclusive: anche ieri ha preso un "taxi volante" pubblico? In agosto sarebbe stato usato anche per la Sardegna.
IL POST SU FACEBOOK DI ALESSANDRO DI BATTISTA: In un Paese normale tutte le forze politiche, tutti i giornalisti italiani nonché la pubblica opinione avrebbero costretto la Presidente Casellati a fornire spiegazioni esaustive sui suoi 100 e passa voli di Stato negli ultimi mesi. Da noi, salvo eccezioni, passa tutto in cavalleria. Lo scoop l'ha fatto La Repubblica, oggi ci apre il Fatto, ieri le Iene hanno realizzato un servizio (condividiamolo). Ma, ripeto, in un Paese normale la seconda carica dello Stato “pizzicata” ad abusare dei suoi privilegi andrebbe a casa, e senza aereo blu stavolta.
P.S. Consiglio non richiesto ai miei ex-colleghi del M5S: occupare in modo “nonviolento” l'ufficio di Presidenza del Senato fino a che la Presidente non dimostrerà di non esser andata in vacanza con un aereo blu. Si tratta di rispetto. Si tratta di etica. Si tratta di denaro pubblico, il denaro di tutti.
Ilaria Proietti per "il Fatto quotidiano" il 6 maggio 2021. Puff! Con un tocco di magia il servizio delle Iene sui voli di Stato di Maria Elisabetta Alberti Casellati andato in onda due sere fa è sparito nel nulla. Non compare più da nessuna parte, né sul sito né sulla pagina Fb del programma e nemmeno sui canali Mediaset: peggio di una damnatio memoriae. E sì che aveva fatto il botto con 2,5 milioni di spettatori incollati alla tv a godersi le performance aree di Sua Presidenza. (…) "Il contenuto non è più disponibile perché potrebbe essere stato rimosso" si legge per esempio su Dagospia che sul servizio delle Iene Giulia Innocenzi e Marco Occhipinti ci si era buttato a pesce condividendo il contenuto dal sito delle Iene. A provare a cercarlo tramite Mediaset player viene segnalato che il video non è accessibile. Stessa solfa a usare altri link che danno "Errore404": il servizio insomma pare che il Biscione l' abbia imbertato in maniera scientifica. Perché quelli andati in onda nella stessa puntata, quella del 4 maggio, sono ancora lì a disposizione e in bella vista. (…) "Se vuole sapere se mi ha chiamato la Casellati per chiedermi di togliere il servizio dalla circolazione, la risposta è no: non mi ha chiamato. Ma del resto non ci occupiamo della parte digital. Il sito e il canale social del programma non lo gestiamo più noi del programma, ma direttamente Mediaset" dice il papà delle Iene Davide Parenti che giura di non saperne niente. "Non abbiamo avuto nessun problema a mandare in onda il servizio. Di telefonate io non ne ho ricevute. Poi non so Non chiedete a me, posso solo dire che questa cosa è alquanto buffa". (...)
Notizia o sensazionalismo? Le Iene censurano il video sulla Casellati: dopo la gogna il pentimento. Carmine Di Niro su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Che nella redazione de Le Iene improvvisamente si siano accorti di aver pubblicato un video all’insegna della gogna mediatica? Forse è per questo che il servizio del programma di Mediaset sui voli di Stato della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, andato in onda due sere fa, è sparito dal sito e dalla pagina Facebook della trasmissione. “Il contenuto non è più disponibile perché potrebbe essere stato rimosso”, si legge infatti provando a visualizzare il video sulle piattaforme online di Mediaset, con Le Iene che al momento non hanno reso noto il perché della scomparsa del filmato. Gli altri andati in onda il 4 maggio infatti sono ancora visibile online, solo quello riguardante la Casellati è ormai irrintracciabile. Il servizio de Le Iene riprendeva gli articoli di stampa sul presidente del Senato, “colpevole” di aver utilizzato 124 voli di Stato nell’ultimo anno. Raggiunta da Giulia Innocenzi durante un evento pubblico, la seconda carica dello Stato non risponde alle domande della giornalista, salvo sentirle dire di sfuggita: “Non c’erano treni, non c’erano aerei”. Sulla Casellati viene montato un servizio per creare del facile sdegno contro la Kasta, l’abuso di soldi pubblici frivolo, soprattutto mentre gli italiani sono alle prese con la pandemia di Coronavirus che ha provocato una crisi economica senza precedenti. Il problema è che le accuse contro la Casellati non reggono. Casellati, è l’accusa arrivata originariamente da Repubblica, ha utilizzato 124 voli di Stato da maggio 2020 ad aprile 2021, in gran parte per coprire la tratta da Roma a Venezia, con la famiglia della seconda carica dello Stato che risiede nella vicina Padova. Ci sarebbe anche un volo per la Sardegna ad agosto, addirittura per le vacanze estive della Casellati. Non è bastata ovviamente la spiegazione fornita da fonti di Palazzo Madama al quotidiano: la presidente del Senato ha iniziato a utilizzare il Falcon 900 dell’Aeronautica a disposizione della seconda carica dello Stato per evitare il rischio Covid, visto che per ragioni di salute non può fare lunghi viaggi in auto. Non conta neanche che la Casellati non abbia violato alcuna legge utilizzando il Falcon 900. Nel decreto 98 del 2011, l’articolo 3 recita infatti che “i voli Stato devono essere limitati al Presidente della Repubblica, ai Presidenti di Camera e Senato, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Corte Costituzionale”. Insomma, sono i ministri a dover essere autorizzati, di certo non la seconda carica dello Stato. Opportunatamente dimenticato anche il ‘precedente’ della Casellati: senza pandemia, nel 2018 e 2019, la presidente del Senato non ha mai utilizzato alcun volo di Stato, preferendo spostarsi in treno. Treni (o aerei di linea) che la Casellati difficilmente avrebbe potuto usare durante il periodo di pandemia: numerosissime sono state infatti le corse taglia causa Covid.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Elisabetta Casellati, "Di chi era amante la compagna di suo figlio". Sfregio del Fatto: a cosa si riducono pur di attaccarla. Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Pur di attaccare la presidente del Senato Elisabetta Casellati, il Fatto quotidiano prende di mira suo figlio. Il giornale diretto da Marco Travaglio, infatti ha pubblicato una foto presa da un sito spagnolo che ritrae Alvise Casellati in compagnia di una donna. "Una relazione dal sapore istituzionale", si legge sul Fatto, "Il nuovo compagno di Corinna Larsen, ex amante del re Juan Carlos di Spagna, è Alvise Casellati, figlio della presidente del Senato. I due sono stati fotografati dal sito spagnolo Vanitatis a fine marzo in un ristorante greco di New York". Ma non finisce qui. Travaglio dedica una intera pagina del Fatto al caso. "Casellati, altro weekend di voli di Stato per tornare a Padova", titola, "Casta. Queen Elizabeth - Lo scoop delle Iene sul vizietto della presidente del Senato". Quindi si legge nell'articolo: "Un altro volo blu nonostante le polemiche: come se nulla fosse Maria Elisabetta Alberti Casellati non cambia spartito. Anche lunedì ha fatto ritorno a Roma grazie alla flotta dello Stato. Lo racconta un servizio delle Iene in onda ieri sera (4 maggio, ndr) su Italia 1 e destinato a rinfocolare le polemiche di chi ne chiede le dimissioni. O le sollecita chiarimenti come hanno fatto alcuni parlamentari semplici costretti alla promiscuità di treni e aerei di linea nonostante il morbo o a macinare chilometri in autostrada per fare la spola con Roma: lei, Sua Presidenza Maria Elisabetta Alberti Casellati non ci sta e continua a viaggiare con i voli di Stato, avanti e indietro da Padova, il suo secondo regno dopo il Senato". In realtà, spiega Francesco Storace, "la prima domanda da porsi è: la presidente del Senato ha violato la legge? Niente affatto, è esplicita addirittura dal 2011. Dice il decreto 98 di quell'anno, all'articolo 3: 'I voli di Stato devono essere limitati al Presidente della Repubblica, ai Presidenti di Camera e Senato, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Corte costituzionale'. Ovvero, sono senza autorizzazione, perché è la legge a renderli disponibili".
Fabio Calcagni per ilriformista.it il 27 aprile 2021. I benefit di Lucia Calvosa costano troppo, tanto da spingere il Cda di Eni ad intervenire. La presidente del gruppo del “cane a sei zampe”, una nomina ‘caldeggiata’ fortemente da Marco Travaglio tramite il Movimento 5 Stelle, essendo la Calvosa un ex membro del Consiglio di amministrazione del Fatto Quotidiano, è finita nel mirino per alcune spese ritenute eccessive. Costi emersi dalla “Relazione sulle remunerazioni 2021” pubblicata sul sito Eni e che tirano in ballo la numero uno della multinazionale italiana partecipata dal Tesoro, che nel maggio 2020 ha indicato Calvosa come presidente. ‘Contro’ Calvosa, scrive Repubblica, è intervenuto il Cda di Eni che ha chiesto di limitare le spese per alloggio a 100mila euro l’anno: il giornale di Largo Fochetti scrive che la numero uno del gruppo, da sempre considerato “braccio operativo” della Farnesina in territori a rischio, avrebbe dato “piena disponibilità” a pagare ogni eccedenza. Il richiamo alla Calvosa arriva in particolare per alcune spese extra al già lauto compenso che riceve da presidente, ovvero 500 mila euro lordi annui, 90 mila previsti dall’assemblea e 410 mila aggiunti dal cda il 4 giugno scorso “per deleghe conferite”. Nella relazione citata da Repubblica si legge che “dal 14 maggio al 31 dicembre 2020“, ovvero in otto mesi, “ha sostenuto spese e oneri per servizi di alloggio e trasporto collegati all’esercizio del ruolo di Presidente per 206mila euro”. Per fare un confronto con l’ex presidente di Eni Emma Marcegaglia, quest’ultima nei primi quattro mesi e mezzo dell’anno aveva speso 21 mila euro per le stesse due voci. L’azienda ha spiegato che questi 206mila euro sono composti “da 152 mila euro di spese alberghiere e servizio di trasporto, e da 54 mila euro di spese relative all’alloggio poi assegnato dal febbraio 2021”. La differenza con la gestione Marcegaglia sarebbe dovuta, secondo Eni, “dalla diversa frequenza di utilizzo dei servizi, ovviamente maggiore per Lucia Calvosa che si trovava nel periodo di insediamento”, mentre gli standard di alloggio e trasporto “sono sostanzialmente analoghi a quelli offerti ai presidenti precedenti”. Secondo quanto ricostruito da Repubblica, Calvosa avrebbe alloggiato in albergo a Roma, a differenza dell’ex Marcegaglia che usava un alloggio personale, spostandosi poi da Pisa alla Capitale con un’auto a pagamento, mentre altri dirigenti Eni usano la flotta aziendale. Quest’ultime ovviamente non lasciano tracce nei documenti ricadendo tra i costi aziendali.
Andrea Greco per “la Repubblica” – Estratto il 27 aprile 2021. Quanto a Enel, si sa che l'ex presidente Patrizia Grieco la lasciò controvoglia. La dirigente esperta di governance (è presidente uscente del Comitato per la corporate governance italiana, dove proprio Calvosa la sostituirà a breve) voleva restare: ma le pressioni dei M5s favorirono un ricambio, e la spuntò il legale Michele Crisostomo. Il Tesoro azionista chiese allora a Grieco di spostarsi a Mps, banca sotto aiuti di Stato e quindi con tetti severi ai compensi dell'Antitrust Ue. La presidente Mps ha avuto, in sette mesi e mezzo, solo 68 mila euro, rateo dei 108 mila prima toccati a Stefania Bariatti. Tuttavia Grieco, che da presidente Enel prendeva 450 mila euro, ha conservato un "gettone" da 208 mila euro per partecipare al cda di Endesa, controllata spagnola di Enel dove siede come consigliere ordinario senza deleghe. Uno degli 11 che affiancano presidente, vicepresidente e ad, in cambio di somme che variano tra 138 mila e 243 mila euro l'anno. Tra l'altro vicepresidente di Endesa è proprio Francesco Starace, che pur avendo ricevuto 6,86 milioni di euro di compensi 2020 come ad dell'Enel, non è stato pagato per il ruolo in Endesa (le buone prassi di governance non prevedono compensi per cariche poco operative nelle controllate). Grieco è stata nel cda Endesa tutto il triennio precedente, ricevendo doppi compensi fino al maggio scorso.
In otto mesi del 2020 pagati 206 mila euro per alloggio e trasporti. Il Cda Eni contro la presidente Calvosa: la “fedelissima” di Travaglio deve dimezzare le spese. Fabio Calcagni su Il Riformista il 27 Aprile 2021. Calvosa costano troppo, tanto da spingere il Cda di Eni ad intervenire. La presidente del gruppo del “cane a sei zampe”, una nomina ‘caldeggiata’ fortemente da Marco Travaglio tramite il Movimento 5 Stelle, essendo la Calvosa un ex membro del Consiglio di amministrazione del Fatto Quotidiano, è finita nel mirino per alcune spese ritenute eccessive. Costi emersi dalla “Relazione sulle remunerazioni 2021” pubblicata sul sito Eni e che tirano in ballo la numero uno della multinazionale italiana partecipata dal Tesoro, che nel maggio 2020 ha indicato Calvosa come presidente. “Contro” Calvosa, scrive Repubblica, è intervenuto il Cda di Eni che ha chiesto di limitare le spese per alloggio a 100mila euro l’anno: il giornale di Largo Fochetti scrive che la numero uno del gruppo, da sempre considerato “braccio operativo” della Farnesina in territori a rischio, avrebbe dato “piena disponibilità” a pagare ogni eccedenza. Il richiamo alla Calvosa arriva in particolare per alcune spese extra al già lauto compenso che riceve da presidente, ovvero 500 mila euro lordi annui, 90 mila previsti dall’assemblea e 410 mila aggiunti dal cda il 4 giugno scorso “per deleghe conferite”. Nella relazione citata da Repubblica si legge che “dal 14 maggio al 31 dicembre 2020“, ovvero in otto mesi, “ha sostenuto spese e oneri per servizi di alloggio e trasporto collegati all’esercizio del ruolo di Presidente per 206mila euro”. Per fare un confronto con l’ex presidente di Eni Emma Marcegaglia, quest’ultima nei primi quattro mesi e mezzo dell’anno aveva speso 21 mila euro per le stesse due voci. L’azienda ha spiegato che questi 206mila euro sono composti “da 152 mila euro di spese alberghiere e servizio di trasporto, e da 54 mila euro di spese relative all’alloggio poi assegnato dal febbraio 2021”. La differenza con la gestione Marcegaglia sarebbe dovuta, secondo Eni, “dalla diversa frequenza di utilizzo dei servizi, ovviamente maggiore per Lucia Calvosa che si trovava nel periodo di insediamento”, mentre gli standard di alloggio e trasporto “sono sostanzialmente analoghi a quelli offerti ai presidenti precedenti”. Secondo quanto ricostruito da Repubblica, Calvosa avrebbe alloggiato in albergo a Roma, a differenza dell’ex Marcegaglia che usava un alloggio personale, spostandosi poi da Pisa alla Capitale con un’auto a pagamento, mentre altri dirigenti Eni usano la flotta aziendale. Quest’ultime ovviamente non lasciano tracce nei documenti ricadendo tra i costi aziendali.
Note spese pazze. In difesa di Calvosa, professoressa spendacciona che ama il lusso. Ma Travaglio quanto ci costa! Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Aprile 2021. Vi ricordate Lucia Calvosa? È una signora con molti titoli professionali e accademici, anche se abbastanza sconosciuta, che ha una cattedra di diritto commerciale e ha partecipato negli anni scorsi ai consigli di amministrazione di molte aziende importanti. Il più importante, credo, dal punto di vista della carriera, è stato il consiglio di amministrazione del Fatto Quotidiano di Travaglio. Quello è stato il trampolino. Il Fatto condusse una battaglia molto intensa contro l’Eni, negli anni passati, e giusto un anno fa portò a casa un risultato importante: Lucia Calvosa, su indicazione del ministro del Tesoro del governo Conte 2, dopo una lunga trattativa che portò alla sconfitta di Gianni De Gennaro, fu nominata presidente dell’Eni. Con un buono stipendio: 500 mila euro all’anno. Molto oltre il tetto previsto per i dirigenti pubblici, ma il presidente dell’Eni, formalmente, sebbene sia nominato dal governo, non è un dipendente pubblico. Comunque 500 mila euro sono un bello stipendio: parecchio più del doppio dello stipendio del presidente della Repubblica. Ok. La nomina di Lucia Calvosa sollevò alcune polemiche perché era la prima volta, nella storia delle lottizzazioni, che nella spartizione entrava un giornale. La realtà è che il Fatto Quotidiano partecipò alla divisione delle nomine non come giornale ma come rappresentante dei 5 Stelle. Travaglio si arrabbiò molto per le polemiche, in particolare si arrabbiò con noi del Riformista, che segnalammo il caso, e arrivò a definirci “vermi”. Credo che in particolare si riferisse a me. Io però non lo querelai, intanto perché io non querelo, per principio. Lo ho fatto una volta sola in vita mia, ma poi ci ripensai subito e ritirai la querela. E poi per una seconda ragione, di opportunismo: gli avvocati mi spiegarono che contro i magistrati è inutile querelare, si perde sempre. Capisco l’obiezione: Travaglio non è un magistrato. È una obiezione molto formalistica e priva di valore. A questo punto voi direte: hai scritto mezzo articolo e ancora non hai dato nessuna notizia. Giusto, un buon giornalista parte con la notizia. Io però non sono un buon giornalista e quindi la notizia la metto a metà pezzo. La notizia è questa: nei primi sette mesi della sua attività di presidente dell’Eni (che non è, peraltro, un’attività particolarmente impegnativa e travolgente) Lucia Calvosa ha speso 206 mila euro di viaggi, alberghi e ristoranti. Il consiglio di amministrazione dell’Eni, in modo molto sommesso, glielo ha fatto notare e le ha chiesto di provare a stare per il futuro dentro i 100 mila euro. Beh, centomila euro come tetto della nota spese, oltre allo stipendio, non è male. Ma a Lucia, sin qui, non son bastati. Ora io faccio un ragionamento forse campato un po’ in aria. Però magari ha un senso. Ricordo che il mio amico Augusto Minzolini, che è uno dei più illustri giornalisti italiani da almeno 30 anni, quando fu nominato direttore del Tg1, ricevette una carta di credito con la quale avrebbe dovuto pagare le spese di rappresentanza. Lui la usò per una cifra non altissima: 4000 euro in media al mese, per 15 mesi. E presentò alla fine di ogni mese le ricevute che dimostravano dove e come e perché le spese erano state effettuate. La Rai gliele contestò tutte. Non una alla volta: tutte insieme dopo 15 mesi nei quali non aveva avuto obiezioni. Non gliele contestò sommessamente, come ora fa l’Eni con Lucia. Fu minacciosa. Minzolini, per evitare conflitti inutili, restituì i 60 mila euro contestati. La Rai però si rivolse alla magistratura, Minzolini fu processato, il Pm chiese due anni di carcere, il giudice decise per due anni e mezzo. Il giudice era decisamente imparziale: in passato era stato un esponente del Pd in Parlamento e al governo, mentre Minzolini era parlamentare del centrodestra. Succede. Dico. In Italia succede. Perché al momento non esistono paesi al mondo nei quali un deputato può fare anche il giudice e emettere una sentenza a carico di un suo ex concorrente. Per Minzolini fu una stangata. Chissà se ora qualcuno si metterà in capo di processare la Calvosa come è stato processato Minzolini. Abbiamo fatto qualche conto. La Calvosa ha speso circa 30 mila euro al mese, cioè 7 volte quello che aveva speso Minzolini (sebbene nel periodo incriminato i ristoranti fossero chiusi per il Covid…). Se dovessimo mantenere le proporzioni di uno a sette, i due anni e mezzo di Minzolini diventerebbero più di diciassette per Lucia… Sto scherzando, naturalmente. La Calvosa non ha commesso proprio nessun reato (come del resto non l’aveva commesso neppure Minzolini): è solo una professoressa un po’ spendacciona e che evidentemente ama il lusso. Anche a me il lusso piace, ma non posso permettermelo. Non è ragionevole nessuna azione giudiziaria contro di lei. Solo un buffetto a Travaglio: Marco, Marco, quanto ci costi!
P.S. Ma se una cosa del genere fosse capitata a un presidente dell’Eni nominato, per esempio, da Renzi? Immagino i titoli sul Fatto. Chissà come sarà pubblicata, domani, sul giornale di Travaglio, la notizia delle note spese di Lucia Calvosa…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
· Le Missioni dei Giornalisti Rai.
Striscia la Notizia ancora contro la Rai: "Abbandonato in un magazzino". La scoperta sconcertante sui nostri soldi. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2021. Nuovo appuntamento con “Rai Scoglio 24” (il canale di Striscia la Notizia “dedicato” alla Rai) con l’audizione dell'amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini, ascoltato ieri in Commissione di Vigilanza. "Non so risponderle in maniera puntale, magari lo faremo in forma scritta nei prossimi giorni", ha detto l’amministratore delegato della Rai, interrogato dal segretario della Vigilanza Rai, Massimiliano Capitanio, sugli sprechi nelle sedi estere di Bruxelles, Londra, Pechino e New York documentati da Striscia la Notizia. Risposta pronta, invece, su Rai English, canale voluto proprio dal numero uno della tv di Stato e costato circa 1,5 milioni di euro senza mai aver trasmesso nulla: "Siamo in ritardo, lo ammetto, come lo siamo su altri obiettivi. Speriamo di portarlo a casa entro l’estate. Abbiamo assegnato un budget, non siamo stati fermi e inoperosi". Altra questione quella dell’opera –un presepe- commissionata all’artista Marco Lodola e finita abbandonata in un magazzino Rai prima di essere accolta ed esposta dagli Uffizi di Firenze. Secondo Salini il presepe "non era stato autorizzato dai vertici. Non lo abbiamo pagato". Nel frattempo alcuni corrispondenti Rai come per esempio Claudio Pagliara che lavora presso la sede di New York ha annunciato una querela nei confronti di Striscia e Mediaset. La storia, quindi è destinata a continuare.
Striscia la Notizia, Pinuccio "convocato": sprechi Rai, ecco la contromossa della commissione di Vigilanza. Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021. Maurizio Gasparri dalla parte di Striscia la Notizia. Il senatore di Forza Italia, nonché membro della Commissione di vigilanza Rai, ha chiesto di porre fine alla diatriba tra il tg satirico e Viale Mazzini. Come? Invitando l'inviato Pinuccio. “È giusto affrontare il tema del costo delle sedi estere della Rai, e potremo fare delle domande a Salini che sarà martedì in vigilanza. Però potremmo anche convocare 'Pinuccio', dinamico inviato di Striscia la notizia, che ogni giorno su 'Rai Scoglio 24' informa sull'andamento della Rai e su qualche spreco sul quale dobbiamo vigilare di più", ha detto Gasparri lanciando un vero e proprio appello. L'inviato del programma di Antonio Ricci è finito al centro di un botta e risposta con la tv pubblica, dopo aver denunciato le sue "spese folli". Tra queste quelle legati alla sede cinese della Rai. "Il Servizio Pubblico - si legge sul sito di Striscia - ha infatti 11 sedi sparse per il mondo con 20 corrispondenti e una serie di giornalisti che vengono inviati in caso di avvenimenti eccezionali. Nelle puntate precedenti, l’inviato Pinuccio ha indagato sui costi delle sedi Rai di Pechino, Mosca, Bruxelles e New York". Accuse che per Gasparri hanno diritto di replica: "Faremo le domande a Salini - ha concluso il senatore -, ma chiederò di invitare anche ‘Pinuccio’ a San Macuto perché uno scambio con lui ci potrebbe offrire molti spunti importanti... in fondo è diventato un esperto anche lui”. Viale Mazzini - era quanto riportava l'Adnkronos - avrebbe preparato tutte le carte per fare causa a Mediaset dopo i numerosi servizi di Striscia la Notizia e in particolare di ‘Rai Scoglio 24’, spazio satirico diretto da Pinuccio (Alessio Giannone), dedicati alle sedi estere del servizio pubblico.
Striscia la Notizia, dipendenti Rai e scontrini gonfiati: l'indagine che mette in imbarazzo il servizio pubblico. Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Striscia la Notizia torna a parlare della Rai: questa volta l'inviato Pinuccio indaga sugli scontrini gonfiati che i dipendenti del servizio pubblico avrebbero chiesto a ristoratori e albergatori durante diverse manifestazioni, come il Giro d'Italia. "Quando arrivava il momento del conto domandavano sempre lo scontrino con indicato il massimo del rimborso che potevano ricevere dalla Rai. Anche se la loro spesa era molto inferiore, a volte pari a un terzo", ha rivelato un ex collaboratore esterno della Rai al tg satirico. La trasmissione di Canale 5 si era già occupata di una vicenda simile. Aveva parlato di alcuni dipendenti Rai, poi risultati indagati, che tra il 2013 e il 2015 a Sanremo si facevano fare degli scontrini maggiorati per ottenere la diaria massima dall’azienda. "Che vuol dire? Che spendevano 10 euro, si facevano fare lo scontrino da 30, la Rai dava loro un rimborso di 30 e ci guadagnavano 20", ha spiegato Pinuccio. “Mi vergognavo di essere italiano quando vedevo queste cose”, ha ammesso la "talpa". Nel servizio si fa riferimento, poi, anche al cosiddetto "quaderno nero" dei dipendenti. "E' un libretto in cui è annotato dove andare per poter avere questi vantaggi, sia per mangiare che per dormire", ha spiegato l'ex collaboratore. Il testimone ha segnalato anche un episodio curioso: quando i dipendenti Rai hanno fatto la stessa richiesta, quella dello scontrino maggiorato, in un ristorante di un paesino terremotato, hanno ricevuto una risposta molto diversa. “Si è inca**ato il proprietario del ristorante, disse: 'Qui i soldi per il terremoto non ci arrivano e voi chiedete la ricevuta più alta'. I dipendenti Rai si sono infastiditi e hanno cancellato il locale dalla lista dei ristoranti dove andare", ha raccontato l'ex collaboratore al telefono con Pinuccio.
Striscia la notizia svela la vergogna Rai: "Tre milioni di euro per tre stanze", come buttano nel water i nostri soldi. Libero Quotidiano il 27 gennaio 2021. Nuovo appuntamento con gli sprechi e gli sperperi Rai a Striscia la notizia. Il tg satirico di Canale 5 fondato e diretto da Antonio Ricci ha affidato all'inviato Pinuccio, dalla sua immaginaria Rai Scoglio 24, una lunga e articolata inchiesta che sta imbarazzando e non poco i vertici di viale Mazzini. Nella prossima puntata si indaga sugli oltre 3 milioni di euro per la "content room" e gli studi meteo del canale "Pubblicà utilità "a Saxa Rubra. Striscia mostrerà immagini esclusive dell’interno della costosissima struttura creata nel 2018 per il canale Pubblica Utilità e attrezzata con monitor, luci e schermi per le dirette tv che però viene usata solo come un banalissimo ufficio. Nessuna trasmissione all’attivo, solamente sedie e scrivanie. Un’operazione che pare costata oltre 3 milioni di euro, come detto: nella cifra (notevole) rientrano anche gli studi Meteo, inutilizzati e dimenticati. Rai Scoglio 24, spiega Pinuccio, ha potuto leggere i preventivi di spesa del novembre 2017, che parlano di 400mila euro di costi per carpenteria, luci e apparati video, a cui si sommano altri 400mila euro per l’arredamento e la scenografia. Numeri elevati, visto che si riferiscono a tre sole stanze. E infatti il sindacato Libersind Confsal a suo tempo si lamentò e richiese l’intervento dei vertici della tv di Stato. Ancora una volta, sottolineano da Striscia, emerge il "talento gestionale dei vertici Rai, con silenzi e spese apparentemente fuori controllo".
Striscia la Notizia, siluro contro Roberto Gualtieri: "Questa roba come la spiega?", una strana storia di soldi in Rai. Libero Quotidiano il 18 gennaio 2021. Le inchieste di Striscia la Notizia sugli sprechi della Rai arrivano in Senato: è infatti stata presentata un’interrogazione al ministro Roberto Gualtieri, al quale sono stati chiesti chiarimenti sulle spese e sugli appalti senza gara pubblica. Questa sera, lunedì 18 gennaio il tg satirico di Canale 5 ideato da Antonio Ricci manderà in onda importanti novità nell’indagine sulle spese Rai per le sedi estere di Mosca, Pechino e Bruxelles. Appuntamento quindi con “Rai Scoglio 24”, secondo cui il costo del servizio esterno per i montaggi e le riprese che viale Mazzini pagherebbe per la sede di Bruxelles sarebbe di almeno 4mila euro al giorno. “Il condizionale è d’obbligo - fa sapere Striscia - perché in Rai la trasparenza è assente. Come sono assenti i corrispondenti in Cina e pure quelli in Belgio, che pare disertino gli uffici da 30mila euro al giorno a Bruxelles, per bazzicare i corridoi dell’azienda belga che fornisce le immagini”. Il senatore Elio Lannutti ha presentato insieme ad altri nove parlamentari un’interrogazione al ministro dell’Economia: “Non è possibile che la Rai continui a sperperare soldi che sono dei cittadini. Non ci arrenderemo, continueremo a chiederne conto, anche su alcuni appalti senza gara pubblica. Queste cose devono finire”.
Anteprima da “Striscia la Notizia” l'11 gennaio 2021. Dopo aver indagato sui costi Rai degli uffici RAI di Pechino, che pesano sulle casse di viale Mazzini per circa 800 mila euro l’anno, e che da oltre cinque mesi sono senza corrispondente, “Rai Scoglio 24” (il canale di Striscia “dedicato” alla Rai), ci svela l’ennesimo spreco della tv di Stato: la sede di Mosca. La struttura vanta ben due corrispondenti, dei dipendenti locali e un ufficio per una spesa annua di circa 1 milione di euro. Inoltre, per vivere a Mosca, ai giornalisti viene anche fornito un appartamento in affitto ciascuno. Nulla di strano, se non fosse che uno degli alloggi in locazione sia stato adeguato alle esigenze del giornalista dalla Rai con un costo di circa 150mila euro. Una spesa bizzarra per un immobile non di proprietà. Anche in questo caso viene da chiedersi se abbia ancora senso mantenere queste strutture all’estero che, oltretutto, non fornirebbero servizi di qualità, ma spesso “riciclerebbero” notizie già note. In virtù del Codice di Trasparenza, la Rai dovrebbe rendere accessibile ogni dato di spesa, e come mai della ristrutturazione in Russia non vi è traccia? Un mistero. L’ennesimo della gestione Salini.
Da "striscialanotizia.mediaset.it" il 13 gennaio 2021. Questa sera, “Rai Scoglio 24” (il canale di Striscia “dedicato” alla Rai) torna a occuparsi degli uffici RAI di Pechino, da oltre 5 mesi orfani di Giovanna Botteri, e per i quali viale Mazzini spende comunque circa 800 mila euro l’anno. Eravamo da giorni in attesa di sapere perché la RAI mantenesse aperta la sede di Pechino pur senza Giovanna Botteri. Oggi si è svelato l’arcano. «In questo momento la Cina ha i confini chiusi», ha candidamente dichiarato, intervistata da Maurizio Costanzo ai microfoni di Isoradio, la ex inviata dai fronti di guerra. «Ci sono due colleghi della Stampa che sono rimasti là perché avevano il permesso di soggiorno, che a me nel frattempo è scaduto» si è giustificata. Ora, passi la spiegazione del permesso di soggiorno scaduto, che non sembra certo all’altezza di una giornalista esperta come la Botteri, nota per essere stata capace addirittura di raccontare in esclusiva mondiale l'inizio dei bombardamenti su Baghdad nel 2003. Ma la cosa che appare più singolare è che Botteri affermi che le frontiere cinesi siano al momento ancora chiuse. Con una semplice verifica Striscia la notizia ha potuto accertare che seguendo i protocolli previsti è ancora possibile entrare in Cina per motivi di lavoro e lo confermano i voli che sono stati organizzati per esempio dalla Camera di Commercio ItaloCinese.
Striscia la Notizia, tsunami sulla Rai: "Quanto hanno speso per questa sede a New York". Cifra folle, l'ultimo scandalo. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. Nel mirino di Striscia la Notizia non solo la sede in Cina della Rai. Il tg satirico di Canale 5 ha dedicato ampio spazio anche al domicilio di Viale Mazzini a New York. Come sempre è l'inviato Pinuccio a denunciare gli "sprechi" della tv pubblica. "La Rai - esordisce l'inviato di Antonio Ricci - ha tante sedi ma quella di New York è la più bella di tutti". E in effetti le immagini non mentono. Nemmeno i costi. "Solo per gli uffici - prosegue - si spendono 13 mila euro al mese. D'altronde è cinque volte più grande di tante altre". Ma c'è di più, perché all'appello non possono mancare i collaboratori. "I corrispondenti, che sono tre, prendono ciascuno 200 mila euro l'anno". Non solo perché Striscia parla di un "producer" per ogni corrispondente: "Anche loro prendono 100 mila euro l'anno. La stessa cifra che prende il nuovo segretario amministrativo". E gli altri costi? "Non è dato sapersi. Non è dato sapere dei ristoranti, del prezzo degli alloggi". Insomma, chi più ne ha più ne metta. "Tutto questo servizio tecnico costa circa 8 milioni di euro per quattro anni". A conti fatti, è la conclusione di Pinuccio, "tutto questo ci costa 4 milioni di euro all'anno". Tutto denaro pubblico, ovviamente. Stessa storia si ripete a Pechino dove la Rai ha una sede. Sì, ma vuota. "Prima - spiegava in un servizio datato 12 gennaio - in Cina c'era Giovanna Botteri che ha addirittura fatto vedere la sede. Una bellissima sede. Adesso però qualcosa è cambiato". La Botteri ad agosto è tornata in Italia e "in Cina non c'è nessuno", spiegava Pinuccio. Ma - e qui sorge spontanea la domanda - "l'affitto lo pagano ancora?". Un altro scandalo che si va ad aggiungere a quelli già portati alla luce da Striscia.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
· Il “gold exchange standard”, il “Nixon shock” e le politiche monetarie.
L’Euro è ormai un caposaldo dell’economia continentale e non solo. Francesco Boezi su Inside Over il 16 agosto 2021. Si tratta di un paradigma che non è più in discussione. Ma c’è ancora chi dibatte sulla vicenda dell’adesione italiana. Conosciamo quante polemiche siano state sollevate per il modo e per le tempistiche accettate dal nostro Paese (il presidente del consiglio era Romano Prodi, la maggioranza di centrosinistra) per aderire al sistema della moneta unica. Oggi, il dibattito in materia, si è naturalmente spento, ma c’è chi, tra i protagonisti dell’epoca, ha deciso di rivelare come siano andate le cose e quale fosse il suo punto di vista. Critico, a dire il vero, come ormai non è un mistero. La questione posta all’attenzione della bilancia delle opportunità non è tanto quella relativa all’ingresso: più o meno nessuno, ormai, ha qualcosa da dire sul fatto che il Belpaese faccia parte dei Paesi che hanno sposato la causa della valuta europea. Il tema, semmai, è il “come”. Perché le modalità, secondo più di qualcuno, avrebbero potuto modificare parte della nostra sorte economica recente. Antonio Fazio era governatore della Banca d’Italia quando l’Italia è passata dall’utilizzo della Lira a quello dell’Euro. In un’intervista rilasciata al quotidiano La Verità, l’ex vertice bancario ha posto più di qualche accento sulle tempistiche, spiegando che, nel caso in cui fosse dipeso da lui, l’Italia non si sarebbe affrettata: “La speculazione si sarebbe abbattuta sul Paese. E alla fine il percorso sarebbe comunque proseguito. Oltre al danno, la beffa. L’incontro fra banchieri centrali nel marzo del 1997 essenzialmente mi dava ragione. L’Italia non poteva entrare nella moneta unica e sarebbe stato più saggio – come avevo più volte detto – rimandarne ingresso”. Ma Fazio, durante le trattative, non è riuscito (o forse non ha potuto) a imporre né le sue idee né la sua linea in materia. L’intervista prosegue con una disamina sulle previsioni che Fazio aveva in testa. L’ex banchiere non fa mistero di aver immaginato l’Italia in prospettiva durante quella fase così delicata: “Avremmo progressivamente perso reddito e produzione industriale. Purtroppo, avevo ragione. Se l’economia eurozona fosse cresciuta – annota Antonio Fazio – , saremmo cresciuti di meno. Se invece fosse arretrata, saremmo arretrati di più”. Insomma, una situazione molto lontana da un successo assicurato, secondo la ricostruzione dell’ex numero uno della Banca d’Italia. Ma nonostante lo specchietto sull’avvenire, Romano Prodi ha scelto nel 2001 di tirare dritto, accettando quanto gli era stato proposto in sede di dialettica europea, soprattutto dalla Germania. La disamina di Fazio prosegue, con una serie di ragionamenti che riguardano pure il potere delle singole nazioni all’interno del sistema dell’Euro. In realtà, con l’avvento del premier Mario Draghi, la situazione è cambiata in maniera repentina, e l’Italia è tornata a recitare una parte da assoluta protagonista. Ma l’ex governatore della Banca d’Italia fa presente comunque come i rapporti tra alcune nazioni siano sbilanciati secondo il suo punto di vista. Ad esempio quello tra la Germania e l’Olanda, che guadagnerebbe parecchio dagli equilibri per come sono stati concepiti. E noi? “Abbiamo arretrato su tutto – annota l’intervistato – . Consumi, investimenti e spesa pubblica. Tranne che sulla bilancia commerciale. E non perché esportiamo di più, ma perché importiamo di meno. Avendo fatto austerità, abbiamo diminuito l’import. Mentre l’export è cresciuto in proporzione di meno rispetto a quello di altri Paesi”. Si farebbe fatica, dunque, a rintracciare qualche elemento positivo. Il fronte “no Euro”, per fortuna, non esiste più. Ma Fazio non è il solo, in questi anni, ad essersi espresso in maniera critica su tempi del percorso e sulla qualità delle decisioni assunte a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio. E come alternativa, l’ex governatore non sembrerebbe suggerire un mancato ingresso, ma qualche attesa in più.
Il 15 agosto 1971 un discorso di Nixon cambiò l’economia mondiale. Stefano Magni su Inside Over il 14 agosto 2021. Il 15 agosto 1971, esattamente mezzo secolo fa, mentre il mondo era in vacanza, l’allora presidente degli Usa Richard Nixon annunciava in televisione una nuova politica economica che avrebbe rivoluzionato il sistema monetario mondiale. Pochi se ne accorsero allora e il 15 agosto è un anniversario celebrato solo da chi si occupa professionalmente di finanza. Eppure ha cambiato anche il nostro stile di vita. Cosa annunciò Nixon, in quello che ora è passato alla storia come “Nixon shock”? Sospese “temporaneamente” la convertibilità del dollaro in oro. Da allora la moneta cessò di essere un sistema di scambio basato sull’oro, come era sempre stato, ma una nota di credito il cui valore è interamente basato sulla politica monetaria degli Stati e delle banche centrali. E, in ultima istanza, nella fiducia che tutti noi riponiamo in queste istituzioni. Allora erano in vigore, dal 1945, gli accordi di Bretton Woods, un sistema detto di “gold exchange standard”. Non era più un “gold standard” puro in cui la moneta poteva essere emessa solo in proporzione alle riserve auree possedute dallo Stato ed era convertibile in ogni momento da qualsiasi portatore. Già nella Prima Guerra Mondiale gli Stati belligeranti avevano dovuto emettere molta più moneta rispetto alle riserve auree effettivamente possedute e il gold standard era in declino. La novità del gold exchange standard, negoziato nel 1944 a Bretton Woods, nel New Hampshire (in piena Seconda Guerra Mondiale) ed entrato in vigore nel dicembre 1945 (a guerra appena conclusa) era la dollarizzazione. La valuta di riferimento divenne il dollaro, le altre valute erano legate al dollaro da un sistema di cambi fissi e il dollaro stesso poteva essere emesso in base alle riserve auree disponibili. Solo il dollaro, dunque, poteva essere convertito in oro e solo le banche centrali potevano compiere questa operazione. La “sospensione temporanea” della convertibilità del dollaro fu decisa da Nixon durante la guerra del Vietnam. I costi del lungo conflitto (iniziato nel 1959 ed entrato nella sua fase culminante, con l’intervento militare diretto americano, nel 1965) e, contemporaneamente, la spesa sociale aumentata a causa del programma della Great Society del presidente Johnson, avevano costretto la Federal Reserve (la banca centrale statunitense) a emettere molta più moneta rispetto alle riserve auree, come nelle due guerre mondiali. Il dollaro, inflazionato, stava perdendo valore ed era sempre più soggetto alla speculazione internazionale. Per motivi che oggi chiameremmo “sovranisti”, il presidente Nixon, un Repubblicano, decise di prendere il controllo della politica monetaria in modo più diretto. Nel suo storico annuncio televisivo Nixon fu cautamente ottimista sulla prossima conclusione del lungo conflitto in Vietnam e lanciò un programma economico per una “nuova prosperità” nella pace che ne sarebbe seguita. Per aumentare l’occupazione, tagliò le tasse che gravavano sul lavoro, per combattere l’inflazione impose dei controlli per congelare i prezzi, per proteggere la produzione americana introdusse dei dazi e, infine, per stabilizzare il dollaro e proteggerlo “dagli speculatori”, che a suo dire erano gli unici che stavano guadagnando dalla crisi, sganciò il dollaro dall’oro. Non ci volle più di un anno prima che il sistema nato a Bretton Woods nel 1944 collassasse in tutto il mondo. A cinquant’anni di distanza, gli effetti a lungo termine dello “choc” nixoniano sono ancora oggetto di dibattito. Le banche centrali e gli Stati sono molto più liberi di controllare l’emissione della moneta. Per sostenere la crescita e l’occupazione è ormai prassi consolidata aumentare la liquidità. Così ha fatto Alan Greenspan (che pure era “nato” come sostenitore del gold standard) dopo l’11 settembre 2001, così come Ben Bernanke dopo la Grande Recessione del 2008 e infine Jerome Powell, attuale presidente della Fed nell’America che sostiene il disastro economico causato dalla pandemia di Covid-19. Il discorso di Mario Draghi del 2012, in piena crisi dei debiti sovrani, passato alla storia per l’espressione “Whatever it takes” e alla base delle iniezioni di liquidità della Banca centrale europea, è possibile solo in un sistema monetario completamente sganciato dall’oro. Questo è l’aspetto che gli economisti neo-keynesiani, monetaristi e anche teorici di scuole minoritarie, come la MMT (Modern Monetary Theory, nuova versione del vecchio “cartalismo”) ritengono comunque uno sviluppo positivo. Anche se si dividono su quanta liquidità immettere nel sistema e sull’opportunità di mantenere o meno l’indipendenza della banca centrale, piuttosto che sottoporla al controllo diretto del governo, concordano sul fatto che la moneta sia fiduciaria (“fiat money”) e non vincolata a una “commodity” fisica, come l’oro. I risultati diretti di queste politiche sono eclatanti. La liquidità globale, M2 (moneta, più i depositi in conto corrente, più tutte le attività ad elevata liquidità e valore certo), è cresciuta di 5 volte in un quarto di secolo, da 20mila a 100mila miliardi di dollari statunitensi. Soprattutto negli ultimi 20 anni, iniezioni di liquidità senza precedenti in occasione della Grande Recessione e della crisi dovuta alla pandemia, hanno portato ad un vero e proprio cambiamento di sistema. Assieme all’iper-liquidità è anche esploso il debito pubblico mondiale che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, attualmente ammonterebbe a 277mila miliardi di dollari Usa, pari al 365% del Prodotto Interno Lordo mondiale. È sostenibile un sistema così indebitato? Secondo una scuola economica di minoranza, la Scuola Austriaca di Economia, corriamo rischi inaccettabili. Oltre ai parametri macro-economici, i cinquant’anni che ci separano dal discorso di Nixon hanno portato ad un peggioramento del tenore di vita generale e a un aumento sensibile delle disuguaglianze fra ricchi e poveri. Questo processo non va inteso in senso assoluto: salvo rari casi, quasi mai abbiamo assistito a un impoverimento generale della società. Semmai, si è sempre meno ricchi di quel che avremmo potuto essere, se si fosse mantenuto il sistema precedente. Secondo i calcoli dell’Economic Policy Institute, la produttività negli Usa è cresciuta del 246% dal 1948 al 2017, i salari del 115%. Ma mentre, fino al 1971 salari e produttività crescevano di pari passo (in alcuni momenti, nei primi anni ’50, i salari sono cresciuti più rapidamente rispetto alla produttività), il divario diventa sempre più grande dopo il 1971. Altro indicatore utile è la disuguaglianza. Secondo i calcoli di un economista marxista, Thomas Piketty, dal 1971 al 2010 la quota di reddito nazionale lordo detenuta dal decile più ricco è passata dal 35 al 45-50%. Piketty attribuisce l’aumento della disuguaglianza alle politiche “neoliberiste”, ma è curioso che invece coincidano con il cambiamento del sistema monetario americano (e mondiale). In un sistema in cui la Banca centrale ha il pieno controllo sulla moneta, chi è più “vicino” al sistema finanziario e allo Stato tende ad arricchirsi di più rispetto agli altri produttori. Terzo: i dati dell’inflazione cumulativa negli Usa, mostrano come sia rimasta sostanzialmente stabile fino al 1971 (salvo alcuni picchi dovuti alle guerre), ma in crescita costante dopo il 1971. Se è cresciuta dal 98% al 306% dal 1920 al 1970, dal 1971 al 2015 è cresciuta dal 306% al 2326,6%. L’inflazione funziona come una tassazione invisibile: riducendo il potere di acquisto, erode i risparmi. Infine, ma non da ultimo, i fenomeni di iperinflazione sono enormemente aumentati dopo l’introduzione del nuovo sistema. Ce n’erano stati sei dal 1916 al 1921, fra cui la famosa iperinflazione tedesca, cinque dal 1941 al 1946, in occasione della Seconda Guerra Mondiale. Ma dopo il 1971 se ne contano ben 28 dal 1971 al 1996 e altri due (Zimbabwe e Venezuela) dopo il 2000. Uno storico non può fare a meno di notare che l’instabilità monetaria sia enormemente aumentata dopo lo “shock” nixoniano.
Nel 1971 la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Accordi di Bretton Woods, 50 anni dopo la stabilità del sistema monetario è ancora lontana. Angelo De Mattia su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Nell’agosto del 1971, l’amministrazione Usa decretò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro (35 dollari l’oncia). La grande quantità di richieste di conversione del biglietto verde indussero Nixon alla decisione di sospensione della convertibilità che poi divenne definitiva. Ma era maturato, prima negli studiosi, poi tra i politici l’intento di svincolare la moneta dal legame con il metallo giallo e di renderne più agile e discrezionale la manovra con la politica monetaria. Keynes aveva definito il legame con l’oro «barbarous relic». Comunque, il 15 agosto del ‘71 veniva meno il sistema monetario internazionale, poggiato sull’àncora dollaro a sua volta legato all’oro, delineato a Bretton Woods alla fine della seconda guerra mondiale, anche se diverso da come lo avrebbe voluto lo stesso Keynes. ma ciò accadeva quando si annunciavano le pesanti restrizioni in Italia e in molti Paesi europei con il primo shock petrolifero, le domeniche a piedi, la sopravveniente austerity. Ne sarebbero seguite misure drastiche sulle banche fino ad arrivare alla chiusura del mercato dei cambi per oltre un mese. Intanto si ingrossavano gli introiti dei Paesi produttori di petrolio e si denominava questa rendita crescente come la “tassa dello sceicco” che diede modo a Guido Carli, allora Governatore della Banca d’Italia, di elaborare un progetto per il reimpiego dei petrodollari incassati dai predetti Paesi che intanto circolavano e venivano denominati come xenovalute. Da quel 15 agosto il sistema monetario a livello internazionale – se di sistema si può parlare – non ha trovato una sua disciplina. Hanno agito gli organismi finanziari internazionali, il Fondo monetario, la Banca mondiale, più di recente lo Stability Board, con poteri settoriali; hanno svolto un qualche ruolo il G7, il G8 e il G20 e altri summit informali. Specifici coordinamenti si realizzano per la regolamentazione delle banche, in particolare presso la Banca dei regolamenti internazionali. Ma una funzione fondamentale è stata assolta dalle principali Banche centrali, innanzitutto dalla Federal Reserve e dalla Bce (nell’ultimo ventennio) nel coordinare, e non sempre, informalmente le rispettive politiche. Questi istituti, tuttavia, hanno curato, “in primis”, come del resto è naturale, gli interessi delle rispettive aree. Fare del Fondo monetario internazionale una sorta di Banca centrale mondiale, una specie di nuova àncora come forse l’avrebbe voluto Keynes – il quale aveva progettato una moneta globale, il “bancor” – preposta all’analisi e al controllo della liquidità internazionale è stata l’idea di alcuni personaggi autorevoli, tra cui Antonio Fazio, che tuttavia per ora non ha compiuto i pur possibili passi in tale direzione. In occasione del Giubileo del 2000 e, poi del G20 di Londra del 2009, fu rilanciata la proposta di istituzionalizzare la categoria dei “beni pubblici globali” ( l’acqua, il cibo, le medicine), ma si tratta di un’aspirazione rimasta tale, come quella, forse utopistica, di definire un nuovo diritto internazionale pubblico, un nuovo “ ius gentium”. La crisi del 2008 dei subprime, poi dei debiti sovrani e quella ancora stringente del covid-19 dimostrano la necessità di far progredire l’analisi e le proposte se non altro per coordinare e integrare le manovre monetarie a livello internazionale. D’altro canto, se si pensa alle difficoltà che si incontrano nell’integrazione europea che si vorrebbe attuare disconoscendo “in toto” il principio di sussidiarietà, cioè le autonomie dei singoli partner comunitari benché si tratti di un principio posto a base dei Trattati di Roma, si può dedurre come sia più difficile un processo di raccordo a livello internazionale. Eppure, anche per prevenire, fin dove possibile, le crisi finanziarie internazionali, la via dei raccordi più stretti appare inevitabile. La riacquistata libertà, a suo tempo, nei confronti dell’oro carica ancor più di responsabilità coloro che reggono la cosa pubblica. Dopo cinquanta anni è ancora la deduzione che si deve trarre. Angelo De Mattia
I problemi della deregulation. Sono passati 50 anni dalla fine del gold standard, ma non c’è nulla da festeggiare. Mario Lettieri e Paolo Raimondi il 18/8/2021 su L'Inkiesta. Il 15 agosto 1971 Richard Nixon annunciò che il dollaro non sarebbe stato più convertibile e rimborsabile in oro. L’ex presidente statunitense voleva spingere i Paesi industrializzati a rivalutare le loro monete rispetto al dollaro per ridurre il crescente deficit del Paese. Ma le cose andarono diversamente. Sono passati cinquant’anni dal discorso tenuto dal presidente Richard Nixon il 15 agosto 1971 in cui annunciava misure radicali per il futuro dell’economia e della politica mondiale. Non c’è, però, nulla da festeggiare. Infatti, allora si decise la fine del gold standard. Da quel momento il dollaro non sarebbe stato più convertibile e rimborsabile in oro. In teoria, fino a quel giorno i Paesi con riserve in dollari potevano in ogni momento richiedere la loro riconversione in oro. Gli Stati Uniti tornarono liberi di stampare moneta senza l’obbligo di possedere una quantità d’oro pari ai biglietti verdi in circolazione. Fu accantonato anche il regime dei cambi fissi, che regolava i rapporti tra le maggiori monete, uno dei pilastri del sistema di Bretton Woods, realizzato nella cittadina del New Hampshire nel 1944. Nel sistema monetario internazionale s’introdusse, invece, il cambio fluttuante, che è stato ed è sempre sotto la minaccia della speculazione dei mercati valutari. Purtroppo fu anche l’inizio della deregulation. Negli Stati Uniti furono congelati anche i salari e i prezzi per 90 giorni, con una sovrattassa del 10% sulle importazioni. I controlli sui prezzi bloccarono temporaneamente l’inflazione, che, però, ritornò poco dopo più forte di prima. Con la decisione unilaterale di far fluttuare il cambio del dollaro si aprì un periodo d’instabilità che portò alla svalutazione della valuta americana, che favorì i conseguenti shock petroliferi del 1974 e del 1979 e, alla fine degli anni settanta, portò i tassi di interesse della Federal Reserve al 20%. Fu uno choc economico globale senza precedenti. L’intento di Nixon era quello di indurre i Paesi industrializzati a rivalutare le loro monete rispetto al dollaro per ridurre il crescente deficit della bilancia dei pagamenti americana. Gli effetti, però, furono fuori controllo e incalcolabili. Le cose andarono diversamente. Le nuove “regole del gioco” spianarono la strada alla globalizzazione della finanza. È vero che la situazione economica americana non era più sostenibile, anche per i debiti dovuti alle spese della guerra in Vietnam. Le stesse riserve auree erano scese dai 24 miliardi di dollari del 1948 ai 10 del 1971. Da quel momento gli Stati Uniti hanno affrontato i loro deficit di bilancio e le loro spese crescenti stampando sempre più dollari. Anzi hanno inondato il mondo di dollari. Nel 1971 in Stati Uniti il rapporto debito pubblico/Pil era di 36,2%. Oggi ha superato il 135%. In realtà, si dovrebbero aggiungere i debiti dei due giganti immobiliari pubblici, Freddie Mac e Fannie Mae, che furono causa non secondaria della crisi del 2008. Da cinquant’anni l’America ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Per gestire un debito crescente e una situazione finanziaria sempre più malata, gli Stati Uniti hanno cambiato nel tempo molte altre norme, abbattendo l’intero apparato di regole realizzate dal presidente Franklin Delano Roosevelt per superare la Grande Depressione del ’29. In particolare nel 1998 fu accantonato il Glass Steagall Act, la legge del 1933, che stabiliva la separazione bancaria tra le banche commerciali e quelle d’investimento, proibendo alle prime di usare i depositi e i risparmi dei cittadini in operazioni finanziarie speculative e ad alto rischio. Dopo la Grande Crisi del 2008, dopo i giganteschi quantitative easing finanziari, le tante sfide planetarie e l’attuale crisi pandemica ed economica, dovrebbe essere chiaro che, per evitare pericolose guerre tra le valute, si dovrebbe costruire un nuovo accordo internazionale anche nel campo monetario. Potrebbe essere un sistema multipolare basato preferibilmente su un paniere stabile di monete. Purtroppo questo problema non è stato ancora risolto! Nel discorso del 1971 lo stesso Nixon parlò della «necessità urgente di creare un nuovo sistema monetario internazionale». Forse era consapevole più degli altri della gravità della sua decisione.
· I Bitcoin.
Dagotraduzione dal Sun il 9 dicembre 2021. Da quando i Bitcoin hanno iniziato a circolare, nel 2008, il loro misterioso creatore non è mai stato individuato. Secondo alcuni, Satoshi Nakamoto sarebbe un solitario informatico giapponese. Altri credono si tratti di uno pseudonimo. Ma c’è un ricco uomo d’affari australiano che sostiene di essere l’inventore della criptovaluta. Si chiama Craigt Wright, ha 51 anni ed è di Brisbane. Dice di essere lui il proprietario dei 1,1 milioni di Bitcoin depositati sull’account di Nakamoto e fino ad oggi rimasti immobili. Wright è stato citato in giudizio dai familiari di un suo amico, David Kleinman, convinti che ad inventare i bitcoin siano stati i due insieme, e decisi a chiedere al tribunale la metà dell’astronomica cifra dell’account di Nakamoto. Secondo Wright l’esito della sentenza ha dimostrato che è lui ad aver inventato i Bitcoin. Il tribunale lo ha condannato a pagare 70 milioni di sterline di danni alla famiglia del suo amico morto, Kleinman, ma non per via dei bitcoin. Wright ha però detto che ora donerà parte della sua fortuna in beneficenza in una transazione pubblica che dimostrerà la sua identità. Craig, che ha la sindrome di Asperger e, secondo quanto riferito, dorme solo quattro ore a notte, è l'unico ad aver affermato pubblicamente di essere l'inventore di Bitcoin. Ma negli anni i sospetti si sono posati su diversi personaggi. Ecco quali. Il miliardario Elon Musk Elon Musk ha fatto fortuna attraverso la sua compagnia di auto elettriche Tesla, Paypal e Space X. Il sudafricano è uno degli uomini più ricchi al mondo, ma secondo i fan potrebbe essere anche più ricco di quanto non dia a vedere. Un ex stagista di Space X, Sahil Gupta, nel 2011 ha scritto sul suo blog che Musk «probabilmente» era il creatore di Bitcoin. «Satoshi è probabilmente Elon». Ma Musk ha subito negato, raccontando anche di aver perso l’unico bitcoin in suo possesso. «Non è vero. Un amico mi ha inviao una parte di un BTC per alcuni anni, ma non so dove sia». La società di Musk, Tesla, ha sostenuto i bitcoin acquistando 1,5 miliardi di dollari di BTC e promettendo di accettare la valuta per le sue auto. Il criminale internazionale Paul le Roux Anche Paul le Roux, trafficante di droga internazionale e assassino, un tempo soprannominato il "Jeff Bezos del dark web", era stato collegato ai Bitcoin. Il sudafricano è un programmatore esperto che ha avviato un'attività di prescrizione farmaceutica online prima di espandersi nel contrabbando di droga. Le Roux ha incassato sulla crisi degli oppioidi negli Stati Uniti un importo di 300 milioni di dollari costruendo un'attività di prescrizione di antidolorifici online. Con la sua nuova ricchezza ha presto costruito un impero criminale globale. Secondo quanto riferito, le sue attività includevano il traffico di armi in Indonesia, il contrabbando di cocaina in Australia e la vendita di metanfetamine in Corea del Nord. È stato arrestato nel 2012 per aver tentato di contrabbandare droga negli Stati Uniti. Durante il suo processo del 2016 ha ammesso di aver ordinato e assistito a sette omicidi di suoi dipendenti e collaboratori. Nel caso giudiziario di Craig Wright, è stato reso pubblico un documento con una nota a piè di pagina contenente la pagina Wikipedia di Le Roux, il che ha portato alla speculazione che fosse in realtà il creatore. L'anno scorso è stato condannato a 25 anni. L’appassionato di software Gavin Andresen Alcuni rapporti affermano che Nakamoto ha consegnato il regno di Bitcoin allo sviluppatore e programmatore statunitense Andresen nel 2010. Ma alcuni credono che l'esperto di tecnologia si sia effettivamente consegnato a se stesso, uccidendo la sua falsa identità. Andresen ha fondato la Bitcoin Foundation nel 2012 per supportare lo sviluppo della valuta, lasciando il suo ruolo di sviluppo software nel 2014 per concentrarsi sul suo progetto preferito. L'americano si è ufficialmente dimesso da Bitcoin nel febbraio 2016 e da allora non è stato coinvolto nella valuta. Nel 2016, Andresen ha dichiarato pubblicamente che pensava che Craig Wright fosse il creatore di Bitcoin. Ha detto: «Ne sono convinto». Il professore universitario Vili Lehdonvirta L'accademico finlandese Vili è stato uno dei primi ad essere proposto dalla rete come possibile Nakamoto, nel 2011. Il New Yorker ha nominato il ricercatore dell'Università di Oxford come l'inventore di Bitcoin. Si sono rivolti all'economista dopo che il crittografo irlandese Michael Clear ha detto alla rivista Vili che corrispondeva al profilo di Satoshi. Ma Lehdonvirta ha dichiarato alla rivista: «Mi piacerebbe dire che sono Satoshi, perché Bitcoin è molto intelligente. Ma non sono io». Il professore aveva fatto ricerche su Bitcoin ma si era detto contrario alla valuta anonima. Ha detto: «Le uniche persone che hanno bisogno di contanti in grandi tagli in questo momento sono i criminali». Il genio delle criptovalute Nick Szabo Nel 1998 l'informatico Szabo scrisse una proposta per una valuta online chiamata "Bit Gold", con una strana somiglianza con Bitcoin. Nel 2008, il tecnico ha scritto sul suo blog che voleva trasformare Bit Gold in realtà. I linguisti hanno studiato la scrittura di Szabo e l'hanno confrontata con Nakamoto nel 2014 e hanno trovato sorprendenti somiglianze. Il rapporto diceva: «Nessuno degli altri possibili autori era nemmeno lontanamente simile a una corrispondenza». Ma lui ha negato le affermazioni in un tweet, scrivendo: «Non sono Satoshi, ma grazie».
Dagotraduzione da The Wall Street Journal il 16 novembre 2021. In Florida si sta svolgendo un processo apparentemente ordinario: la famiglia di un uomo deceduto sta facendo causa al suo ex socio in affari per il controllo dei beni della loro partnership. In questo caso, gli asset in questione sono una cache di circa un milione di bitcoin, pari a circa 64 miliardi di dollari odierni, appartenenti al creatore di bitcoin, noto con il suo pseudonimo Satoshi Nakamoto. La famiglia del morto dice che lui e il suo socio in affari insieme erano Nakamoto, e quindi la famiglia ha diritto a metà della fortuna. Chi è Satoshi Nakamoto è stato uno dei misteri duraturi del mondo finanziario. Il nome si riferisce a una persona? O a tante persone? E perché lui o lei o loro non hanno toccato un centesimo di quella fortuna? Le risposte a queste domande sono al centro della disputa della Florida e dello stesso bitcoin. Bitcoin è diventato un mercato da trilioni di dollari, con decine di milioni di investitori. Ha sfidato i governi che cercano di regolamentarlo mentre altri lo hanno fatto proprio. La tecnologia alla base è vista da alcuni come un modo per ricablare il sistema finanziario globale. Eppure, chi l'ha creato e perché è rimasto un mistero. Ed è quelllo che una giuria della Florida cercherà di affrontare. La famiglia di David Kleiman ha fatto causa al suo ex socio in affari, un programmatore australiano di 51 anni che vive a Londra di nome Craig Wright. Il signor Wright sostiene dal 2016 di aver creato bitcoin, un'affermazione respinta dalla maggior parte della comunità bitcoin. La famiglia del signor Kleiman sostiene che i due hanno lavorato e hanno estratto bitcoin insieme, dando diritto alla famiglia del signor Kleiman a mezzo milione di bitcoin. «Crediamo che le prove dimostreranno che c'era una partnership per creare ed estrarre oltre un milione di bitcoin», ha affermato Vel Freedman, avvocato della famiglia Kleiman. I querelanti intendono produrre prove che dimostrino che i due sono stati coinvolti in bitcoin sin dal suo inizio e hanno lavorato insieme. «Parla di due amici che avevano una relazione e di come uno di loro abbia cercato di prendersi tutto per sé dopo che l'altro è morto», ha detto Tibor Nagy, un avvocato che ha osservato il processo. La difesa ha affermato di avere prove che dimostreranno che il signor Wright è il solo creatore di bitcoin. «Crediamo che la corte scoprirà che non c'è nulla che indichi o registri che erano in una partnership», ha detto Andrés Rivero, avvocato di Mr. Wright. Per i bitcoiner, c'è solo una prova che potrebbe dimostrare in modo conclusivo l'identità di Satoshi Nakamoto: la chiave privata che controlla l'account in cui Nakamoto ha conservato il milione di bitcoin. Chiunque affermi di essere Satoshi Nakamoto potrebbe dimostrare di averli spostando anche solo una frazione di moneta. Il mistero di Satoshi Nakamoto è una delle curiosità di bitcoin. Il 31 ottobre 2008, qualcuno usando quel nome ha inviato un documento di nove pagine a un gruppo di crittografi spiegando un sistema di "contanti elettronici" che permetteva alle persone di scambiare valore senza la necessità di una banca o di un'altra parte. Pochi mesi dopo, la rete bitcoin è diventata attiva e Nakamoto ha raccolto un milione di bitcoin nel suo primo anno. È stato all'inizio del 2008 che la famiglia del signor Kleiman ha affermato che il suo socio in affari, il signor Wright, ha chiesto l'aiuto del signor Kleiman per quello che sarebbe diventato quel giornale di nove pagine. Hanno collaborato al white paper e lanciato bitcoin insieme. Bitcoin combina crittografia, calcolo distribuito e teoria dei giochi. Con bitcoin, due persone, in qualsiasi parte del mondo con una connessione Internet, potrebbero effettuare transazioni senza intermediari in pochi minuti. Per ognuna delle oltre 650 milioni di transazioni bitcoin, tutte pubblicamente visibili su un registro chiamato "blockchain", ci sono due stringhe di numeri che controllano come viene spostata la valuta digitale: una chiave pubblica e una chiave privata. Chiunque può inviare bitcoin alla chiave pubblica o all'indirizzo di destinazione, che è simile a un conto bancario. Solo la persona che controlla l'account avrà la chiave privata ed essenzialmente possiederà il bitcoin. Agli albori di bitcoin, a nessuno importava molto dell'identità di Nakamoto. Bitcoin non aveva alcun valore tangibile e solo un piccolo gruppo di sostenitori. Nakamoto è stato attivo nel suo sviluppo per circa due anni, scrivendo su bacheche e inviando e-mail agli sviluppatori. Nel dicembre 2010, Nakamoto, che era noto per utilizzare due indirizzi e-mail e avere un sito Web registrato, ha smesso di postare pubblicamente; essenzialmente, Nakamoto è scomparso. L'universo delle persone con le conoscenze tecniche per creare bitcoin è limitato. La maggior parte dei nomi di spicco della crittografia sono stati etichettati come Nakamoto. Tutti lo hanno negato e nessuna prova ha mai collegato nessuno in modo definitivo alla creazione di bitcoin. Nel frattempo, nel 2011, il signor Kleiman ha costituito una società in Florida chiamata W&K Info Defense Research. La sua famiglia sostiene che si trattasse di una società e che il signor Wright in seguito abbia cercato di rivendicarne la proprietà assoluta. La difesa dice che in realtà non c'era alcuna partnership. Il signor Kleiman è morto il 26 aprile 2013. L'anno successivo, Newsweek ha riferito che un uomo con lo stesso cognome di Satoshi, Dorian Nakamoto, era il creatore di bitcoin. Lui ha negato l'affermazione e, su una bacheca, un post di una frase da un account noto per essere stato utilizzato dal vero Nakamoto ha concordato: «Non sono Dorian Nakamoto». Se era un messaggio genuino dal creatore di bitcoin, è stato l'ultimo di Nakamoto. Nel maggio 2016, il signor Wright ha affermato di essere il fondatore di bitcoin. Ha incontrato molti dei primi pionieri del bitcoin, ha rilasciato interviste esclusive a tre media e ha riempito un sito Web con documenti che aveva scritto su crittografia e bitcoin. Tre giorni dopo, di fronte a critiche feroci, ha rimosso tutto dal sito Web e l'ha sostituito con scuse. «Mi sono rotto», ha scritto. «Non ho il coraggio. Non posso». Da allora ha continuato a sostenere di essere lui ad aver creato i bitcoin. Il signor Wright «ha hackerato e ingannato le persone, giocando al gioco della fiducia», ha affermato Arthur van Pelt, un investitore di bitcoin che è emerso come uno dei critici più accesi di Mr. Wright. «Non esiste alcuna prova autentica, indipendente e credibile di alcun genere». L'esperienza informatica di Mr. Kleiman era nota per essere vasta. È possibile che Mr. Kleiman abbia creato bitcoin, ha affermato Emin Gun Sirer, fondatore di Ava Labs, ma non ci sono abbastanza informazioni per essere sicuri. «È una domanda aperta», ha detto.
Massimo Basile per repubblica.it il 16 novembre 2021. Una causa per eredità potrebbe sciogliere il grande mistero su chi sia il vero inventore del bitcoin. Satoshi Nakamoto, giapponese, 46 anni, da tredici è considerato il misterioso padre della criptovaluta, colui che il 31 ottobre 2008 pubblicò un documento di nove pagine in cui annunciava la nascita della moneta digitale che avrebbe bypassato le banche e aperto la strada a una nuova era finanziaria. Ma il suo sarebbe solo uno pseudonimo, dietro il quale si nasconderebbe un altro, o forse un gruppo di persone. Anni fa era circolata anche una foto di Nakamoto: mostrava un uomo dai tratti asiatici, capelli brizzolati, lunghi e spettinati, occhiali tondi dalla montatura leggera e l’espressione sorpresa, le labbra appena arricciate, come di uno appena beccato dai fotografi. Secondo i cryptoinvestigatori non ci sarebbe un solo Nakamoto ma due, tre, forse cinque. Ogni tanto qualcuno è uscito allo scoperto per rivendicare l’invenzione, salvo poi eclissarsi. Adesso il mistero potrebbe essere a una svolta. Dietro lo pseudonimo ci sarebbero due programmatori: David Kleiman, scomparso nel 2013, e Craig Wright, 51 anni, australiano che vive a Londra. Il caso è emerso perché la famiglia del defunto si è rivolta a un tribunale della Florida per chiedere metà del patrimonio in moneta digitale che sarebbe stato creato dai due, e che ammonterebbe complessivamente a un milione di bitcoin, cioè circa 64 miliardi di dollari. Una cruda battaglia per l’eredità da era predigitale potrebbe riscrivere la storia della moneta virtuale. Da anni Wright sostiene di essere il vero inventore, ma la comunità dei bitcoin non gli ha mai creduto. La famiglia di Kleiman è sicura di provare come dietro Nakamoto ci fossero due persone: Wright e colui che gli diede una mano, Kleiman. I due avrebbero scritto insieme anche il celebre documento che annunciò nel 2008 l’inizio di tutto. «Noi siamo convinti - ha spiegato Vel Freedman, avvocato della famiglia - che ci fu una stretta collaborazione per creare il primo milione di bitcoin e lo dimostreremo». Secondo i documenti presentati in Tribunale, e di cui parla il Wall Street Journal, ci sarebbero tracce del lavoro svolto insieme dai due programmatori, attraverso una società di Kleiman, creata in Florida. I legali di Wright contestano questa ipotesi. «Mai stata collaborazione tra i due». Per gli amanti del genere c’è solo una cosa che può svelare in modo definitivo l’identità di Nakamoto: la chiave privata d’accesso che controlla l’account dove si trova il milione di bitcoin. Il giudice potrebbe chiederla come prova. Forse potrebbe non aiutare la causa della famiglia Kleiman, ma renderebbe Wright a tutti gli effetti il titolo di Mr. Bitcoin.
Flavio Bini per “la Repubblica” il 9 settembre 2021. Non proprio entusiasmante il debutto del Bitcoin nell'alta società delle valute. Martedì, proprio mentre la moneta digitale iniziava il suo corso legale a El Salvador, al pari del dollaro, la sua quotazione è precipitata vicino ai 45 mila dollari, quasi quindici punti sotto i livelli di inizio settimana. Il presidente Nayib Bukele, cripto-entusiasta, ha scelto comunque di guardare il bicchiere mezzo pieno. Approfittando del ribasso dei prezzi, ha annunciato l'acquisto di 550 Bitcoin, pari a circa 25 milioni di dollari. Numeri modesti per i conti di uno Stato, ma dal gran valore simbolico visto che il Paese è stato il primo a concedere al Bitcoin lo status di valuta legale. Per spingere la svolta il governo ha offerto ai cittadini l'equivalente di 30 dollari, pre-caricati su Chivo Wallet, la app di Stato dove è possibile custodire il denaro digitale. L'incentivo però non sembra essere bastato e alcuni cittadini sono scesi in piazza per contestare la scelta del governo. Anche perché il Paese ha seri problemi finanziari da risolvere e sta trattando con il Fondo Monetario un maxi sostegno da 1 miliardo. In dollari, non Bitcoin.
El Salvador apripista. Ora adotta il Bitcoin. Roberto Fabbri l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. Il Paese più povero al mondo è il primo a introdurre la criptovaluta insieme al dollaro. Gli occhi di mezzo mondo sono puntati, assai insolitamente, su uno dei Paesi più poveri del mondo: El Salvador. Nayib Bukele, imaginifico presidente quarantenne di questo staterello centroamericano che campa primariamente sulle rimesse dei suoi emigrati all'estero (molti sono anche qui in Italia, di solito impegnati come badanti o custodi), ha infatti deciso che El Salvador sarà il primo Paese al mondo ad adottare Bitcoin il capostipite delle criptovalute come valuta ufficiale nazionale accanto al dollaro degli Stati Uniti (la storica valuta nazionale, il colòn, è carta straccia da almeno vent'anni). Una sorta di esperimento in vivo, osservato con estrema attenzione sia da quanti credono fermamente che le criptovalute arriveranno un giorno a soppiantare le attuali monete nazionali e i relativi sistemi bancari tradizionali, sia da coloro che profetizzano che invece di risolvere i problemi causati dalle monete «fisiche», esse ne creeranno degli altri potenzialmente più drammatici: basti pensare alle enormi difficoltà di gestire valute virtuali da parte di chi non dispone di conoscenze e tecnologia adeguate. Questo anche in Paesi avanzati, figurarsi a El Salvador, dove il 70 per cento della popolazione non ha nemmeno un conto in banca. Tutto ciò premesso, il presidente Bukele ha ormai varcato il suo Rubicone. Già nel giugno scorso, a una conferenza internazionale sulle criptovalute tenuta a Miami, aveva detto di credere che i bitcoin avrebbero reso più facile e conveniente per i salvadoregni che lavorano all'estero inviare denaro a casa: un tema assai sentito in Salvador, considerato che le compagnie di «cash transfer» arrivano a farsi pagare anche più del dieci per cento sul valore totale di ogni transazione. A quanti già allora gli obiettavano che far diventare i bitcoin valuta ufficiale del Paese avrebbe esposto milioni di persone povere e semplici alle brutali fluttuazioni del valore di quella valuta, Bukele replicava di aver fiducia che «questa decisione potrà essere l'inizio di un futuro in cui leader innovatori sapranno reinventare il concetto di finanza, dando aiuto a miliardi di persone nel mondo». Nayib Bukele gode di enorme popolarità nel suo Paese, anche se i suoi (pochi, al momento) oppositori ne segnalano la tendenza alla megalomania e invitano a diffidare del suo look ostentatamente semplice, jeans aderenti e cappellino da baseball perennemente in testa. L'idea di lanciare il bitcoin come valuta nazionale accanto al dollaro gli è venuta dopo che due californiani, Michael Peterson e Nicolas Burtey, hanno lanciato due anni fa nella località turistica salvadoregna di El Zonte il progetto «Bitcoin Beach»: ogni transazione poteva essere pagata con bitcoin. Passo dopo passo, i due sono riusciti a convincere Bukele dell'opportunità di una rivoluzione monetaria che avrebbe, a loro dire, avvantaggiato i più poveri e creato posti di lavoro e attirato investimenti dall'estero. Ora il dado è tratto: la legge in vigore da ieri prevede che i bitcoin debbano essere accettati come mezzo di pagamento in tutto il Paese qualora vengano offerti, salvo che gli interessati non siano privi della tecnologia necessaria. Per incoraggiarne l'uso, la criptovaluta non sarà soggetta a capital gain e potrà perfino essere utilizzata per pagare le tasse. Ma per coprirsi le spalle, un fondo di 150 milioni di dollari verrà messo a disposizione della banca di sviluppo del Salvador per permettere a chi lo vorrà di cambiare i bitcoin nei vecchi e sicuri verdoni americani: così a naso, pare difficile che bastino. Roberto Fabbri
Tocca al governo battere un colpo. Criptovalute, cosa sono e come funzionano le 5 mila monete virtuali in circolazione nel mondo. Angelo De Mattia su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Sulla diffusione che sta aumentando delle criptovalute e, più in generale, degli strumenti virtuali, dopo l’importante “Discorso al mercato” del presidente della Consob, Paolo Savona, è da attendersi, nei modi che saranno ritenuti più idonei, l’indicazione di una posizione del Tesoro e/o di Palazzo Chigi, data la rilevanza dell’argomento. Dopo il “bitcoin” sarebbero in circolazione nel mondo 5 mila monete virtuali, senza una regolamentazione, senza controlli. La Consob ha sollevato il problema e indicato alcune soluzioni perché ha il dovere di assicurare sulle diverse forme di risparmio e sulle relative contrattazioni trasparenza, correttezza e diligenza; deve garantire anche sul “risparmio virtuale” un’informazione quanto più completa e affidabile; soprattutto sa che il risparmio è uno dei punti di forza della nostra economia (insieme con le esportazioni) e che la sua tutela è sancita dall’art.47 della Costituzione. Occorre, dunque, disciplinare questo fenomeno in fase di sviluppo, sul quale ora non si esercita né la Vigilanza pubblica, né quella “privata” (i collegi sindacali e le altre forme di controllo). Ma non basta: occorrerà, poi, disporre delle chiavi di accesso alla “blockchain”, ai circuiti contabili decentrati relativi a tali monete. Dunque, si pone l’esigenza non solo di norme e riscontri, ma anche di capacità di sfruttare le opportunità che si aprono con l’evoluzione delle tecnologie e le applicazioni dell’intelligenza artificiale. Temi, tutti, che impattano anche sulla privacy e, salendo per i rami, toccano profili etici e la stessa democrazia. In primo piano viene la salvaguardia della sicurezza informatica. In sostanza, si può dire che si profila un nuovo mondo. Ma deve essere chiaro che le criptomonete, anche quando saranno regolate, non potranno avere valore liberatorio e solutorio, non potranno essere la moneta “sovrana” a corso legale che, invece, spetterà emettere soltanto alle banche centrali. Tuttavia, se si dovesse determinare, ha detto Savona, uno squilibrio quantitativo e qualitativo tra monete a corso legale e monete “private”, ciò potrebbe fare scattare la famosa legge di Gresham secondo la quale la moneta cattiva scaccia la moneta buona. In ogni caso e necessario intervenire adottando le necessarie regole. Se si tarda ancora, mentre a livello europeo si progetta un Regolamento, ma non con la celerità che sarebbe dovuta, allora l’Italia dovrà decidere autonomamente. Ciò è necessario anche perché sull’uso di questi strumenti virtuali sono insorti conflitti tra privati e tra questi e le Autorità di Vigilanza che sono stati sottoposti all’esame delle Magistrature, le quali non hanno potuto fare altro che pronunciarsi in base al diritto vigente con procedimenti analogici, ricorso ai principi generali e spunti interpretativi. Poi il presidente ha avanzato una serie di proposte che vanno dai rapporti tra Authority e Governo, al raccordo tra Autorità di settore – Consob, Ivass e Covip – alla costituzione di un’unica controparte, un organismo nazionale per la stabilità macro-prudenziale, dell’apposito Comitato europeo. I problemi sollevati sono di grande momento. Non si capisce perché anche altri, pure competenti in materia, non li abbiano fin qui posti con la stessa urgenza e con gli stessi “caveat”. Sono temi riconducibili in parte anche alla transizione tecnologica di cui al Piano di ripresa e resilienza, ma esigono risposte in tempi rapidi se si vuole tutelare adeguatamente il risparmio ed evitare altresì che le nuove monete provochino anche problemi alla conduzione della politica monetaria. La Consob con il suo Presidente ha presentato un piano. Ora sono gli altri attori istituzionali che devono rispondere. Angelo De Mattia
Fabrizio Goria per “la Stampa” il 14 maggio 2021. Il giorno più nero dei Bitcoin ha la firma di Elon Musk. Non è noto se sia stata solo la smania di protagonismo di un personaggio istrionico e carismatico come il numero uno di Tesla e SpaceX, ma il risultato è stato il collasso della criptomoneta più celebre, con il prezzo crollato del 10% dopo aver perso fino al 16%, ben sotto quota 50mila dollari. È bastato un tweet, in cui Musk ha annunciato che le sue società non accetteranno pagamenti in Bitcoin, per scatenare un putiferio sui mercati finanziari. Un patatrac che potrebbe avere ripercussioni legali. Dove non sono riusciti i banchieri centrali, ha potuto Elon Musk. Dopo anni di allarmi, andati a vuoto, sulla solidità intrinseca e sui rischi sugli investimenti in criptodivise da parte di Banca centrale europea (Bce), Federal reserve e controparti britanniche e nipponiche, è bastato un tweet lanciato nella notte italiana dal patron di Tesla. Sono troppe, secondo Musk, le problematiche relative al consumo energetico nei processi di mining, ovvero la creazione di un singolo Bitcoin. Costano i server, ma soprattutto costa l' energia elettrica per alimentarli. Un problema noto da anni, come rimarcato più volte dalla Bce, che ha calcolato come la formazione di Bitcoin consumi, a livello globale, più elettricità di quanta ne richiedano i Paesi Bassi in un anno. Nello specifico, 115,85 terawattora contro i 108,8 Twh dell' Olanda. Tutto documentato. Dal 2018. Musk ha però deciso solo oggi di prendere a cuore la questione della sostenibilità energetica dei Bitcoin. Con la conseguenza che la risposta dei mercati finanziari non si è fatta attendere. Duro il commento di Nigel Green, amministratore delegato di deVere Group. «All' improvviso, Musk non è così entusiasta a causa dei problemi di sostenibilità ambientale. Ma perché adesso? Quelle questioni relative all' impatto ambientale non sono emerse negli ultimi mesi? Davvero non sapeva nulla di queste perplessità prima di acquistare 1,5 miliardi di dollari di Bitcoin?», dice Green. Infatti, la vicenda diventa grottesca se si pensa che a febbraio Musk aveva deciso di accettare pagamenti in Bitcoin per le sue autovetture a marchio Tesla. Il miliardario nato a Pretoria, in Sud Africa, non è però nuovo a iniziative social dettate dall' euforia. A gennaio il supporto a GameStop, la quasi defunta catena fisica di videogiochi. Pochi giorni fa, l' appoggio a Dogecoin, criptovaluta nata per scherzo. Ora, Bitcoin. E domani? Una domanda che si stanno ponendo non solo investitori istituzionali e risparmiatori individuali, ma anche le autorità di vigilanza dei mercati finanziari. «Il tweet di Musk ha prodotto perdite per poco meno di 366 miliardi di dollari, nell' intero universo delle valute digitali, da Bitcoin a Ethereum, passando per Ripple e Litecoin», spiegano gli analisti di Wells Fargo. In parte sono state recuperate, ma il problema di fondo resta. Le implicazioni legali, ed etiche, dell'atteggiamento di Musk sui social media sono tutte da definire. Dalla manipolazione dei mercati all' insider trading, le ipotesi di reato possono non essere poche. Gli occhi della Securities and exchange commission (Sec), l'authority finanziaria statunitense, sono aperti. E, stando alle indiscrezioni che trapelano dagli ambienti governativi di Washington, non è escluso che venga aperto un fascicolo d' indagine sulle operazioni di Musk.
Pierangelo Soldavini per il "Sole 24 Ore" il 14 aprile 2021. Non solo Elon Musk con la sua Tesla, i gemelli Winklevoss, PayPal con tanto di wallet digitale, Blackrock e Fidelity, seguite dalle grandi banche Usa. Ora le criptovalute fanno il loro ingresso ufficiale a Wall Street: con l'annunciata quotazione di Coinbase al Nasdaq, ora si può investire su un'azienda interamente dedicata alle valute digitali, che farà da benchmark per l'intero settore. Non certo un'azienda qualsiasi: Coinbase è uno dei più grandi exchange globali, con sede negli Stati Uniti, che ha "sdoganato" un mondo spesso opaco e poco trasparente aprendolo alla compliance e al rispetto delle regole. Attraendo così una massa crescente di utenti affascinati dal bitcoin e, soprattutto, dalle sue performance finanziarie. La realtà della piattaforma è nei numeri, lievitati sulle ali della criptomania degli ultimi mesi. Nel primo trimestre di quest' anno gli utenti registrati e certificati sono cresciuti di 13 milioni a un totale di 56 milioni, con un volume di transazioni di 335 miliardi di dollari che hanno garantito a Coinbase una revenue di 1,8 miliardi con un utile netto stimato tra 730 e 800 milioni. In soli tre mesi ha fatto già più dell'intero 2020, chiuso con un utile di 322 milioni su un fatturato di 1,3 miliardi. Numeri che lasciano presagire una capitalizzazione che potrebbe arrivare ai 100 miliardi già toccati nelle scorse settimane. Il debutto al Nasdaq avviene oggi sulla base di un direct listing delle azioni già scambiate sui mercati privati, dove la valutazione si aggirava negli ultimi giorni attorno a 91 miliardi. Coinbase può così valorizzare un marchio consolidato e affidabile nell' ambito del criptomondo che punta a sfruttare la sua leadership conquistata in questi anni e ora rafforzata da una domanda crescente, che «non giunge più solamente dalla clientela retail - sottolinea un paper di Amundi Sgr -. Il numero di società, investitori istituzionali e fondi d'investimento interessati soprattutto, ma non solo, al bitcoin, è in continua espansione», lasciando presagire ulteriori rialzi delle quotazioni. L'entusiasmo in vista della quotazione ha così trainato l' intero comparto delle criptovalute anche ieri con il bitcoin risalito al nuovo record sopra quota 63mila dollari, in rialzo di oltre il 5% nella giornata, su livelli più che raddoppiati rispetto a inizio anno quando era poco sotto i 30mila dollari. Nuovi massimi anche per ethereum, la seconda criptovaluta per capitalizzazione (260 miliardi contro i 1.180 circa di bitcoin) balzata dell' 8% oltre i 2.270 dollari. L'aumento di volumi e di quotazioni non può che soffiare nelle vele di Coinbase che deriva la quasi totalità delle sue revenue dalle commissioni sulle transazioni. L'attesa di una continua corsa dei prezzi alimenta così una quotazione che, su questi livelli, si aggira su un multiplo di 90 volte gli utili, facendone la Borsa con i multipli più elevati: in confronto Ice, che controlla il Nyse, è scambiata a circa 31 volte gli utili, il Nasdaq si ferma a 28, Euronext a 20. Solo il London Stock Exchange si avvicina con un p/e attorno a 64. Ma quella che è la grande forza di Coinbase si trasforma anche nella sua più evidente fragilità: l'alta dipendenza dalle commissioni espone l' exchange all' altissima volatilità delle criptovalute. Anche se il crescente interesse degli ultimi mesi da parte di società, fondi e operatori istituzionali lascia intravedere un aumento dell'attività anche nel caso di repentine correzioni al ribasso come solo il bitcoin ha saputo fare nella sua storia, la società guidata dall' iconico Ceo e co-fondatore Brian Armstrong sta cercando una faticosa diversificazione di attività. Ma il rischio maggiore viene con ogni probabilità dalla concorrenza. Le criptovalute non permettono ancora di poter permettere trading a zero commissioni come si va diffondendo in ambito azionario sull' onda di Robinhood, ma già oggi diversi competitor offrono condizioni decisamente più vantaggiose, senza dimenticare che si stanno facendo avanti colossi dei pagamenti come PayPal e Square e che da un momento all'altro anche Big tech potrebbe entrare in campo. Per il momento Coinbase può veleggiare sull'onda dell' affidabilità del suo marchio e della sicurezza garantita dal suo servizio. Ma non è detto che anche l'exchange che oggi entra a Wall Street dalla porta principale finisca per rimanere indietro nel campo dell' innovazione. Nel doppio binario tra bolla speculativa e nuovo paradigma della finanza, come indica il titolo del paper di Amundi, Coinbase rischia di essere superata da listini completamente decentralizzati (si veda il pezzo qui sotto, ndr) basati su blockchain. Anche in ambito cripto è vietato sedersi sugli allori.
Bitcoin: cosa sono, come funzionano, i rischi e chi si arricchisce (tanto). Le Iene News il 13 aprile 2021. Torniamo a parlarvi di Bitcoin con Matteo Viviani tre anni dopo il primo servizio. Torniamo anche a Rovereto, in Trentino, dove la criptovaluta si può usare nei negozi. E vi raccontiamo soprattutto i vertiginosi aumenti di valore della moneta virtuale, anche come investimento rifugia durante la crisi da pandemia, i rischi che si possono correre e chi si arricchisce, a volte tantissimo. Avere 8 milioni di euro in due “aggeggini” e allo stesso tempo non averli. Matteo Viviani parte da questo paradosso di una donna per tornare a parlarci dopo tre anni di Bitcoin. La criptovaluta digitale esiste solo come moneta digitale e il suo valore è determinato dalla legge della domanda e dell’offerta. La domanda continua ad aumentare, assieme così al prezzo. Con un dato inalterabile: l’emissione arriverà a 21 milioni di Bitcoin circa nel 2140, dopo saranno finiti. Non possono quindi essere stampati a volontà ma sono una risorsa comunque limitata, come l’oro. E come l’oro, in quanto bene rifugio, hanno visto il valore crescere ancora di più in un momento di crisi come questo della pandemia. I trend sono comunque da tempo in grande ascesa: siamo passati dagli 8.000 dollari del 15 aprile 2018 ai quasi 60.000 di oggi per un Bitcoin. In America sono entrati nei salotti finanziari che contano con investimenti da parte di colossi economici, come nel caso recente e famoso di Elon Musk e Tesla, il big delle auto elettriche, che due mesi fa ha annunciato l’acquisto di Bitcoin per 1,5 miliardi di dollari. L’esperimento potrebbe ancora fallire, certo, però la crescita resta vertiginosa. Torniamo tre anni dopo a Rovereto, nella “Bitcoin valley” del Trentino: qui in molti negozi si può pagare anche in criptovaluta. Questo esperimento ha già avuto successo, con cambi quasi quintuplicati di chi li ha messi da parte. C’è anche chi come Nicolas, argentino, ha fatto scelto di usare solo Bitcoin, trasferendosi appunto a Rovereto. Si tratta però più di uno strumento di investimento, altamente speculativo, che di una moneta in grado di circolare per acquisti e vendite normali visti i veloci, continui forti cambi di quotazione. Ci sono ovunque storie di ogni tipo: Martino nel 2013 ha perso i suoi 50 Bitcoin comprati con 650 euro (oggi varrebbero due milioni e mezzo!) su un sito che è semplicemente “sparito”. È per evitare questo che si usano gli “wallet”, i portafogli che contengono le proprie criptovalute protetti da molte password, a volte in “aggeggini” simili a chiavette usb. Come quelli della giovane donna di Brindisi da cui siamo partiti. Un anno fa ha perso il marito in un incidente stradale. Era un appassionato di Bitcoin, che custodiva in quegli “aggeggini” che ci mostra, protetti appunto da una serie di password. Non le ha lasciate scritte, dentro ci sono oggi otto milioni di euro, partendo da un investimento iniziale di 500 euro. Sta cercando di recuperarle. Oppure c’è Andrea, idraulico. Un amico lo chiama e gli dice: “Svegliati, compra almeno qualche Bitcoin!”. Ci investe 6-7mila euro, diventati 24.500 e custoditi in un buon wallet. Un giorno ha visto sparire tutto, qualcuno glieli ha portati via. Come? Andrea aveva scaricato sul telefonino un’app prodotta da dei criminali che clona password e arriva agli wallet. Attenzione quindi: studiate tutto prima. L’esplodere futuro di una bolla speculativa è tra l’altro sempre possibile, anche se per ora i valori nel tempo continuano a crescere, tantissimo.
· Tassopoli.
Alberto Brambilla per corriere.it il 17 Dicembre 2021. Che da troppo tempo ci sia un forte scollamento tra la classe politica e la vita reale, è certificato dai dati economici e sociali: nelle classifiche europee il nostro Paese primeggia per debito pubblico ed evasione fiscale mentre è agli ultimi posti per redditi da lavoro e tasso di occupazione. È ai primissimi posti per spesa sociale ma al contempo detiene il record per l’aumento della povertà assoluta e relativa. E poiché gran parte della spesa e del debito se ne va per sussidiare una bella fetta di popolazione non c’è da stupirsi se gli effetti finali di questa politica del consenso sono una forte mancanza di lavoratori, una scarsa organizzazione del lavoro, un’evasione di massa e una pauperizzazione.
Spesa pubblica
Vediamo in sintesi alcuni dati. Nel 2020 la spesa per pensioni (234 miliardi), assistenza sociale (144,76 miliardi), sanitaria (123,5 miliardi) e quelle per il welfare degli enti locali e il sostegno al reddito valgono 510 miliardi pari al 54% dell’intera spesa pubblica; basterebbe questo dato a far smettere i politici dal promettere di tutto e di più.
Prestazioni
Ma c’è dell’altro: per pensioni e assistenza sociale gli enti pubblici hanno erogato circa 90 miliardi di prestazioni esenti da tassazione; soldi netti che con alta probabilità andranno ad alimentare il sommerso come i beneficiari della flat tax il cui ragionamento, nella stragrande maggioranza dei casi è semplice: se dai redditi non posso dedurre alcuna spesa oltre al coefficiente forfettario relativo al codice Ateco, perché mai dovrei comprare in chiaro e pagare l’Iva? Ove possibile comprerò merci e servizi, ottenendo anche sconti dal fornitore per il fatto di non richiedere fatture, risparmiando così anche Iva e costi accessori. Lo stesso discorso vale per i beneficiari delle prestazioni e pensioni assistenziali compreso il reddito di cittadinanza; perché ridurre il potere d’acquisto di queste prestazioni pagando in chiaro e l’Iva?
Redditi
Si spiega così il risultato che emerge dall’analisi delle dichiarazioni dei redditi 2019 elaborati e diffusi dal centro studi di Itinerari previdenziali che vede il 57% degli italiani, vale a dire circa 14 milioni 535 mila famiglie su un totale censito dall’Istat di 25,7 milioni, vivere in media con meno di 10 mila euro lordi l’anno. Un dato difficile da credersi.
Dichiarazioni
È mai possibile che nel Paese del G7, della maggiore percentuale di case in proprietà, di auto in circolazione, di contratti telefonici, di smartphone e degli oltre 120 miliardi investiti nel gioco d’azzardo, i percettori di redditi sopra i 29 mila euro, cioè quelli che prendono solo le briciole in termini di aiuti e sussidi di Stato, siano meno di 5 milioni pari al 21,18% dei dichiaranti che però versano il 71,64% di tutta l’Irpef, mentre il 78,82% di contribuenti con redditi fino a 29 mila euro versa solo il 28,36%? È evidente che siamo in presenza di una evasione di massa favorita e incentivata proprio dallo Stato che meno dichiari più sussidia. Si veda la corsa al demenziale provvedimento del bonus terme.
Occupazione
Qualche mese fa su queste colonne dicevamo che il Pnrr non era (e non è) ancora partito e già mancano lavoratori nell’industria, commercio, servizi e agricoltura. È possibile che su circa 37 milioni di persone in età da lavoro quelli occupati regolarmente siano meno di 23 milioni? E gli altri che fanno? E quando arriveranno a 67 anni dovremo pagare a piè di lista l’assegno sociale? Un danno oltre alla beffa a carico delle povere giovani generazioni di cui tutti si preoccupano, ma al contempo caricano di debiti. Se osserviamo il numero di assistiti con cassa integrazione, Naspi, reddito di cittadinanza e sussidi vari sfondiamo quota 5 milioni di persone che per gran parte sono in età da lavoro. E che dire dei Neet, le persone che non studiano nè lavorano, che sono 2,1 milioni che non fanno nulla ma qualcuno li mantiene, magari i nonni tra cui gli 8 milioni di pensionati assistiti che prendono i soldi esentasse. E che dire degli oltre 3 milioni di lavoratori in nero! Altro che lotta all’evasione fiscale.
Debito pubblico
E qui veniamo al terzo punto, il debito pubblico. Oggi va di moda l’assegno unico per i figli, il reddito di cittadinanza ma potrebbero trovare posto un bonus anche i separati e divorziati (Salvini), la dote per i giovani diciottenni (Letta), i pensionati già assistiti o quelli che di contributi ne hanno pagati poco o nulla e i lavoratori con redditi fino a 20 mila euro l’anno (43,63% dei contribuenti che versano solo il 2,31% dell’Irpef) godendo gratis di tutti i servizi dello Stato ed enti locali (sindacati), la riduzione del cuneo fiscale senza dire se a beneficio del 70% che paga poche tasse o del 30% che le paga (Meloni). E così, secondo Eurostat, siamo il Paese che ha il maggiore rapporto debito pubblico/Pil (155%), battuti solo dalla piccola Grecia che però ha un Pil pari ai 2/3 di quello della Lombardia. Da noi le promesse dei politici hanno aumentato il debito dal 99,8% del Pil del 2008 ai 2.409,9 miliardi (134,7% del Pil) del 2019, ai 2.569,3 miliardi di euro del 2020 (157,5%). Debito che a settembre 2021 ha toccato il record di 2.706 miliardi; 137 miliardi in più in soli 9 mesi che si sommano ai 159,4 miliardi accumulati nel 2020. Gli altri Paesi si trovano a livelli più bassi: Portogallo (135,4%), Spagna (122,8%), Francia (114,6%), Belgio (113,7%) e la Germania che con 2.200 miliardi di debito arriva al 75% del Pil.
Pareggio di bilancio
Vogliamo continuare così? È bene ricordare che il pareggio di bilancio previsto dall’articolo 81 della Costituzione doveva verificarsi nel 2011; di questo passo non lo raggiungeremo neppure nel 2025 e il Covid è quello che ha meno incidenza.
Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 9 dicembre 2021. Non se ne è accorto nessuno, ma da qualche giorno lo Stato è un po' più povero. Di un miliardo 408 milioni 470 mila euro e 87 centesimi di euro. Quasi tremila miliardi di vecchie lire, che erano assegnati al portafoglio statale in forza della ciclopica confisca dei profitti di una colossale frode-carosello sull'Iva sentenziata dalla condanna in Tribunale a Milano nel 2018 di un'associazione a delinquere, scoperta nel 2009 dalla Procura di Bergamo nel settore della plastica e battezzata con il nome di uno yacht di lusso da 12 milioni (Calypso of London) sequestrato a uno degli imputati. Ma adesso il tesoro, pur di fronte alla conferma anche in secondo grado della responsabilità dei cinque maggiori imputati, si volatizza di colpo come conseguenza del micidiale effetto retroattivo (sul computo della prescrizione) del mancato riconoscimento di un tipo di aggravante: la «transnazionalità» del gruppo criminale agevolatore (con le proprie società-filtro in mezzo mondo) dell'associazione a delinquere italiana.
Due organizzazioni che per i giudici di Tribunale presieduti da Flores Tanga erano ontologicamente distinte (il che è appunto presupposto della configurabilità dell'aggravante della transnazionalità in base all'interpretazione delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2013), e che invece ora la sentenza d'Appello, redatta dal presidente Maria Rosaria Correra con le giudici Angela Fasano e Raffaella Zappatini, ritiene coincidenti nelle persone degli stessi imputati.
Tutto è meno che una quisquilia giuridica, perché la traiettoria difensiva disegnata dagli avvocati Paolo Grasso, Luca Ricci e Roberto Vitali innesca una matrioska di carambole: senza più l'aggravante che aveva avuto l'effetto speciale di allungare la prescrizione dell'associazione a delinquere, essa va retrodatata al novembre 2016 o al più tardi al febbraio 2018, ma comunque a prima della condanna di primo grado il 23 aprile 2018.
Con l'ulteriore conseguenza che gli imputati prescritti nel giudizio di secondo grado (dopo che già altri 70 indagati erano stati prescritti o assolti nel corso degli anni) non soltanto si risparmiano lo spettro di una confisca dei profitti di reato fino a 1 miliardo e 400 milioni, ma recuperano il diritto di vedersi restituire dallo Stato quei beni per almeno 300 milioni di euro che già nel 2009 erano stati materialmente trovati e sottoposti a sequestro.
Trascorsi così tanti anni, il problema è però che quei 300 milioni non si sa più quanti siano, di certo assai meno: perché nel tempo gli amministratori giudiziari erano stati autorizzati dai magistrati a vendere alcuni beni e comunque a ricorrere al patrimonio per affrontare le spese di gestione delle società operative nel settore della plastica, per cercare di mandarle avanti o metterle in liquidazione o rimetterle in piedi (come quella cartiera riportata a 24 dipendenti e venduta pochi giorni fa a un gruppo toscano da 20 milioni di fatturato).
E così - in attesa che nelle prossime settimane si riesca a fare un inventario aggiornato del patrimonio - non può essere escluso uno scenario ancora più beffardo: cioè la possibilità che gli ex imputati, dopo la prescrizione, non ritrovando più l'intero valore dei beni di cui hanno riavuto il diritto di tornare in possesso, intentino magari causa al ministero della Giustizia quale struttura oggettivamente responsabile del depauperamento del proprio patrimonio.
Irpef ed evasione fiscale: chi paga davvero e quanto sanità, assistenza, scuola. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2021. L’evasore fiscale che non paga le tasse in base alla propria reale capacità contributiva, come è scritto nella Costituzione, perché convinto che è lo Stato a essere un ladro, beneficia di servizi come la sanità, l’assistenza sociale e l’istruzione senza aver contribuito a pagarli. Per esempio, un ciclo di cure contro i tumori costa 90 mila euro, la Terapia intensiva 2 mila euro al giorno, l’intervento di bypass coronarico 25 mila euro, le scuole elementari, medie e superiori dei propri figli, gli assegni di invalidità, e poi la manutenzione delle strade, la polizia, i servizi comunali, il decoro urbano, eccetera, eccetera. Aiutandoci con i documenti presentati al Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) dal Centro studi «Itinerari previdenziali» di Alberto Brambilla, e relativi alla dichiarazione dei redditi del 2019 (ultimi dati disponibili), ecco chi oggi paga per i servizi che riceviamo.
Contribuenti e costo dei servizi essenziali
La sanità costa 115,45 miliardi l’anno che, divisi per 59,8 milioni di cittadini italiani, fa 1.930 euro a testa. Le invalidità civili e di accompagnamento, gli assegni sociali, la maggiorazione sociale delle pensioni, il reddito di cittadinanza, e in generale quello che va sotto il cappello dell’assistenza sociale, valgono 114,24 miliardi, ossia 1.910 euro pro capite. L’istruzione 62 miliardi, dunque 1.036,5 euro pro capite. Per capire chi paga cosa, però, bisogna considerare il numero di contribuenti, ossia coloro che, poco o tanto, le tasse le versano, cioè 41, 5 milioni di italiani. Sono loro, in proporzione alla capacità contributiva di ciascuno, a farsi carico di bambini, studenti, disagiati. Di fatto si tratta di due contribuenti su tre abitanti (il rapporto è di 1,4), che nel 2019 hanno versato 172,5 miliardi di Irpef. Vediamo, per fascia di reddito, quanto viene versato al fisco e in parallelo a quanto ammonta il costo dei servizi ricevuti.
Chi dichiara meno di 20 mila euro: un buco da 151,5 miliardi
All’incirca 23,7 milioni di contribuenti (57%) dichiarano meno di 20 mila euro e versano 15 miliardi di Irpef. Abbiamo già visto che un contribuente corrisponde a 1,4 cittadini, in base al principio che ciascuno ha a carico anche una percentuale della popolazione senza redditi; significa che 23,7 milioni di contribuenti corrispondono a 34,1 milioni di italiani che per la sanità costano 65,8 miliardi. Per l’assistenza costano 65,1 miliardi, e 35,3 per l’istruzione. In definitiva, i contribuenti che dichiarano meno di 20 mila euro costano allo Stato 166,4 miliardi, e la differenza di 151,7 miliardi ce la deve mettere qualcun altro, ovvero chi dichiara redditi superiori. Un principio giusto: chi guadagna di più si carica i costi dei servizi essenziali anche per i cittadini con redditi molto bassi, e in questa fascia troviamo i 3,5 milioni di giovani con i contratti precari, i part-time, i sottopagati, chi incassa le pensioni minime. Ma 23,7 milioni sono davvero tanti, ed è evidente che fra loro si nascondono imponenti numeri di lavoratori in nero, che «rubano» ad altri i servizi di cui godono.
Tra 20 e 35 mila euro: autonomi per sanità e istruzione
Il buco da 151,7 miliardi non può tuttavia essere coperto dai 12,3 milioni di contribuenti (29,7%) nella fascia di reddito tra i 20 mila e i 35 mila euro, che versano 56,2 miliardi di Irpef. Corrispondono a 17,7 milioni di abitanti. Per sanità e istruzione costano rispettivamente 34,3 e 18,4 miliardi e sono, dunque, autosufficienti. Ma non versano abbastanza Irpef per autofinanziarsi anche per l’assistenza (33,9 miliardi), che resta fuori e va quindi a carico delle fasce di reddito successive. In pratica, 36 milioni di contribuenti non riescono a coprire con l’Irpef i servizi essenziali di cui beneficiano.
Il 13% dei contribuenti che paga per l’altro 87%
Tra 35 mila e 100 mila euro ci sono 4,9 milioni di contribuenti, che versano 67,8 miliardi di Irpef, e complessivamente costano per sanità, assistenza e istruzione 35 miliardi. Da qui si può dunque «pescare» 32,7 miliardi.
Oltre i 100 mila euro troviamo circa 502 mila contribuenti, con un versamento Irpef di 33,7 miliardi. Il loro costo per i tre servizi elencati ammonta a 3,5 miliardi, pertanto possono contribuire alla spesa totale per 30,2 miliardi.
In sostanza, poco più del 13% dei contribuenti compensano le spese primarie dell’87% della popolazione, ma solo in parte.
Tirando le somme l’incasso Irpef di 172,5 miliardi copre solo per il 60% i costi di sanità, assistenza sociale e istruzione, che complessivamente ammontano a 291,7 miliardi.
I 119,2 miliardi che mancano e le altre imposte
Per far tornare i conti mancano ancora 119,2 miliardi. Vengono compensati dalle altre imposte dirette come l’Irap (25,2 miliardi), l’Ires (35 miliardi) e l’imposta sostitutiva (8,3 miliardi) per un incasso totale per lo Stato di 70 miliardi. I 49 miliardi restanti, poi, possono essere presi dalle imposte indirette tra cui l’Iva (124 miliardi) e le accise. Ma lo Stato ha poi altre spese: quelle della macchina pubblica, la sicurezza, la viabilità, le infrastrutture, e gli interessi sul debito, per un totale di 870,74 miliardi. Mentre sul fronte delle entrate, oltre all’Iva, può contare sui trasferimenti delle Regioni, i monopoli, ecc., che nel 2019 sono state di 841,44 miliardi. Alla fine resta un deficit di 29,3 miliardi.
L’evasione di massa tra sommerso e capitali nascosti
Conti alla mano, l’Italia non sarebbe messa male, se non ci fosse un debito di 2.730 miliardi e un’evasione stimata ogni anno per 100 miliardi, fra le più alte d’Europa, e che coinvolge tutte le fasce di reddito elencate, a cui si aggiunge il sommerso, su cui si versa zero.
Sono questi cittadini, e non lo Stato, a mettere le mani in tasca ai contribuenti onesti, costringendoli a sostenere anche i loro costi.
Riuscire a recuperare almeno la metà del dovuto renderebbe possibile una riduzione delle tasse, incluse quelle sul lavoro, che vuol dire migliorare la competitività, i servizi, e ridurre il debito.
Per dare la caccia agli evasori l’amministrazione Biden ha appena dotato l’Irs (l’Agenzia governativa di riscossione americana) di 72 miliardi di dollari, con la certezza di recuperare 40 miliardi l’anno. Significa che l’amministrazione sa cosa serve per incassare quello che sfugge al fisco. All’Agenzia delle entrate non è stato destinato un euro per la lotta all’evasione. Non è previsto più personale qualificato e amministrativo, ma solo la sostituzione di chi va in pensione e il reclutamento dei dirigenti che da anni mancano. Le norme non sono stringenti: l’Agenzia non è autorizzata ad accedere alla banca dati della fatturazione elettronica perché il Garante per la Privacy non ha ancora indicato come. L’Agenzia Riscossione non conosce il saldo in tempo reale del conto corrente di un soggetto che deve saldare una cartella; perciò il 70% dei pignoramenti vanno a vuoto perché su quel conto i soldi non ci sono, ma intanto si innesca una trafila burocratica sul nulla. A causa Covid per un anno e mezzo sono state bloccate le verifiche sul posto. E quel che non è stato controllato è andato definitivamente perduto. Il solo progetto di recupero evasione in corso è relativo a un programma di intelligenza artificiale finanziato dalla Ue. Se andrà in porto la manovra in discussione ci sarà una riduzione delle tasse spalmata su tutte le categorie, che porterà ad un minor incasso per 7 miliardi, che andranno ad aumentare il deficit del 2022. Poi si vedrà dove andarli a prendere. (ha collaborato Alessandro Riggio)
GDeF. per "il Giornale" il 7 dicembre 2021. Italiani spremuti dalle tasse. Ora lo certifica anche l'Ocse. Il nostro Paese nel 2020 ha visto un aumento dell'incidenza della tassazione sul Pil, passata al 42,9%, dal 42,4% del 2019, che la fa suo malgrado avanzare anche nella graduatoria internazionale dal sesto al quarto posto tra i Paesi industrializzati dietro Danimarca (46,5%), Francia (45,4%) e a un'incollatura dal Belgio (43,1%). La media dei Paesi Ocse, rivela il rapporto Revenue statistics 2021, è del 33,5% (+0,1 punti sul 2019) e ha quindi registrato un incremento maggiore della media, da cui si è allontanata ancor più (da 9 a 9,4 punti percentuali). Ovviamente, l'impatto del Covid sul Pil (-8,9%) ha determinato una distorsione, ma l'Italia si trova nella poco invidiabile condizione di aver visto aumentare l'incidenza sul prodotto interno lordo sia delle imposte sui redditi che della fiscalità societaria. Il trend è, purtroppo, destinato a proseguire. Ieri il ministero dell'Economia ha comunicato che nel periodo gennaio-ottobre 2021 le entrate tributarie sono ammontate a 377,8 miliardi di euro, segnando un incremento di 40,4 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2020 (+12,0%). Anche in questo caso lo stop ai versamenti imposto dalla pandemia l'anno scorso ha determinato questa eccezionale discrepanza. Occorre, allo stesso tempo, notare come le entrate fiscali abbiano registrato l'anno scorso una flessione inferiore a quella del Pil (-5,3%), mentre quest' anno stiano aumentando a un tasso doppio rispetto a quello atteso per il prodotto interno lordo. Ne consegue che il tema della riforma fiscale al centro del dibattito parlamentare sulla legge di Bilancio assuma un'importanza strategica. Oggi dovrebbe essere presentato in commissione Bilancio al Senato l'emendamento del governo che definisce il taglio di Irpef e Irap. Il testo dovrebbe tradurre operativamente l'intesa politica sulla rimodulazione dell'Irpef da 7 miliardi e sugli sgravi Irap da un miliardo. Il voto sulle proposte di modifica dovrebbe iniziare martedì 14 dicembre. I gruppi parlamentari stanno ancora definendo la lista dei 600 emendamenti «segnalati». In base alle proposte presentate ai sindacati il taglio del cuneo fiscale fino a 35mila euro di reddito dovrebbe determinare per i lavoratori dipendenti uno sconto compreso tra un minimo annuo di 250 euro e un massimo di 844 euro nella fascia 40-45mila euro. Ma ieri da Bruxelles è arrivato anche l'ennesimo monito a tenere alta la guardia sui conti pubblici. L'Eurogruppo ha «invitato i Paesi membri ad elevato indebitamento ad adottare le misure necessarie all'interno del processo nazionale di bilancio», cioè a tenere sotto controllo le spese correnti. «Il bilancio 2022 prevede una riduzione delle imposte sul reddito e un aumento della spesa sociale complessiva, è una cosa buona ma il problema è stabilire se sia sostenibile nel medio termine», ha commentato il direttore generale dell'Fmi, Kristalina Georgieva, che ieri ha partecipato all'Eurogruppo, congratulandosi con l'Italia «per avere raggiunto quest' anno un tasso di crescita più alto della media». Insomma, il governo Draghi è già sotto osservazione sebbene manchi più di un anno al ritorno in vigore del Patto di Stabilità.
Quel golpe fiscale che piace alla sinistra. Nicola Porro il 4 Dicembre 2021 su Il Giornale. Se c'è una tentazione alla quale i politici di sinistra non sanno resistere, è quella di aumentare le tasse su coloro che ritengono più ricchi. Se c'è una tentazione alla quale i politici di sinistra non sanno resistere, è quella di aumentare le tasse su coloro che ritengono più ricchi. È nel loro dna, nella loro formazione, verrebbe da pensare. E ciò vale anche per una parte del governo Draghi. Ieri è stato sventato un colpo di mano, che vale la pena raccontare. Come sapete, nella manovra finanziaria, il governo ha destinato sette miliardi di euro al taglio delle imposte per le famiglie. La gran parte delle risorse andrà alle fasce di reddito medio basse. Un piccolo effetto trascinamento ci sarà anche per coloro che guadagnano più di 75mila euro l'anno: si tratta di un bonus fiscale di circa duecento euro. Ebbene, il premier Draghi aveva accettato la proposta dei sindacati (non si sa bene a che titolo), condivisa dal Pd e da Leu, di tagliare questo piccolo beneficio per i «più ricchi». Forza Italia e Lega, insieme a Italia Viva, sono riusciti a bloccare la follia. Oltre al tic «anche i ricchi devono piangere» della sinistra, questo piccolo golpe fiscale offre alcuni spunti più generali.
1. Il danno per il milione di contribuenti che dichiara più di 75mila euro sarebbe stato piccolo, ma del tutto infinitesimale sarebbe stato il guadagno per gli altri. Questo contributo di solidarietà avrebbe infatti fruttato circa 250 milioni e sarebbe finito nel calderone della riduzione delle bollette. Il governo ha già stanziato cinque miliardi per ridurre il costo del gas. Qualcuno ci sa dire, forse i sindacati, che senso avrebbe avuto la mini-stangata, se non quello di essere un piccolo sfregio di nessuna utilità pratica?
2. La proposta è stata portata avanti proprio dal premier. E in questo caso i partiti di centrodestra, uniti, hanno fatto muro. È vero che anche Italia Viva, a sinistra, si è opposta. In questo caso assume un significato la partecipazione al governo del centrodestra. Se non ci fossero stati i ministri berlusconiani e leghisti, lo sfregio fiscale sarebbe passato. Non sarebbero bastati i renziani a bloccare la manovra.
3. Prima o poi i conti al ristorante della finanza pubblica si pagano. E quel giorno è meglio che governi qualcuno che non abbia il riflesso pavloviano di aumentare le imposte. Oggi stiamo spendendo tutto a deficit. Senza alcuna riduzione della spesa pubblica. Quando il mercato girerà, beh allora sappiamo quali saranno le armi che verranno usate: maggiori imposte sul ceto medio, penalizzazione degli autonomi, tassazione aumentata sugli immobili. C'è da sperare che chi governerà sceglierà invece la strada più difficile dei tagli ai programmi di spesa pubblica.
Ieri Mario Draghi ha ricevuto il primo vero stop nella sua attività governativa. Se la sua scelta di campo sarà quella del sindacato e della sinistra delle tasse, potrebbe essere il primo di una lunga serie.
Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su
Giampiero Mughini per Dagospia il 3 dicembre 2021. Caro Dago, sarà perché ieri a guadagnarmi il pane ho fatto un viaggio Roma-Milano andata e ritorno in giornata oltre alle quattro ore di prestazione professionale, fatto è che basta un niente a farmi girare le palle. Mi riferisco alle cose pronunziate in questi giorni dal leader della Cgil, Maurizio Landini, e al titolo che il “Corriere della Sera” ha apposto oggi a un’intervista del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini a Daniele Manca. Dov’era annunciato che il 90 per cento delle entrate Irpef viene dai pensionati e dai lavoratori dipendenti. Cosa quest’ultima probabilmente verissima non fosse che immediatamente accanto andrebbe messa quell’altra verità sonante, e cioè che il 4 per cento dei contribuenti Irpef (quorum ego) paghiamo oltre il 30 per cento dell’intero monte tasse. Pur essendo al mondo una sorta di specie inferiore, noi partite Iva facciamo cioè la nostra parte. Eccome se la facciamo. Partiamo dai rilievi, li chiamo così, di Landini. Lui che ha un senso fortissimo dei lavoratori che rappresenta e di quelli che non rappresenta e anzi gli stanno invisi, dice che chi dichiara al fisco oltre 75mila euro ha dalla recente legge che riforma le attuali aliquote un risparmio fiscale di 247 euro. Hai detto un piffero. Io che dichiaro al fisco attorno ai 200mila euro annui ho difatti un risparmio nientemeno che di 247 euro sui circa 90mila che ne pago ogni anno di Irpef. Se non è questa una pacchia. Se non è questa una legge che favorisce noi ricchi, quelli che passiamo la nostra vita alle Maldive circondati da uno stuolo di mignotte. Ecco, siccome io lavoro tutti i santi giorni, in primis tutti i sabati e tutte le domeniche, vorrei che Landini non rompesse i coglioni a me e a tutte le partite Iva che lavorano come e quanto me. Del resto apprendo che è allo studio un’addizionale Irpef a carico dei contribuenti che denunciano oltre 75mila euro lordi l’anno, addizionale che andrebbe come “contributo di solidarietà” ad alleggerire le bollette di chi non se la passa troppo bene, e sono tanti ahimè. E ci mancherebbe altro che non la pagassimo. E poi c’è il fatto che a pagare le tasse sono solo i pensionati e i lavoratori, altra fellonia che me le fa girare alla grande. Premetto che il mio commercialista mi ha comunicato in giugno che il mio reddito da partita Iva nel 2020 è andato giù del 30 per cento rispetto all’anno precedente e dunque che avrei avuto diritto a una sorta di bonus di 4000 euro da parte dello Stato. Gli ho ovviamente risposto che non avrei chiesto nemmeno un euro, che non mi sarei più guardato allo specchio se lo avessi fatto, che pur con il 30 per cento di reddito in meno a forza di lavorare come un cane mi posso consentire del buon vino a pranzo e a cena. Detto questo farò ovviamente in dicembre il mio dovere di contribuente fino all’ultima lira. Arriverà a giorni l’Imu sulla seconda casa (il mio studio) e subito riempirò l’F 24. Mi è arrivato un avviso bonario dall’Agenzia delle Entrate di un mancato versamento Iva di 800 euro nel 2017 (che il mio bravissimo commercialista aveva dimenticato di segnalarmi a suo tempo) e già l’ho messo in pagamento, ci mancherebbe altro. Il peggio arriverà il 27 dicembre quando il fisco vuole che noi partite Iva sospendessimo un attimo di deliziarci alle Maldive con fanciulle compiacenti e pagassimo l’Iva afferente alle fatture da noi emesse nell’ultimo trimestre del 2021, fatture del cui 80 per cento noi non abbiamo visto finora un solo euro, ho detto un solo euro. Chi lavora a partita Iva viene pagato mediamente a 3 mesi dal momento in cui ha fatto la prestazione, e dunque. Quello sì che è un boccone amaro - questo prestito a gratis allo Stato -, perché tirare fuori qualche migliaio di euro di Iva in tempi grami non è così semplice, caro Landini. Mi piacerebbe vederti al mio posto. Bada bene non che quelle fatture me le sono assicurate in ragione di mie smaccate complicità con partiti o logge massoniche o salotti radical-chic. Mi vengono solo dal mio lavoro e dal mio talento. Amen.
Vincenzo Fortunato nei guai: maxi-sequestro per tasse non pagate sulle consulenze milionarie. Il Tempo il 04 dicembre 2021. Per incassare consulenze milionarie, evadendo le imposte sui redditi, aveva congegnato un «meccanismo di fittizia imputazione dei compensi professionali». Vincenzo Fortunato, ex capo di Gabinetto del ministero dell'Economia per oltre 10 anni (trasversale a governi di diverso colore politico), è finito sotto inchiesta della Procura di Roma. È accusato di reati tributari e autoriciclaggio. «In qualità di titolare e amministratore di fatto della Disbuc Consulting srl», l'avvocato e professore avrebbe architettato «un disegno fraudolento palesemente preordinato alla parziale elusione degli obblighi tributari». Per questo il giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Roma, Alessandro Arturi, lo scorso aprile ha disposto il sequestro preventivo dei suoi conti correnti fino all'importo di 298mila euro. Per beneficiare di un'aliquota più bassa, faceva figurare le sue prestazioni professionali come eseguite dalla Disbuc. Tale società di consulenza, quindi, dal 2017 al 2020 ha emesso «fatture per operazioni oggettivamente inesistenti», «al fine di consentire allo stesso Fortunato di evadere le imposte sui redditi», si legge nel capo di imputazione. Le consulenze, infatti, erano fornite dall'avvocato 65enne, e non dalla Disbuc. Con questo escamotage il professionista «ha beneficiato di un risparmio di spesa per le imposte dovute - recita il decreto di sequestro grazie alla minore aliquota prevista per le persone giuridiche, pari al 24%, a fronte di quella del 43% stabilita per i professionisti persone fisiche». Come emerso dalle indagini del nucleo di Polizia valutaria della Guardia di Finanza, dalla sua costituzione la Disbuc ha emesso nei confronti dei committenti fatture per circa 2 milioni di euro. «Dette operazioni sono da considerarsi inesistenti», spiega il gip. Parte degli utili realizzati, inoltre, sono stati utilizzati dalla Disbuc - da qui l'accusa di autoriciclaggio - per l'acquisto di due unità immobiliari a Roma, nel quartiere della Balduina, in via Morpurgo. In particolare, il 5 giugno 2018 la società ha comprato da Paolo Fortunato la nuda proprietà dell'attico al civico 28, al prezzo di 510mila euro, e il 14 febbraio 2019 un terzo dell'appartamento al terzo piano, pagato 110mila euro. Il capitale della Disbuc Consulting, sulla carta, è detenuto da due coniugi che di fatto non mettono mano né bocca nelle consulenze fornite dalla società. «Io ero l'unico collaboratore di Fortunato presente negli uffici di via Santa Maria in Via, a Roma ha raccontato agli inquirenti Carlo M., stipendiato 2mila euro al mese - a cui si è aggiunta la presenza di mia moglie che è venuta a lavorare presso il predetto studio con mansioni di segretaria, percependo un compenso di 500 euro mensili». La moglie Rosa Maria R., interrogata dal pm, ha spiegato che il 4 febbraio scorso «l'avvocato Fortunato mi ha riferito che la Guardia di Finanza era presso la sede di Strada dei Parchi e qualora mi avessero chiamato di ricordarmi di riferire che lui era semplicemente un cliente della Disbuc e che la società è mia e di Carlo». Effettivamente in quella data i finanzieri hanno sentito come persona informata sui fatti Cesare Ramadori, presidente del consiglio di amministrazione di Strada dei Parchi spa concessionaria delle autostrade A24 e A25 - impresa che ha ricevuto dalla Disbuc fatture per 1,2 milioni di euro. E qualcuno ha riferito «in diretta» a Fortunato della visita della Finanza. «Strada dei Parchi utilizza una serie di consulenti per cercare di risolvere tutte le problematiche connesse con l'approvazione del nuovo piano finanziario che, preciso, non è stato ancora approvato, anche se il vecchio è scaduto nel 2013 (questo ritardo si ripercuote sull'aumento dei pedaggi, che dal 2022 potrebbe arrivare fino al 34%, ndr). Per fare questo - ha riferito Ramadori - la società utilizza le competenze del professor Vincenzo Fortunato con il quale ha rapporti dal 2017. Mi sono rivolto a lui per la soluzione di questo problema. Qualche mese dopo, mentre le discussioni con il ministero delle Infrastrutture (titolare della concessione) andavano avanti e si complicavano ulteriormente, il professor Fortunato mi disse che per essere più incisivo nei confronti del Ministero lui aveva bisogno di appoggiarsi a questa società». Due giorni dopo, il 6 febbraio, Fortunato «si è presentato a casa e, alla presenza di mio marito, - ha raccontato Rosa Maria R. - ha aggiunto che nel caso mi avessero chiesto le motivazioni per cui, considerato il nostro tenore di vita, non utilizzavamo i cospicui utili della Disbuc, dovevamo rispondere che volevamo risparmiare». La donna ha poi aggiunto che il 13 febbraio l'avvocato Fortunato era tornato sotto casa dei due coniugi, citofonando più volte. «Gli ho risposto di lasciarci in pace e andare via, ma ha continuato a suonare con insistenza». L'ex capo di gabinetto del Mef, consulente anche di Lottomatica spa, dal 2013 è il commissario liquidatore di Stretto di Messina spa, società del Gruppo Anas che aveva la mission di progettare, realizzare e gestire il Ponte sullo Stretto di Messina. Per questo incarico percepiva 120mila euro annui. Dal 30 marzo 2020 si è ridotto il compenso a 100mila euro all'anno. Nonostante avesse promesso di liquidare tale società nell'arco di un anno, dopo quasi 9 anni è ancora lì e pesa sui contribuenti circa 1.500 euro al giorno.
Andrea Valle per "Libero Quotidiano" il 30 novembre 2021. Si chiama operazione «1 miliardo di euro». E il numero non è buttato lì a caso, ma rappresenta la cifra che i pm di Milano Monia Di Marco ed Elio Ramondini sperano di recuperare dalle banche accusate di aver riciclato per anni il nero dei loro clienti italiani. La notizia riportata dal Fatto Economico riguarda sette istituti di credito con base in Svizzera, a pochi chilometri dal confine e che in base alla legge 231/2001 sarebbero responsabili nel favoreggiamento del riciclaggio. Il colosso Ubs e la piccola Pkb Privatebank hanno già scelto il patteggiamento versando complessivamente 120 milioni di euro all'Italia, ma evitando un processo che avrebbe potuto provocare ben altri danni di immagine. Sono invece ancora in corso gli accertamenti sulle situazioni che riguardano Hsbc, Edmond de Rotschild, Julius Baer, Bsi e Corner Banca. Nella ricostruzione di questi rapporti, la Procura di Francesco Greco si è avvalsa della miniera di informazioni ottenuta dalle dichiarazioni dell'Agenzia delle Entrate grazie alla voluntary disclosure, lo strumento che il fisco ha messo a disposizione dei contribuenti che detengono illecitamente patrimoni all'estero per regolarizzare la propria posizione fiscale. Emblematico il caso della Pkb Privatebank degli industriali piemontesi Trabaldo Togna, fondata nel 1958. Nella sostanza, non erano i clienti ad andare in filiale, ma i dipendenti dello stesso istituto (una ventina) che sollecitavano la sottoscrizione di rapporti con la banca per occultare i soldi provenienti dall'evasione fiscale. C'è un caso, in riferimento alla stressa banca, che ci fa capire quali fossero le dinamiche più consuete: il collegamento tra il trasferimento di denaro oltreconfine e la bancarotta fraudolenta di una società per esempio. Si tratta della Centralpelli Srl, azienda di produzione di pelle basata a Castelfranco di Sotto (Pisa). La società è fallita nel 2015, ma già tre anni prima i manager avevano iniziato a svuotarla. Secondo i particolari emersi, la banca ha riciclato 300mila euro della Centralpelli Srl prima del fallimento. I particolari dicono che tutto veniva spostato in Svizzera in contanti. I soldi venivano impacchettati in buste di plastica a bordo di una Mercedes 320, con il servizio di spallonaggio pagato il 2% della somma. Secondo gli inquirenti, la colpa della banca sarebbe stata quella di non aver impedito «la commissione di reati di riciclaggio di fondi di provenienza delittuosa...». Le sette banche sono state costrette ad aprire una sede in Italia. Da oggi se faranno utili pagheranno le imposte anche a Roma.
Da ANSA il 2 dicembre 2021. Nel 2019 l'Italia si conferma prima in Ue per l'evasione Iva in valore nominale, con perdite per lo Stato di 30,1 miliardi di euro, mentre è quinta per il maggior divario tra gettito previsto e riscosso con il 21,3%, dietro solo a Romania (34,9%), Grecia (25,8%), Malta (23,5%) e Lituania (21,4%). E' quanto emerge dal rapporto sull'Iva della Commissione Ue che sottolinea come l'Unione abbia perso 134 miliardi nel 2019, in miglioramento rispetto al 2018 ma con l'incognita della portata della pandemia di Covid-19 sulle entrate Iva per il 2020. Rispetto al 2018, nel 2019 l'Italia ha tuttavia fatto segnare un miglioramento: il gap tra gettito previsto e introiti effettivi si è ridotto dal 24,5% al 21,3%, mentre il danno economico è passato da 35,4 miliardi a 30,1 miliardi. Una cifra che, in termini assoluti, fa comunque restare il nostro Paese maglia nera in Europa per evasioni e frodi, seguito a distanza dalla Germania con perdite per 23,4 miliardi di euro (ma un gap dell'8,8%). La tendenza in calo progressivo prosegue anche in Europa: nel 2019 le perdite sono diminuite di quasi 6,6 miliardi di euro a 134 miliardi di euro, "un netto miglioramento rispetto alla diminuzione di 4,6 miliardi di euro dell'anno precedente", evidenzia Bruxelles, avvertendo però che "sebbene il divario" tra gettito previsto e introiti effettivi "complessivo sia migliorato tra il 2015 e il 2019, l'intera portata della pandemia di Covid-19 sulla domanda dei consumatori e quindi sulle entrate Iva nel 2020 rimane sconosciuta". "Nonostante il trend positivo registrato negli ultimi anni, il divario dell'Iva rimane una delle principali preoccupazioni, soprattutto in considerazione delle immense esigenze di investimento che i nostri Stati membri dovranno affrontare nei prossimi anni", ha ammonito il commissario Ue per l'Economia, Paolo Gentiloni, sottolineando che "le cifre di quest'anno corrispondono a una perdita di oltre 4.000 euro al secondo. Queste sono perdite inaccettabili per i bilanci nazionali e significano che la gente comune e le imprese sono lasciate a raccogliere il deficit attraverso altre tasse per pagare i servizi pubblici vitali. Dobbiamo fare uno sforzo congiunto per dare un giro di vite sulle frodi sull'Iva, un reato grave che sottrae denaro alle tasche dei consumatori, mina i nostri sistemi di welfare e impoverisce le casse pubbliche".
Irpef, chi paga davvero le tasse in Italia tra finti poveri e ricchi immaginari. Alberto Brambilla su Il Corriere della Sera il 17 novembre 2021.
Lo studio di Itinerari previdenziali
Il 57% degli italiani, vale a dire circa 14 milioni 535 mila famiglie su un totale censito da Istat di 25,7 milioni, vive in media con meno di 10 mila euro lordi l’anno. È quanto emerge dall’ultima analisi del Centro studi di Itinerari previdenziali che ha analizzato le dichiarazioni dei redditi relative al 2019 e presentate nel 2020. In dettaglio su 41 milioni 526 mila cittadini che hanno inoltrato la dichiarazione dei redditi, dieci milioni hanno dichiarato di aver guadagnato in un anno redditi che vanno da situazioni negative a un massimo di 7.500 euro l’anno. Poiché i residenti nel 2019 erano circa 59,7 milioni a ogni dichiarante corrispondono circa 1,44 abitanti che in generale rappresentano le persone a loro carico. Pertanto, a questa prima classe corrispondono 14,48 milioni di abitanti che, in base alle loro dichiarazioni, vivrebbero per un intero anno con una media di 3.750 euro lordi (media aritmetica tra zero e 7.500) pari a 312 euro al mese da dividersi per 1,44, meno di una pensione sociale o integrata al minimo.
Un nominale inferiore al reddito di cittadinanza
Altri 8.100.000 contribuenti dichiarano redditi tra 7.500 e 15 mila euro; a questi corrispondono 11,66 milioni di abitanti che sulla base di quanto comunicano al Fisco, vivrebbero con una media di 11.250 euro lordi l’anno pari a 938 euro al mese che deve bastare per mantenere 1,44 persone quindi un nominale per testa di 651 euro al mese, meno dell’importo previsto dal reddito di cittadinanza (780 euro). Secondo lo studio di Itinerari previdenziali, realizzato anche con il sostegno di Cida, ci sono poi altri 5.550.000 italiani che dichiarano redditi tra i 15 e i 20 mila euro lordi l’anno. Per il solito calcolo, a costoro corrispondono 8 milioni di abitanti che vivono con una media di 17.500 euro lordi l’anno da dividersi per 1,44.
Il «costo» dei contribuenti delle prime due fasce di reddito
Riassumendo: i contribuenti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 e da 7.500 a 15 mila euro) sono 18.140.077, pari al 43,68% del totale dei dichiaranti di cui 6,134 milioni pensionati che evidentemente hanno versato pochi o nulli contributi quindi o sono un esercito di sfortunati o hanno evaso mica male in 67 anni di vita. In totale questi dichiaranti pagano solo il 2,31% di tutta l’Irpef, circa 4 miliardi. A questi contribuenti (si fa per dire), corrispondono 26,13 milioni di abitanti che per il solo servizio sanitario di cui beneficiano gratuitamente, costano ad altri cittadini «volonterosi» ben 50,4 miliardi; poi ci sono tutti gli altri servizi forniti da Stato, regioni, comuni, comunità montane, e via dicendo. I cittadini che manifestano nelle urne un continuo malcontento se ne rendono conto?
Un dato realistico?
In totale queste prime tre classi, pari a 34,1 milioni di abitanti, poco più del 57%, pagano 14,7 miliardi di Irpef pari all’8,35% del totale d’imposta. È un dato realistico? Difficile pensare che gli abitanti di un Paese del G7 vivano come quelli di un Paese del Nord Africa.
Gioco d’azzardo, smartphone e auto
In Italia le connessioni telefoniche mobile sono oltre 77,71 milioni cioè il 128% degli abitanti e il 97% risulta avere almeno uno smartphone, ma sono in molti ad averne almeno due. Per non parlare del gioco d’azzardo: per molti è più importante della salute o di altre spese primarie. Secondo i dati dell’Agenzia dei Monopoli, i nostri connazionali hanno investito nel 2019 oltre 125 miliardi tra gioco regolare e irregolare, cioè più della spesa sanitaria totale che si ferma sotto i 115 miliardi. Secondo i dati Aci, il parco circolante in Italia nel 2019 è di 52.401.299 unità, composto da 39.545.232 auto. Solo il Lussemburgo ha più macchine di noi nella Ue anche se il 56% delle vetture nel nostro Paese ha tra 5 e 20 anni di anzianità che costano in manutenzione più del nuovo (rispetto all’anno precedente si registra un aumento dell’1,4%). Ci sarebbero anche 6.896.048 motocicli e 5.775.006 veicoli commerciali e industriali. Non male per un popolo di poveri.
I contribuenti che guadagnano sopra i 35 mila euro
Quelli che dichiarano guadagni annuali dai 35 mila euro in su sono soltanto il 13,22%, cioè 5,5 milioni, meno del 10% della popolazione, ma pagano il 58,86% di tutta l’Irpef e non godono di alcuna agevolazione, bonus o sconto, se non — e ci mancherebbe altro — bonus edilizi, previdenza complementare e poco altro.
Dai 29 ai 35 mila euro
Sommando anche i redditi da 29.000 a 35 mila risulta che il 71,5% di tutta l’Irpef è a carico del solo 21% dei contribuenti. E c’è molta gente in Parlamento che vorrebbe aumentare a questo 21% di «maledetti» ricchi le tasse o applicare una patrimoniale, magari anche sugli immobili con la revisione del catasto. E anche aumentare la tassazione sui redditi finanziari senza capire che se uccidiamo il risparmio addio sostegno all’economia e all’acquisto di titoli di Stato. Gran parte di questo 21% è composto da imprenditori o dirigenti d’azienda che creano occupazione non disponibile per decreto.
L’evasione di massa
I dichiaranti redditi lordi sopra i centomila euro (in Italia si parla sempre di lordo, il netto di 100 mila euro è pari a circa di 52 mila euro netti) sono soltanto l’1,21%, pari a 501.846 contribuenti (933 in meno dello scorso anno) che tuttavia pagano il 19,56% (19,80 nel 2018) dell’Irpef. Alla luce di questi dati, due domande: sono soltanto i ricchi ad evadere? O siamo in presenza di una evasione di massa? La risposta giusta è affermativa alla seconda domanda. Ora, approfittando della delega fiscale, si può ragionare su alcune manovre: dal contrasto di interessi all’anagrafe generale dell’assistenza, dalla verifica individuale sulle richieste di sussidi e pensioni assistite. Soprattutto si può ragionare sulla riduzione di quei 144 miliardi di spesa a carico della fiscalità generale, ossia del citato 21%, per l’assistenza. È una cifra che ha raggiunto l’importo delle pensioni, al netto della fiscalità.
Da calcioefinanza.it l'11 novembre 2021. Da Arnault a Del Vecchio passando per Elkann e Giovanni Ferrero, sono dozzine gli imprenditori più ricchi del mondo nella classifica di Forbes (inclusi due dei 20 più ricchi) che fanno affari attraverso società con sede in Lussemburgo, secondo quanto riportato dalla stessa rivista statunitense. Che è andata più a fondo nel registro dei titolari effettivi del paese, tra i principali stati offshore a livello mondiale. Forbes nel suo reportage racconta due modi comuni in cui i miliardari hanno utilizzato le holding lussemburghesi per investire in attività altrove. Alcuni, come Arnault e il magnate della moda spagnolo Amancio Ortega, detengono azioni pubbliche, società private o immobili attraverso holding lussemburghesi, sfruttando potenzialmente l’esenzione dall’imposta sui dividendi del Lussemburgo. Altri, come il barone russo dei metalli Mikhail Prokhorov e John Elkann, detengono attività più piccole come hotel o aziende private attraverso società lussemburghesi, a volte liquidandole (esentasse) dopo aver incassato il loro investimento.
I principali miliardari con attività in Lussemburgo:
Oltre a 1,6 miliardi di dollari di attività detenute in entità con sede in Lussemburgo, Bernard Arnault possiede una quota del 28% precedentemente non dichiarata in L Catterton, una società di private equity che sostiene insieme a LVMH dal 2016.
L Catterton gestisce 30 miliardi di attività, comprese le partecipazioni nei marchi di fitness Equinox e iFIT, il produttore tedesco di sandali Birkenstock e circa $ 460 milioni di investimenti immobiliari attraverso L Catterton Real Estate con sede in Lussemburgo. Forbes stima che la partecipazione personale di Arnault in L Catterton valga circa $ 380 milioni.
Amancio Ortega, cofondatore della catena di vendita al dettaglio spagnola Zara e della sua controllante, la società di fast fashion Inditex, possiede 3,7 miliardi di dollari di proprietà immobiliari nel Regno Unito attraverso due società con sede in Lussemburgo, Adelphi Property S.a.r.l. (detenuta da Ortega al 99,99%) e Hills Place S.a.r.l. (99,7% di proprietà di Ortega).
Giovanni Ferrero, la persona più ricca d’Italia, possiede il 75% dell’omonimo impero dolciario di famiglia con sede in Lussemburgo, Ferrero International S.A., una partecipazione del valore stimato di 32 miliardi.
Possiede anche entità con sede in Lussemburgo, tra cui il fondo di investimento privato della famiglia, Teseo Capital, che detiene oltre 23 miliardi di dollari in investimenti in società private, immobili, azioni, obbligazioni e altri beni in paesi tra cui Australia, Cile e Sud Africa. I Ferrero hanno anche un family office con sede a Monaco, Fedesa, con un ufficio di ricerca a Singapore.
Leonardo Del Vecchio, la seconda persona più ricca d’Italia, detiene la maggior parte del patrimonio netto suo e della sua famiglia, oltre 37 miliardi di dollari in azioni pubbliche, tra cui il gigante degli occhiali EssilorLuxottica, la banca d’affari italiana Mediobanca e il fondo immobiliare francese Covivio, attraverso la lussemburghese Delfin Sarl.
Forbes ha scoperto che Delfin possiede anche almeno 60 milioni in altri beni, tra cui immobili sulla Costa Azzurra e in Lussemburgo, un porto turistico per yacht di lusso sulla costa adriatica italiana e un jet Gulfstream G650 da 48 milioni che noleggia alla compagnia aerea charter privata Global Jet.
Forbes ha anche calcolato che Del Vecchio ha guadagnato almeno 5 miliardi di dividendi da azioni pubbliche attraverso Delfin negli ultimi dieci anni. L’Italia tassa i dividendi a un’aliquota minima del 26% e la Francia al 30%, il che significa che Del Vecchio avrebbe potuto risparmiare quasi $ 1 miliardo di tasse raccogliendo dividendi in Lussemburgo e reinvestirli;
La miliardaria francese Carrie Perrodo, che ha ereditato la compagnia petrolifera Perenco del suo defunto marito Hubert dopo la sua morte nel 2006, possiede gli imponenti investimenti vinicoli della sua famiglia attraverso holding registrate in Lussemburgo.
Altri miliardari usano il Lussemburgo con più parsimonia, fondando holding per investire in un hotel di lusso o prendere una piccola quota in una società privata. Il Lussemburgo non tassa i proventi della liquidazione della holding e anche le sue plusvalenze sono esenti da imposta purché detenga almeno una quota del 10% nella società o azioni del valore di 7 milioni per almeno 12 mesi, ovvero qualsiasi miliardario che venda un asset e poi liquida la società che lo possedeva potrebbe arrivare a mantenere il bottino esentasse.
Forbes ha trovato diverse proprietà immobiliari di lusso e investimenti privati precedentemente non dichiarati di proprietà di miliardari attraverso entità lussemburghesi. Questi includono:
John Elkann, numero uno di Exor (la holding della famiglia Agnelli-Elkann) e del gruppo Stellantis, ha investito nella compagnia aerea di elicotteri Monacair con sede a Monaco attraverso il Lussemburgo.
Deteneva una partecipazione del 25% in Eola Luxembourg Sarl, che a sua volta possedeva metà di Monacair, fino a quando lui e i suoi soci in affari, tre membri della famiglia reale di Monaco, hanno venduto le loro partecipazioni in Eola nel 2018 per circa $ 1 milione e hanno liquidato la società un anno dopo;
Il miliardario farmaceutico russo Viktor Kharitonin possiede l’hotel a 4 stelle Lajadira a Cortina D’Ampezzo (del valore di 27 milioni di dollari nel 2020) attraverso la lussemburghese Mountain Resorts S.A.;
Il miliardario russo Mikhail Prokhorov, ex comproprietario dei Brooklyn Nets NBA, possedeva due entità in Lussemburgo (attraverso una società con sede a Cipro chiamata Flister Limited) che insieme detenevano proprietà immobiliari per un valore di circa $ 2,2 milioni a Gaillard, una piccola città sulla costa francese - confine svizzero vicino a Ginevra; ha sciolto entrambe le società nel dicembre 2020.
I cinque figli del miliardario americano di private equity David Bonderman possiedono la lussemburghese Irenne S.a.r.l attraverso Lucayan Partners L.P., una società in accomandita con sede in Texas e registrata nel Delaware.
Caro carburante, il pieno solo il fisco. Di redazione ilsudonline.it il 30 ottobre 2021. A seguito della ripresa degli spostamenti e dell’impennata del prezzo alla pompa della benzina, del diesel e del Gpl per autotrazione, l’Ufficio studi della CGIA stima che quest’anno l’erario incasserà un maggior gettito di circa 1 miliardo di euro. Come mai le casse dello Stato beneficeranno di questo surplus? A fronte dell’aumento dei prezzi del greggio registrato a partire dall’inizio di quest’anno, per lo Stato, che applica sulla base imponibile dei carburanti l’Iva al 22 per cento, il gettito è aumentato. Se poi teniamo conto che questa base imponibile contiene anche le accise, questo è un tipico esempio di doppia tassazione, ovvero di “una tassa sulle tasse”. E’ superfluo ricordare che il prezzo alla pompa della benzina, del diesel e del Gpl per autotrazione non è determinato dallo Stato; tuttavia, l’aumento del costo dei carburanti registrato nel 2021 ha fatto senz’altro bene al fisco, per nulla al portafoglio degli automobilisti. Per questo motivo la CGIA chiede al Governo di restituire agli italiani, in particolar modo agli autotrasportatori e a chi utilizza quotidianamente un autoveicolo per ragioni di lavoro (taxisti, autonoleggiatori, agenti di commercio, etc.), questo “tesoretto” da 1 miliardo di euro, aumentando, ad esempio, il credito di imposta sui carburanti previsto ogni anno a queste categorie in sede di dichiarazione dei redditi. Va altresì ricordato che all’inizio del 2021 sia il prezzo industriale sia quello alla pompa di tutti i carburanti e i relativi consumi erano molto contenuti; questo a seguito della crisi pandemica e delle conseguenti restrizioni alla mobilità applicate allora. Pertanto, l’incremento percentuale di extra gettito registrato fino a oggi “risente” della situazione di partenza e dei successivi aumenti registrati sia dai consumi sia dai prezzi alla pompa di benzina, gasolio e gas per autotrazione. Come dicevamo, nel 2021 i prezzi alla pompa dei carburanti hanno subito degli aumenti importanti. La benzina, ad esempio è passata da un costo medio di 1,47 euro/litro registrato a gennaio fino a 1,72 euro/litro rilevato a ottobre (variazione +17 per cento). Il diesel, invece, costava 1,34 euro/litro ad inizio anno; oggi il prezzo medio ha raggiunto 1,58 euro/litro (+17,9 per cento). Il Gpl, infine, a gennaio ammontava mediamente a 0,63 euro/litro; 9 mesi dopo i proprietari di veicoli alimentati a gas pagano 0,79 euro/litro (+25,4 per cento) (vedi Tab. 1). Per quanto riguarda i consumi, altra variabile indispensabile per calcolare la stima del maggior gettito Iva nel 2021, nei primi 9 mesi dell’anno gli italiani hanno acquistato oltre 5 milioni di tonnellate di benzina, quasi 17 milioni di tonnellate di diesel e poco più di 1 milione di tonnellate di Gpl (vedi Tab. 2). Pertanto, moltiplicando i prezzi medi praticati dalle aree di servizio con i consumi siamo risaliti alla stima del maggior gettito Iva incassato dall’erario nel 2021; importo pari a poco più di 1 miliardo di euro (vedi Tab. 3). Si sottolinea che nella rilevazione eseguita dall’Ufficio studi della CGIA è stato ipotizzato che i consumi dei mesi di ottobre, novembre e dicembre rimarranno in linea con quelli registrati a settembre 2021. Si è infine ipotizzato che anche negli ultimi due mesi di quest’anno i prezzi alla pompa dei tre carburanti presi in esame rimarranno uguali a quelli rilevati in questo mese di ottobre.
Ferruccio De Bortoli per “L’Economia - Corriere della Sera” l'11 ottobre 2021. La legge delega chiesta dal governo al Parlamento in materia fiscale e assistenziale ha lo scopo principale di ridurre il peso della tassazione sul lavoro e sui redditi medi. E, dunque, colpiva l'opposizione - poi subito rientrata - tanto viscerale quanto poco meditata, della Lega. I principali beneficiari, se mai la riforma si farà, saranno lavoratori, pensionati e piccole imprese. Ovvero: la base elettorale classica del movimento che Matteo Salvini ha ereditato da Umberto Bossi e Roberto Maroni. Le possibilità che questo Parlamento possa approvarla sono minime. Sono pressoché nulle però se si concretizzerà il disegno - che la Lega stessa caldeggia - di eleggere Mario Draghi al Quirinale e sciogliere le Camere. All'articolo 8 c'è scritto: «L'attuazione della riforma è modulata con più decreti legislativi da emanare entro tre anni dall'entrata in vigore della presente legge, sottoposti al vincolo dell'invarianza dei saldi economici e finanziari netti dei singoli settori istituzionali, tenuto anche conto della riforma del sistema di assistenza sociale». Non accade tutto nei prossimi mesi, come sembrerebbe seguendo le accese polemiche di questi giorni. La riforma la faranno forse un altro Parlamento e un altro governo. La vicenda del catasto ha poi qualcosa di paradossale e persino di romanzesco. Il governo ha spiegato bene che la revisione degli estimi avrà bisogno di anni. Almeno fino al 2026. E che non vi è alcuna intenzione di rivalutare le rendite catastali a fini fiscali, ma solo di avere una fotografia aggiornata del territorio. Anche per ragioni assicurative e di prevenzione da rischi sismici e climatici. Tralasciamo il fatto che un'operazione fiscale legata alla revisione del catasto potrebbe avere come esito di far pagare meno i possessori di immobili nelle periferie, dunque non i più ricchi. Dimentichiamocelo. Potremmo dire invece, con una battuta, che è difficile essere sovranisti senza conoscere esattamente la propria terra, il proprio patrimonio edilizio. E dunque difendere meglio il territorio. Per esempio mettendo in rete i proprietari dei boschi per proteggere le aree verdi - così preziose per catturare le emissioni - da incendi e valorizzarne i prodotti. «Perché nasconderci dietro l'opacità?» ha detto Draghi. Nell'agitare un po' irresponsabilmente il fantasma di una patrimoniale, partiti ed esponenti della maggioranza - Forza Italia oltre alla Lega - mostrano così di non credere né alla parola del premier né a quella di Daniele Franco, ministro dell'Economia nell'esecutivo di cui fanno parte. Non solo: per ragioni di basso e momentaneo consenso si autoassegnano una poco onorevole patente di scarsa credibilità. Se è in atto una manovra surrettizia di aumento della tassazione sugli immobili, perché mai i cittadini dovrebbero credere e prendere per oro colato nuove promesse e altri impegni, non solo del governo ma anche delle stesse forze politiche? La verità è che la materia fiscale - così delicata, ostica e politicamente sensibile - è foriera di equivoci e soprattutto prigioniera di un racconto di assoluto comodo. Un grande alibi nazionale. La pressione fiscale nel nostro Paese è molto elevata per chi fa fino in fondo il proprio dovere civico. Insopportabilmente elevata. Lo è assai meno (per usare un eufemismo) per chi evade il Fisco e difficilmente troverà conveniente emergere dal nero con un'aliquota Irpef più favorevole. L'ultima Relazione sull'economia non osservata e sull'evasione fiscale e contributiva - la commissione a lungo presieduta da Enrico Giovannini, poi diventato ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture - valutava per il 2019 un leggero miglioramento della perdita di gettito, del cosiddetto tax gap, comunque intorno ai cento miliardi, grazie soprattutto ai progressi nel recupero (leggi fatturazione elettronica) sugli incassi Iva, imposta che rimaneva comunque evasa per circa un quarto. Il tasso di evasione per lavoro autonomo e impresa (dati del 2018) era al 66,9 per cento. Non c'era il Covid. E forse sarebbe opportuno che chi ha ricevuto un aiuto, un indennizzo, un sussidio, e soffre una crisi economica speriamo reversibile, se ne ricordi quando sarà tornato alla normalità, visto che è stato - giustamente - sostenuto dalla massa degli altri contribuenti. Quelli per inciso che finanziano il Servizio sanitario nazionale che ha curato e assistito tutti, senza chiedere loro la dichiarazione dei redditi. Il 57 per cento dei contribuenti, secondo l'analisi di Itinerari previdenziali, società presieduta da Alberto Brambilla, versa un'Irpef (dati 2019) pari a soli 15 miliardi, ma costa in salute, a scuola e assistenza ben 174 miliardi. Non si potrà sempre ricorrere al debito. Né ignorare a lungo questioni di equilibrio nella tassazione fra lavoro e rendita. Il 45,9 per cento dei contribuenti versa solo il 2,62 per cento delle tasse. E solo l'1,13 per cento dichiara di guadagnare più di 100 mila euro l'anno. La filosofia della legge delega sta poi nella possibilità, attraverso la cosiddetta tax compliance , di finanziare con la lotta all'evasione la riduzione delle tasse su lavoro e redditi medi. Il Fondo per la riduzione della pressione fiscale ha raggiunto finora una capienza di 4 miliardi e 357 milioni. Nella Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) si legge un fondato ottimismo sul fatto che questo Fondo possa essere in questi anni irrobustito. La differenza di incassi per l'Erario nel 2021, tra la stima primaverile del Def e quella autunnale della Nadef, è di 6 miliardi e 685 milioni, merito della ripresa ma anche sperabilmente di una maggiore disciplina fiscale. Nella Nadef, tenendo conto dei tassi di crescita per i prossimi anni, le entrate dello Stato dovrebbero aumentare da 513 miliardi di quest' anno ai 572 del 2024. Basteranno queste risorse per finanziare una riforma assolutamente necessaria e non più rinviabile? Nella legge delega ci sono alcuni passaggi inequivocabili. Il ridisegno delle aliquote Irpef e Iva prevede che il governo sia «delegato a eliminare o ridurre in tutto o in parte i regimi di esenzione». E si aggiunge che «ulteriori forme di copertura saranno progressivamente costituite dal riordino della tassazione delle attività finanziarie, dallo spostamento dell'asse del prelievo dal reddito a forme di imposizione reale, da economie nel comparto della spesa pubblica». Righe pesanti, quasi un programma di legislatura, poco commentate. All'articolo 6 è prevista la «graduale eliminazione dell'imposta regionale sulle attività produttive (Irap) con prioritaria esclusione dalla base imponibile del costo del lavoro». L'associazione M&M, presieduta da Fabrizio Pagani, ha prodotto uno studio assai interessante sull'ipotesi di assorbire l'Irap nell'Ires. Il suo gettito oggi è di 25 miliardi (dati 2019) di cui 10,2 a carico delle amministrazioni pubbliche. La stima dell'evasione (dati 2018) è attorno al 19 per cento. L'aliquota Ires potrebbe essere incrementata a un massimo del 29-30 per cento ma nel complesso la pressione fiscale sull'impresa diminuirebbe anche per il risparmio dei costi di compliance. La copertura del minor gettito --si osserva nello studio - è ancora tutta da valutare. E si torna, tra le ipotesi, ai proventi della lotta all'evasione fiscale. Così necessaria, giusta, ma politicamente assai poco spendibile. Nel frattempo meglio prendersela con il catasto.
Tasse casa, con la riforma niente aumenti (almeno per ora). Gli sprechi nella Pa valgono il doppio dell'evasione fiscale. L'analisi della Cgia: contrariamente a quanto si pensa, nel rapporto "dare-avere" tra lo Stato e il contribuente a rimetterci, da un punto di vista strettamente economico, è quest’ultimo. AGI 8 ottobre 2021 - Contrariamente a quanto si pensa, nel rapporto 'dare-avere' tra lo Stato e il contribuente italiano a rimetterci, da un punto di vista strettamente economico, è sicuramente quest’ultimo. L’Ufficio studi della Cgia è giunto a questa conclusione “realizzando” una sorta di 'do ut des' alla rovescia; ovvero, comparando il mancato gettito che la Pubblica amministrazione (Pa) subisce a causa dell’infedeltà fiscale degli italiani con i costi aggiuntivi che gravano su famiglie e imprese a causa del malfunzionamento dei servizi pubblici.
Sebbene il confronto non abbia rigore statistico, presenta una “severità” concettuale inattaccabile
Stando ai dati del ministero dell’Economia e delle Finanze - spiegano gli artigiani - l’evasione fiscale presente in Italia è stimata in circa 110 miliardi di euro all’anno. Un importo "paurosamente elevato" che, comunque, appare decisamente inferiore agli oneri che i cittadini e le imprese subiscono in virtù degli sprechi, degli sperperi e delle inefficienze presenti nella nostra Pa. Scorrendo i risultati di alcuni studi condotti da una mezza dozzina di istituzioni di ricerca molto autorevoli, il danno economico in capo ai contribuenti italiani sarebbe di oltre 200 miliardi di euro all’anno. Si tratta di una dimensione economica quasi doppia rispetto all’evasione. L’Ufficio studi della Cgia tiene a precisare che, quello appena richiamato, è un raffronto che non ha alcun rigore scientifico: gli effetti economici delle inefficienze pubbliche che gravano in particolar modo sulle imprese sono di fonte diversa, i dati non sono omogenei, gli ambiti in molti casi si sovrappongono e, per tali ragioni, non si possono sommare. La riflessione, tuttavia, ha un suo rigore concettuale: nonostante ci sia tanta evasione, una Pa poco efficiente causa ai privati dei danni economici molto superiori. La conclusione a cui è pervenuta la Cgia non appare per nulla scontata, visto che una buona parte dell’opinione pubblica ha una forte sensibilità verso il tema dell’evasione, ritenendo tuttavia meno allarmanti gli effetti degli sprechi, degli sperperi e delle inefficienze della nostra macchina pubblica
L'evasione non può essere vissuta come un alibi perché ci sono gli sprechi
Afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo: “Sgombriamo il campo da qualsiasi equivoco: l’evasione non va mai giustificata e dobbiamo contrastarla ovunque essa si annidi, sia che riguardi i piccoli che i grandi evasori. Se, infatti, portassimo alla luce una buona parte delle risorse sottratte illecitamente all’erario, la nostra Pa avrebbe più soldi, funzionerebbe meglio e, probabilmente, si creerebbero le condizioni per alleggerire il carico fiscale. Oltre a ciò, è altrettanto indispensabile intervenire per ridurre sensibilmente gli sprechi che gravano sulla spesa dello Stato e per aumentare la produttività del lavoro nel pubblico. L’Italia ne trarrebbe un grande beneficio e, molto probabilmente, l’evasione e la pressione fiscale sarebbero più contenute. In altre parole, con meno evasione e una Pa più efficiente potremmo creare le condizioni per rilanciare questo Paese”. Dalla Cgia tengono comunque a precisare che sarebbe sbagliato generalizzare e non riconoscere anche i livelli di eccellenza che caratterizzano molti settori della nostra Pa, come, ad esempio, la sanità, l’istruzione, la ricerca e la qualità del servizio effettuato dalle forze dell’ordine.
È necessario riformare il fisco
"Per molte imprese - dichiara il segretario Renato Mason - il prossimo autunno sarà uno stress test molto delicato. Probabilmente, tante faticheranno a superare questa fase così difficile legata agli effetti della crisi sanitaria; alcuni segnali, infatti, non lasciano presagire nulla di buono. Il Governo, tuttavia, deve assolutamente mettere mano il prima possibile al nostro sistema fiscale, riducendone il prelievo e il numero di adempimenti che continuano ad essere troppi e spesso difficili da espletare. Con meno tasse e una burocrazia fiscale più soft si possono creare le condizioni per far ripartire l’economia. Senza dimenticare che il nostro Paese si regge su un tessuto connettivo formato da tantissime Pmi che faticano a ottenere una risposta agli innumerevoli problemi che condizionano la loro attività lavorativa”.
Le principali inefficienze/sprechi nella nostra Pa
L’Ufficio studi della Cgia ha raccolto e allineato i risultati di una serie di analisi sulle inefficienze e gli sprechi che caratterizzano la nostra Pa. In sintesi sono: il costo annuo sostenuto dalle imprese per la gestione dei rapporti con la Pa (burocrazia) è pari a 57 miliardi di euro (fonte: The European House Ambrosetti); i debiti commerciali della Pa nei confronti dei propri fornitori ammontano a 53 miliardi di euro (fonte: Banca d’Italia); il deficit logistico-infrastrutturale penalizza il nostro sistema economico per un importo di 40 miliardi di euro all’anno (fonte: ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti); se la giustizia civile italiana avesse gli stessi tempi di quella tedesca, il guadagno in termini di Pil sarebbe di 40 miliardi di euro all’anno (fonte: CER-Eures). E ancora: sono 24 i miliardi di euro di spesa pubblica in eccesso che non ci consentono di abbassare la nostra pressione fiscale alla media Ue (fonte: Discussion paper 23 Commissione Europea); gli sprechi e la corruzione presenti nella sanità costano alla collettività 23,5 miliardi di euro ogni anno (fonte: ISPE); gli sprechi e le inefficienze presenti nel settore del trasporto pubblico locale ammontano a 12,5 miliardi di euro all’anno (Fonte: The European House Ambrosetti-Ferrovie dello Stato).
Gli effetti economici di questi malfunzionamenti tratti da fonti diverse - concludono gi artigiani - non si possono sommare, anche perché in molti casi le aree di influenza di queste analisi si accavallano. Tuttavia, queste avvertenze non pregiudicano la correttezza del risultato della comparazione espressa più sopra.
Valerio Valentini per “il Foglio” l'8 ottobre 2021. La scena è questa. Il governo decide che è ora di mettere mano alla riforma del fisco. Si fa una delega che il Parlamento sviluppa, inserendovi una sostanziosa riforma del “catasto dei fabbricati, al fine di attribuire a ciascuna unità immobiliare il relativo valore patrimoniale e la rendita”. Una maggioranza trasversale promuove la proposta, con Lega e Fratelli d’Italia che plaudono e votano entusiasti, e anzi chiedono celerità nell’operare la revisione. L’opposto di quello che accade ora: Salvini e Meloni che si esaltano per la riforma del catasto, col rischio della stangata per i contribuenti. Fantascienza, si dirà. E invece no: è tutto vero. Succedeva con la delega fiscale del 2014, la riforma era la stessa e il testo pure. Non a caso è stato ricopiato in modo pressoché pedissequo nella delega approvata in questi giorni. Anzi, all’epoca non c’era stata neppure la premura, voluta ora da Draghi, di specificare che la revisione non avrebbe influito sulla “determinazione della base imponibile dei tributi”. Ma i sovranisti non ci badavano. “Apprezzabile”, anzi “doverosa”, definivano i patrioti di FdI la revisione del catasto. Il leghista Centinaio sollecitava a fare presto. “Cinque anni? In cinque anni di evasione ce ne sarà veramente tanta, serve un’accelerazione”. Fosse dipeso da lui, la riforma sarebbe già conclusa da tempo. E con tutti i commi che oggi Salvini considera indegni. Si è perfino presentato coi fogli in mano davanti ai giornalisti, Salvini, due giorni fa. “Articolo 7, comma 2, lettera a e b: qui si nasconde l’aumento delle tasse”, sentenziava. “Qui si vuole ‘attribuire a ciascuna unità immobiliare un valore patrimoniale e una rendita attualizzata in base ai valori normali espressi dal mercato’”. E su quell’attualizzata si soffermava come si fa su un dettaglio scabroso. “E poi – proseguiva nella lettura – si vogliono ‘prevedere meccanismi di adeguamento periodico dei valori patrimoniali e delle rendite delle unità immobiliari urbane’”. Ecco l’imbroglio: voleva fargliela sotto il naso, Draghi, e invece lui, il Capitano, se n’è accorto. Non s’è accorto, però, che quelle proposte il suo partito le aveva già approvate. Per ben tre volte: due alla Camera e una al Senato, tra il settembre del 2013 e il febbraio del 2014. E quei due commi c’erano. La famigerata lettera a era divisa in due sottocommi, f e h, del comma 2 dell’articolo 1. L’altra lettera incriminata, la b, è addirittura copiata parola per parola. La delega del resto venne varata al termine di un lavoro avviato dal governo Berlusconi e arrivato fino a quello Renzi. Convergenze trasversalissime: tra i primi firmatari c’erano i dem Causi e Migliore e il montiano Zanetti; il relatore alla Camera fu quel Daniele Capezzone, allora in FI, che oggi dalle colonne della Verità tuona contro “il bagno di sangue”, “la bomba a orologeria” della riforma del catasto di Draghi. E andarsi a rileggere i commenti che facevano i sovranisti di allora è sorprendente. Il 4 febbraio del 2014, al Senato, i leghisti Bellot e Centinaio invitavano il governo alla celerità, perché, come affermava il futuro ministro dell’Agricoltura, “ormai da mesi diciamo che ci sono zone d’Italia dove il catasto non esiste neanche, dove c’è un abusivismo selvaggio, pazzesco”. Due settimane più tardi, alla Camera, il leghista Busin ribadiva che “la riforma del catasto è forse la più urgente per evitare vere e proprie ingiustizie”. Pasquale Maietta, di FdI, si augurava che “questa non sia l’ennesima delega i cui decreti attuativi subiscono continui rinvii”. Invece andò a finire proprio così. Non se ne fece niente. Con grande scorno di leghisti e meloniani, evidentemente: fosse dipeso da loro, sarebbe già in vigore, la “patrimoniale”.
Casa dolce casa. Perché l’Italia ha davvero bisogno di una riforma del catasto. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta l'8 ottobre 2021. Il governo ha stabilito nuovi parametri che dal 2026 attualizzeranno il calcolo delle tasse da pagare. L’idea alla base è renderle più vicine ai valori di mercato. Così potrebbero anche riemergere oltre un milione di immobili fantasma. La riforma del Fisco ha già creato diverse frizioni all’interno della maggioranza. Martedì scorso il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega e subito sono arrivate le critiche della Lega, che non ha votato il testo. L’articolo 7 sulla riforma del catasto genera maggior tensione: secondo il leader del Carroccio, Matteo Salvini, così com’è stata pensata, la riforma del catasto rischierebbe di causare un forte aumento delle imposte sulla casa. Ma il presidente del Consiglio Mario Draghi ha già spiegato che si tratta di una semplice «riformulazione», non di una «revisione» del catasto, cioè nulla più di «un’operazione di trasparenza, con l’impegno da parte del suo governo che nessuno pagherà di più o di meno». La riforma del catasto è indicata anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, e quel che è contenuto nella legge delega non basterebbe a completare l’opera. Di fatto è solo un primo passo. In particolare, l’articolo 7 del documento è dedicato alla “Modernizzazione degli strumenti di mappatura degli immobili e revisione del catasto fabbricati”. Il cambiamento più importante riguarda il sistema di valutazione della rendita catastale, con il passaggio dal numero di vani ai metri quadrati. «Le tasse sugli immobili (come l’Imu) dipendono dal valore che le viene attribuito dal catasto, ma l’unità di misura più logica per questa valutazione è quella dei metri quadrati», dice a Linkiesta Fabrizio Pistolesi, ex segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Architetti. «Il calcolo sui vani ha creato forti disparità: per fare un esempio concreto, è accaduto che nelle grandi città ci siano abitazioni, non particolarmente grandi in termini di metratura, che hanno una rendita catastale solo poco inferiore a quella di abitazioni più grandi e più prestigiose situate in pieno centro». Non si conoscono ancora i parametri che incideranno sul valore, ma l’idea alla base è ottenere rendite catastali attualizzate, cioè più vicine ai valori di mercato degli immobili. «La posizione di un immobile è importante: sappiamo che un immobile a Piazza Navona avrà un valore diverso da un immobile uguale che però si trova nella periferia di Roma. Ma anche quello non può essere l’unico elemento di valutazione. Oggi non incide, nella rendita catastale, la data di ristrutturazione di un immobile, quanto è vecchio, la qualità della struttura, se è antisismico o meno, e altri parametri. In questo modo però il valore della rendita catastale si distacca molto dal valore di mercato dell’immobile», dice Pistolesi. In ogni caso, le nuove valutazioni non avranno effetti immediati. Gli estimi catastali, le rendite e i valori patrimoniali per la determinazione delle imposte rimarranno quelli attuali fino al 2026. Vuol dire che non ci saranno cambiamenti nella determinazione delle imposte. «Questa è una legge delega generale, che poi andrà riempita dei contenuti, che sono i decreti delegati su ci sarà un ulteriore confronto in Parlamento. Il processo non è così semplice prenderà molti anni», ha detto il premier Draghi. Un altro punto essenziale della riforma – che nasce da una ricerca che il catasto ha fatto alcuni anni fa – è l’emersione di immobili e terreni non accatastati. L’idea è individuare gli immobili attualmente non censiti dal catasto (i cosiddetti “immobili fantasma”), quelli che non rispettano la loro destinazione d’uso e quelli abusivi, facilitando la condivisione dei dati tra Agenzia delle entrate e amministrazioni locali. In questa fase si farà solo una valutazione dell’esistente, una fotografia dello stato dell’arte per far riemergere circa un milione di immobili fantasma. «Sappiamo che molti degli immobili italiani non erano registrati al catasto. È emerso da semplici rilevazioni empiriche: bastava sovrapporre le foto aeree e le mappe catastali per rendersi conto che in queste ultime alcuni immobili non comparivano, e quindi sfuggivano alla normale tassazione», dice l’architetto Pistolesi. Ma il discorso sugli immobili fantasma al momento pare secondario. Le maggiori criticità politiche riguardano un possibile aumento delle tasse. Se da un lato Draghi ha già spiegato che non ci sarà questo pericolo, dall’altro la Lega sembra non sentire. Matteo Salvini ha trovato una sponda in Confedilizia, l’associazione dei proprietari immobiliari. «Le dichiarazioni di Draghi non ci rassicurano. Dice che il governo non aumenterà le tasse, ma secondo noi in questa delega così generica predispone il sistema in modo che qualsiasi governo verrà potrà aumentarle», ha detto il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa. È probabile che il governo Draghi prosegua per la sua strada, come ha già dimostrato di voler fare in passato – al netto delle preoccupazioni dei singoli partiti all’interno della maggioranza. E nel caso in cui dovesse portare a compimento una riforma del catasto riuscirebbe in un’impresa – se così si può definire – che l’Italia aspetta da molto tempo. «Al di là delle valutazioni politiche – conclude l’architetto Fabrizio Pistolesi – è certo che il catasto italiano è rimasto quello pensato ormai una settantina di anni fa. Questa riforma non può più aspettare, è assolutamente necessaria. Non possiamo basarci su norme stabilite subito dopo la Seconda Guerra Mondiale che hanno più riscontro nell’attualità».
Maria Pia Mazza per open.online l'1 ottobre 2021. Via libera della Cassazione alle tasse sulle mance. La sentenza della Suprema corte, depositata il 30 settembre, ha stabilito che andranno pagate le tasse sulle mance, perché queste ultime sono da considerarsi parte del reddito da lavoro dipendente, sia a fini fiscali sia contributivi. Le mance, inoltre, vengono guadagnate dalla propria prestazione lavorativa, costituendo dunque un’entrata «sulla cui percezione il dipendente può fare, per sua comune esperienza, ragionevole se non certo affidamento». La sentenza della Cassazione, come riportato dal Sole 24 Ore, arriva in risposta a un ricorso presentato da un dipendente di un hotel di lusso della Costa Smeralda, che era stato accusato di evasione fiscale dall’Agenzia delle Entrate per non aver dichiarato di aver guadagnato circa 84 mila euro di mance in un anno di lavoro da dipendente. La Corte di Cassazione ha dunque concluso che «in tema di reddito da lavoro dipendente, le erogazioni liberali percepite dal lavoratore dipendente, in relazione alla propria attività lavorativa, tra cui le cosiddette mance, rientrano nell’ambito della nozione onnicomprensiva di reddito fissata dall’articolo 51, primo comma, del Dpr 917/1986, e sono pertanto soggette a tassazione».
Il rebus della tassa sulla «buonamano». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021. Mancia competente. Una sentenza della Suprema corte, depositata il 30 settembre, ha stabilito che andranno pagate le tasse sulle mance, perché queste ultime sono da considerarsi parte del reddito da lavoro dipendente, sia a fini fiscali che contributivi. È facile prevedere scarse entrate per il Fisco. In Italia la cultura della mancia è poco diffusa, continua a essere un rebus del saper vivere e della signorilità («il resto mancia» significa sbarazzarsi degli spiccioli). La mancia è un arco che si tende fra due estremi: c’è chi la subisce come una sorta di piccola tangente e chi, con malizia, la offre in anticipo per accattivarsi la benevolenza del cameriere. Temo, giustamente, che i beneficiari della «buonamano» (un tempo si chiamava anche così) si guarderanno bene dal renderla pubblica. C’è crisi nei settori della ristorazione e dell’accoglienza e sono pochi gli imprenditori che investono nel personale. A meno che la mancia non finisca sul conto, come succede nei paesi anglosassoni (dove, però, è considerata parte del salario). Il nome mancia deriva dal francese «manche», manica; nel medioevo, durante i tornei, le dame donavano al vincitore una delle loro maniche. Così la «manche» diventa il riconoscimento simbolico, ciò che è dato senza che sia dovuto. Meglio se di manica larga.
DiMartedì, Pietro Senaldi contro Fratoianni: "Se aumenti le tasse sulla casa colpisci solo il ceto medio". Libero Quotidiano il 29 settembre 2021. Come aumentare le tasse (sulla casa) e far pagare sempre gli stessi, cioè il ceto medio. Pietro Senaldi, in collegamento con Giovanni Floris a DiMartedì, rintuzza Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, favorevole a un aumento della tassazione per i proprietari di immobili. Lo spunto polemico è un servizio su chi, nonostante la crisi, riesce a spendere anche 5.000 euro a serata facendo la bella vita. L'idea dei progressisti è quella di aumentare l'Imu sulla seconda casa: a Roma, chi possiede una seconda casa magari ereditata dalla nonna defunta in una zona semicentrale della Capitale rischierebbe di dover pagare 3.648 euro in più all'anno. Una bella stangata sul mattone. "Quello che spende 5.000 euro - sottolinea il condirettore di Libero - lavora per papà e quei soldi li scarica tutti come spese di rappresentanza dell'azienda. Io penso questo: l'aumento delle tasse non va a prendere i soldi dai ricchi, tu puoi anche portare la tassazione all'80% ma tu vai a beccare sempre il ceto medio". "Alla faccia del ceto medio - protesta Fratoianni - vorrei sapere chi c'ha due case a Roma. Forse non hai capito in che mondo viviamo...". "Forse qualche centinaio di migliaio di persone - replica Senaldi -, non sto parlando del centro di Roma, non è così. A Roma ci sono tanti proprietari di casa, è possibile che ci siano doppie proprietà. Essendo in Italia l'80% proprietario di case, è statistica che almeno il 50% ne abbia due. No?". E Fratoianni non può che annuire.
Quanto costerebbe un litro di benzina senza le accise? Redazione Money.it il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Vediamo a quanto ammontano e cosa stiamo ancora pagando: si tratta di più di metà del prezzo finale. Da mesi il costo della benzina sta salendo sempre di più e con gli ultimi rincari sul costo delle materie prime la benzina ha raggiunto un prezzo mai così alto dal 2014. Ma quanto costerebbe un litro di benzina senza accise? Come spiega Money.it, se venissero aboliti i costi odiosi e datati delle accise, un litro di benzina costerebbe 0,555 euro (il 35% del prezzo attuale di 1,577 euro/litro). Il diesel andrebbe a poco più di 0,559 euro al litro, corrispondente al 41% in meno rispetto al prezzo attuale di 1,444 euro. A parte le accise, che da sole costituiscono più della metà del prezzo finale, c’è da tenere in considerazione anche l’aumento del costo delle materie prime. L’aumento non ha conseguenze solo per fare il pieno, ma si ripercuote anche sulle utenze.
Facendo i conti, il rincaro finale che va a pesare sul portafogli degli automobilisti è di 338 euro all’anno per la benzina e di 299 euro per il gasolio.
Ma cosa paghiamo quando facciamo benzina? Ecco, alcune delle accise pagate dagli italiani:
0,0001 euro per il finanziamento della guerra d’Etiopia del 1935-1936;
0,007 euro per il finanziamento della crisi di Suez del 1956;
0,005 euro per la ricostruzione dopo il disastro del Vajont del 1963;
0,005 euro per la ricostruzione dopo l’alluvione di Firenze del 1966;
0,005 euro per la ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968;
0,051 euro per la ricostruzione dopo il terremoto del Friuli del 1976;
0,038 euro per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980;
0,106 euro per il finanziamento della guerra del Libano del 1983;
0,0114 euro per il finanziamento della missione in Bosnia del 1996;
0,02 euro per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004.
Secondo le rilevazioni settimanali del Mite, il prezzo medio della benzina verde in modalità self è arrivato, nella scorsa settimana, a 1,670 euro al litro, con un rialzo di 8,58 centesimi, raggiungendo così il livello più alto da fine ottobre 2014: un record senza dubbio infelice.
L’odissea lunga 10 anni di un imprenditore col fisco: assolto due volte e beffato. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Agosto 2021. All’Agenzia delle entrate, è noto, non piace mai perdere. E la Cassazione gli viene incontro. La giustizia tributaria è spesso considerata la “Cenerentola” delle giurisdizioni. Trattandosi di una magistratura “onoraria”, quindi con giudici non di ruolo ma prestati dalle altre giurisdizioni, viene sempre guardata dall’alto verso il basso. E questo nonostante il valore delle cause trattate dai giudici tributari ammonti mediamente a circa 40 miliardi di euro ogni anno. In pratica oltre un paio punti di Pil. Negli scorsi mesi la giustizia tributaria è finita, suo malgrado, al centro del dibattito istituzionale. Il primo presidente della Corte di Cassazione, infatti, durante l’ultima cerimonia di inaugurazione dell’Anno giudiziario, ha pubblicamente stigmatizzato il non eccelso livello delle sentenze delle Commissioni tributarie. La bassa qualità di queste sentenze, secondo il presidente Piero Curzio, costringerebbe a un super lavoro i giudici di piazza Cavour. Gli innumerevoli errori nelle sentenze delle Commissioni tributarie sarebbero, poi, la causa principale dello spaventoso arretrato presso la Cassazione. Le parole di Curzio hanno lasciato il segno: insediatosi il governo Draghi, il ministro dell’Economia Daniele Franco e la ministra della Giustizia Marta Cartabia hanno immediatamente nominato una Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, finalizzata proprio all’abbattimento dell’arretrato in Cassazione. I ritardi a Piazza Cavour sarebbero anche uno dei principali ostacoli per le risorse previste dal Recovery plan che esige tempi rapidi per le sentenze. La realtà, però, non è sempre così. A conforto di una diversa narrazione ecco la storia di L.N., un imprenditore calabrese che da oltre un decennio cerca di risolvere, al momento senza grande successo, il suo contenzioso con il fisco. L.N. riceve nel 2015 un accertamento da parte dell’Agenzia dell’entrate per oltre 60.000,00 di Irpef ed Irap non pagate. I fatti risalgono al 2009. L’imprenditore presenta allora ricorso che viene accolto agli inizi del 2016 dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza con conseguente annullamento dell’atto impugnato. L’Agenzia delle entrate non si perde d’animo e decide di fare appello davanti alla Commissione tributaria regionale della Calabria. L’appello viene rigettato a luglio del 2018. L.N. pensa, allora, di aver risolto i problemi e di essersi messo finalmente l’anima in pace. La cancelleria della Commissione tributaria regionale della Calabria aveva anche attestato il passaggio in giudicato della sentenza. L’Agenzia delle entrate, invece, dopo circa 14 mesi dal deposito della sentenza di secondo grado riapre i giochi e notifica a L.N. di aver presentato ricorso per Cassazione. L.N. tramite il suo difensore eccepisce la palese “improcedibilità”, ricordando che il termine per l’impugnazione è di sei mesi. Codice alla mano L.N. si sente tranquillo e non ci pensa più. La scorsa settimana arriva la doccia fredda: il ricorso dell’Agenzia dell’entrate è stato accolto dalla Cassazione che con un’ordinanza ha intimato a L.N. il pagamento della cartella che nel frattempo, fra interessi, more, spese varie è quasi raddoppiata. Sconforto da parte dell’avvocato dell’imprenditore. «Nell’ordinanza non è stata spesa neppure una parola in ordine alla eccezione di inammissibilità e tardività, che non è stata rigettata, ma non è stata neppure esaminata, a conferma che i miei atti non sono stati neppure letti», ha dichiarato l’avvocato calabrese Enio Abonante, preparandosi a proporre “ricorso per revocazione” davanti a un’altra sezione della Corte di Cassazione. Altro tempo, altro stress, altre spese. Per una cartella di ormai tredici anni addietro. Morale: si potranno realizzare tutte le riforme possibili. Ma se poi le norme non vengono applicate si rimane sempre al punto di partenza. Altro che Recovery plan. Paolo Comi
Claire Bal per "la Stampa" l'11 agosto 2021. «Sanzioni amministrative effettive» contro gli esercenti che rifiutino pagamenti con il Pos. Il tema della moneta elettronica ritorna d'attualità grazie alla road map delle riforme legate al Recovery Plan: la «propensione all'evasione» di tutte le imposte (tranne accise e Imu) nel 2024 «deve essere inferiore» del 15% rispetto al 2019, dice il governo, e fra le iniziative per contrastarla c'è anche l'incentivazione dei pagamenti tracciabili. In teoria, tutti coloro che vendono beni, servizi e prestazioni, quindi commercianti, ristoratori, artigiani, liberi professionisti, sono obbligati ad avere il Pos già a partire dal 2014, grazie al decreto legge numero 179/2012 del governo Monti. L'assenza di sanzioni per chi non si adegua, però, ha indotto alcuni a ignorare la normativa. «Da sempre abbiamo sostenuto come le norme fossero del tutto inutili perché mancavano sanzioni nei confronti di chi rifiutava pagamenti con carte o bancomat», dice il Codacons, che parla di «una situazione paradossale in cui ancora oggi numerosi negozianti in tutta Italia, pur possedendo il Pos, impediscono ai clienti di pagare con moneta elettronica, consapevoli che non andranno incontro ad alcuna multa». L'Unione nazionale dei consumatori guarda con incredulità al nuovo annuncio. «Non ci crediamo finché non lo vediamo, o meglio fino a che non diventerà legge dello Stato con tanto di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale» dice il presidente Massimiliano Dona. «Già in passato abbiamo assistito ad annunci poi rivelatesi solo fake news. Il massimo è stato con il Governo Conte II, che nel dl fisco aveva introdotto sanzioni pari a 30 euro, più il 4% del valore della transazione. Peccato che poi, dopo le solite proteste dei commercianti e degli esercenti, in fase di conversione del decreto, le sanzioni magicamente sparirono» dice Dona. Ora, dopo che il decreto-legge 99 del 30 giugno 2021 ha alzato il credito d'imposta dal 30 al 100% per le commissioni addebitate per le transazioni con carte, «le scuse stanno a zero. Che sia la volta buona?», dice Dona. Commercianti, esercenti e artigiani, però, non si dicono critici verso l'obbligo di accettare pagamenti elettronico. «È una vecchia questione che non si è mai risolta», dice Bruno Panieri, direttore politiche economiche di Confartigianato. «La maggior parte dei nostri operatori usa già pagamenti tracciabili, come i bonifici. Non abbiamo problemi ad adottare il Pos, il problema è se rimane un'aerea di incertezza». «Gli stessi commercianti sono favorevoli ai pagamenti elettronici per agevolare i clienti ed evitare i problemi delle banconote false e delle rapine», dice Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti, «ma prima di tutto bisogna lavorare sulla connessione, perché non ovunque c'è una copertura adeguata, è capitato a tutti di dover fare la transazione più volte perché la linea è scarsa. Le riforme vanno affrontate con pragmaticità e senza fare balzi in avanti che non sono d'aiuto a nessuno. E poi è importantissimo affrontare la questione delle commissioni». Sui costi si sofferma anche il direttore Fipe Confcommercio, Roberto Calugi. «Pensiamo che il pagamento elettronico sia uno strumento minimo di marketing, non si può non avere il Pos nel 2021. C'è però il problema delle commissioni e dei Pos, che hanno dei costi eccessivi rispetto al servizio reale che offrono. Secondo noi se si vuole incentivare la moneta elettronica bisogna abbassare gli oneri legati agli strumenti per usarla». Dietro la ritrosia a usare il Pos «non c'è il nero, ma i costi che sono associati», dice Calugi. Un problema soprattutto per le piccole cifre. «Si immagini se tutti volessero pagare il caffè con la carta. Sotto certe cifre si paga una commissione fissa, quasi quasi conviene offrirlo».
Milena Gabanelli e Mario Gerevini per il "Corriere della Sera" il 21 luglio 2021. La prima volta ci fai appena caso: una sconosciuta azienda italiana scompare, incorporata da una finanziaria del Delaware. Poi le operazioni aumentano, progressivamente. Ci segniamo date e nomi per due anni, fino a pochi giorni fa. Dal Piemonte alla Sicilia decine di aziende vengono prelevate con tutto il patrimonio (spesso sono solo debiti) fondendosi in sconosciute holding del piccolo e blindato Stato americano, tutte Limited liability company (Llc) che godono di benefici fiscali. La regia tecnica di molte fusioni riconduce a un ufficio romano ai Parioli. Alcuni esempi tra i tanti. Napoli: un irrintracciabile insegnante, Antonio Passaretti, è alla guida del gruppo Copetrol che nel 2018 commercia formaggi, nel 2019 si converte al trading petrolifero e nel 2020, con il fatturato esploso da 0 a 44 milioni senza spiegazioni in bilancio, chiude i battenti e trasloca nel Delaware. Nel frattempo aveva assorbito aziende di gas e chimica, una intestata a un certo Alberto Scarrone, falso avvocato che da tempo imperversa a Imperia. Rovigo: una società petrolifera con decine di milioni di fatturato, l'Atlantica Energia, prima di trasferirsi in Usa aveva sede allo stesso domicilio di un Bed & Breakfast, ma la titolare del B&B non ne sapeva nulla. Milano: la fusione dell'italiana Event Better (organizza eventi) con la Phoenix del Delaware è stata chiusa pochi giorni fa. «Strategia internazionale - spiega la commercialista Mafalda Poli che l'ha organizzata con il consulente svizzero Giulio Maione - gli investitori americani erano molto interessati alla Event Better». Posseduta fino a dicembre 2020 da un enologo veronese, Event Better ha realizzato 6 mila euro di giro d'affari in tre anni. E gli investitori americani? Titolare della Phoenix in Delaware risulta essere una sarta di Settimo Milanese. Patrizia Lucantoni nel suo piccolo negozio conferma: «Sì sono io, mi hanno offerto 300 euro per firmare, avevo bisogno di soldi ma non me li hanno ancora dati». Prestanome, dunque. La traccia delle operazioni è in annunci affogati tra le pagine della Gazzetta Ufficiale: «fusioni transfrontaliere», la definizione tecnica. Ovunque si realizzino, deve esserne dato preavviso in Gazzetta nell'interesse dei creditori, fisco compreso. Infatti nei casi estremi le società potrebbero essere fatte sparire a un passo dal crac, o essere scatole vuote caricate di debiti prima di emigrare, o un mezzo per commettere frodi e reati fiscali. Un file (6992210) del registro imprese del Delaware indica un nome: Zafinvest llc. Buona parte delle imprese italiane sono state incorporate da questa finanziaria e da una sua "sorella", Wall System llc, domiciliate presso una società di servizi amministrativi, la Harvard Business Service, che sta in mezzo ai campi di mais della Coastal Highway. La Zafinvest e altre simili riconducono a un ufficio a Roma, nel quartiere Parioli. A gestire le operazioni sono professionisti italiani. Un nome: F.anco O.tenzi, specialista di pratiche societarie e fiscali con varie vicissitudini giudiziarie alle spalle. «Sono incensurato - sottolinea - ; le operazioni sono di natura straordinaria, legittime e corrette sia dal punto di vista ideologico che formale, non c'è una virgola fuori posto». Non è noto se vi siano indagini in corso, quindi non si possono ipotizzare illeciti. Stiamo ai fatti: i fatti dicono che le operazioni non hanno nulla di trasparente. La Tenz & Quater è una società di consulenza che si iscrive in Camera di Commercio di Roma nel 2019 e subito dopo prepara le carte per emigrare in Delaware. Stesso percorso per la "Ex St" che nasce, non fa nulla e poco dopo emigra. Ce ne sono altre. Qual è la ratio? Potrebbe essere la cosiddetta "manovra del panino" che si sviluppa in tre fasi: 1) La società italiana avvia l'iter per le nozze con la società del Delaware, la Zafinvest di turno; 2) Quando nel Delaware è tutto pronto per incorporare la società italiana, questa all'ultimo inserisce la farcitura: debiti o un patrimonio da far "sparire", o un'altra azienda vicina al dissesto; 3) Così la Zafinvest, cioè l'incorporante, si mangia il panino farcito e tutto scompare in modo formalmente inattaccabile. Solo ipotesi naturalmente. Ci sono broker assicurativi con un perimetro d'affari provinciale che portano tutto in Delaware «per motivi di business». Lo stesso i titolari di un piccolo supermercato di Ragusa nel dicembre scorso. A giugno la veneta Nextage, un'azienda di abbigliamento sportivo di un imprenditore locale che non presenta bilanci dal 2017, ha affidato a O.tenzi, il professionista dei Parioli, il trasloco in Delaware. Nel 2019 era stato il presidente della Camera di Commercio Italo-Cipriota, Giuseppe Marino, assicuratore, a decidere di far migrare un paio di società di brokeraggio sotto il suo controllo (Sintesi e Multibrand) per un «riposizionamento a livello internazionale». Hanno ricavi da cartoleria di paese e sono finanziariamente traballanti. Lo scorso marzo la Entrerprise di Roma ha avviato la fusione nel Delaware. È a capo di un gruppo di aziende di prodotti petroliferi con curve di fatturato da 0 a 60 milioni in dodici mesi. Dipendenti? Zero. Una di esse ha avviato le pratiche per emettere obbligazioni (4,5 milioni) da far sottoscrivere alla società pubblica Invitalia nell'ambito del piano di aiuto alle imprese. Un caso particolare è la Toolk di Fermo, nelle Marche, un'azienda di calzature per grandi griffe della moda, con 80 dipendenti, 13 milioni di fatturato, 25 anni di attività. In difficoltà già nei mesi pre-Covid, a giugno 2020 scoppia la rivolta dei terzisti cinesi che chiedono di essere pagati. Poco prima di Ferragosto scattano 80 lettere di licenziamento, l'azienda è sull'orlo del crac, ma finora le istanze di fallimento sono state respinte dal tribunale. Nel giugno 2020 Luigi Gobbi, l'imprenditore -fondatore, vende per 17.300 euro la Toolk alla misteriosa società romana Starlite che fa trasporto merci su strada, e che il 7 agosto incorpora il calzaturificio "con effetti fiscali dall'1 maggio 2020", Starlite subentra nel patrimonio dell'azienda e dichiara di essere la controparte di privati, enti e uffici pubblici per qualsiasi atto. Però quello stesso giorno scatta anche la fusione transfrontaliera: Starlite "sparisce", incorporata dalla Wall System del Delaware, portandosi dietro i 10 milioni di debiti della Toolk. È proprio la "manovra panino". Cala la nebbia. Da agosto 2020 i 368 fornitori, le 10 banche, gli 80 dipendenti, l'Erario e il tribunale hanno come riferimento un'inconsistente finanziaria del Delaware rappresentata per alcuni atti da una signora residente a Ladispoli, Marina Mannucci, e da una fiduciaria di Cipro, la Hamervate. Passo indietro. Fino a quattro-cinque anni fa, operazioni simili si chiudevano a Lugano dove la Zafinvest (prima di clonarsi in Delaware) e le sue sorelle hanno "prelevato" dall'Italia, tra le tante, la Piemonte Spurghi, cave bresciane, una carrozzeria con sede al secondo piano di un bel palazzo romano (le auto andavano su in ascensore?), un negozio di moda di Barletta, e un ristorante-fantasma alle porte di Napoli. Alcune di queste erano controllate da una finanziaria svizzera (The True Ice), poi fallita, e gestita da Antonio Costantino, stesso nome, cognome, luogo di origine, e anno di nascita, di uno dei 70 indagati dalla Dda di Catanzaro in un'inchiesta sui narcos calabresi.
Alessandro Barbera per "La Stampa" l'1 luglio 2021. Quasi cinque miliardi di euro a favore dei più ricchi mentre un milione di italiani finiva in povertà. Il giudizio di Mario Draghi sul cashback di Stato voluto dal governo Conte è senza appello. Ieri il consiglio dei ministri ha approvato un decreto con diverse misure, la più importante delle quali è la sospensione fino al primo gennaio dei rimborsi per l'uso dei pagamenti elettronici. La promessa di reintrodurlo, accompagnata dall'impegno a rafforzare la lotta all'evasione, ha evitato uno scontro con il Movimento Cinque Stelle, ma le ragioni esposte dal premier durante la riunione danno l'impressione che qualunque cosa arriverà dopo sarà molto diverso. «Il cashback di Stato ha carattere regressivo». Draghi ha fra le mani le statistiche preparate dal ministero del Tesoro, secondo le quali il profilo del perfetto utilizzatore della carta ha tre caratteristiche: meno di 65 anni, un reddito medio alto e vive in una città del Nord. Il cashback nasce con due precisi obiettivi: colpire l'evasione e stimolare i consumi. Draghi è convinto che fin qui i costi hanno superato di gran lunga i benefici. «La misura rischia di accentuare la sperequazione fra i redditi, favorendo i più ricchi con una propensione al consumo presumibilmente più bassa, determinando un effetto moltiplicativo sul Pil non sufficientemente significativo a fronte del costo della misura». Non solo: «Non esiste alcuna obiettiva evidenza della maggiore propensione all'utilizzo dei pagamenti elettronici». Infatti, «quasi il 73 per cento delle famiglie già spende tramite le carte più del plafond previsto dal provvedimento». I nuclei del quinto più povero «dovrebbero aumentare la loro spesa con carte di quasi il 40 per cento, mentre quelle più abbienti solo dell'uno». A sostegno della sua tesi Draghi offre altri numeri: le transazioni che hanno raggiunto l'obiettivo previsto per l'erogazione del rimborso (cinquanta nel semestre) rappresentano solo la metà del totale, mentre il 40 per cento dei beneficiari ha comunque effettuato un numero di transazioni tali da far ritenere che si tratti di persone che già usano le carte di credito. E dunque, poiché la misura è costata 4,75 miliardi, «va valutata non solo in relazione ai benefici, ma anche al costo e all'attuale quadro economico e sociale che nel 2020 ha visto entrare in povertà assoluta 335mila nuclei familiari e un milione di persone». Detta più esplicitamente, un enorme spreco di denaro senza «effetti significativi» sul gettito fiscale. Al contrario «è probabile che le transazioni elettroniche crescano per effetto del cashback soprattutto in settori già a bassa evasione come la grande distribuzione organizzata». Difficile non leggere in filigrana un giudizio sullo sponsor numero uno della misura, ovvero l'ex premier Giuseppe Conte. In Consiglio dei ministri, nel quale più d'uno viene dal governo precedente, non c'è stata grande discussione. Stefano Patuanelli, ministro dell'Agricoltura e fedelissimo dell'ex premier, si è per ora accontentato della promessa di reintrodurre la misura dopo un monitoraggio dell'evoluzione dei pagamenti elettronici. Non ha trovato alleati: sia il leader leghista Matteo Salvini che la capogruppo al Senato di Forza Italia Annamaria Bernini hanno applaudito allo stop. In compenso Salvini ha dovuto digerire l'ennesimo stop alla riapertura delle discoteche. Il consiglio ha anche approvato il disegno di legge delega per rendere certi i tempi degli appalti proposto dal ministro Enrico Giovannini. La delega punta a rendere più stretto il legame fra normativa nazionale e direttive europee, a semplificare le procedure negli investimenti in tecnologie verdi e digitali, i protagonisti del Recovery Plan europeo.
L'ipocrisia di chi chiede più tasse. Nicola Porro il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. C'è il miliardario che fa affari solo sulla vecchia economia, c'è il giovane della Silicon Valley pronto a qualsiasi diversity, c'è il monopolista dei sistemi operativi mondiali, tutti che piagnucolano su quante poche tasse pagano. A febbraio di due anni fa, uno degli uomini più ricchi del pianeta, Warren Buffett si fa intervistare in una trasmissione di punta di Cnbc, Squawk Box per dire, e non era la prima volta, che «i ricchi sono decisamente sottotassati». Il suo collega (in termini di conto corrente) Bill Gates disse un anno prima a Fareed Zakaria sulla Cnn che occorreva alzare le imposte sui più ricchi. Alla vigilia delle presidenziali americane del 2020, diciotto miliardari a stelle e strisce scrivono una lettera aperta per chiedere al governo di mettere una tassa sui super ricchi. Tra di loro George Soros, quello che distrusse il valore di lira e sterlina, grazie alle sue spericolate e vincenti speculazioni. E c'era anche Chris Huges, cofondatore di Facebook, nuovo ricco grazie ai dati di miliardi di cittadini globali. Ciò che li mette tutti insieme è la loro favolosa ipocrisia. C'è il miliardario che fa affari solo sulla vecchia economia, c'è il giovane della Silicon Valley pronto a qualsiasi diversity, c'è lo speculatore stile Anni 80, c'è il monopolista dei sistemi operativi mondiali, tutti che piagnucolano su quante poche tasse pagano. Bisognerebbe ricordare loro due cose banali. La prima riguarda i loro guadagni. Essi non derivano dalla fortuna, ma dai loro comportamenti. Avrebbero potuto, se gli utili e i loro redditi li scandalizzano troppo, ridurre i margini: speculare un po' meno, regalare qualche Windows in più o magari non attaccarci obbligatoriamente altri programmini, e via dicendo. Insomma, loro pagano poche tasse su redditi giganti: invece di chiedere allo Stato di tassarli di più, avrebbero potuto, se proprio ci tengono, ridurre il proprio reddito a beneficio di milioni di consumatori che usano e comprano i loro prodotti. Insomma, perché chiedere allo Stato di fare ciò che avrebbero potuto realizzare autonomamente? La seconda considerazione riguarda le tasse che effettivamente pagano questi signori. Esse derivano dagli utili che fanno le loro società. Ebbene, le loro multinazionali sono famose per sfruttare ogni spiraglio della legge fiscale americana per abbassare il loro tax rates. Solo esattamente le loro multinazionali a parcheggiare miliardi di ricavi all'estero per non pagare le tasse, più alte, in America. È per colpa loro che Biden vuole imporre una tassa minima globale: le loro aziende vanno alla ricerca di paradisi fiscali. Potrebbero astenersi. Le loro multinazionali pagherebbero più tasse, ridurrebbero così i loro utili e per questa via la ricchezza che accumulano questi ipocriti Paperoni. Perché oggi ci ricordiamo di loro? Semplice. Sono usciti nei giorni scorsi dei documenti segreti del Fisco americano secondo i quali i 25 americani più ricchi negli ultimi quindici anni hanno pagato un'aliquota reale del 3,4% contro il 14% di coloro che guadagnano fino a 70mila euro. Tra di loro, molti dei moralisti che, mentre chiedevano l'aumento delle tasse, facevano di tutto per pagarne il meno possibile.
Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, conduce il programma d'approfondimento "Virus, il contagio delle idee", il venerdì in prima serata...
Gassmann sposa la "causa rossa": pure lui vuole la patrimoniale. Serena Pizzi il 13 Giugno 2021 su Il Giornale. Gassmann si accoda alla sinistra. Pure lui vuole tassarci a tutti i costi. Ora si è convinto che la patrimoniale possa dare un futuro stabile ai giovani. La sinistra può immediatamente accogliere fra le sue braccia un nuovo "adepto": Alessandro Gassmann. L'attore, dopo un breve passato da delatore (ricordate la vicenda durante il lockdown?), ha sposato la rossissima causa "tassiamo gli italiani finché possiamo". Non bastavano Letta, Orlando e quanti sono ossessionati dal nostro portafoglio. Ci mancava lui, Gassmann. Ma spieghiamo bene la questione. L'attore - lui come il resto dei suoi colleghi - utilizza i social per scrivere tutto ciò che gli passa per la testa. Dal "wow, che bella partita" a "sostengo la patrimoniale". Liberissimo, ci mancherebbe. Ma a volte bisogna rendersi conto che ad un'azione corrisponde una reazione. Ad un'azione non gradita, quindi, corrisponde una risposta piccata. E bisogna anche rendersi conto che, se si è un personaggio pubblico, le parole non passano inosservate. Fatte queste premesse, ci fiondiamo su Twitter per leggere le parole di Gassmann. Purtroppo l'attore ci ha bloccato, quindi, dobbiamo ripiegare sulla navigazione in incognito. Con questa modalità cerchiamo il suo profilo social e vediamo che ieri pomeriggio cinguettava in un italiano zoppicante: "In momenti difficili, chi ha molto può - e secondo me dovrebbe - dare a chi è in maggiore difficoltà. Nel nostro Paese, chi è da anni in maggiore difficoltà sono i giovani. #patrimoniale" (Alessandro, mi sono permessa di cancellare tutte quelle virgole buttate un po' a casaccio, ndr). Queste due frasi sgangherate hanno fatto breccia nella "bolla" rossastra alla quale appartiene l'attore. "Bravo, sono d'accordo con te", "Già ti amo, ora ancora di più", "Detto da te vale doppio", "Parole sante", si legge. Ovviamente, non tutti pendono dalle labbra di Gassmann e provano (inutilmente) a fargli notare che "il problema è pensare di risolvere i problemi strutturali con bonus a pioggia" o "tassando tutto ciò che uno si è guadagnato o costruito nella vita". "Devono dargli lavoro e dignità, non soldi e pantofole". Ragionamenti che non fanno una piega e agitano un po' le "tifoserie". Perché non possiamo credere che qualcuno sostenga ancora che per i giovani sia meglio ricevere una dote o un reddito di cittadinanza piuttosto che una prospettiva futura più solida (magari un lavoro). Qualcun altro, poi, si butta in splendidi voli pindarici: "Scarso come attore ma ancora peggio come ministro dell'Economia". Ma un utente in particolare attira la nostra attenzione: Simona Ventura. La conduttrice si limita a scrivere poche parole: "Io invece credo che i giovani abbiano bisogno di opportunità da mordere, di sogni da realizzare, di ostacoli da superare. Basta assistenzialismo". Non l'avesse mai fatto. Mai toccare il beniamino rosso. Mai. "È bello parlare da chi ha vissuto nella bambagia e spintarelle!!!!!!! A vucca e na ricchezza. Tutti froci con il culo degli altri", scrive il caro Antonio. E la Ventura sbrocca: "Guarda, razza di idiota, che io mi sono guadagnata tutto quello che ho ottenuto. La mia storia parla per me, quindi informati, ignorante. Addio". Da questo scambio di battute in poi, scoppia il delirio e ogni tanto l'attore rispunta fra i commenti. Dice ad un utente che è riuscito a farsi lo spid (bah!), ad un altro risponde che vuole dare il buon esempio e "vedi che se vuoi capisci" (simpatico!) e a un altro ancora replica che ai giovani si potrebbero dare "soldi e lavoro, io faccio la mia parte". Beh, i messaggi sotto il post dell'attore sono parecchi. Specifichiamo, prima di venir accusati di "estrapolare frasi": ne abbiamo riportate solo una parte. Ma si trovano tutte online. Se siete fra i "fortunati" ancora liberi di poter andare sul profilo Twitter dell'attore (e vi interessa), potrete farvi un'idea di ciò che qui vi abbiamo solo riassunto. Se invece in passato avete osato criticare, pure voi siete stati bloccati: fuori dalla cerchia magica. Tranquilli, siete in ottima compagnia. Insieme ce ne faremo una ragione.
Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone. Del resto sono i dettagli a fare la differenza, no? Vivo in simbiosi con i miei cani. Loro conoscono Serena in tutte le sue sfaccettature.
Patrimoniale, i vip di sinistra si schierano a favore della tassa: da Gassman a Carofiglio, tutti i nomi coinvolti. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. Fermi tutti. Il mondo della cultura si schiera con Enrico Letta nella caccia al ricco. L'idea di una tassa patrimoniale piace un sacco. È cool. È desinistra. Il gusto sadico di impalare un possidente, privarlo della grana con cui acquista orrendi suv color fluo e con cui sciabola bottiglie di Dompe al Billionaire, non ha eguali. Si deve fare. È giusto. È corretto. È redistributivo. Parola da pronunciare rigorosamente con la erre moscia, sennò non vale. Niente, Enrico stavolta ha fatto il botto. L'ha detta giusta. È il fustigatore della riccanza. il Robin Hood degli Champs Elysées. Perché poi il malloppo tolto ai bifolchi infarciti va "restituito" ai giovani. Sotto forma di tesoretto. E che tesoretto: un assegno da 10mila euro per 280mila diciottenni. Qualche giorno fa Alessandro Gassman ha lanciato una campagna social per sostenere la genialata lettiana: «In momenti difficili, chi ha molto, può - e secondo me dovrebbe - dare a chi è in maggiore difficoltà. Nel nostro paese, chi è da anni in maggiore difficoltà, sono i giovani». Tutto bellissimo. E tutto fintissimo. Uno, perché Mario Draghi ha già detto che non se ne parla proprio («Non è il momento di togliere, ma di dare»). Due, perché la presunta operazione di redistribuzione ideata dal segretario del Pd è basata su numeri strampalati. Cifre che non esistono. Secondo Enrico, in Italia esisterebbero 412mila contribuenti con un patrimonio da un milione di euro in su. E, essendo quella proposta da Letta una tassa di successione, questi fantomatici ricchi dovrebbero morire tutti insieme in modo da far ricavare allo Stato 2,8 miliardi di euro, da distribuire, in carnè da dieci kappa, ai neo maggiorenni. Categoria scelta così, forse perché "18 anni" entrava bene in un tweet. Mentre ci sono le Partite Iva che sacramentano contro il redditometro e le famiglie che protestano per l'esiguità dell'assegno unico.
Numeri farlocchi. Comunque sia, i numeri di Letta sono buoni per il lotto. E forse neanche. Secondo l'Agenzia delle Entrate solo lo 0,1 per cento degli italiani ha redditi dichiarati superiori ai 300mila euro. Dunque, ammesso che abbia senso far pagare due volte le tasse sul patrimonio (al morituro e agli eredi), le cifre non tornano. Però fa niente. Letta riceve il plauso degli intellettuali. Sulla fiducia. «Non è solo una questione tecnica e fiscale, ma di etica sociale», precisa lo scrittore Gianrico Carofiglio, che sposa l'appello dell'attore Alessandro Gassmann. «Sono favorevole» alla patrimoniale, dichiara all'Adnkronos, «in forme ovviamente intelligenti e non punitive, perché la tassazione degli enormi patrimoni in una misura molto circoscritta corrisponde a un obbligo minimo di solidarietà senza il quale le società non si reggono». Bisogna individuare, aggiunge, «chi può pagarla senza subire alcun contraccolpo sulla qualità della sua vita. Una persona che ha cinquecento o mille appartamenti, e ce ne sono, che tipo di danno riporterebbe con la patrimoniale? Ovviamente nessuno». Mentre invece il beneficio che deriva dalla redistribuzione di questa piccola parte di enormi patrimoni è «enorme sia per gli individui sia per la società e l'economia. Nel senso che aumenta la possibilità di spendere e quindi produce crescita e sviluppo». Carofiglio tiene a sottolineare che la reazione di «coloro i quali sostengono che non bisogna aumentare le tasse parlando di patrimoniale o è strumentale oppure è segno di una scarsa comprensione del problema, perché evidentemente si tratta di tutt'altro». Per lo scrittore, infatti, «non si tratta di aumentare le tasse sul reddito, ma di operare su una minuscola parte ultra ricca della popolazione che ha tutto, incluso il superfluo, un piccolo prelievo che serva a garantire un minimo etico di solidarietà. In una democrazia avanzata, conclude lo scrittore, «questo è indispensabile, diversamente salta tutto».
Momento giusto? La patrimoniale invocata da Gassman è una misura giusta soprattutto in un momento come questo, «in cui le sperequazioni e le disuguaglianze nel nostro Paese sono intollerabili». Maurizio De Giovanni, parlando anche lui con l'Adnkronos, si dice favorevole. E «Io lo sono da tempo. Mi rendo conto dell'impopolarità di questa manovra e di quanto sia facile dire banalmente togliamo le tasse. È un momento in cui le sperequazioni e le disuguaglianze in questo Paese sono intollerabili. La pandemia ha allargato spaventosamente il gap e ha creato una condizione veramente insostenibile. Penso che non possiamo continuare a ballare sul ponte della nave che affonda. Dobbiamo renderci conto che questo è un problema sociale che può diventare anche un serio problema di ordine pubblico». «Quindi», conclude lo scrittore, «questo è il momento in cui c'è bisogno di una presenza solidale di un valore perequativo del fisco. Non capisco quest' ansia dell'accumulo che crea questo atteggiamento difensivo. Stiamo parlando di patrimoni enormi. Non vedo proprio il problema». Sposa l'appello anche l'attrice e regista Simona Marchini. Pure se dice che la vera questione è un'altra: «C'è solo un unico problema. I privilegi dei ricchi e dei potenti, l'evasione fiscale. Non esisterebbero i paradisi fiscali. Questo è lo scandalo, ma purtroppo c'è una connivenza mondiale. Questa è la difficoltà di partenza se vogliamo cominciare a parlare di patrimoniale». L'unica che prova a distinguersi dal coro è Simona Ventura («Basta assistenzialismo, ai giovani vanno date opportunità») e viene crocifissa dalla rete.
Luca Fazzo per "il Giornale" il 15 luglio 2021. Il Force Blue non esiste più, svenduto in tutta fretta dalla Corte d'appello di Genova alla vigilia dell'udienza decisiva. E così a Flavio Briatore, che dello splendido yacht era il padrone, come consolazione non rimangono che le motivazioni depositate l'altroieri della sentenza con cui la Cassazione ha maltrattato l'ostinazione dell'intera magistratura del capoluogo ligure - accusa e giudici - nel portare avanti una accusa senza capo né coda. Ovvero che Briatore fosse una sorta di furbetto della crociera, che spacciasse per yacht aziendale e da noleggio quella che era la sua barca privata: con robusti vantaggi fiscali. Che la Cassazione annulli una condanna fa parte delle giuste dinamiche giudiziarie. Che debba farlo due volte perché i giudici del posto se ne sono fregati è meno consueto. E forse si spiega solo con la verve con cui la procura genovese ha gestito fin dall'inizio l'inchiesta su Briatore e la sua barca: compreso lo spettacolare arrembaggio con cui lo yacht venne assicurato alla giustizia. All'inizio, le cose per l'accusa erano andate bene: Briatore condannato nel 2015 a un anno e undici mesi di carcere - insieme al malcapitato comandante della barca e a altri imputati - per avere sottratto al fisco tre milioni e 600mila euro, importando il Force Blue e rifornendolo di carburante dietro lo schermo di una società ombra, spacciandolo per natante da noleggio e usandolo in realtà per i comodi propri. In appello, altra condanna. Ma nel 2015 la Cassazione annulla, spiegando ai colleghi genovesi di avere sbagliato tutto. E rimanda loro il fascicolo perché si adeguino. Invece, come si legge testualmente nelle motivazioni ora depositate, la Corte d'appello di Genova «si comporta come se tutto ciò che è scritto nella sentenza di annullamento non la riguardasse». Cioè afferma un'altra volta che Briatore è colpevole, gli concede la prescrizione ma intanto gli porta via sia il Force Blue che i 3,6 milioni, ripetendo un'altra volta che la barca era il giocattolo personale dell'inventore del Billionaire. Ma - scrive la Cassazione - «come si spiega il fatto che il Force Blue ha effettivamente navigato in Italia e all'estero conducendo clienti terzi in forza di regolari contratti di charter?». Quindi, a quindici anni dai fatti, nuovo processo d'appello: e vedremo se la Corte genovese si adeguerà. Intanto, lo yacht è andato: valeva diciannove milioni, i giudici genovesi lo hanno messo all'asta per sette, ne hanno incassati sette e mezzo. Era sotto sequestro da dieci anni, ma era diventato improvvisamente «deperibile».
Marco Zini per tag43.it il 14 giugno 2021. Una vicenda durata 11 anni, combattuta a suon di carte bollate, sentenze e contro sentenze. Esasperati antagonismi, come quello tra i due protagonisti della storia: Walter Cotugno, pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Genova, e Flavio Briatore da Verzuolo, provincia di Cuneo, ma residente da tempo in quel di Montecarlo. Per poi arrivare all’epilogo di questi giorni, clamoroso. Con la Cassazione che ha annullato per la seconda volta la confisca di Force Blue, il panfilo del signor Billionaire. Ripercorriamo i fatti, andando un po’ indietro nel tempo.
Nel 2010 l’abbordaggio della Finanza al largo di La Spezia. Maggio 2010. Lo yacht Force Blue naviga dal Principato di Monaco verso Forte dei Marmi, dove è previsto il suo ancoraggio nella località turistica di Cinquale. Quando accade che al largo della Spezia uno drappello di finanzieri scortati da elicotteri abbordano il panfilo su gommoni ultraveloci e, armi in pugno, lo dirottano a Porto Lotti. A bordo del Force Blue ci sono Elisabetta Gregoraci, showgirl calabrese e allora moglie di Briatore, e il loro figlio appena nato Nathan Falco. È il primo passo dell’operazione “No Boat No Crime”, così la definì il sito Dagospia, in cui il procuratore Cotugno – già noto alla cronaca giudiziaria per avere ordinato una serie di sequestri che fecero clamore, come quelli di una centrale elettrica e dell’ufficio urbanistica del Comune di Voghera – muove all’attacco di Briatore.
Il procuratore Walter Cotugno di Genova contro Briatore. Il sequestro poteva essere fatto una volta scesi i passeggeri a Forte dei Marmi. Ma così sarebbe venuto meno l’elemento drammaturgico e, soprattutto, l’esposizione mediatica dell’operazione (che infatti fu grande) ideata dal procuratore che coordinava l’incursione dal suo ufficio genovese.
I capi d’accusa. Il Force Blue è di proprietà della Autumn Sailing, società a sua volta riferibile allo stesso Briatore. La legge dice che le imbarcazioni utilizzate per scopi commerciali non devono pagare l’Iva. Il Force Blue è uno degli yacht più noleggiati al mondo. Guardando lo storico dei passeggeri famosi si vede che vi hanno passato le loro vacanze il cantante Phil Collins, la scrittrice Danielle Steel e molti altri ancora. Il fatto è che il panfilo è stato utilizzato anche da Briatore a tariffe scontate rispetto agli altri noleggiatori.
L’accusa: aver evaso l’Iva mascherando l’uso privato della barca con quello commerciale. La questione, quindi, vista da fuori sembra abbastanza semplice: il Force Blue era utilizzato per una attività commerciale nonostante fosse usato anche dall’imprenditore a prezzi scontati. Come potrebbe essere per un hotel dove il proprietario soggiorna con una certa frequenza approfittando di una tariffa agevolata. In entrambi i casi, barca e hotel, secondo la tesi difensiva, lo scopo commerciale resta evidente. Diversa invece l’opinione del magistrato genovese per il quale Briatore è colpevole di evasione di imposta. Negli 11 anni che seguono quell’abbordaggio dei finanzieri capita di tutto. Briatore viene condannato a Genova in primo grado, sentenza poi confermata in appello. A pochi giorni dalla udienza della Cassazione che doveva valutare se la (prima) sentenza di secondo grado che condannava l’imprenditore di Verzuolo fosse corretta o meno, Cotugno gli contesta il tentativo di corruzione di un funzionario dell’Agenzia delle Entrate affinché potesse pagare tutte le imposte contestate dagli uffici fiscali.
Il rimpallo tra Corte d’Appello e Cassazione. Da qui in poi comincia un andirivieni della questione sulla tratta Roma-Genova, in un crescendo di suspence. Nel 2018, la Cassazione boccia infatti la (prima) sentenza di condanna della Corte di Appello di Genova e chiede a una nuova sezione della medesima Corte di riconsiderare la questione, dicendo esplicitamente dove i giudici avessero sbagliato. Cotugno però non accetta la conclusione degli Ermellini e dopo avere chiesto in modo se non irrituale decisamente atipico di potere discutere personalmente la questione dinnanzi alla nuova sezione della Corte di Appello, si presenta al cospetto dei colleghi argomentando che i Giudici della Corte di Cassazione avevano travisato i fatti e Briatore non poteva restare impunito. Argomentazioni convincenti le sue se è vero che i giudici dell’Appello scavalcano i colleghi della Cassazione, gerarchicamente superiori, e condannano per la seconda volta Briatore. Dunque per loro Force Blue celava, dietro l’uso commerciale, il fato di essere un panfilo privato.
Indagato anche il commercialista che gestiva Force Blu per contro del Tribunale. Nel frattempo però il reato cade in prescrizione. A quel punto Cotugno non si rassegna, e indaga per peculato e omissione di atti di ufficio anche il commercialista che gestiva il Force Blue su richiesta del Tribunale di Genova. L’accusa? Aver pagato i costi connessi alla gestione dello yacht, come i componenti dell’equipaggio, prima di stornare il residuo alla Procura della Repubblica. Secondo il pubblico ministero i ricavi dei noleggi del Force Blue nel periodo in cui è stato confiscato (lo yacht è stato noleggiato per ben 10 anni dopo il primo sequestro, nonostante non si fosse ancora capito se si trattasse di uso privato o commerciale) avrebbero dovuto essere integralmente riscossi dalla Procura della Repubblica, mentre i costi avrebbero dovuto essere pagati integralmente da qualcun altro, probabilmente da Briatore.
La svendita del panfilo a Bernie Ecclestone per 7,49 milioni. A quel punto però il magistrato prende una decisione inopinata accelerando sulla vendita del Force Blue, cosa che accade nel 2021, 11 anni dopo il famoso abbordaggio in mare che ha dato il via alla vicenda. Con procedura rapida e nonostante l’armatore – pur di temporeggiare fino alla udienza in Cassazione – avesse mandato i soldi per anticipare ogni eventuale costo del natante, su richiesta del nuovo gestore dello yacht. La vendita avviene in favore di Bernie Ecclestone che lo compra all’asta a meno di un quarto del valore (7,49 milioni) attribuito dalla stessa Procura in sede penale, ovviamente senza Iva, a poche settimane dalla udienza che avrebbe dovuto discutere la correttezza o meno della (seconda) sentenza della Corte di Appello di Genova che ha condannato Briatore.
Ora lo Stato potrebbe essere condannato a risarcire Briatore. Conclusione. Negli ultimi 10 giorni, tra maggio e giugno 2021, la Cassazione è dovuta tornare sulla questione per ben due volte. La prima affermando che il decreto che ordinava la vendita all’incanto dello yacht era illegittimo. La seconda che lo era pure la sentenza della Corte di Appello che (ri)condannava Briatore. Ora si occuperà della questione la terza (e ultima) sezione della Corte di Appello di Genova. Ma gli effetti sono grotteschi. Il Force Blue è stato svenduto e lo Stato potrebbe essere chiamato a risarcire i danni subiti da Briatore. Insomma, potrebbe succedere che a pagare siano i contribuenti nonostante Briatore si fosse dichiarato disponibile a saldare tutte le imposte contestate dagli uffici fiscali, oltre gli interessi, per un importo più o meno pari alla cifra incassata per la vendita all’incanto del Force Blue. E il magistrato che con l’incauta accelerazione della vendita al ribasso della barca potrebbe aver causato un danno all’Erario? Lui è l’unico che di sicuro non pagherà nulla.
"Da 11 anni mi danno dell'evasore...": Briatore zittisce tutti. Alessandro Imperiali l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. È stata annullata dalla Cassazione la confisca dello yacht di 63 metri di Flavio Briatore. Oltre ai "danni morali incalcolabili", il Force Blue è stato venduto a gennaio. Il Force Blue, yacht da 63 metri, di Flavio Briatore non doveva essere confiscato. La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'Appello di Genova che lo sequestrava, Ciò significa che inizierà il terzo processo, in undici anni, per stabilire se la confisca sia giusta o meno. Una situazione paradossale dal momento che tutte le accuse, quelle di false fatturazioni e di evasione dell'Iva, sono cadute per insussistenza e prescrizione. In tutta questa storia c'è un particolare ancora più assurdo: il Force Blue è stato venduto a gennaio dallo Stato italiano a Bernie Ecclestone, suo storico amico dai tempi della Formula 1. In un'intervista al Corriere, Briatore afferma: "Ho trovato nella Cassazione un giudice indipendente che valuta senza pregiudizi, è la seconda volta che lo fa. Poi rinvia in Appello e in Appello mi danno sempre torto. I miei avvocati, nella loro pur lunga esperienza, hanno rara memoria di due annullamenti e due condanne". In merito alla vendita dello yacht, l'imprenditore non trova ragioni valide per spiegare il motivo per cui lo Stato, nonostante tre istanze affinché venisse aspettata la sentenza della Cassazione, abbia deciso di fare l'asta in pieno Covid senza neanche dare la possibilità ai possibili acquirenti di andare a vederla. "È uno yacht, non un cargo di banane che vanno a male. L'Autumn Sailing, la società armatrice, ha pure versato i soldi che servivano per la manutenzione e per tenerla in porto ma non li hanno voluti. Risultato: l'hanno svenduta per 7 milioni" spiega Briatore. Riavere la barca è impossibile ma ciò che turba soprattutto il proprietario del Billionaire sono i danni morali: "Quelli che ho subito sono incalcolabili: da undici anni, tutti mi danno dell'evasore fiscale, pure in tv. Consideri che sono schedato nella World Check: non posso avere un mutuo, un prestito, niente. Io sono fortunato ma una persona con meno mezzi ne esce distrutta". L'Italia, dal suo punto di vista, ha bisogno di una riforma perché "non puoi tenere uno sulla graticola per anni" e questo è anche uno dei motivi per cui gli imprenditori non investono nel Bel Paese in quanto "sono terrorizzati dalle lentezza e dall'incertezza della nostra giustizia". In merito, invece, ai Billionaire nel mondo che gestisce racconta: "Sono tutti aperti senza discoteca. E il 24 luglio apre Porto Cervo però ho una proposta: se chiudi le discoteche, i giovani non vanno a letto alle diei ma fanno di tutto in spiaggia e nelle case. Perché non aprire le discoteche a chi è vaccinato o ha fatto il tampone?". E aggiunge: "Il personale deve essere vaccinato: se sei No Vax, vai a lavorare nei locali No Vax e a infettarti con quelli come te. Sono pronto a fare un hub vaccinale il pomeriggio così la discoteca diventa anche un incentivo al vaccino. Ora abbiamo" - conclude - "un generale gentiluomo come Figliuolo, gli errori non vanno ripetuti".
Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti.
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” l'11 giugno 2021. È difficile dire se sia più surreale la vicenda in sé o Flavio Briatore che cita Bertolt Brecht o quantomeno un'espressione attribuita al drammaturgo.Mister Billionarie sospira e dice: «Ho trovato il mio "giudice di Berlino". Ha presente la storia del mugnaio tedesco vessato dall'imperatore, che gira tutti i tribunali e pensa: ci sarà un giudice a Berlino? E, alla fine, trova finalmente giustizia». In pratica, la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d' Appello di Genova che confiscava la sua mega barca da 63 metri. Dovrà aprirsi un altro processo, il terzo in undici anni. Stavolta, per stabilire se la confisca è giusta nonostante tutte le accuse siano cadute, quelle di false fatturazioni per insussistenza, quelle di evasione dell'Iva per prescrizione. Insomma, questo potrebbe voler dire che il Force Blue non era da confiscare. Peccato che, nel frattempo, a gennaio, lo Stato l'abbia già venduto. Fra l'altro, a Bernie Ecclestone, storico amico di Briatore.
Flavio, perché cita «il giudice di Berlino»?
«Perché ho trovato nella Cassazione un giudice indipendente che valuta senza pregiudizi. È la seconda volta che lo fa. Poi, rinvia in Appello e, in Appello mi danno sempre torto. I miei avvocati, nella loro pur lunga esperienza, hanno rara memoria di due annullamenti e due condanne».
Come si spiega la vendita della barca prima del verdetto definitivo?
«Chi lo sa? Abbiamo presentato tre istanze affinché aspettassero la Cassazione e non facessero l'asta in pieno Covid, con gli acquirenti che neanche potevano andare a vederla.
Qual era la fretta di darla via? È uno yacht, non un cargo di banane che vanno a male. L' Autumn Sailing, la società armatrice, ha pure versato i soldi che servivano per la manutenzione e per tenerla in porto, ma non li hanno voluti. Risultato: l'hanno svenduta a sette milioni».
Se dovesse vincere, che risarcimento chiederà?
«Chiunque dovesse vincere, è stato fatto un danno enorme o a me oppure allo Stato: il Force Blue valeva circa 20 milioni di euro».
E se invece ha ragione?
«Riavere la barca è impossibile. E i danni morali che ho subito sono incalcolabili: da undici anni, tutti mi danno dell'evasore fiscale, pure in tv. Consideri che sono schedato nella World Check: non posso avere un mutuo, un prestito, niente. Se per lavorare non avessi avuto capitali miei, sarei fallito. Io sono fortunato, ma una persona con meno mezzi ne esce distrutta. Gli imprenditori non investono in Italia perché sono terrorizzati dalla lentezza e dall' incertezza della nostra giustizia. È arrivato il momento di mettere mano a una riforma: non puoi tenere uno sulla graticola per anni. E poi, io non ho mai nascosto che la barca fosse di una società che è controllata dal mio trust e che da sempre fa attività di charter. E che certo non gestisco io: mi sono rivolto ai migliori consulenti, che l'hanno gestita come centinaia di altre, ma guarda caso, solo io sono stato contestato».
Perché «guarda caso»? Chi ce l'avrebbe con lei?
«Forse nessuno? Forse sono solo sfortunato?».
Com' è che il Force Blue è stato comprato da Ecclestone?
«Siamo amici dai tempi in cui iniziavo in Formula Uno. Ogni volta che c'era un Gran Premio a Montecarlo, era mio ospite. Lo conosceva e sapeva che, a quel prezzo, era un affare. Sono felice che l'abbia lui».
Lei che tipo di malore ha avuto a Baku, il 4 giugno?
«Ero al Gran Premio, ho preso una bottiglietta d' acqua e ho sentito che la mano era pesante, come se avesse dentro tutti chiodi. Sentivo male, come se fossi mezzo paralizzato.
Sono arrivati i medici, mi hanno fatto degli esami che ho mandato a Milano al dottor Alberto Zangrillo. Ho dormito in hotel e, al mattino, piano piano, ho messo un piede per terra e non succedeva nulla di strano. Ho preso coraggio, ho messo l'altro: era tutto normale, stavo benissimo, sono pure uscito a piedi».
Quindi, cosa ha avuto?
«Boh, non si sa. Gli esami erano normalissimi. Magari una botta di stress».
Com' è la situazione dei vari Billionaire nel mondo in questa seconda estate col Covid?
«Tutti aperti senza discoteca. E il 24 luglio apre Porto Cervo con cena e show. Però, ho una proposta: se chiudi le discoteche, i giovani non vanno a letto alle dieci, ma fanno di tutto in spiaggia e nelle case, allora, perché non aprire le discoteche a chi è vaccinato o ha fatto il tampone? In più, il personale deve essere vaccinato: se sei No Vax, vai a lavorare nei locali No Vax e a infettarti con quelli come te. Io sono pronto a fare un hub vaccinale il pomeriggio. Così la discoteca diventa anche un incentivo al vaccino. L' anno scorso abbiamo pagato l'inesperienza, ma ora abbiamo i vaccini, un generale gentiluomo come Figliuolo, e gli errori non vanno ripetuti».
Magistratura, Pietro Senaldi: "Perché serve la riforma della giustizia. Se le toghe mettono in ginocchio anche Briatore..." Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Il condirettore di Libero Pietro Senaldi esamina tre casi di malagiustizia: "Flavio Briatore: accusa di evasione fiscale, processo cominciato dieci anni fa, gli hanno sequestrato lo yatch e svenduto. Poi si è scoperto che si erano sbagliati e ora bisogna ricomprare la barca a Briatore. Secondo caso: un pm della procura di Milano, un eroe, è indagato perché pare che nel mettere sotto processo l'Eni avrebbe omesso di allegare agli atti dell'inchiesta un video che scagionava l'Eni e quindi avrebbe smontato la sua accusa. Infine, Silvio Berlusconi, il quale giustamente sostiene che il suo problema non sia la salute ma i giudici. Queste sono però soggetti che se la possono cavare: pensiamo a tutti quei poveracci che sono perseguitati dagli errori giudiziari ma non sono dei miliardari e che quindi non hanno le disponibilità economiche per difendersi, per anni, da una giustizia che non funziona. Io mi chiedo quanto tempo ancora ci vorrà prima di avere una riforma. Una giustizia che non funziona, infatti, non danneggia solo i miliardari, che sono quelli che finiscono sui giornali, danneggia di più i poveretti".
Guido Crosetto contro la magistratura: "Lo yacht è di Briatore? La cosa non interessa. Ma se fosse casa vostra..." Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Guido Crosetto fa una inquietante osservazione sul caso dello yacht di Flavio Briatore e sui danni che la magistratura può arrecare a tutti noi. Scrive infatti in un post pubblicato sul suo profilo Twitter: "Siccome si parla di una barca e lui è Briatore, la cosa non colpisce i più ma provate a pensare a cosa significa che la magistratura, senza attendere il giudizio definitivo, decide di sequestrare casa vostra, che vale 100 e la vende all’asta a 30. Poi vi assolvono. E nessuno paga". Ecco, così un magistrato può farci finire sul lastrico con una mossa sola. Un gravissimo errore, insomma, sul quale bisogna evidentemente fare una riflessione. Lo Stato italiano, infatti, rischia di dover risarcire Briatore, perché il suo yacht Force Blue non doveva essere confiscato e messo all'asta, come invece accaduto il 31 dicembre scorso. Clamorosa svolta giudiziaria: la seconda sezione della Cassazione ha annullato la sentenza emessa nell'ottobre 2019 dalla Corte d'Appello di Genova che aveva sì assolto per prescrizione Briatore, disponendo però la confisca del megayacht ormeggiato a Sestri Ponente. Dieci giorni fa, la Cassazione aveva già contestato un altro verdetto del Tribunale genovese, sempre sulla vendita affrettata dell'imbarcazione nonostante i ricorsi degli avvocati di Briatore. Invece avevano ragione loro, i legali di Mister Billionaire: un team "all star" composto dai Principi del Foro Giuseppe Sciacchitano, Cesare Manzitti, Andrea Vernazza, Franco Coppi, Massimo Pellicciotta e Fabio Lattanzi. E ora il Tribunale d'Appello di Genova dovrà riaprire il caso, annullando la sentenza precedente che confiscava il Force Blue. Piccolo dettaglio: lo yacht ora è proprietà di un amico storico di Briatore, l'ex patron della F1 Bernie Ecclestone, che se l'era aggiudicato "a prezzo di saldo", per soli 7 milioni e 440mila euro. Il gioiellino dei mari, che era stato valutato 20 milioni di euro, rimarrà al suo nuovo proprietario, sarà lo Stato a doversi fare carico delle eventuali conseguenze legali di una vicenda che va avanti ormai dal 2010, tra condanne, confische e ricorsi. Ma pensate se quello yacht fosse casa vostra...
Patrizia Albanese per "la Stampa" il 10 giugno 2021. Il Force Blue di Flavio Briatore non doveva essere confiscato. E quindi non doveva essere messo all' asta il 31 dicembre scorso. La seconda sezione della Cassazione ieri ha annullato la sentenza emessa nell' ottobre 2019 dalla Corte d' Appello di Genova. Che aveva assolto per prescrizione Briatore, pur disponendo la confisca del megayacht ormeggiato a Sestri Ponente. Ebbene, quella confisca non s' aveva da fare, hanno sentenziato gli Ermellini: in meno di 15 giorni hanno dato due volte ragione all' ex patron della Formula 1. Poco più di dieci giorni fa avevano già contestato un altro verdetto genovese, legato in quel caso proprio alla rapida vendita all' asta dell'imbarcazione. Con tanti saluti al ricorso che il pattuglione di avvocati difensori aveva presentato, nel tentativo di bloccare quell' incanto che aveva stupito lo stesso notaio. I ricorsi al Riesame non erano stati neppure presi in considerazione. E quando la Cassazione ha sentenziato che quei ricorsi non andavano respinti tout court, il Riesame aveva allargato le braccia. Spiegando: ormai è fatta, lo yacht è stato venduto all' asta e non ci si può più far nulla. Appunto ciò che i legali - Giuseppe Sciacchitano, Cesare Manzitti, Andrea Vernazza, Franco Coppi, Massimo Pellicciotta e Fabio Lattanzi - avevano tentato di evitare fino all' ultimo. La sentenza di ieri chiede ai giudici dell'Appello di Genova - ormai è rimasta una sola sezione che può occuparsi di questa vicenda senza fine - di giudicare nuovamente la vicenda. Annullando la sentenza precedente che confiscava l'imbarcazione. Il Force Blue, messo all' asta, ora è di Bernie Ecclestone: se l' era aggiudicato con un' offerta di 7 milioni e 440 mila euro, formulata in una busta aperta - con altre cinque - dal notaio genovese Ugo Bechini. Già qualche mese fa s' era posto il problema: e se la Cassazione dovesse poi annullare la sentenza di confisca? Il problema è che la barca ormai ha preso il largo. Briatore e la società armatrice Autumn Sailing sul Force Blue non hanno più alcun diritto. Gli resta soltanto l'amarezza di chi crede fermamente di aver ragione - ora con l'imprimatur della Cassazione - dopo essersi trascinato nelle aule giudiziarie dal 2010. Certo, quello tra Briatore e il Tribunale genovese sembra un match. A colpi di condanne e confische e ora con la Suprema Corte a sancire che così non va. Annullare e rifare. Tant' è che ci sarà un nuovo processo in Corte d' Appello. Sarà il terzo. E come si annulla la confisca di un megayacht - valutato oltre 20 milioni e venduto a 7 e 440 mila euro - già in mano a un altro proprietario dopo l'asta? L' unica strada potrebbe essere una causa - l'ennesima - stavolta per danni. Con lo Stato italiano eventualmente condannato a risarcire i danni. Per una somma che potrebbe avvicinarsi al valore dell'imbarcazione. Difficile capire se dopo 11 anni di beghe giudiziarie Flavio Briatore avrà voglia di infilarsi (anche) nel ginepraio della giustizia civile. Gli resta, almeno per ora, la soddisfazione (amara) di vedersi dare ragione dalla Suprema Corte: «Sono contento, soddisfatto della decisione della Cassazione», si limita a dire Briatore al telefono. E pazienza se la barca è salpata con il suo amico Ecclestone al timone. Ma in questo eterno ping pong la partita non è ancora finita. Ci sarà un nuovo processo in Corte d' Appello a Genova. E se dovesse essere confermato per la terza volta il verdetto già annullato (due volte) a Roma, si ripartirebbe con il ricorso per Cassazione dei difensori di Mr. Billionaire. Che comunque la barca non ce l'ha più: il Force Blue ha un altro capitano.
Scordatevi il bollo auto: chi non paga per il 2021. Federico Garau l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Le regole per i veicoli ultraventennali cambiano da regione a regione. Bollo auto ed esenzioni dal pagamento: ecco i casi in cui la tassa di possesso del veicolo non è dovuta e si può fare domanda di esenzione.
Auto d'epoca
I possessori di mezzi la cui data di prima immatricolazione risale ad oltre 30 anni fa non sono tenuti a pagare il bollo, come stabilito dalla L.342/2000: in essa si fa riferimento non solo ad automobili bensì anche a ciclomotori con le medesime caratteristiche, sempre che non siano utilizzati per scopi professionali. Gli organi preposti alla verifica dei dati del mezzo sono l'Automotoclub Storico Italiano o, nel caso in cui si tratti di motoveicoli, la Federazione Motociclistica Italiana. Il possessore, come detto, non è tenuto a pagare il bollo, tuttavia versa una cifra compresa tra 25,82/31,24 euro come tassa di circolazione. Unica eccezione si registra in Lombardia, dove il mezzo può essere iscritto ad un registro auto storiche e quindi esentato completamente dal pagamento
Veicoli ultraventennali
Se il mezzo è stato immatricolato tra i 20 ed i 29 anni fa, il totale del bollo da pagare viene dimezzato: per ottenere tale beneficio è sufficiente inoltrare domanda e ricevere un Certificato di rilevanza storica (Crs), in cui vengono riportati tutti i dati della vettura. Per quanto concerne i veicoli ultraventennali, tuttavia, sono rilevabili delle differenze da regione a regione. Lombardia, Emilia Romagna e provincia autonoma di Trento trattano tali mezzi come auto d'epoca e le esentano dal pagamento del bollo. Umbria, Toscana e Lazio applicano una riduzione del 10% sul totale dovuto. Sicilia e Veneto hanno addirittura cancellato la possibilità di ottenere tale beneficio.
Veicoli elettrici
Alcune Regioni prevedono l'esenzione del bollo per i mezzi elettrici come ulteriore forma di incentivo all'acquisto degli stessi, visto che si tratta di un settore che proprio non riesce a decollare. Come per i veicoli ultraventennali, anche in questo caso vi sono delle differenze a seconda del luogo in cui si vive. In Valle D’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Lazio, Molise, Puglia, Calabria, Sardegna e nella provincia autonoma di Bolzano è prevista un'esenzione di 5 anni, ma solo ed esclusivamente per veicoli elettrici al 100%. Dopo i 5 anni si offre semplicemente uno sconto sulla tassa dovuta. Veneto, Abruzzo, Lazio, Umbria, Basilicata, Campania e Sicilia concedono invece un'esenzione di soli 3 anni. Il Piemonte concede totale esenzione anche oltre il quinto anno, mentre in Lombardia è prevista fino al 2022 (se l'auto è stata acquistata nel 2020).
Legge 104
In questo caso l'esenzione dal pagamento del bollo, ottenibile dopo aver inoltrato apposita domanda, è permanente. Tale beneficio è previsto per i soggetti con gravi limitazioni alla deambulazione, pluriamputazioni o ridotta capacità motoria, agli ipovedenti con residuo visivo non superiore a 1/10, a non vedenti e affetti da sordità, a coloro che risultano affetti da disabilità psichica e mentale con indennità di accompagnamento.
L'esenzione, concessa a un unico veicolo, è prevista per mezzi non superiori ai 2mila cc di cilindrata (benzina) o 2800 cc (diesel/ibride). Il limite per le auto elettriche è 150 Kw. La domanda per ottenere l'esenzione va presentata entro 90 giorni dalla scadenza del termine di pagamento della tassa.
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger).
Fabio Pavesi per Dagospia il 7 giugno 2021. E’ stato definito come un accordo storico dai protagonisti del G7 riuniti a Londra sabato scorso. Quel pavimento di tassazione al 15% per le grandi multinazionali è stato venduto come un successo epocale. Certo aiuta a evitare la concorrenza al ribasso sull’ottimizzazione fiscale, per quei gruppi che scelgono i paradisi fiscali per pagare le tasse (poche) anzichè venire tassati nei Paesi dove fanno ricavi e utili. Ma davvero è una grande vittoria? Ieri l’economista Piketty ha demolito tanta esultanza, definendo l’accordo ridicolo. A guardare i numeri dei colossi del Web e della tecnologia e non solo come dar torto all’economista francese? La nuova aliquota minima rischia di essere solo un buffetto ai colossi multinazionali, capace solo di scalfire appena la loro potenza finanziaria. Tanto che sia Facebook che Google non si sono opposti a caldo alla riforma, anzi di fatto l’hanno avvallata. Zuckerberg e i vertici di Google possono infatti stare tranquilli, poco o nulla cambierà come impatto sui loro bilanci floridissimi. Basti pensare alla rutilante cavalcata di fatturato e profittabilità che dura da anni e che rendono i giganti della tecnologia vere potenze finanziarie, tali da oscurare qualsiasi realtà industriale. Solo i primi 5 attori americani i famosi Faamg (Facebook; Apple, Amazon, Microsoft e Google) nel 2020 hanno portato a casa ricavi totali per la bellezza di oltre 1000 miliardi di dollari, il 5% dell’intero Pil americano. Tra l’altro incrementando anno su anno il flusso dei ricavi. In media Google e C. aumentano il loro giro d’affari del 20% medio annuo. Una cavalcata trionfale inarrestabile. Microsoft ad esempio nel 2020 ha fatturato 143 miliardi, erano solo 46 nel 2017. Facebook ha raddoppiato il suo fatturato salito da 40 miliardi tre anni fa a 86 attuali. Amazon oggi fa vendite per 386 miliardi contro i soli 177 miliardi del 2017. Google (oggi Alphabet) ha aggiunto altri 70 miliardi di nuovi ricavi ai 110 che produceva solo nel 2017 Più vendite, più utili con un tasso di redditività netta che nel caso di Microsoft raggiunge il 30% dei ricavi. L’azienda di Seattle ha infatti l’anno scorso realizzato un utile netto di 44 miliardi su 143 miliardi di ricavi. Google si “ferma” a 40 miliardi di profitti netti su 182 miliardi di incassi. Facebook ha portato gli utili a 29 miliardi oltre il 30% del suo fatturato. Amazon ha un grande giro d’affari ma l’ecommerce è meno redditizio. In ogni caso l’azienda di Bezos ha prodotto 21 miliardi dii utili netti su 386 miliardi di ricavi. Alla fine i soli 5 cavalieri del web tech Usa hanno realizzato 200 miliardi di profitti nel 2020 su quei 1000 miliardi di ricavi totali. Non c’è industria nel mondo e settore che vantano così tanto redditività. Tra l’altro crescente nel tempo. L’altro settore che storicamente fa utili capienti è il farmaceutico. Big pharma a livello globale fattura poco più di 1.300 miliardi di dollari annui. Il tasso di redditività è meno costante nel tempo, dipende molto dai prodotti blockbuster e dalle scadenze brevettuali. In ogni caso i giganti del pharma non si discostano da un margine di profitto intorno al 20 per cento. Pfizer che godrà delle vendite del suo vaccino anti Covid è attesa superare nel 2021 i 20 miliardi di utili netti su 72 miliardi di ricavi. Merck nel 2020 ha realizzato utili netti per 7 miliardi su 48 di fatturato. La Glaxo ha prodotto 5,7 miliardi di profitti netti su 34 miliardi di giro d’affari. Ma non è solo la potente redditività a fare dei giganti del tech e del pharma degli unicum finanziari. Tanta profittabilità spesso finisce per essere talmente elevata da eccedere qualsiasi spesa per ricerca e gli investimenti. La cassa liquida dei colossi del web tech cresce ogni anno che passa. Come documenta un recente report dell’Area studi di Mediobanca la liquidità nei bilanci delle prime 25 società tech a livello globale è salita a 589 miliardi di dollari; 70 miliardi in più rispetto al 2019 in era pre-Covid. La solo Microsoft ha in pancia 120 miliardi di denaro liquido; Google supera i 100 miliardi; Amazon oltre i 60 miliardi di dollari. Con così tanta disponibilità di cassa, i colossi possono dettare legge. Hanno fior di cartucce da usare per fare investimenti finanziari o meglio per comprarsi i concorrenti più deboli aumentando il loro potere monopolistico. Veri colonizzatori moderni dei mondi. L’area studi di Mediobanca ci ricorda che, grazie all’elusione fiscale, in questi ultimi 5 anni le aziende del settore hanno risparmiato 46 miliardi di imposte altrimenti dovute. Fanno 9 miliardi l’anno spalmati su tutti i protagonisti. Con un tax rate effettivo che è stato la metà di quello che pagano le normali aziende nel mondo. Certo la minimum tax costerà qualcosa in più nei conti dei nuovi padroni del mondo, ma la loro potenza non sarà intaccata. Solo un buffetto alla fine.
La web tax italiana è un fiasco: Amazon fa boom di vendite ma paga poche tasse. L’intesa tra Usa ed Europa per la tassazione delle multinazionali per ora resta sulla carta. E la nuova legge varata da Roma si è rivelata inefficace. Così, gran parte dei profitti del gruppo di Jeff Bezos vengono ancora trasferiti in Lussemburgo, dove le imposte sui profitti sono prossime allo zero. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 7 giugno 2021. Tanto rumore per nulla. Mentre Stati Uniti e Unione Europea annunciano con grande enfasi un primo parziale accordo sulla tassazione delle multinazionali, la web tax italiana, a suo tempo descritta come l’arma decisiva per mettere all’angolo i giganti della Rete, si è rivelata un’arma spuntata. Nei calcoli del governo la nuova imposta avrebbe dovuto fruttare circa 700 milioni di euro. E invece, come ha spiegato in Parlamento il ministro dell’Economia, Daniele Franco, l’incasso non ha superato i 230 milioni. La novità, introdotta per la prima volta con la legge di bilancio del 2019 e poi due volte rinviata, aveva uno scopo preciso. Colpire il quartetto identificato dagli analisti come Gafa, cioè Google, Apple, Facebook e Amazon, accusati di trasferire in paradisi fiscali come il Lussemburgo e l’Irlanda gran parte degli enormi profitti realizzati negli altri Paesi dell’Unione Europea. L’imposta consiste in un prelievo del 3 per cento calcolato sul fatturato di gruppi che forniscono servizi digitali con un giro d’affari annuo di almeno 750 milioni. Vengono quindi tassati i ricavi e non gli utili, nel tentativo di intercettare flussi finanziari miliardari che prima che diventino invisibili al fisco. A quanto sembra però la soluzione della web tax, come molti analisti avevano previsto, ha dato risultati modesti, di molto inferiori rispetto alle attese del governo di Roma. Non ci sono dati su quanto di preciso abbiano pagato i colossi digitali che dominano l’economia mondiale, la borsa di Wall Street e anche le nostre vite. Nel caso di Amazon, come L’Espresso è in grado di rivelare sulla base di documenti inediti, l’effetto del nuovo regime fiscale sui conti delle filiali italiane del gruppo è stato trascurabile. La tassa supplementare si aggira intorno a 10 milioni di euro. Questa è la somma indicata nel bilancio 2020 di Amazon online Italy, alla voce “Altri debiti tributari”, che nelle note viene spiegata come “correlata (…) alla Digital service tax il cui pagamento avverrà nel mese di marzo 2021”, scadenza che poi è stata prorogata al maggio successivo. Nulla cambia invece per le altre due società con base in Italia controllate dalla multinazionale di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo. La nuova imposta, infatti, non si applica alla Amazon Italia logistica e alla Amazon Italia transport, che sommate insieme valgono oltre un miliardo e 350 milioni di ricavi, contro i 300 milioni circa della già citata Amazon online Italy. Nel 2020, l’anno della pandemia, il giro d’affari del supermercato globale ha fatto segnare un aumento record e anche nel nostro Paese gli incassi riportati nei bilanci delle tre filiali con sede a Milano sono quasi raddoppiati da 961 a 1,7 miliardi. Gli utili però restano bassi. Il margine di profitto al lordo di imposte, ammortamenti e interessi non arriva al 3 per cento. Questi numeri sono il frutto di una situazione molto particolare, che da sempre alimenta i sospetti del fisco. Bilanci alla mano si scopre infatti che le tre Amazon italiane sono legate a doppio filo con le holding lussemburghesi del gruppo. Le società tricolori forniscono servizi alle capofila con base nel Granducato, oppure, in qualche caso, li ricevono. Se i compensi per queste prestazioni vengono fissati a prezzi più alti, oppure più bassi, rispetto a quelli correnti sul mercato tra aziende indipendenti tra loro, ecco che diventa un gioco da ragazzi manipolare i conti per spostare i profitti verso un Paese come il Lussemburgo, dove le tasse sugli utili societari sono prossime allo zero. Queste pratiche contabili sono da tempo nel mirino delle autorità fiscali italiane. Già nel 2017, il gruppo Usa accettò di pagare 100 milioni di euro per metter fine a una vertenza con l’Agenzia delle entrate. L’inchiesta riguardava gli anni tra il 2011 e il 2015 quando, secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza, Amazon avrebbe evaso imposte per circa 130 milioni. La multinazionale statunitense tira le fila di tutto il business nel Vecchio Continente grazie un complicato sistema di holding. In cima alla catena di controllo troviamo la Amazon Europe Core a cui fa capo la Amazon Eu. La prima ha chiuso il 2020 con ricavi per 10,3 miliardi di euro e 2,2 miliardi di profitti su cui però ha versato imposte per soli 21 milioni. Amazon Eu invece, l’anno scorso non ha pagato tasse, visto che il conto economico si è chiuso in rosso per oltre un miliardo su un giro d’affari di 43,8 miliardi di giro d’affari, con un aumento del 30 per cento rispetto al 2019. Queste cifre, però, lasciano il tempo che trovano. Il gruppo americano, infatti, non ha mai pubblicato un bilancio consolidato delle sue attività europee. Un bilancio che consenta di fare chiarezza anche sul fronte fiscale, eliminando le innumerevoli sovrapposizioni di costi, ricavi, debiti e crediti tra le decine e decine di società che gestiscono le piattaforme commerciali nei vari Paesi del continente. Nella scuderia Amazon con base in Lussemburgo troviamo, per esempio, un’altra holding, la Amazon Service Europe, che ha depositato un bilancio con 17,7 miliardi di ricavi e oltre 400 milioni di profitti dopo il pagamento di imposte per circa 115 milioni. In mancanza di un bilancio consolidato europeo diventa quindi molto difficile orientarsi tra tutte queste sigle. Di certo negli ultimi anni l’impero di Bezos ha visto aumentare di molto il proprio giro d’affari e nell’anno del Covid con milioni di consumatori costretti a fare acquisti sul web, il fatturato in Europa ha letteralmente preso il volo, così come è successo negli Stati Uniti e nel resto del mondo. A livello globale le vendite di Amazon l’anno scorso hanno raggiunto i 386 miliardi di dollari (contro i 280 miliardi del 2019), una cifra che, tradotta in euro, supera il Pil prodotto dall’intera Lombardia. Il valore del gruppo a Wall Street è aumentato del 70 per cento da marzo 2020, all’inizio della pandemia, e ora viaggia intorno ai 1.630 miliardi dollari, il doppio dell’intera Borsa italiana. Anche i profitti nel 2020 sono cresciuti da 13,9 miliardi a 24,1 miliardi di dollari. A questa cifra vanno sottratti 2,8 miliardi, che sono il totale delle tasse pagate dal gruppo statunitense in giro per il mondo. Come dire che il prelievo non arriva al 12 per cento. «Paghiamo tutte le imposte previste dalla legislazione fiscale di ogni singolo Stato in cui operiamo», con queste parole i portavoce del gruppo Usa hanno sempre respinto sospetti e accuse. E di recente, il 12 maggio scorso, la corte di Giustizia europea ha dato ragione ad Amazon nella controversia con la Commissione Ue che accusava la multinazionale di aver ricevuto 250 milioni di aiuti di Stato sotto forma di favori fiscali da parte del Lussemburgo. Secondo i giudici, i fatti contestati da Bruxelles non sarebbero sufficienti a dimostrare che tra il 2006 e il 2014 il Granducato avrebbe garantito al gruppo di Bezos vantaggi tali da violare le norme europee sulla concorrenza. Amazon ha così segnato un punto a proprio favore, ma la partita è tutt’altro che conclusa. I grandi Paesi europei sono ben decisi a riformare un sistema che fin qui ha favorito i giganti digitali. In gioco ci sono miliardi di euro di gettito fiscale, soldi che farebbero molto comodo alle casse pubbliche. A maggior ragione in una fase storica in cui, ovunque nel mondo, il debito degli Stati è volato ai massimi dal dopoguerra per via delle spese extra legate alla pandemia. La web tax introdotta dal governo di Roma e, con alcune varianti, anche in Francia, Spagna e Gran Bretagna non sembra però in grado di risolvere il problema. L’esperienza italiana dimostra che il gettito aumenta di poco e l’imposta si è anche rivelata molto complicata da applicare, come hanno sottolineato numerosi analisti. Inoltre, nei mesi scorsi l’introduzione della nuova tassa è stata pesantemente criticata dal governo americano, che la considera nient’altro che una misura discriminatoria nei confronti di grandi imprese che battono bandiera a stelle e strisce. Per questo motivo Washington ha anche minacciato una risposta a suon di dazi verso le imprese europee. Per mettere un freno alle manovre fiscali dei colossi digitali sarebbe necessario un accordo globale sulla tassazione dei profitti delle multinazionali. E proprio questa sembra la strada su cui sembrano indirizzarsi le trattative tra le due sponde dell’Atlantico, dopo il primo accordo raggiunto sabato scorso alla riunione dei ministri delle Finanze del G7. L’idea è quella di arrivare a un’aliquota minima da applicare a tutte le aziende attive su scala mondiale. L’amministrazione Biden, che resta per principio contraria alla web tax, ha proposto di fissare al 15 per cento il prelievo sui profitti dei super gruppi. I paradisi fiscali verrebbero tagliati fuori perché ogni azienda pagherebbe comunque l’imposta minima stabilita a livello internazionale, che verrebbe prelevata materialmente nel Paese dove l’impresa ha la propria sede principale per poi essere redistribuita nei singoli Stati dove la multinazionale è attiva. Gli ottimisti sperano che già nella riunione del G20 a presidenza italiana in programma dall’8 all’11 luglio a Venezia si possa arrivare a una prima intesa su quella che è stata definita “Global minimun tax”. Nella migliore delle ipotesi, quello sarebbe però solo il punto di partenza per arrivare a definire le modalità di applicazione della nuova tassa. Sarà un lavoro complicato che durerà mesi e nonostante i buoni propositi espressi da Washington fino a Bruxelles, il successo è tutt’altro che garantito.
Il pacco di Amazon. Report Rai PUNTATA DEL 14/06/2021 di Emanuele Bellano. Qual è il vero costo di una spedizione di Amazon? Cosa c’è dietro un pacco che ci viene recapitato a casa dopo aver premuto un pulsante dal nostro cellulare? Questa comodissima opportunità è resa possibile da un’organizzazione che è uguale in tutto il mondo. Ne fanno parte lavoratori soggetti a infortuni frequenti e con contratti precari e poco pagati, intere aree metropolitane inquinate dal via vai di camion e aerei cargo, negozi che chiudono perché non sono in grado di fare concorrenza ai prezzi di un colosso mondiale che ha rivoluzionato il modo di comprare e che paga una percentuale di tasse bassissima rispetto al fatturato che genera. Un viaggio negli Usa di oggi per vedere quello che potrebbe accadere in Italia domani. E poi nel nostro paese c’è chi ha facilitato l’insediamento di stabilimenti Amazon per creare posti di lavoro e mettendo in atto speculazioni immobiliari attraverso società opache schermate nei paradisi fiscali.
IL PACCO DI AMAZON di Emanuele Bellano collaborazione di Edoardo Garibaldi, Stefano Lamorgese e Greta Orsi ricerca immagini di Paola Gottardi immagini di Dario D’India, Alfredo Farina, Tommaso Javidi e Andrea Lilli montaggio di Igor Ceselli
JEFF BEZOS – FONDATORE AMAZON Sono Jeff Bezos, sono il fondatore di Amazon.com.
INTERVISTATORE Come ti è venuta l’idea di fondare Amazon?
JEFF BEZOS – FONDATORE AMAZON Tre anni fa lavoravo nella finanza a New York e un giorno ho avuto tra le mani un documento sorprendente: l’utilizzo del web stava crescendo del 2.300 per cento all’anno. Così ho deciso che avrei creato un business sfruttasse quella crescita incredibile.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Era il 1997. A maggio di quell’anno Amazon.com faceva il suo ingresso a Wall Street, la borsa di New York. Jeff Bezos aveva fondato Amazon 3 anni prima nel garage di casa sua a Seattle, con un’insegna scritta a mano con lo spray blu sulla parete. 24 anni dopo è l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio personale di circa 190 miliardi di dollari. La sede di Amazon è un avveniristico palazzo nel cuore finanziario di Seattle.
JEFF BEZOS – FONDATORE AMAZON Alexa, apri le Sfere. ALEXA Ok Jeff
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’intelligenza artificiale Alexa creata da Amazon è presente ormai in milioni di case in tutto il mondo. Jeff Bezos, è tra gli uomini più potenti e influenti della terra e come tale incontra capi di stato e di governo . E’ proprietario del Washington Post, di una catena di supermercati con 460 negozi in tutto il mondo. Ha interessi attivi nel settore farmaceutico e ha creato Blue Origin, la società del gruppo Amazon che si occupa di esplorazioni spaziali.
JEFF BEZOS – FONDATORE AMAZON Voglio farvi dare un’occhiata a cosa partirà a breve dalla nostra piattaforma di lancio. Ecco a voi il nostro nuovo vettore orbitale.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Jeff Bezos è riuscito a fare affari anche in questa occasione. Mettendo all’asta un posto per viaggiare nello spazio accanto a lui. Se l’è aggiudicato un anonimo alla cifra di 28 milioni. Il programma prevede di mandare di nuovo l’uomo sulla luna. Organizzando viaggi turistici. Ma il business che ha permesso a Jeff Bezos di diventare l’uomo più ricco della storia è il marketplace, il mercato virtuale dove ogni giorno con milioni di click viene acquistata merce di qualsiasi tipo. La società più grande del mondo costruita da zero in meno di 25 anni conta 1 milione e 300 mila lavoratori negli uffici, nei magazzini o sui furgoni.
STUART APPELBAUM – PRESIDENTE SINDACATO RWDSU Abbiamo lavoratori che ogni giorno vengono da noi dicendo che si sentono come robot comandati da altri robot, che ogni loro movimento è controllato e registrato.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Rapidità nella consegna, disciplina ferrea per i suoi dipendenti e il motto “il cliente prima di tutto”. Sono le ossessioni che hanno permesso a Bezos di scalare la classifica dei Paperoni.
JAKE WILSON - PROFESSORE SOCIOLOGIA CALIFORNIA STATE UNIVERSITY LONG BEACH Jeff Bezos ha guadagnato miliardi di dollari durante la pandemia mentre la gente moriva, rimaneva senza lavoro, e perdeva la propria casa.
EMANUELE BELLANO Crede che sia un innovatore o al contrario qualcuno che sfrutta le debolezze del sistema per diventare sempre più ricco e sempre più potente?
MORRIS PEARL - PRESIDENTE “PATRIOTIC MILLIONAIRES” Bezos ha creato una compagnia che ha fatto meglio di qualsiasi altra mai esistita. È fantastico! Per questo merita di essere così ricco. Ha fatto qualcosa di male? Non che io sappia. Sfrutta le persone che hanno bisogno di lavoro, ma è quello che fanno normalmente tutti gli imprenditori. Il punto è che Bezos dovrebbe pagare le tasse seguendo le stesse regole con cui le pagano i suoi dipendenti. I milionari come noi dovrebbero pagare la stessa percentuale di tasse che pagano tutti gli altri.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel 2020 su 54 miliardi di fatturato nei paesi europei Amazon ha pagato 77 milioni di euro di tasse, cioè lo 0,15 per cento.
GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO Chi la ferma. Qui bisogna aprire una pratica all’Onu per capire chi è Amazon nel mondo.
EMANUELE BELLANO Ha le dimensioni di uno stato?
GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO Molto di più. Uno stato sta nel suo territorio. Loro hanno le dimensioni di un grosso stato ma spalmate su tutti i paesi del mondo. Chi lo controlla, cioè chi controlla Amazon?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È incontrollabile. L’ultimo acquisto è quello della casa di produzione storica di Hollywood Metro Goldwyn Mayer costo 8,5 miliardi di dollari circa. Si vece che gli avanzavano degli spiccioli sul conto corrente di Amazon, che ha una liquidità di 44 miliardi di dollari. Ecco, se la pandemia è stata un disastro, ha mietuto milioni e milioni di vittime tra imprenditori e lavoratori, per Amazon è stata una manna dal cielo. Solo nei primi tre mesi del 2021 è incrementato il fatturato del 44%. Ora, come Bill Gates, Steve Jobs, anche Bezos appartiene a quella categoria che viene definita “i geni del garage” perché proprio nella sua rimessa nel 1994, abbandonando un lavoro che era anche abbastanza remunerativo, ha fondato la Cadabra.com poi si è trasformata in Amazon, ecco in onore del fiume del Rio degli Amazzoni. Perché l’ascesa è stata come quella di un fiume impetuoso, è partita come una libreria online è diventata leader nel commercio elettronico. Ora noi stiamo parlando dell’uomo più ricco al mondo, pochi giorni fa ha festeggiato un patrimonio di circa 180, 190 miliardi di dollari, e per festeggiarlo ha anche ordinato la barca più lunga al mondo, una barca a vela: 127 metri con tanto di eliporto. Costo 500 milioni di dollari. Ora, da un uomo che è partito da un garage e ora si appresta a fare un viaggio nello spazio da turista, da semplice turista, ci si aspetterebbe uno sguardo più indulgente nei confronti di quello che è il motore del suo successo: i lavoratori. Lui dice spesso che ci sono due tipi di società nel mondo: quelle che si prodigano per cercare di far pagare di più e quelle che invece si prodigano per fare pagare di meno. Amazon, appartiene alla seconda specie. Sì ma a quale prezzo? Il nostro Emanuele Bellano è andato laddove Amazon è presente come in nessun’altra parte del mondo. Si è infiltrata anche nelle scuole per formare il consumatore del futuro.
ANTHONY VICTORIA – GIORNALISTA E ATTIVISTA AMBIENTALE Siamo nella città di Eastvale, in California, di fronte a un magazzino di Amazon la cui superficie supera i 300mila metri quadri, una delle strutture di Amazon più grandi di tutti gli Stati Uniti. Se ordini qualcosa su Amazon e vivi a Washington o da qualche parte nel Mid West degli Stati Uniti, è probabile che il tuo pacco passi da qui. La nostra comunità è diventata in sostanza il carrello della spesa degli stati Uniti e del mondo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’Inland Empire è la regione ad est di Los Angeles che comprende le città di San Bernardino, Eastvale e Riverside. In totale 4 milioni e mezzo di abitanti. Qui Amazon impiega 80 mila persone ed è il principale datore di lavoro dopo lo stato.
JAKE WILSON – PROFESSORE SOCIOLOGIA CALIFORNIA STATE UNIVERSITY LONG BEACH Questa è un’università pubblica. Alcuni anni fa senza nessun avviso nel bel mezzo del campus è saltato fuori un punto di raccolta e di prelievo dei pacchi consegnati da Amazon. E’ diventato sempre più frequente qui avere un deposito di Amazon all’interno dei campus universitari. Così gli studenti hanno uno sconto sul loro abbonamento Prime e l’azienda ha uno strumento in più per fidelizzarli al brand Amazon e creare consumatori a vita.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questa area della California Amazon è presente anche nelle scuole superiori. Qui alla Cajon High School di San Bernardino Amazon organizza corsi per diventare lavoratori e manager nei suoi centri di distribuzione. Gli studenti della San Gorgonio High School di Eastvale, invece, una volta al mese seguono presso il centro Amazon di San Bernardino lezioni organizzate dal personale dell’azienda.
BRYAN JONES - CITY MANAGER EASTVALE L’Inland Empire in California è il luogo dove passa la maggior parte della merce che si muove all’interno degli Stati Uniti e che viaggia tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Nei nostri porti di Los Angeles e di Long Beach arrivano enormi quantità di beni così come nel nostro aeroporto di Ontario.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le merci arrivano da Hong Kong, Cina, Giappone e dal resto d’Oriente. In un’ora e mezza percorrendo l’autostrada a 12 corsie migliaia di camion ogni giorno trasportano i container in Inland Empire.
BRYAN JONES - CITY MANAGER EASTVALE Qui abbiamo il più grande magazzino di Amazon del mondo che in più è anche il più tecnologicamente avanzato. Impiega tra le 4.500 e le 9.000 persone. Amazon è un grande partner per la città, dà lavoro a tante persone e fa sì che tanti vengano a fare spese nei nostri negozi, benzina nelle nostre aree di servizio, e vengano a mangiare nei nostri ristoranti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Amazon ormai rappresenta un marchio riconoscibile in tutto il mondo. Le sue consegne a domicilio sono diventate una pratica comune dall’Australia al Canada, dall’Europa al Sudafrica. JAKE WILSON - PROFESSORE SOCIOLOGIA CALIFORNIA STATE UNIVERSITY LONG BEACH Il modello Amazon è rappresentato dal club Amazon Prime che, con 150 milioni di iscritti, garantisce la consegna della merce direttamente a casa in uno o due giorni, gratuitamente. In realtà la consegna non è affatto gratuita ma ha un costo altissimo per i lavoratori e per le comunità che vivono attorno ai magazzini.
ANTHONY VICTORIA – ATTIVISTA AMBIENTALE Il risultato sono migliaia di camion che generano quella che noi chiamiamo la lenta violenza della logistica: puoi non sentirne gli effetti immediatamente ma lentamente questa presenza divora la tua salute e la qualità della tua vita.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Lungo le strade dell’Inland Empire si susseguono uno dopo l’altro i camion di Amazon che trasportano la merce ordinata ogni giorno da milioni di click. Molti partono dall’aeroporto di San Bernardino che è diventato a tutti gli effetti una base operativa di Amazon.
ANTHONY VICTORIA – ATTIVISTA AMBIENTALE Come potete vedere lì c’è una sede di Amazon. Presto altri 500 camion al giorno si aggiungeranno ai 20.000 che già circolano in questa zona. Amazon aumenterà anche la sua flotta di altri 24 aerei.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La compagnia Cargo Prime Air è composta oggi da 66 aerei, con i quali, nel 2020, Amazon ha operato oltre 40 mila voli trasportando in un anno 800 mila tonnellate di merci. L’inquinamento prodotto dai suoi jet è salito rispetto all’anno precedente del 35%
ANTHONY VICTORIA – ATTIVISTA AMBIENTALISTA Le persone che vivono qui soffrono di asma tumore ai polmoni e altre patologie respiratorie, ma né Amazon né i politici se ne preoccupano.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A causa del grande traffico di camion dovuta alla massiccia presenza di Amazon su questo territorio l’aria dell’Inland Empire risulta molti giorni all’anno irrespirabile. L’American Lung Association, l’organismo americano che si occupa di monitorare le malattie ai polmoni, considera da anni questa regione la più inquinata degli Stati uniti.
EMANUELE BELLANO L’inquinamento dell’aria e le malattie rappresentano il costo che la popolazione deve pagare per avere più posti di lavoro con Amazon su questo territorio?
BRYAN JONES - CITY MANAGER EASTVALE L'Inland Empire ha senza dubbio un problema di qualità dell’aria, ma questa questione esiste ben prima di Amazon. L’inquinamento è dovuto a vari fattori, non solo alla circolazione di automobili, camion treni o aerei ma anche a questioni geografiche come ad esempio i venti che spingono l’aria da Los Angeles verso l’Inland Empire.
EMANUELE BELLANO Davvero crede che la presenza di Amazon non c’entri con l’inquinamento?
BRYAN JONES - CITY MANAGER EASTVALE I camion trasportano merci in America da quando sono stati inventati. EMANUELE BELLANO Cos’è questa lunga fila di camion qui?
MIKE CHAVEZ – DIRETTORE CAMERA DEL LAVORO INLAND EMPIRE Sono camion che sono in attesa di entrare negli stabilimenti di Amazon per caricare la merce. In poco più di un chilometro e mezzo ci sono 3 stabilimenti Amazon. Quando Amazon è arrivato qui ha promesso centinaia e centinaia di nuovi posti di lavoro. Ma quello che non torna è il numero dei posti di lavoro che non vengono rinnovati. Questi magazzini hanno un turn-over anche del 100%. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I casi di infortunio sul lavoro nei magazzini di Amazon sono migliaia ogni anno e nell’Inland Empire ci sono avvocati specializzati nel difendere i diritti di questi lavoratori.
BRIAN FREEMAN – AVVOCATO DIPENDENTI AMAZON Ho visto tra i miei clienti tante persone infortunate in maniera talmente pesante che non riescono a tornare al lavoro.
EMANUELE BELLANO Sono loro a lasciare Amazon o è Amazon che li licenzia?
BRIAN FREEMAN - AVVOCATO DIPENDENTI AMAZON La maggioranza non vorrebbe lasciare ma ricevono una comunicazione che dice che non possono tornare sul posto di lavoro. Amazon paga una buonuscita e loro sono costretti a firmare un accordo con cui si dimettono e accettano di non rientrare.
EMANUELE BELLANO Ritiene che il rapporto tra ciò che Amazon sta assorbendo dal suo territorio rispetto a quello che sta dando indietro sia uno scambio giusto?
BRYAN JONES - CITY MANAGER EASTVALE Io penso che Amazon ha creato posti di lavoro. La domanda che dobbiamo farci è: può una società così fare grandi profitti? Se quella società ha inventato qualcosa che le permette di fare soldi, tanti soldi… perché non dovrebbe farli? Questo è il capitalismo, è così che vanno le cose in America.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell’America del capitalismo i centri commerciali hanno tagliato le gambe ai negozi di quartiere che negli anni Novanta sono falliti a migliaia. Oggi l’ecommerce sta strangolando i centri commerciali che chiudono tagliando migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato.
JAKE WILSON - PROFESSORE SOCIOLOGIA CALIFORNIA STATE UNIVERSITY LONG BEACH Amazon ha creato migliaia e migliaia di posti di lavoro nell’Inland Empire. Tuttavia, il tasso di povertà nella regione è rimasto invariato. Tutto questo non migliora affatto le condizioni di vita qui che al contrario peggiorano per l’inquinamento.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’Inland Empire è l’area con il più alto tasso di inquinamento degli Stati uniti. È stato calcolato che Amazon produce inquinamento per, nel mondo, per 51 milioni di tonnellate di anidride carbonica. È come se 13 centrali a carbone bruciassero combustibile per un intero anno. E nell’ultimo anno addirittura Amazon ha incrementato l’inquinamento del 15%. Ora non è solamente il tir, l’aereo, il van che porta la merce sotto il naso dei clienti ad inquinare, inquinano anche i server di Amazon. Già perché Amazon conserva i dati delle più importanti aziende al mondo. Da Netflix a Expedia a Airbnb e anche quelli della Cia e anche quelli 6.500 enti governativi negli Stati Uniti e anche nel mondo. Proprio in merito all’inquinamento generato Amazon ci scrive di aver preso l’impegno di raggiungere 0 emissioni nette di C02 nel 2040, ha investito su veicoli elettrici che possono portare la merce e anche nell’installare pannelli solari sulle proprie sedi. Comunque, la vera energia che ha consentito a Bezos di diventare l’uomo più ricco al mondo è quella profusa dal milione e 300 mila dipendenti. Ora proprio a marzo scorso, in una cittadina del sud degli Stati Uniti, in Alabama, si è giocata una partita che aveva gli occhi puntati da tutte le parti del mondo. Per la prima volta nella storia si stava per costituire, si è votato per costituire un sindacato all’interno di uno stabilimento Amazon. Chi ha vinto la partita?
BERNIE SANDERS - SENATORE DEL CONGRESSO USA – MARZO 2021 Voi siete qui a Bessemer, in Alabama, e vi preparate a lottare per dire che ogni lavoratore in questo paese merita di avere un salario dignitoso condizioni di lavoro dignitose e di essere trattato con umanità e non come un robot. La ragione per cui Amazon sta impiegando tutte le sue forze per cercare di sconfiggervi è che sanno che se voi vincerete qui la vostra battaglia si diffonderà in tutto il Paese.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Marzo 2021. A Bessemer, Alabama, i lavoratori sfidano Amazon. Per la prima volta negli Stati Uniti una rappresentanza sindacale potrebbe entrare all’interno di uno stabilimento della più grande azienda del mondo. Con gli occhi di tutto il mondo puntati addosso viene organizzato un referendum tra i lavoratori. Per nascere il sindacato dentro Amazon deve raggiungere almeno il 50 per cento.
EMANUELE BELLANO Amazon ha usato dei trucchi per fermare l’ingresso del sindacato all’interno dell’azienda?
MIKE ELK – GIORNALISTA - PAYDAY REPORT Amazon da un lato ha minacciato i lavoratori, dall’altro ha promesso di migliorare le condizioni se avessero votato contro il sindacato. Quasi un’estorsione: vi daremo aumenti se il sindacato perderà le elezioni. Hanno inviato decine di sms al giorno, hanno affisso manifesti nei luoghi di lavoro e anche nei bagni. Il sindacato da parte sua ha cercato di parlare ai lavoratori mentre erano fermi al semaforo. I dirigenti di Amazon si sono arrabbiati e hanno chiesto alle autorità locali di accorciare la durata del semaforo così che i sindacalisti avessero meno tempo per convincere i lavoratori. Alla fine, la durata del semaforo è stata accorciata.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma Amazon per contrastare il referendum è andata anche oltre facendo cose che non si erano mai viste prima.
STUART APPELBAUM – PRESIDENTE SINDACATO RWDSU Amazon ha detto ai lavoratori che se il sindacato avesse vinto avrebbero chiuso il magazzino e loro avrebbero perso il lavoro. E’ stata una campagna basata sulle menzogne. Ha organizzato riunioni obbligatorie per i lavoratori per dire quanto i sindacati fossero il male. Se qualcuno durante queste riunioni provava a sollevare dubbi su ciò che stesse accadendo o sulle parole contro il sindacato veniva espulso dalla stanza oppure venivano scattate foto al suo badge.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Bessemer con i lavoratori più ostili all’azienda Amazon ha utilizzato un approccio innovativo
MIKE ELK – GIORNALISTA - PAYDAY REPORT Amazon ha detto ai lavoratori: “Siete arrabbiati per le vostre condizioni lavorative? Eccovi 2.000 dollari, prendeteli e cercatevi un altro lavoro. E’ stata una cosa mai vista prima e ha avuto un grande impatto perché in molti hanno preso i soldi e se ne sono andati. E’ stato un modo per rinnovare la forza lavoro eliminando le persone che avrebbero votato per l’ingresso del sindacato e ha funzionato.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’impatto della strategia di Amazon dà i suoi frutti durante il voto quando secondo il sindacato l’azienda usa qualsiasi mezzo per mettere sotto pressione i lavoratori.
STUART APPELBAUM – PRESIDENTE SINDACATO RWDSU Amazon ha collocato l’urna elettorale all’interno dello stabilimento con delle telecamere puntate e delle persone intorno che dicevano ad ogni lavoratore che doveva votare contro il sindacato. In questo modo i lavoratori avevano paura che il loro voto non sarebbe rimasto segreto.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Alla fine della votazione il risultato è a favore di Amazon che batte il sindacato con uno schiacciante 70 a 30. Ma la Union fa ricorso chiedendo di annullare il voto e di ripeterlo in un modo più equo. EMANUELE BELLANO Perché questo voto è così importante per l’America?
STUART APPELBAUM – PRESIDENTE SINDACATO RWDSU Perché questa elezione trascende quel magazzino di Amazon. Trascende lo stato dell’Alabama, trascende anche gli Stati Uniti perché è un voto sul futuro del lavoro e su come i lavoratori saranno trattati d’ora in avanti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dopo la lotta sindacale in Alabama l’onda ha attraversato l’Atlantico ed è arrivata in Europa. Scioperi e manifestazioni sono scoppiati nei magazzini Amazon in Francia, Spagna, Polonia, Germania. In Italia il primo sciopero nazionale dei lavoratori Amazon si è tenuto il 22 marzo scorso.
DAVIDE FRANCESCHIN – SEGRETARIO NAZIONALE CGIL NIDIL Siamo a Torrazza Piemonte un sito di Amazon importante è composto da circa 900 addetti diretti e 1.700 lavoratori in somministrazione. Purtroppo, questi lavoratori hanno tutti rapporti di lavoro a tre mesi rinnovabili, la media loro è di circa nove mesi e poi inizia il turnover.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Lo sciopero per la prima volta coinvolge nello stesso giorno gli stabilimenti di tutta Italia, da Torino a Napoli. Davanti ai magazzini Amazon protestano i magazzinieri e tutti i dipendenti delle società che lavorano come terzisti per Amazon.
GUARDIA GIURATA Ci occupiamo della sicurezza dello stabilimento di Amazon. abbiamo uno stipendio veramente misero, prendiamo 800 euro al mese, è uno stipendio sotto la soglia di povertà.
DRIVER Loro riescono a controllare tutto tramite un device che ha un Gps. Se ti fermi dieci minuti gli parte una spia rossa e ti chiamano. Loro lo fanno per darti una assistenza ma alla fine ti stanno dicendo "spingi, corri, perchè altrimenti non finisci il giro nelle tue ore di lavoro".
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Anche in Italia come negli Stati Uniti i dipendenti lamentano comportamenti di Amazon antisindacali
DONATO PIGNATELLO – FILT CGIL MILANO Ogni volta che si iscrivono, ogni singolo lavoratore viene chiamato in un gabbiotto, c’è il dirigente e il lavoratore, e gli chiedono, perché ti sei iscritto al sindacato? Abbiamo visto che recentemente ha assunto proprio dei militari, il recruiting lo ha fatto tra i militari per gestire queste station. Però infatti noi lo vediamo dentro, perché comunque l’efficienza di Amazon è indiscutibile, è efficiente, ma dietro l’efficienza ci deve essere per forza una disciplina ferrea, militare. E lui la applica.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I comportamenti antisindacali di Amazon e l’arruolamento di personale per ruoli al limite della legalità, hanno destato l’interesse del Parlamento Europeo dove sono partite delle procedure di accertamento.
BRANDO BENIFEI – EUROPARLAMENTARE – PARTITO DEMOCRATICO Amazon ha pubblicato una richiesta di lavoro, come analisti di intelligence per capire chi sono rappresentanti nel mondo lavorativo, dei lavoratori e dei sindacati e della politica che potevano avere comportamenti ostili verso l’azienda.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli annunci si rivolgevano a candidati con esperienza nelle forze di polizia o nelle forze militari e menzionavano anche un’attività di monitoraggio di “leader politici ostili”.
BRANDO BENIFEI - EUROPARLAMENTARE– PARTITO DEMOCRATICO Spionaggio, spionaggio su lavoratori, su politici. Noi ci siamo rivolti a Jeff Bezos direttamente, e la risposta è arrivata dal responsabile delle relazioni istituzionali per l’Europa, che ci ha detto che era stata una svista, e che loro non fanno assolutamente questo tipo di attività, che è illegale. Sinceramente non eravamo molto convinti della risposta, perché abbiamo altre notizie, anche dall’interno dell’azienda.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Senza un quadro normativo europeo i lavoratori di ogni stabilimento restano da soli a combattere una battaglia impari.
DONATO PIGNATELLO – FILT CGIL MILANO Il rischio qual è? Che le norme le cambia da solo, le norme del lavoro. Giustamente il mondo si sta evolvendo e nessuno è con le mani davanti agli occhi, però se le cambia da solo le norme avremo un problema tutti
EMANUELE BELLANO Qual è il meccanismo infatti, c’è una competizione tra precari per quale scopo?
DONATO PIGNATELLO - CGIL Bisogna partire dal presupposto che Amazon la legge del darwinismo, il più forte va avanti, lui la applica alla lettera. Lui dici, questi sono i miei ritmi, chi li regge va avanti chi non li regge è fuori. Lui sta cercando una razza perfetta per il suo mondo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una razza selezionata per le esigenze dell’azienda. Ecco, esigenze che sono state in qualche modo tradite dalla pubblicazione per la selezione di nuovi profili. Quelli di “intelligence analyst”, cioè di esperti di intelligence. Dovevano servire a monitorare chi tra i lavoratori strizza l’occhiolino al sindacato e anche per monitorare politici ostili all’azienda Amazon. Ecco su questo Amazon ci scrive che invece da sempre loro rispettano il diritto dei dipendenti di aderire o meno al sindacato, di non aver mai esercitato intimidazioni tantomeno nel sito, nello stabilimento di Bessemer in Alabama, sulle votazioni che si sono tenute a marzo non hanno esercitato alcuna pressione sui lavoratori né hanno mai dichiarato, minacciato alcuna chiusura del sito. Mentre invece per quello che riguarda la selezione di intelligence analyst dopo la pubblicazione ha ritirato il documento, Amazon ha chiesto scusa e insomma, non è sempre e solo Amazon che va a monitorare i politici, qualche volta ci sono i politici che sono interessati ad Amazon.
EMANUELE BELLANO FURI CAMPO A Castel Sangiovanni, tra la valle del Po e la valle del Tidone, in una posizione strategica a un’ora di auto da Milano e in mezzo a campi coltivati e vigneti, Amazon crea il suo primo magazzino in Italia. È l’ottobre del 2011
EMANUELE BELLANO Alla fine, piantarlo a Piacenza è stata una scelta basata sulla possibilità di avere lavoratori stagionali a disposizione
GIANLUCA BARBERIS – EX DIPENDETE AMAZON Assolutamente sì. C’era proprio la mentalità a questo punto locale ad accettare questo tipo di contratti
EMANUELE BELLANO Per via della questione rurale
GIANLUCA BARBERIS – EX DIPENDETE AMAZON Penso di sì, personale abituato a far raccolta.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Viene da chiedersi quanto incida sui bassi prezzi di Amazon la scelta di usare forza lavoro temporanea. La risposta arriva oggi a dieci anni da allora. I centri di distribuzione di Amazon sono passati da uno a 15 e tutti replicano quell’iniziale modello. L’ultimo stabilimento in Italia Amazon lo ha aperto a fine 2020 nel comune di Colleferro a sud di Roma. Confina con la discarica in cui per anni sono finiti i rifiuti della Capitale. Nel 2020 la discarica viene chiusa e il polo logistico riacquista valore. I terreni vengono acquistati dalla società inglese Vailog che costruisce in tutta Italia i magazzini per Amazon. La promessa è creare 500 posti di lavoro.
PIERLUIGI SANNA - SINDACO COLLEFERRO Quei terreni sono stati abbandonati per vent’anni, visto che la discarica vicina li rendeva diciamo così inappetibili, e Vailog li ha acquistati diciamo così quando la vita della discarica è conclusa… EMANUELE BELLANO Vailog da chi compra i terreni.
PIERLUIGI SANNA - SINDACO COLLEFERRO Da Spl.
EMANUELE BELLANO Chi era il proprietario di questa società Spl?
PIERLUIGI SANNA - SINDACO COLLEFERRO Noi parliamo con l’amministratore delegato
EMANUELE BELLANO Dietro Spl teoricamente ci potrebbe essere chiunque
PIERLUIGI SANNA - SINDACO COLLEFERRO Ci siamo sempre posti le domande che si è posto lei, non siamo giunti a grandi risultati diciamo.
GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO Colleferro ha fatto una partnership con ignoti. Eh… ignoti Ma si può fare una operazione insieme ad uno coperto col burqa? Perché di questo stiamo parlando.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La prima convenzione tra SPL e Comune di Colleferro è siglata nel 2007. La maggioranza era un’altra e il sindaco era Mario Cacciotti.
MARIO CACCIOTTI - EX SINDACO COLLEFERRO Ripeto abbiamo avuto rapporti con questo Rossi che era l’amministratore delegato
EMANUELE BELLANO Però Rossi può risultare come proprietario. Volevo capire se c’erano stati degli accertamenti se si era capito chi era il proprietario, chi c’era nella proprietà di questa società?
MARIO CACCIOTTI - EX SINDACO COLLEFERRO No no, sinceramente no
EMANUELE BELLANO Chi sono i soci della società Spl
GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO Son coperti, i soci di maggioranza diciamo son coperti da società fiduciarie.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quello che sappiamo è che fino al 2006 la proprietà apparteneva a una società lussemburghese la De Ce Investment sa. Socio unico, Marina Fatelli
GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO Marina Fatelli, che è membro della direzione di un movimento politico che raccoglie esponenti di destra, insomma ex parlamentare di Forza Italia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel movimento Progetto Italia insieme a Marina Fatelli ci sono l’ex ministro Antonio Marzano, gli ex parlamentari Giorgio Lainati e Franco Asciutti e l’ex sottosegretario del governo Monti, Carlo Malinconico. Ma Marina Fatelli è in società anche con Asp Colline Romane, la società pubblico privata che ha sviluppato proprio il polo logistico di Colleferro. Fatto sta che la società di cui Marina Fatelli fa parte, Asp Colline Romane, decide di collocare il polo logistico proprio sui terreni di Spl
EMANUELE BELLANO A quanto vendono si sa?
GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO No non si sa, e comunque l’unica cosa certa è che dal bilancio non risultano plusvalenze. Però è curiosa questa operazione locale, no, con questi grandi beni che poi spariscono senza che si muovono plusvalori. Ovviamente tassazione non ce n’è. Cioè zero su tutta sta roba
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Che cosa è successo, che un terreno che è praticamente invendibile da venti anni, perché vicino c’è una discarica diventa improvvisamente una risorsa. Perché lo acquista la società che costruisce i magazzini Amazon in Italia e a venderlo e trasformarlo in una risorsa, gestire il passaggio a polo logistico è una società misto pubblica privata che ha come socia colei che ha interesse a valorizzarli questi terreni, che è anche schermata da una fiduciaria. Ora il nostro Emanuele Bellano ha scoperto che chi ha interesse a valorizzarla corrisponde nella persona di Marina Fatelli, Fatelli è membro di Progetto Italia, movimento di centrodestra, movimento politico dentro ci sono anche dei nomi importanti. Lei dice, beata lei, che non c’è nessun conflitto di interesse perché non ha partecipato ad alcuna decisione tecnica di questo progetto, nella realizzazione del progetto. Non sappiamo neppure se la vendita dei terreni ha generato delle plusvalenze perché non c’è scritto nelle carte. Ma la domanda è: ma può una amministrazione pubblica essere partner di chi ha in sostanza, indossa in sostanza un burqa? A loro interessavano solo 500 posti di lavoro, ma che tipo di lavoro?
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Abbiamo partecipato anche noi alla selezione per il ruolo di magazziniere
OPERATRICE AGENZIA INTERINALE Tra queste tipologie contrattuali Emanuele c’è qualcuna che escluderebbe o andrebbero bene tutte?
EMANUELE BELLANO No andrebbero bene tutte
OPERATRICE AGENZIA INTERINALE Poi per quanto riguarda invece il contratto noi facciamo contratti iniziali che vanno da un minimo di un mese a un massimo di tre mesi.
EMANUELE BELLANO Alla scadenza del primo contratto come funziona?
OPERATRICE AGENZIA INTERINALE Allora di solito diciamo se il lavoratore va bene e il lavoro c’è Amazon chiede a noi di rinnovare il contratto, però al massimo che noi la possiamo tenere sono 12 mesi a causa del decreto dignità dopodiché c’è la risoluzione naturale del contratto a meno che Amazon non decida di assumerla direttamente a tempo indeterminato.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Luca Vizzaccaro per un mese ha percorso 180 chilometri al giorno per andare a lavorare come magazziniere ad Amazon di Colleferro.
LUCA VIZZACCARO – EX LAVORATORE AMAZON Avrebbe potuto assumere a tempo determinato il 30%, quindi una cinquantina di persone
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La legge pone dei limiti rigidi ai lavoratori a tempo determinato che un’azienda può assumere: “Non possono superare il 30 per cento dei lavoratori a tempo indeterminato”. Il limite del 30 per cento però non si applica quando l’azienda assume categorie particolari di lavoratori.
LUCA VIZZACCARO – EX LAVORATORE AMAZON Tutte le persone che Adecco assume sono persone del tipo svantaggiato, molto svantaggiato. Cioè mi sono confrontato con tutti gli altri. Svantaggiato, svantaggiato, svantaggiato. Altrimenti non avrebbe potuto ovviamente assumerli.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I lavoratori svantaggiati sono definiti per legge e appartengono a categorie protette: coloro che non lavorano da più di 6 mesi, che hanno meno di 25 anni di età, che fanno parte di minoranze linguistiche o di minoranze di genere nel settore in cui vengono impiegati.
LUCA VIZZACCARO – EX LAVORATORE AMAZON Questo è quello che sfrutta Amazon grazie ad Adecco. Per carità Amazon avrà il suo interesse a tenere in piedi questo sistema perché essendo un lavoro manuale usurante, probabilmente gli fa comodo avere un ricambio di persone dopo due mesi, dopo tre mesi.
EMANUELE BELLANO Nelle mail inviate da Adecco a questi lavoratori prima della firma del contratto viene indicata espressamente la necessità di barrare la casella “lavoratore svantaggiato”
GABRIELE FICHERA – EX LAVORATORE AMAZON Mi chiamo Gabriele e sono stato assunto da Adecco per lavorare presso Amazon da novembre a dicembre 2020. Anche nel mio caso il contratto prevedeva la clausola di lavoratore svantaggiato, perché nel momento della firma del contratto perché al momento della firma la mia età era compresa tra 14 e 25 anni.
VALERIA GRAMEGNA – EX LAVORATRICE AMAZON Mi chiamo Valeria sono stata assunta a novembre 2020 presso il magazzino Amazon di Colleferro. Sono stata assunta con un contratto che prevedeva la clausola di lavoratore svantaggiato e in qualità di disparità di genere
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Abbiamo varie testimonianze di lavoratori che sono stati assunti a tempo determinato da Adecco per il magazzino Amazon di Colleferro. Tutti scelti perché lavoratori svantaggiati. A questo lavoratore, per ottenere l’assunzione in Amazon, Adecco ha imposto addirittura di spacciarsi come disoccupato, nonostante lui avesse fatto presente di essere in quel momento ancora sotto contratto con un’altra azienda. E’ grazie a questo sistema che Amazon aggira la legge e, invece del 30%, gli stagionali sono anche il doppio dei lavoratori assunti a tempo indeterminato. Ma per chi riesce a entrare, com’è il lavoro in un magazzino Amazon?
EX LAVORATRICE AMAZON Tu entri, passi semplicemente il badge, entri all’interno e vai direttamente alla sala degli armadietti, quindi lasci tutto quanto quindi zaini, borse cellulari, anelli, tutto. Non si può portare niente.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è un centro Amazon in Italia, la procedura di ingresso e le prescrizioni sono le stesse in tutto il mondo.
EX LAVORATRICE AMAZON Per entrare nel magazzino vero e proprio per andare a lavorare si passa attraverso un metal detector e ci sono anche delle persone della sicurezza che passano quello manuale. Quindi c’è il manager o il lead che espongono il numero di oggetti che devono essere stoccati e pickati per quella giornata. Alla fine del briefing si decide che cosa urlare. Può essere il numero degli oggetti che devono essere stoccati e pickati, può essere Amazon, può essere qualsiasi cosa. Quindi si urla tutti insieme e poi si va ognuno alla propria postazione C’è un numero minimo di oggetti che vanno inseriti all’interno degli scaffali nell’arco di un minuto.
EMANUELE BELLANO Per ottenere cosa? Per avere un certo rate?
EX LAVORATRICE AMAZON Un certo rate, esatto
EMANUELE BELLANO C’è un rapporto tra il rate in qualche maniera che viene accumulato e poi la potenzialità che venga rinnovato il contratto?
EX LAVORATRICE AMAZON Beh sì, ormai è di dominio pubblico che se tu hai un rate molto basso a loro non conviene tenerti perché non sei abbastanza produttivo e quindi non ti rinnovano come appunto è successo a me.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Amazon ha 40 sedi in tutta Italia ha assunto 9.500 dipendenti a tempo indeterminato e contribuisce anche al miglioramento dell’istruzione dei suoi lavoratori perché anticipa il 95% dei costi, delle rette dei libri dei corsi che vengono scelti dai propri dipendenti. Ora è vero che Amazon è uno dei più grandi creatori di posti di lavoro, ma dalla sua conta mancano quei posti di lavoro che ha contribuito a distruggere assorbendo la creazione di valore. E poi, insomma, Amazon è il male o ha solamente sfruttato un processo di desertificazione cominciato da altri. Basta intrufolarsi nei corsi da magazziniere che Amazon ha aperto, il nostro inviato Stefano Lamorgese lo ha fatto per noi di Report e vedere chi è che partecipa. Già chi è che partecipa? Insomma, partecipa chi per decenni è stato pagato in nero, alla luce del sole, senza che l’azienda per cui lavorava subisse un solo controllo. Ha partecipato chi ha lavorato per dodici ore al giorno, giorno e notte senza che venisse versato un contributo, e poi la maggior parte non aveva visto una busta paga, mai nella propria vita. Insomma, il male va anche cercato in quelle agenzie di collocamento che impongono al disoccupato di scrivere che appartiene a quella categoria dei lavoratori svantaggiati, questo violando in qualche modo, aggirando in qualche modo la legge, svantaggiando di fatto chi è svantaggiato veramente. E poi il male è anche quella politica che spalanca le braccia ad Amazon perché offre la soluzione alle sue incapacità, la mancanza di visione, la mancanza di poter risolvere dei problemi. Quella politica che vive di rapporti clientelari. Insomma, questo è il mercato del lavoro in Italia, in questo momento un deserto dove i lavoratori sono le prede che verranno sbranate prima o poi da lupi famelici. Ecco in questo, un tutto questo contesto, può sembrare paradossale, ma Amazon rappresenta quasi un’oasi di legalità, anche di prospettiva personale anche se chiede ai propri dipendenti di correre come pazzi dietro i robot. Chi è che dipinge Amazon come un avido becchino che sfrutta e spoglia fino alla fine i cadaveri è bene che si sappia che quei cadaveri sono stati uccisi lentamente da qualcun altro.
Da repubblica.it il 28 maggio 2021. "I prossimi anni richiederanno un considerevole sforzo fiscale per far fronte ai costi della pandemia. Sarà dunque necessario guardare all'efficienza e all'equità del sistema tributario, ipotizzando varie forme di ricomposizione del contributo dei prelievi diretti e indiretti alla copertura del bilancio" dello Stato. Lo scrive la Corte dei Conti nel suo "Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica", sottolineando che "un'adeguata attenzione potrebbe essere riservata a un parziale spostamento del prelievo dall'Irpef all'Iva" obbedendo così anche alle richieste degli organismi internazionali. Secondo la Corte il prelievo fiscale resta ancora molto squilibrato. Il "proliferare di trattamenti tributari differenziati" sono "deviazioni" che "hanno condotto ad un prelievo concentrato sui redditi da lavoro dipendente e pensione, piuttosto sbilanciato sui redditi medi e con andamenti irregolari e distorsivi delle aliquote marginali effettive", scrive la Corte. Inoltre, "il declino del peso dei redditi da lavoro sul Pil, la persistente e significativa evasione e il proliferare di trattamenti tributari differenziati contribuiscono a mettere in dubbio che si possa ancora parlare di prelievo "generale" sui redditi". Per la Corte riportare il deficit al 3% dopo la crescita dell'ultimo anno legata alle spese della pandemia non sarà semplice. "Il ritorno del deficit al 3% del Pil implica un percorso impegnativo e richiede di intraprendere rapidamente iniziative su più terreni. Il Recovery Plan rappresenta un'opportunità unica" per "aumentare il potenziale di crescita del Paese, ma per raggiungere tale obiettivo sarà necessario che vengano attuate con rapidità le riforme" giustizia, p.a., fisco welfare, spiega la Corte. "Occorrerà anche seguire un cammino di finanza pubblica molto "stretto"". E, non appena le condizioni lo consentiranno, affiancare all'espansione della "spesa buona" anche il contenimento di quella "cattiva".
Tasse su morte e disoccupazione. I balzelli nascosti che il Pd dimentica. Giuseppe Marino il 22 Maggio 2021 su Il Giornale. Si pagano pure concorsi e attestati di decesso. Cento scadenze fiscali sulle Pmi. E sulle case salasso e blocco degli sfratti senza ristori. La giungla di gabelle che Draghi deve disboscare. C'è un Paese spaventato, in cui è aumentato del 20% il numero di famiglie che non arriva a fine mese (oltre sei su dieci, dati Bankitalia di ieri) e le altre, quelle che ce la fanno, pensano «di ridurre i consumi non durevoli nei prossimi tre mesi». L'idea di Draghi è aiutare chi non ce la fa e rassicurare gli altri per spingerli a spendere, mentre si vara una riforma fiscale che renda il fisco più equo: troppe regole e balzelli aggiunti negli anni. La proposta di Enrico Letta, una tassa sulla successione, va nel senso esattamente opposto: aumenta la pressione fiscale su chi può spendere e non fornisce vere opportunità a chi non ce la fa. A meno di non pensare che lo Stato che distribuisce soldi a pioggia sia un modello di crescita. I tentativi di sostegno ideologico alla proposta Letta citano ipocritamente il parere favorevole di Luigi Einaudi sull'imposta di successione, dimenticando di specificare che all'epoca il reddito era tassato con un'aliquota dell'8 per cento (tramite l'imposta di ricchezza mobile). Nel suo libro appena uscito (La Repubblica delle tasse, ed. Castelvecchi, una bella rassegna di tutto il sistema fiscale) Gianluca Timpone (nel tondo qui sopra) esemplifica il primo nodo della tassazione sul reddito da cui ogni riforma deve partire e che Letta pare ignorare: oggi in Italia un dipendente che guadagna 30mila euro ne paga poco meno di 6mila di tasse sul reddito. Se dovesse lavorare di più e guadagnare altri mille euro, finirebbe con il consegnarne allo stato ben 450, «380 euro per lo scalone che subisce l'aliquota e 70 euro di minori detrazioni», spiega l'autore, esperto commercialista. Un vero e proprio disincentivo alla produttività. Negli anni la logica di aggiungere una tassa alla volta in stile Letta ha fatto scuola. Il risultato è che nel 2019 la Cgia di Mestre aveva contato un numero record di scadenze fiscali per le Pmi: cento in un anno. La strada indicata da Draghi è proprio quella di semplificare questo groviglio. A quanto pare Letta non condivide, dimenticando la marea di balzelli che già colpisce redditi e patrimoni. L'imposta di successione, mentre i ricchi veri possono tranquillamente portare al sicuro i patrimoni liquidi, colpirebbe soprattutto gli immobili già gravati da una patrimoniale da 21 miliardi com'è l'Imu e da mille altri balzelli. Alcuni veramente bizantini. Il certificato energetico, ormai obbligatorio anche per dare in affitto una casa, non è letteralmente una tassa ma di fatto è una spesa imposta dallo Stato. E inspiegabilmente scade dopo dieci anni, pure se la casa è rimasta la stessa. E cosa fa il legislatore? Lo rende obbligatorio per il Superbonus 110%, ma non lo stesso: documento diverso, nuova spesa. «In più la redditività degli immobili, -dice il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa- non è tutelata dallo Stato: i proprietari di case date in affitto a utenti morosi sono gli unici a non aver ricevuto ristori mentre il governo vietava gli sfratti». «È pieno di microtasse odiose -ricorda Timpone- come la tassa sulla disoccupazione, il versamento imposto a chi partecipa a un concorso. O la tassa sulla morte, il balzello chiesto per avere un certificato che attesti il decesso. O quella sulle insegne, che colpisce l'imprenditore che cerca di farsi notare per fare più affari». E infine la tassa sulla fortuna, l'unica di cui nessuno si lamenta davvero: chi la paga ha vinto una lotteria. Letta ci faccia un pensierino.
Da “il Giornale” il 22 maggio 2021. «Un milione di euro è il valore di un normale appartamento familiare in una grande città come Roma, come quelli in cui tutti siamo vissuti con i nostri figli finché sono stati con noi». Così parlò il giornalista Marcello Sorgi a «L' aria che tira». L' intenzione era di criticare la patrimoniale Letta in favore dei giovani, l'effetto è stato di scatenare sul web le reazioni inviperite di chi un appartamento da un milione di euro forse non lo hai neppure sognato, nonostante figli, lavoro e vita in una grande città. Così, per evitare di far piangere i benestanti non ricchi, ha scatenato chi non è né ricco né benestante. La critica più benevola? «Questo distacco dalle persone normali è davvero preoccupante».
Da ilfattoquotidiano.it il 22 maggio 2021. “La proposta di Enrico Letta di tassare i redditi da oltre un milione di euro? Un milione di euro è il valore di un normale appartamento familiare in una grande città come Roma. Parliamo di uno di quei appartamenti in cui tutti noi abbiamo vissuto coi nostri figli finché non sono stati con noi”. Così, a “L’aria che tira” (La7), l’editorialista de La Stampa, Marcello Sorgi, commenta la proposta del segretario del Pd, Enrico Letta, circa una tassa di successione dell’1% per i redditi oltre un milione di euro, a vantaggio dei 18enni. Sorgi nega che l’iniziativa dem possa essere paragonata a quella di Rifondazione Comunista, che in occasione della legge finanziaria del 2007 diffuse lo slogan “Anche i ricchi piangono” con un manifesto recante l’immagine di uno yacht: “Almeno in quel manifesto di Bertinotti c’era uno yacht da 100 milioni di euro. Ma nella proposta di Enrico Letta c’è da tassare un milione di euro. Se i ricchi sono quelli che hanno un appartamento in centro e magari una seconda casa al mare, secondo me, non sono ricchi che devono piangere – continua – Sono persone che hanno costruito qualcosa durante la loro vita e che amerebbero lasciarlo ai figli senza pesi ulteriori. Letta poi, rispondendo alla replica dura e perentoria di Draghi, ha detto: “Ma io devo fare il capo della sinistra e quindi devo dire queste cose”. È un po’ da vedere se la sinistra debba proporre tasse, perché le tasse non sono mai una cosa popolare”.
La strana coerenza Dem. Il PD dalle battaglie contro gli stage alla ricerca di stagisti su LinkedIn: il caso dell’annuncio a Milano. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Maggio 2021. Predicare bene, razzolare malissimo. Il Partito Democratico che si lancia in una battaglia per i giovani, con l’ormai nota "dote" per i 18enni frutto dell’aumento dell’aliquota della tassa di successione oltre i 5 milioni, ma che soprattutto due giorni fa, il 20 maggio, si intestava una battaglia contro gli stage, casca proprio sul tema del lavoro. Facciamo un passo indietro. Giovedì 20 maggio il segretario Dem Enrico Letta all’evento “La precarietà non è destino – Una riforma per il lavoro dei giovani” lanciava strali contro l’uso degli stage e contro il loro “stravolgimento”, ovvero l’utilizzo come “falso modo di assumere le persone”, perché in questo caso “non vanno bene per niente”. Dal confronto che aveva visto anche la presenza del ministro del Lavoro Andrea Orlando, dell’ex ministro dell’Università Gaetano Manfredi e dell’europarlamentare Brando Benifei, era quindi uscita la proposta Dem sul tema: il blocco degli stage non retribuiti e degli stage non collegati alla scuola o all’università frequentata, sostituendoli con l’apprendistato. Peccato che sole 24 ore dopo su LinkedIn, il social "del lavoro", il Partito Democratico di Milano abbia pubblicato un annuncio in cui si cerca un “intern” per la posizione di social media “in vista del ciclo elettorale 2021”. Intern, ovvero stage. Il tirocinio proposto dal Partito Democratico prevede una durata di sei mesi full time, mentre nell’annuncio non c’è alcuna informazione riguardante la retribuzione.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia.
Antonio Castro per “Libero Quotidiano” il 16 maggio 2021. La famosa compliance fiscale tra amministrazione e contribuenti rischia di rimanere una chimera nel libro delle promesse impossibili. La qualità delle risposte dell'Agenzia delle Entrate - testata dall'equipe dell'Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli - ha dato risultati deludenti: dei 105 uffici provinciali contattati, 62 uffici (che coprono due terzi della popolazione italiana), non hanno risposto o hanno fornito risposte errate.
TEST DELUDENTE Salta fuori - come anticipato dal sito repubblica.it - che soltanto 21 uffici su ben 100 (quelli che statisticamente si occupano del 16% della popolazione), «hanno dato risposte interamente corrette». Il monitoraggio sul campo dell'Osservatorio sui conti pubblici - dopo l'esperimento sui tempi di risposta delle Prefetture alle domande dei cittadini - ha contattato telefonicamente oltre 100 Uffici provinciali dell'Agenzia delle Entrate per effettuare un'indagine sul modello di quella effettuata tempo addietro con gli uffici per il pubblico delle Prefetture locali. Nel caso degli sportelli per i rapporti con i contribuenti delle agenzie fiscali il quesito posto dagli uomini dell'ex alto dirigente del Fondo monetario internazionale riguardava le modalità per presentare un'istanza di revisione della rendita catastale di un immobile. «Istanza», puntualizza la stessa Agenzia delle Entrate sul proprio sito on-line, «che si può effettuare presentando all'Ufficio provinciale un modulo compilato assieme a dati anagrafici, catastali e documentazione della differenza tra rendita effettiva e rendita catastale». Il test per gli uffici dell'Agenzia non è stato proprio un successo spiega a Libero il direttore dall'Osservatorio: «A dirla tutta dovrebbe essere una valutazione del funzionamento degli uffici che dovrebbe fare ciascun ministero, ogni ufficio pubblico. E invece non viene fatto sistematicamente». Cottarelli, una vita trascorsa ai vertici del Fondo monetario internazionale ed ex Commissario per la spending review, si sorprende ancora adesso dei disservizi. «Per realizzare questo raffronto», racconta il docente che tiene un corso alla Bocconi proprio di Fiscal Macroeconomics, «abbiamo messo due persone a fare qualche telefonata. Non si tratta di un lavoro impossibile. È una valutazione dei servizi e della performance che in Italia non viene fatta sistematicamente e che, invece, servirebbe non poco per misurare il grado di soddisfazione dei cittadini ma, soprattutto, intercettare i problemi nel rapporto con l'utenza». L'approccio diretto con la pubblica amministrazione italiana per chi ha trascorso la propria vita all'estero (a Washington, in particolare), non deve essere stato proprio semplice. «Tutto nasce dalla mia esperienza personale. Facevo domande e spesso non ottenevo risposta. Oppure, che è anche peggio, la risposta che ricevevo non era giusta». Dopo le Prefetture e le Agenzie delle Entrate, Cottarelli promette di mettere i "suoi" dell'Osservatorio a verificare l'effettiva funzionalità dei servizi pubblici. Però non anticipa chi e come verrà "sondato". Però promette: «Non ci fermeremo. Continueremo finché non sarà lo Stato a compiere un'autovalutazione del proprio lavoro». Sembra una minaccia, ma è più una promessa. Soprattutto per i cittadini. «Per eseguire questa rilevazione, abbiamo contattato, attraverso i numeri di telefono degli Uffici provinciali dell'Agenzia delle Entrate disponibili sul sito della stessa Agenzia, ogni ufficio nella fascia oraria in cui è prevista l'assistenza». Risultato: «Dei 105 uffici provinciali contattati, 62 (che coprono due terzi della popolazione italiana), non hanno risposto o hanno fornito risposte errate. Solo 21 uffici (16% della popolazione), hanno dato risposte interamente corrette».
Gino Gullace Raugei per “Oggi” il 14 maggio 2021. "Scrocconi" (Piemme) è un libro che dovrebbe vendere 5 milioni di copie: una per ogni italiano che, guadagnando più di 35 mila euro lordi annui, viene spennato dal Fisco. Lo ha scritto il giornalista e conduttore di Mattino 5 Francesco Vecchi che, numeri, dati e statistiche alla mano, dimostra che «ogni italiano che lavora e paga le tasse ne ha dieci che vivono alle sue spalle». L'Italia appare come una Repubblica fondata non sul lavoro ma sull'imbroglio in cui lo Stato chiude entrambi gli occhi e perpetua l'inganno. Proprio durante la pandemia sono emerse alcune criticità. «Partiamo dalla sanità pubblica: ognuno di noi dovrebbe contribuire, ogni anno, con circa 1.800 euro a testa. Il problema è che 44 milioni di cittadini non versano tasse a sufficienza; 11 milioni pagano la propria fetta; e 5 milioni, quelli da 35 mila euro lordi in su, sborsano tutta la differenza. Sette cittadini su 10, insomma, non si fanno carico delle spese sanitarie, vanno a scrocco. Poi ci stupiamo se col coronavirus abbiamo scoperto di avere poche terapie intensive...», dice Vecchi. Altra chicca: i ristori. Vecchi racconta di quella volta che ha ospitato a Mattino 5 la titolare di un centro estetico che piangeva perché col lockdown rischiava il fallimento e i 600 euro versati dallo Stato coprivano appena un paio di bollette. «Sono corso a vedere le statistiche dell'Agenzia delle entrate e alla voce "Beauty center" ho letto: 6.500 euro di reddito annuo dichiarato in media, 541 euro al mese. Se con 600 euro dì ristoro non si può campare, figuriamoci con 541!».
UN PAESE DI STRACCIONI? «Stando alle dichiarazioni dei redditi, i più fortunati sono i ristoratori, con una media di 18 mila e 400 euro lordi annui; poi i baristi (17 mila e 400). I parrucchieri dicono di portare a casa 1.091 euro al mese; chi ha un negozio di vestiti, 617. I gestori delle discoteche dicono che tre mesi di chiusura hanno comportato un danno di 4 miliardi di euro, un milione a discoteca. Ma all'Agenzia delle entrate questi incassi non si sono mai visti: coi 18 mila euro all'anno di guadagni dichiarati, chi ha una discoteca, per il fisco, è "povero"». Ma come ha fatto un Paese in cui i gioiellieri dichiarano meno di 20 mila euro lordi all'anno a mettere in banca 10 mila miliardi di patrimonio? Come è possibile che l'80 per cento degli italiani siano proprietari di case se solo il 20 per cento dichiara di guadagnare abbastanza per potersele permettere? Come è possibile che in Italia si vendano ogni anno oltre 200 mila auto di lusso (Ferrari, Lamborghini, Mercedes...) al prezzo medio di 103 mila euro a vettura, se gli italiani che dichiarano più di 200 mila euro sono appena 76 mila, il due per mille dei contribuenti?
UNO SU DUE NON VERSA Altro luogo comune: in Italia la pressione fiscale è insopportabile. «Se prendiamo la tassa più diffusa, l'Irpef, non è vero. Nel 2019, un italiano su due ha versato zero euro perché ha dichiarato di non aver guadagnato abbastanza. A pagare ben oltre la metà di questa imposta sono i cittadini che dichiarano più di 35 mila euro lordi l'anno. Chi dichiara fino a 20 mila euro l'anno non può lamentarsi: nella peggiore delle ipotesi, ha versato 2 mila euro di Irpef, il 10 per cento del suo reddito. La classe dove si trovano più italiani è quella tra i 10 e i 12 mila euro: per loro le tasse, al netto delle detrazioni, sono il due per cento. non certo vessatorie. Va peggio ai lavoratori dipendenti che guadagnano più di 100 mila euro all'anno: rispetto alla metà del Paese che versa poco o nulla, le tasse che versano queste persone sono 300 volte più alte». In base alle statistiche fiscali, l'Italia è un Paese del terzo o quarto mondo: a fronte di pochissimi "ricchi", che guadagnano più o meno come un operaio specializzato tedesco, c'è una massa di poveracci. La cosa assurda è che la politica, di tutti i colori, sembra credere ciecamente a questa immagine palesemente falsa. Ogni anno, l'Italia versa 130 miliardi di euro per aiutare i più bisognosi, una montagna di denaro pari a tre o quattro leggi finanziarie "lacrime e sangue" e all'8 per cento del Pil: tutti questi soldi vanno a finire nelle tasche di chi dichiara di guadagnare meno di 20 mila euro all'anno: tanti poveri e moltissimi furbetti. «Questa classe è composta da 23 milioni di contribuenti che versano allo Stato circa 780 euro annui a testa di tasse e ricevono in cambio aiuti vari per 5 mila euro cadauno», dice Vecchi. «Quelli che dichiarano più di 35 mila euro, pagano 18 mila euro di tasse e ricevono in cambio mille euro di aiuti». «Dopo quasi 30 anni di stagnazione. è forse l'ora di chiedersi se il nostro sistema fiscale non sia proprio una delle cause della nostra bassa crescita». prosegue l'autore di "Scrocconi".
CHE COSA SI PUÒ FARE? Dal 2006 a oggi gli italiani in povertà assoluta - dice l'lstat - sono triplicati passando da 4 a 12 milioni: «Ma siamo sicuri che questi dati siano veri visto che, negli ultimi 10 anni, ciascun nucleo familiare ha incrementato il suo patrimonio di 17 mila euro e i consumi di palestre, telefonini, cure termali, centri estetici, abbonamenti alla pay tv sono andati alla grande?». «Se lo Stato - si chiede ancora Vecchi - chiude un occhio, anzi due, davanti a dichiarazioni palesemente false e lo fa per avere il consenso di questi falsari, possiamo parlare di voto di scambio e di corruzione?». Eppure, per sistemare le cose basterebbe replicare lo schema della riforma 2015 dell'Isee, l'Indicatore della situazione economica equivalente, necessario per accedere agli aiuti di Stato che hanno 6 milioni di famiglie, cioè 14 milioni di persone. «Prima si compilava un modulo autodichiarando la consistenza del proprio conto corrente, che non veniva sottoposto a controlli. Nel 2015 si è passati al sistema che prevede l'incrocio dei dati col circuito bancario. Morale: sono scomparsi 2 milioni e mezzo di "poveri"!».
Dagospia il 25 aprile 2021. LA SMENTITA DI SIAE. Con riguardo all’articolo apparso su La Stampa “Guerra tra fondi sul tesoro della Siae bloccati in Lussemburgo 470 milioni” è doveroso precisare come lo stesso sia destituito di fondamento. Nessun fondo è bloccato in Lussemburgo e l’operazione di fusione deliberata da SIAE è stata perfettamente approvata dalla CSSF. Purtroppo, è vero che Banca Profilo aveva incomprensibilmente effettuato operazioni gravemente errate (censurate anche da Credit Suisse e Valeur) che SIAE ha dovuto contestare. Si tratta però di questioni ormai superate per effetto della già richiamata operazione di fusione. Nessun contrasto invece con Valeur con la quale si è trovato un accordo soddisfacente per tutte le parti (evidentemente non noto all’articolista che ben avrebbe potuto chiedere a SIAE) e che appunto è sfociato nella già richiamata fusione.
Gianluca Paolucci per “La Stampa” il 25 aprile 2021. Un investimento di 472 milioni bloccato da mesi in Lussemburgo. Con contorno di segnalazioni all'Uif - l'antiriciclaggio di Bankitalia -, alla procura di Roma, alle autorità di controllo. E scambi di accuse tra i vari attori coinvolti. Oggetto della contesa, una fetta consistente del patrimonio di Siae, ovvero l'ente che incassa i diritti d'autore e li distribuisce tra gli artisti associati. Soldi che in tempi di pandemia, tra l'altro, assicurano introiti agli artisti altrimenti fermi. Il problema è che dopo mesi di richieste e scambi di carte sempre più infuocate tra le varie parti coinvolte la situazione si è complicata sempre di più e i soldi sono ancora fermi. Si parla, per capirsi, di circa un terzo del patrimonio di Siae, che è investito in un fondo lussemburghese denominato Indaco Pentagramma, dedicato appunto alla Siae. Operazione nata nel 2015 e mantenuta con serenità fino alla fine scorso anno. Quando Roberto Maretto, già presidente di Valeur, lascia la sgr e come di prassi nel settore del private banking si porta via i suoi clienti, tra i quali la Siae, appunto. Solo che la Siae non è un cliente qualunque ma un ente pubblico economico, sottoposto a vigilanza di Presidenza del consiglio, Mef e Mibact e controllato dalla Corte dei Conti. Così, quando il 21 dicembre scorso alla banca depositaria delle quote di Siae (Banca Profilo) arriva, dal dg Gaetano Blandini di Siae, la richiesta di fondere le quote di Pentagramma in un nuovo fondo - gestito questo da Kairos -, la banca depositaria - il cui ruolo è in pratica quello di un vigile che regola il traffico - chiede di poter verificare che tutte le procedure siano state rispettate. Inizia così il lungo confronto-scontro che va avanti fino a qualche giorno fa, che La Stampa ha potuto ricostruire grazie a una serie di documenti. Salta fuori così che le delibere dei consigli di gestione e di sorveglianza di Siae per dare il via libera al trasferimento sono successive alla richiesta iniziale: la prima è dell'8 gennaio, la seconda del 13 gennaio. Ed è già abbastanza per far scattare tutti gli allarmi. Inoltre, su quel fondo esiste un accordo di lock-up fino al 2028, che rende impossibile il trasferimento senza un accordo formale tra le parti. Tant' è che dopo Profilo è Bnp Paribas - il transfer agent - che si oppone al trasferimento. E dopo Bnp si oppone anche Mps, banca depositaria del nuovo conto, che fa sapere di non poter ricevere le quote. Infine, anche Credit Suisse, partner di Valeur in Lussemburgo per i fondi Indaco, vuole vederci chiaro e, quando tutto sembrava sistemato, blocca a sua volta il trasferimento. Che a tutt' oggi risulta fermo. Nel frattempo succede un po' di tutto. Il 12 marzo tutte le parti coinvolte - compreso Credit Suisse - ricevevano una lettera di Siae che accusava Valeur di aver agito in conflitto d'interesse e in danno degli investitori, segnalando una serie di operazioni compiute dal fondo. Siae chiedeva quindi di bloccare l'operatività con Valeur delle controparti e minacciava di rivolgersi alle autorità di controllo di Gran Bretagna (Fca), Svizzera (Finma) e Lussemburgo (Cssf). Blandini e Giulio Repetti - cioè Mogol, presidente di Siae - presentano un esposto contro ignoti con l'accusa di appropriazione indebita. Tre giorni dopo lo scenario cambia completamente e Siae manda una nuova lettera dove chiede di ignorare la comunicazione precedente. Era successo che nel frattempo Maretto, Siae e Valeur avevano trovato un accordo. Tutto bene, dunque. No, ancora non ci siamo perché a questo punto vogliono tutti vederci più chiaro. E chiedono più documenti e più chiarimenti. Le richieste di trasferimento hanno anche innescato l'Uif, che ha chiesto a sua volta chiarimenti alle banche interessate. In tutto questo, il fondo Pentagramma qualche problemino ce l'ha. Il 30% del patrimonio a fine 2019 era infatti investito in fondi promossi da Valeur. Parte della famiglia Indaco, dichiarati in bilancio. E parte (20%) in un'altra famiglia di fondi della stessa sgr (Anteo, anche questa in partnership con Credit Suisse), non dichiarati come parte correlata. Tant' è che proprio Credit Suisse, che fino a inizio aprile spingeva per chiudere, si mette di mezzo per chiedere chiarezza.
Dad e Did, Decreto Ristori e Sostegni, Asl, Ats, Asp e Nuova Imu: qual è la differenza? Cambiare sigle per non cambiare nulla. Milena Gabanelli e Rita Querzè su Dataroom su Il Corriere della Sera l'11 aprile 2021. L’efficienza di un Paese si vede anche dalla chiarezza con cui la pubblica Amministrazione comunica ai cittadini la propria attività. Ogni servizio è classificato con un nome o un acronimo e se li cambi spesso, anche quando la sostanza rimane identica, la gente si confonde. Purtroppo l’ufficio complicazione affari semplici lavora giorno e notte. La Dad, Didattica a distanza, lo scorso settembre, con l’inizio del nuovo anno scolastico, è diventata Did (Didattica integrata a distanza), ma gli studenti continuano a fare sostanzialmente la stessa cosa, cioè seguire le lezioni dal computer, e tutti continuano a chiamarla Dad. E peraltro esiste già un’altra Did: la «Dichiarazione immeditata di disponibilità al lavoro». Cambiare nome a volte serve solo a marcare la differenza fra un governo e l’altro. Prendiamo i provvedimenti che servono a risarcire chi è stato danneggiato dalla pandemia: fino a ieri si chiamavano «Ristori», adesso sono diventati «Sostegni». Che cosa c’è di nuovo? Niente. Il nuovo governo ha cambiato il nome anche ad alcuni ministeri: quello dell’Ambiente è diventatodella Transizione ecologica (Mite), quello delle Infrastrutture e dei Trasporti è ora delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili. Ci eravamo abituati al Mit, non sarà immediato familiarizzare con il Mims. Il ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione è diventato ministero della Transizione Tecnologica e dell’Innovazione Digitale. Maquillage o sostanza? Vedremo.
Enti che cambiano nome. Anche gli enti cambiano spesso carta d’identità. Un esempio su tutti: Equitalia. Molti presero alla lettera nell’estate 2016 il «bye bye Equitalia» dell’allora presidente del consiglio Matteo Renzi, e così da luglio 2017 è stata sostituita da Agenzia entrate-riscossione. Equitalia era una spa (partecipata al 51% dall’Agenzia delle entrate e al 49% dall’Inps) mentre adesso Agenzia entrate-Riscossione è un ente pubblico economico, sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Economia. Si sarebbe potuto fare questo passaggio mantenendo il nome, visto che «I contribuenti troveranno nuovo logo, nuova modulistica, mentre i servizi saranno svolti in continuità con la precedente gestione» diceva l’ultima nota della stessa Equitalia, prima di dissolversi. E infatti le cartelle esattoriali si sono continuate a pagare come sempre. Ma qui la questione di fondo era proprio il nome: Equitalia aveva una brutta reputazione. Il problema è che cambiare insegne, carta intestata, sistemi informatici, biglietti da visita ha un costo per lo Stato e, quindi, per i cittadini. Certo non tutti i cambi di nome sono operazioni di marketing: per esempio, l’Agenzia delle Entrate è nata nel 2001 da una costola del ministero delle Finanze che agiva attraverso le Intendenze di finanza sul territorio. A differenza del ministero, l’attività dell’agenzia è basata sull’autonomia, solo gli obiettivi da raggiungere sono concordati attraverso un contratto di servizio. I risultati parlano: l’indice di redditività (il rapporto tra i costi dell’agenzia e le entrate garantite dal suo lavoro) è salito da 1,93 del 2008 a 6,32 del 2019.
Tassa sui rifiuti: 4 nomi in 10 anni. Il caso della tassa sui rifiuti è un esempio da manuale. Negli anni ‘90 si decide di dare agli enti locali maggiore potere impositivo con il federalismo fiscale. E quindi dal ‘93 al ’97 gli italiani hanno pagato la Tarsu, cioè la Tassa per lo Smaltimento dei Rifiuti Solidi Urbani. Nel ‘97 con il decreto Ronchi è stata istituita la Tia, Tariffa di Igiene Ambientale. Nel dicembre 2011 è arrivata la Tares, con il decreto Salva Italia. Infine nel dicembre 2013 è stata introdotta la Tari con la legge di Stabilità. Poi diversi Comuni hanno continuato lo stesso con la Tares perché la legge lo consentiva. Quattro cambi di nome in poco più di 10 anni. Inoltre ogni Comune può gestire con una certa autonomia esenzioni e agevolazioni, creando un’enorme confusione. Il risultato è che se chiedi ad un cittadino come si chiama la tassa sui rifiuti che sta pagando spesso non lo sa.
Ici, Imu, Iuc, CniPa, DigitPa. Con la tassa sugli immobili non è andata meglio. C’era una volta l’Ici, Imposta comunale sugli immobili, introdotta dal governo Amato nel 1992. Il governo Prodi la tolse sulle prime case ai redditi bassi. Berlusconi la cancellò del tutto nel 2008, ma per le seconde case nel 2011 istituì l’Imu (Imposta municipale propria). Nel 2012 il governo Monti la allargò alle prime case. Nel 2013 viene di nuovo tolta da Letta sulla prime case (a eccezione per quelle di lusso), che poi ha istituito la Iuc, formata da Tasi (Tassa sui servizi indivisibili), Tari (Tassa sui rifiuti) e Imu (per la seconda casa). Nel 2019 il governo Conte abolisce la Iuc e nel 2020 è nata la «Nuova Imu» accorpando Tasi e Imu. Per promuovere l’informatizzazione della pubblica amministrazione si è partiti nel 1993 con l’Aipa, Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, che nel 2003 è diventata CniPa (Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione) e poi nel 2009 DigitPa. Infine nel 2012 Agid (Agenzia per l’Italia digitale). Non si può dire che la digitalizzazione della Pa sia stata tanto rapida quanto i cambi di nome.
La giostra del lavoro. Per fare funzionare i Centri per l’impiego è indispensabile l’incontro tra la domanda e l’offerta. Nel ‘97 viene istituito il Sil, Sistema informativo lavoro. Nel 2003 è stato sostituito dalla Borsa Continua Nazionale del Lavoro. Nel 2010 è stato creato un nuovo portale: Cliclavoro. Cambiato nome tre volte, ma il risultato è rimasto sempre lo stesso: l’incontro domanda-offerta non è mai partito. Sempre in materia di lavoro, nel ’96 è stata fatta una importante riforma (richiesta anche dalla Ue). In pratica è stata data la possibilità ai privati di fare intermediazione di manodopera. Sono nate le cosiddette agenzie del «lavoro in affitto». Poi diventate del «lavoro interinale». Ora siamo passati al «lavoro somministrato». La sostanza però è sempre rimasta la stessa: lavori per conto di un’agenzia per il lavoro che ti assume, a termine o a tempo indeterminato, e poi ti distacca in un’altra azienda per un certo periodo. Cliclavoro. Cambiato nome tre volte, ma il risultato è rimasto sempre lo stesso: l’incontro domanda-offerta non è mai partito.
Sanità e urbanistica: la babele del federalismo. Nel 1993 viene decisa la cosiddetta aziendalizzazione delle Usl che diventano un organo di competenza delle Regioni. Il cambio è radicale e, giustamente, si cambia nome: da Usl si passa ad Asl (Azienda sanitaria locale). Abruzzo, Campania, Lazio, Liguria, Piemonte e Puglia confermano l’acronimo di Asl, tutte le altre lo cambiano: in Alto Adige si chiama Asdaa, in Basilicata Asm, in Calabria Asp, Ausl in Emilia Romagna e in Toscana, Asu e As in Friuli Venezia Giulia, Ats in Lombardia e in Sardegna, Asur nelle Marche, ASReM in Molise, Asp in Sicilia, Apss in Trentino, mentre in Umbria sono rimaste Usl. Dov’è il senso di questa babele?
A Flourish map. E il federalismo ha contribuito a dismisura. Prendiamo la pianificazione urbanistica: differente da Regione a Regione, genera non poche difficoltà a cittadini e imprese. Buttato il Prg (Piano regolatore generale), ora abbiamo il Pgt in Lombardia, il Puc in Campania, in Emilia Romagna il Psc fino al 2020, ora si chiama Pug, in Veneto i Pi, Prc, Pat; e ancora i Psc e i Poc in Toscana, i Pot e i Reu in Calabria. Senza dimenticare i Pums (e cioè i piani urbani della mobilità sostenibile), i Pup (vale a dire i piani urbani dei parcheggi), i Pcv (ossia quelli del verde urbano) e i Pdc (quelli del commercio). Infine dal 2001 a oggi siamo passati da due soli titoli edilizi, il «permesso di costruire» e la Dia (Dichiarazione di inizio attività del privato), a una molteplicità di istituti giuridici: Cil (introdotta nel 2010 e eliminata nel 2016), Cila, Scia. Quello che cambia è solo la procedura.
Tirando le somme. È fin troppo scontato dire che nella grande ragnatela della pubblica amministrazione un cambio di nome si giustifica solo con l’introduzione di novità di sostanza, proprio per non disorientare i cittadini. Quel che invece succede nella maggior parte dei casi, soprattutto quando qualcosa non funziona perché gestito male, è che si cambia l’etichetta per dare l’idea di grandi innovazioni, anziché correggere le storture. Che infatti rimangono. E intanto la confusione aumenta, insieme alla spesa generata dalla nascita di un nuovo ente. Sembra quasi una regola: rendere tutto confuso perché se sei chiaro diventa chiara anche l’inefficienza.
Gratta e Vinci, le regole per riscuotere le vincite (e cosa fare in caso di furto del biglietto). Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 6 settembre 2021. Gratta e Vinci, dalla vincita alla riscossione: cosa sapere. Dopo il caso del tabaccaio di Napoli scappato con un Gratta e Vinci da 500 mila euro, sono diversi gli utenti e i giocatori d’Italia che si chiedono come evitare situazioni simili e ridurre i rischi in caso di vincita. Il Corriere della sera ha rivolto alcune domande all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Adm) per fare chiarezza sulla questione e far conoscere le regole da seguire in caso di vincita fortunata.
Cosa fare quando si vince?
Nel caso in cui si vinca per sapere cosa fare bisogna guardare all’importo. Dice Stefano Saracchi, dirigente dell’ufficio giochi numerici e lotterie: «È possibile identificare una prima soglia di 500 euro come netto spartiacque per le procedure che il giocatore deve seguire per il reclamo ed il ritiro della vincita». Nei casi in cui il premio vinto fosse sotto tale soglia, il giocatore dovrà richiedere, presso qualsiasi punto vendita italiano autorizzato, la riscossione immediata della vincita.
«Sopra tale soglia e fino a 10 mila euro, il giocatore dovrà presentare il biglietto presso un qualsiasi punto vendita autorizzato per richiedere la prenotazione del pagamento della vincita», aggiunge. Sopra la soglia dei 10 mila invece sarà necessario presentare il biglietto all’ufficio premi del Concessionario o, in alternativa, presentandolo presso uno sportello di Intesa Sanpaolo che provvederà all’avvio delle procedure di reclamo.
Cosa succede se si subisce il furto del biglietto?
Il caso di Napoli però insegna che i furti sono rari ma possibili. La regola nel caso in cui un biglietto vincente sia stato rubato è presentare tempestiva denuncia presso le Autorità competenti. «I regolamenti in vigore — dice Saracchi — prevedono che l’Agenzia possa autorizzare i pagamenti dei tagliandi risultati vincenti solo se presentati in originale. Pertanto, nel momento in cui si dovesse presentare apposita denuncia di furto, è necessario sia il rinvenimento del biglietto sia che l’Autorità Giudiziaria possa accertare la legittima proprietà del tagliando in capo a chi ne reclama la titolarità». Se il biglietto non si trova l’unica possibilità è il contenzioso legale con tanto di eventuali richieste di risarcimento danni in capo al soggetto che ha commesso il furto.
Cosa succede se ci sono dubbi sulla proprietà del biglietto vincente?
Ma come si decide di chi è il biglietto? «Le norme e i regolamenti di settore — sottolinea Saracchi — prevedono che chi presenti il tagliando vincente sia il legittimo titolare, salve le regole della rappresentanza. Questo accade tutte le volte in cui non risultasse agli atti alcun tipo di diversa dichiarazione da parte di terzi come ad esempio una denuncia o un esposto. In quest’ultimo caso si presume la titolarità in capo a chi ha presentato il tagliando ma tale presunzione trova il limite dell’accertamento dei fatti in giudizio». Prima di allora la situazione viene congelata e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli blocca temporaneamente la vincita come nel caso di Napoli. «L’Autorità Giudiziaria può sospendere il pagamento a favore di chi ne reclama la vincita in attesa della conclusione delle indagini», aggiunge.
I numeri. Per l’Agenzia il caso di Napoli e in generale il furto di un biglietto vincente sono eventi rari. É più facile che i cittadini si dimentichino di riscuotere le vincite . Dal 2017 ad agosto 2021, secondo dati dell’Agenzia, non sono stati riscossi oltre 500 milioni di euro. Nel dettaglio 502.455.754 di euro dalle lotterie istantanee. Che rappresentano l’1,56% del totale complessivo vinto che vale oltre 32 miliardi di euro.
L'errore da non fare col Gratta e Vinci e come difendersi dai furti. Alessandro Ferro il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Il caso di Napoli fa correre ai ripari: cosa bisogna fare quando si vincono determinate somme di denaro ma, soprattutto, se il tagliando viene rubato. Dopo la vicenda del Gratta e vinci che ha visto protagonista il titolare di una tabaccheria di Napoli che ha rubato un biglietto vincente da 500mila euro ad un'anziana signora e tutto quello che ne è seguito, gli italiani saranno più "attenti" quando capiterà sotto mano un'altra vincita.
Le regole per riscuotere la somma. Stefano Saracchi, dirigente dell’ufficio giochi numerici e lotterie, al Corriere della Sera ha spiegato quali sono le procedure quando si vince. "È possibile identificare una prima soglia di 500 euro come netto spartiacque per le procedure che il giocatore deve seguire per il reclamo ed il ritiro della vincita", afferma. Se si tratta di una somma inferiore, il giocatore può riscuotere il denaro immediatamente e presso qualsiasi punto vendita italiano, non necessariamente quello in cui è stato acquistato il biglietto. Invece, se la cifra comincia a diventare importante ed arrivo fino a 10mila euro, "il giocatore dovrà presentare il biglietto presso un qualsiasi punto vendita autorizzato per richiedere la prenotazione del pagamento della vincita", aggiunge. Sopra la soglia dei 10 mila invece sarà necessario, invece, presentare il biglietto all’ufficio premi del Concessionario o, in alternativa, presentandolo presso uno sportello di Intesa Sanpaolo che provvederà all’avvio delle procedure di reclamo.
Cosa succede se il Gratta e vinci viene rubato. Nei casi come quello di cui ci siamo occupati, e cioé del furto del biglietto, bisogna denunciare immediatamente l'accaduto presso le Autorità competenti. "I regolamenti in vigore - dice Saracchi - prevedono che l’Agenzia possa autorizzare i pagamenti dei tagliandi risultati vincenti solo se presentati in originale. Pertanto, nel momento in cui si dovesse presentare apposita denuncia di furto, è necessario sia il rinvenimento del biglietto sia che l’Autorità Giudiziaria possa accertare la legittima proprietà del tagliando in capo a chi ne reclama la titolarità". Se il biglietto non si trova, l’unica possibilità rimane il contenzioso legale con tanto di eventuali richieste di risarcimento danni in capo al soggetto che ha commesso il furto.
I dubbi sulla titolarità. È un problema che non dovrebbe esistere ma può capitare che ci sia un problema sulla titolarità del possessore del biglietto: la norma prevede che chi presenti il tagliando vincente sia il legittimo titolare tutte le volte in cui non risultasse agli atti alcun tipo di diversa dichiarazione da parte di terzi come ad esempio una denuncia o un esposto. "In quest’ultimo caso si presume la titolarità in capo a chi ha presentato il tagliando ma tale presunzione trova il limite dell’accertamento dei fatti in giudizio". Prima di definirlo, quindi, la situazione viene congelata e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli blocca temporaneamente la vincita come nel caso di Napoli. "L’Autorità Giudiziaria può sospendere il pagamento a favore di chi ne reclama la vincita in attesa della conclusione delle indagini", aggiunge. Comunque, per fortuna, nonostante il caso di Napoli, il furto di un biglietto vincente fa parte degli eventi rari: l'Agenzia fa sapere che è più facile che i cittadini si dimentichino di riscuotere le vincite . Dal 2017 ad agosto 2021, secondo i dati dell’Agenzia, non sono stati riscossi oltre 500 milioni di euro (esattamente 502.455.754 di euro dalle lotterie istantanee), in pratica l’1,56% del totale complessivo vinto che vale oltre 32 miliardi di euro.
Fabbriche clandestine in Campania e import dall’Est e dalla Libia: è tornato il contrabbando di sigarette. Un giro di affari miliardario, nuovi sistemi per portarle in Italia e distribuzione a domicilio anche dei liquidi delle e-cigarette. Un mercato che costa all’erario 500 milioni l’anno di mancate entrate. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 29 giugno 2021. Due navi di oltre venti metri stazionano al confine con le acque territoriali italiane. È notte fonda nel Canale di Sicilia, quando ad un tratto a queste imbarcazioni si avvicinano tre gommoni partiti dalla costa di Marsala. Una soffiata avverte la Guardia di finanza, che con un elicottero e due motovedette veloci piomba a gran velocità su quel tratto di mare. L’elicottero illumina a giorno una porzione d’acqua color petrolio, i finanzieri saltano sulle due imbarcazioni. Ma qui non trovano migranti nascosti nelle stive e nemmeno carichi di droga o tonni pescati illegalmente e già tagliati e fatti sparire nelle intercapedini. Trovano invece trecento cartoni con dentro sette tonnellate di sigarette Pine blue contraffate prodotte, si scoprirà dopo le indagini, in Tunisia e negli Emirati Arabi e destinate alle piazze di Palermo, da Brancaccio allo Zen. Quasi negli stessi giorni in Emilia Romagna le Fiamme gialle scoprono le basi logistiche in due capannoni vicino Parma di uno dei più noti contrabbandieri di sigarette, Francesco Stanzione, il re della marca taroccata “Regina” che va fortissima nelle piazze di Napoli e nei bar di Roma dove sottobanco vendono di tutto: Stanzione sfugge all’arresto e per mesi si nasconderà in Grecia prima di essere fermato dai poliziotti ellenici e consegnato all’Italia. Più a Nord, a Trieste, la Guardia di finanza dopo aver aperto una decina di container arrivati con una nave dall’Est trova 37 tonnellate di tabacchi e narghilè. Da Nord a Sud sono tre scene di un fenomeno che sembrava scomparso, dopo una crescita costante dagli anni Sessanta agli Ottanta che, come raccontano il giornalista Andrea Galli e il maggiore dei Ros Giuseppe Lumia nel libro “Il Supremo”, ha fatto la fortuna dei De Stefano in Calabria, provocando la prima strage di ’ndrangheta a Locri nel ’67, e dei Badalamenti e dei Buscetta in Sicilia. Un fenomeno che invece non è mai morto. Anzi è vivo e vegeto, secondo i dati raccolti dalla Guardia di finanza per l’Espresso: si parla di un giro di affari scoperto pari a 2,5 miliardi di euro nel 2020, di accisa evasa per 500 milioni all’anno solo in Italia negli ultimi dieci anni (in pratica almeno 5 miliardi di euro di mancate entrate per lo Stato). Numeri da capogiro e di molto inferiori alla realtà sommersa, per un fenomeno che adesso coinvolge anche il traffico del liquido delle sigarette elettroniche nonostante il core business resti sempre lei: la sigaretta, la bionda. Magari non la mitica Lucky Strike, ma le oggi diffusissime Merit e Marlboro (le più copiate). Dietro a questo grande mercato nero ci sono organizzazioni internazionali e clan italiani, come dimostrano alcune operazioni della Gdf che hanno legato la famiglia camorristica Di Lauro ad alcune fabbriche di sigarette negli Emirati Arabi, mentre i meccanismi di vendita sono adeguati ai tempi: nelle piazze di Scampia o dello Zen magari ci sono ancora i banchetti; nelle grandi città la rete è quella dei bar o in alcuni casi di rivendite di tabacchi che così aumentano il numero di clienti; oppure, nell’anno del Covid, si è scoperto che attraverso il dark web non solo si possono comprare stecche di sigarette di contrabbando, ma le organizzazioni criminali le spediscono direttamente a casa sfruttando ignari corrieri di grandi società di logistica.
LE NUOVE ROTTE. Il 13 maggio scorso i finanzieri del Gico di Ancona con uno scanner controllano al porto un container che trasporta pellet destinato a una società di Ascoli Piceno. Qualcosa non quadra: si insospettiscono e decidono di aprire il container e dentro trovano 400 chili di stecche di sigarette di marca Marlboro, Winston e Glamour, custodite in bustoni di plastica. Il carico arrivava da Odessa, in Ucraina. Le sigarette, scoprono gli investigatori, erano dirette al mercato clandestino con basi in Puglia, nelle Marche e in Emilia Romagna. In quattro vengono arrestati, due ucraini e due italiani con precedenti per lo stesso tipo di reato. Semplici manovali, la testa di queste organizzazioni sta spesso altrove. In alcuni casi la Guardia di finanza è arrivata però direttamente al vertice: una delle operazioni più importanti è stata quella curata dal Gico di Napoli che lo scorso anno ha portato all’arresto di Stanzione. Il contrabbandiere napoletano, dalla Grecia, suo vero quartier generale, organizzava il traffico di contrabbando delle sigarette verso l’Italia attraverso carichi nascosti su tir. I mezzi venivano imbarcati nei porti di Patrasso e Igoumenitsa destinazione Bari e Brindisi. Dalla Puglia, con delle staffette, i carichi arrivavano a Napoli. Seguendo questa rotta, i finanzieri fermano un camion, all’altezza di Napoli, trovandovi tre tonnellate di tabacchi di marca Email, D&b, Royal Blue e American club. Stanzione sposta quindi la base logistica più a Nord, tra Parma e Bologna. I finanzieri seguono un furgone Iveco che entra e poi esce da un capannone a Sala Bolognese. Dalle intercettazioni si scopre il prezzo di queste sigarette: «620 euro cassa, 12 euro a stecca», dice Stanzione ad un acquirente pugliese. Il grosso del carico però era diretto a Napoli. In quali quartieri? Lo dice un collaboratore di Stanzione parlando delle sigarette Regina: «Quelle le ha tutta Napoli (le rosse e blu…) puoi andare anche vicino ad una bancarella che vende pacchetti e per 10 stecche di regine chiede 160 euro…dove andate andate, le ha Secondigliano, Casavatore, Arzano, Casoria…». La Guardia di finanza di Palermo invece ha scoperto la rotta del Nord Africa quando ha fermato un peschereccio che stazionava al confine con le acque italiane. A guidarlo c’era un libico, Dinbaou Houssine, con sette tonnellate di sigarette a bordo. Tagliata la fornitura dal Nord Africa, il mercato siciliano è stato rimpinguato da Napoli: in soli 7 mesi sono state trasportate almeno 5 tonnellate di sigarette dalla Campania a Palermo per rifornire i quartieri Oreto, Settecannoli, Borgo Vecchio, Brancaccio e Zen per un giro di affari di 2,4 milioni di euro. Proprio i finanzieri di Palermo hanno scoperto poi una nova rotta se così si può definire, nata a causa delle restrizioni per il Covid: da Napoli le sigarette arrivavano nel capoluogo siciliano con normali ditte di spedizione ignare del contenuto reale dei pacchi. Resta poi un altro canale di contrabbando: quello che coinvolge le navi da crociera. Sulle grandi navi non si pagano accise e spesso i contrabbandieri hanno bolle di consegna con destinazione proprio le navi turistiche, anche se in realtà poi vendono le sigarette al mercato nero.
BASI E GIRO DI AFFARI. Adesso qualcosa sta cambiando, come racconta il tenente Dionigi Orfello del Gico di Napoli: «In questo momento le leggi in Italia prevedono pene severe per chi introduce tabacchi lavorati dall’estero, e molto meno pesanti per chi lavora illegalmente tabacchi nel nostro territorio. Così le organizzazioni criminali stanno aprendo fabbriche di produzione di sigarette di contrabbando in Italia. Nella zona di Nola, ad esempio, i colleghi hanno scoperto diversi capannoni con dentro macchinari per la produzione di sigarette con marchi di tutti i tipi». Un fenomeno in crescita quello delle fabbriche italiane: «In queste realtà lavorano molte persone dell’Est e il tabacco grezzo è acquistato in Italia, in questo modo il reato è minore rispetto all’importazione di tabacco lavorato dall’estero», aggiunge il colonnello Domenico Napolitano, comandante del nucleo Pef Napoli: «Inoltre, abbiamo scoperto che spesso è una singola persona ad aprire la fabbrica, facendo poi contraffazione e dando lavoro in nero: ma il soggetto è uno, così si evita l’associazione a delinquere e si spezza la filiera per dimostrare il legame con la criminalità organizzata». Altre fabbriche di sigarette taroccate sono state scoperte di recente a Sannazzaro dei Burgondi a Pavia, ad Avezzano e a Rieti. In questo caso sono stati fermati dei camion diretti verso la Romania con sigarette prodotte in Italia, insomma la rotta si è per certi versi invertita. In ogni caso i centri di produzione più grandi al momento rimangono all’estero: «In particolare in Grecia, nell’Europa dell’Est ma anche negli Emirati Arabi, dove abbiamo scoperto che acquistavano per poi importare in Italia personaggi di spicco della famiglia Di Lauro», dice Orfello. Non a caso in una operazione è stato coinvolto Vincenzo Manna, un luogotenente di Paolo Di Lauro detto “Ciruzzo u milionario”. Un segnale che questo traffico è ancora un asset importante per la Camorra e non solo. La Guardia di finanza da sempre ha avuto il polso della situazione, avendo il mandato di controllare le frontiere. E i numeri registrati negli ultimi cinque anni sono impressionanti: la Finanza ha registrato sequestri per 1,3 milioni di tonnellate di sigarette e prodotti da tabacco per una evasione delle accise pari a oltre 2,5 miliardi di euro. Lo scorso anno i sequestri si sono concentrati in particolare in Campania (99 tonnellate), Trieste (32 tonnellate), Sicilia (25 tonnellate), Calabria (10 tonnellate) e Lombardia (10 tonnellate). Sempre lo scorso anno le marche più taroccate sono state Marlboro (27 tonnellate di sequestri), Regina (16 tonnellate) e Chesterfield (16 tonnellate). Ma queste cifre riguardano i sequestri fatti dalla GdF che ha molto intensificato i controlli, dando un colpo importante al contrabbando. Il giro di affari resta enorme: solo lo scorso anno sono state evase accise per 500 milioni in Italia, che diventano 9,5 miliardi se si allarga il giro di orizzonte all’Europa. La bionda di contrabbando continua a valere oro anche negli anni Duemila.
Contrabbando di sigarette, un mercato in grande crescita. Ancora un sequestro nelle acque del Canale di Sicilia. Fermata dalla Finanza una imbarcazione con 1,5 tonnellate di “bionde” illegali guidata da un componente della Guardia costiera. Un fenomeno che vale 2,5 miliardi di euro all’anno come raccontato in una inchiesta Espresso. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 17 novembre 2021. Un blitz in mare aperto dopo aver visto gli strani movimenti di una imbarcazione in mezzo al Canale di Sicilia. Così la Guardia di finanza di Palermo e il Gico, insieme al reparto operativo aeronavale e al gruppo aeronavale di Cagliari, hanno scoperto l’ennesimo tentativo diportare dal Nord Africa quintali di sigarette di contrabbando. Un fenomeno in grande crescita, come raccontato in una recente inchiesta dell’Espresso, che solo di accise evasa vale 500 milioni di euro all’anno. Le rotte del traffico illegale di sigarette sono quelle dal Nord-Est, con le fabbriche piazzate sui Balcani e in Grecia, e dal Nord Africa, in particolare da Tunisia, Libia e Marocco. Nelle inchieste della Guardia di finanza sono salate fuori però anche depositi molto forniti nella zona di Parma e fabbriche costruite dai trafficanti di sigarette nella zona di Nola. Una partita miliardaria, come spiegato nella lunga inchiesta Espresso. Nell’imbarcazione fermata dalla Finanza a largo di Marsala sono stati sequestrati 1,5 quintali di sigarette. Nei giorni scorsi, pattuglie dei finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziario di Palermo in servizio di perlustrazione sul territorio avevano notato una imbarcazione da diporto nelle acque marsalesi, in un giorno caratterizzato da condizioni meteorologiche molto sfavorevoli alla navigazione. «Venivano pertanto attivati i Reparti aeronavali della Guardia di finanza schierati nell’area che, poche ore più tardi, individuavano la medesima imbarcazione mentre, nonostante il mare molto mosso, si dirigeva a forte velocità verso la costa, con una rotta compatibile con quella segnalata dagli specialisti del Gico del nucleo di polizia economico-finanziario di Palermo. Si procedeva così a sottoporre a controllo il natante condotto da un cittadino italiano, al cui interno venivano rinvenute 1,5 tonnellate di sigarette di contrabbando, di marca “Pine Blue” e “Royals”, che, da precedenti esperienze investigative, sono oggetto di illecita importazione dal Nord Africa. La merce illecita, destinata a rifornire il mercato siciliano, avrebbe fruttato introiti per oltre 150.000 euro». Arrestato Bartolomeo Briguglia, addetto della Guardia costiera ma che stava guidando, al momento del fermo, un piccolo yacht privato.
La nuova rotta del contrabbando di sigarette: partono dagli Emirati Arabi per arrivare in Sicilia. Il Gico della Guardia di finanza di Palermo ha scoperto le due organizzazioni criminali che in Italia e in Tunisia hanno gestito il trasporto di decine di tonnellate di “bionde” illegali. Consegnata una corposa informativa alla procura Europea. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 16 dicembre 2021. Una nuova rotta che parte dagli Emirati Arabi e arriva via Libia e Tunisia in Sicilia. E’ la nuova rotta del contrabbando di sigarette, un mercato in crescita in questi anni che sta raggiungendo livelli paragonabili ai tempi d’oro del mercato delle “bionde” tra gli anni Settanta e Ottanta. Nelle piazze delle grandi città del Sud sono tornati i banchetti con le sigarette illegali, come raccontato in una recente inchiesta dell’Espresso. Le rotte gestite da alcuni volti noti del contrabbando, come quello di Francesco Stanzione in Campania, negli ultimi anni erano soprattutto quelle che puntavano sull’Europa dell’Est e la Grecia, dove erano nate fabbriche di produzione in nero. Ma adesso si è scoperto che diverse fabbriche sono state create negli Emirati Arabi e nei Paesi del Golfo: è qui che si realizzano le sigarette che poi fanno un lungo viaggio verso l’Europa entrando dal Canale di Sicilia. I numeri della nuova rotta, e l’importanza acquisita nel mercato illegale delle “bionde”, li ha appena scoperti il Gico della Guardia di finanza di Palermo. Con una operazione per la prima volta coordinata dalla Procura europea che ha portato all’arresto di una trentina di contrabbandiere divisi tra due organizzazioni in Sicilia da una parte e in Tunisia dall’altra. Dopo tre anni di indagine con un blitz scattato a fine novembre la Fiamme gialle, coordinate dal comandante del Nucleo di polizia economico-finanziaria Gianluca Angelini, hanno chiuso una operazione che ha portato al sequestro di 23 tonnellate di sigarette (principalmente di marca Oris, Royal, Pine e Tima) e di dieci imbarcazioni, calcolando solo in questa operazione un giro di affari da 3,5 milioni di euro e un danno all’erario dell’Unione europea e dell’Italia per oltre 6 milioni di euro. In Tunisia a capo dell’organizzazione c’era “lo zio”, come lo chiamano tutti: Ahmed Zaabi, 47 anni, che da anni è un riferimento per i contrabbandieri di mezza Europa. Perché ha sempre gestito la rotta tra Libia-Tunisia e la Sicilia, e i contatti con le fabbriche d produzione delle sigarette illegali. «Vi ho mandato tutto, le patate», diceva al telefono Zaabi parlando con il suo riferimento tunisino in Sicilia, Mirghili Walid. Le “patate” in realtà erano le sigarette, almeno trecento casse a viaggio su imbarcazioni che si fermavano poi in acque internazionali. Mirghili secondo gli inquirenti era il gancio in Italia dell’organizzazione tunisina. Il trasbordo dalle acque internazionali fino alla costa siciliana veniva gestito dall’organizzazione italiana, guidata anche qui da un volto noto per aver un passato di contrabbando sin dal 1998: Antonino Lo Nardo, 46 anni, di Palermo, che a sua volta poi aveva come due suoi riferimenti a Campobello di Mazara, dove attraccavano le imbarcazioni veloci. Qui entravano infatti in gioco Vito Agnello, titolare del rimessaggio Onda Blu e Bartolomeo Bertuglia, quest’ultimo militare della Capitaneria di porto che quindi poteva offrire una doppia copertura e conoscenze di non poco conto. Tra il 2019 e il 2020 questa organizzazione ha gestito la rotta delle sigarette di contrabbando tra l’Africa e la Sicilia. Gli investigatori sono arrivati a risalire alle fabbriche di produzione negli Emirati Arabi: ma per avviare indagini in questi Paesi occorrono accordi internazionali che l’Italia non ha e quindi l’operazione della Guardia di finanza si è concentrata sulle organizzazioni in Tunisia e Sicilia. Dalle coste del Trapanese le sigarette poi, con staffette in auto e furgoni, venivano vendute nelle periferie di Palermo e di altre città siciliane dove sono tornati in grande stile i banchetti nelle piazze. Come a Bari, Napoli o Reggio Calabria. Questa rotta che dai Paesi del Golfo via Nord Africa arriva in Europa si aggiunge a quelle note dell’Europa dell’Est e della Grecia attraverso le coste pugliesi. Secondo i dati raccolti dalla Guardia di finanza per l’Espresso si parla di un giro di affari scoperto pari a 2,5 miliardi di euro nel 2020 e di accisa evasa per 500 milioni all’anno solo in Italia negli ultimi dieci anni (in pratica almeno 5 miliardi di euro di mancate entrate per lo Stato). Numeri da capogiro e di molto inferiori alla realtà sommersa, per un fenomeno che adesso coinvolge anche il traffico del liquido delle sigarette elettroniche nonostante il core business resti sempre lei: la sigaretta, la bionda. Magari non la Lucky Strike, ma le oggi diffusissime Merit e Marlboro (le più copiate).
· I Bonus.
Bonus Inps senza ISEE 2021: quali sono, a chi spettano e come richiederli. Debora Faravelli su Notizie.it il 4 aprile 2021. L'elenco degli incentivi Inps che possono essere richiesti anche senza presentare l'ISEE, dal Bonus Bebè all'Assegno Unico. Sono diversi i bonus confermati dal governo ed erogati dall’Inps per cui sarà possibile fare domanda senza la presentazione dell’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente): quali sono, a chi spettano e come si possono richiedere? Bonus Inps senza ISEE 2021. Si tratta principalmente di incentivi destinati alle famiglie (Bonus Bebè, Bonus Asilo Nido, Bonus Mamma Domani, Assegno Unico Universale) ma anche alle partite IVA (Bonus Iscro). Inoltre, lo scorso 30 marzo il Senato ha dato il via libera all’Assegno Unico Universale, provvedimento centrale del Family Act, il Ddl Famiglia.
Bonus Bebè 2021. È un sussidio che viene erogato per ogni figlio nato, adottato o preso in affidamento nel 2021. I requisiti per potervi acceder sono la cittadinanza italiana o il permesso di soggiorno, la residenza in Italia del genitore richiedente e la sua convivenza con il minore. Chi non presenta l’ISEE avrà diritto ad un importo minimo mensile di 80 euro (960 all’anno). Chi invece ha un reddito basso e richiede la dichiarazione potrà ottenere una somma maggiore:
160 euro al mese con un reddito pari o inferiore a 7mila euro e
120 euro mensili con un reddito compreso tra 7.001 e 40mila euro
Bonus Asilo Nido. Si tratta di un contributo da utilizzare per pagare le rette degli asili nido, pubblici e privati, e/o l’assistenza domiciliare per bambini minori di tre anni affetti da gravi patologie. Per chi non presenta l’ISEE l’importo annuo che si può ricevere ammonta a 1.500 euro. Queste invece le fasce per chi ha il reddito basso e richiede la dichiarazione:
3 mila euro per i nuclei familiari con ISEE inferiore a 25mila euro
500 euro per la fascia tra 25 mila e i 40 mila euro.
Bonus Mamma Domani. Il Bonus Mamma Domani è destinato a chi diventerà genitore nel 2021. Si tratta di un importo erogato una tantum pari ad 800 euro che è possibile richiedere a partire dall’ottavo mese di gravidanza o, in caso di adozione e affidamento preadottivo, dal momento dell’ingresso in famiglia del minore. Il termine ultimo per fare richiesta è al compimento di un anno dalla nascita o dall’adozione. La domanda può essere fatta compilando il modulo sul sito dell’Inps, chiamando il Contact Center (803 164 da telefono fisso e 06 164 164 da cellulare) o rivolgendosi a enti di patronato o intermediari dell’Istituto di Previdenza.
Assegno Unico Universale. Il bonus dovrebbe entrare in vigore dal 1° luglio 2021. L’importo minimo ammonterà a circa 250 euro al mese per ogni figlio a carico dal settimo mese di gravidanza al 21esimo anno di età (con maggiorazioni previste per figli disabili o dal terzo figlio in poi). Per i figli maggiorenni l’incentivo sarà erogato se frequentano un corso di formazione scolastica o professionale o se disoccupati. Chi presenterà la dichiarazione ISEE e ha un reddito basso avrà diritto ad una somma maggiore.
Bonus Iscro per le partite IVA. L’incentivo è destinato ai lavoratori autonomi e parasubordinati (collaboratori coordinati e continuativi con contratto co-co-co) che nel 2020 abbiano avuto difficoltà senza avere diritto alla cassa integrazione. L’importo del bonus varia dai 250 agli 800 euro al mese che vengono erogati dall’INPS sul conto corrente del destinatario per sei mensilità. Tra i requisiti necessari per accedervi vi sono il possesso di una regolare partita IVA da almeno quattro anni e un calo di reddito del 50% nell’anno precedente alla domanda rispetto alla media di quello del triennio precedente (per ottenerlo nel 2021 si dovrà considerare il reddito del 2020 e confrontarlo con la media di quello del triennio 2017-2019).
Reddito di emergenza 2021, a chi spetta e quali sono i requisiti per ottenerlo. Redazione su Il Riformista il 9 Marzo 2021. La povertà assoluta, certificata nei giorni scorsi dall’Istat, è tornata a crescere nell’ultimo anno (ben 5,6 milioni di poveri assoluti, ossia il 9,4% della popolazione, mai così dal 2005) a causa della pandemia e il Governo di Mario Draghi stanzierà 32 miliardi di euro (ma la cifra potrebbe aumentare) nel decreto sostegno per aiutare imprese, famiglie, e lavoratori autonomi in difficoltà. Verrà riconfermato il contributo per il reddito di cittadinanza, percepito da circa 1,4 milioni d’italiani, verranno dati contributi alle aziende in rosso, finanziati i congedi parentali, voucher per le baby-sitter, bonus una tantum per le partite iva, stagionali, autonomi e intermittenti, proroga della cassa integrazione Covid e del blocco dei licenziamenti.
SOLDI ALLE AZIENDE – Gli indennizzi alle aziende andate in rosso a causa del Covid saranno sulla base della differenza di fatturato tra il 2020 e il 2019, anno su anno dunque e non su base mensile.
RINNOVO REDDITO DI CITTADINANZA – I 32 miliardi saranno utilizzati anche per rifinanziare il Reddito di cittadinanza (cui verrà destinato un miliardo) destinato, come detto, a quasi un milione e mezzo di italiani.
REDDITO DI EMERGENZA – Con il dl sostegno verrà prorogato per almeno due mensilità anche il reddito di emergenza, la misura di sostegno economico istituita con l’articolo 82 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Decreto Rilancio) in favore dei nuclei familiari in difficoltà a causa dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Come per il Reddito di Cittadinanza, il beneficiario della prestazione non è quindi il singolo richiedente ma l’intero nucleo familiare. Non potranno beneficiare del sussidio i percettori del reddito di cittadinanza o di assegni di invalidità, oltre che tutte quelle categorie di lavoratori e partite IVA già beneficiari di altri bonus. Non è incompatibile col Rem invece la Cassa Integrazione. Nel dettaglio, potranno accedere alla misura le famiglie in difficoltà, con Isee inferiore a 15 mila euro e con un valore del patrimonio immobiliare inferiore a 10 mila euro. Il bonus prevede un contributo che va dai 400 agli 800 euro a seconda del nucleo familiare.
PARTITE IVA – Nel Dl dovrebbero essere destinati contributi a fondo perduto per tutti i titolari di partita Iva con ricavi non superiori a 5 milioni di euro e perdite di almeno il 33%. I contributi vanno da un minimo di 1.000 a un massimo di 150mila euro. L’ammontare è calcolato in base alla differenza tra il fatturato di gennaio e febbraio 2021 con quello di gennaio e febbraio 2019 applicando tre percentuali: 20% per le imprese con ricavi o compensi nel periodo di imposta 2019 non superiori a 400mila euro, 15% per quelle con ricavi fino a 1 milione e 10% fino a 5 milioni.
CONGELAMENTO FISCALE – Verrà rinnovato il ‘congelamento’ dei versamenti fiscali e delle rate della rottamazione fino a fine aprile, con contestuale ripresa delle notifiche delle nuove cartelle. Le scadenze sospese andranno saldate entro il sessantesimo giorno dal termine della sospensione. Modificate anche le scadenze per le rate della rottamazione e del saldo e stralcio. Le rate saltate finora e relativi al 2020 andranno saldate entro il 31 luglio, quelle relative al 2021 (febbraio, marzo, maggio e luglio) entro il 30 novembre. Nel decreto sostegno potrebbe rientrare anche lo stralcio di tutte le cartelle ricevute tra il 2000 e il 2015. Nella bozza del decreto la misura compare ma non viene specificato l’importo delle cartelle prese in considerazione. Nella relazione tecnica sono elencate 6 ipotesi: 3mila euro, con un costo per lo Stato pari a 730 milioni; 5mila euro, con un costo di 930 milioni; 10mila euro, con un costo di 1,5 miliardi; 30mila euro, con un aggravio di circa 2 miliardi; 50mila euro, con costo di 2,3 miliardi. Infine, nel caso della cancellazione di tutte le cartelle dei 15 anni, l’aggravio per lo Stato si aggirerebbe sui 3,7 miliardi.
BLOCCO LICENZIAMENTI E CIG – Dieci miliardi del nuovo pacchetto andranno a sostenere il blocco dei licenziamenti, prorogato a fine giugno, e la cassa integrazione covid che dovrebbe essere prolungata per tutto l’anno.
CONGEDI PARENTALI E VOUCHER BABY SITTER- Circa 200 milioni, come anticipato dalla ministra per le pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti, per il innovo dei congedi parentali per chi ha figli impegnati nella didattica a distanza. Vi è poi la possibilità di scegliere lo smart working sempre laddove vi siano necessità di cura, e i voucher baby-sitter.
ALTRI BONUS – Contributi a fondo perduto generalizzati senza codici Ateco e con autocertificazione oltre a bonus per i lavoratori stagionali, autonomi e intermittenti.
FONDI A FORZE DI POLIZIA E VIGILI DEL FUOCO – Il dl sostegno prevede fondi anche per le forze di polizia, i vigili del fuoco, la polizia penitenziaria e le capitanerie di porto impegnate nella lotta al Covid. Nella bozza viene autorizzata la spesa di 93,3 milioni in particolare per le indennità di ordine pubblico, l’impiego del personale delle polizie locali e per gli straordinari del personale delle Forze di polizia. Inoltre in considerazione del livello di esposizione al rischio di contagio da Covid-19 connesso allo svolgimento dei compiti istituzionali delle Forze di polizia, al fine di consentire la sanificazione e la disinfezione straordinaria degli uffici, degli ambienti e dei mezzi in uso alle medesime Forze, nonché assicurare l’adeguata dotazione di dispositivi di protezione individuale e l’idoneo equipaggiamento al relativo personale impiegato, è autorizzata per il 2021 la spesa complessiva di 24,9 milioni per l’anno 2021. Per gli straordinari dei vigili del fuoco la spesa ammonta a 5,7 milioni, mentre per garantire il rispetto dell’ordine e della sicurezza in ambito carcerario e far fronte al protrarsi della situazione emergenziale connessa alla diffusione del Covid-19, per il periodo dal primo febbraio al 30 aprile 2021, è autorizzata la spesa complessiva di euro 3,6 milioni per la polizia penitenziaria. Circa 3 milioni arrivano anche per le Capitanerie di porto.
Estratto da “Il Giornale di Vicenza” ripreso da “La Verità” il 16 maggio 2021. Ha lavorato due settimane in sei anni un professore assegnato a scuole della provincia di Vicenza. Ogni anno si riproponeva sempre lo stesso copione: il docente, oggi 48 anni, originario della provincia di Caserta, si presentava a scuola con un contratto da supplente e dopo qualche giorno restava a casa in malattia senza farsi più vedere. È accaduto per sei anni fra Vicenza, Arzignano e Bassano del Grappa: in tutto, una quindicina di giorni di lezione prima di lasciare il posto vacante. Nel 2014 l'uomo ha addirittura ottenuto l'immissione in ruolo, prima a Vicenza, poi vicino a Benevento, infine a Napoli, dove i problemi di salute si sono ripresentati. L'Ufficio scolastico regionale ha avviato un procedimento per non avere superato il periodo di prova, ma il docente ha presentato un ricorso al Tar dal quale è stata ricostruita tutta la vicenda.
La giungla dei bonus fiscali: sono 532 e costano oltre 60 miliardi l’anno. di Gloria Riva su L'Espresso il 18 maggio 2021. Contributi, agevolazioni e sgravi sono ormai una massa inestricabile. E il sistema è diventato così complesso che anche chi dovrebbe usufruirne non riesce più a farlo. Mamma, papà, due figli. Se si aggiunge un indicatore di benessere economico famigliare sufficientemente basso e molta destrezza nel farsi strada fra la giungla di bonus fiscali, una famiglia potrebbe racimolare dallo Stato fino a 14 mila euro l’anno. Undicimila piovono dal reddito di cittadinanza e 480 euro dall’immarcescibile social card di tremontiana memoria, istituita nel 2008 dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, dimenticata da tutti, ma viva e vegeta. Le bollette di luce, acqua e gas sono abbattute da uno specifico bonus. Poi c’è il contributo affitto, quello per l’acquisto degli occhiali, il bonus vacanze e per il trasporto pubblico. Se si dovesse decidere di avere un terzo figlio, ecco pronto un altro assegno da 1.800 euro. In più, ci sono le detrazioni per le spese mediche e sanitarie, ma anche lo sconto per gli animali domestici e quello per gli interventi edilizi, il bonus nido, quello per le spese universitarie e così via. Certo, per averne diritto conviene che lavori solo uno dei due coniugi e bisogna evitare di risparmiare quattrini - meglio spendere tutto e subito - così si mantiene basso l’Isee, cioè l’indicatore di situazione economica. In un paese in cui le agevolazioni fiscali sono 532 - che producono un’erosione complessiva alle casse pubbliche da 62,3 miliardi di euro, su un gettito Irpef da 170 miliardi (cioè il 10 per cento del Pil nazionale) -, vivere di bonus non è impossibile. Tanto più che ogni anno sbocciano nuove agevolazioni perenni: infatti i bonus non appassiscono mai, si sommano a quelli già esistenti e creano un ginepraio di trattamenti privilegiati. Paradossalmente, il sistema è così complesso che chi ne avrebbe davvero bisogno spesso non riesce a capire come usufruire di tanta generosità. «Negli anni recenti il numero dei bonus è esploso. Le nuove agevolazioni si sono sommate a quelle precedenti, anziché sostituirle. Contribuendo a creare confusione», spiega Massimo Baldini, docente di Sistemi di Welfare all’Università di Modena e Reggio Emilia, che continua: «Malgrado l’elevato costo del reddito di cittadinanza (circa 8 miliardi l’anno) e l’estesa platea di beneficiari (più di un milione di famiglie), la sua introduzione non ha eliminato altri trasferimenti destinati a nuclei in povertà, come la carta acquisti e l’assegno ai nuclei famigliari numerosi. C’è un’iniquità fortissima tra chi sfora di poco la soglia Isee - e quindi non ha diritto ad alcuno sgravio -, e chi vi rientra per un soffio e può cumulare moltissimi incentivi». La sovrapposizione di sgravi è un fenomeno che nessuno monitora perché ogni agevolazione ha scadenze e regole differenti, oltre ad essere stanziato da enti diversi (dal Comune, dall’Inps o dall’Agenzia delle Entrate), creando una fortissima disuguaglianza all’interno della fascia più debole della popolazione. Fra le riforme che il governo Draghi si è impegnato a mettere in atto in vista dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il Pnrr, c’è proprio una revisione della materia fiscale, in particolare dell’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, un riordino atteso da decenni. L’ultima sforbiciata risale al 1993, quando l’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che definì «lunare» il modello 740 per la dichiarazione dei redditi, diede mandato al governo Ciampi e al ministro delle Finanze Franco Gallo di semplificare i moduli della dichiarazione dei redditi. Fu necessario ridurre il mare magnum delle agevolazioni. «Dubito sarà il governo Draghi a varare una riforma incisiva alle spese fiscali», dice Vieri Ceriani, economista, già sottosegretario al ministero dell’Economia del governo Monti e vertice del Servizio Rapporti Fiscali di Banca d’Italia. Nel discorso di insediamento al Senato, il premier aveva indicato una strada lunga, citando l’esempio danese: nel 2008 a Copenaghen fu nominata una commissione di esperti che, dopo due anni di lavoro e confronto con partiti e parti sociali, presentò in Parlamento un progetto di riduzione del carico fiscale ampiamente condiviso. Se nel testo del Recovery Plan il governo Draghi si è effettivamente impegnato a presentare al Parlamento una legge delega entro il 31 luglio, è anche vero che solo successivamente verrà istituita una commissione di esperti. Inoltre quella del fisco non è una riforma prioritaria, come lo sono quelle della Pubblica Amministrazione e della Giustizia, ma ha solo un ruolo ancillare. «I risultati non arriveranno prima del 2023, forse dopo le prossime elezioni, eppure sarebbe utile fare presto, almeno sul fronte delle spese fiscali», commenta Ceriani. Il Covid ha portato con sé un esponenziale aumento della spesa pubblica, facendo schizzare il rapporto tra debito pubblico e Pil al 159,8 per cento, un record assoluto nella storia d’Italia. Ma presto o tardi il vincolo di bilancio andrà reintrodotto e l’onere di quel debito, come pure le maggiori spese a sostegno di imprese e famiglie, dovranno essere finanziati: «Non solo l’erosione del gettito fiscale sta aumentando di anno in anno, ma a causa della pandemia sta passando il messaggio (schizofrenico) che è legittimo esigere e ottenere sostegni dallo Stato e, allo stesso tempo, che i tributi sono un male in sé, da abbattere, anziché un metodo di riparto delle spese pubbliche. È evidente che al termine dell’emergenza sanitaria il bilancio pubblico dovrà rientrare nel solco della finanza ordinaria e garantire un percorso sostenibile», spiega Ceriani. Un ampio lavoro di ricognizione a proposito del riordino del fisco è già stato fatto dalle Commissioni parlamentari in oltre 60 audizioni, tuttavia lo spazio finanziario disponibile è molto ristretto: dei 15 miliardi previsti per la riforma del fisco, metà servirà a finanziare l’assegno unico per i figli - slittato a inizio 2022 - e poco sarà destinato alla revisione dell’Irpef, in particolare della progressività delle aliquote, che infieriscono soprattutto sulla classe media. La riduzione delle agevolazioni fiscali diminuirebbe la disuguaglianza orizzontale e verticale: «Orizzontale perché, a parità di reddito, il gettito proviene all’85 per cento da pensionati e lavoratori dipendenti, mentre ci sono categorie privilegiate, come gli imprenditori agricoli, che non versano nulla, così come i lavoratori autonomi godono del regime forfettario, i proprietari di immobili della cedolare sugli affitti e ovviamente c’è sempre da combattere l’impunità degli evasori fiscali», spiega Ceriani, che aggiunge: «Sono aiuti da abbattere per riportare gettito nelle casse pubbliche». La disuguaglianza verticale viene invece scontata per lo più da chi guadagna fra i 28 e i 35 mila euro: una fascia che garantisce un terzo del gettito complessivo, su cui si riducono fortemente le detrazioni fiscali e dove l’aliquota marginale, che indica quanto aumenterebbe la tassazione se si guadagnasse un euro in più, sfiora il 40 per cento. Si tratta quindi di un forte incentivo al lavoro nero e al fuori busta e un disincentivo alla produttività e all’avanzamento di carriera, perché può convenire mantenere un salario contenuto, garantendosi un maggior sostegno pubblico, anziché guadagnare di più. Parallelamente l’eccesso di sgravi nella fascia al di sotto dei 15mila euro di reddito è un freno alla ricerca attiva di lavoro. La nota per l’indagine conoscitiva sulla Riforma dell’Irpef realizzata a marzo dal Cnel spiega che il reddito di cittadinanza, nato per favorire il reinserimento nel mercato del lavoro, «può produrre un rischio di trappola della povertà, perché il suo importo si riduce fortemente non appena cresce il reddito e questo scoraggia l’offerta di lavoro». Spiega il professor Baldini che anche l’esasperazione degli sgravi «disincentiva soprattutto l’occupazione femminile. Se un familiare decide di cominciare a lavorare, di accettare un avanzamento di carriera o di aumentare il numero delle ore in ufficio, l’Isee cresce e si rischia di perdere i benefici statali. Può inoltre scoraggiare la propensione al risparmio, perché l’Isee dipende non solo dal reddito, ma anche dal patrimonio della famiglia. Perché penalizzare una famiglia parsimoniosa rispetto a una con la tendenza a spendere?». Se fino a oggi nessuno ha fatto ordine nel guazzabuglio di detrazioni e bonus è soprattutto per non inimicarsi le lobby corporative. È sempre la nota del Cnel a far notare che «gli aiuti fiscali hanno un andamento crescente nel tempo perché si trovano sempre e facilmente buone motivazioni per introdurre nuove agevolazioni, generando consenso politico. Una volta introdotte, tuttavia, sono politicamente difficili da eliminare, soprattutto per gli interessi specifici che andrebbero a colpire. Il processo di dilatazione dell’erosione fiscale sembra dunque irrefrenabile e in accelerazione». Una soluzione già proposta in numerose audizioni potrebbero essere l’introduzione di periodiche verifiche di efficacia di ogni agevolazione introdotta o l’automatica soppressione allo scadere di un certo periodo. Il Decreto legislativo 160 del 2015 prevedeva un’analisi annuale sugli effetti micro economici e le ricadute sociali di ogni agevolazione fiscale. Ma queste indagini non sono mai state effettuate. «Quell’analisi avrebbe costretto le lobby, che premono sulla politica per ottenere vantaggi fiscali, a impegnarsi più nel mantenimento dei privilegi esistenti, anziché nella richiesta di nuove esenzioni», commenta Ceriani. Tutte le spese fiscali di cui cittadini possono fruire, ad esempio le ristrutturazioni edilizie, le spese sanitarie, la previdenza complementare e così via, vengono soprattutto dalle leggi di Bilancio. Da qui l’ipotesi avanzata nelle audizioni della Commissione Fisco di creare una specifica sessione del bilancio per valutare le spese fiscali e i loro effetti finanziari. Di sicuro il sistema necessita di una netta sforbiciata: attualmente ci sono 141 detrazioni Irpef, che tolgono al fisco 43 miliardi, a cui si aggiungono altre 391 spese fiscali che comportano un’erosione complessiva del gettito totale da 62,3 miliardi, cioè quasi il quattro per cento del Pil nazionale. Forse troppo per uno stato sovraindebitato.
CHI BONUS E CHI NO. L’economia crolla, ma l’amministratore delegato guadagna di più: ecco la classifica degli stipendi 2020. Alcuni top manager, come promesso, si sono ridotti il compenso. Ma tra bonus e premi vari, nei mesi della pandemia la maggioranza dei capi delle grandi aziende quotate in Borsa ha visto aumentare la propria retribuzione. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 15 aprile 2021. Nell’Italia travolta dalla pandemia c’è chi ha trovato un vaccino che funziona alla grande. È un vaccino speciale. Non uccide il virus, ma mette al sicuro la busta paga. Mica male, se si considera che di questi tempi, con il Pil che viaggia al minimo da un anno, milioni di lavoratori tirano avanti grazie alla cassa integrazione. Per non parlare di artigiani, commercianti e partite Iva, costretti ad arrangiarsi con i ristori di Stato. Ai piani alti delle aziende, invece, il terremoto innescato dal virus ha prodotto effetti molto più sfumati. Decine di manager al comando di grandi gruppi nazionali hanno visto aumentare il loro compenso anche nel 2020, l’anno nero dell’economia. L’inchiesta dell’Espresso ha analizzato i dati di 55 società quotate in Borsa, un elenco che comprende tutte le banche più importanti e i campioni dell’industria made in Italy. Nomi come Eni, Telecom Italia, Intesa, Unicredit, Generali, Fca e molti altri ancora. Ebbene, i documenti da poco resi disponibili al pubblico insieme ai bilanci, rivelano che gli stipendi hanno viaggiato per lo più al rialzo. In più metà dei casi considerati, 30 su 55, la retribuzione del 2020 supera quella del 2019.
TUTTO IN FAMIGLIA. Il primo in classifica è Pietro Salini, amministratore delegato di Webuild, la più importante impresa di costruzioni italiana. Salini, che è anche l’azionista di comando del gruppo, nel 2020 ha guadagnato 6,1 milioni, circa 700 mila euro in più rispetto all’anno prima. Con l’acquisto di Astaldi, azienda concorrente giunta al capolinea del concordato, nei mesi scorsi Webuild ha completato un ambizioso piano di crescita e Salini è passato all’incasso. In aggiunta alla retribuzione fissa di 2 milioni, il manager-azionista ha ricevuto anche un superbonus da 3,9 milioni. È andata meno bene per i dipendenti del gruppo. Il loro stipendio, si legge nella relazione sulle retribuzioni appena pubblicata da Webuild, nel 2020 è diminuito in media dell’1 per cento a 73 mila euro. Una somma 81 volte inferiore al compenso del capo azienda. Nel 2019 il divario era inferiore: 71 a uno. Tutto regolare: il piano dei compensi è stato approvato l’anno scorso dall’assemblea dei soci, con il voto favorevole della famiglia Salini, 44 per cento del capitale, e del socio pubblico, la Cassa depositi e prestiti, che possiede il 18 per cento delle azioni. Hanno votato contro, invece, quasi tutti i grandi investitori internazionali, fondi, banche e assicurazioni che però, in totale, valgono solo il 4 per cento circa del capitale.
BANCHIERI AL TOP. Ben più sostenuto, invece, è stato il fuoco di sbarramento dei soci contro il maxi stipendio attribuito al nuovo amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, designato dal consiglio di amministrazione per prendere il posto del dimissionario Jean Pierre Mustier. Nel 2020, con il bilancio della banca in rosso per 2,7 miliardi, Mustier ha visto diminuire i suoi compensi del 25 per cento: 900 mila euro circa contro il milione e 200 mila euro dell’anno precedente. Orcel invece ha spuntato un compenso di 7,5 milioni all’anno. «È una retribuzione che serve ad attirare talenti di alto livello», si è giustificato il board dell’istituto presieduto dall’ex ministro Pier Carlo Padoan, spiegando che lo stipendio del nuovo amministratore delegato, per la maggior parte versato sotto forma di azioni della banca, è in linea con quello dei manager al vertice dei più importanti gruppi bancari internazionali. Molti investitori istituzionali, però, non si sono fatti convincere e all’assemblea di giovedì 15 aprile hanno confermato la loro posizione contraria alla retribuzione di Orcel, un manager che in carriera ha già fatto parlare di sé per le controversie legate al suo stipendio, tanto da meritarsi il soprannome di «Ronaldo dei banchieri». Due anni fa, il Banco Santander, il più grande istituto spagnolo aveva cercato di ingaggiarlo con un’offerta da 52 milioni annui, tra titoli e cash. L’operazione sfumò perché Orcel chiese altri 50 milioni come rimborso dei bonus a cui era costretto a rinunciare lasciando il precedente incarico a capo della svizzera Ubs. Dalla Spagna arrivò un rifiuto e il manager rinunciò alla poltrona facendo causa al Santander. Orcel a parte, il più pagato tra i banchieri italiani è il numero uno di Intesa, Carlo Messina, che però l’anno scorso ha guadagnato quasi il 30 per cento in meno rispetto al 2019: il suo compenso si è ridotto da 4,5 a 3,3 milioni. Nella graduatoria degli stipendi 2020 fanno un balzo in avanti altri nomi meno conosciuti come Massimo Doris, a capo di Banca Mediolanum, e Luigi Lovaglio, amministratore delegato di un istituto di media grandezza come il Credito Valtellinese (Creval). Nell’anno della pandemia, lo stipendio di Lovaglio, bonus compresi, è più che raddoppiato: da 880 mila a un milione e 800 mila euro. Se a questa cifra si aggiunge anche il valore delle azioni Creval ricevute in premio si arriva a quota 3 milioni. In pratica, il numero uno dell’istituto lombardo può vantare un compenso di poco inferiore a quello di Messina, a capo di una banca tra le più grandi in Europa con una raccolta 30 volte superiore a quella del Valtellinese. Va detto che Lovaglio ha firmato un bilancio più che positivo: nel 2020 gli utili del Creval sono passati a da 56 a 113 milioni, grazie soprattutto al taglio di costi e a bonus fiscali. Viaggia in controtendenza, invece, il compenso di Massimo Doris. Per il lui il 2020 si è chiuso con un aumento dello stipendio superiore al 30 per cento. Nello stesso periodo l’utile di Banca Mediolanum, di cui è grande azionista anche Silvio Berlusconi, è diminuito del 23 per cento circa. Doris junior, che ha ereditato dal padre Ennio il posto di comando del gruppo finanziario di famiglia, è passato da 1,3 a 1,8 milioni. È rimasta invariata la retribuzione per la carica nel board dell’istituto, mentre sono più che raddoppiati i premi legati ai cosiddetti “sistemi di incentivazione”.
CAMPIONI DI BONUS. Questione di bonus, insomma. Funziona così: gli stipendi di amministratori delegati e direttori generali sono composti da una quota fissa e da una variabile. Quest’ultima viene calcolata sulla base di complessi parametri legati agli utili aziendali, ma non solo. Viene presa in considerazione anche la performance del titolo in Borsa e il raggiungimento di specifici obiettivi strategici, che comprendono, per esempio, anche la sostenibilità ambientale, di gran moda di questi tempi. Quasi sempre i bonus vengono spalmati su un arco di tempo che nel caso degli incentivi a lungo termine può essere anche triennale. L’esperienza degli ultimi venti anni, da quando le società quotate in Borsa sono state obbligate per legge a pubblicare i compensi dei componenti del board e dei manager di punta, dimostra che i bonus finiscono per diventare una sorta di paracadute. Nel senso che l’eventuale diminuzione dei premi è sempre inferiore a quella dei risultati aziendali. Succede il contrario, invece, quando gli utili aumentano. Dati alla mano, i campioni di bonus del 2020 sono due finanzieri: Carlo Pesenti e Giovanni Tamburi. Il primo, erede della famosa dinastia di imprenditori bergamaschi, guida la holding Italmobiliare e l’anno scorso ha guadagnato 2,3 milioni di euro, per la metà sotto forma di incentivi cash. Nel 2019 era andata ancora meglio: il bonus aveva superato i 7 milioni per un compenso complessivo di 8,1 milioni di euro. Tamburi, che dirige la Tamburi investment partner (Tip) da lui fondata, nell’anno della pandemia ha guadagnato più di Messina, il capo della prima banca italiana. In totale il suo stipendio ha sfiorato i 3,5 milioni contro i 3,3 milioni del banchiere. Gran parte dei compensi, quasi 3 milioni di euro, sono stati assegnati a Tamburi sotto forma di bonus. Come per Pesenti, anche per il leader della holding col marchio Tip il 2019 si era concluso con un bilancio personale ancora più ricco: circa 8,2 milioni di stipendio, con 7,6 milioni di bonus.
AZIONI IN REGALO. Tra i manager che grazie ai bonus hanno scalato la classifica degli stipendi del 2020 troviamo Fabio De Longhi, vicepresidente e azionista dell’azienda di famiglia. Nell’anno della pandemia, il suo compenso è aumentato del 30 per cento circa, grazie ai premi che sono più che triplicati, da 200 mila a oltre 600 mila euro. Questa somma si aggiunge al cospicuo assegno, un milione e centomila euro, ricevuto da De Longhi a titolo di emolumento per la carica di vicepresidente e dirigente con responsabilità strategiche del gruppo. Stipendio in crescita anche per Valerio Battista, il manager al comando di Prysmian, multinazionale tricolore tra i leader mondiali nella produzione di cavi per telecomunicazioni ed energia. L’anno scorso Battista ha incassato un bonus di molto inferiore a quello del 2019: 323 mila euro contro 943 mila. A fare la differenza, però, è il pacchetto di titoli ricevuto dal manager ad aprile del 2020. Le azioni regalate come premio per i risultati raggiunti valgono oltre un milione di euro. Tirando le somme, quindi, Battista è arrivato a guadagnare 2,4 milioni di euro, il 20 per cento in più rispetto al 2019. Stesso copione per Marco Alverà, che guida la Snam. Il documento pubblicato dall’azienda di Stato (31 per cento del capitale è di Cassa depositi e prestiti) segnala che lo stipendio di Alverà l’anno scorso è aumentato del 10 per cento circa grazie a un incentivo sotto forma di azioni Snam. Il valore del pacchetto di titoli assegnato al manager ammonta a circa 2 milioni. Quanto basta, e avanza, per compensare la diminuzione del premio in contanti, anche tenendo conto che il numero uno di Snam ha rinunciato a 125 mila euro di retribuzione per contribuire a un’iniziativa benefica “in considerazione dell’emergenza Covid-19”, come si legge nella relzione sulle remunerazioni del gruppo. Tutto compreso, quindi, il compenso di Alverà nel 2020 supera i 3,7 milioni di euro, contro i 3,4 milioni guadagnati nel 2019. Bonus in abbondanza, per un totale di 3,7 milioni, anche per un altro manager pubblico come Claudio Descalzi, confermato nel 2020 dal governo Conte sulla poltrona di comando dell’Eni. Il compenso di Descalzi è diminuito da 5,6 a 5,3 milioni, nell’anno in cui il gruppo ha chiuso il bilancio in rosso di oltre 8 miliardi di euro, con il titolo in ribasso del 30 per cento. Al pari degli altri giganti petroliferi internazionali, anche l’Eni è stata colpita in pieno dalla crisi innescata dalla pandemia. Descalzi invece ha limitato i danni. Le carte societarie spiegano che l’amministratore delegato del cane a sei zampe, «in relazione al perdurare dell’emergenza sanitaria da Covid-19» incasserà solo tra gennaio e febbraio dell’anno prossimo la maggior parte dei bonus maturati già nel corso del 2020. Questione di mesi, insomma, e Descalzi passerà alla cassa. Con buona pace del bilancio in rosso e della pandemia.
NOTA. Per realizzare questa inchiesta L’Espresso ha analizzato le relazioni sulle remunerazioni pubblicate dalle principali 75 società quotate in Borsa, quelle con il valore di mercato più alto. Non tutte le aziende hanno già depositato il documento che descrive e spiega i compensi versati ai membri del consiglio di amministrazione e ai principali manager. Per questo motivo l’analisi riguarda i rapporti pubblicati entro martedì 13 aprile, che rappresentano comunque oltre i due terzi del campione considerato. Tra i grandi gruppi nazionali, all’appello mancano solo Enel, Leonardo e Poste italiane. Per tutti i manager citati nell’articolo è stato messo a confronto il valore dei compensi percepiti nel 2019 con quello dell’anno scorso, considerando, oltre alla retribuzione fissa, anche le somme incassate a titolo di bonus ed eventuali incentivi sotto forma di azioni.
Ferrovie dello Stato: premio per i dirigenti nonostante mezzo miliardo di perdite. Carlo Tecce su L'Espresso il 16 aprile 2021. Nonostante i treni a lungo fermi, il rosso di 562 milioni e quasi 1,4 miliardi di euro di contributi pubblici, l’amministratore delegato Gianfranco Battisti e altri 941 fortunati stanno per ricevere la parte variabile dello stipendio per i “risultati raggiunti”. Nessuno ha raggiunto gli obiettivi che si era prefissato nel 2020. Rettifica urgente. Nessuno non proprio: 942 dirigenti di Ferrovie dello Stato ce l’hanno fatta. Nonostante l’anno nefasto, il blocco dei treni, i posti vuoti, i dirigenti di Fs sono riusciti a raggiungere gli obiettivi che l’azienda si era prefissata per il 2020 e dunque stanno per ricevere il premio di risultato che vale fra il 20 e il 30 per cento della retribuzione annuale e costa «oltre 20 milioni di euro» secondo fonti ufficiali del gruppo. Si tratta del cosiddetto «mbo», che sta per «management by objectives», un acronimo inglese utile a disorientare e atteggiarsi. Il 2020 di Ferrovie dello Stato, azienda controllata dal ministero del Tesoro e che a sua volta controlla i treni con Trenitalia, la rete con Rfi, le strade con Anas, gli autobus con Busitalia, le merci con Mercitalia, è stato rivalutato nell’ultimo Consiglio di amministrazione (Cda) di marzo che ha licenziato il bilancio con una perdita di 562 milioni di euro. Il tonfo dei conti, prevedibile con la pandemia e la sospensione della mobilità, è stato attutito dai 953 milioni di euro di ristori pubblici. Altri 406, stanziati, aspettano il nullaosta dell’Unione europea. Per Gianfranco Battisti, l’amministratore delegato del gruppo Fs, l’obiettivo più arduo da raggiungere è il rinnovo del mandato a maggio quando ci sarà l’assemblea degli azionisti, o meglio dell’azionista Tesoro. Al contrario non ha tribolato per ottenere in Cda il premio di risultato 2020 per sé e i colleghi dirigenti. «Dopo la delibera del Consiglio, adesso si attende il formale passaggio del bilancio col Tesoro», sostengono, e tentano di frenare, le fonti ufficiali di Fs. Lo stipendio di Battisti ha una parte variabile di 125.000 euro, l’ammontare totale è di 770.000. Nella relazione finanziaria del gruppo, a caratteri per ipovedenti a pagina 41, c’è scritto che il compenso dell’amministratore delegato è di 90.000 euro, cioè sotto il tetto di 240.000 euro imposto ai manager di società pubbliche non quotate in Borsa, ma seguendo la nota 9, abilmente redatta in stile bugiardino ostrogoto, si ricostruisce l’ingaggio: «Gli emolumenti annui lordi complessivamente riconosciuti all’amministratore delegato e direttore generale sono pari a 770.000 euro, comprensivi, per la carica di ad, dell’emolumento riportato nella tabella di cui sopra (parte fissa e parte variabile, quest’ultima da corrispondere al raggiungimento di obiettivi annuali oggettivi e specifici definiti dal Cda di Fs spa, su proposta del comitato per la remunerazione e le nomine) e, per la posizione di dg, di 580.000 euro come parte fissa e 100.000 euro come parte variabile». Siccome emette obbligazioni, il gruppo Fs si attiene alle regole di mercato e può sforare la soglia di 240.000 euro degli stipendi. Battisti e altri 941 dirigenti su 999 (i 57 che mancano hanno contratti diversi), dopo il parere del Comitato interno per le remunerazioni che ha vagliato criteri adatti a una pandemia, hanno diritto al premio di risultato: la spesa nel 2020 fu di «circa 22 milioni di euro», per le stime delle fonti ufficiali di Fs, «e nel 2021 non sarà superiore». Anziché fornire cifre vaghe o indurre a calcoli empirici, Fs dovrebbe illustrare con precisione la mole dei premi erogati: non esistono limiti di interessi aziendali né parametri sensibili (a cosa?). Alla Corte dei Conti, che nell’analisi alla gestione del 2018 aveva fissato la retribuzione media dei dirigenti del gruppo a 136.000 euro, Ferrovie di Battisti aveva garantito la migliore trasparenza: «La società avrà cura di dare massima pubblicità del numero e del valore dei premi assegnati - si legge nel documento dei magistrati contabili - a seguito dei risultati raggiunti in termini di performance in linea con gli obiettivi definiti dall’azionista». A differenza dei 942 dirigenti su 81.409 dipendenti (nel 2019 erano 83.764) che hanno scoperto una lieta sorpresa del 2020, macchinisti, operai e impiegati soprattutto di Trenitalia, per diverse settimane, non hanno potuto beneficiare di straordinari o festivi. Nel 2019 c’erano 300 treni giornalieri di alta velocità sulle tratte a lunga percorrenza, soltanto nel giugno 2020 si è ripreso a viaggiare con 100 treni di alta velocità con una capienza ridotta della metà. Trenitalia è stata la società più colpita dalla pandemia con introiti dimezzati, per l’esattezza da 5 a 2,6 miliardi di euro. Il 16 aprile è partito da Roma il primo Frecciarossa per Milano con i passeggeri testati con tamponi rapidi per il Covid-19. L’alta velocità è il mestiere di Battisti, un settore assai florido e in espansione che ha seguito dal lancio fino al 2017. Col governo gialloverde fu nominato, tre anni fa, amministratore delegato su indicazione dei Cinque Stelle, mentre la presidenza fu assegnata alla Lega con Gianluigi Vittorio Castelli. Battisti ha il merito di piacere ai Cinque Stelle, a Forza Italia e pure al Vaticano. Ha il lato sguarnito sui dem di Enrico Letta, una parte consistente della Lega e non dispone più di un premier amico, anche se l’amico Giuseppe Conte può indirizzare i Cinque Stelle. Battisti si è preparato da tempo, è molto concentrato sul rinnovo. Si è parlato tantissimo dei 9 miliardi di euro di investimento e dei miracolosi effetti sul prodotto interno lordo e pochissimo dei quasi 1,4 miliardi pubblici e di una scontata compressione dei ricavi. Chissà se tutto questo basterà a convincere il governo Draghi a promuovere l’operato di Battisti. Il prossimo Cda di Ferrovie dovrà impostare e attuare i progetti finanziati dai fondi europei che oscillano da 30 a 40 miliardi di euro. Come dicono quelli bravi: è una scelta strategica. Invece Battisti deve puntare a un Draghi che non sceglie e anzi preferisce, per tenere composta l’indisciplinata e variegata maggioranza, confermare la maggior parte dei vertici aziendali in scadenza. Una buona notizia per Battisti arriva dal ministero del Tesoro: Egon Zhender e Key2people sono le società - i cacciatori di teste - che dovranno valutare i profili dei Cda. Egon Zhender fa lo stesso lavoro per gli assunti del gruppo Fs. Se fosse chiamata a esprimersi su Ferrovie sarebbe stupendo. L’imprenditore Aurelio Regina è il più noto referente italiano di Egon Zhender e vanta un antico rapporto con Battisti. Tant’è che nel mondo dei pensieri ad alta velocità, troppa velocità, si fantastica sulla coppia Battisti e Regina: il vecchio amministratore delegato e il nuovo presidente. Questi sono obiettivi troppo ambiziosi. Mica si tratta dei premi per il 2020.
Bonus Cultura. Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 22 febbraio 2021. Nell' America rurale degli anni 80 il regista "weirdo" - cioè "bizzarro"- John Waters fu il primo, con guizzo situazionista, ad utilizzare parte dei fondi pubblici destinati per il cinema all' invenzione dell' "Odorama". Waters confezionò un film intitolato Polyester che, accompagnato da cartoncini opportunamente strofinati e donati allo spettatore incauto, corredava la visione con odori di peto, di puzza di piedi, di afrore di olio da macchina usato. Fu uno dei rari casi in cui la cultura americana mise i propri finanziamenti al servizio del lercio e dell' osceno. Mi chiedevo come si comporterebbe Waters oggi, in Italia, se avesse a disposizione i 18 App, i Bonus Cultura del ministro Franceschini. Accade infatti che le suddette agevolazioni fiscali siano sì state introdotte dal governo Renzi con la volontà di «promuovere prodotti di tipo culturale, che abbiano un valore formativo ed educativo per tutti i giovani neo diciottenni» uniti al "bonus carta del docente" per gli aggiornamenti degli insegnanti; ma pure che, oggi, le stesse agevolazioni subiscano un destino, per l' appunto, bizzarro. I Bonus Cultura vengono destinati all' acquisto, attraverso la sezione "libri" di Amazon, di opere letterarie di profondo livello. Molto profondo. Profondissimo, verso il nadir dell' editoria, oserei. C' è, per esempio, Cucinare la merda-le migliori ricette a base di sterco, venduto possibilmente accoppiato a Cose da fare mentre fai la cacca, inevitabili classici della coprofagia. C' è Scoreggiare meglio-Guida pratica al perfezionamento dei peti che evidentemente è quello che più richiama le tecnicalità registico/olfattive di John Waters. C' è il pregnante La zoccola etica-guida dal poliamore alle relazioni aperte e altre avventure, titolo evidentemente ispirato alla poetica erotica di Catullo e alle romanzesche vicende sessuali del cantante Pupo, profeta della relazione doppia e tripla. Ma Pupo e Catullo non prendono finanziamenti dallo Stato.
L'almanacco Ma si può fare di più. Per esempio, si può sfruculiare nella sezione "blasfemia e/o imprecazione agli dei" degli scaffali virtuali, dove si stagliano libelli come 300 modi per maledire Dio, 365 bestemmie creative, e Porco *** Cane, l' almanacco definitivo della bestemmia che taglia la testa al toro ma soprattutto a qualsiasi idea di etica e civiltà. Tutti i sopraccitati volumi sono soggetti all' esenzione del bonus cultura fino a 500 euro: proliferano e vendono all' ombra del Ministero dei Beni Culturali. Anzi, ad essere più puntigliosi, i libri di bestemmie sovvenzionati col denaro pubblico sono stati da poco ritirati dal commercio (con e senza bonus), grazie a una denuncia sortita da un reportage dell' inviato youtuber Roberto Lipari su Striscia la notizia del 27 gennaio scorso. Ma, eliminati i blasfemi, gli altri titoli rifulgono ancora del bollino "Acquistabile con il bonus cultura e il bonus carta del docente" trattandosi, formalmente, di "elementi culturali e aggiornamento professionale". Il che, diciamolo, è un po' come se l' Accademia della Crusca sponsorizzasse gli spettacoli di Pio e Amedeo; o Umberto Eco avesse passato una sera con Bombolo e Alvaro Vitali a scoreggiare e, contemporaneamente, a discettare di filologia romanza. Capirete che, in tutto questo, c' è qualcosa che stona. Ma ci fosse stato un solo politico preso da indignazione che fosse intervenuto; avesse prodotto un' interrogazione parlamentare; avesse - chessò - acceso un dibattito. L' unico, a memoria d' uomo, è stato Franco Lucente, capogruppo di Fratelli d' Italia in Regione Lombardia. Ossia un civil servant e padre di famiglia, che sdegnato da questo tripudio di zozzerie, s' è sfogato in una dichiarazione ufficiale: «Ho ricevuto molte segnalazioni da cittadini giustamente allibiti. Devo dedurre che il Ministero dell' Istruzione paghi, agli insegnanti che lo desiderano, libri su come fare sesso o sulle parolacce da colorare. Soldi che ovviamente provengono dai contribuenti. Il livello di incapacità e di improvvisazione del Governo che permette una cosa del genere tocca livelli che sono francamente deprimenti. Il problema non è solo economico, ma proprio di gestione. Se un Ministero controlla così dove vanno i suoi soldi, non voglio pensare a quali altre falle ci siano e come vengano gestite tutte le altre cose».
Niente giustificazioni. Ora, sarà il cambio di governo, la friabilità della politica, la pandemia, il Recovey Fund; ma, insomma, il ministero della Cultura pare non si sia ancora attivato in merito. Invece, contattato da Striscia Matteo Renzi ha dichiarato che «questa cosa fa schifo, ci vuole una legge apposita per regolarla». Nella realtà è il meccanismo del bonus Cultura stesso a difettare. A Jesi 2500 ragazzi sono stati scoperti a utilizzarlo per comprare videdogiochi e console, contribuendo alla truffa di una società che nascondeva le transazioni con l' acquisto di musica digitale e poi incassava il rimborso dallo stato. A Napoli cartolibrerie convenzionate hanno validato falsamente «2.326 bonus cultura 18App per un ammontare complessivo di 1.162.500. A fronte della fittizia vendita di libri», scrive la Procura. E un' identica truffa s' è consumata a Cremona, Milano, Ravenna. E sempre Amazon, interpretando l' accezione di "prodotto culturale" usa i bonus per vendere coprivaligie, agende, calendari, altri borsellini, e quaderni americani (tutto regolare, per carità. Ma la legge ci vuole).
Insomma, potremmo qui, a giustificare l' uso osceno dei bonus citare pure L' estetica del brutto di Karl Rosencrenz, o L' estasi del pecoreccio di Tommaso Labranca. Potremmo trovare tutte le giustificazioni intellettuali del caso. Ma il bonus è diventato malus e si sta trasformando in vulnus (Ps. Waters fu massacrato dalla critica, e perse le sovvenzioni pubbliche).
Bonus Biciclette. Benedetta Vitetta per "Libero Quotidiano" il 22 febbraio 2021. Il successo del bonus biciclette, che la scorsa primavera ha contagiato decine di migliaia di italiani, s'è rivelato un vero toccasana pure per i portafogli dei ladri di velocipedi. Che, approfittando del deciso incremento delle due ruote in circolazione e del fatto che gli italiani hanno sfruttato lo sconto governativo per acquistare mezzi costosi o addirittura elettrici (540 mila le biciclette acquistate dopo il lockdown, con un incremento delle vendite del 60% rispetto al 2019), hanno messo a segno un incredibile numero di furti. L'ultimo, a dir poco clamoroso, è quello che è accaduto nelle scorse ore a Milano, dove con una vera e propria "spaccata", realizzata grazie all'aiuto di un camion usato a mo' di ariete: in pochi minuti sono state trafugate 20 costose biciclette. Ma si tratta soltanto di una delle tantissime ruberie che ogni giorno vengono compiute in lungo e in largo nella Penisola. Già, perché - secondo le stime della Fiab, la Federazione italiana amici della bicicletta - ogni 2 minuti nel Belpaese viene compiuto almeno un furto di bici. Facendo quindi due conti, ogni giorno non tornano a casa col legittimo proprietario circa 900 biciclette. Che in un anno diventano un gran bel numero: oltre 320 mila i mezzi rubati. E visti i modelli sempre più evoluti e raffinati, con personalizzazioni di ogni tipo a seconda delle necessità e dell'uso, e la crescita delle e-bike - quelle elettriche, che permettono la pedalata assistita in caso di distanze maggiori o di eccessiva stanchezza - e che sono molto più costose (i prezzi partono dai 500 euro in su), ecco arrivare pure i furti su commissione. Non più semplici ladruncoli, ma bande specializzate si intrufolano ovunque, spiando per giorni e giorni gli spostamenti dei cittadini "ecologisti", riuscendo in pochi attimi a far saltare un antifurto e scappando via, senza dare nell'occhio, in sella alla bici. Che, in qualche minuto, rimettono su piazza. Un giro d'affari sempre più in crescita e che ormai supera i 100 milioni di euro l'anno. Il problema più grave è che la maggior parte dei ciclisti defraudati (60%) non denuncia il fatto, sapendo che ritrovare la propria bicicletta è praticamente una missione impossibile, soprattutto visto che è la stessa polizia locale a considerare questi furti "reati secondari". Ma pure nel caso che si riconosca la propria bici sfrecciare per la città, diventa molto complicato dimostrare di essere i legittimi proprietari del mezzo. Che cosa fare per eliminare questa sorta di "economia circolare" tutta al negativo? Se l'emergenza Covid ha di colpo rilanciato la moda delle due ruote - non tanto per una questione ecologista ma semmai più prettamente salutista, visto che in periodo di Covid si consiglia di stare il più possibile lontano da mezzi pubblici affollati - l'annoso problema dei furti di biciclette non è di facile risoluzione e potrebbe disincentivare molti a non ricomprare più un altro mezzo ecologico dopo il furto subito. Ecco che a trovare una possibile via d'uscita sono state le compagnie assicurative, che hanno messo a punto delle polizze di mobilità ampia. Ossia che vadano oltre a quella dell'automobile e del possesso del veicolo, comprendendo d'ora in avanti anche i mezzi di mobilità alternativa. Come biciclette, e-bike e persino monopattini elettrici. Arrivano le polizze Una delle prime a lanciare sul mercato una polizza che offre una protezione non limitata soltanto all'automobile ma che spazia fino all'utilizzo della bici e del monopattino è stata Zurich con la polizza "ZuriGò". A ruota sono poi arrivati prodotti molto simili dai principali competitor come Generali, Allianz Partners, Europ Assistance ed UnipolSai con "UnipolSai Infortuni Circolazione". In questo caso la compagnia ha studiato una polizza anti infortuni che tutela dagli incidenti che possono avvenire quando si è in movimento, in auto, in moto, in bicicletta, sui mezzi pubblici e privati sia in Italia sia all'estero. E da Milano arriva una vera e propria rivoluzione che potrebbe essere da esempio per il resto d'Italia. In primavera, come è stato annunciato di recente dall'assessore alla Mobilità del Comune, Marco Granelli, sarà attivo il registro delle biciclette. Una piattaforma messa a disposizione dal Comune per registrare i dati dei proprietari e i codici di marcatura dei mezzi. L'obiettivo? Contrastare i furti. «Il percorso è stato tortuoso» ha spiegato l'assessore, «ma questo rappresenta un vero modello di registro che permette un'univocità di marcatura e una connessione con i sistemi delle forze di Polizia». Del tema della marchiatura o dell'introduzione della targa anche per le biciclette si discute da anni, ma è la prima volta che questa sperimentazione viene fatta in una grande metropoli, tra l'altro quella in cui da sempre si rubano più bici in assoluto. Per molti esperti l'introduzione del registro può essere un importante deterrente che, però, non risolve il problema alla radice. Per quello servirebbe una nuova mentalità e maggior senso civico. Che, però, non si cambia con targhe o punzonature.
· Il Superbonus.
Dagospia il 14 novembre 2021. L’ESILARANTE IMITAZIONE DI DRAGHI BY CROZZA: “ORA RECITIAMO INSIEME ORA PRO BONUS! BONUS FACCIATE! BONUS MOBILI, ELETTRODOMESTICI, BALCONE E TERRAZZI - ANCHE IL GERANIO SUL BALCONE LO SCALIAMO DALLE TASSE - BONUS MONOPATTINI COSI’ POTETE SCHIANTARVI SENZA ASSICURAZIONE. BONUS ANIMALI DOMESTICI PER CHI NON LI AVESSE ANCORA INVESTITI CON I MONOPATTINI. BONUS CHEF PER I SEPARATI, CHE ALMENO MANGINO BENE…”
Da lastampa.it il 14 novembre 2021. Crozza torna nei panni del Premier Draghi nell'ottava puntata della nuova stagione di "Fratelli di Crozza" - in prima serata sul Nove e in streaming su Discovery+ - e confessa: "La cosa di cui vado più orgoglioso? Il bonus terme".
La casa ecologica? Come ristrutturarla con i bonus. Alessandro Ferro l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. Con il Superbonus, la transizione energetica sulla casa sarà più facile e sostenibile: dalla costruzione di un edificio ai lavori di efficientamento energetico, ecco cosa cambia. Rispetto ad una costruzione da zero che parta dalle fondamenta, una casa da ristrutturare ha consumi molto ridotti e rispetta maggiormente l'ambiente grazie al riciclo. Non solo: l'attuale Superbonus consente anche ad un vecchio fienile di diventare un'abitazione con tutte le agevolazioni previste dalla legge. Insomma, da brutto anatroccolo e cigno rispettando la transizione ecologica.
Cosa è cambiato nel 2021
Dal 1° gennaio 2021 le regole sono chiare: qualsiasi tipologia di abitazione deve essere a marchio nZEB, cioè edifici ad alta efficienza energetica e consumi quasi zero. Questo vale sia in caso della costruzione di una casa nuova che se si tratta di ristrutturazione: diventa necessaria la certificazione ambientale che attesti una percentuale ben definita di materia riciclata (o recuperata) e sono vietati i prodotti dannosi per l'ozono. E poi, sono previste misure rigide di costruzione: l'uso di fonti di energia rinnovabile che sia protetta dal riscaldamento solare con schermature e dotata di impianti che annullino i consumi idrici e della stessa energia.
Come sfruttare il Superbonus
Secondo le nuove regole, i fabbricati faranno parte della fascia energetica A4 rientrando nell’agevolazioni previste dal Superbonus al 110%. Per ristrutturare la casa ed avere l'agevolazione, però, bisognerà avere almeno un impianto di riscaldamento che vada demolito. Per coibentare l'appartamento, invece, si può installare un impianto che funzioni a biomasse o con pannelli solari termici. In questo modo si avrà la certezza di sfruttare l'agevolazione fiscale. Ma non è tutto: si potrà usufruire del bonus anche se l'edificio da demolire e ricostruire non sarà destinato per uso abitativo e che, quindi, non abbia già un impianto di riscaldamento di default. Come riporta Repubblica, lo ha stabilito l'Agenzia delle Entrate a settembre con il via libera "alla detrazione del 110% per la ristrutturazione di un fabbricato pericolante sprovvisto di impianti di riscaldamento in quanto non destinato ad uso abitativo".
Come rendere (davvero) la casa ecosostenibile
Le raccomandazioni del Fisco
L'Agenzia ha ricordato che fanno parte del Superbonus anche tutte le spese per "interventi realizzati su immobili che saranno destinati ad abitazione solo al termine dei lavori". L'unica accortezza da avere sarà quella di presentare al proprio Comune di residenza la Scia edilizia (Segnalazione Certificato Inizio Attività) dove risulti chiaramente che l'intervento è finalizzato al cambio di destinazione d'uso. Le case sprovviste di riscaldamento, secondo la legge attuale, rientrano tra le categorie di chi può sfruttare il bonus "purché al termine degli interventi, anche in caso di demolizione e ricostruzione che devono ricomprendere sempre la coibentazione, raggiungano una classe energetica in fascia A".
Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.
«Oltre un miliardo di fatture false sul Superbonus 110%». Le norme sulla privacy limitano la lotta all’evasione. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini a Dataroom. Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2021.
Quante fatture false avete accertato sul Superbonus 110%?
Sulle fatture false sono in corso molte verifiche, mi permetterà di non dare dati particolari, perché sono state coinvolte in molte parti d’Italia molte procure della Repubblica, ci sono indagini penali in corso, si tratta di vere e proprie frodi , di danno alla collettività che siamo riusciti a intercettare e il legislatore è intervenuto anche in seguito alle nostre segnalazioni per consentirci di stroncare questo fenomeno.
Di quali volumi parliamo?
Abbiamo ampiamente superato il miliardo di euro. Un meccanismo rodatissimo che funziona così: solo su Roma fatture per 200 milioni sono state messe dentro al cassetto fiscale di persone ignare, con l’aiuto di commercialisti compiacenti.
E’ proprio una propensione genetica la nostra?
E’ fisiologico quando c’è un’agevolazione che ci sia qualcuno che cerchi di approfittarsene.
Come è possibile che l’agenzia delle entrate non abbia accesso ai dati della fatturazione elettronica, se le fatture elettroniche vengono inviate all’agenzia delle entrate?
Questo è un tema che stiamo cercando di risolvere attraverso l’interlocuzione con l’Autorità garante dei dati personali (il Garante della Privacy). L’agenzia delle entrate ha a disposizione tutti i dati della fatturazione elettronica. Non ha la possibilità di poterli utilizzare ai fini dell’analisi del rischio e a fine del contrasto all’evasione in modo pieno. In sostanza non si può accedere ai dati in essa contenuti proprio perché non si è ancora trovato un punto di equilibrio tra la privacy del contribuente e il diritto del recupero di risorse pubbliche del contribuente stesso.
Più che tutela della privacy, sembra la tutela dell’evasore. Ma voi potete incrociare i dati delle dichiarazioni con i depositi sui c/c?
Per ragioni di privacy non abbiamo un accesso generalizzato ai dati dei conti correnti. Noi possiamo accedere al saldo iniziale, al saldo finale, alla giacenza media dei conti correnti solo nel caso in cui ci sono profili di rischio o indici di evasione fiscale, vale a dire in caso di accertamento.
Superbonus, la cessione del credito conviene davvero? Tre esempi per capire meglio. Isidoro Trovato su Il Corriere della Sera il 31/1/2021.
Il meccanismo. Efficientamento energetico ed interventi antisismici a costo zero, questo l’obiettivo del bonus fiscale 110% introdotto dal decreto rilancio dello scorso anno e prorogato fino al primo semestre 2022 dalla legge di bilancio 2021. Il recupero delle spese sostenute possibile con modalità differenti rispetto al passato con il coinvolgimento di diversi soggetti, interessati dalla misura agevolativa. Gli interessati, infatti, non sono solo le persone fisiche che effettuano i lavori, ma anche le imprese esecutrici, i tecnici asseveratori, i soggetti (banche ed altri intermediari finanziari) cessionari del credito maturato dai contribuenti ed i professionisti che dovranno apporre il visto di conformità per la cessione del credito. Ma la cessione del credito da superbonus conviene sempre? E a che condizioni? Abbiamo provato tre simulazioni per capire meglio.
Il fai da te. Un contribuente intende installare il cappotto termico nel proprio edificio. La spesa da sostenere è di € 30.000 euro e non intende cedere il credito. La detrazione spettante sarà di € 33.000 che potrà essere utilizzata nella dichiarazione dei redditi in 5 anni, cioè € 6.600 all’anno. In tale ipotesi il contribuente dovrà avere un’imposta a debito nella propria dichiarazione di almeno € 6.600 ogni anno affinché possa utilizzare tutto il credito maturato. In caso contrario, il credito non utilizzato nell’anno andrà perso. Naturalmente, rimane possibile negli anni successivi utilizzare le quote spettanti.
La cessione parziale. Un contribuente intende installare il cappotto termico nel proprio edificio. La spesa da sostenere è di € 30.000 euro e l’impresa gli propone lo sconto in fattura di metà della spesa. Il contribuente pagherà 15.000 € all’impresa che a sua volta maturerà il credito pari al 110% sullo sconto accordato al contribuente. Il credito spettante al contribuente sarà dunque pari a 16.500 € : maturerà quindi il 110% sulla parte di spesa pagata . Il tutto si traduce in cinque quote annuali pari a 3.300 €. In tale ipotesi, il contribuente dovrà avere un’imposta a debito nella propria dichiarazione di almeno 3.300 € ogni anno affinché possa utilizzare tutto il credito maturato. In caso contrario, il credito non utilizzato nell’anno andrà perso. Naturalmente, rimane possibile negli anni successivi utilizzare le quote spettanti. In alternativa all’utilizzo diretto, il contribuente potrà optare per la cessione di quei 16.500 € a banche ed altri intermediari finanziari.Ma le banche e gli istituti finanziari applicheranno delle commissioni che vanno dal 7 al 12%. Il che significa che di quei 16.500 avreste indietro da 15.350 a 14.500 €.
Cessione totale. Un contribuente acquista un immobile il cui costo è di 200 mila euro per il quale il costruttore ha effettuato interventi antisismici che rientrano nel sisma bonus 110%. Il contribuente intende cedere il credito ad una banca. Il contribuente avrà diritto al bonus 110% calcolato sulla spesa massima di 96 mila euro. Il credito spettante sarà pertanto di € 105.600, utilizzabile in cinque anni. Il credito potrà essere ceduto alla banca che restituirà al contribuente la somma del credito al netto delle commissioni richieste per l’operazione. Anche in questo caso le commissioni vanno dal 7 al 12 %. Quindi il contribuente non otterrà il rimborso di 96.000 ma una somma che va da 89.280 a 84.480 (a seconda della commissione applicata dalla banca)
· Bancopoli.
CACCIA AI FURBETTI DEL PRESTITO: FUORI I NOMI. LE PERDITE DELLA POPOLARE DI BARI E CHI PAGA IL CONTO DEL MANCATO ACCORDO TRA UNICREDIT E MPS. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud l'8 novembre 2021. Ci rivolgiamo alla presidente della Commissione d’inchiesta sulle banche, Carla Ruocco, perché chieda ai nuovi vertici della banca di rendere pubblico l’elenco dei “furbetti” e dei “furboni” che hanno depredato la Popolare di Bari lasciando il conto da pagare ai contribuenti e ai risparmiatori. Esiste un diritto dell’opinione pubblica di sapere quali sono i prestiti non tornati indietro. Le domande sono tante: di chi sono? Perché si è stati così generosi nei confronti di questi signori e così a lungo da chiudere pervicacemente gli occhi fino al punto di non riaprirli mai? Ci sono una Bari e una Puglia che lavorano, ci sono imprese che lottano a mani nude sul mercato, che hanno diritto di sapere perché la prima banca del Sud era così prodiga di attenzioni per chi non restituiva mai ciò che riceveva e invece così rigida nei confronti di chi aveva buone idee e uno stato di salute non compromesso ma si ritrovava sprovvisto di santi in paradiso. Le tre ipotesi in campo per Mps. La presidente della Commissione d’inchiesta sulle banche, Carla Ruocco, ha detto che un rapporto tra i costi operativi e il margine di intermediazione (in gergo cost/income) del 155% della Banca Popolari di Bari preoccupa non poco la sua Commissione. Perché la banca possa crescere e rilanciarsi questo rapporto dovrebbe scendere sotto il 100%. Per vederci chiaro è intenzione della Commissione, ha annunciato la Ruocco, convocare la capogruppo Mediocredito centrale e capire dal gradino più alto quali sono le strategie di business e il piano di crescita della controllata Popolari di Bari. Apprezziamo l’impegno di questa donna di ferro, che è una grillina che sa di cosa parla in quanto ne ha le competenze, perché la abbiamo già vista all’opera e siamo stati testimoni di come ha fatto ballare quelli che noi abbiamo ribattezzato i damerini della Sace in un’audizione che è rimasta storica. Proprio per questo ci rivolgiamo a Lei perché la Commissione chieda ai nuovi vertici della banca di rendere pubblico l’elenco dei “furbetti” e dei “furboni” che hanno depredato la Popolare di Bari lasciando il conto da pagare ai contribuenti e ai risparmiatori. A cominciare dai 68.500 azionisti il cui investimento si è azzerato e i 17 mila obbligazionisti. Parliamo di un miliardo e 400 milioni di perdita netta durante la gestione dell’amministrazione straordinaria dal 1° gennaio 2019 al 15 ottobre 2020. A cui vanno aggiunti altri 114 milioni derivanti da perdite del primo semestre 2021 e dell’esercizio ristretto dal 16 ottobre al 31 dicembre 2020. Perdite coperte azzerando tutte le riserve disponibili e riducendo il capitale sociale per 320 milioni di euro, che dunque ora si attesta a 622 milioni. Nel conto complessivo a carico dello Stato restano anche i due miliardi di Npl rilevati da Amco, la finanziaria controllata dal Tesoro, destinata a diventare la discarica del sistema bancario italiano. Di fronte a questi numeri che riguardano il passato e difficoltà forti che toccano il presente che evidentemente non può non risentire dell’onerosità del passato esiste un diritto dell’opinione pubblica di sapere quali sono i prestiti non tornati indietro. Le domande sono tante: di chi sono? Perché si è stati così generosi nei confronti di questi signori e così a lungo da chiudere pervicacemente gli occhi fino al punto di non riaprirli mai? Ci sono una Bari e una Puglia che lavorano, ci sono imprese del Mezzogiorno che lottano a mani nude sul mercato, che hanno diritto di sapere perché la prima banca del Sud era così prodiga di attenzioni per chi non restituiva mai ciò che riceveva e invece così rigida e ermeticamente chiusa nei confronti di chi aveva buone idee e uno stato di salute non compromesso ma si ritrovava sprovvisto di santi in paradiso. Il momento della verità prima o poi deve arrivare e non può sempre finire in cavalleria mettendo tutto sul conto del debito pubblico italiano e, quindi, dei nostri giovani. Questo vale per Bari come per Siena e ovunque. Rimasi sbalordito dal primo elenco di insolventi reso pubblico da MPS con un nugolo senza fine di società legate a chi impartisce lezioni sul capitalismo e rifila i suoi debiti ai contribuenti e a chi gravita nell’area dell’impresa pubblica locale legata al dominio politico del territorio. È molto probabile che la finanziaria guidata da Marina Natale (Amco) sia destinata ad avere un ruolo anche nel futuro di Mps. Perché è molto probabile che dovrà farsi carico anche della “bad bank” di Siena. Il fallimento dell’accordo tra MPS e Unicredit pesa sulla coscienza dei capi dei partiti italiani perché a neutralità di capitale si trattava di fare dopo tanto tempo un’operazione di sistema secondo le regole del mercato pagando al Tesoro il giusto per MPS e restituendogli un ruolo di azionista nella nuova Unicredit. Che dopo la stagione di Mustier segnata dalla vendita dei pezzi pregiati di casa al migliore offerente straniero, poteva tornare ad avere un ruolo di player globale italiano con uno scenario operativo sul territorio molto più forte nel Centro come nel Mezzogiorno. Al di là di chi sostiene che abbia reso più difficili le trattative il passato da ministro del Tesoro di Piercarlo Padoan, oggi apprezzato presidente di Unicredit, resta il fatto indiscutibile che tutti i partiti hanno tirato un sospiro di sollievo perché saltando l’accordo si rinviavano i problemi e si rinviavano i tagli di personale. Tutto ciò desta in noi semplicemente sconcerto. Perché il rinvio non risolve ma aggrava gli stessi problemi e priva il sistema italiano che storicamente ha sempre potuto contare su almeno tre grandi banche di avere nell’immediato dopo Intesa Sanpaolo almeno un secondo grande player con uno schema industriale chiaro e definito da realizzare in casa e fuori. Per MPS, poi, lo scenario resta ancora più incerto e le ipotesi sul campo per ora sono tre: 1) Trovare un altro Unicredit magari non italiano ma non è facile; 2) Ricapitalizzare il Monte dei Paschi in modo da avere una condizione della banca migliore che la renda più capace di avere risultati – anche questo non è facile – e a quel punto puoi rimetterla sul mercato meglio di ora ma intanto si spendono un sacco di soldi e poi si vede; 3) decidi di tenere MPS come una banca autonoma, ma scoprirai molto presto che non ce la fai, neanche dividendola pezzo pezzo, uno lo tieni dove è un altro lo metti con il Mezzogiorno, perché i soldi ancora da tirare fuori sono tanti e devi superare l’esame sull’aiuto di stato di Bruxelles. In tutte e tre le ipotesi non si devono mai appalesare rischi di insolvenza eccessivi perché MPS è vigilato a livello europeo e Banca d’Italia è compartecipe delle decisioni di vigilanza non per quelle sulla vendita o in genere di risiko bancario. In questo caso bisognerà negoziare con Francoforte che valuterà la sufficienza o meno del capitale e con Bruxelles che vorrà rivedere tutte le condizioni che stanno dietro l’accordo in materia di concorrenza e di altro. Un rompicapo vero. Per riunire le due Italie e gestire come si deve il Piano nazionale di ripresa e di resilienza la questione credito vale quanto la questione degli organici da rinnovare quasi in toto della pubblica amministrazione territoriale. La prima leva è vitale come la seconda. Anche perché siamo un Paese che se vuole crescere per davvero e a lungo deve fare i conti con la realtà. Deve rendersi conto che non abbiamo quattro milioni di manager che possono gestire quattro milioni di piccole imprese e non abbiamo centinaia di banchieri che possono gestire centinaia di banche. Per questo servono trasparenza e scelte di mercato in una logica di sistema. Non servono i bizantinismi dei territori e le clientele della politica. Devono cambiare le teste e i comportamenti. La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio.
Mps, peggio non si poteva fare: Montepaschi Siena sull’orlo del fallimento. Di chi è la colpa? Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera l'8 novembre 2021. A Siena l’avevano detto subito: Antonveneta sarà l’inizio della fine. Così è andata per Mps. È allora che la banca comincia a traballare, quando a novembre 2007 il presidente Giuseppe Mussari - avvocato penalista nominato nel 2006 dalla Fondazione Mps - si accorda con il Santander per comprare Antonveneta per 9 miliardi. Un’offerta «prendere o lasciare» che il rampante avvocato-politico accetta, anche se è il doppio del suo valore. Bankitalia lascia fare al mercato e autorizza l’operazione. Il Monte non ha i soldi che servono, così si indebita per 3 miliardi e chiede ai soci un primo aumento di capitale per 5 miliardi.
Debiti e crisi finanziaria
I frutti sperati non arriveranno. Pochi mesi dopo fallisce Lehman Brothers, le banche in tutto il mondo si ritrovano senza liquidità e devono intervenire gli Stati. A Siena nel 2009 arriva il primo prestito del Tesoro: 1,9 miliardi di Tremonti bond, dal nome del ministro dell’epoca. A luglio 2011 Mps prova a rimborsarli con un secondo aumento di capitale, da 2,1 miliardi. Metà li mette la Fondazione Mps guidata da Gabriello Mancini - esponente locale dell’allora partito della Margherita – che si indebita e punta tutti i suoi soldi sulla banca. Ma il momento è pessimo. Esplode la crisi degli spread sul debito sovrano; Mps ha in pancia decine di miliardi di Btp e quando a ottobre l’Autorità Bancaria Europea avvia lo stress test sui titoli di Stato la banca viene travolta, e quei soldi dell’aumento di capitale deve tenerli in cassa. Anzi, gli serve un prestito d’emergenza della Banca d’Italia a novembre 2011.
Sul Monte calano le ombre
A Siena cade la prima testa: va via il direttore generale Antonio Vigni, arriva al suo posto Fabrizio Viola, scelto dalla Fondazione Mps (espressione del potere politico locale e a sua volta controlla la banca), che allora è ancora il primo socio. Mussari resterà presidente fino alla scadenza di aprile 2012. Al suo posto arriverà Alessandro Profumo. Per riconfermare invece l’avvocato catanzarese alla presidenza dell’Abi, viene addirittura cambiato lo statuto. A gennaio 2013 esplode lo scandalo dei «derivati» Alexandria e Santorini, con le banche estere Nomura e Deutsche Bank. Un’operazione di ingegneria finanziaria già nota da tempo a Bankitalia, e che nelle aule dei tribunali si trascina ancora adesso. L’effetto però è immediato: getta su Rocca Salimbeni un’ombra oscura e c’è il timore che i clienti possano ritirare i soldi dai conti. La banca resiste, ma a giugno 2013 ha di nuovo bisogno dello Stato. Arrivano 3,9 miliardi di Monti Bond: metà servono a rimborsare il primo prestito, mentre per estinguere quello nuovo il Monte richiede agli azionisti un terzo aumento di capitale da 5 miliardi. Nel frattempo, però, sono entrate in vigore regole europee sui salvataggi bancari e Mps diventa sorvegliata speciale.
Un cliente su tre non paga i debiti
A fine 2014 la vigilanza sulle banche europee passa alla Bce, ma prima di prenderle in carico le guarda tutte dal di dentro. Dalle analisi emerge che a Siena mancano 2,1 miliardi, perché troppi clienti non rimborsano i prestiti. Serve un quarto aumento di capitale e nel 2015 la banca lo chiama per 3 miliardi. Intanto la reputazione scende, la crisi economica morde e i clienti migliori passano alla concorrenza. Nel 2016 arriva un secondo stress test Bce che si concentra sui crediti deteriorati (Npl): sono ben 45 miliardi, in pratica un cliente su tre non restituisce i finanziamenti. La Bce chiede pulizia radicale. Mps li svende per 26 miliardi nominali al fondo Atlante, le perdite sono enormi e la banca si avvita.
Il salvataggio dello Stato
A settembre dello stesso anno il governo Renzi - nel frattempo diventato primo socio grazie al 4,5% di Mps ricevuto a pagamento degli interessi sui Monti bond - sostituisce l’ad Viola con Marco Morelli. Se ne va anche il presidente Massimo Tononi che nel 2015 si era insediato dopo le dimissioni di Profumo: al suo posto arriva un socio privato, Alessandro Falciai. Per non fallire a Mps serve un nuovo aumento di capitale da 5 miliardi, ma stavolta nessuno ce li mette. A luglio 2017 scatta il salvataggio pubblico con Padoan ministro del Tesoro e l’ok dell’Europa. Per coprire il buco è di 8,1 miliardi vengono convertiti in azioni i 2,7 miliardi di bond subordinati, mentre lo Stato tira fuori 5,4 miliardi, diventando così il maggior azionista. Da allora in poi i vertici li sceglie il Tesoro. Nel 2020 il governo Conte 2 sostituisce Morelli con un banchiere vicino ai grillini, Guido Bastianini; presidente è Patrizia Grieco. Ma i crediti deteriorati continuano a pesare e, a fine 2020, per tenere in piedi la banca lo Stato se ne porta in casa per 8,1 miliardi, mettendoli dentro alla bad bank pubblica Amco.
La trattativa impossibile
Ma i patti con Bruxelles sono chiari: lo Stato deve uscire privatizzando l’istituto entro il 2021. A fine luglio di quest’anno nuovo stress test Bce: Siena necessita di altri 2,5 miliardi. Lo Stato non può metterli tenendosi ancora la banca, bisogna trovare un compratore. Al tavolo con il governo si siede solo Unicredit, dove troviamo come presidente l’ex ministro Pier Carlo Padoan e come amministratore delegato Andrea Orcel, ovvero il banchiere che 14 anni prima, da capo di Merrill Lynch, aveva intermediato la vendita di Antonveneta ad un prezzo fatale per Mps. Sono loro a dettare le condizioni: lo Stato deve metterci 6,3 miliardi di aumento di capitale, 2,2 miliardi di benefici fiscali, cedere i crediti deteriorati e assicurare Unicredit dai rischi legali. E poi tagli di personale: 7 mila esuberi su 21 mila dipendenti. Nel 2007 erano 34 mila. Non solo: per la parte buona di Mps da acquistare Orcel offre 1,2 miliardi ma il Tesoro ne chiede fra i 3,6 e i 4,8 miliardi. Non c’è accordo e la trattativa salta a fine ottobre.
E adesso cosa succede?
Ora lo Stato si trova costretto a sedersi a due tavoli: con la Ue e con la Bce. A Bruxelles deve chiedere più tempo per privatizzare; bisognerà vedere quanto la Dg Competition (Margrethe Vestager) ne concederà e che cosa vorrà in cambio per tollerare ulteriormente l’aiuto di Stato al Monte dei Paschi. Bisogna abbassare i costi, che vuol dire tagli di personale. Lo scorso anno l’ad Guido Bastianini ne aveva annunciati 2.700, poi non effettuati. Si sarebbero pagati in termini elettorali per Enrico Letta. A Francoforte dovrà invece negoziare l’aumento di capitale, necessario a stare in piedi. Il Tesoro potrà versare altri soldi pubblici solo se lo faranno anche investitori privati. Che andranno trovati. E andrà trovato anche un acquirente per Mps.
Quanto hanno perso lo Stato e il mercato
Oggi la quota azionaria in mano allo Stato vale circa 650 milioni. La perdita potenziale è dunque di 4,8 miliardi. Sommati ai 15 miliardi dei privati bruciati negli aumenti di capitale e i 2,7 miliardi di bond polverizzati si può stimare un costo totale di Mps di circa 22 miliardi. E altri ne serviranno. Di chi è la colpa di questa agonia senza fine? L’ acquisto dissennato di Antonveneta, il crollo di Lehman, la crisi dello spread, le nuove regole europee e quei 26 miliardi di perdite sui crediti accumulati fra il 2006 e il 2016, dovute alla recessione che ha messo in ginocchio le imprese e non più in grado di ripagare i debiti, ma anche a finanziamenti spesso concessi senza garanzie adeguate e prestiti a imprenditori amici dei politici di riferimento. Mps è storicamente una banca in mano al PD senese, ma l’andazzo di suonare alla sua porta è stato condiviso con Forza Italia. Oggi la quota azionaria in mano allo Stato vale circa 650 milioni. La perdita potenziale è dunque di 4,8 miliardi. Sommati ai 15 miliardi dei privati bruciati negli aumenti di capitale e i 2,7 miliardi di bond polverizzati si può stimare un costo totale di Mps di circa 22 miliardi.
Anche il Covid ha contribuito ad aggravare le cose, sebbene con l’uscita dalla pandemia l’Istituto appare oggi in ripresa: in nove mesi ha fatto utili per 388 milioni di euro. Tutte le banche sono andate in difficoltà negli ultimi dodici anni, ma è evidente che a Siena i banchieri che si sono avvicendati non sono stati in grado di modernizzare la banca e tantomeno di affrontare il problema dei problemi: i crediti deteriorati. A Siena è andato tutto storto; per citare una battuta che gira tra i banchieri d’affari, «hanno fatto zero al Totocalcio». Difficile come fare 13. Ma non impossibile.
Ora va cambiata impostazione. Trattativa sul Monte dei Paschi: tutti i motivi per cui è saltata. Angelo De Mattia su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. È difficile immaginare una trattativa nella quale un negoziatore che intenda dismettere un bene conceda l’esclusività al potenziale acquirente, dichiari che sono precluse altre scelte, in particolare quella di non alienare più il bene in questione e di non avere intenzione di continuare a gestirlo autonomamente, poi accetti la fissazione di un termine-capestro, ad opera di un’autorità terza, entro il quale si deve concludere il negoziato. Come non si può vedere che si tratti della condizione migliore per il contraente prescelto il quale così è massimamente invogliato a far valere la sua forza contrattuale? È quanto è accaduto nella trattativa tra il Tesoro e l’Unicredit per la cessione a quest’ultimo di un perimetro definito del più antico istituto di credito al mondo, di cui lo Stato ha il 64 per cento del capitale. Chi scrive sin dall’inizio aveva più volte segnalato questo vizio radicale della trattativa. Per le ragioni indicate, l’Unicredit, dopo aver posto in premessa l’irrinunciabile condizione della neutralità di tale aggregazione per il proprio capitale, ha presentato richieste per il capitale del Monte da soddisfare prima dell’operazione in questione, per rischi legali, per i prestiti deteriorati, per gli esuberi di personale, per la parte della Banca da acquisire senza interesse per un’altra parte, per la fruizione della norma “in itinere” che trasforma le imposte differite, nei casi di concentrazioni societarie, in crediti di imposta. Nel complesso, il soddisfacimento di queste che, più che la classica “dote” sono in effetti pretese – ma che erano inscritte nella genesi e nell’impostazione data al negoziato – secondo alcune valutazioni, oscillerebbe tra i 7 e gli 8 miliardi di fondi pubblici, se non addirittura di più. A questo punto il Tesoro non ha potuto continuare il negoziato (sarebbe stato un ulteriore consegnarsi “mani e piedi” al contraente) e con un comunicato congiunto ne ha dato notizia sottolineando l’impegno reciproco delle parti, come se il blocco della trattativa fosse dovuto a un terzo non conosciuto e non agli iniziali vizi di fondo. Gli sviluppi della vicenda, che nasce nel 2007-8 con la sciagurata operazione Antonveneta, purtroppo autorizzata, restano ancora negativi se li si guarda dal lato delle misure introdotte o tentate per il definitivo rilancio del Monte il quale, comunque, presenta segni di ripresa. Concorrono, naturalmente, tutto ciò che si sa sulla storia dell’Istituto, i rapporti con le forze politiche, sociali e finanche religiose, le “porte girevoli” con gli incarichi politici e nella stessa Fondazione. Ma l’Istituto ha avuto pure, in un non vicino passato, un lungo periodo di floridezza, al quale sono seguite scelte sbagliate o una ritrazione rispetto a opportunità di crescita per linee esterne, soprattutto per l’intento di mantenere su di esso il controllo da parte della Fondazione e, comunque, degli enti pubblici territoriali. Tuttavia il colpo mortale è stata l’acquisizione anzidetta – che non si ricorderà mai troppo – la madre degli sviluppi negativi che ne sono seguiti fino a oggi. Un’adeguata sistemazione del Monte richiede, a questo punto, chiarezza estrema sugli obiettivi, la necessità che il termine di scadenza per l’uscita dello Stato dal capitale dell’Istituto (31 dicembre) sia adeguatamente prorogata di concerto con la Commissione Ue, che non si abbandoni affatto l’ipotesi “stand alone”, che un eventuale nuovo negoziato faccia tesoro dell’esperienza nettamente negativa vissuta “in corpore vili” nel rapporto con l’Unicredit. Insomma, si sarà finalmente capito che non si può essere “ab initio” prigionieri di una cattiva impostazione del negoziato. D’altro canto, non si può ancora sbagliare: un “bis in idem” sarebbe disastroso e impedirebbe pure che la soluzione di questo cruciale problema possa essere pure un pilastro per la riorganizzazione e il consolidamento di una parte del sistema bancario. Lo si deve alla storia dell’Istituto, ai dipendenti, al territorio e alla sua economia. È una prova che consentirà pure di saggiare “per facta concludentia” la credibilità che riscuotono anche in questo campo i cosiddetti “Migliori” – i componenti dell’attuale Esecutivo – non solo all’interno, ma anche a livello internazionale, al di là di quel che ripetono i molti “ laudatores”. Insomma, una questione che va ben oltre il pur fondamentale problema dell’Istituto senese. Angelo De Mattia
Mps: giudici, da Profumo e Viola inganno per profitto banca. (ANSA il 7 aprile 2021) E' "ravvisabile un'intenzione d'inganno (...), giacché tale era il fine che animava il nuovo management, ossia rassicurare il mercato in vista dell'incetta di denari che si sarebbe da lì a poco perpetrata con gli aumenti di capitale". Lo si legge nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso ottobre il Tribunale di Milano ha condannato a 6 anni Alessandro Profumo e Fabrizio Viola imputati come ex presidente ed ex ad di Mps. Per i giudici "sussiste" pure un "ingiusto profitto, principalmente in favore della banca stessa, parsa navigare in migliori acque grazie al falso, che ne ha accresciuto la percezione di affidabilità".
(Adnkronos il 7 aprile 2021. ) - "Non residuano dubbi, all'esito dell'istruttoria, circa la piena consapevolezza dell'erroneità della contabilizzazione a saldi aperti, desumibile dal granitico compendio probatorio raccolto, articolato in plurimi e convergenti elementi di significativa pregnanza". E uno dei passaggi delle motivazioni con cui i giudici di Milano, lo scorso 15 ottobre, hanno condannato a sei anni di reclusione e a una multa di 2,5 milioni ciascuno gli ex vertici di Mps, Alessandro Profumo (attuale ad di Leonardo) e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente e ad, per le accuse di aggiotaggio e false comunicazioni sociali (in relazione alla prima semestrale 2015 della banca). Nella decisione relativa al trattamento sanzionarlo, si sottolinea come "i fatti per cui si procede siano stati oggetto di una previsione originaria unitaria e di un medesimo disegno criminoso". Condotte la cui "gravità" di "singolare insidiosità e pure reiteratamente perpetrate, quanto a Profumo e Viola", non possono consentire di concedere le attenuanti generiche. I giudici parlano di una "spiccata capacità a delinquere".
Dal "Fatto quotidiano" il 7 aprile 2021. I governi passano, ma su Mps lo spartito è lo stesso. Ieri l’assemblea dei soci ha respinto l’azione di responsabilità chiesta dal socio Bluebell contro gli ex vertici, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. A votare contro è stato il 97,5% del capitale in assemblea, in primis il Tesoro guidato da Daniele Franco, primo azionista della banca nazionalizzata nel 2017. A ottobre, Profumo (oggi ad di Leonardo) e Viola – il primo presidente di Mps dal 2012 al 2014 il secondo ad fino al 2016 – sono stati condannati per aggiotaggio e per false comunicazioni rispetto alla semestrale 2015 (sono stati prescritti per il bilancio 2012 e “perché il fatto non sussiste” per i bilanci 2013 e 2014) per la vicenda della classificazione a bilancio dei derivati. Bluebell ha proposto, e l’assemblea respinto, l’azione di responsabilità contro i due manager nel 2016 (governo Renzi), nel 2017 (Gentiloni), nel 2018 e 2019 (Conte I e II) e ora, dopo la condanna. Il cda, espressione del Tesoro, l’ha bocciata perchè ancora non sono note le motivazioni della sentenza, ma è difficile che lo scenario cambi in futuro, anche con Draghi. Profumo e Viola furono, per così dire, spediti a Siena dopo il disastro dell’ac - quisizione Antonveneta dell’éra Mussari avallata da Bankitalia (dove sedeva l’attuale premier) e la vulgata finanziaria vuole che siano stati loro nel 2012 (Draghi era già volato in Bce) a scoprire i derivati usati per occultare le perdite, anche se i giudici hanno negato che la vigilanza bancaria fu ostacolata. Solo tre anni dopo, però, i derivati sono stati contabilizzati come tali, un ritardo però avallato dalle authority di vigilanza.
· Le Compagnie assicurative.
Rc auto, indagine sul grande “accordo” tra i comparatori e le compagnie di assicurazione per tenere alti i costi. L’Autorità garante della concorrenza ha avviato una istruttoria e inviato gli ispettori in alcune aziende. Nel mirino i colossi assicurativi e i siti di comparazione, da Segugio a Facile.it. Una conferma dell’inchiesta dell’Espresso sulle tariffe mai scese durante la pandemia. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 21 maggio 2021. Un grande “accordo” tra siti internet che si occupano di calcolare i migliori prezzi della Rc auto e le compagnie assicurative per tenere alti i prezzi anche nell’anno della pandemia, che ha visto diminuire il traffico e quindi anche in numero di incidenti. È questo il sospetto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha avviato un’istruttoria nei confronti delle società 6Sicuro S.p.A., CercAssicurazioni.it S.r.l. (“Segugio”), Daina Finance Ltd, Rappresentanza Generale per l’Italia (“ComparaMeglio”), Facile.it Broker di Assicurazioni, Allianz Direct S.p.A., Admiral Intermediary Services S.A., B2C Innovation S.p.A., Bene Assicurazioni S.p.A, e le principali compagnie assicurative dei veri gruppi, da Unipol a Reale, come la compagnia assicuratrice Linear, la Compagnia Italiana di Previdenza, la Assicurazioni e Riassicurazioni, la Fit srl Società Benefit, Genertel S.p.A., la Hdi Assicurazioni e, ancora, Prima Assicurazioni, Quixa Assicurazioni, Verti Assicurazioni e Zurich Insurance Public Limited Company. L’Espresso con una inchiesta aveva verificato l’anomalia dei prezzi della Rc auto rimasti alti tra il 2020 e il 2021 nonostante il calo del 30 per cento dei sinistri, con conseguente risparmio da parte delle compagnie assicurative per i mancati costi da rimborsi. Adesso l’Antitrust accende più di un faro su questa partita che riguarda milioni di automobilisti: «L’istruttoria - scrive nella delibera - è diretta ad accertare se le società che offrono servizi di comparazione di prezzo e le imprese assicurative coinvolte nel procedimento abbiano realizzato un’intesa restrittiva della concorrenza tramite uno scambio di informazioni sensibili sulle condizioni economiche di vendita diretta delle polizze per la responsabilità civile auto. Secondo l’Autorità, le società avrebbero scambiato - costantemente e con regolarità - informazioni sensibili sulle condizioni economiche di vendita delle polizze Rc auto attraverso la condivisione di report elaborati e distribuiti dalle società di comparazione di prezzo. L’intesa, inoltre, sarebbe stata realizzata almeno dal 2012 e si sarebbe verificata anche durante il periodo del primo lockdown imposto dal Governo per contrastare il diffondersi del Covid-19». In particolare, «grazie all’attuazione dell’intesa, le imprese assicurative sarebbero state in condizione di praticare ai consumatori premi più elevati per le polizze Rc auto, tramite politiche di sconti attenuati dalla conoscenza delle strategie commerciali e della politica di prezzo dei concorrenti nel segmento della vendita diretta». L’indagine parte da una segnalazione, «da ultimo integrata in data 5 marzo 2021», come si legge nella delibera firmata dal presidente Roberto Rustichelli, in base alla quale, «almeno a partire dal 2012, i principali operatori che forniscono servizi di comparazione di prezzo e le principali imprese assicurative avrebbero scambiato informazioni sensibili nel mercato italiano della vendita diretta di polizze per la responsabilità civile auto. Oggetto della segnalazione sono i comportamenti delle principali società attive nel mercato italiano dei servizi di comparazione di polizze assicurative nonché i comportamenti della maggior parte delle principali imprese assicurative presenti anche sulle piattaforme di comparazione le quali, almeno dal 2012, avrebbero coordinato le proprie strategie commerciali nella vendita diretta di polizze Rc auto, praticando ai consumatori finali sconti attenuati grazie alla conoscenza reciproca delle condizioni di vendita offerte sui portali di comparazione. Tale coordinamento avrebbe avuto luogo attraverso un intenso e regolare scambio di informazioni strategiche relative alle condizioni economiche di vendita diretta delle polizze Rc auto. In particolare, le parti avrebbero, costantemente e con regolarità, con modalità che sono cambiate nel tempo, scambiato informazioni sensibili, attraverso la condivisione giornaliera e settimanale di report elaborati e distribuiti dalle società di comparazione di prezzo, riguardanti, tra l’altro, il posizionamento dei concorrenti sui portali di comparazione, la differenza con il premio quotato dai concorrenti, i dati dei consumatori e quelli dei preventivi. Tali scambi avvenivano con cadenza periodica regolare e venivano discussi, tra i comparatori e le singole imprese assicurative, anche durante apposite sessioni di business review. Lo scambio di informazioni avrebbe avuto luogo anche durante il periodo del primo lockdown imposto dal governo per contrastare il diffondersi del virus Covid-19, in modo da evitare che la drastica riduzione del traffico dei veicoli causato dalle misure di confinamento inducesse le compagnie a praticare sconti sui premi ritenuti eccessivamente».
Rc Auto, così le assicurazioni guadagnano grazie alla pandemia. Nell'anno dei lockdown è crollato il numero degli incidenti stradali, ma i prezzi delle polizze auto sono rimasti quasi invariati. E le compagnie hanno moltiplicato i loro profitti. Antonio Fraschilla e Vittorio Malagutti su L'Espresso il 25 gennaio 2021. Hanno incassato e continuano a incassare montagne di soldi. Almeno dieci miliardi di euro di utili negli ultimi sette anni, come confermano le statistiche più aggiornate. Sulla Rc Auto le compagnie assicurative hanno sempre fatto affari d’oro. Ma questa volta è diverso. In questi giorni, molti automobilisti si stanno facendo una semplice domanda: ma se nel 2020 gran parte dell’Italia si è fermata causa pandemia, oppure ha comunque ridotto di molto i suoi spostamenti, perché la mia assicurazione di auto e moto mi costa all’incirca la stessa cifra dell’anno prima? Anzi, in alcuni casi, come denunciano le associazioni dei consumatori, si arriva a pagare una somma addirittura più alta. Va poi considerato che le compagnie propongono al cliente polizze aggiuntive per furto, incendio, tutela legale, cristalli e così via. Un modo come un altro per compensare il calo dei costi della semplice RcAuto, un calo evidente già prima della pandemia, per effetto soprattutto di alcuni interventi di legge che hanno stimolato la concorrenza tra le diverse aziende assicuratrici.
I costi delle assicurazioni. Andrea Pusceddu, delegato al comparto assicurazione per Federconsumatori, ha esaminato i preventivi di alcune compagnie. Spiega Pusceddu: «Prendiamo una Bmw serie 3 guidata da L.L, 44 anni. Il premio pagato nel 2020 è stato di euro 497 per la sola Rc auto. Quello proposto per il rinnovo nel 2021, pur a fronte di un asserito sconto per la qualità della guida monitorata con scatola nera e uno sconto Rc auto, è pari a 533 euro, sempre con la stessa compagnia. L’aumento è del 10 per cento, anche se nei dodici mesi precedenti l’assicurato non ha avuto incidenti. Questo è solo un esempio, ma è più che rappresentativo del comportamento generale delle compagnie», conclude Pusceddu. Prendendo gli stessi parametri, e chiedendo un preventivo ad altre due compagnie (tra le più importanti del settore) la polizza costerebbe da 870 a 920 euro. Quasi il doppio di quanto pagato nel 2020. Federconsumatori ha inoltre monitorato l’andamento del costo della cosiddetta “scatola nera” tra il 2019 e il 2020 in tre città: Napoli, Roma e Milano. Nel 2019, per un cinquantenne in prima classe di merito, a Napoli il costo della polizza poteva variare tra 828 e 1.774 euro, a Roma da 512 a 985 euro e a Milano da 364 a 815 euro. Nel 2020 a Napoli per lo stesso “servizio” il costo è aumentato dall’1 al 6 per cento, a Roma da 3 al 10, a Milano da 1 al 5 per cento. Anche alla luce di questi dati, e considerando il calo di incidenti registrato lo scorso anno, Federconsumatori ha scritto ad Ania, l’Associazione delle compagnie di assicurazione, per chiedere sconti o misure compensative per gli automobilisti italiani, considerando il minore utilizzo dell’auto e i minori sinistri. «Ania ha girato la lettera alle aziende, ma nessuna ha mai risposto», dice Pusceddu. A dire il vero, nei mesi scorsi, non sono mancate le offerte una tantum da parte delle compagnie. Unipol, per esempio, ha regalato un mese di assicurazione Rc auto nel 2020 e a tutti i suoi clienti, anche per polizze diverse, ha garantito un ristoro in caso di ricovero in ospedale per coronavirus. Altre compagnie hanno consentito un ritardo del rinnovo della Rc auto fino a 30 giorni. In generale, secondo l'ultimo report dell'Ivass, l'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, nel terzo trimestre del 2020 il prezzo effettivo della polizza Rc auto è stato in media di 389 euro, in riduzione del 5% (20 euro) su base annua.
Utili alle stelle, pagamenti con il contagocce. D’altronde, la drastica diminuzione degli incidenti per effetto della pandemia si è tradotta in aumento dei margini di guadagno per gli assicuratori. Il gruppo UnipolSai, leader di mercato nelle polizze auto, ha visto crescere del 20 per cento gli utili nei primi nove mesi del 2020, da 557 a 677 milioni. E anche Generali, nel solo ramo danni, ha fatto segnare, a settembre dell’anno scorso, un incremento dei profitti pari al 18,7 per cento. Risultati brillanti, che gli stessi manager assicurativi, nelle relazioni allegate ai conti trimestrali, attribuiscono “alla contrazione della sinistralità”. In altre parole, al crollo del numero degli incidenti stradali nell’anno della pandemia. In realtà il calo è costante ormai da tempo. Nel 2016 le statistiche hanno registrato circa 175 mila sinistri, l’anno successivo mille di meno, 172 mila nel 2018 e nel 2019. Nei primi nove mesi del 2020 i dati raccolti da Istat e Aci segnalano una diminuzione degli incidenti con lesione a persone del 29,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Facendo una proiezione fino al dicembre scorso si arriva a non più di 120 mila sinistri. Riassumendo, gli incidenti diminuiscono da almeno quattro anni e nel 2020, per ovvi motivi legati ai lockdown totali o parziali, il calo è arrivato al 30 per cento. Di conseguenza sono diminuiti anche i costi per le compagnie assicurative, chiamate a rimborsare un numero di gran lunga inferiore di danni legati a sinistri automobilistici. Ecco quindi spiegati gli ottimi risultati di bilancio. Peraltro, secondo i dati pubblicati dall’Ania, già da tempo le assicurazioni fanno affari d’oro con la Rc auto. Spiega Furio Truzzi, presidente di Assoutenti: «Su una raccolta premi complessiva per tutte le imprese del settore di 116,5 miliardi di euro, dal 2012 al 2019 l’utile è stato di 10.430 milioni di euro, pari ad una redditività di quasi il 9 per cento. Un simile margine di profitto rappresenta un record mondiale perché una assicurazione obbligatoria genera una raccolta di liquidità consistente che può essere reinvestita nella parte che non deve essere accantonata obbligatoriamente (le cosiddette riserve tecniche) e soprattutto è un ottimo “gancio” commerciale per vendere al cliente altre polizze molto redditizie (incendio, casa, infortuni)». Va poi segnalato che a fine 2019 erano pendenti oltre 221 mila cause civili e penali, in diminuzione del 4 per cento rispetto al 2018 e del 27 per cento rispetto al 2010. Per far fronte ai rischi potenziali di queste vertenze - le compagnie hanno accantonato riserve per 5,3 miliardi di euro. Una parte di queste riserve - fa notare Assoutenti - sono relative a cause ormai ampiamente istruite, su cui si potrebbe intervenire con misure legislative ad hoc, in modo che le assicurazioni possano essere incentivate a liquidare il danno senza ulteriori indugi, con grande beneficio per l’efficienza della giustizia civile italiana. Senza contare che molti di questi casi sono relativi a lesioni gravi o gravissime e un provvedimento per sveltire le liquidazioni verrebbe incontro alle vittime più fragili.
· Le Compagnie elettriche.
L'Antitrust multa Eni, Enel e Sen per 12,5 milioni di euro: facevano pagare bollette non dovute. La Repubblica il 20 gennaio 2021. L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha deliberato la chiusura dei procedimenti istruttori avviati nei confronti delle società Enel Energia, Servizio Elettrico Nazionale (Sen) ed Eni gas e luce, irrogando una sanzione complessiva di 12,5 milioni di euro. L'Antitrust, spiega una nota, ha infatti accertato l'ingiustificato rigetto delle istanze di prescrizione biennale presentate dagli utenti, a causa della tardiva fatturazione dei consumi di luce e gas, in assenza di elementi idonei a dimostrare che il ritardo fosse dovuto alla responsabilità dei consumatori. Inoltre, durante il procedimento è emerso che Enel Energia e Servizio Elettrico Nazionale addebitavano immediatamente gli importi fatturati soggetti a prescrizione agli utenti che avevano scelto come modalità di pagamento la domiciliazione bancaria/postale o l'uso della carta di credito, talvolta ignorando l'istanza di prescrizione sollevata dagli utenti oppure comunicando loro il relativo rigetto soltanto in seguito. "Considerando la gravità della pratica commerciale scorretta attuata dalle due società, - si legge nella nota - l'Autorità ha sanzionato Enel Energia per 4 milioni di euro e Servizio Elettrico Nazionale per 3,5 milioni di euro, mentre ha irrogato a Eni gas e luce una sanzione di 5 milioni di euro, pari al massimo edittale, a causa del maggior numero di istanze di prescrizione rigettate in proporzione alle istanze presentate dai consumatori e della recidiva in tema di condotte scorrette relative alla prescrizione". Infine, l'Antitrust informa che "Ai sensi dell'art. 1, comma 4, della Legge di Bilancio 2018 (L. 205/2017), per effetto della delibera dell'Autorità, gli utenti interessati hanno diritto ad ottenere entro tre mesi il rimborso dei pagamenti già effettuati a titolo di indebito.
· Le Compagnie telefoniche.
Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 14 gennaio 2021. Troppo comodo, per le grandi compagnie telefoniche, dipingersi semplici intermediarie della truffaldina attività di piccoli fornitori di servizi aggiuntivi telefonici ai danni dei clienti: perché le grandi compagnie guadagnavano pingui percentuali proprio sui «ricavi tossici» del mercato (1,5 miliardi di euro di volume nel 2018) dei servizi aggiuntivi «a zero click», cioè dei giochini, suonerie, meteo, oroscopi, gossip, streaming di video e musica attivati a sovrapprezzo sulla scheda Sim dell'utente senza sua richiesta ma con l'inganno di fraudolenti banner pubblicitari. Per questo ora la gip Stefania Nobile ordina, su richiesta della Procura di Milano per l'ipotesi di reato di «frode informatica», il sequestro preventivo a Wind di ben 21,2 milioni di euro, pari alla «percentuale incamerata da Wind per i servizi attivati pacificamente con modalità fraudolente» fino al novembre 2018 dalle società produttrici di contenuti Brightmobi e Yoom per il tramite della piattaforma tecnologica Pure Bros. Ventuno milioni che diventano in totale 38 milioni se si sommano gli altri precedenti sequestri a carico dei già coinvolti fornitori di servizi (a cominciare dai 12 tolti in estate appunto alle società Brightmobi e Yoom di due giovani informatici italiani a Dubai). E indicativa è anche la nuova contestazione ai tre ex manager Wind (Alessandro Lavezzari, Luigi Saccà, figlio dell'ex direttore generale Rai Agostino, e con minor ruolo Fabio De Grenet), che nell'estate scorsa apparivano indagati solo per la coda penale di un aspro contenzioso civile tra Pure Bros e un fornitore, e ai quali ora è invece contestato il concorso nella medesima frode informatica addebitata ai 7 amministratori o manager di Brightmobi, Yoom e Pure Bros. Sulla base dell'inchiesta del pm Francesco Cajani e del procuratore aggiunto Eugenio Fusco con la GdF, la gip indica la necessità di «meglio delineare nell'organigramma di Wind chi, a conoscenza del meccanismo fraudolento, avesse il potere-dovere di attivarsi per segnalarlo alle autorità competenti e/o risolvere i contratti» tossici. Wind, a riprova della propria terzietà, valorizzava di aver rimborsato ai clienti vittime di truffe 20 milioni, rivalendosi poi sui fornitori: «Ma questi rimborsi - osserva la gip - non assumono rilevanza» perché «si riferiscono a pagamenti di febbraio-agosto 2019, dunque successivi all'ultimo pagamento effettuato verso Brightmobi e Yoom da Pure Bros, che si era nel frattempo vista riconoscere da Wind il 50% del profitto su ogni utenza attivata». Un dato appare comunque istruttivo: dopo il primo round dell'inchiesta milanese, guarda caso le attivazioni di questi servizi truffaldini sono crollate da «30/40.000 al giorno» a «una media di 100 al giorno».
Dagospia il 15 gennaio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Egregio Direttore, Le scrivo su incarico del mio assistito, dott. Alessandro Lavezzari, per rappresentarLe che nell’articolo pubblicato il 14 gennaio 2021 a pag. 24 dell’edizione nazionale cartacea del Corriere della Sera, nonche sul sito della testata corriere.it e riportata una notizia incompleta e non del tutto esatta. Si trascura infatti che il Giudice per le indagini preliminari di Milano, come emerge dall’ordinanza citata, ha disposto il sequestro preventivo esclusivamente in ragione degli elementi indiziari emersi in relazione alla posizione di un altro indagato e non gia a quella del mio assistito. Viceversa, all’interno del provvedimento cautelare, il nome del dott. Lavezzari compare solo nelle vesti del soggetto che, sulla base dei documenti raccolti, semplicemente manifestava preoccupazione ritenendo implicitamente meritevole di verifica, nell’ambito della compliance societaria, proprio quei fatti che, lo si ricorda, sono ancora attualmente oggetto di indagini. Poiche, pertanto, dalla lettura complessiva dell’articolo emerge, in relazione alla figura del mio assistito, una versione travisata dei fatti, Le chiedo di voler modificare la notizia riportata su sito corriere.it, se del caso integrandola, nonche comunque di provvedere, ai sensi dell’art. 8 Legge 47/1948, alla rettifica di quanto riportato nel citato articolo nella collocazione prevista dalla legge e con risalto analogo a quello riservato al brano giornalistico cui la rettifica si riferisce, comunicandoLe che, in difetto, intraprendero le iniziative necessarie volte a tutelare la reputazione personale e professionale del mio assistito. Prof. Avv. Carlo Enrico Paliero
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 15 gennaio 2021. C'è una sorta di «formula della frode», sui servizi telefonici attivati a insaputa degli utenti che non sapevano di pagarli, alla base della quantificazione dei 21,2 milioni sequestrati l'altro ieri dalla gip milanese Patrizia Nobile a Wind, come «percentuale incamerata per i servizi a valore aggiunto attivati pacificamente con modalità fraudolente» fino al novembre 2018 dalle società produttrici di contenuti Brightmobi e Yoom per il tramite della piattaforma tecnologica dell'azienda Pure Bros. E proprio i due giovani informatici italiani di Brightmobi e Yoom, indagati a Dubai e bersaglio già mesi fa di un sequestro di altri 12 milioni, hanno aiutato gli inquirenti a decifrare gli intrecci contrattuali che rendono lucroso per l'intera filiera (compagnie telefoniche, hub tecnologici, produttori di contenuti) il «portar via poco ma a tanti» su questi servizi aggiuntivi «a zero click»: giochi, suonerie, meteo, oroscopi attivati a sovrapprezzo sulla scheda Sim dell'utente senza sua richiesta, ma con fraudolenti banner pubblicitari. Riassunta dagli indagati, la formula V=(B/0,45+Y/0,45) mette in relazione il profitto illecito della compagnia telefonica (in questo caso Wind) con quello di produttori di contenuti (come Brightmobi e Yoom). E si intuisce che altro documento rilevante per l'inchiesta del pm Francesco Cajani e della GdF sia il «quaderno sequestrato in azienda a Alessandro Lavezzari» (uno dei tre ex manager Wind indagati), «dal quale emerge la sua preoccupazione per la perquisizione nella sede di Pure Bros il 9 gennaio 2019»: lo stesso quaderno dal quale Lavezzari, difeso dal professor Carlo Enrico Palliero, ora confida di dimostrare d'aver per tempo posto all'attenzione della società le possibili criticità di questo particolare mercato. Così particolare che intanto la Procura coglie «legami tra Luigi Saccà» (pure indagato ex manager Wind) «e due fornitori di contenuti, di cui ha rispettivamente il 10% e il 33%»: e del resto già mesi fa lo stesso Saccà, pur parlando in generale, ai pm aveva confermato «il diffuso fenomeno di molte società riferibili ai medesimi soggetti», perché «per i proprietari, a seguito di sanzioni con le società precedenti, era più facile continuare a lavorare con Wind e altri operatori. Non facevamo le visure societarie perché la direzione "compliance" di Wind Tre ci disse che non c'era il budget necessario». Più solerte vigilanza, guarda caso, sarebbe stata invece praticata per non rovinare un altro meccanismo della frode, e cioè l'attivazione di servizi non sulle schede Sim dei telefonini dei clienti ma sulle Sim che (specie nella domotica) consentono il trasferimento automatico di dati tra due dispositivi. Gli indagati «dubaiani» hanno infatti raccontato ai pm che dall'hub tecnologico Pure Bros ricevevano centinaia di migliaia di questi numeri «M2m» (cioè «Machine to machine»), ma che «Pure Bros ci fornì anche una sorta di blacklist che conteneva dipendenti di Wind e altri numeri che era meglio non attivare per ragioni di politica interna Wind»: prima, insomma, che finisse a comica, e che a pagare l'oroscopo fosse l'ignara scheda Sim non solo di un frigorifero o di una caldaia, ma magari anche proprio di un manager o cliente importante della compagnia. Nell'estate 2020 i pm avevano segnalato all'Agcom che il sistema delle attivazioni fraudolente, «verificato da noi su Wind», appariva «praticato allo stesso modo da altri operatori», e Agcom aveva avviato ispezioni su Tim e Vodafone: ad oggi o non ne è concluso l'iter o non ne è ancora comunicato sul sito l'esito.
Biagio Simonetta per ilsole24ore.com il 26 novembre 2021. Il Black Friday 2021 si avvicina a lunghi passi, e le offerte sono già attive un po' ovunque. Dall'elettronica di consumo all'arredamento, dai profumi ai gioielli. Amazon già da qualche giorno ha attivato un'area apposita sul sito chiamata “la settimana del Black Friday”, con migliaia di prodotti in saldo (sconti fino al 50%) che condurranno fino al fatidico venerdì nero (il 26 novembre). Ma un po' tutti gli store presentano già offerte, sia nei negozi fisici che sui rispettivi siti: da MediaWorld ad Euronics, da Zalando ad Expert. La settimana appena iniziata, insomma, sarà quella della corsa agli acquisti.
Ma quanto spenderemo?
Secondo le stime dell'Osservatorio eCommerce B2c del Politecnico di Milano, nei giorni compresi tra il Black Friday e il Cyber Monday (dal 26 al 29 novembre prossimi) gli italiani spenderanno online circa 1,8 miliardi di euro (+21% rispetto al 2020). E gli operatori particolarmente aggressivi in termini promozionali realizzeranno anche 6-8 volte il fatturato di un giorno medio. In particolare, l'Osservatorio milanese ritiene che l'acquisto di prodotti supererà gli 1,5 miliardi di euro (+20% circa rispetto a un anno fa). E prevede ottimi i risultati specialmente per alcune categorie come abbigliamento, informatica ed elettronica, gioielli, profumi, prodotti per la cura del corpo, oggetti di arredamento e giocattoli.
Molto bene anche la spesa online di alimentari e vini
«In generale, i mesi di novembre e dicembre saranno particolarmente caldi per l'eCommerce del nostro paese. In questo periodo, infatti, i siti online abiliteranno circa il 25% della spesa online di tutto il 2021» ci ha detto Valentina Pontiggia, direttrice dell'Osservatorio eCommerce B2c Netcomm – Politecnico di Milano. «Anche in vista del Natale, la tendenza sarà quella di promuovere un utilizzo complementare (e non più conflittuale) dei canali. Si lavorerà, quindi, per sfruttare al meglio le peculiarità di ciascuna iniziativa, (velocità e comodità del servizio eCommerce da una parte, aspetto sociale e relazionale del negozio fisico dall'altra) spingendo su modelli di interazione e di vendita integrati come click&collect e ordine eCommerce in store».
Non è più solo un venerdì
Un'altra grande evidenza dice che in Italia, come all'estero, aumentano sempre più i retailer (sia puri online sia tradizionali) che sviluppano delle vere e proprie campagne promozionali, non solo per Black Friday, Cyber Monday e il Singles' Day. Ma trasformano un po' tutto il mese di novembre nel periodo dei saldi. «Vi è infatti la tendenza – aggiunge Pontiggia - già rilevata lo scorso anno, a estendere la durata degli sconti e ad amplificare la portata di questi eventi. Si tratta di giornate spot o di un periodo di promozioni che può durare fino a un intero mese, come nell'Informatica ed elettronica di consumo, nel Beauty e nell'Editoria. L'obiettivo è chiaro: provare a spalmare gli acquisti (e la conseguente distribuzione dei prodotti) su un periodo più lungo ed evitare sovraccarichi e congestioni della rete a ridosso del Natale».
Ottimizzazione dei processi e sostenibilità
Anche in vista delle festività, in Italia l'eCommerce – secondo l'Osservatorio milanese - sarà importante e imprescindibile motore di generazione e di crescita dei consumi. Per gestire questo picco di ordini sarà determinante sviluppare processi strutturati e ingegnerizzati. In queste settimane, dunque, si lavorerà per potenziare logistica e customer care, attraverso investimenti per migliorare produttività e nuove assunzioni. Perlopiù attraverso interventi straordinari (come il ricorso a personale stagionale) sarà però possibile, almeno per ora, garantire all'eCommerce uno sviluppo “sostenibile” e scongiurare alcuni problemi emersi con forza in passato. Complice il clima di tensione e di incertezza, erano state numerose le tensioni registrate in tutto il mondo nel 2020: tra queste la proposta del governo cinese per avere nuove norme antitrust contro i big del settore, le agitazioni lato corrieri per salario e condizioni di lavoro inadeguati e gli scioperi indetti dal sindacato del terziario in Germania e dalla Filt Cgil in Italia.
Truffe e violenze: il Black Friday è brutto (ed è la misura di quanto siamo brutti noi). Andrea Coccia su L'Inkiesta il 23 Novembre 2017. Negli Stati Uniti è una tradizione pluridecennale, negli ultimi anni è arrivata anche qui da noi, ma il Black Friday più che essere una festa del commercio somiglia sempre di più alla folle corse di una mandria di vacche impazzite. Nel novembre del ’15 la giornalista dell’Atlantic Megan Garber scriveva, in un bell’articolo dedicato al Black Friday, che il tradizionale periodo di sconti selvaggi che segue il Giorno del Ringraziamento, ormai allargato anche all’online — il cyber monday — e in forte esportazione anche da noi, non era più semplicemente una giornata, e neppure una semplice stagione come quella tradizionale dei saldi. No, di più, ormai, scriveva Megan Garber «è uno stato mentale». Uno stato mentale, e ci sta tutto, perché per giudicare dai comportamenti tipici dei consumatori durante quelle ore, ormai trasformate in giorni, se non in settimane dai marchi di retail di tutto il mondo, servono gli strumenti della psicologia cognitiva quando non della psichiatria. Uno stato mentale, dunque, ma uno alterato, violento, bestiale. Lo testimoniano centinaia di situazioni ben oltre il limite del disturbo dell’ordine pubblico che ogni anno si verificano nei centri commerciali americani. Pugni, spinte, schiaffi, ogni tanto perfino risse aperte e di gruppo, persone calpestate, malori, non di rado alla fine, tra scatoloni e negozi devastati dalla furia consumista della folla, c’è addirittura chi stila un bollettino con il conto dei morti e dei feriti. Come in una guerra. Ed è così: una guerra, un campo di battaglia grottesco che, se non fosse vero, sembrerebbe scritto da un Mark Twain o un Roald Dahl. A vedere i molti video che si possono trovare facilmente su YouTube c’è veramente da farsi venire la pelle d’oca: decine, centinaia, migliaia di esemplari di homini sapientes regrediti allo stato neoprimitivo di homini consumantes, letteralmente obnubilati e incapaci di intendere, capaci solo di volere. L’immagine più consona è quella della mandria di vacche imbizzarite. Invadono centri commerciali sfondando porte, vetri, facendo a botte tra di loro, calpestandosi, pur di accaparrarsi un televisore, una centrifuga, un telefonino, o qualsiasi altro bene che sia in vendita, rigorosamente con sconti folli, ben oltre il 50 per cento. Eppure, e siamo al secondo livello di inaccettabilità — dopo quella umana, quella economica — dietro quei prezzi si nascondono spesso strategie commerciali che non sono molto lontane dalle truffe. Un paio di anni fa, per il Wall Street Journal, la giornalista Dana Mattioli aveva pubblicato dei dati molto interessanti a riguardo. Quello che veniva fuori dalle sue indagini, coadiuvate da agenzie specializzate e da unioni dei consumatori, era il fatto che, contrariamente a quanto il discorso mediatico e pubblicitario sul Black Friday faccia intendere, quei prezzi e quegli sconti non sono affatto un affare in molti casi, ma truffe, truffe belle e buone. Per esempio, secondo i dati fornitele da Decide — dati del 2012, ma il fenomeno è sempre quello — un televisore Samsung 46 pollici LCD, che durante il Black Friday veniva venduto mediamente a 1355 dollari, un mese prima veniva venduto, sempre mediamente, a 1159. O ancora, giocattoli per bambini che vedono il proprio prezzo aumentato del 31 per cento proprio durante il Black Friday. E l’elenco è lungo, come è lungo quello delle strategie, vecchie come il commercio, per abbindolare i clienti e aumentare i guadagni. «È una roba da pazzi», dichiarava alla giornalista del WSJ un produttore di giocattoli, «arrivano a spendere 3 volte di più per un oggetto che tre settimane prima avrebbero pagato un terzo». Come è possibile? Oculate strategia di oscillazione prezzi, gestione altrettanto furba del magazzino, il resto lo fa l’hype mischiato alla desolazione delle nostre vite e alla frustrazione di donne e uomini i cui cervelli vengono bombardati ogni minuto dalla narrazione tossica dei brand e della pubblicità, del consumismo ormai slegato totalmente da qualsiasi tipo di piacere o di utilità: siamo arrivati al comprare per il comprare, con l’umanità a livelli da protoscimmia che sembra ormai vittima di un esperimento collettivo di darwinismo sociale.
Black Friday, le truffe da evitare per Altroconsumo: dal trucco del “prezzo barrato” alle offerte in scadenza. di Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2021. Tempo di Black Friday, pubblicità e sconti record. Da giorni i vari brand hanno iniziato a presentare offerte e prodotti in saldo ai consumatori, sia nei negozi fisici che online. Ma sono davvero così convenienti le offerte del venerdì nero? Come ricordano da Altroconsumo non sempre Black Friday è infatti sinonimo di “Must Buy” e sapersi orientare tra percentuali e sconti è sempre più fondamentale. Vediamo quindi cosa sapere per evitare brutte sorprese in fase di acquisto.
Attenzione al prezzo barrato
Fra le pratiche ingannevoli più diffuse troviamo il cosiddetto “prezzo barrato” ovvero la cifra che dovrebbe indicare il prezzo non scontato del prodotto. Può accadere che venga inserito nel cartellino o nell’offerta online un prezzo iniziale più alto di quello reale. L’intento è per far percepire un maggiore sconto all’utente che ha come riferimento quindi un prezzo di listino inesistente o gonfiato. Come scoprirlo? Una soluzione e fare una ricerca in rete oppure usare un comparatore di prezzi.
Offerte meno convenienti rispetto al 2020
Dall’inchiesta prezzi di Altroconsumo emerge un altro aspetto da non sottovalutare: quest’anno le offerte risulteranno meno convenienti del solito a causa del generale aumento prezzi del mercato, che interessa in particolar modo il settore tech. «Gli aumenti sono arrivati anche al 26% nel caso dei televisori lcd (limitando i risparmi possibili grazie al bonus tv); aumenti a due cifre anche per tablet e monitor, tanto necessari negli ultimi tempi, tra smart working e Dad», si legge nella nota di Altroconsumo. Ad esempio, se un pc nel 2020 costava 272 euro, oggi ne costa 311. I televisori Lcd sono i prodotti hitech che hanno registrato l’aumento maggiore, del 25,7% rispetto all’anno scorso. Colpa della crisi dei chip ma anche dei tempi dilatati delle spedizioni.
Non solo Black Friday
In genere il Black Friday dura una sola giornata, quella del quarto venerdì di novembre. Ormai però i brand propongono promozioni già dalla settimana precedente. In generale non bisogna mai avere fretta di acquistare. Anche perché è bene sapere che il lunedì successivo al venerdì nero, il cosiddetto Cyber Monday, è la giornata riservata alle offerte hi tech. Spesso più vantaggiose di quelle del Black Friday.
I siti online
Altroconsumo ha anche stilato una classifica dei siti online più affidabili per quanto riguarda la vendita di prodotti online. La valutazione prende in esame due aspetti fondamentali: i diritti e le tutele del consumatore e la soddisfazione degli utenti. Nell’elenco rientrano, ad esempio, Zalando, Hp, Nike, Amazon e anche Apple. Sapere quindi dove cercare le offerte è cruciale soprattutto in tempo di Black Friday.
Black Friday 2021, occhio alle truffe. Ecco come difendersi. La settimana del Black Friday è anche il periodo più ghiotto, per i criminali informatici. Biagio Simonetta su Il Sole 24 ore il 23 novembre 2021. La settimana del Black Friday è anche il periodo più ghiotto, per i criminali informatici. Le truffe online si moltiplicano, proprio sfruttando l'onda degli sconti. Del resto, come riporta un’indagine di AvantGrade.com, soltanto il 13% degli italiani, nel 2020, ha dichiarato di non essere interessato al Black Friday. E allora siamo davanti a un fenomeno che riguarda tutti, e imbattersi in promozioni finte, create ad hoc per ingannare i consumatori, diventa più semplice. Diamo qualche dato. Per esempio quelli di Kaspersky. Nel 2021, il numero totale di tentativi di phishing finanziario che hanno preso di mira i sistemi di pagamento elettronico è più che raddoppiato da settembre (627.560) a ottobre (1.935.905) con un aumento percentuale del 208%. E dal 27 ottobre al 19 novembre, nel periodo subito prima della stagione dei saldi, sono state registrate 221.745 email di spam contenenti le parole “Black Friday”.
Amazon l'esca più utilizzata
I ricercatori di Kaspersky hanno anche analizzato quali tra le più popolari piattaforme di shopping sono state utilizzate come esca per diffondere pagine di phishing. Guardando al numero totale di tentativi di phishing che sfruttano i nomi dei negozi online è stato osservato che Amazon è l’esca più utilizzata. Per la maggior parte del 2021, il secondo più sfruttato è stato eBay, seguito da Alibaba e Mercado Libre.“Durante la stagione del Black Friday assistiamo sempre ad un’intensificazione dell’attività di scamming. Forse un po’ più inaspettata è l’attenzione rivolta ai sistemi di pagamento elettronico. Questa volta, abbiamo scoperto un incredibile aumento del 208% nel numero di attacchi che imitano i sistemi di pagamento più popolari. Naturalmente, ogni nuova applicazione di pagamento è vista dai truffatori come una nuova opportunità per sfruttare potenzialmente gli utenti”, ha detto Tatyana Shcherbakova, security expert at Kaspersky, che ha aggiunto come per proteggersi sia importante «assicurarsi sempre che la pagina di pagamento online sia sicura. Guardate ad esempio alla URL della pagina web per capire se inizia con HTTPS invece del solito HTTP e se è presente l'icona di un lucchetto di fianco alla URL».
Ma i siti ci proteggono?
Interessante anche l'analisi di Proofpoint, azienda che si occupa di security e compliance. Analizzando i 20 siti e-commerce più popolari in Italia, ha rilevato come più di due terzi (14 su 20) abbia implementato il protocollo DMARC (Domain-based Message Authentication, Reporting & Conformance) – che verifica che il presunto dominio del mittente non sia stato falsificato. Il restante 30% non sta proteggendo attivamente i clienti da email provenienti da domini fraudolenti. Ma attenzione. Perché se questa è una buona notizia, lo è solo a metà. Perché solo 6 siti su 20 (30%) hanno implementato il livello più rigoroso e raccomandato della protezione DMARC, “Reject”, che blocca attivamente le email fraudolente prima che raggiungano l'obiettivo. Questo lascia gli acquirenti online del restante 70% dei rivenditori ad alto rischio di una potenziale frode via email. «Con il Black Friday il volume di comunicazioni digitali che viene generato è un'opportunità eccellente da sfruttare per i cybercriminali. - spiega Luca Maiocchi, Country Manager di Proofpoint Italia - Per questo motivo è fondamentale che gli utenti pongano la massima attenzione ai messaggi email in arrivo, adottando in prima battuta un approccio zero trust, per cercare di capire quali siano legittimi e quali no, e agire di conseguenza».
Come difendersi
Ma allora come ci si può difendere da questa ondata di truffe in arrivo? Vediamo un po' di consigli arrivati in queste ore da vari esperti di cybersicurezza:
• Non riutilizzare la stessa password più di una volta, e dunque su più siti di eCommerce. È consigliabile utilizzare un gestore di password.
• Evitare le WiFi non protette, quindi aperte, perché non sono sicure. Su reti del genere, gli hacker possono intercettare i dati trasferiti, compresi i dettagli della carta di credito, password, informazioni sull'account e molto altro.
• Porre massima attenzione ai siti: i cybercriminali creano siti “contraffatti” praticamente identici a quelli di brand famosi. Questi siti possono vendere merce contraffatta (o non esistente), contenere malware e rubare soldi e credenziali
• Proteggersi dal phishing. Le email di phishing conducono a siti poco sicuri che rubano dati sensibili, come credenziali e i dettagli della carta di credito. Fare attenzione anche al phishing via SMS – conosciuto anche come “smishing” – o ai messaggi sui social media. Dunque evitare di cliccare su link poco chiari ricevuti via mail o via messaggi.
• Non cliccare sui link: Consultare direttamente la fonte dell'offerta pubblicizzata visitando il sito ufficiale del brand. Per i codici relativi a offerte speciali, inserirli durante la fase di checkout per verificarne la legittimità.
• Utilizzare un software di sicurezza affidabile che possa identificare gli allegati dannosi e bloccare i siti di phishing, sia sul computer che sui dispositivi mobile
• Controllare il formato dell’URL o l’ortografia del nome dell’azienda. Leggere le recensioni e controllare i dati di registrazione del dominio prima di compilare qualsiasi informazione
• E infine, diffidare delle offerte che sembrano troppo belle per essere vere. Solitamente non lo sono.
Black Friday: ecco tutti i problemi dietro il grande risparmio. Federico D., Giornalista Energia, Aggiornato il 12 Novembre 2021. La redazione di Prontobolletta
Anche quest’anno, nonostante la pandemia, torna il famoso Black Friday con tutte le sue “imperdibili” offerte. Ma cosa c’è dietro questo famoso evento digitale?
Torna anche quest’anno il Black Friday, diventato un’altra tradizione per noi italiani: sono in milioni ormai coloro che si lanciano in acquisti sfrenati in questo periodo. Tutti alla ricerca della migliore offerta sulle varie piattaforme di shopping online, prima fra tutte Amazon. Recentemente, il famoso Black Friday si è evoluto a tal punto da creare un’altra giornata all’insegna degli acquisti: il Cyber Monday, incentrato su prodotti tecnologici.
Nasce successivamente ma ha già scavalcato il Black Friday in termini di numeri: il Cyber Monday, infatti, con i suoi 6,8 milioni di ordini nel 2019 presenta un livello di crescita del 92% rispetto al 2018. Numeri che possiamo capire dato l’interesse sempre maggiore delle persone verso la tecnologia che sta crescendo incessantemente.
Crescita incredibile del Black Friday ma a che prezzo?
Non c’è dubbio che questi eventi ci portino diversi vantaggi in generale e ci permettano di risparmiare ma il tutto a che prezzo? La maggior parte delle persone fa un acquisto senza pensare a ciò che si nasconde dietro.
Oltre ai maggiori imballaggi dei prodotti, la maggior parte degli acquisti riguarda dispositivi tecnologici e composti di plastica difficili da smaltire. Inoltre, l’altro grande problema riguarda l’inquinamento atmosferico, dovuto alle innumerevoli emissioni prodotte dai mezzi di trasporto di questi prodotti.
La stessa Chiara Campione, responsabile dell’unità “Corporate and Consumers” di Greenpeace Italia, riguardo gli effetti di questo evento sull’inquinamento ha dichiarato:
Chiara Campione
“Il Black Friday è diventato uno dei picchi principali di consumismo. Questa sbornia di acquisti genera il più grande volume di rifiuti dell’anno. Un trend pericoloso che mette in pericolo il nostro pianeta. Acquistiamo senza pensarci un secondo, ma la spazzatura che creiamo durerà in alcuni casi per secoli”
Cosa si nasconde dietro il nostro “risparmio”
Ormai ogni innovazione tecnologica deve rispettare certi requisiti per salvaguardare l’ambiente e non peggiorare l’attuale situazione già critica di suo. In particolare, guardando alla qualità dell’aria, ricordiamo che l’Italia detiene, sfortunatamente, il primato europeo per morti premature causate dalla cattiva qualità atmosferica (secondo i dati dell’Agenzia Europea). La causa principale di tutto ciò è il traffico, responsabile per circa 85% delle complessive emissioni.
Riguardo l’inquinamento causato dal trasporto dei prodotti, è interessante calcolare l’effettivo impatto ambientale di particolari mezzi. A grandi linee, sappiamo che la velocità di un mezzo di trasporto è direttamente proporzionale al numero di emissioni che produce. Per esempio, un aereo emette circa 500 g/km di anidride carbonica con 171 tonnellate di merci mentre una nave produce circa 30 g/km con 193 mila tonnellate di merci trasportate.
Il mondo in cui viviamo diverrà sempre più interconnesso e digitale. Tuttavia, le conseguenze di questo progresso tecnologico non saranno tutte positive. Per questo motivo, bisognerà stare attenti non solo a quello che succederà intorno a noi ma, soprattutto, a ciò che si cela dietro ogni cosa.
Questo articolo, redatto per voi da prontobolletta, vuole informare le persone sul Black Friday e sulle conseguenze derivanti da questo evento digitale.
Federico D., Giornalista Energia, Aggiornato il 12 Novembre 2021. La redazione di Prontobolletta
· Il Pacco: Logistica e Distribuzione.
Il pacco, la società del futuro. Report Rai PUNTATA DEL 11/12/2017 di Alberto Nerazzini. Collaborazione di Lorenzo Di Pietro. Le multinazionali della distribuzione. La domanda di trasferimento di merci e materiali è impazzita: trasporto via mare, via cielo, via terra. In questo enorme mercato dove produzione e consumo sono globalizzati, il giro d’affari della logistica esplode e i profitti si concentrano nelle mani di pochi. Ciò che conta sono i risultati, non come questi siano stati raggiunti, perché tutti vogliamo consumare e risparmiare, vogliamo essere soddisfatti, vogliamo che tutto sia puntuale. E puntuale, ogni giorno, va in scena lo sfruttamento, senza regole e senza controllo. Negli immensi hub della logistica, ma anche nei magazzini e negli stabilimenti della nostra “eccellenza” alimentare, ovunque la micidiale macchina di appalti e subappalti, tra società e cooperative false, schiaccia i diritti e il costo del lavoro. Alberto Nerazzini indaga su un settore cruciale dell’economia, dove regnano i soprusi e le illegalità, l’evasione fiscale e gli interessi di un’imprenditoria criminale, spesso espressione diretta della mafia. Un mondo di disuguaglianza e ingiustizia dove si gioca anche il futuro dell’Europa.
PRECISAZIONE DEL 18/12/2017. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: Ci ha scritto il signor Pierino Tulli, re della logistica di cui abbiamo parlato lunedì scorso, e ci scrive che i rilievi fiscali che lo riguardano ammontano a 138 milioni e che i giudizi che ha espresso sui signori Crecco e Giglio sono valutazioni di terzi e non corrispondono al suo pensiero.
IL PACCO. LA SOCIETÀ DEL FUTURO Di Alberto Nerazzini Collaborazione Lorenzo Di Pietro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A proposito, quanta legalità invece c’è dietro un clic, con cui si ordina un pacco? Lo vedremo. Report può cominciare.
ANTONIO IN MACCHINA Questa è la logica del parcheggiare, se vedi come sono messe le macchine. Si parte dal parcheggio, la logica del parcheggio, del parcheggiare con il muso in avanti.
ALBERTO NERAZZINI È proprio una richiesta aziendale.
ANTONIO IN MACCHINA Sì, sì.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Antonio ha lavorato nel cuore logistico di Amazon dal giorno del suo sbarco in Italia. Oggi può parlare perché ad aprile si è licenziato. Era un responsabile, ma non sopportava più le condizioni di lavoro.
ANTONIO IN MACCHINA All’inizio si lavorava bene, poi quando Amazon è diventata il top in Italia “lavora e fatti stare bene quello che ti do”.
PARCHEGGIATORE Salve.
VOCE AL WALKIE TALKIE Ho bisogno di sapere quanti sono, da quanto sono lì…
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO La nostra passeggiata era appena iniziata e non possono interromperla. Ma era tutt’altro che scontato l’invito a incontrare il general manager nella pancia del mega magazzino, dove nei periodi sempre più frequenti di picco, la mano d’opera può arrivare anche alle 4.000 unità, in gran parte somministrate da agenzie interinali. La visita è offerta, nessuno spazio alle ombre, serve ad ammirare l’abbagliante efficienza logistica, e a conoscere le ossessioni della multinazionale: sicurezza, ordine, velocità.
SALVATORE SCHEMBRI VOLPE – GENERAL MANAGER AMAZON Questa voglia di mettersi sempre in gioco per arrivare subito presto con quello che il cliente desidera, quando lo desidera e come lo desidera.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Intanto tra gli scaffali corrono i cosiddetti picker. Per raccogliere gli ordini fanno 20 chilometri al giorno, spronati a rispettare i tempi, a tenere alta la produttività. L’eventuale sfruttamento, però, come fai a vederlo, quando sei un ospite controllato a vista?
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Quel lavoratore col palmare… S
ALVATORE SCHEMBRI VOLPE - GENERAL MANAGER AMAZON Con lo scanner.
ALBERTO NERAZZINI Con lo scanner, comunque lascia, è tracciato, ovviamente. La sua giornata è tracciata dal computer.
SALVATORE SCHEMBRI VOLPE - GENERAL MANAGER AMAZON No, non è tracciata la giornata del lavoratore. Lo scanner gli dice dove deve andare a prendere…
ALBERTO NERAZZINI Vai a F 310 per esempio…
SALVATORE SCHEMBRI VOLPE - GENERAL MANAGER AMAZON E preleva l’articolo che viene richiesto.
ALBERTO NERAZZINI E mi detta il tempo per arrivare lì?
SALVATORE SCHEMBRI VOLPE -GENERAL MANAGER AMAZON Non detta il tempo.
ALBERTO NERAZZINI Non è che mi dice: avrei 48 secondi per arrivare là?
SALVATORE SCHEMBRI VOLPE - GENERAL MANAGER AMAZON No. Non detta il tempo.
ALBERTO NERAZZINI Ah, ecco, qui c’è una barretta con scritto: “tempo per selezionare” il prossimo articolo. RAGAZZA SCANNER Il prossimo, esatto. Noi adesso siamo nella corsia 115, dobbiamo andare nella corsia 117. Un tempo che ti dà modo di rimanere in una produttività positiva.
MEGAFONI CONFEDERALI Noi siamo qua fuori a protestare, a far capire all’azienda che comunque noi non siamo dei robot.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il grande picco produttivo del Black Friday, è davvero una giornata storica: arriva il primo sciopero nell’era di Amazon Italia, e arrivano loro, quelli del SiCobas, il sindacato di base, forte proprio fra i facchini, per la prima volta a fianco dei confederali.
MEGAFONI CONFEDERALI L’unico modo, guardate, nella logistica per far funzionare le cose, per mettere i padroni a cuccia, è bloccare le merci.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO La domanda di trasferimento di merci e materiali è impazzita. Trasporto via mare, via cielo, via terra. Il giro d’affari della logistica continua a crescere e i profitti si concentrano nelle mani di pochi, in questo enorme mercato dove produzione e consumo sono globalizzati.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, il pacco muove un giro d’affari di oltre 1.000 miliardi di euro, questo per l’Europa, mentre, per la sola Italia, 120 miliardi. Ecco e in questi giorni ovviamente, il giro è destinato, di feste, è destinato a salire. Acquistiamo sempre più online, e secondo una stima, uno studio della federazione degli esercenti inglesi, entro il 2025 un terzo dei negozi per strada è destinato a scomparire. A beneficiarne, ovviamente, sono le multinazionali della logistica, della consegna, dell’online, e, a parte Sda che è il corriere di Poste italiane, che è in perdita, poi vedremo perché, ne beneficia Dhl tedesca, ne beneficia il gruppo Tnt ex olandese, che è stato acquistato dall’americana Fedex, ne beneficia la piattaforma cinese Alibaba e Amazon, soprattutto che ogni anno cresce del 40%. Ecco, ma cosa c’è dietro un clic? Dietro alla velocità di consegna? E soprattutto, quando acquistiamo una macchina del caffè online, sulle spalle di chi risparmiamo? Risparmiamo una parte sicuramente sulle spalle di quei lavoratori che in nome dell’innovazione tecnologica vengono scannerizzati per misurarne la produttività e la velocità. E poi sotto l’ombrello delle multinazionali della logistica proliferano, muoiono e mutano società e cooperative. Ecco e poi ci sono i lavoratori che vengono spostati dalla cooperativa che muore a quella che nasce, e in ogni passaggio ci rimettono in diritti e in busta paga. È un mondo dove regnano i ricatti incrociati, l’evasione e dove per far funzionare meglio la macchina, per oliarla, si stendono i tappeti rossi a quelle organizzazioni che sanno controllare il territorio e che, se serve, mettono in riga il lavoratore ribelle. Ecco, questo mondo ce lo racconta Alberto Nerazzini, che, per l’occasione, si è scaraventato giù dal letto di mattina presto, perché il pacco, per arrivare puntuale, parte alle prime luci dell’alba.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Prime luci dell’alba: l’Italia si sveglia e va a lavorare. E in Brianza il lavoro è una cosa seria. Questa è la Toncar di Muggiò, da 50 anni specializzata nella stampa di figurine. Le cose vanno bene e ha aperto una succursale anche in Cina. In tutto ha 13 dipendenti, di cui solo 4 operai. In realtà qui dentro arrivano a essercene anche 200. E spesso la mattina succede qualcosa di strano.
AUDIO RUBATO I documenti, dovete dare i documenti, ho bisogno dei vostri documenti… dopodiché andiamo in caserma.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Tutti gli operai sono assunti a tempo indeterminato da una cooperativa, e per 3, 5, anche 10 anni hanno lavorato solo qui. Ogni mattina però si decide quanti ne servono. Quelli «scartati», giustamente, non ci stanno, ma sono prelevati dai carabinieri e portati in caserma. Quando escono hanno in mano una denuncia per violenza privata.
OPERAIA TONCAR Hanno detto che non potevamo restare lì perché è una proprietà privata. Dicono che dobbiamo aspettare la chiamata e il lavoro a chiamata è fuori legge.
PAPE N’DIAYE – COORDINATORE SICOBAS MILANO Ti dicono devi lavorare come dico io, ti pago come voglio io, e devi stare zitto e andare a casa.
PAPE N’DIAYE – COORDINATORE SICOBAS MILANO Dopo nove anni di anzianità alcuni che lavorano lì, dieci anni di anzianità, alcuni di più, che lavorano lì. Non rispettano niente nel parametro del contratto.
OPERAIA TONCAR Mi vogliono arrestare per questa cosa, perché sto chiedendo i miei diritti, perché sto difendendo il mio posto di lavoro in poche parole.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Oggi il lavoro, in Italia, funziona così. Aziende da 200 dipendenti che ne assumono solo una dozzina. Alcuni di questi operai sono stati addirittura licenziati. Un giudice ha ordinato alla cooperativa di riassumerli con un risarcimento. La sentenza è di due mesi fa, ma ancora nulla.
MARTA FANA – DOTTORE DI RICERCA IN ECONOMIA – SCIENCES PO PARIGI Usano il sistema degli appalti e subappalti: queste scatole cinesi che di fatto poi danno vita a pezzi di mondo che sono delle cooperative che lavorano soltanto come intermediari di manodopera. Quello che la politica ha fatto e non ha fatto, mi permetto di dirlo ad esempio in Italia è stato quello di depenalizzare la somministrazione illecita di manodopera che appunto vive, lo dice l’ispettorato del lavoro, sul ribasso del costo del lavoro. Questa cosa qui non esiste in Francia.
ALBERTO NERAZZINI Lei paragona l’Italia alla Francia perché conosce molto bene la Francia, ma credo che il Jobs Act all’italiana sia diciamo un’avanguardia.
MARTA FANA – DOTTORE DI RICERCA IN ECONOMIA – SCIENCES PO PARIGI È in Italia che esistevano le cooperative che avevano una funzione che poi hanno subito un processo di trasformazione e di riforma fortissimo.
ALBERTO NERAZZINI E dove sono stati i sindacati italiani in tutti questi anni?
MARTA FANA – DOTTORE DI RICERCA IN ECONOMIA – SCIENCES PO PARIGI E i sindacati italiani sono stati in qualche modo incastrati in questo cordone ombelicale con il Pd.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Marta Fana è in giro per presentare il suo libro sul lavoro dove si sofferma sui settori che pesano di più nel sistema economico di oggi. Che sono anche quelli rappresentati da una montagna di retorica e poco raccontati: la digital economy e la logistica.
MARTA FANA – DOTTORE DI RICERCA IN ECONOMIA – SCIENCES PO PARIGI L’azienda ciò di cui ha bisogno è che il cliente sia soddisfatto, non importa quello che ci sta dietro.
ALBERTO NERAZZINI Il costo di questa soddisfazione.
MARTA FANA – DOTTORE DI RICERCA IN ECONOMIA – SCIENCES PO PARIGI Esatto, e non se lo chiede neanche il consumatore.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il leader della logistica Dhl è di proprietà di Deutsche Post, le poste tedesche, 60 miliardi di fatturato, per lei l’Italia rappresenta un mercato pazzesco, dietro solo a Cina e Stati Uniti. Opera in 220 paesi ma praticamente solo da noi non ha dipendenti diretti, e tutto il lavoro lo affida in appalto.
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Sì, il mercato in generale in Italia non solamente per il Dhl è quello di appoggiarsi a dei fornitori esterni. Dipende un po’ dalle condizioni del mercato del lavoro e dalle condizioni morfologiche dove dobbiamo operare. L’Italia è un paese molto lungo, molto difficile, tante montagne, tanti posti remoti.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO E anche tanti problemi. Abbiamo ricevuto tante denunce e segnalazioni anche da ex fornitori del colosso Dhl, sparsi un po’ ovunque. C’è, per esempio, chi prende l’appalto in Campania, ma dentro la filiale trova più lavoratori che sul contratto. La tariffa era già era bassa in partenza, ma così è impossibile.
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Il management iniziò a parlare di ottimizzazione, quindi che loro non potevano riconoscerci degli adeguamenti aggiuntivi, ma bisognava fare saving del personale, quindi per fare in modo di guadagnare qualcosina in più avremmo dovuto mandare a casa sei, sette persone. Volevano che noi dimostrassimo la nostra forza nei confronti dei sindacati. Perché loro hanno fatto sempre guerra al sindacato. Sempre.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Per non perdere la commessa, l’imprenditore esegue, ma non risolve il problema della sostenibilità dell’appalto, perché le tariffe non cambiano. Ma arrivano altre richieste.
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL L’azienda in pratica iniziò a chiederci anche cose che effettivamente noi non riuscivamo a fare. Tipo fare ulteriore allontanamento di personale non gradito. ALBERTO NERAZZINI Addirittura questo passaggio è documentato, cioè la richiesta dell’azienda di allontanare personale non gradito e immagino quelli sindacalizzati.
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Rappresentanti sindacali. Abbiamo acconsentito economicamente sborsando tanti soldi. Perché poi queste persone…
ALBERTO NERAZZINI Io sono curioso. Indicavano proprio le persone?
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Indicavano proprio le persone, espressamente le persone.
ALBERTO NERAZZINI Cioè nome e cognome…
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Sì, sì, tra l’altro c’è tutto il mondo in conoscenza. “Giovanni mi serve un piano serio non solo una dichiarazione d’intenti, ma voglio un piano d’azione concreto”.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Le email sono tante e senza giri di parole, firmate dai massimi dirigenti della multinazionale, con il numero uno spesso in copia. Il fornitore al massimo prende tempo, però continua ad accontentarli, anche se ormai non sembra più un appalto, ma una gestione diretta.
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL L’apoteosi della follia perché venne l’amministratore delegato a Napoli a fare i complimenti alla filiale che era risultata tra le prime filiali d’Italia come qualità del servizio. Tutto contento, Napoli, checché se ne dica, Napoli ha dimostrato di essere una filiale all’avanguardia, lavoratori… Poi rientrammo qui e ci fece trovare la disdetta.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ecco le foto ricordo di quella giornata particolare del giugno 2014, quando il boss di Dhl scende a Napoli per complimentarsi con tutti, mentre a Milano è già pronto il fax di disdetta che annuncia la decisione di indire una nuova gara. Ma è destinato a perderla, assieme a tutti i dipendenti e all’ultima fattura. GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Chiamarono tutti i dipendenti e gli dissero che se avessero firmato le dimissioni per giusta causa, quindi dimissioni per giusta causa non c’era motivo, e avessero fatto una cessione del credito, Dhl gli avrebbe dato sei, settemila euro ciascuno. In pratica che ha fatto Dhl, la mia ultima fattura di 487 mila euro…
ALBERTO NERAZZINI Lei mi sta dicendo che hanno usato quei soldi lì…
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Per comprarsi i sindacati, per il personale. E la cosa allucinante è una presunta cessione di credito e questo credito era lo stipendio.
ALBERTO NERAZZINI Giustamente avrete segnato le vostre perdite.
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Secondo le nostre stime siamo oltre i sette milioni di euro. In uno stato di diritto io non credo che una cosa del genere sia legale.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Interporto di Bologna. Qui c’è uno degli hub più importanti e Daniele Giovannini è mister Dhl in Emilia Romagna: ha lavorato in esclusiva solo per Dhl per 26 anni di fila. Fino al marzo dello scorso anno, quando riceve la solita raccomandata.
ALBERTO NERAZZINI Lei mi dice che a un certo punto è cambiato proprio il vento.
DANIELE GIOVANNINI – EX PRESIDENTE CONSORZIO COTRA Quantità del lavoro sempre di più, tariffe ovviamente mai adeguate, perché non venivano mai adeguate, minacce di disdette, minacce di penali, diffide ad adempiere. Quella era la modalità degli ultimi anni e questo è il motivo per cui a un certo punto a seguito di nostre richieste di adeguamenti hanno disdettato il contratto senza… così, la sera per la mattina, hanno indetto una gara e hanno individuato un nuovo interlocutore che è arrivato, ha preso tutte le persone che lavoravano con noi, che noi avevamo reclutato, formato e creato in tutti, in tutti questi anni.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Anche il fornitore più vecchio e fedele si definisce strozzato. Nell’ultimo periodo perde circa 400 mila euro all’anno. Stesso copione: per anni chiede di rivedere la tariffa, invano. Alla fine Dhl lo molla subito dopo i complimenti alla sua filiale di Rimini. Ecco la foto col capo, a seguire i pasticcini, e la torta, discutibile. Ma dice che anche la gara con cui lo fanno fuori non torna…
DANIELE GIOVANNINI - EX PRESIDENTE CONSORZIO COTRA Dhl nel fare l’offerta fa una serie di prescrizioni su quelle che sono le condizioni. La condizione principale è il fatto di avere in questo caso una settantina di mezzi con determinate caratteristiche. Queste persone non solo non avevano i mezzi nel momento in cui hanno partecipato alla gara, ma non li avevano neanche quando l’hanno vinta.
CLAUDIO SARAGOZZA – EX PRESIDENTE ICOURIERS C’è questo accanimento totale verso… per distruggere le aziende che si ribellano alla Dhl, spingendole verso il fallimento, una volta che arriva il fallimento Dhl smette di pagare. Quindi l’obiettivo è quello di distruggere e lanciare un messaggio tutti gli imprenditori che chiunque si oppone e si mette contro Dhl finisce male.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Claudio Saragozza aveva invece in affidamento la filiale di Treviso. Dice che i problemi arrivano subito, quando in cambio di una tariffa equa si rifiuta di pagare una tangente, una commissione del 5 per cento come consulenza a un’altra società.
CLAUDIO SARAGOZZA - EX PRESIDENTE ICOURIERS Da quel momento, da quando mi sono opposto di pagare la tangente, è scattata una gara a colpirmi, a farmi… a farmi… a non farmi guadagnare, nel senso a farmi rimettere i soldi. E mi abbassarono la tariffa.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Resiste per qualche anno e arriva stremato alla solita gara, nell’ottobre 2016. Nemmeno a lui saldano le ultime fatture e passa tutto nelle mani del nuovo fornitore.
CLAUDIO SARAGOZZA - EX PRESIDENTE ICOURIERS Subentra questa società qua, senza uno dei requisiti fondamentali per operare nel mondo dei trasporti, che è la licenza del trasporto.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO La società che si prende la filiale ha la sede a Pistoia ed è la stessa che vince anche a Bologna. Con questo sistema il rischio è che se una grande committenza si innamora di un fornitore può farlo lavorare con qualsiasi mezzo, anche quando non ce l’ha.
ALBERTO NERAZZINI Lo stile di Dhl è piuttosto aggressivo… è aggressivo sulle…
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Questo lo dice lei.
ALBERTO NERAZZINI Lo dico perché appunto ho raccolto un sacco di documenti anche interni di email per esempio tra dirigenti, parlo del numero due e del numero tre sotto di lei e…
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Non so se è il numero tre o il numero quattro. Non sono d’accordo sulla sua affermazione.
ALBERTO NERAZZINI Voi mettete delle condizioni molto chiare, giustamente. Per esempio tu che partecipi a ‘sta gara devi avere i mezzi. Chi ha vinto non aveva i mezzi.
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Questo è una causa in corso. Non è l’unica che abbiamo. Il giudice decreterà in funzione delle carte processuali chi avrà ragione.
ALBERTO NERAZZINI Qui siamo a Salerno… logistica… Salerno Trasporti e Logistica Italia, ci sono una serie di email, Danilo, Raffaele, Davide, Salvatore, lasciamo perdere i cognomi, persone che devono essere proprio fatte sparire perché iscritte ai sindacati, entro poco tempo.
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Le rispondo come prima, questa è l’opinione del nostro ex fornitore, ci ha fatto causa….
ALBERTO NERAZZINI No, no, dico questa è una email di Cattermole.
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Non so….
ALBERTO NERAZZINI È il numero due, tre, quattro, chi se ne frega, però insomma…
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Non so cosa… sono tutti elementi che fanno parte di questa causa e quindi risponderemo in tribunale alle…
ALBERTO NERAZZINI Rimini se non ricordo male… non so se ricorda quel giorno…
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Non fa una piega nemmeno di fronte alle disdette con complimenti e foto di gruppo perché Dhl giustamente difende la clausola sociale a tutela del lavoratore. Ma allora perché non assumerlo direttamente, così eviti che finisca nelle mani di qualche imprenditore inaffidabile?
ALBERTO NOBIS – PRESIDENTE E AD DHL EXPRESS ITALY Sì, le confermo che è mio piacere e mio dovere ed è la mia profonda convinzione che i vertici aziendali devono essere vicini al lavoratore.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Dalle poste tedesche a quelle nostrane, ma occhio al salto che è importante perché se in Germania in vent’anni si sono spogliati di tutto, anche di una banca di proprietà, per puntare su pacchi e logistica, Poste Italiane ha fatto l’esatto contrario, investendo in prodotti finanziari e assicurativi. E il courier di famiglia Sda, acquistato nel ‘98, oggi arranca nella distribuzione nazionale. Ormai non è più pensabile un paragone. ALBERTO NERAZZINI Lei non è, diciamo, il numero uno di poste italiane, però è il numero uno di Sda.
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA Esatto non sono la persona giusta, diciamo, per poter parlare della strategia globale di Poste.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Lui non sarà la persona giusta, ma chi lo è, l’Amministratore Delegato di Poste, Matteo Del Fante, per due volte in un anno dice no all’intervista e dispiace che nella logistica l’unico grande player in perdita sia proprio quello pubblico. Meno 35 milioni nel 2016.
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA L’obiettivo comunque è portare il più rapidamente possibile il pareggio all’azienda. Quindi quest’anno, fino a settembre, quando abbiamo avuto purtroppo un mese di sciopero, eravamo in linea con quello che era il budget di quest’anno che prevedeva un’ulteriore riduzione.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ripresa dunque rimandata e la responsabilità, dice l’amministratore delegato, è anche del mese di sciopero che ha colpito il cuore dell’azienda. Parliamo di Carpiano, zona sud di Milano, dove Sda ha il suo magazzino più importante.
SCIOPERANTE SICOBAS Non è che siamo bestie. Noi siamo gente pensante, gente che… se tu mi tocchi io rispondo. E rispondo in maniera civile. Noi siamo qua a scioperare.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO La vicenda di Carpiano è soprattutto legata al solito cambio di appalto. Qui la committenza di fatto è pubblica, ma il gioco non cambia. Da una parte c’è il fornitore che gestisce il magazzino, chiedendo da anni un adeguamento delle tariffe e dall’altra Sda, che taglia i ponti, adducendo che la cooperativa dell’appalto non è in regola e solida finanziariamente.
SALVATORE BORDO – PRESIDENTE CONSORZIO CPL Il fatto che io… dicono che non avevo le capacità finanziarie me lo provino. Io ho sempre pagato. Teniamo presente che ho undici appalti, undici piattaforme con Sda, undicesima compresa Carpiano. Allora perché non mi dà la disdetta su tutto?
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il fornitore dice che aveva a posto anche il documento unico di regolarità contributiva, il cosiddetto Durc. Sda ribatte che è stato sistemato in un secondo tempo. Altri due che se la vedranno in tribunale.
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA C’era uno sciopero in atto, quindi aveva dimostrato anche di aver perso anche la capacità di gestire la relazione con, non cinque o dieci, ma con 200 persone che lavorano presso il sito.
ALBERTO NERAZZINI Però sulla rivendicazione, sul blocco diciamo sindacale, sul picchetto, erano lì per difendere le condizioni di lavoro…
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA Sì.
ALBERTO NERAZZINI …sottoscritte con un accordo di secondo livello anche dal precedente appalto, dalla Cgil appunto.
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA Assolutamente sì.
ALBERTO NERAZZINI Quindi, si riparte, clausola sociale, voi verrete…
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA Stesse condizioni dell’appalto precedente. Quindi il secondo livello veniva confermato in toto.
ALBERTO NERAZZINI Si parlava di Jobs Act, si parlava di….
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA Jobs Act è un cambiamento normativo che è intervenuto nel frattempo, quindi chiaramente i contratti precedenti che datavano anni precedenti non facevano riferimento al Jobs Act perché non c’era.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Così oggi ci pensa il Jobs Act a togliere le garanzie dei lavoratori e a dare margini di risparmio alle aziende. Sda non fa eccezione. Di eccezionale c’è solo la pessima gestione del blocco di Carpiano. La sera del 25 settembre quasi 200 persone arrivano in blocco per attaccare lo sciopero selvaggio e far ripartire le consegne. Lo scontro è violentissimo: macchine e furgoni lanciate a grande velocità che rischiano di investire le poche decine di manifestanti. Volano anche le bastonate, le botte e i coltelli. Come dire? A spazzare via il picchetto ci pensino dipendenti, autisti, persone legate ad altri appalti, mentre l’azienda osserva il teatro di guerra al di fuori dei suoi cancelli.
PAPE N’DIAYE – COORDINATORE SICOBAS MILANO Per fortuna uno mi ha tirato il coltello e evitandolo mi ha preso la mano. E qua la faccia. Questa è una bottiglia di birra che comunque… me l’hanno data qui, ho avuto una microfrattura qui. Devi subire. Punto. Sei fonte di ricchezza e devi farti usare, punto.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO In questo contesto vittime e carnefici si confondono. Il capo della Salerno Trasporti denuncia 7 milioni di danno subito da Dhl. Ma può ancora girare con la Maserati da 80mila euro perché ci sono i contratti con altri big, tra cui Sda. E i suoi uomini erano in prima linea nella battaglia di Carpiano.
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Non rompere il c***o. Lavori cinque giorni a settimana, lavori otto ore al giorno, percepisci tutto: ticket pasto, assegni familiari, dalla A alla Z.
ALBERTO NERAZZINI Quando parlava del sindacato era anche abbastanza diciamo moderato, no?
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Beh certo, ma i Cobas non è… è un altro mondo. I Cobas sono i Black Block. Sono sbucati dai cespugli questi signori con le mazze e con le spranghe in mano ed hanno cominciato a colpire le macchine e i furgoni e le persone. I nostri ragazzi, molti si sono fatti male perché stavano in macchina e spaccavano tutto.
ALBERTO NERAZZINI È tutto molto strano però perché lì cespugli non ce ne sono.
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL Beh auto, nascosti, cioè auto, furgoni, sono sbucati all’improvviso. Loro dicono che sono arrivati da giù i camorristi, i mafiosi, stronzate, erano gente che volevano salvaguardare il proprio posto di lavoro.
ALBERTO NERAZZINI Ma il contatto con Sda c’è stato?
GIOVANNI CAMMAROTA – AMMINISTRATORE SALERNO TRASPORTI SRL C’è stato. Sda era informata.
ALBERTO NERAZZINI Dovrebbe essere Sda che si occupa del picchetto, non i lavoratori.
GIOVANNI CAMMAROTA – SALERNO TRASPORTI Eh, ma nessuno interviene.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Sda aveva messo i lucchetti al cancello ed è lei a spezzarli dopo più di un mese. Si riaccende così il magazzino gestito dal nuovo appalto che però produce meno e costa di più.
PAOLO RANGONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SDA È stato giudicato con criteri diversi. È stato un contratto ponte per rassegnare ad inizio 2018 con tariffe standard, a colli e non legate alle ore lavorate.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Vedremo come andrà con il prossimo affidamento, quello vero. Impossibile non dare tra i favoriti il consorzio Metra, che dall’ex palude di Pomezia in soli sette anni, da zero, ha fatto schizzare il fatturato a quota 52 milioni, in gran parte grazie agli appalti del mondo Poste. La sorpresa ce la fanno loro, dicendoci che ci stanno aspettando. Questo signore che se ne va con il mio numero è riuscito a non presentarsi ma è il direttore generale.
DIRETTORE GENERALE DI METRA AL TELEFONO Ci sarebbe la possibilità di incontrarmi domani alle 17.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Prima ci dà appuntamento per il giorno dopo e noi ci organizziamo, ma all’ultimo ritrattano.
INTERLOCUTORE DI METRA AL TELEFONO Per policy aziendale non rilasciamo interviste se non attraverso delle note scritte.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO “Un management formato da figure giovani, dinamiche, con la voglia di fare”, scriveranno nella loro nota. Ma purtroppo nessun confronto sulla gestione di un gruppo da tremila lavoratori, sul successo strepitoso nella corsa all’appalto e sulle mire al magazzino Sda più importante, quello di Carpiano, che fa disperare chi fino a ieri ce lo aveva in mano. Ma anche l’ex è un tipo dalle mille risorse.
ALBERTO NERAZZINI Cercavo delle informazioni su di lei e a un certo punto mi è apparsa, e sono molto curioso, una società con Irene Pivetti.
SALVATORE BORDO – PRESIDENTE CONSORZIO CPL Si, allora, ho aperto una società logistica, però diciamo che sono lavori di importazione-esportazione merce più che dello svolgimento dell’attività all’interno del magazzino è proprio portare la merce nei magazzini.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ex pasionaria di Bossi, ex presidente della Camera, ex candidata di Salvini a Roma. La versione della Pivetti imprenditrice della logistica ci mancava. Ma da quando è presidente dell’Associazione “Amicizia Italia-Cina” deve aver fiutato l’affare.
SALVATORE BORDO – PRESIDENTE CONSORZIO CPL Ha stretto delle relazioni politiche e industriali in Cina. Diciamo lei fa un po’ da vettore.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ma intanto noi dobbiamo ancora fare i conti con le scatole cinesi della nostra logistica, appalti, subappalti, castelli di società e cooperative. Un sistema che moltiplica le opacità, dove la nostra criminalità si muove agile da decenni.
CINZIA MANGANO Sono Cinzia Mangano, ma noi non abbiamo bisogno di presentazioni.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Basta il nome perché è una delle figlie dello stalliere di Berlusconi. Un pezzo d’infanzia se lo è fatto anche lei nella villa di Arcore. Finisce in carcere nel 2013. Un’eredità importante e una dedizione sistematica al crimine investite nella logistica lombarda. VOX TG Avevano messo su una serie di società e cooperative. Facevano false fatturazioni almeno dal 2007.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Reati tributari, fatture false, riciclaggio. Tutto per accumulare le provviste per il clan catanese dei Laudani. La cosca aveva messo le mani sugli appalti della logistica del colosso Lidl, ma forniva anche il servizio di sicurezza all’interno dello stesso palazzo che ordina gli arresti. VOX TG Un sequestro di 250 chili di cocaina e oltre una ventina di arresti.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO E poi droga e logistica. L’ortomercato di Milano, il più grande d’Italia, a metà degli anni Duemila è casa Morabito. Nella sede del suo consorzio con cui prendeva appalti milionari da Dhl, Tnt e Sda, il boss della ‘ndrangheta si era anche costruito il night club. Un’indagine affidata anche al nostro Bellavia, chiamato a far luce sulle attività di un centinaio di cooperative.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN DIRITTO PNALE DELL’ECONOMIA Un sacco di cooperative che avevano tanti dipendenti i quali erano pagati molto poco. E la cooperativa aveva degli utili elevatissimi. Queste cooperative poi compensavano questi grossi utili con una massa enorme di fatture false che venivano generate da altre cooperative. Azzerando gli utili non si ponevano il problema di ridistribuirli ai lavoratori. E non si ponevano il problema di pagare le imposte.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Infine, un passaggio sull’olandese Tnt, oggi di proprietà del gruppo Fedex. Un’ordinanza del 2011 ci racconta cosa succede quando la multinazionale pensa di togliere le commesse ad alcune cooperative mafiose, ma teme che qualcosa possa andare storto. E ci spiega come Tnt a Milano riesce a fare il salto di qualità, grazie al passaggio all’imprenditoria mafiosa di livello superiore, la ‘ndrangheta.
GIUSEPPE GENNARI – GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Durante il dibattimento alcuni avvocati chiedono di sentire dei dipendenti di Tnt. “Siete stati infiltrati dalla mafia, ma come è stata? Come è andata? Come vi siete…” e questo risponde dicendo: “Ma veramente benissimo, perché le consegne…”.
ALBERTO NERAZZINI Erano anni che non si stava così…
GIUSEPPE GENNARI – GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Le consegne erano puntuali, il livello di efficienza si incrementava, e quindi questo secondo me è proprio come uno spaccato perfetto di come lavora, tra virgolette… di come lavorano queste organizzazioni mafiose. Cioè loro riescono a relazionarsi con il tessuto imprenditoriale e rendendo la loro presenza non una presenza sgradita, ma una presenza che diventa un fattore di efficienza.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO L’incontro provvidenziale per Tnt è quello con il cugino di Paolo De Stefano, il patriarca del potentissimo clan di Reggio Calabria ucciso nell‘85. Si chiama Paolo Martino e da anni fa affari al Nord. GIUSEPPE GENNARI – GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Lui rivendicava la sua… come dire… la sua funzione di… la sua professionalità. Lui rivendicava la sua professionalità. Diceva: “Ma abbia pazienza, lei dice che io sono mafioso, ma qual è il problema? Io andavo a parlare con i vertici di Tnt Italia, quelli facevano la radiografia se il mio casellario giudiziario è a disposizione di tutti, non può pensare che questi non sapessero chi fossi. E mi ricevevano”.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Dopo gli arresti, Tnt collabora con la Procura, che però dimostra anche il grado di consapevolezza all’epoca dei fatti. Del resto, il passato turbolento di Martino è talmente vasto che la verifica è facile. Condanne per associazione mafiosa, traffico internazionale di stupefacenti. Condannato anche per un omicidio a Torino, grazie al racconto di chi era con lui.
ORESTE PAGANO – EX NARCOTRAFFICANTE E COLLABORATORE GIUSTIZIA Era la vendetta per la morte di Giorgio Di Stefano. Martino aveva portato il killer che era un suo ragazzo…
ALBERTO NERAZZINI Che era con loro, li accompagnò a Torino.
ORESTE PAGANO – EX NARCOTRAFFICANTE E COLLABORATORE GIUSTIZIA Li accompagnai a Torino perché loro dissero che non sapevano la strada e se gli facevo il piacere di accompagnarli a Torino. E poi mi arrabbiai molto perché dissi mi avete tirato in un tranello perché non sapevo che voi dovevate ammazzare qualcuno.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Pagano era il re del narcotraffico, socio del “boss dei due mondi” Caruana, amico di Cutolo e di Pablo Escobar, dal Sudamerica ha spedito tonnellate di cocaina e sa bene cosa voglia dire riciclare miliardi. Non si sorprende se il boss Paolo Martino, che ha cresimato uno dei suoi figli, è beccato con le mani nella logistica, però in versione imprenditore.
ORESTE PAGANO – EX NARCOTRAFFICANTE E COLLABORATORE GIUSTIZIA Ma quale imprenditore? Martino ha solo i capitali che vengono dalla droga.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO È un mondo alla rovescia. Dove la multinazionale olandese, per aumentare i profitti, finisce nelle braccia della ‘ndrangheta, ci si trova bene, quindi le offre altri appalti.
GIUSEPPE GENNARI – GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Uno di questi personaggi mi dice “a noi ci viene anche chiesto, talmente era andata bene a Milano, ci viene anche chiesto se potevamo andare a risolvere i problemi a Napoli”. Perché pare che anche lì avessero, forse problemi più grossi da quelli milanesi. La risposta che viene data è “No. Noi provvediamo a casa nostra. Non è casa…”.
ALBERTO NERAZZINI Lì è casa loro…
GIUSEPPE GENNARI – GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Lì è casa loro…
ALBERTO NERAZZINI Rispettiamo i confini.
GIUSEPPE GENNARI – GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Rispettiamo i confini. Andate a parlare con chi di competenza.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Un mondo dove il boss pluricondannato fa affari di primo livello, mangia con imprenditori e assessori, oppure accompagna l’amico politico dall’altro compare suo, il re dello spettacolo e dei festini, mentre il criminale un tempo miliardario, che diventa collaboratore di giustizia affidabile e prezioso, se la passa male.
ORESTE PAGANO – EX NARCOTRAFFICANTE E COLLABORATORE GIUSTIZIA Alla fame. Alla fame, senza avermi potuto dare una casa. Vivendo con un assegno sociale di 638 euro al mese, pagando 450 d’affitto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche Pagano ora è costretto a tirare la cinghia. E pensare che, quando è stato arrestato, era praticamente miliardario. Ora collabora sul traffico di droga e sul traffico di armi. Ed è prezioso per via del suo spessore criminale. E’ stato arrestato giovanissimo, ha abbracciato in carcere i boss di mafia e di ‘ndrangheta. Ha abbracciato soprattutto il camorrista Raffaele Cutolo, del quale ha coperto a lungo la latitanza. E lui stesso, da latitante, dal Venezuela, ha riversato tonnellate e tonnellate di cocaina pura sui mercati del Canada, degli Stati Uniti e dell’Europa. Chi meglio delle organizzazioni criminali sa gestire il mercato delle merci e della logistica? E poi, gli vien facile inserirsi in un contesto dove, praticamente, non c’è controllo. Le cooperative, invece di distribuire gli utili, li fanno sparire attraverso la fatturazione falsa. E i lavoratori vengono spostati da cooperativa che muore su quella che nasce. Ed è il meccanismo, diciamo così, delle “porte girevoli” che è stato favorito dall’introduzione oggi del Jobs act, che consente ai dipendenti di uscire con dei diritti acquisiti ed entrare senza. E’ facile fare i furbi se il contesto te lo consente. Abbiamo anche, con il Jobs act, eliminato il reato di somministrazione fraudolenta di mano d’opera. E infatti i casi stanno aumentando. Chi dovrebbe controllare su cooperative e sui diritti sono il ministero dello Sviluppo Economico e quello del Lavoro, che ha inviato, pochi giorni fa, gli ispettori nei capannoni di Amazon. Dovrebbe mandarli un po’ più spesso, in giro, gli ispettori e non solo aspettare, praticamente… in prossimità della messa in onda di alcune trasmissioni televisive. Ma che mondo è? E’ l’altra faccia del mondo dorato dell’e-commerce e della logistica. Però noi abbracciamo tutto il pacchetto e, in nome dell’innovazione, brindiamo. Dopo la pubblicità.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Febbraio 2016, Renzi consegna al governo il commissario per l’Innovazione Diego Piacentini, numero due di Amazon mondo. Dopo cinque mesi riceve il numero uno, Jeff Bezos. Brindisi a un amore ricambiato, ma in cambio di cosa non lo dicono.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Insomma parliamo di tutto quello che gira, in termini di affari, intorno alla consegna di un pacco. Centoventi miliardi di euro ogni anno. Ed è un mercato che è stato sempre in crescita, ed è ancora, e lo sarà ancora per un bel po’. E’ inevitabile che ci si infili o si sia infilato, qualche imprenditore spregiudicato. Il signor Pierino Tulli. Ha creato un impero della logistica. E’ stato il “dominus”, ha gestito 250 società cooperative. Un mago anche nel far sparire i soldi. Secondo la Guardia di Finanza avrebbe provocato un danno all’erario di oltre un miliardo e 700 milioni di euro. Pochi mesi fa, proprio la Guardia di Finanza gli ha sequestrato beni immobili del valore di 100 milioni. Ma come ha costruito la sua fortuna, il signor Tulli? Negli anni Ottanta, da semplice edicolante ha costruito una cooperativa di trasporti. Nel 2004 ha finanziato i Ds, poi è entrato nel frullatore delle polemiche per via degli appalti milionari che ha ottenuto dalla Camera dei Deputati. Vanta amicizie trasversali, tra cui l’ex senatore Cesare Previti, e l’attuale presidente del parlamento europeo, Tajani. I figli giocavano nella squadra, la Cisco, la ex Lodigiani, terza squadra di Roma, in serie C, che Tulli aveva acquistato. Ha provato anche a mettere le mani sulla seconda squadra, la Lazio. Ma gli è andata male, perché poi è passata nelle mani dell'altro "mago" delle cooperative, Claudio Lotito. Tulli ha sulle spalle cinque crac. L’ultimo, più rumoroso, è quello che riguarda il consorzio dell’interporto di Fiumicino. Tuttavia, nonostante questo, alla veneranda età, quasi alla soglia di 80 anni, ha confessato ad Alberto Nerazzini di esser pronto a giocare l’ennesima partita. Dice: «Voglio parlare con Amazon, so che vuole puntare su Roma, gli offro la zona dell'interporto di Fiumicino, che è ancora in mio possesso». Come, poi, non abbiamo capito, visto che è fallito. Ma prima ci tiene a complimentarsi con chi ha indagato a lungo su di lui e l’ha incastrato.
ALBERTO NERAZZINI Allora il lavoro della Finanza, chapeau! Fatto veramente bene, eh?
PIERINO TULLI È la prima volta.
ALBERTO NERAZZINI Gente che lavora bene.
PIERINO TULLI In trent’anni che lavoro c’ho avuto la Finanza un sacco di volte… e devo dire stavolta hanno lavorato bene.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Lo ammette pure lui, che è il primo degli indagati: hanno lavorato bene, ma l’indagine è pesantissima, perché Pierino Tulli, questo signore romano di 76 anni, per la Finanza e la procura era a capo di una organizzazione che con il Consorzio Gesconet e le cooperative della logistica, in una decina d’anni, non ha versato imposte per un totale di un miliardo e 670 milioni di euro. Avete capito bene: un miliardo e 670 milioni.
PIERINO TULLI Hanno cominciato subito a rubare l’Iva.
ALBERTO NERAZZINI Ah quindi mi dice, non era lei.
PIERINO TULLI No… la proprietà era mia. Però io c’ho messo l’amministratore che pensavo essendo giovane…
ALBERTO NERAZZINI Chi è, Ladaga?
PIERINO TULLI Ladaga, sì.
ALBERTO NERAZZINI E quante sono le cooperative ancora oggi che non pagano i contributi, evadono l’Iva? Cioè…
PIERINO TULLI Secondo me l’Iva non la paga nessuno.
ALBERTO NERAZZINI Secondo lei non la paga nessuno?
PIERINO TULLI Nessuno.
ALBERTO NERAZZINI E poi tutti i meccanismi di falsa fatturazione con le cartiere sotto…
PIERINO TULLI Le cartiere sotto le ho scoperte dopo…
ALBERTO NERAZZINI Tutti lo sapevano tranne che il re della logistica!
PIERINO TULLI Guarda, una cosa incredibile!
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO È incredibile davvero, un consorzio che si interfaccia con il committente, le cooperative consorziate di primo livello che svolgono il lavoro, e poi, sotto, quelle di secondo livello, le cartiere che stampano una montagna di fatture false per evadere. E per far sparire i soldi. Tulli accusa di tutto il suo vice, Maurizio Ladaga.
ALBERTO NERAZZINI E poi tutta la composizione della struttura per mettere in piedi il riciclaggio. Era molto complessa… cioè… c’era il Lussemburgo, c’era San Marino.
PIERINO TULLI Nel 2010 si è portato via 23 milioni 648 mila contanti.
ALBERTO NERAZZINI 23 milioni in contanti spariti solo in un anno.
PIERINO TULLI Pensi, il banco di Sardegna nonostante la legge di riciclaggio gli dava 100mila al giorno in contanti. Tutti i giorni.
ALBERTO NERAZZINI Sacchettone e via in macchina.
PIERINO TULLI Portano i soldi in Lussemburgo e poi se li fanno portare a Roma.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ora c’è il processo, che però va a rilento. Comunque l’organizzazione poteva contare su una rete di professionisti. Questa, per esempio, è solo una delle fiduciarie lussemburghesi, quella di Gianni Vittore, che ovviamente qui non trovi più.
LUX FIDUCIARIA Le suggerisco di partire sennò... chiamo la polizia direttamente.
ALBERTO NERAZZINI Ok.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA In più vedo, che in questa indagine, c’è la figura dei consorzi esterni, che è un’altra tipologia.
ALBERTO NERAZZINI Questi consorzi esterni avrebbero diciamo partecipato alla macchina di sovrafatturazione falsa. GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Hanno partecipato a tutti questi meccanismi… connessi al lavoro delle cooperative della logistica e alle evasioni conseguenti.
ALBERTO NERAZZINI C’è un ruolo pure giocato dai consorzi esterni.
PIERINO TULLI I consorzi esterni, Crecco e Giglio ad esempio, questi sono dei ricattatori. Giglio, adesso, quello ancora sta lavorando con Ladaga, io penso che ancora sta fatturando. Pensa che quando Crecco se n’è andato, Maurizio (Ladaga) gli ha dovuto coprire tutti gli affidamenti che aveva preso Crecco. Ha dovuto risarcire le banche per due-tre milioni di euro. Perché Crecco siccome un po’ mette paura…
ALBERTO NERAZZINI Perché mette paura? Tutti dicono così.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO La sorpresa allora è che Massimo Crecco mi aveva invitato nel suo buen retiro in Umbria. Dopo un’esuberante cena di selvaggina, la mattina tutto è pronto per la battuta di caccia al cinghiale. Anche lui è rinviato a giudizio e quindi niente porto d’armi. Ma Crecco è a suo agio anche al comando della trentina di uomini, con cani e fucili, sparsi nei boschi.
ALBERTO NERAZZINI Pierino Tulli non è un caso isolato, no?
MASSIMO CRECCO Pierino Tulli sta a subi’ un processo per questo. Penso che metodi così… penso che secondo me ce ne stavano più di uno.
VOCE DA WALKIE TALKIE ‘Ndo sta il satellitare?
MASSIMO CRECCO AL WALKIE TALKIE Ce l’hai davanti a te, Rodolfo, 250 metri da dove stava prima.
MASSIMO CRECCO Però mo’ stiamo ad un punto di svolta.
ALBERTO NERAZZINI Ovvero?
MASSIMO CRECCO Secondo me quelli che lavorano in una certa maniera sono destinati a finire a stretto giro.
ALBERTO NERAZZINI Gli zozzoni? Ma perché c’è la morsa del controllo o perché?
MASSIMO CRECCO Secondo me sì.
ALBERTO NERAZZINI Sì? Beh, sarebbe ora.
MASSIMO CRECCO Penso che la morsa si stringe sempre di più.
ALBERTO NERAZZINI Metto giù?
MASSIMO CRECCO Metti giù, metti giù. La sai il danno più grosso che puoi fare qual è? È associarmi ai ragazzi. ALBERTO NERAZZINI Un po’ di esperienza gliel’avrai passata?
MASSIMO CRECCO Eh certo! Vedi un po’! E mica solo quella!
ALBERTO NERAZZINI Qualche contatto pure…
MASSIMO CRECCO I contatti non esiste proprio. I contatti hanno fatto tutti da loro. Noi siamo convinti che se tu fai il tuo lavoro con onestà, loro son convinti che prendono solo vantaggi. C’ho la presunzione di dirti che devi essere disonesto per fargli del male.
ALBERTO NERAZZINI Poi ti ripeto, secondo me è un terreno quello della logistica, dove le ambiguità, gli illeciti non mancano.
MASSIMO CRECCO Quello che dico io. Puoi stare tranquillo.
VOCE FUORI CAMPO Spara la botta adesso!
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Crecco non ha più voglia di parlare. E non è il caso di approfittare oltre della sua ospitalità.
[COLPO DI FUCILE] ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Però davvero non si capisce perché non voglia essere associato ai figli, che appena ventenni seguono le sue orme e iniziano a Pomezia una strepitosa carriera nella logistica. Il loro Consorzio Metra, a solo otto anni dalla nascita, oggi fattura 52 milioni. Sono ancora giovani e hanno già superato il padre. Ci presentiamo all’improvviso ed esplode l’applauso perché da otto giorni scioperano nell’indifferenza. Siamo a Castelnuovo Rangone, cuore del distretto modenese della lavorazione delle carni, il più importante d’Europa con i suoi tre miliardi di fatturato.
ALBERTO NERAZZINI Siamo nel mondo delle cooperative spurie?
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Sì. Assolutamente sì, abbiamo già inoltrato una denuncia al ministero dello Sviluppo Economico perché sono cooperative che non hanno vita associativa, cioè irregolarità…
ALBERTO NERAZZINI Cioè solita storia, cooperative che non pagano i contributi, Tfr che se ne va a quel paese…
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Esatto.
ALBERTO NERAZZINI E nascono e muoiono anche in questo caso, sono cambiati… sì?
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO È un sistema.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO L’azienda Castelfrigo sforna pancette e gole. Qui troviamo la Cgil, contro le cooperative spurie che licenziano in blocco la metà dei lavoratori. E nel regno delle carni, quasi tutti continuano ad applicare il contratto della logistica.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Io non lo devo toccare il coltello e il coltellino. Abbiamo lavorato tutti coltello e coltellino.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Per 15 anni gli hanno applicato il contratto sbagliato.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Forse di più, 20 forse.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Sì.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO In un anno e mezzo ci hanno fatto di tutto.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Un anno e mezzo fa riescono a strappare il contratto da alimentaristi. Però non se lo godono neanche un giorno. Prima gli tagliano le ore, e poi li lasciano direttamente fuori. I licenziati sono proprio quelli che avevano osato lottare per un diritto.
MANIFESTANTI FUORI DALLA FABBRICA Avanti! Tutti dal padrone! Servi!
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO All’alba entrano quelli che non protestano, magari per paura, buttati dentro uno a uno dal responsabile del Consorzio, il signor Mimmo Melone di Caserta, che è supportato anche da un albanese, Ilia Miltjan, detto Elio o «Codino». La Polizia che lo arresta assieme ad altri 50 nel 2013 per traffico internazionale di eroina gli intitola l’operazione «Codino», perché era ai vertici dell’organizzazione.
EX LAVORATORI COOPERATIVA Sì, sì, lui porta la gente. Come animali, come animali.
EX LAVORATORI COOPERATIVA Lui ha chiamato. Sono entrati tre quattro adesso.
EX LAVORATORI COOPERATIVA Li vanno a prendere e li portan dentro.
ALBERTO NERAZZINI Da dietro. EX LAVORATORI COOPERATIVA Sì.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il caporale sarebbe un pregiudicato di un certo livello, mentre loro restano l’anello basso ma cruciale della cosiddetta eccellenza delle carni italiane. Difficile dare un ordine all’elenco di illegalità e sfruttamento. Questo giovane rumeno ha avuto diciassette proroghe di un contratto di un mese.
ALBERTO NERAZZINI Diciassette proroghe?
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Che la legge non lo permette.
ALBERTO NERAZZINI Che è un record forse. Potrebbe andare…
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Abbiamo fatto denuncia all’ispettorato.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Le proroghe non potrebbero essere più di cinque, ma forse qui si va in deroga e si ragiona con i multipli. Mostrano le buste paga sbagliate e i doppi bonifici dal conto della cooperativa, perché parte del dovuto è sganciata in nero, evadendo di tutto e di più.
ALBERTO NERAZZINI Fuori busta?
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Fuori busta.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Banca, lo stesso giorno: 1.415.
ALBERTO NERAZZINI Che è quello della busta.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Sì. La stessa società, lo stesso giorno, data contabile, data valuta, 360 euro.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO E poi c’è il macigno grottesco della consolidata evasione delle cooperative che ricade sui presunti soci-lavoratori.
ALBERTO NERAZZINI Quarantasettemila euro.
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Andate a recuperare sulle loro buste, da loro, l’Irpef che loro non avevano pagato. ALBERTO NERAZZINI Questa è la multa alla cooperativa?
LIVE CASTELFRIGO PICCHETTO Sì poca roba. Arriva a un milione e mezzo tutto quanto.
MANIFESTAZIONE Fuori i caporali! Fuori i caporali!
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il picchetto si sposta nella piazza del Comune, dove il maiale è onorato con una statua, perché qui, grazie a lui, ci mangiano tutti. La cittadinanza però non partecipa. C’è invece uno dei prestanome delle cooperative. È questo operaio albanese che ha firmato tutto quello che c’era da firmare, in cambio della promessa di un lavoro.
ALBERTO NERAZZINI Chi è che le ha fatto firmare?
VOCI Dici tutta la verità, ormai…
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Oggi ha paura, anche perché la Finanza lo insegue per una evasione di milioni di euro. Solo una decina di giorni fa arriva il recesso dell’appalto della Castelfrigo con il licenziamento di tutti gli operai. Tutto è ancora in piedi, invece, quando trovo Mimmo Melone, il responsabile del consorzio.
MIMMO MELONE Si dovrebbe decidere lo Stato a cambiare queste cose.
ALBERTO NERAZZINI Va bene, però ci sono milioni e milioni di evasione Iva… evasione...
MIMMO MELONE Si ma questo è dovuto a …
ALBERTO NERAZZINI Quindi voi siete, nella migliore delle ipotesi, al momento insomma… degli evasori. MIMMO MELONE Va bene, questo lo dice la legge… c’hanno creato dei problemi seri i ragazzi che lavorano all’interno dell’azienda, non producendo più. Io sono un facchino, io non sono un imprenditore. Io sono nato facchino, nell’86-87.
ALBERTO NERAZZINI Quindi il mondo della logistica lo conosce bene.
MIMMO MELONE Io sono nato nei camion, nei bilici a scaricare. Più dei negri, più degli albanesi, più dei rumeni. Abbiamo sempre lavorato. Fanno vedere che loro si tagliano… io son tutto tagliato e non ho mai detto niente, ho sempre lavorato con umiltà e onestà. Non scrivere niente eh, e non registrare niente... no, perché mi incazzo… eh!
ALBERTO NERAZZINI Non ti incazzare.
MIMMO MELONE No perché mi incazzo, ti butto addosso gli avvocati eh… c’è qualche macchina che mi sta riprendendo?
ALBERTO NERAZZINI Ci sarà il mio collega che sta facendo il suo lavoro.
MIMMO MELONE Eh no però eh, vedi?
ALBERTO NERAZZINI Io sono un giornalista.
MIMMO MELONE Io non voglio uscire per televisione. Perché non è una cosa giusta.
ALBERTO NERAZZINI Però dobbiamo verificarle, devo sentire cosa dice il consorzio.
MIMMO MELONE Tu registra questo però: i sindacati, le buste che si sono presi da cinquemila e settemila euro. C’ho i video, perché io li ho ripresi quei coglioni, non ti preoccupare.
ALBERTO NERAZZINI Ah vedi che riprendi anche tu?
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO L’unica comodità di questo sistema è che ti bastano pochi chilometri per verificarlo. Cambiano giusto le facce, qualche volta le origini.
LAVORATORE Abbiamo questo qua, fra tre anni va in pensione non hanno pagato nulla di contributi.
ALBERTO NERAZZINI Non glieli hanno mai versati?
LAVORATORE Niente.
ALBERTO NERAZZINI Anche qui c’è un lavoratore che è stato preso e messo a presidente.
LAVORATORE Sì sì. Secondo te presidente, vai a vedere la sua macchina, a uno che ha macchina vecchia che costa cinquecento euro e lavora con me, insieme, facchinaggio, e lavora sotto un capo cantiere, secondo te una cosa credibile questa?
ALBERTO NERAZZINI Ed è tunisino?
LAVORATORE Sì, tunisino.
LAVORATORE Se lo sanno i clienti questa carne qua, come la fanno… nessuno la compra.
LAVORATORE Questa è una cassetta.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Al facchino della carne può capitare di trovare i vermi nelle casse piene di maiale che arriva tutto dall’estero. Siamo alla Suincom comune di Castelvetro, duecentoventi milioni di fatturato, dove lavorano ben cinque cooperative. Quelli fuori gridano: basta buste paga irregolari, basta prestanome. Soprattutto chiedono il contratto alimentare. Il solito.
(SINDACATO SICOBAS?) Li vogliamo mettere a posto sti lavoratori? Questo voglio capire. Sì o no? Punto. E ci devono dare risposta chiara.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Qui la protesta è organizzata da Sicobas. Dal sindaco va in scena l’incontro con la proprietà che tenta di rinviare perché la cooperativa è assente. I Cobas rispondono all’attacco con un gioco veloce che la difesa sembra accusare. Lo scontro dura tre ore, tanti i momenti accesi ma il metodo battagliero funziona. Ecco la firma che anticipa il cambio del contratto, però per il padrone, Roberto Agnani, ‘sti lavoratori si stanno montando la testa.
ROBERTO AGNANI Sei euro e cinquanta netti che è quello che prende meno di tutti quanti, porta a casa con duecento euro al mese, a nove ore al giorno sono duecento euro, porta a casa 1.300 euro pulite. Ma sa quanta gente c’è che prende 1.300? Lei pensi che in Italia c’è il 95 per cento degli italiani che denuncia 15.000 euro lordi all’anno.
ALBERTO NERAZZINI Si ma vede che già è un altro discorso?
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO E forse cominciamo a capire che le tasse non le pagano proprio tutti. Comunque proprio quando ti domandi cosa stiamo mangiando e che cavolo di filiera alimentare abbiamo messo in piedi, a Bologna va in onda un altro film, qui niente punti interrogativi, solo esclamativi.
PAOLO GENTILONI Fico è l’Italia. Nel senso che qui voi trovate un riassunto di quello che noi siamo, in qualche modo. VOCE FUORI CAMPO Benvenuti a tutti…
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Non sarà la benvenuta ma è l’Italia anche quella fuori: gli studenti con i Cobas, i lavoratori della Castelfrigo con la Cgil, in fondo quando ti ricapita il Fico, la fabbrica italiana contadina da 163 milioni che parte con un dispiegamento che manco la spedizione italiana su Marte. Vecchie star del territorio, un sindaco, un presidente di regione, un premier, e poi una raffica di ministri: Agricoltura, Beni culturali e Turismo, Ambiente e quello del Lavoro. Già, il ministro Poletti, la richiesta di una breve intervista è del 17 ottobre, nessuna risposta. E allora io lo cerco un po’ ovunque. Al ritrovo dei giovani di Confcommercio mi chiede una nuova email. Un altro silenzio. Non mi do pace ma quello al congresso delle coop sociali più che un saluto sembra un addio. Poi sancito dal freddo telegramma via email che chiude per sempre la porta all’intervista. Almeno qui trovo uno dei pochi che interviene sull’emergenza della logistica.
FRANCESCO BOCCIA – PRESIDENTE COMMISSIONE BILANCIO CAMERA DEI DEPUTATI Io sullo sfondo vedo un grande pericolo, che si sommi il potere del commercio quasi controllato elettronico da Amazon e il potere di Amazon sulle piattaforme logistiche.
ALBERTO NERAZZINI Renzi cosa ha fatto? Ha preso il vicepresidente di Amazon e l’ha chiamato come consulente al governo. Lei mi sembra molto solo, caro Boccia.
FRANCESCO BOCCIA – PRESIDENTE COMMISSIONE BILANCIO CAMERA DEI DEPUTATI Non ce l’ho con lui ma vorrei che giurasse fedeltà alla Repubblica e non a Bezos.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Febbraio 2016. Renzi consegna al governo il commissario per l’innovazione, Diego Piacentini, numero due di Amazon mondo. Cinque mesi dopo riceve il numero uno, Jeff Bezos. Brindisi a un amore ricambiato, ma in cambio di cosa non lo dicono. Intanto il commissario vuole semplificare anche la nostra burocrazia fiscale.
DIEGO PIACENTINI L’evasione fiscale è di due tipi. Una è “evado perché sono conscio di evadere”, l’altra “è complicato”, “mi sono dimenticato”, “non sono organizzato”.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO In realtà ci sono anche quelli come la sua Amazon che invece si organizzano eccome, per annullare, o quasi, il carico fiscale. Cinque giorni fa la Guardia di Finanza gli contesta un’evasione di circa centotrenta milioni su un giro d’affari di due miliardi e mezzo. Come è possibile? Il primo segreto sta nella struttura societaria.
ALBERTO NERAZZINI La struttura di Amazon, in Italia, vuol dire fondamentalmente due strutture, due società: Amazon Italia logistica S.r.l. e poi c’è la stabile organizzazione. Questa stabile organizzazione è in realtà una società lussemburghese, no? Perché se io compro questo videogioco da casa mia la fattura mi arriva dal Lussemburgo, giusto?
SALVATORE SCHEMBRI VOLPE – GENERAL MANAGER AMAZON Immagino di sì.
ALBERTO NERAZZINI Immagina di sì perché non…?
SALVATORE SCHEMBRI VOLPE – GENERAL MANAGER AMAZON Non sono tematiche che in effetti gestiamo a livello di magazzino, per cui…
ALBERTO NERAZZINI Voi lo sapete che siete una società lussemburghese, questo sì?
ELENA COTTINI – PUBBLICHE RELAZIONI AMAZON Sì certo però come dicevamo prima…
ALBERTO NERAZZINI Sì, certo, però facciamolo, mi trovate la persona. Tanto son poche domande. Giusto…
ELENA COTTINI – PUBBLICHE RELAZIONI AMAZON Va bene.
ALBERTO NERAZZINI Alla fine l’interlocutore non ce lo daranno. Comunque Amazon non ha una società di diritto italiano, a parte quella dei facchini, chiamiamola così. In Italia opera con la stabile organizzazione di una società lussemburghese che è questa qui: la Amazon Eu S.a.r.l. Tutti gli utili delle vendite del continente finiscono qui dove poi basta fare un patto.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Il governo del Lussemburgo aveva fatto un accordo di tassazione estremamente favorevole con questa società consentendole di poter contabilizzare come costi una massa enorme di royalties pari a due terzi dei suoi utili.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO E così gli utili sono liberi di uscire dall’Europa e volare negli Stati Uniti. Allora le tasse le pagano a casa loro?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Uno dice: ma Amazon è di Seattle? Delaware…
ALBERTO NERAZZINI Il vero offshore americano…
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Il vero offshore americano.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Due mesi fa interviene il commissario per la concorrenza che ordina al Lussemburgo di farsi dare indietro da Amazon duecentocinquanta milioni più interessi. Due paradossi. Il piccolo Stato membro non ha nessuna intenzione di andarsi a prendere i soldi, come già fatto dall’Irlanda con Apple e poi il secondo.
EVA JOLY – DEPUTATO EUROPEO GRUPPO VERDI - ICRICT E’ un paradosso che i soldi di queste frodi debbano andare all’Irlanda o al Lussemburgo, che sono i promotori della frode. Dovrebbero essere spartiti tra gli Stati vittima, e non tra gli Stati malfattori, ma questa è una delle conseguenze del fatto che ci affidiamo alle regole sulla concorrenza. Non è lo strumento adeguato, ma è il solo che abbiamo. Servono delle regole. Noi politici dobbiamo mettere dei limiti a tutto questo. Vale a dire ripartire i profitti di Amazon, sul numero di clic realizzati da ciascun paese. E anche sul numero di informazioni personali che ha raccolto e trasforma in pubblicità.
ALBERTO NERAZZINI Questa è la situazione politica in Europa ma serve anche la consapevolezza dei cittadini.
EVA JOLY – DEPUTATO EUROPEO GRUPPO VERDI - ICRICT Io penso che si stia realizzando. E per me è una questione di vitale importanza per il futuro dell’Europa. Se non riusciamo a mettere fine a tutte queste frodi, a tutti questi vantaggi indotti che aumentano le disuguaglianze e l’instabilità finanziaria, se non ci riusciamo adesso, si metterà molto male per il futuro dell’Europa. E intanto è chiaro che Amazon sta distruggendo posti di lavoro, e insieme, distrugge il nostro modo di vivere.
ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Alla fine analizziamo i bilanci degli ultimi vent’anni di Amazon, facendo una stima su tre parametri: utile netto, liquidità e fatturato, che è il nodo di tutto, ogni anno aumenta del 30-40 per cento, inesorabilmente.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Sempre 14, 19, 25, 34, 48, 61, 107, 135, 175 miliardi di dollari nel 2017. Guadagna mica tanto: prevedono due miliardi su 175 miliardi. Quindi io credo che questo Bezos non stia lavorando per guadagnare, stia lavorando per prendere il mercato. Ma quale mercato, il mondo? Questo sta prendendo il commercio mondiale. Perché fra cinque anni, questi 175 miliardi di dollari, con questi tassi di crescita del 30 percento all’anno a quanto arrivano a cinquecento miliardi di dollari? Cosa fa si compra l’America?
ALBERTO NERAZZINI Non vuole secondo lei guadagnare, per ora non vuole guadagnare…
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Questa è l’impressione. Non vuole o non riesce. Perché lui tiene i prezzi bassi della merce, tende a regalare la logistica. L’unico dato, anche in confronto alle altre web company che spicca, è che lui aumenta drammaticamente il suo fatturato a scapito di tutti gli altri parametri. E adesso sta aumentando notevolmente anche la liquidità perché è arrivato ad avere 20 miliardi di dollari, liquidi, per acquisire. E se acquisisce aumenta il fatturato, aumenta, aumenta, aumenta… dove vuole andare Bezos? Quando fanno così prima o poi …
ALBERTO NERAZZINI ...alzano i prezzi.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Alzano i prezzi. E a quel punto, uno non può fare diversamente perché non c’è più il resto.
ALBERTO NERAZZINI Potrebbe essere questo il piano?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Però è un piano planetario questo qua, eh. ALBERTO NERAZZINI Esatto. Mostruoso…
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Si vede dai bilanci…
ALBERTO NERAZZINI Sembra quasi un film di fantascienza.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA Sembra quasi un film di fantascienza, sì. Però è molto interessante.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche un po’ scioccante. Però, se il modello di Jeff Bezos è vincente, e indubbiamente lo è, potrebbe venire la tentazione di clonarlo. Ma questo fenomeno va governato, altrimenti si rischia di pagare un prezzo troppo alto. Avremmo voluto fare qualche domanda al ministro Poletti, ma è scappato di corsa. Forse aveva un pacco urgente anche lui da ritirare. Comunque, scannerizzare i dipendenti per misurarne la produttività è una cosa che non si può guardare. E’ la versione 4.0 della catena di montaggio. E poi c’è anche un altro prezzo, quello dei posti di lavoro che vengono perduti. Che sembra un ossimoro, se lo metti al fianco a una società che cresce di fatturato del 40% ogni anno. Una stima, negli Stati Uniti, prevede che 170mila lavoratori perdono il proprio posto di lavoro nei negozi, e – dall’altra parte, invece – Amazon ha assunto 75mila robot al posto di umani. Questo perché ha i suoi vantaggi: il robot non ti organizza picchetti, non ti chiede il versamento di contributi e non ti fa una causa se le cose vanno male. Al piano planetario di Amazon, contribuisce anche un’inconsapevole commessa che compra online. Contribuisce nel dare innanzitutto i propri dati, che è merce preziosa per Amazon. Ma acquistando una lampadina online contribuisce a far calare la saracinesca al negozio di elettrodomestici che è sotto casa. Contribuisce a spostare i profitti dal proprio paese in quello off shore o in quello dove viene applicato il tax ruling. Ci mette ogni tanto, tenta di metterci ogni tanto una pezza il commissario europeo alla Concorrenza, ma lo fa – ormai – a danni fatti e dopo decenni. Perché quello che tu risparmi comprando online, lo paghi in welfare, lo paghi in costi sociali, lo paghi in cassa integrazione o anche per riparare i danni di un territorio, perché un negozio chiuso, una strada abbandonata è preda del degrado. Ed è un costo anche quello. C’è chi, tutto questo, la chiama innovazione. Per importarla abbiamo, il nostro governo ha arruolato un manager bocconiano, Diego Piacentini, capacissimo, che è però anche il numero due di Amazon nel mondo. Quello che vorremmo chiedere al dottor Piacentini è se la cura che ha in mente per l’Italia è quella del modello di Amazon. E poi, un’altra questione: “Visto che lei è in prestito, dottor Piacentini, da Amazon, è in aspettativa, se dovesse fare una politica a favore del nostro paese, che è poi anche il suo, che penalizzasse però Amazon, come pensa che l’accoglieranno al suo rientro, a braccia aperte?”. Ecco, insomma, questa è una questione… Vanno bene gli investimenti che sta facendo Amazon nel nostro paese, siano benedetti, però facciamogli pagare un po’ più di tasse. E ora passiamo al “pacco”, quello che ti tirano quando compri un falso. Diciannove milioni di italiani comprano on line. Chi li tutela dal rischio di portarsi a casa un falso d’autore?
F come falso. Report Rai. PUNTATA DEL 11/12/2017 di Luca Chianca. In Italia 19 milioni di persone comprano online. Ma su Amazon e Ebay, come anche sulle piattaforme cinesi Alibaba e Taobao gira una quantità incalcolabile di prodotti di marca taroccati. Come si riconoscono? Basta scegliere dei marchi noti e fare una ricerca online. Se esce un prodotto con il prezzo molto diverso da quello originale, è probabile che sia un falso. C’è una gran quantità di prodotti contraffatti anche tra i pezzi di ricambio, che poi si mescolano con il prodotto originale creando danni al consumatore o all’azienda quando deve riparare in garanzia. Dall'inizio dell'anno a oggi dai nostri aeroporti sono entrati in Italia ben 2,6 milioni di pacchetti, ma l'Agenzia delle dogane riesce a controllare solo il 5% della merce. Il nostro viaggio nei falsi inizia a San Marino e finisce in Cina: siamo stati laddove la merce viene prodotta.
F COME FALSO di Luca Chianca
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora passiamo al pacco, quello che ti tirano quando compri un falso, 19 milioni di italiani comprano online, chi li tutela dal rischio di portarsi a casa un falso d’autore?
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Hong Kong dista solo un paio d'ore di macchina da Canton e rappresenta il suo sbocco naturale al mare con uno dei porti più grandi al mondo.
PAOLO BECONCINI – AVVOCATO SQUIRE PATTON BOGGS É un po’ una coppia ideale: la Cina produce e Hong Kong spedisce, praticamente. Se si seguisse con un ideale GPS un cargo pieno di prodotti contraffatti lo si potrebbe vedere marciare giù giù da Hong Kong, passare da Singapore e finire ad Abu Dhabi, o Dubai, dove - è notorio - sono centri di smistamento importanti nell’ambito della contraffazione.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Qui invece finisce la merce dei corrieri espressi che parte da tutto il mondo, viene smistata a Lipsia e poi entra in Italia. Aeroporto di Orio al Serio, vicino Bergamo, ore 3 del mattino.
LUCA CHIANCA Sarebbe possibile, da parte vostra, un controllo sulla merce che transita?
SIMONA LERTORA – UFFICIO STAMPA DHL Mah…dipende che tipo di controllo si intende. Noi non abbiamo le competenze anche per definire se una merce è contraffatta o no. Non abbiamo proprio le competenze. É per questo che collaboriamo con l’Agenzia, mettendo a disposizione le informazioni tali, che possono servire all’Agenzia per individuare eventuali traffici di merce contraffatta.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'Agenzia delle dogane, invece, ogni giorno seleziona il materiale sospetto in base alla descrizione del prodotto, al peso o al mittente e poi inizia i controlli. E tra cavi della Apple, portafogli della Disney, troviamo anche le maglie di calcio.
LUCA CHIANCA Questa è falsa…
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dall'inizio dell'anno ad oggi dai nostri aeroporti sono entrati in Italia ben 2,6 milioni di pacchetti.
EDOARDO FRANCESCO MAZZILLI - INVESTIGAZIONI ANTIFRODE - AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Di quelli noi controlliamo circa una percentuale oscillante tra il 4 e il 5 per cento.
LUCA CHIANCA Nulla.
EDOARDO FRANCESCO MAZZILLI - INVESTIGAZIONI ANTIFRODE - AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Poco. Ma è fisiologico rispetto a tutti gli altri paesi. E abbiamo una percentuale di irregolarità anche gravi che è del circa 10% del controllato dall'Italia.
LUCA CHIANCA Quindi immaginiamo delle quantità enormi di irregolarità che entrano nel paese?
EDOARDO FRANCESCO MAZZILLI - INVESTIGAZIONI ANTIFRODE - AGENZIA DOGANE E MONOPOLI Abbiamo parlato di centinaia di migliaia di operazioni. Dover procedere al controllo sistematico di tutti necessiterebbe l'impiego di una forza…
LUCA CHIANCA …di un esercito.
EDOARDO FRANCESCO MAZZILLI - INVESTIGAZIONI ANTIFRODE - AGENZIA DOGANE E MONOPOLI …un esercito che numericamente non ha nessuna amministrazione doganale degli stati membri.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La contraffazione è proprio uno dei problemi della piattaforma che smercia più pacchi al mondo: Alibaba. Il suo fondatore Jack Ma in pochi anni è diventato tra i più ricchi al mondo. Alla festa di Alibaba si è presentato così.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un istrione, Jack Ma, che è il patron, poi, di Alibaba, ma chi di noi non ballerebbe con i numeri che ha? Secondo Forbes il suo patrimonio personale ammonterebbe a 38 miliardi di dollari. E dalle Cayman e dalle Isole Vergini gestisce il network dell’ecommerce cinese che, per valore delle merci scambiate, è il più alto al mondo: 248 miliardi di dollari, che significa tre volte quelle di Ebay e due volte quelle di Amazon. Ma, a differenza di Amazon, non vende direttamente il prodotto, ma vende lo spazio in rete, e ai suoi fornitori promette visibilità e autorevolezza. Che però, ogni tanto entra in crisi per via del mercato del falso. Jack Ma ci ha scritto che lui ce la mette tutta per tutelare le proprietà intellettuali, ma non è in grado, ovviamente, di controllare il vastissimo mercato dei fornitori cinesi. E per via del mercato del falso, appunto, questa autorevolezza ogni tanto entra in crisi. Il nostro Luca Chianca è andato laddove parte il pacco, è andato nella patria della contraffazione. Però, prima di tutto partiamo da una enclave di casa nostra. Una enclave dei falsi, che è anche insospettabile perché si fregia del nome di un santo.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo a San Marino, un tempo piccolo paradiso fiscale a cavallo della Romagna e delle Marche. Poi le cose sono cambiate e la Repubblica del Titano ha aperto le porte alla trasparenza finanziaria, meno su quella dei falsi.
COMMERCIANTE 3 Se vai a Venezia ci sta anche a Venezia. Louis Vuitton originale, fuori il nero che ti vende.
LUCA CHIANCA Eh, però qua nei negozi si vende il falso, no? Cioè quello mi fa impressione: che qui, nei negozi… COMMERCIANTE 3 È da 50 anni. Si è sempre venduta ‘sta roba qua.
LUCA CHIANCA Quelle che c'ha lei dietro tutte false sono?
COMMERCIANTE 3 Tutte false, quelle sì. Tutte quelle che vedi là, vedi…quelle lassù, tutte.
LUCA CHIANCA Eh, ma nessuno dice nulla?
COMMERCIANTE 3 C'han sempre fatto lavorare e anche bene.
LUCA CHIANCA Anche bene?
COMMERCIANTE 3 Il volume globale annuo su quella roba lì non è buono, è ottimo!
LUCA ASCARI – CONSULENTE PER LA PROTEZIONE DEL MARCHIO - CARPINVEST Falso, falso… falso, falso… evidentemente non originale… bello esposto in vetrina, all’interno di un negozio che comunque vende anche prodotti originali… abbiamo delle felpe Juventus con il nuovo logo, assolutamente non originali, quindi contraffatte. A lato abbiamo una felpa di Valentino Rossi, anch’essa non originale. Posso veder lì sotto una felpa di AS Roma, che sembra essere non originale.
LUCA CHIANCA Quindi qui abbiamo un mix di originale e contraffatto…
LUCA ASCARI – CONSULENTE PER LA PROTEZIONE DEL MARCHIO - CARPINVEST Esattamente. Anche queste tazze sono non originali… Puoi vedere qui, questa del Milan, quella della Juventus con il nuovo logo…
LUCA CHIANCA …Reggiana…
LUCA ASCARI – CONSULENTE PER LA PROTEZIONE DEL MARCHIO - CARPINVEST …tutte le squadre, assolutamente… LUCA CHIANCA Ma poi c’è di tutto! Pordenone…
LUCA ASCARI – CONSULENTE PER LA PROTEZIONE DEL MARCHIO - CARPINVEST …la Roma…
LUCA CHIANCA …Pistoiese, Latina…
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Luca Ascari fa il consulente per alcune grandi squadre di calcio. Il suo compito è individuare i prodotti non originali venduti in negozietti come questo.
LUCA CHIANCA Pure voi però avete gli accendini che non sono originali.
COMMERCIANTE Noi abbiamo qui solo cose originali.
LUCA CHIANCA No, ma quelli delle squadre di calcio, parlo…
COMMERCIANTE Ah no, vabbè quelli li fanno qui a San Marino…
LUCA CHIANCA Eh quelli…
COMMERCIANTE 2 Eh, però qui è così, arrivano senza confezione però li fanno qua. Cioè noi paghiamo l'Iva su quel prodotto lì addirittura.
COMMERCIANTE Sì, sì, è una cosa legale interna…
COMMERCIANTE 2 Cioè, è tutto fatturato eh.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Un giro da milioni di euro che ha fatto della piccola repubblica un caso di scuola nella vendita di prodotti contraffatti.
LUCA ASCARI – CONSULENTE PER LA PROTEZIONE DEL MARCHIO - CARPINVEST Normalmente si trova un articolo, due articoli, forse dieci, nascosti in mezzo a tantissimi prodotti ufficiali, qui invece sembra essere tutto alla luce del sole, chiaro ed evidente, lampante, tant'è che mettono i prodotti falsi in vetrina.
LUCA CHIANCA Le sciarpe, le bandiere, le borsette, in alcuni casi non sono originali queste, son tutte contraffatte?
COMMERCIANTE 4 Sì, penso di sì.
LUCA CHIANCA Dove le prendete queste?
COMMERCIANTE 4 Qui, a San Marino.
LUCA CHIANCA A San Marino le prendete.
COMMERCIANTE 4 A San Marino, sì…
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A Posillipo ogni giovedì mattina c'è il mercato dove si trovano profumi di ogni genere. UOMO Noi vendiamo i Tester, sono quelli là che ti fanno sentire quando vai in profumeria. “Campione gratuito”: normalmente non si potrebbero vendere.
LUCA CHIANCA Quindi…li vendete voi.
UOMO Noi li vendiamo.
UOMO 2 Da ieri ce l'ho questo qua.
LUCA CHIANCA E questo sarebbe?
UOMO 2 Questo è Afgano, Black Afgano. Quello è falso d'autore, c'è scritto proprio. Invece questi qua…
LUCA CHIANCA Qua c'è scritto?
UOMO 2 Ce l'hanno scritto vicino obbligatorio proprio, “falsi di autore”. Loro invece di scrivere Narciso, scrivono Narcissus.
LUCA CHIANCA Cioè, questo, se io lo sentissi l'originale è uguale?
UOMO 2 Sì, sì, nuovo sì.
LUCA CHIANCA Ma chi le fa queste, però?
UOMO 2 Queste? Spagna.
LUCA CHIANCA La sicurezza che non facciano male?
UOMO 2 Cento-cento, vieni qua e dici: “Biagio ma che hai combinato?”.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dopo una mattinata di trattative, abbiamo comprato profumi originali, tester e falsi d'autore e fatti analizzare. Partiamo da quello che Biagio c'ha venduto come prodotto uguale all'originale e prodotto in Spagna, ma che in realtà...
LUCA CHIANCA Questo prodotto made in China. Stiamo tranquilli no?
SILVIA VERTUANI – DOCENTE CHIMICA COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Dall'analisi effettuata sì. Quello che può, diciamo, evidenziare la differenza tra i due prodotti è il risultato. Questo è l'originale.
LUCA CHIANCA Molto impegnativo, per me.
SILVIA VERTUANI – DOCENTE CHIMICA COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Impegnativo, assolutamente. Però ha questa nota fiorita…
LUCA CHIANCA Vediamo il suo falso d'autore…
SILVIA VERTUANI – DOCENTE CHIMICA COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Diciamo che c’è una nota caratterizzante anche in questa, ecco… vediamo se riesce a evidenziare questa nota, un po' meno fiorita, un pochino più pungente.
LUCA CHIANCA Sembra aceto.
SILVIA VERTUANI – DOCENTE CHIMICA COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Potrebbe ricordare l'aceto.
LUCA CHIANCA Come si passa da questo che è l'originale a questo che è la copia d'autore?
SILVIA VERTUANI – DOCENTE CHIMICA COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA La copia d'autore risulta più diluita. LUCA CHIANCA Di quanto, per esempio?
SILVIA VERTUANI – DOCENTE CHIMICA COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA …Anche un dieci volte.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il tester invece non andrebbe proprio venduto. Sulla scatola non sono riportati gli ingredienti. Chi è allergico corre il rischio, non sapendolo, di spruzzarsi addosso delle molecole che potrebbero provocare delle reazioni. Il professor Manfredini è un esperto di cosmetica e ha studiato a lungo i prodotti falsi. STEFANO MANFREDINI – DIRETTORE MASTER IN COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Più falso di così non si può. È come creare un quadro di Rembrandt che non ha mai fatto Rembrandt.
LUCA CHIANCA Perché Cavalli non fa il mascara.
STEFANO MANFREDINI – DIRETTORE MASTER IN COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Cavalli non produce mascara. Questo è uno studio che abbiamo fatto un po' di tempo fa su, effettivamente, prodotti falsi dove non esiste un originale. Quindi questo prodotto presenta una composizione che non sappiamo quale sia.
LUCA CHIANCA Qui invece?
STEFANO MANFREDINI – DIRETTORE MASTER IN COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Questo è l'altro caso dove viene utilizzato un prodotto reale che è Vitalumière di Chanel.
LUCA CHIANCA Qui sotto abbiamo l'originale, Chanel in questo caso, e sopra abbiamo un falso che riprende l'originale.
STEFANO MANFREDINI – DIRETTORE MASTER IN COSMETICA - UNIVERSITÀ FERRARA Riprende i colori, il trend, tutto quanto, ma non è l'originale. É chiaro che il consumatore, specialmente su internet - perché questi non arrivano dai canali ufficiali, no? – specialmente su internet dando un colpo d'occhio può pensare che il suo fondotinta preferito è in super sconto e acquistarlo.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Le piattaforme più note per la vendita online in Italia sono quelle di Amazon e Ebay, ma dall'altra parte del mondo, in Asia, ce ne sono a decine. Michele Provera, con la sua società, analizza migliaia di siti in tutto il mondo per individuare chi vende prodotti falsi in rete. A lui si è rivolta anche la Brembo, l’azienda italiana leader nella produzione di freni per veicoli.
MICHELE PROVERA – CONVEY INTERNET BRAND PROTECTION Questo è un sito che si chiama “Made in China” ed è una delle piattaforme dove l'azienda è esposta alla presenza di vendite di prodotti contraffatti, come – ad esempio - questo copricalibro.
LUCA CHIANCA Chi è che lo vende questo? Ecco, origine?
MICHELE PROVERA - CONVEY INTERNET BRAND PROTECTION L'origine è nel Guangdong, in Cina.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E navigando in rete su Ebay troviamo lo stesso prodotto della Brembo inserito in questo caso da un rivenditore bulgaro.
MICHELE PROVERA - CONVEY INTERNET BRAND PROTECTION Questo è un caso di un rivenditore che, molto probabilmente, utilizza la stessa piattaforma cinese per approvvigionarsi dello stock per poi rivendere sui mercati occidentali. Ma queste inserzioni sono già state contestate, quindi sono oggetto di rimozione e verranno eliminate… questione di ore.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Brembo, per tutelarsi dalla contraffazione cinese, si avvale sul posto di una task force di investigatori, che gli consente di individuare il venditore e la fabbrica di produzione. Qui siamo a 20 minuti fuori Canton. Questi uomini in borghese sono poliziotti cinesi e questo è il magazzino da cui stava partendo la merce.
PAOLO REZZAGHI – ESPERTO PROPRIETÀ INTELLETTUALE BREMBO Di solito sono bianche, queste… Si vede che questa è un’altra versione. Vedi… queste vanno messe sopra una pinza normale in ghisa. Questo è un pezzo di plasticaccia.
LUCA CHIANCA Cioè, queste neanche le producete.
PAOLO REZZAGHI – ESPERTO PROPRIETÀ INTELLETTUALE BREMBO No, no, assolutamente no, le ho mai prodotte e mai le faremo. Queste servono proprio per replicare l'estetica di una pinza Brembo. Questo simula addirittura, col tappino, qua… simula l’impianto idraulico, che ovviamente non c’è. C’è proprio, solamente, la finta connessione. “Brembo U.S.A.” non so perché… O pensano che sia meglio far vedere che è prodotto negli Stati Uniti…
LUCA CHIANCA Ma questa è proprio roba inventata… Inventata da loro.
PAOLO REZZAGHI – ESPERTO PROPRIETÀ INTELLETTUALE BREMBO Sì, sì!
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dentro il magazzino sono stoccati prodotti italiani pronti per essere venduti: un volante Nardi e diversi prodotti della Momo, tutti rigorosamente taroccati. A qualche chilometro c’è la fabbrica, anche questa con i magazzini stracolmi di prodotti con la scritta “Made in Italy”.
LUCA CHIANCA Copiano tutto.
MASSIMO CIOCCA - AMMINISTRATORE DELEGATO MOMO Copiano tutto. Copiano veramente tutto, sì.
LUCA CHIANCA Viste qui, le scatole, e viste lì, nel magazzino cinese… A me sembrano identiche queste…
MASSIMO CIOCCA - AMMINISTRATORE DELEGATO MOMO Identico… identico.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo a Milano nella sede della Momo. E lui è l'amministratore delegato.
MASSIMO CIOCCA - AMMINISTRATORE DELEGATO MOMO Questo è uno dei volanti in questione.
LUCA CHIANCA Con produzione…
MASSIMO CIOCCA - AMMINISTRATORE DELEGATO MOMO Italiana, 100% italiana.
LUCA CHIANCA Cioè, voi fate solo prodotto italiano.
MASSIMO CIOCCA - AMMINISTRATORE DELEGATO MOMO I volanti vengono fatti al 100% in Italia dal 1964.
LUCA CHIANCA Perché sono interessati i cinesi a copiare questo prodotto?
LORENZO CEROFOLINI – AMMINISTRATORE DELEGATO NARDI Perché è la storia, la storia dell'automobilismo e quindi…lei consideri che quando entra in macchina il volante è la seconda cosa che tocca, prima è la portiera, la seconda cosa è il volante.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A Bergamo troviamo la Brembo. Con il suo centro di ricerca per le pinze dei freni più famose al mondo.
ANDREA DE ANGELI – RESPONSABILE AREA TESTING BREMBO Questo è un esempio di una prova che noi svolgiamo su tutti gli impianti frenanti in sviluppo. É una prova prestazionale.
LUCA CHIANCA Stiamo… su che velocità qui?
ANDREA DE ANGELI – RESPONSABILE AREA TESTING BREMBO Sopra i 250 l’ora. Dipende dal veicolo, però tra i 250 e i 300 chilometri orari. Quando diventa incandescente, la temperatura del disco può anche arrivare sopra i 700 gradi, fino anche 800, 900 gradi.
LUCA CHIANCA Un test del genere che costi ha?
ANDREA DE ANGELI – RESPONSABILE AREA TESTING BREMBO Si parla di costi che sono superiori agli 800mila euro.
LUCA CHIANCA É banale dire che un contraffatto non può essere paragonabile, no?
ANDREA DE ANGELI – RESPONSABILE AREA TESTING BREMBO Presumo di no, presumo di no.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Paolo Rezzaghi gira il mondo per conto della Brembo. È un cacciatore di prodotti contraffatti. Lo abbiamo seguito nei principali mercati di Canton, per capire come fa a distinguere un prodotto falso.
LUCA CHIANCA Questa è completamente falsa per esempio. È fatta in Taiwan. Questa è completamente falsa…
COMMERCIANTE IN CINA Queste pinze sono originali. Non sono contraffatte ma sono solo ridipinte.
LUCA CHIANCA Quanto costano?
COMMERCIANTE IN CINA 1200 euro per un kit completo.
LUCA CHIANCA Questo è un adesivo e ce l'hanno messo loro.
PAOLO REZZAGHI – ESPERTO PROPRIETÀ INTELLETTUALE BREMBO Sì, sì questo adesivo lo hanno messo loro. E questa è una delle pinze più contraffatte di tutte.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO C'è la pinza Brembo della Bmw e quella della Ferrari, che Brembo, però, non vende singolarmente e tra gli scaffali pieni di pinze troviamo addirittura un moscato italiano e chissà se anche questo è contraffatto. Qui vengono i ricchi di Canton per riparare le automobili. Entriamo in un distributore autorizzato a cui chiediamo delle pinze contraffatte.
COMMERCIANTE IN CINA 2 I freni della Brembo contraffatti sono molto buoni. Se tu metti un pezzo originale vicino a uno contraffatto non ti accorgi nemmeno della differenza.
PAOLO REZZAGHI – ESPERTO PROPRIETÀ INTELLETTUALE BREMBO Il rischio è tantissimo, perché vai a comprare un prodotto che non è certificato da Brembo, non ha la qualità di Brembo, di un prodotto originale, non si sa per quale vettura sia stato concepito o realizzato o progettato. E si rischia tantissimo a livello di installazione.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Le piattaforme di vendita online più famose in Cina sono quasi tutte riconducibili al gruppo Alibaba, un colosso che in borsa vale oltre 450 miliardi di dollari con un utile netto di 6 miliardi.
JOE SIMONE – ESPERTO PROPRIETÀ INDUSTRIALE Il governo in Cina, da anni fino a poco fa, forse il contribuito più importante che ha fatto è di minacciare queste piattaforme, dire: devi fare qualcosa, non so esattamente quello che devi fare, ma devi fare.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nell’attesa Alibaba conta 1 miliardo di offerte attualmente online, 25 miliardi di fatturato raggiunto in un solo giorno. Il suo fondatore, Jack Ma, in pochi anni è diventato tra i più ricchi al mondo.
PAOLO BECONCINI – AVVOCATO SQUIRE PATTON BOGGS In Cina non c'è una legge, non c’è una legge che regolamenta il mercato dell'ecommerce. Per cui siti come Taobao, Jd o…
LUCA CHIANCA …Alibaba…
PAOLO BECONCINI – AVVOCATO SQUIRE PATTON BOGGS …sì, Alibaba, tutti questi siti che girano intorno al gruppo Alibaba, che servono – per esempio - il mercato cinese, si auto-regolamentano, praticamente.
GIUSEPPE FRAGOLA – IMETRIXBI INTERNET BRAND PROTECTION Prima erano dei semplici shop online, ora sono diventati dei veri centri commerciali, cioè che ospitano al proprio interno decine di migliaia di rivenditori di prodotti non sempre originali.
LUCA CHIANCA Esiste proprio un problema di selezione dei fornitori sui siti no?
PAOLO BECONCINI – AVVOCATO SQUIRE PATTON BOGGS Ma certo, certo. Esiste. E c’è anche ovviamente un conflitto di interesse perché Alibaba vuole fare business e allo stesso tempo si assume una responsabilità, in parte giuridica in parte morale, di bilanciare questo fare soldi con l'e-commerce e aiutare i marchi a tutelare i consumatori, a tutelare se stessi dalla contraffazione.
LUCA CHIANCA Quindi a fare una minima selezione.
PAOLO BECONCINI – AVVOCATO SQUIRE PATTON BOGGS C'è una selezione.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche in Europa manca una legge e l'Italia si è limitata a firmare un accordo, a settembre del 2016, con Jack Ma per far rimuovere il prima possibile gli annunci di prodotti falsi made in Italy dalla piattaforma di Alibaba.
MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014-2016 Il mio appello è: lottiamo contro i falsi? Sì. Facciamoci aiutare da quelli che sono esperti in questo settore, ma se noi non scommettiamo sull'innovazione come ha fatto Jack non abbiamo futuro. Noi abbiamo i prodotti più buoni del mondo. Jack, il nostro vino è meglio di quello francese: tu non lo puoi dire, io sì.
JACK MA – PRESIDENTE ALIBABA Alibaba non ha pietà nei confronti dei contraffattori. Quindi, noi stiamo collaborando con il governo, con i detentori delle marche e noi possiamo usare il nostro big data, cioè internet, per prenderli e arrestarli. Ne abbiamo arrestati più di 700 l'anno scorso di contraffattori.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oggi le piattaforme online come Alibaba non verificano a monte l'inserzione del prodotto, ma si limitano a rimuoverlo solo a seguito di una segnalazione da parte dei marchi. Ma acquistare un falso “made in Italy” è ancora troppo facile. A Canton abbiamo contattato un'esperta di contraffazione online. Utilizzando 1688.com, uno dei siti di riferimento della galassia di Alibaba, abbiamo cercato delle scarpe italiane, le Golden Goose.
ESPERTA DI CONTRAFFAZIONE ONLINE Queste scarpe costano circa 33 euro.
LUCA CHIANCA In Italia costano circa 300 euro, 280. Da che si capisce che son false?
ESPERTA DI CONTRAFFAZIONE ONLINE Il prezzo: è troppo basso. E poi dal sito dell'inserzionista c'è scritto che hanno una fabbrica in Cina, ma la Golden Goose non produce qui in Cina.
LUCA CHIANCA É possibile risalire all’indirizzo, al numero di telefono dell’azienda, dall’inserzione su Alibaba?
ESPERTA DI CONTRAFFAZIONE ONLINE Qui c’è l’indirizzo e il numero di telefono. Ma chissà se sono falsi anche quelli…
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E così siamo andati a cercare il negozio e siamo finiti nella periferia di Canton, in un quartiere residenziale.
LUCA CHIANCA Cercavamo un negozio di scarpe… A questo indirizzo ci risulta che ci sia un negozio di scarpe…
ABITANTE DI CANTON Non ci sono negozi di scarpe qui.
LUCA CHIANCA Cioè, non c’è negozio qui, niente?
ABITANTE DI CANTON Questa è un zona residenziale…
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Solo dopo alcuni giorni di ricerca siamo riusciti a trovare il nostro inserzionista in questo centro commerciale.
LUCA CHIANCA Mi interessano queste qui. Le Golden Goose.
COMMERCIANTE IN CINA Queste me le ha ordinate un cliente coreano.
LUCA CHIANCA A quanto le fai?
COMMERCIANTE IN CINA Circa 26 euro.
LUCA CHIANCA Ma solo questo modello?
COMMERCIANTE IN CINA No, possiamo farle come vuoi.
LUCA CHIANCA Ok, comunque queste le fate qui in Cina, queste qui?
COMMERCIANTE IN CINA Sì.
LUCA CHIANCA Sembrano originali, sembrano come quelle originali…
COMMERCIANTE IN CINA Sì, sono di alta qualità, sono fatte a mano con buoni materiali.
LUCA CHIANCA Made in Italy.
COMMERCIANTE IN CINA Me lo ha chiesto il cliente di scriverlo e posso farlo anche per te.
LUCA CHIANCA Queste le vendete su internet?
COMMERCIANTE IN CINA Sì, ma non le trovate sul sito di Alibaba.
LUCA CHIANCA Avevo trovato qua su Alibaba, siete voi questi qui?
COMMERCIANTE IN CINA Sì, ma questo sito di Alibaba è per il mercato cinese e non per quello europeo.
LUCA CHIANCA Perché non li mettete su Alibaba europeo?
COMMERCIANTE IN CINA Troppo rischioso. Ma se capisci il cinese non ci sono problemi. Se compri dall'Italia ti arriva tutto velocemente con un corriere.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma abbiamo capito che basta prendere un’altra strada sul web e ti porti a casa il falso d’autore. E poco possono fare i poveri doganieri se non si mette mano a una normativa europea più stringente. Oggi se ti arriva il falso in casa è perché è passato da un’altra frontiera, attraverso un’altra strada, un altro paese dell’Unione, dove “i controlli doganali presentano debolezze e lacune.” L’allarme lo lancia la corte dei conti nell’ultima relazione dove dice: negli ultimi 3 anni i prodotti tessili o calzaturieri provenienti dalla Cina sono passati dal Regno Unito, e sono entrati nell’UE senza controlli allo sdoganamento. E qui non è un problema solamente dei falsi che si mettono in giro sul mercato ma anche di mancato gettito fiscale, che per quello che riguarda il nostro paese ammonterebbe a meno 5,7 miliardi di euro. E anche in termini di occupazione perché ci sarebbero oltre 100.000 posti di lavoro in meno dovuti al mercato dell’illecito. Certo se riuscissimo a introitare più gettito, sarebbe una boccata di ossigeno per le nostre casse, stiamo lì sempre invece a cercare di far tornare i conti, anche sulla spesa pubblica. A proposito, i tagli degli sprechi, quelli che sono sempre oggetto di campagna elettorale, li abbiamo fatti oppure no?
· I Ricconi alle nostre spalle.
Il Metodo Ponzi.
Ascesa e caduta di Ponzi, un truffatore da romanzo. Matteo Sacchi il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Il celebre "schema" è diventato sinonimo di inganno finanziario. Bernardelli e Mazzotti spiegano come. Quando Charles Ponzi diventò il re Mida degli anni Venti non aveva un passato. O meglio di passati ne aveva tanti, buoni, alla bisogna, per aiutarlo a trasformare il piombo in oro, o meglio i francobolli in oro. O meglio ancora: a dire di essere in grado di trasformare i francobolli in oro (niente vale più dell'apparenza). E alchimista, in qualche modo, lo era davvero Carlo Pietro Giovanni Guglielmo Tebaldo Ponzi (1882-1949), però nel trasformare i sogni altrui in moneta sonate, da far ricircolare per attirare altra moneta sonante. Un mistagogo del dio denaro con un metodo: quello che poi sarebbe passato alla storia come Schema Ponzi. Una vera e propria pietra filosofale della truffa che racchiude un genio maligno. Un genio che travolse il suo stesso ideatore. Tanto che capire se fosse un folle funambolo degli affari, che calcolò male il salto, oppure soltanto un bieco maramaldo, schiavo delle sue stesse bugie, è difficile. Persino a un secolo di distanza. Ma andiamo con ordine, ammesso che Ponzi ce lo consenta (amava il caos dove il vero somiglia al falso). E per farlo aggrappiamoci a Lo schema Ponzi, ma inteso come il titolo del bel romanzo (di una truffa) scritto a quattro mani da Paolo Bernardelli e Filippo Mazzotti (Piemme, pagg. 506, euro 18,90). L'epifania di Ponzi avvenne a Boston nel 1918 quando, dopo il suo matrimonio con una italo americana, Rose Gnecco, iniziò ad aggirarsi per le banche cittadine a chiedere prestiti e progettare affari. Tra cui una «Guida del commerciante», una sorta di vademecum per promuovere i rapporti tra intraprese. La guida doveva contenere le pubblicità e gli indirizzi di una serie di inserzionisti, di tutti i generi merceologici. Il volume veniva spedito agli interessati, su richiesta. La richiesta non ci fu, mentre i pochi averi di Rose venivano dilapidati. Eppure il matrimonio tenne nonostante una lettera dall'Italia di mamma Ponzi: rivela alla giovane sposa come Carlo in Italia non si fosse mai laureato in giurisprudenza, fosse arrivato negli States da anni combinando poco e frequentando galere per assegni scoperti ed altre amenità. Ma intanto Charles, che non si perde d'animo, ha una filatelica agnizione. Come Archimede trova la leva e il punto di appoggio (monetario) con cui crede di sollevare il mondo. Una società spagnola gli chiede informazioni in merito alla famosa guida. La lettera è accompagnata da un buono di risposta internazionale (International Reply Coupon), che consente, nei paesi federati, di ottenere un francobollo per inviare la busta di risposta. Ponzi non ne ha mai visti e lo studia. Scopre che, dato il diverso costo della vita in Spagna rispetto agli Usa, il buono (spagnolo) vale meno del francobollo (americano). I buoni hanno un costo diverso in ciascun Paese ma il loro controvalore in francobolli è lo stesso, ovunque. Ponzi calcola che, ricevendo i buoni da un Paese dove il costo della vita è inferiore a quello statunitense, come Spagna o Italia, la transazione genera profitto. Per capirci 100 buoni possono originare 100 francobolli, ma se un buono spagnolo (costo in dollari = 10 centesimi) è cambiato negli Stati Uniti con francobolli da 15 o 20 centesimi l'uno, ecco che il profitto è del 50% o del 100%. Ponzi fiuta l'affare e crea una società per proporlo sul mercato. Sulla carta funziona e Ponzi sa convincere, anche perché promette in tempi rapidi guadagni sino al 50% della cifra investita. Così la sua Securities Exchange Company, dopo un inizio stentato comincia ad essere investita da un fiume di denaro. Tutto diventa rapido e vorticoso: nel febbraio 1920 il capitale di Ponzi ammonta a 5mila dollari. A marzo si arriva a 30mila dollari e partono le assunzioni di agenti per raccogliere fondi. A maggio Ponzi ha raccolto 420mila dollari e inizia a depositare il denaro nella Hanover Trust Bank, puntando a incrementare il deposito fino a poter prendere il controllo della banca; la manovra gli riesce e a luglio è già diventato milionario. Ponzi ormai vive in una villa faraonica, parla coi grandi della finanza, fa donazioni. Ma la realtà è che se il guadagno sul singolo buono postale è alto, il meccanismo per gestirli e comprarli è macchinoso e mangia gran parte degli utili. Il tutto si regge, solo e soltanto, sul fatto che gli investitori continuano ad aumentare e i nuovi fondi alimentano gli interessi che devono andare ai primi sottoscrittori. Insomma la situazione può solo esplodere. Ma intanto Ponzi è diventato l'eroe della città. Tutti lo vogliono, tutti gli credono. Come sintetizza bene il romanzo, dalla folla gli urlavano: «Sei il più grande italiano della Storia!. No rispose Carlo sorridendo. Son il terzo più grande. Colombo ha scoperto l'America e Marconi la radio!. Allora un altro dalla folla precisò: Ma tu hai scoperto i soldi!». Col senno del poi è scontato come andò a finire la corsa al francobollo. Famiglie rovinate, banche crollate, Ponzi arrestato e coperto dall'odio di chi aveva visto in lui un potenziale re Mida. Una storia di credulità collettiva che a cent'anni di distanza resta ancora incredibile. Bernardelli e Mazzotti sono bravi a farla rivivere al lettore attraverso gli occhi dei molti protagonisti, costruendo un romanzo corale e a testimonianze dove c'è tutto: dal sogno del riscatto dell'emigrante alla frode, dall'inchiesta giornalistica del Boston Post che smascherò Ponzi al fascino perverso del truffatore, passando per il cuore infranto di una moglie. Soprattutto però c'è la riscoperta di un archetipo dell'inganno che ancora oggi fa scuola e ogni tanto viene riproposto. Perché il desiderio della pietra filosofale è sempre lì. E abbaglia anche i più saggi.
Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini, in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco.
Da calcioefinanza.it il 12 ottobre 2021. Sono 61 i miliardi di euro di liquidità, ricavati dalle cento aziende familiari più grandi d’Italia. Lo si evince da un’analisi pubblicata su L’Economia del Corriere della Sera, che sottolinea un balzo in avanti (+36%) nel 2020 rispetto all’anno precedente quando la quantità del denaro per cassa ammontava a 45 miliardi. Il tutto, senza considerare Exor, holding della famiglia Agnelli-Elkann – che detiene anche il controllo del 63,8% della Juventus – i cui valori sono talmente elevati da spostare il totale complessivo della liquidità a 97 miliardi di euro. L’indagine, realizzata da Guido Corbetta e Fabio Quarato, rispettivamente titolare e managing director della Cattedra Aidaf-Ey di Strategia delle aziende familiari all’università Bocconi, è stata condotta sui bilanci disponibili del 2020 dei primi cento gruppi a controllo familiare con un fatturato superiore ai 20 milioni di euro. Ben 81 realtà su 100 che sono state indagate hanno migliorato la cassa mentre 62 hanno ridotto l’indebitamento finanziario netto. In generale, considerando le difficoltà legate alla pandemia, le imprese hanno accantonato liquidità per prudenza e si sono indebitate a tassi bassi. Dietro a Exor – che presenta ricavi per 119 miliardi e liquidità per 35 miliardi – si trova Edizione, la holding della famiglia Benetton (11 miliardi di ricavi, liquidità per 9 miliardi circa). Il podio è chiuso da Essilor-Luxottica di Del Vecchio, con 14,4 miliardi di ricavi e liquidità per 8,8 miliardi.
Implant Files.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 17 ottobre 2021. Pacemaker, neuro-stimolatori e stent coronarici immessi sul mercato, e impiantanti a decine di migliaia di pazienti, ma privi della certificazione di conformità. Ancora peggio: dotati di certificazioni false, emesse dall'Istituto superiore di sanità, ma in realtà inesistenti, visto che nei laboratori dell'Ente i macchinari erano fatiscenti, datati e praticamente inutilizzabili. I dispositivi finiti nel mirino della Guardia di finanza sono in tutto 33.193: sono stati acquistati dagli ospedali di tutta l'Italia tra il 2010 e il 2014. Il danno calcolato dalle Fiamme gialle per le casse pubbliche è milionario e a pagare potrebbero essere i quattro responsabili del dipartimento Tecnologie e Salute dell'Iss che si sarebbero dovuti occupare delle autorizzazioni: la Corte dei conti del Lazio li ha citati in giudizio, chiedendo loro di risarcire l'Ente e il ministero della Salute con 3.054.714 euro. L'atto è stato notificato a Velio Macellari, da luglio 2007 a dicembre 2012 direttore del dipartimento Te.Sa., Mauro Grigioni, all'epoca delegato del direttore di dipartimento, Giuseppe D'Avenio, in quegli anni responsabile della linea di prodotto per il tipo stent coronarici e periferici, insieme a Carla Daniele. Dalle indagini, condotte dal viceprocuratore regionale Massimiliano Minerva, è emersa l'emissione di certificati di conformità - irregolari - per 43 modelli di «dispositivi medici impiantabili attivi», del tipo pacemaker e neuro-stimolatori, e anche per 37 modelli di stent coronarici. Nel caso degli stent, addirittura, la documentazione sarebbe stata prodotta solo successivamente e quando le verifiche della Finanza erano già in corso. Le indagini, per l'accusa, hanno dimostrato anche l'inesistenza dei rapporti di prova, l'omessa effettuazione dei test di laboratorio - almeno per quanto riguarda i pacemaker - e, soprattutto, l'impossibilità di effettuarli a causa «dello stato di obsolescenza e non funzionamento della maggior parte dei macchinari» presenti, avevano annotato gli investigatori in un'informativa. Realizzare le verifiche era praticamente impossibile: sensori rotti, strumentazione mancante, macchine ferme. Per gli investigatori, quindi, è impensabile che i responsabili non sapessero che le prove dei dispositivi non erano mai state effettuate. Negli atti viene specificato che Macellari avrebbe firmato 33 certificati relativi a modelli di pacemaker e neuro-stimolatori, poi immessi a migliaia sul mercato, e avrebbe approvato anche 20 modelli di stent. In tutti i casi, secondo l'accusa, avrebbe certificato l'esistenza di rapporti di conformità che non erano mai stati compilati. Secondo i magistrati, Grigioni e la Daniele, pur essendo a conoscenza dello stato - pessimo - dei macchinari di laboratorio e pur sapendo che i responsabili di linea di prodotto avevano rinunciato all'incarico, visto che era impossibile effettuare i test, non avrebbero preso i provvedimenti necessari per impedire l'emissione dei certificati. Uno degli attestatori ha anche raccontato di avere subito pressioni perché firmasse i rapporti di conformità in assenza dei requisiti previsti. D'Avenio, invece, su ordine del nuovo direttore di dipartimento - ora deceduto - avrebbe compilato e stampato rapporti di conformità postumi relativi ai modelli di stent finiti sotto inchiesta. Nel 2014, durante una perquisizione, i finanzieri avevano infatti trovato sul suo computer un file per la creazione dei documenti, mentre nel suo ufficio c'erano i rapporti relativi a certificati emessi ben quattro anni prima. L'attestazione di rispondenza dei prodotti a requisiti essenziali di efficacia e sicurezza è un dato necessario per la commercializzazione e, dunque, per l'utilizzo da parte delle strutture sanitarie pubbliche. Visto che la documentazione in questione, secondo il pm, non esisteva, il danno contestato riguarda sia le mancate ore di lavoro dei responsabili del dipartimento, sia il prezzo pagato dal Servizio sanitario nazionale per l'acquisto dei dispositivi. Il costo effettivo era stato di 29.577.677 euro. Ma i magistrati hanno deciso di contestare ai quattro imputati il 10% del danno totale.
Dispositivi medici, le nuove regole per il commercio di protesi al seno, pacemaker, spirali e stent. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021. Il dispositivo medico non è un farmaco, ma cura molti problemi di salute, parliamo di pacemaker, defibrillatori, protesi al seno, stent, supporti ortopedici, cateteri, spirali ecc. Rientrano in questa categoria anche i prodotti da banco come gli spray nasali, le gocce per le orecchie, lo sciroppo per la tosse, le lacrime artificiali. Complessivamente sono quasi un milione. Ebbene, cinque anni fa l’Ue ha preso atto che le regole europee per commercializzare i dispositivi medici non bastavano per tutelare la salute dei pazienti. E ora è corsa ai ripari.
Dispositivi medici: due protesi seno
In una recente inchiesta di Dataroom avevamo visto quali rischi comportano le diagnosi fatte con apparecchiature mediche obsolete (tac, risonanze magnetiche, mammografi, ecc.) e come evitarli. Qui, invece, ci occupiamo di tecnologia medica utilizzata a scopo terapeutico. In Italia nel 2019 sono stati acquistati dal servizio sanitario nazionale oltre 53.800 pacemaker, 16.200 defibrillatori, quasi 4.400 neuro-stimolatori, oltre 35.600 protesi otorinolaringoiatriche e 31.100 protesi esofago e gastro-intestinali, quasi 382.300 protesi vascolari, stent e valvole cardiache, 53 mila protesi mammarie. E questi sono i dati principali del ministero della Salute solo per le strutture pubbliche, ai quali bisogna aggiungere quelli delle strutture private accreditate, che per le protesi mammarie coprono il 50% dei casi. Per quel che riguarda le protesi ortopediche, i dati non sono disponibili.
Cosa è successo con questi dispositivi?
Le autorità sanitarie francesi hanno accertato che il fabbricante francese Poly Implant Prothèse (PIP) per anni ha utilizzato silicone industriale anziché silicone di grado medico per la produzione di protesi mammarie, danneggiando la salute di migliaia di donne nel mondo. Il pacemaker innovativo Nanostim ha riscontrato problemi di batteria. Il robot-chirurgo RoboDoc ha provocato rotture di tendini e danni ai nervi. La spirale anticoncezionale Essure, costituita da due fili che avrebbero dovuto favorire la cicatrizzazione delle tube di Falloppio, si è scoperto rilasciare sostanze tossiche. Problema simile per le protesi d’anca in cromo-cobalto Depuy: le componenti metalliche rilasciavano microparticelle nel sangue in quantità pericolose. Dopo cinque anni di discussioni al Consiglio europeo, dallo scorso 26 maggio è entrato in vigore il nuovo Regolamento Ue 2017/745, immediatamente vincolante per tutti i Paesi membri. Cosa cambia? Primo: la sicurezza e l’efficacia di un dispositivo medico devono essere dimostrate con più dati clinici rispetto a quelli richiesti fino a ieri, al fine di valutare al meglio gli effetti collaterali indesiderati e l’idoneità del rapporto benefici-rischi. Secondo: è obbligatorio monitorare la sicurezza e le performance del dispositivo anche dopo la sua certificazione e immissione in commercio (post-vendita). Vuol dire che i distributori e importatori devono collaborare alla raccolta dati e condividerla con il produttore. Problema: i dispositivi approvati con le vecchie normative non potranno più essere venduti solo a partire dal 26 maggio 2024. E alle industrie, che a quella data hanno ancora in magazzino delle scorte, viene concesso un altro anno per smaltirle. Per allora c’è da sperare che gli enti notificatori (cioè quelli che devono dare il via libera), che oggi sono appena 24 in tutta Europa, aumentino.
Dagli sciroppi agli spray nasali: nuove regole
C’è poi anche un’altra categoria di prodotti, spesso sconosciuta, che viene venduta come dispositivo medico, come gli sciroppi per la tosse, i gel muscolari, le gocce auricolari, gli spray nasali, le lacrime artificiali. Sono considerati dispostivi medici a base di sostanze – e non farmaci – perché svolgono la propria funzione attraverso un’azione meccanica e non metabolica. Per capirci: il muco viene rimosso mediante l’irrigazione di una soluzione nella cavità nasale, l’eccesso di cerume viene eliminato dal canale auricolare a seguito dell’instillazione di una soluzione detergente ed emulsionante, i sintomi della tosse sono ridotti con lo sciroppo che crea un film protettivo (barriera fisica) ed evita l’irritazione del cavo orale. D’ora in poi, per nessuno di questi prodotti vale più l’autocertificazione del fabbricante. E l’orientamento della Commissione europea nelle linee guida di applicazione del nuovo regolamento è molto chiaro: laddove le sostanze sono assimilabili a un farmaco bisognerà seguire le stesse procedure di validazione. La qualità andrà dunque dimostrata e validata con regole più stringenti che, in alcuni casi, potranno portare questi dispositivi a essere valutati alla stessa stregua di un farmaco. Significa che i produttori si dovranno adeguare ad un sistema più complesso o non potranno più commercializzare il prodotto. E prontamente insorge la categoria. Secondo Confindustria i fabbricanti non riusciranno ad adeguarsi, e paventano il rischio che questi prodotti finiscano sul mercato nei canali di «libera vendita» al di fuori di qualsiasi classificazione. L’unica cosa certa è che per i prossimi quattro anni, che si tratti di uno sciroppo o una protesi, l’incertezza sulla qualità è tutta sulle spalle del paziente.
Migliaia di pazienti uccisi da protesi velenose o difettose: ecco l'inchiesta Implant Files. Pacemaker, valvole cardiache, seni al silicone, impianti artificiali: dagli Usa all’Italia sono oltre 82 mila le vittime di prodotti a rischio impiantati nei malati. Un business da 350 miliardi all’anno dominato da multinazionali senza controlli. Ecco il nuovo scoop internazionale dell’Espresso con il consorzio Icij, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, defibrillatori, protesi ortopediche, seni al silicone, infusori, cateteri, neurostimolatori. Sono una moltitudine di prodotti dell’industria sanitaria che vengono impiantati nei pazienti. Milioni di persone costrette a convivere per anni, o per sempre, con questi apparecchi dentro il corpo. Le aziende produttrici li presentano come innovativi strumenti salvavita: la medicina del futuro, le più moderne tecnologie applicate alla salute. Spesso è vero: protesi e congegni sempre più perfezionati proteggono milioni di persone. Alcuni però nascondono rischi e problemi gravissimi. In grado di rovinare masse di pazienti e provocare disastri sanitari su scala mondiale. La nuova inchiesta Implant Files coordinata dall’International consortium of investigative journalists (Icij), a cui hanno partecipato per l’Italia L'Espresso e Report, documenta per la prima volta come funziona e quali segreti nasconde il ricchissimo business dei cosiddetti dispositivi medici (medical device). Un mercato in continua crescita, dominato da multinazionali con un giro d’affari da oltre 350 miliardi di euro all’anno, ma totalmente fuori controllo. I dati ora rivelati mostrano che solo negli Stati Uniti, dal 2008 al 2017, sono stati registrati oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni personali collegate a migliaia di apparecchi segnalati come difettosi, guasti, usurati o malfunzionanti.
Finora si conoscevano solo episodi specifici di prodotti dichiarati pericolosi e già ritirati dal mercato. Come le migliaia di protesi al seno prodotte con silicone tossico dall’industria francese Pip, finita in bancarotta nel 2010. Oppure i risarcimenti milionari sborsati dalla multinazionale americana Johnson & Johnson per i danni causati dalle sue protesi ortopediche “metallo su metallo”, impiantate su oltre mezzo milione di persone. Nonostante questi allarmi, in Europa non esistono controlli pubblici prima dell’impianto: per vendere qualsiasi congegno da inserire nei pazienti, basta una certificazione rilasciata da società private, scelte e pagate dagli stessi fabbricanti. Una certificazione industriale, il marchio CE, come per i frigoriferi, i giocattoli e mille altri prodotti comuni, che non finiscono sotto la pelle dei cittadini. Anche i dispositivi a più alto rischio, dagli apparecchi per il cuore alle protesi permanenti, obbediscono a regole molto meno severe di quelle previste per i farmaci. E dopo l’impianto le autorità sanitarie, in Italia come in molti altri paesi, non sono in grado di rintracciare gran parte delle vittime.
Paradossalmente il mercato delle auto è più controllato. In caso di guasti o difetti di fabbricazione, una casa automobilistica può rintracciare tutti i clienti e richiamare interi blocchi di vetture a rischio. Se invece un congegno sanitario viene inserito nel corpo di migliaia di uomini, donne e bambini, non esistono procedure generali di allerta, sistemi standard di richiamo: una valvola difettosa viene scoperta con anni di ritardo; raramente i pazienti che devono conviverci vengono informati, visitati e curati; i medici possono continuare in buona fede a impiantare apparecchi di cui ignorano la pericolosità, anche se già ritirati da un’autorità estera perché uccidono troppi malati.
Ora, nell’inerzia dei governi, è il consorzio dei giornalisti ad aver creato il primo archivio informatico dei dispositivi medici, accessibile a tutti i cittadini via Internet: una banca dati globale, che permette a chiunque di controllare personalmente, per la prima volta, se l’apparecchio che porta addosso ha avuto problemi di sicurezza. È il maxi-archivio degli “Implant Files”, accessibile dal sito dell’Espresso, che permette di esaminare oltre 60 mila segnalazioni di guasti o incidenti, registrate dalle autorità sanitarie degli Stati Uniti e di altre nazioni, che riguardano migliaia di congegni sanitari di ogni tipo. Con dispositivi fuorilegge negli Usa, ma ancora in circolazione in Italia.
Pacemaker e defibrillatori difettosi: i dispositivi killer che hanno ucciso migliaia di cardiopatici. Il defibrillatore che diventa come una sedia elettrica. E il pacemaker con le batterie che perforano i tessuti. Così le grandi industrie vendono agli ospedali i device cardiaci più pericolosi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Milioni di persone devono la vita ai pacemaker, valvole cardiache, defibrillatori, stent coronarici e altri dispositivi per il cuore. Ma alcuni dei congegni impiantati nel corpo dei pazienti si rivelano, a distanza di tempo, difettosi, guasti, usurati o malfunzionati. Problemi che mettono in pericolo la salute delle persone. E vengono scoperti con mesi o anni di ritardo, per mancanza di controlli preventivi. Sprint Fidelis è il nome di un defibrillatore che la multinazionale Medtronic riuscì a far approvare nel 2004 dalle autorità americane. È stato ritirato nell’ottobre 2007, dopo essere stato impiantato su circa 268 mila pazienti in tutto il mondo. Il dispositivo era difettoso: impazziva, inviando ai malati raffiche di scosse «molto dolorose»: «Era terrorizzante», ricordano i pazienti intervistati dal consorzio Icij, ancora traumatizzati. Due anni dopo, la Medtronic ha riconosciuto che quel defibrillatore poteva aver causato 13 vittime. Ora i dati raccolti dall'inchiesta giornalistica Implant Files associano quel dispositivo alla morte di oltre duemila persone.
Il Far West della salute: pazienti usati come cavie da un’industria miliardaria senza controlli. Nessuna verifica di autorità pubbliche su milioni di device impiantati nel corpo. L’inchiesta giornalistica internazionale svela lo strapotere delle lobby dei dispositivi. E i guai con la giustizia degli istituti italiani, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, protesi ortopediche e mille altre altre tecnologie mediche. Sono una moltitudine i prodotti dell’industria sanitaria (medical device) che vengono impiantati nel corpo dei pazienti. Dovrebbero essere sicuri, efficaci, solidi, sottoposti a rigorosi controlli pubblici e verificati da studi clinici di livello scientifico. L'inchiesta giornalistica mondiale del consorzio Icij, a cui hanno partecipato per l’Italia L’Espresso e Report, documenta invece una situazione ad altissimo rischio: una specie di Far West della salute. Un business da 350 miliardi di euro all'anno che è totalmente fuori controllo.
Femminicidio silenzioso: il calvario delle donne intossicate da tecno-spirali e silicone velenoso. Ottomila pazienti lesionate da protesi al seno pericolose solo nel primo semestre 2018. E ora scoppia il caso Essure, impiantato su almeno settemila italiane, ritirato dalla Bayer dopo lo stop delle autorità irlandesi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Le donne pagano un prezzo altissimo alla mancanza di controlli pubblici sui dispositivi impiantabili nel corpo. Nel 2012 fu lo scandalo delle protesi al seno, prodotte con silicone tossico dalla ditta francese Pip, poi finita in bancarotta, a spingere le autorità di Bruxelles a varare il nuovo regolamento europeo sui medical device che entrerà pienamente in vigore solo a partire dal 2020. Nonostante le migliaia di vittime del caso Pip, alcuni molti modelli di protesi al seno sono ancora associati a problemi gravissimi: gli Implant Files segnalano, solo nel primo semestre 2018, sette casi di morte e oltre ottomila lesioni personali. Da mesi le donne di mezzo mondo si stanno mobilitando anche contro Essure, un anticoncezionale permanente creato dalla Conceptus, una ditta acquistata dalla Bayer. Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura per cicatrizzazione delle tube di Falloppio. I dispositivi, applicati a circa un milione di donne nel mondo, rilasciano sostanze sconosciute, si spezzano, possono infiltrarsi fino al cuore o ai polmoni. L’Espresso ha raccolto le testimonianze delle prime 33 donne italiane che si sono rivolte all’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, per spedire alla Bayer una formale richiesta di risarcimento dei danni, preludio a una possibile causa collettiva (class action). In Italia Essure è stato impiantato su almeno settemila donne.
Tutte le intervistate descrivono lo stesso calvario: «Mi chiamo M.B., sono nata in Brianza, abito vicino a Treviso, ho 44 anni. Nel 2014 la mia ginecologa, dopo due parti con gravi complicanze, mi ha consigliato di impiantare Essure, assicurando che era sicuro e non aveva alcuna controindicazione. Dopo l’impianto all’ospedale di Mestre, la mia vita è cambiata. Sono sempre stata una persona molte forte, in buona salute. Ho cominciato ad avere emicranie sempre più frequenti e intense, sono aumentate molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio. Ho pensato anche questo, prima di trovare altre donne con gli stessi problemi e capire. La mia nuova ginecologa dice che sono stati pazzi a impiantarmi Essure». La signora A.C., che ha organizzato un gruppo Facebook delle vittime italiane, ha tolto Essure ed è rinata: «Poche ore dopo ho ricominciato a camminare, a poter riafferrare gli oggetti, a vederci come prima, a non avere più mal di testa. Ora sono dimagrita, sto bene, sono tornata me stessa. Il problema più grande è che molte donne non collegano questi sintomi a Essure: i mariti ci credono impazzite, ci portano dallo psichiatra. Ora voglio aiutare le altre vittime».
Gli Implant Files segnalano 8.500 casi di rimozione negli Stati Uniti, altre migliaia in Europa, 769 solo in Belgio. Al ministero italiano risultano invece solo 13 «incidenti». L’Espresso però ha contato decine di rimozioni, con ginecologi che lavorano a tempo pieno per togliere Essure. La Bayer ha ritirato le sue tecno-spirali dal mercato italiano il 28 settembre 2017. Due giorni prima, il ministero aveva ricevuto un’email dalla rappresentante delle vittime, che denunciava l’inerzia italiana dopo lo stop deciso già il 2 agosto 2017 dall’ente certificatore irlandese Nsai, che aveva fatto perdere a Essure il marchio CE. L’indomani il ministero, senza dire nulla alle pazienti, ha inviato alla Bayer un avviso di sicurezza, invitando l’azienda a richiamare Essure. Sul sito del ministero, dal 2 ottobre 2017, i cittadini possono leggere solo il comunicato di Bayer Italia, che dichiara di aver ritirato Essure perché si vendeva poco, ma resta un prodotto «sicuro e benefico». Il colosso tedesco ha mandato negli ospedali a prelevare le spirali il suo «distributore esclusivo per l’Italia»: Cremascoli & Iris spa, un’azienda che appartiene alla famiglia dell'imprenditore Eugenio Cremaascoli, arrestato e condannato per corruzione nel 2005 a Torino. Dove ha confessato di aver pagato tangenti per oltre un decennio a tre famosi cardiochirurghi per vendere dispositivi medici e prodotti per il cuore ai più importanti ospedali pubblici. "Oggi come ieri chi detiene il potere sostiene che il giornalismo sia finito e che meglio sarebbe informarsi da soli. Noi pensiamo che sia un trucco che serve a lasciare i cittadini meno consapevoli e più soli. Questa inchiesta che state leggendo ha richiesto lavoro, approfondimento, una paziente verifica delle fonti, professionalità e passione. Tutto questo per noi è il giornalismo. Il nostro giornalismo, il giornalismo dell’Espresso che non è mai neutrale, ma schierato da una parte sola: al servizio del lettore.
Esclusivo: ecco il database dei dispositivi killer. Chi ha una protesi impiantata nel proprio corpo può qui verificare quanto è sicura, scrive Marco Damilano il 22 novembre 2018 su "L'Espresso". Nel mondo ci sono milioni di protesi difettose impiantate nel corpo dei pazienti come spieghiamo nell'inchiesta Implant Files . Spesso le persone interessate non ne sono informate, perché non è detto che le aziende produttrici, gli enti governativi e gli ospedali abbiano segnalato il problema al paziente. L'Espresso e l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) per la prima volta danno la possibilità a tutti i cittadini di verificare se il proprio dispositivo è sicuro o se invece ha avuto segnalazioni negative in passato. Accedere all'International Medical Device Database, realizzato dal consorzio giornalistico sulla base di 60mila avvisi di sicurezza registrati dalle autorità in oltre dieci nazioni, è semplice: basta inserire il nome del proprio dispositivo nella griglia qui sotto, per verificare se in passato è stato segnalato un problema su quello specifico apparecchio sanitario (medical device). Il consorzio Icij e l'Espresso continueranno ad aggiornare e ampliare questa banca dati globale nelle prossime settimane, in base alle nuove segnalazioni ricevute.
AVVERTENZA: I dispositivi medici aiutano a diagnosticare, prevenire e curare ferite e malattie. L'intento dell'International Medical Device Database non è di sostenere o far credere che le società o gli enti qui citati siano coinvolti in comportamenti illeciti o che abbiano agito in modo improprio. Inoltre uno stesso dispositivo potrebbe avere nomi differenti nelle diverse nazioni e quindi non essere rintracciabile nell'elenco. Questo database non è destinato a fornire consulenza medica: i pazienti dovranno consultare i propri medici curanti qualora ritenessero che le informazioni qui contenute possano avere delle implicazioni rispetto al proprio quadro sanitario.
Il gigante Medtronic: migliaia di incidenti e maxi-affari in Italia tra corruzione ed evasione. La multinazionale ha il primato mondiale delle vendite, ma anche dei problemi di sicurezza: oltre 1.800 morti sospette solo nel 2017. E in Lombardia ha contratti d’oro con i più importanti centri cardiologici, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 25 novembre 2018 su "L'Espresso". La multinazionale americana Medtronic è diventata in pochi anni la più ricca azienda di device del mondo. Ha un giro d'affari di oltre trenta miliardi di dollari all'anno, ha lanciato migliaia di nuovi dispositivi e ha aperto filiali in più di 160 paesi. Nelle sue campagne di comunicazione Medtronic rivendica che le sue tecnologie hanno salvato o migliorato la vita a 70 milioni di persone. L'inchiesta del consorzio Icij documenta però che questo colosso dell'industria sanitaria è stato accusato dalle autorità, in diversi paesi del mondo, di frodi milionarie alla salute pubblica, evasioni fiscali, accordi illeciti contro la concorrenza, uso di prodotti non autorizzati, presunte corruzioni e pagamenti a medici e scienziati per orientare gli studi clinici e ottenere dati favorevoli.
«Bayer non siamo cavie»: la protesta delle donne a cui la spirale Essure ha rovinato la vita. Domenica 15 settembre sfilano a Roma, in piazza Esquilino, gruppi internazionali di donne danneggiate dal contraccettivo prodotto dal colosso tedesco in uno scandalo già denunciato dall’Espresso. Gloria Riva e Leo Sisto il 13 settembre 2019 su L'Espresso. Arriveranno a Roma dalla Francia, dalla Gran Bretagna e da tante altre città italiane. Si incontreranno in piazza dell’Esquilino domenica 15 settembre. Sfileranno con striscioni e magliette gialle spiegando con i loro slogan perché moltissime donne, dalla vita rovinata, si trovano tutte lì a protestare: “Bayer non siamo cavie”, “Vittima di Essure”. Si sono passate la voce con il tam tam di Facebook e il passa parola internazionale le ha trasformate in attiviste. Ce l’hanno con la Bayer, colpevole di aver distribuito, tramite la consociata Conceptus, il contraccettivo Essure, che ha provocato danni irreversibili danni al loro organismo. È stato L’Espresso (25 novembre 2018) a denunciare in Italia lo scandalo delle protesi difettose impiantate nei corpi dei pazienti con l’inchiesta mondiale “Implant Files” coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) di Washington tra 252 giornalisti di 59 testate con sede in 36 nazioni con un obiettivo: tutelare la salute dei cittadini. Essure, riportava il nostro settimanale, è un anticoncezionale permanente: “Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura, per cicatrizzazione, delle tube di Falloppio”. Drammatiche le testimonianze raccolte dall’Espresso, almeno 33. Tra queste, una signora, M.B., abitante nel trevigiano, ha raccontato il suo calvario, convinta dal suo ginecologo a ricorrere a Essure dopo due parti con serie complicazioni: “Ho cominciato ad avere emicranie sembra più frequenti e intense, sono aumentata molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio”. La Bayer ha poi tolto dal mercato italiano le sue tecno-spirali il 28 settembre 2017, costretta però a questo passo per una semplice ragione: quasi due mesi prima, il 2 agosto, l’ente certificatore irlandese Nsai aveva privato Essure del marchio CE, indispensabile per la sua circolazione nell’Unione Europea. Con nonchalance la Bayer Italia si è invece limitata ad annunciare di aver tirato via quel prodotto per un altro motivo: era ormai poco venduto, pur restando “sicuro” e benefico”. Una delle animatrici della campagna anti Essure è Annabel Cavalida, fondatrice e portavoce del gruppo “Essure-Problemi in Italia”, nonché una delle promotrici della manifestazione romana. Ha lanciato lei la pagina Facebook: Essure-Effetti collaterali e problemi”. L’Espresso l’ha sentita: «Siamo circa 250 donne. Ci siamo messe in contatto via Facebook per segnalare sintomi e problemi fisici avuti in seguito all'impianto del prodotto. Trenta di noi, anche se non hanno riscontrato indizi su di loro, lo tengono comunque sotto controllo. Altre 78 l’hanno rimosso e tutte – tranne cinque – sono rinate, sono tornate a condurre una vita normale. Chi non c'è riuscita è perché, sfortunatamente, ha scoperto la presenza di frammenti di metalli Essure in altre parti del corpo». Proprio così. Lo ha dimostrato uno studio della Fda, l’ente americano regolatore dei device medici. I micro-inserti Essure in poliestere, nichel-titanio, acciaio e lega per saldature si possono muovere, spostarsi qua e là, scatenando anomali eventi di migrazione: 1101 nell’utero, 41 nel fegato e 29 nell’appendice, secondo quella ricerca. In Italia sono stati commercializzati 7 mila dispositivi, ma, continua Cavalida, “non conosciamo quanti di questi sono stati innestati. Quindi il fenomeno potrebbe colpire molte più donne che hanno dei malesseri, ma senza collegarli a Essure. Alcune, forse, credono siano i normali effetti di una menopausa: ma non è assolutamente vero». Il gruppo italiano si è raccordato con altri movimenti internazionali, specialmente in Francia dove nel 2016 è stata costituita Resist, un’associazione che ha censito 2881 vittime di Essure su un bacino di 175 mila donne. La sua presidente Emilie Gillier sarà a Roma domenica, insieme ad altre iscritte, per documentare i risultati della sua attività, grazie anche all’apporto di alcuni deputati dell’Assemblea nazionale di Parigi. Ma in questa vicenda il nostro ministero della Salute come si è comportato? Giulia Grillo, dei 5S, fino a poche settimane fa ministro, aveva promesso in febbraio di organizzare un incontro per fare chiarezza. Incontro che non c’è mai stato. Come non c’è mai stata una risposta alla prima mail inviata da Annabel Cavalida il 21 maggio, seguita da una raccomandata dieci giorni dopo e, di nuovo, da altre due mail, il 19 e 20 luglio. Ed è così che in agosto si è fatta strada l’idea della dimostrazione di piazza Esquilino, per appellarsi alla coscienza del successore della Grillo, nominato nel frattempo, Roberto Speranza. Per ottenere che cosa? “La creazione di un protocollo d'espianto, un vademecum da inviare a tutti i chirurghi e i ginecologi per insegnare loro come espiantare Essure». La spirale, infatti, è studiata apposta per installarsi nelle tube che collegano le ovaie all'utero, cicatrizzandosi insieme a questo condotto: «L'unico modo per eliminare Essure è levare l'intero utero, ovaie comprese. Ma, senza un protocollo, i medici possono intervenire come meglio credono, in alcuni casi facendo rimozioni parziali, non risolutive». Domenica, in piazza Esquilino, ci sarà un medico, Gian Luca Bracco, direttore di ginecologia all'ospedale di Lucca, che insieme ad un altro dottore, Matteo Crotti, ginecologo dell'Ospedale di Carpi, sarebbe disponibile a indicare le linee guida del protocollo. Rimarca Annabel: «Il cambio al vertice del ministero della Sanità ci preoccupa. Per questo ci rivolgiamo al nuovo ministro Speranza, augurandoci che mantenga l'impegno preso dalla ministra Grillo”. Ma non è, questa, l’unica richiesta. È importante realizzare anche una mappatura del fenomeno, identificare tutte le donne esposte alle insidie di Essure. La signora Cavalida aggiunge: «Sappiamo che un laboratorio privato è disponibile ad analizzare la composizione di Essure, per individuare l’elemento responsabile dei nostri disturbi. Vogliamo andare a fondo, capire che cosa dà origine a quelle sintomatologie». Insomma, Bayer ascolti queste invocazioni d’aiuto e intervenga. Finora però il colosso tedesco rilascia all’Espresso soltanto la seguente dichiarazione: “La salute e la sicurezza dei pazienti che fanno affidamento sui nostri prodotti è per noi la principale priorità. Il profilo favorevole benefici-rischi di Essure rimane invariato. Continuiamo a sostenere l’efficacia e la sicurezza del prodotto, che sono stati dimostrati da un ampio numero di studi, sostenuti da Bayer e da ricercatori indipendenti: tra questi sono inclusi oltre 40 studi pubblicati, che hanno coinvolto più di 200.000 pazienti negli ultimi 20 anni. Le donne che al momento hanno adottato Essure possono continuare ad utilizzare con sicurezza il dispositivo e non dovrebbero preoccuparsi. Se una donna con Essure ha dubbi o domande sul dispositivo dovrebbe discuterne con il proprio ginecologo”. Papale, papale. Ovviamente, tutto questo vale per il passato, perché ormai Essure non può più essere utilizzato, come abbiamo già scritto. Eppure, domenica, in piazza Esquilino, insieme a donne inviperite, alle T-shirt gialle e a cartelloni tipo “Essure mi ha portato via un organo sano”, nello stile del film Oscar “Tre manifesti a Ebbing”, rimarrà sullo sfondo una grande incognita. Che potrebbe essere sciolta se si potesse avere, grazie a studi di laboratorio, come Annabel Cavalida auspica, “una conferma scientifica sulla pericolosità di Essure. Allora Bayer dovrebbe farsi carico anche dei costi che la sanità pubblica si è accollata per l'impianto e l'espianto del device». Vale a dire, 2.500 euro per l'impianto e tre volte tanto per l'espianto.
Dispositivi a rischio nel cuore dei bambini. Donne con reti nocive nel grembo. Protesi al seno cancerogene. L'allarme lanciato da L'Espresso lo scorso anno ora è diventato globale: le segnalazioni di apparecchi difettosi sono oltre 90.000. E i pazienti italiani hanno cominciato a tirare fuori le loro drammatiche esperienze. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 13 maggio 2019 su L'Espresso. Mamme e papà, seduti sulle panchine di una piazza di Rovigo, tengono d’occhio i bambini che giocano a rincorrersi. Corrono tutti, disegnando un grande cerchio, tranne Erik. Lui riesce solo a fare qualche passetto, lentamente. Erik ha quasi nove anni, la sua è una vita segnata da continue operazioni a cuore aperto, ma «sta affrontando con grandissima forza i dolori, gli scompensi cardiaci, le angine addominali, le febbri». Le parole di suo padre, Andrea Ferrari, esprimono ammirazione per quel figlio lottatore, da dieci mix di farmaci al giorno. Erik è nato nel 2010 con una malformazione congenita chiamata tetralogia di Fallot, che causa una miscelazione tra sangue povero e ricco di ossigeno, ostacolando la crescita e i movimenti. Un difetto cardiaco abbastanza comune, che si può curare. «A Bologna uno specialista ci aveva proposto un doppio intervento chirurgico, uno immediato, l’altro dopo qualche anno: un sistema collaudato», ricorda papà Andrea. «Un pediatra di Rovigo, però, ci ha parlato di un programma innovativo, applicato a Padova: un dispositivo chiamato Cormatrix. In quella cardiochirurgia pediatrica ci hanno spiegato che era una membrana in grado di riparare il cuore una volta per tutte, perché cresce insieme ai tessuti. Mio figlio aveva pochi mesi di vita. Ci siamo fidati: chi non l’avrebbe fatto? Nessuno ci ha informato dei rischi. È stato un calvario».
UN'INDUSTRIA FUORI CONTROLLO. Il genitore veneto è uno degli oltre 700 italiani che hanno potuto cercare documenti e informazioni nella prima banca dati globale dei dispositivi medici (Imdd, International medical device database) creata dal consorzio giornalistico Icij, di cui fanno parte per l’Italia L’Espresso e Report. Nell’inerzia delle autorità, è l’inchiesta Implant files, frutto di un anno di lavoro di oltre 250 cronisti di 36 nazioni, che ha reso per la prima volta pubblici, dal novembre scorso, questi dati sulla sicurezza di migliaia di apparecchi, dai pacemaker alle protesi, impiantati nel corpo dei pazienti. Costretti a convivere con quei congegni per anni, o per sempre. In Italia si contano più di un milione di modelli di device. Molti sono preziosi strumenti salvavita: moderne tecnologie che proteggono i pazienti. Alcuni però nascondono problemi gravissimi. Evidenziati dalle cifre-choc rivelate dall’inchiesta Implant Files: solo negli Stati Uniti, dal 2008 al 2017, sono stati registrati oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni associate a dispositivi difettosi, deteriorati o malfunzionanti. Ora anche i pazienti e i medici italiani possono controllare personalmente, sul nostro sito oltre 90 mila segnalazioni di allarme (in gergo, avvisi di sicurezza) provenienti da 18 nazioni, dagli Stati Uniti alla Germania. Proprio qui il signor Ferrari ha trovato i dati sul device applicato a suo figlio. Al Cormatrix, nell’ultimo decennio, vengono collegati quasi trecento eventi avversi: 7 morti, 259 lesioni, 18 guasti. «Ma noi l’abbiamo saputo solo adesso, grazie alla vostra banca dati». Il Cormatrix, prodotto dall’omonima azienda statunitense, è una membrana ricavata da tessuti di origine suina e bovina, biocompatibili, progettata per saldarsi e crescere con le cellule del cuore. In Europa è stata certificata dalla ditta francese Medpass. Un’impresa privata pagata dal produttore. Una regola assurda, che vale per tutti i dispositivi, anche i più rischiosi: è il controllato che sceglie il controllore. Negli Stati Uniti risultano impiantati oltre 7 mila Cormatrix. In Italia il numero è ignoto, perché non esiste un archivio o registro degli impianti. La membrana risulta utilizzata da tempo in diversi ospedali, da Torino ad Ancona, da Padova a Bologna. Ma il nostro ministero della Salute non ha pubblicato alcun avviso di sicurezza. E neppure rilanciato i quasi trecento allarmi americani. Per anni diversi chirurghi italiani lo consideravano un dispositivo valido, «utile per ricostruire il pericardio dopo un’operazione», come spiega un professore milanese consultato da L’Espresso, che poi l’ha abbandonato «perché non garantiva l’efficacia promessa». Ma fino al 2010 il Cormatrix veniva applicato solo su pazienti adulti, non sui bambini: il papà veneto ha scoperto solo oggi che suo figlio, quell’anno, è stato usato come cavia. «A Padova il medico ci assicurava che non c’erano rischi e con un solo intervento ci saremmo dimenticati dei problemi al cuore di Erik. Col senno di poi, avremmo dovuto fare più attenzione alle sue parole: ci teneva a precisare che non era una sperimentazione, ma un progetto di studio». La differenza non è trascurabile. Per impiantare il Cormatrix nei bambini, i medici padovani proprio nel 2010 chiesero per due volte il parere del Comitato etico per la sperimentazione della Regione Veneto, composto da dodici medici e giuristi. Dalla documentazione ottenuta solo alcuni giorni fa «dopo una lunga attesa e svariati solleciti», come spiega l’avvocato Alessandro Boldini, che segue da tempo il caso, risulta che il Comitato aveva dato una risposta negativa: «L’impiego proposto risulta diverso dalla marcatura CE», cioè dal tipo di utilizzo certificato e autorizzato, mentre «le potenziali capacità di rigenerazione del tessuto (del cuore) sono ancora in fase iniziale di valutazione e non vi sono dati», per cui il progetto di usare il Cormatrix per i bambini «si configura come sperimentazione clinica e richiede l’approvazione di un protocollo». A quel punto Erik viene operato come «progetto di studio». E da lì, spiega il signor Ferrari, «inizia la nostra via crucis, con operazioni continue. Nel 2015 il bambino subisce un intervento a cuore aperto durato 16 ore, al Bambin Gesù di Roma, dove i chirurghi tentano di rimuovere la membrana, ma è quasi impossibile perché si è mischiata con le cellule». Erik lascia l’ospedale mesi dopo, con il suo terzo pacemaker nel cuore. «Siamo in contatto con un’altra famiglia: anche il loro bambino sta per essere rioperato nella speranza di eliminare il Cormatrix». In questi anni varie riviste scientifiche internazionali hanno pubblicato studi sui rischi del Cormatrix. Già nel 2014 un ricercatore dell’università di Padova, Filippo Naso, ha definito «allarmante che questo dispositivo sia stato autorizzato in Europa e Usa senza avvertire dell’effetto collaterale che possono avere cellule provenienti da tessuto animale». Nel 2016 un altro studio, firmato dai professori Biagio Castaldi e Annalisa Angelini, ha riassunto i risultati della prima campagna di controlli sui bambini con un titolo eloquente: «Un monito alla cautela». Tra le carte di Erik, il padre conserva il modulo di consenso al «progetto di studio» che gli fecero firmare nel 2010. Alla voce «C’è qualche rischio per mio figlio?», si legge «No». L’ospedale di Padova ha dovuto versare un risarcimento alla famiglia di Erik. Che però non basta nemmeno a pagare le gravose spese sanitarie: «Erik va controllato ogni due mesi a Roma, qui dobbiamo tenere le macchine per monitorare il cuore... Quindi abbiamo dovuto ipotecare la casa». Il signor Ferrari deve anche difendersi da una querela: un chirurgo di Padova si è sentito diffamato dal suo racconto della storia di Erik, pubblicata in un blog. La procura ha chiesto l’archiviazione, ma il luminare si oppone. E così il 28 maggio, in tribunale, l’unico imputato sarà lui: il papà del bimbo con il cuore a pezzi.
TUMORI DA PROTESI AL SENO. L’Espresso aveva pubblicato già il 25 novembre 2018 il primo articolo in Italia su un allarme che ora è globale. Tutto parte dai dati rivelati dall’inchiesta Implant files: in dieci anni, solo negli Stati Uniti, si contano 39 vittime e oltre 14 mila lesioni associate ad alcuni tipi di protesi al seno. Un femminicidio silenzioso, che continua ad aggravarsi: le donne colpite raddoppiano ogni sei mesi. Il problema riguarda le protesi ruvide (macro-testurizzate), sospettare di aumentare da 9 a 16 volte il rischio di sviluppare una rara forma di cancro, il linfoma anaplastico a grandi cellule. Dopo i primi articoli, il 14 dicembre 2018 il certificatore francese Gmed nega il rinnovo del marchio CE alla multinazionale Allergan, bloccando così le vendite delle protesi al seno della gamma Natrelle. Quattro giorni dopo, il governo di Parigi ne ordina «il ritiro da tutti gli ospedali». E l’Italia? In febbraio la Società di chirurgia plastica ricostruttiva (Sicpre) dichiara che «nel 2018 sono state utilizzate cerca 51 mila protesi, per il 95 cento testurizzate», con 39 donne già colpite da linfoma (ora salite a 41). Quindi i colleghi di Report scoprono il primo decesso accertato in Italia: una donna con una protesi ruvida installata nel 2002, rimossa solo nel 2018. Un caso segnalato già in febbraio al ministero, che non ha pubblicato avvisi per informare medici e pazienti. Il 2 aprile 2018 l’autorità francese Ansv comunica di aver «proibito la vendita, distribuzione, pubblicità e utilizzo» di altri modelli di protesi (macro-testurizzati o al poliuretano) prodotti da Allergan, Arion, Sebbin, Nagor, Eurosilicone e Politech. In Italia il ministro Giulia Grillo annuncia di aver chiesto un parere tecnico al Consiglio superiore di sanità, previsto il 13 maggio. L’eventuale richiamo delle protesi-killer si profila però problematico: L’Espresso ha denunciato già nel 2018 che in Italia non esiste nessuna banca dati nazionale dei dispositivi, per identificare e contattare i pazienti in pericolo. Nel 2012 l’allora ministro Balduzzi varò un «registro obbligatorio delle protesi al seno», che però non è ancora in funzione. Anche il Canada e altre nazioni hanno seguito l’esempio francese, mentre negli Usa l’amministrazione Trump «non ravvisa gli standard di un divieto». Tra le dieci più grandi multinazionali dei device, otto sono americane: fatturano oltre 350 miliardi all’anno.
RETI DI PLASTICA, MEA CULPA POLITICI. È uno dei maggiori risarcimenti concessi a una singola persona per danni sanitari: 120 milioni di dollari, che il gigante Johnson & Johnson (J&J) dovrà pagare a una donna di 68 anni, Susan McFarland, che nel 2008 si era vista impiantare un dispositivo a maglie contro l’incontinenza urinaria. Una sentenza emessa a fine aprile da un tribunale di Philadelphia, che la multinazionale si prepara a contrastare in appello. Il caso riguarda una rete plastificata (Tvt-ODevice) prodotta dalla Ethicon, consociata della J&J, simile a molti altri dispositivi pelvici accusati di aver rovinato decine di migliaia di vittime nel mondo. Tracie Palmer, legale della danneggiata, si era rivolta alla giuria con queste parole: «Ecco il vostro messaggio alla J&J: per la salute e sicurezza delle donne americane, togliete dal mercato questo prodotto». Le reti aderiscono agli organi interni, per cui diventa difficile toglierle anche se provocano emorragie e dolori atroci. L’inchiesta Implant Files è nata dallo scoop di una giornalista olandese, Jet Schouten, che ha videoregistrato i dirigenti di tre società di certificazione (una è italiana) pronti a offrire il marchio CE a una rete per agrumi da supermercato. Dalle protesi ortopediche ai pacemaker, dai defibrillatori alle valvole, le rivelazioni del consorzio hanno provocato una specie di mea culpa universale. In Germania, Olanda, Regno Unito, Spagna, India, Canada e tanti altri Paesi i governi giurano di voler garantire più sicurezza e tracciabilità. In Italia il ministro della Salute ha presentato il 22 marzo la nuova «governance dei dispositivi», ma la direttiva europea che impone di registrare ogni device, con un codice da associare al singolo paziente, verrà applicata «gradualmente, entro tre anni». La lobby dei produttori intanto ha bloccato la riforma più importante: affidare autorizzazioni e controlli a un’agenzia europea, pubblica e indipendente, come per i farmaci. Medici e pazienti devono quindi accontentarsi del marchio privato CE: un congegno impiantato nel corpo resta meno sorvegliato di un’automobile. E non è l’unico privilegio legale concesso ai big dell’industria: «Per le cause sui dispositivi c’è una prescrizione brevissima: solo un anno», spiega l’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, che assiste le prime 50 vittime italiane di Essure, il device anticoncezionale che la tedesca Bayer nel 2017 ha dovuto ritirare. Negli Stati Uniti l’agenzia di controllo (Fda) è pubblica. Il suo capo, Scott Gottlieb, un ex lobbysta nominato da Trump, che in novembre aveva promesso controlli più severi, poi è stato accusato di avere in realtà nascosto decine di migliaia di avvisi di sicurezza scoperti dal consorzio. E in marzo si è dimesso. In attesa di vere riforme, L’Espresso continua a ricevere denunce disperate. Molte donne scrivono al nostro sito di essere «molto preoccupate» per le protesi al seno: «Mi avevano detto che erano sicure. Eppure, da quando me le hanno impiantate, ho dolori diffusi insopportabili, stanchezza cronica, perdita di memoria, rush cutanei, problemi agli occhi, gola perennemente secca, digestione difficile. Sto sempre peggio e ora si sono aggiunti dolori al seno. Fatico a lavorare, a fare le scale, a svolgere qualsiasi attività». Scrive un paziente di Roma: «Ho consultato la vostra banca dati e ho scoperto che mi è stata impiantata una protesi d’anca “a rischio medio-alto”, che rilascia metalli pesanti. Nel 2017 il cromo aveva un livello di 1,40, poco sopra il limite di 1, adesso è a 2,93. Il cobalto è 4,40, mentre la soglia va da 0,1 a 0,4. Vorrei capire cosa rischio, vorrei un aiuto medico». Altro caso pesante: «Sono stato operato per un’insufficienza cardiaca, ho scelto un ospedale veneto perché pubblicizzava un nuovo dispositivo da inserire senza un intervento a cuore aperto. È stato un vero disastro. Ho dovuto farmi rioperare in un altro ospedale. Qui i medici mi hanno detto che quella protesi è sperimentale, costosa (circa 20 mila euro) e viene applicata a centinaia di pazienti italiani anche se non è ancora autorizzata negli Usa, dove viene prodotta. È vergognoso». L’Espresso finora ha raccolto 80 denunce circostanziate che riguardano pazienti italiani. Il consorzio Icij, a livello mondiale, ne ha ricevute ben 3.432. L’inchiesta Implant files continua.
I soldi in nero.
Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021. Lo fanno da anni i governi di mezzo mondo. Si sfidano a colpi di regimi fiscali attraenti per i milionari. Gli spostamenti dei ricchi alla ricerca di servizi migliori e tasse sempre più basse sono un fenomeno esploso nell’ultimo decennio e solo momentaneamente frenato dalla pandemia. A fine 2016 anche l’Italia si è adeguata e il governo Gentiloni ha approvato «l’imposta sostitutiva per i nuovi residenti»: 100 mila euro l’anno fissi per i facoltosi che si trasferiscono nel nostro Paese.
I milionari nel mondo
Ma chi sono i milionari? Si dividono in tre categorie:
1) i ricchi (High-Net-Worth Individuals), cioè coloro che hanno un patrimonio netto tra 1 e 5 milioni di dollari in attività liquide (escluse residenza principale, oggetti da collezione, beni di consumo e beni durevoli), e nel mondo sono in 18,7 milioni;
2) gli intermedi (Mid-tier Millionaires), sono 1,89 milioni e possiedono un patrimonio in attività liquide che va da 5 a 30 milioni di dollari;
3) i super-ricchi (Ultra High-Net-Worth Individuals), con un patrimonio che supera i 30 milioni di dollari, una fortuna che bacia solo 200.900 persone.
Gli Stati Uniti sono il Paese con più milionari (6
milioni e 575 mila, 11,3% rispetto al 2019), seguiti da Giappone (3,5 milioni,
+6,2%), Germania (1,5 milioni,
+6,9%), Cina (1,4 milioni, +11%) e Francia (714 mila, +1,7%). Nona l’Italia (301
mila ricchi, +2,1%).
Dove e perché migrano i milionari
La maggior parte dei milionari cambia residenza non solo per pagare meno tasse, ma anche perché cerca assistenza sanitaria d’alto livello, scuole elitarie, maggiore sicurezza, e nuove opportunità di arricchimento. Secondo la «Global Wealth Migration Review», che ha esaminato gli spostamenti dei milionari residenti in 90 Paesi e 150 città, la migrazione della ricchezza ha registrato un’accelerazione costante prima della pandemia. Sono 108 mila i ricchi che hanno cambiato Paese nel 2018 rispetto ai 64 mila del 2015. Il numero totale, in tre anni, raggiunge i 350 mila. Nel 2019, ultimo anno esaminato, il Paese più attrattivo è stata l’Australia (12 mila), per via del basso tasso di criminalità, l’ottimo sistema sanitario, un’ economia in crescita da 20 anni, e assenza di tasse di successione. Al secondo posto gli Stati Uniti (10.800), poi Svizzera (4 mila), Canada (2.200), Singapore (1.500). Da quali Paesi provengono i milionari che si spostano? Al primo posto c’è la Cina (16 mila), poi India (7 mila), Russia (5.500), Hong Kong (4.200) e Turchia (2.100). Ad alimentare l’esodo dalla Cina sono i maggiori controlli e la stretta sui milionari, ma sulla fuga ha avuto un suo peso anche la repressione su Hong Kong. Le città di destinazione preferite: Sydney, Ginevra, Melbourne, Singapore e Dubai.
Il dumping fiscale nella Ue
Il corteggiamento dei Paesi europei verso i milionari ha due scopi: attrarre nuovi investimenti e aumentare le entrate. Uno studio pubblicato il 22 novembre dall’Osservatorio fiscale della Ue, laboratorio di ricerca indipendente che si occupa di evasione ed elusione fiscale, mostra che dal 1995 a oggi il numero di regimi speciali per milionari e pensionati benestanti è passato da 5 a 28, e rileva che le misure avvantaggiano una minoranza già ricca (nel 2021 si contano circa 200 mila beneficiari) a spese di 450 milioni di cittadini.
La parabola fiscale di Cristiano Ronaldo
Per dimostrare quanto questi sistemi siano ingiusti e molto simili tra loro il gruppo verde al Parlamento europeo ha pubblicato nel 2019 la ricerca «Competing for the Rich» in cui racconta la parabola fiscale di Cristiano Ronaldo. Il campione portoghese negli ultimi 18 anni ha giocato in 3 Paesi Ue ed ha sempre goduto di grandi vantaggi fiscali. Nel 2003, all’età di 18 anni, Cr7 si trasferisce dallo Sporting Lisbona al Manchester United, in Gran Brategna, e sfrutta il regime di residente non domiciliato che gli permette di non pagare le tasse sui redditi prodotti all’estero (tutte le sponsorizzazioni milionarie). Nel 2009 va al Real Madrid, e grazie alla «legge Beckham» gode di una tassazione ridotta al 24% sui redditi prodotti in Spagna, ma anche della completa esenzione su quelli prodotti all’estero. Nel 2018 passa alla Juventus e in Italia, grazie «all’imposta sostitutiva», versa ogni anno solo 100 mila euro come neo-residente per i redditi esteri. Infine nel 2021 torna in Gran Bretagna e usufruisce ancora una volta del regime di residente non domiciliato. Un percorso lineare e legittimo che ha avuto un solo incidente: nel 2018 Ronaldo è stato condannato a pagare al fisco iberico 18,8 milioni di euro per reati fiscali commessi tra 2011 e 2014. Niente di insormontabile per un atleta che solo nel 2021 ha guadagnato 120 milioni di dollari e che l’anno scorso è diventato il primo calciatore ad aver superato un miliardo di dollari di guadagni in carriera.
Quanti sono i milionari trasferiti in Italia?
Con l’approvazione dell’imposta sostitutiva per i nuovi residenti dal 2017 l’Italia ha visto aumentare le richieste dei paperoni provenienti dall’estero. Il regime fiscale speciale prevede un forfait di 100 mila euro fino a un massimo di 15 anni, a prescindere dall’importo dei redditi esteri percepiti. Un sistema disegnato non solo per attrarre stranieri, ma anche italiani che hanno spostato la residenza fiscale all’estero (per usufruire dell’opzione bisogna dimostrare di aver versato le tasse in un altro Paese negli ultimi 9 anni). L’opzione si può estendere anche ai loro familiari, che possono godere di un’imposta fissa di 25 mila euro. Se nel 2017 i soggetti che avevano scelto il regime fiscale speciale erano 98 (78 contribuenti principali e 20 familiari), nel 2018 erano già diventati 263, per poi raggiungere le 429 unità nel 2019, e nel 2020 salire a 790 (592 contribuenti principali e 198 familiari).
Gli incassi per lo Stato
Il primo anno di entrata in vigore della norma nelle casse pubbliche sono entrati 8,3 milioni di euro, nel 2020 sono diventati 64,1 milioni. Denaro che l’erario non avrebbe mai incassato senza l’imposta forfettaria. E allora perché questo regime fiscale è considerato ingiusto? Prima di tutto perché lede il principio di uguaglianza tributaria a danno dei soggetti che sono sempre stati residenti in Italia. In più tradisce l’art.53 della Costituzione che sottolinea come tutti i cittadini debbano concorrere al benessere della società in ragione della loro capacità contributiva (più guadagni, più tasse paghi). Inoltre - come ha spiegato la Corte dei Conti nell’ultima Relazione sul rendiconto generale dello Stato - l’obiettivo prefissato del regime forfettario era «favorire gli investimenti in Italia da parte di soggetti non residenti». Tuttavia non essendoci alcun obbligo di investire in Italia parte del patrimonio, lo scopo dell’imposta rimane lettera morta e ai milionari restano solo i benefici.
Le critiche dalla Ue
La tassa forfettaria per i neo-residenti in Italia è giudicata dall’Osservatorio fiscale della Ue, insieme all’imposta per i ricchi in Grecia, il più pericoloso tra i 28 regimi fiscali speciali adottati in Europa. L’opzione è bocciata perché copre un periodo spropositato (15 anni) e perché fa risparmiare oltre il 50% per i redditi esteri che raggiungono almeno 500 mila euro. Per l’Osservatorio i sistemi più dannosi - introdotti da Italia, Grecia, Cipro e Portogallo - minano la progressività fiscale. Tasse simili sono in vigore in Francia (régime des impatriés), Lussemburgo (hiring international executive regime), Irlanda (non-remittance regime), Spagna (regime Espatriados) e a Malta (Residence Programme Rules). Complessivamente il ricorso a questi regimi provoca nella Ue una perdita fiscale di 4,5 miliardi di euro l’anno, pari al budget annuale del programma Erasmus.
Il timore è che sempre più Paesi europei si adeguino, indebolendo le nazioni che non sfruttano questa sorta di elusione fiscale legalizzata. Alla fine ci perdono tutti, Italia compresa, perché se da una parte attraiamo milionari stranieri, dall’altra anche i nostri ricchi si spostano. E nessuno paga ciò che dovrebbe, per incrementare il benessere del Paese in cui vive.
C’è un fiume di soldi in nero che dall’Italia va alla Cina. Le indagini della Guardia di Finanza hanno scoperto oltre duecento milioni di euro inviati da Padova alle banche di Pechino. Ma è solo la punta dell’iceberg. «È come se la gran parte delle aziendine cinesi, nel manifatturiero e nel commercio, avessero ricevuto un vademecum su come evadere le tasse e riportare contante in patria». Antonio Fraschilla e Luana De Francisco su L'Espresso il 12 ottobre 2021. La via della seta c’è già, ma gira all’incontrario: porta soldi sporchi, fatti in nero da una miriade di aziendine e partite Iva cinesi, dall’Italia alla Cina. Un fiume di denaro che approda in banche legate anche allo Stato guidato da Xi Jinping. La Guardia di finanza ha avviato una grande operazione sul riciclaggio cinese nel nostro Paese che ha come obiettivo principale riportare nella madre patria l’enorme quantitativo di contante in nero fatto in Italia. Una storia che rischia di avere sviluppi importanti, e implicazioni geopolitiche di non poco conto, e che nasce nelle stradine e nei bar del ricco Veneto e in centri commerciali del nord, con tanto di sacchi pieni di contanti per decine di milioni di euro che entrano ed escono dai negozietti gestiti da cinesi, e prosegue con società cartiere in mezza Europa fino agli istituti bancari di Pechino e Shangai. Al momento la Guardia di finanza ha scoperto un flusso illecito di denaro dall’Italia alla Cina pari a 210 milioni di euro (cinque volte le rimesse ufficiali della comunità cinese verso la madrepatria), ma è solo la punta dell’iceberg: perché questa cifra riguarda appena due operazioni dei finanzieri fatte a Pordenone e Portogruaro, nate entrambe per altri motivi, slegate tra loro, ma che invece erano facce della stessa medaglia. Anzi, erano mosse di uno stesso gioco. In queste settimane, indagini sono state avviate anche a Milano, Alessandria, Vercelli e in diverse città del nord. Lo schema scoperto sarebbe identico e dalla Guardia di finanza ammettono: «È come se la gran parte delle aziendine cinesi, nel settore manifatturiero e del commercio al dettaglio, avessero ricevuto un vademecum su come fare nero, evadendo le tasse, e su come riportare questa enorme mole di denaro in contante in Cina», dice il colonnello Stefano Commentucci.
I SACCHI DI SOLDI
Questa storia inizia in corso Stati Uniti a Padova, accanto al grande centro commerciale all’ingrosso cinese. Le fiamme gialle stavano seguendo i movimenti di Stefano Cossarini, un imprenditore di Pordenone sospettato di aver messo su una rete per smaltire illecitamente scarti da metallo prodotti dalle fabbrichette di Lombardia e Triveneto, evadendo milioni di euro di Iva e altre imposte. Scrivono i finanzieri nel loro report investigativo che ha fatto scattare l’indagine della direzione distrettuale antimafia di Trieste: «Stefano Cossarini si reca spesso in corso Stati Uniti a Padova, entra nel negozio ad insegna Pier Monì e ne esce con buste dalle quali si evince il recupero, all’interno del negozio, di qualcosa». La Guardia di finanza da giorni aveva piazzato lì delle telecamere: in quei sacchi c’è del denaro contante. «È la chiusura del cerchio, perché avevamo trovato la filiera dei pagamenti verso la Cina da parte degli italiani, ma non riuscivano a capire come facevano poi i soldi a tornare nella disponibilità degli imprenditori su cui stavamo indagando. Da qui abbiamo capito il meccanismo, complesso, che di fatto consentiva agli italiani di evadere le tasse e portare il frutto dell’evasione in banche cinesi, e ai cinesi di far diventare di loro proprietà queste somme nelle banche del loro Paese in cambio di denaro contante agli italiani per una cifra davvero elevata, probabilmente frutto del nero creato in Italia dalle aziende cinesi o da altre attività illecite», continua Commentucci. Lo schema è complesso: centinaia di aziende della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna, per smaltire gli scarti metallici da produzione senza pagare le imposte e senza garantire il controllo dell’origine dei materiali, hanno venduto in nero 150 mila tonnellate di rame, ottone, alluminio e altri metalli a delle società (Metal Nordest, Femet ed Ecomet) create da tre imprenditori, Stefano Cossarini, Roger Donati e Fabrizio Palombi. Quest’ultimi facevano finta poi di acquistare lo stesso quantitativo di materiale da tre società in Repubblica Ceca e in Slovenia, intestate o controllate da loro: la Kovi Trade, la Steel distribution e la Biotekna. In questo modo, con delle carte fasulle si certificava l’origine di questo materiale dall’estero. Ma in realtà i metalli erano stati comprati in nero in Italia e venivano poi venduti con certificazioni apparentemente regolari alle grandi acciaierie del Nord, probabilmente ignare dal momento che la provenienza dall’estero era certificata da documenti che sembravano in ordine. Ma l’operazione non finisce qui: formalmente le tre società della Slovenia e della Repubblica Ceca ricevevano i bonifici della Metal Nordest, della Femet e della Ecomet e quindi incassavano soldi veri, circa 150 milioni di euro. A questo punto le tre società estere facevano finta di acquistare a loro volta il materiale ferroso in Cina, facendo quindi ulteriori pagamenti veri accreditati in diversi conti di banche cinesi. Una volta accertatisi del bonifico fatto in Cina, i cinesi restituivano i soldi in contanti agli italiani. Il sospetto che lo Stato cinese sappia di questo giro di soldi nasce dal nome delle banche che ricevevano questi bonifici. In gran parte istituti controllati dallo Stato: a partire dalla Bank of China, con conti nelle sedi di Xiamen, Quanzhou, Hangzhou e Jinhua, proseguendo con The agricultural bank of China, China city bank, China construction bank corporation, China everbright bank e Industrial and commercial bank of China. Fin qui comunque potrebbe sembrare un’operazione complessa che, tutto sommato, nonostante le cifre in ballo, più di 150 milioni di euro in contanti, riguarda solo i due gruppi di italiani e cinesi in questione. Ma non è così.
LE FOTO NELL’HARD DISK
Qualche mese prima la Guardia di finanza di Venezia guidata dal generale Giovanni Avitabile, in un’operazione coordinata dal colonnello Michele De Luca del gruppo di Portogruaro, investigando su un giro di riciclaggio, scopre per pura casualità un meccanismo identico. Le Fiamme gialle stavano facendo un approfondimento su Fabio Gaiatto, un finto broker che in secondo grado è stato condannato a 10 anni per aver truffato una serie di clienti attraverso una sua società finanziaria che prometteva guadagni fino al 10 per cento della somma investita. Quando gli inquirenti si concentrano su un investitore di Gaiato, un sessantaquattrenne di Portogruaro, salta fuori dell’altro. Durante la perquisizione in casa, l’investitore cerca di disfarsi di un hard disk gettandolo dalla finestra: «I nostri tecnici riescono comunque a recuperare tutti i file e trovano non solo i pagamenti a società cartiere in Bulgaria e Slovenia, sempre per finti smaltimenti di rottami di ferro e finti acquisti dalla Cina dello stesso materiale con bonifici che finivano questa volta in una banca di Shangai, ma anche le foto di questi bonifici inviate ad imprenditori cinesi». Seguendo queste tracce, gli inquirenti finiscono sempre in corso Stati Uniti a Padova. E davanti si trovano il volto di chi gestirebbe questa intermediazione per conto dei cinesi. Lo stesso volto che appare nell’operazione della Finanza di Pordenone. «L’indagine ha mostrato che alcuni soggetti di nazionalità cinese oltre ad offrire questo servizio a imprenditori italiani che volevano evadere imposte e tasse per avere più risorse dai loro investimenti, riuscivano a far arrivare in Cina un enorme quantitativo di denaro contante, probabilmente anche frutto di nero e attività illecite, bypassando completamente il sistema degli intermediari bancari e, con esso, i presidi antiriciclaggio», dice il generale Avitabile. Le somme movimentate verso la Cina in questa operazione sono pari a 60 milioni di euro.
LA VIA DELLA SETA IN NERO
Incrociando le due operazioni, non solo si scoprono meccanismi fotocopia ma si arriva a un riciclaggio pari a 210 milioni di euro e si trovano gli stessi personaggi cinesi adesso nel mirino degli inquirenti. Solo nel mirino, e non già fermati, perché per far scattare gli arresti in base alle nuove norme sul riciclaggio occorre dimostrare la provenienza illecita di queste somme e qui è molto più difficile: alcuni cinesi sono stati fermati alla frontiera con milioni di euro in contanti, ma al netto del sequestro delle somme trovate e non giustificate non si è potuto fare molto altro perché di fronte a una dichiarazione del tipo «ho trovato queste somme per strada» è quasi impossibile avviare una indagine a ritroso per capire da dove provengano in soldi. In generale, il sospetto è che vista l’enorme disponibilità di denaro contante offerta dai cinesi nelle due operazioni di Pordenone e Portogruaro, e viste le indagini in corso a Milano, Alessandria e Torino, queste banconote siano frutto del nero fatto da aziende e commercianti della comunità cinese, oltre che di traffici illeciti come la prostituzione. Anche su questo fronte i numeri dicono tanto: tra il 2008 e il 2020, solo nel Veneto sono state aperte da cinesi 15 mila partite Iva e il 58 per cento ha dichiarato zero euro, il 21 per cento tra 5 mila e 600 euro di fatturato. Inoltre sono tantissime le partite Iva che dopo due anni sono state chiuse. In generale, in Italia gli interventi ispettivi nei confronti di ditte individuali cinesi negli ultimi anni sono state quasi 20 mila e hanno consentito agli inquirenti di scoprire una maggiore base imponibile ai fini delle imposte dirette pari 7,3 miliardi di euro e un’Iva dovuta di oltre un miliardo. «Spesso i commercianti o le aziendine fanno anche scontrini e fatture, poi però non presentano la dichiarazione dei redditi e quindi creano debiti enormi con l’erario», dicono dalla Guardia di finanza, che ha appena avviato un osservatorio sull’economica cinese creato al comando generale proprio dopo le ultime operazioni che hanno scoperto la grande via del nero. In questa storia si fa largo un altro sospetto delle Fiamme gialle che sta trovando conferma da alcuni risconti nelle altre operazioni in corso: in sostanza i cinesi, per portare i soldi in Cina, hanno bisogno di chi, in Italia, vuole evadere tasse oppure si trova denaro contante da investire e riciclare. E le mafie rientrano perfettamente in questa categoria: la ’ndrangheta con il traffico e lo spaccio di cocaina ha moltissimo contante da movimentare e alcuni suoi esponenti sono entrati in contatto con il sistema offerto dall’organizzazione cinese. Una cosa è certa: il filone scoperto dalla Guardia di finanza potrebbe rivelare molte altre sorprese e i numeri di un riciclaggio da far paura.
I Paradisi Fiscali. Giuseppe Sarcina e Milena Gabanelli per il "Corriere della Sera" il 15 novembre 2021. Rigore a senso unico su tasse ed evasori: il governo degli Stati Uniti è sempre più severo con i propri contribuenti, ma poi protegge gli stranieri che imboscano denaro sul territorio americano. Joe Biden e la Segretaria al Tesoro, Janet Yellen hanno lanciato un’aggressiva campagna politica, economica e anche culturale contro evasione tributaria, paradisi fiscali, riciclaggio e corruzione. Tutto bene, se ci non fossero alcune vistose contraddizioni che inquinano i rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, in particolare con noi europei. Nel Dataroom del 26 aprile scorso abbiamo visto le strategie aziendali per eludere le imposte, e come i big del digitale siano in grado di quasi azzerare il carico tributario spostando gli utili da un territorio all’altro. Con la global minimun tax si fa un piccolo passo avanti verso l’equità. E su questo dobbiamo ringraziare Biden. Come invece garantire che anche i singoli cittadini paghino il dovuto all’erario, senza nascondere soldi su conti bancari o fiduciarie oltre confine?
Scambio di informazioni fiscali: come funziona
Già sette anni fa, esattamente il 15 luglio del 2014, il Consiglio dell’Ocse (Organizzazione cooperazione e sviluppo economico) ha adottato il «Common Reporting Standard (Crs)», un protocollo che prevede lo scambio sistematico di informazioni fiscali a livello internazionale. Da una parte le banche, i fondi di investimento, le fiduciarie, i trust e altre finanziarie sono tenute a comunicare tempestivamente alle autorità del proprio Paese come hanno operato i cittadini stranieri (solo persone fisiche, non società di capitali) sui quattro «canali» da cui transitano le ricchezze Eccoli: conti di deposito (cioè conti corrente, conti commerciali, libretti di risparmio); conti di custodia detenuti da fiduciarie o trust; azioni e altre forme di capitale a rischio; contratti di assicurazione. Dall’altra i Ministeri delle Finanze inviano un rapporto ai partner del Crs. In questo modo, per esempio, la nostra Agenzia delle Entrate comunicherà a Berlino cosa possiedono i cittadini tedeschi nel nostro Paese e viceversa la Germania farà la stessa cosa con noi. E così tutti gli altri, in una fitta rete di relazioni multilaterali.
Gli Usa non aderiscono
I primi scambi di informazioni sono iniziati nel 2017, ed abbiamo scoperto che ne per esempio nel nostro Paese 2 milioni di cittadini italiani hanno 3 milioni di conti esteri (soprattutto in paesi a fiscalità agevolata) su cui sono depositati 210 miliardi di euro. All’intesa dell’Ocse aderiscono 112 Stati: i 27 Paesi dell’Unione europea, Gran Bretagna, Cina, Russia, India, ma anche Svizzera, Isole Vergini Britanniche, Isole Cayman, Barbados, Bahamas eccetera. C’è solo un grande assente: gli Stati Uniti. La scelta di Washington ha sorpreso anche gli alleati più stretti, visto che l’Ocse si era attivata su impulso del G20, di cui gli americani sono protagonisti. Per altro il nuovo corso voluto da Biden, la «lotta senza sconti alle astuzie fiscali», avrebbe come logico sbocco la piena sottoscrizione del «Crs», ma non sarà così neanche nel prossimo futuro. È una storia che comincia undici anni fa e che illustra bene quale sia l’idea di «collaborazione internazionale» coltivata dai governi americani, democratici o repubblicani che siano, quando c’è di mezzo la condivisione di database considerati sensibili.
L’accordo americano a senso unico
Barack Obama, appena arrivato alla Casa Bianca, promosse una campagna anti-evasione con lo scopo di fermare la fuga all’estero di capitali e di risparmi. Obama avviò un’intensa opera di pressioni politiche e diplomatiche che portò, nel 2010, all’introduzione del «Fatca» (The Foreign Account tax compliance Act). Nel giro di pochi anni gli Usa hanno convinto 113 Paesi ad aderire. Nell’elenco ci sono i tradizionali alleati europei, i Paesi asiatici e le tante zone franche della fiscalità mondiale. Gli Stati concordano sulla necessità di scambiarsi i dati sui conti correnti, i depositi, gli investimenti oltre confine dei propri cittadini. Sembra la stessa formula dell’Ocse, ma se si leggono con attenzione le carte, si vede come i due accordi siano radicalmente diversi. Mettiamola così. Il governo Usa vuole sapere tutto sui contribuenti americani, stanandoli ovunque, scardinando, almeno sulla carta, le roccaforti storiche del segreto bancario, come la Svizzera appunto. Ma quando si tratta di percorrere la strada a ritroso, le cose cambiano parecchio. Gli americani hanno concepito il «Fatca» non fissando standard validi per tutti, ma affastellando protocolli bilaterali, Stato con Stato. Per capire come funzionano bisogna aprirli e leggerli uno per uno.
I dati che gli Usa danno all’Italia
Proviamo a fare un esempio con quello siglato dall’Italia il 17 agosto del 2015. L’articolo 2 prescrive le informazioni che la nostra Agenzia delle Entrate (delegata dal Mef) si impegna a comunicare ogni anno all’«Irs», Internal Revenue Service, l’Agenzia delle entrate Usa. Nel dettaglio: il numero di conto aperto da un cittadino americano in una banca o in un’altra istituzione finanziaria; il totale dei depositi, degli interessi maturati, dei redditi provenienti da cessione di una parte o di tutto il patrimonio; se è un deposito fiduciario, va comunicato l’ammontare degli interessi maturati, dei dividendi incassati e altri redditi generati dal patrimonio in custodia. Vediamo, invece, quali sono gli obblighi assunti dagli Usa in quella stessa intesa del 2015. Riferire all’Agenzia delle Entrate i dati anagrafici dei contribuenti italiani, il numero di conto aperto presso una banca americana, gli interessi maturati in un anno, il totale dei dividendi e di altri redditi provenienti da attività negli Stati Uniti. Ma il totale depositato su quel conto no.
Chi controlla i flussi
In sostanza le nostre autorità consegnano una radiografia completa dei redditi e delle operazioni compiute in Italia da un americano; Washington ricambia con notifiche laterali, senza neanche comunicare quale sia la consistenza delle ricchezze detenute da un contribuente italiano in una banca americana. Lasciando quindi libera la prateria del riciclaggio. Con un tocco di ironia involontaria, nello testo del «Fatca» con l’Italia si legge (articolo 6): «Il governo degli Stati Uniti riconosce la necessità di raggiungere livelli equivalenti di scambio di informazioni reciproco e automatico». Bene, sarebbe arrivato il momento di farlo.
I 7 paradisi americani
Così come sarebbe maturo un intervento sui paradisi fiscali interni. Quelli al centro del dibattito politico e legislativo sono sette: Delaware, Wyoming, New Mexico, Nevada, Alaska, Montana, South Dakota. Tutti Stati che offrono tassazioni agevolate, soprattutto alle imprese, o legislazioni che consentono di occultare informazioni essenziali sui proprietari o i beneficiari di una società. Nelle ultime settimane l’inchiesta dei «Pandora Papers», condotta dall’«International Consortium Investigative Journalism» (150 media nel mondo), ha seguito le tracce di 206 posizioni finanziarie opache, aperte negli Usa da stranieri provenienti da 41 Paesi diversi. Tra loro figurano il presidente della Repubblica Domenicana Luis Abinader, il re di Giordania Abdullah II, il presidente del Congo Nguesso, imprenditori, star dello spettacolo, calciatori. Uno dei crocevia più attivi è il South Dakota, lo Stato che ha incentivato la formazione dei cosiddetti «trust». La legislazione locale consente a queste società di schermare l’identità del beneficiario. Negli ultimi dieci anni le ricchezze custodite nelle fiduciarie di Sioux Falls, la capitale del South Dakota, si sono quadruplicate, toccando la cifra di 360 miliardi di dollari.
Cosa offre il Delaware
Ma il rifugio fiscale più frequentato resta il Delaware, lo Stato che il presidente Biden ha rappresentato al Senato per 36 anni. Circa 1,6 milioni di imprese (qualche centinaio sono italiane) hanno installato qui la loro sede legale, comprese circa 300 aziende inserite nella classifica di Fortune 500. Il Delaware offre sostanzialmente tre vantaggi: la costituzione agevolata dei «trust»; una modesta tassa dell’8,7% sugli utili delle imprese, e quelli ricavati da alcune attività (brevetti, marchi e altri «investimenti intangibili») anche se la produzione è collocata altrove. Infine nel Delaware opera un tribunale per le controversie commerciali, la «Court of Chancery», tradizionalmente molto sensibile alle ragioni degli imprenditori. Queste zone franche sono motivo di imbarazzo politico per il governo Biden. Non è facile, spianare le legislazioni locali. Le resistenze sono bipartisan: quattro Stati sono governati dai repubblicani; tre dai democratici. Per il momento l’unico strumento in campo è il «Transparency Act», legge approvata il primo gennaio del 2021. Il provvedimento impone, tra l’altro, a tutte le società costituite in America di riferire alle autorità i nomi degli azionisti. Ma non si menzionano i «trust», cioè il veicolo più usato per occultare l’identità dei beneficiari. Le norme entreranno in vigore a gennaio 2022. I contribuenti che pagano fino all’ultimo centesimo aspettano da Biden un cambio di passo.
Dubai è il paradiso degli evasori: zero tasse e 47 sfumature di anonimato. L’inchiesta giornalistica internazionale Pandora Papers svela i segreti finanziari degli Emirati. Nelle carte dello studio Sfm i nomi dei beneficiari di 2.297 società offshore. Tra i clienti migliaia di vip, ma anche riciclatori, trafficanti di droga e armi, boss del dark web. E 35 componenti delle famiglie reali arabe. L'Espresso e Icij su L'Espresso il 16 novembre 2021. Un ricchissimo paradiso fiscale e societario. Che nasconde al suo interno decine di zone franche dove è lecito fare affari e gestire patrimoni nel più totale anonimato e senza pagare nulla di tasse. Con la protezione delle famiglie reali. I Pandora Papers svelano, per la prima volta dall'interno, i segreti finanziari degli Emirati Arabi Uniti. L'inchiesta giornalistica internazionale coordinata dal consorzio Icij, rappresentato in Italia dall'Espresso, ha portato alla luce oltre 190 mila documenti interni della società Sfm, con base a Dubai, che crea e gestisce società offshore per migliaia di vip di tutto il mondo. Una massa di carte riservate che permette di identificare gli effettivi titolari e beneficiari economici di 2.977 offshore, fino a ieri sconosciuti. Gli Emirati Arabi sono una federazione di sette regni che, dopo aver ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna, si sono uniti circa 50 anni fa. Negli ultimi trent'anni questa nazione desertica con dieci milioni di abitanti, governata da monarchi assoluti, è diventata una capitale della finanza globale: un miracolo economico simboleggiato dai grattacieli futuristici, hotel scintillanti, isole artificiali, gioiellerie e negozi di lusso di Dubai. Il governo federale è controllato dalla famiglia reale di Abu Dhabi, l'emirato più grande. Il presidente in carica, lo sceicco Khalifa Bin Zayed, è malato da tempo: l'uomo forte del regime è il suo fratellastro, Mohammed Bin Zayed, detto Mbz, che ha deciso anche gli interventi militari nelle sanguinose guerre civili in Libia e Yemen. Le dinastie al potere sono ricchissime, ma non sopportano di pagare le tasse nemmeno all'estero: nei Pandora Papers si contano almeno 35 componenti delle famiglie reali che fanno affari in tutto il pianeta utilizzando società offshore con basi in altri paradisi fiscali, dalle Seychelles alle British Virgin Islands. Il boom economico e urbanistico degli Emirati è legato non solo all'inesistenza di tasse sulle società e sugli utili distribuiti agli azionisti, come in tutte le giurisdizioni offshore, ma anche a norme speciali che garantiscono segretezza e anonimato ai massimi livelli. Un privilegio prezioso per migliaia di personaggi intenzionati a sfuggire agli obblighi di trasparenza imposti dalle convenzioni internazionali contro il riciclaggio di denaro sporco, in vigore da anni in gran parte del mondo. La società Sfm è stata fondata nel 2006 in Svizzera da un ex banchiere arabo e nel 2013 si è trasferita a Dubai, conservando una filiale elvetica. Oggi si presenta su Internet come «il primo fornitore di offshore del mondo». Sfm è una delle 14 fabbriche internazionali di società anonime (offshore provider) al centro dei Pandora Papers. Lo studio di Dubai, dove lavorano anche professionisti stranieri esperti di fisco, banche e finanza, ha dichiarato al consorzio Icij di «rispettare rigorosamente tutte le leggi internazionali», comprese le norme che obbligano a segnalare le operazioni sospette e registrare gli effettivi titolari delle offshore. Tra i clienti della Sfm, però, l'inchiesta giornalistica internazionale ha identificato almeno 24 personaggi che sono stati incriminati in varie nazioni per riciclaggio, frodi fiscali e finanziarie, complicità con traffici di droga e pedo-pornografia, scandali di spionaggio informatico e altri reati. Almeno dodici risultano condannati in via definitiva. Tra i nomi più imbarazzanti che emergono dai Pandora Papers c'è Firoz Patel, l'ex magnate di Internet, con base nel Quebec, che ha confessato ai giudici americani di aver gestito il riciclaggio di oltre 250 milioni di dollari a favore di altri criminali arricchitisi con traffici di droga, commerci online di pornografia per pedofili e altri gravi reati. Le indagini sul maxi-riciclatore erano iniziate nel 2017 negli Stati Uniti. Nell'aprile dello stesso anno Patel è diventato cliente della Sfm, che gli ha aperto segretamente una società offshore nell'emirato di Ras Al Khaimah, che garantisce il più assoluto anonimato. Solo nel 2018 la Sfm ha chiuso la sua posizione per imprecisate «ragioni legate a verifiche legali». Nel 2020 Patel si è dichiarato colpevole, ha aiutato le autorità Usa a smantellare la sua rete di riciclaggio e ha patteggiato una condanna a tre anni, che sta scontando in carcere. Tra i clienti della Sfm compare anche Alexandre Cazes, diventato famoso come «il re del dark web», incriminato in California per aver organizzato un mercato illegale su Internet, chiamato Alpha Bay, utilizzato da migliaia di delinquenti di mezzo mondo per vendere armi, eroina, oppiodi, droghe chimiche e per riciclare denaro sporco per centinaia di milioni attraverso operazioni finanziarie anonime. Cazes è stato arrestato nel 2017 in Thailandia, dove una settimana dopo è stato trovato morto in carcere: il caso è stato archiviato come suicidio, tra molti dubbi. Di certo ora non può più rivelare i nomi dei complici. La Sfm aveva costituito almeno cinque società offshore utilizzate segretamente dal re del dark web. Tra gli investitori che si sono affidati alla società di Dubai non mancano le sorprese geo-politiche. I Pandora Papers rivelano che la Sfm ha creato almeno due offshore per un manager iraniano con residenza in Germania, Abdulhabi Tabibi, che dirige un'azienda di Teheran controllata dalla Ghadir Investments, cuore economico della fondazione miliardaria che opera alle dirette dipendenze dell'ayatollah Alì Khamenei, il leader politico-religioso della repubblica islamica. Iran ed Emirati sono schierati su fronti opposti nelle guerre civili in Yemen e Siria, ma nel paradiso di Dubai gli interessi si incrociano e si confondono. Dai Pandora Papers emerge anche il lato oscuro dei regimi arabi, tra dispotismo e repressione. I documenti interni della Sfm collegano allo sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, l’attuale capo del governo di Dubai, due società anonime delle Isole Vergini Britanniche che risultano azioniste di Dark Matter: un’azienda di sicurezza informatica accusata di aver spiato sistematicamente gli oppositori del regime e gli attivisti per la democrazia e i diritti umani. Nel settembre scorso tre ex manager di Dark Matter, tutti americani con un passato nell’esercito Usa o nella Cia, si sono dichiarati colpevoli di aver organizzato l’hackeraggio di telefonini e computer negli Emirati e in altri paesi del mondo. Le offshore anonime coprono anche importanti esponenti del governo federale. Il ministro per la sicurezza nazionale degli Emirati, lo sceicco Tahnoon Bin Zayed, in particolare, viene indicato nelle carte della Sfm come l’effettivo beneficiario economico di una società delle Isole Vergini Britanniche, attiva negli scorsi anni, che non aveva alcun titolare visibile: a controllarla era il possessore materiale delle sue «azioni al portatore», titoli senza nome che sono vietati da decenni dalle convenzioni contro il riciclaggio. Negli Stati Uniti lo sceicco Tahnoon è stato coinvolto nello scandalo del reclutamento di Tom Barrack, l’ex magnate della Costa Smeralda che nel 2016 presiedeva il comitato per l’elezione del presidente Trump, come «lobbysta non dichiarato» a favore degli Emirati. Rispetto agli altri paradisi fiscali, Dubai e gli altri regni federati offrono statuti speciali ancora più vantaggiosi per chi chiede segretezza. Negli Emirati esistono 47 zone franche (Free trade zone, Ftz) dove non esistono tasse di alcun tipo e nemmeno controlli societari. I nomi degli azionisti restano segreti e in alcune zone franche non vanno registrati neppure gli amministratori. Solo Dubai ha 30 diverse zone franche, con statuti autonomi e norme speciali. Le più ricche controllano il mercato internazionale delle pietre preziose, soprattutto oro e diamanti, che sono la seconda fonte di ricchezza dopo il petrolio. Nel 2020 gli Emirati, secondo i dati delle Nazioni Unite, hanno importato oro per 37 miliardi di dollari, che per 29 miliardi è stato riesportato come materia prima o trasformato in gioielli. Il consorzio Icij ha contattato tutte le famiglie reali e i ministri citati in questo articolo, per chiedere spiegazioni sulle loro offshore, ma nessuno ha risposto. Il governo degli Emirati ha diffuso solo una dichiarazione generale in cui assicura «il massimo impegno per garantire l’integrità dei mercati finanziari», annunciando l’adozione di «misure concrete per identificare gli effettivi titolari delle società» e la creazione di «un tribunale specializzato per contrastare il riciclaggio». Questo articolo è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell’inchiesta Pandora Papers e in particolare di Maggie Michael, Michael Hudson, Will Fitzgibbon, Fergus Shiel (Icij), Paolo Biondani e Leo Sisti (L’Espresso)
Pandora Papers.
Gianluca Paolucci per "la Stampa" il 12 ottobre 2021. Oltre 12,3 miliardi di dollari all'anno. Ogni anno, tutti gli anni. È quanto il fisco italiano perde ogni anno a causa della «concorrenza» dei paesi a fiscalità privilegiata. Il calcolo è contenuto nel rapporto 2020 di Tax Justice Network, organizzazione inglese che si batte da quasi 20 anni contro paradisi fiscali ed elusione transnazionale. Il dato è riferito al 2019 e, in tempi di Covid, l'organizzazione britannica si occupa anche di fornire un metro di paragone adeguato: con quei soldi il sistema sanitario avrebbe potuto assumere e pagare per un anno 379.380 infermieri. La cifra calcolata da Tax Justice Network per il nostro paese è pari ad appena il 2% del totale delle entrate fiscali del 2019 ma, ricorda lo stesso rapporto, le risorse perse corrispondono al 9% della spesa per la sanità e poco meno del 15% di quella per scuola ed eduzione. Cifra tanto più impressionante se si considera che riguarda in gran parte attività pienamente legali, sostanzialmente frutto della cosiddetta «ottimizzazione fiscale». La maggior parte delle risorse perse - poco meno di 9 miliardi - sono generate da multinazionali o società di capitali, mentre circa 4 miliardi è riferibile a persone fisiche. Non è una sorpresa che la maggior parte di questi soldi vengono persi grazie alla concorrenza fiscale dei partner dell'Unione europea: tra i primi 10 paesi responsabili dei dell'emorragia fiscale, ben sei fanno parte della Ue e uno - la Gran Bretagna ne faceva parte fino al 1° febbraio del 2020. Al primo posto c'è l'Olanda, responsabile da sola - sempre secondo i calcoli dell'organizzazione britannica - del 16% dei mancati incassi fiscali. A seguire Usa, Lussemburgo, Germania e Francia. Nella classifica non sfigurano neppure gli Emirati Arabi, ovvero la destinazione della famigerata «Lista Dubai» citata dal direttore dell'Agenzia delle Entrate, Enrico Maria Ruffini, in una intervista a questo giornale. È al nono posto e da solo pesa per il 3% del totale. Sulla lista, acquistata dalla Germania e da questa ceduta anche all'Italia, sono al lavoro gli uomini dell'Agenzia e della Guardia di finanza. Una parte importante degli accertamenti riguarderà l'individuazione di quali tra i soggetti presenti nella lista sono perseguibili e quanti invece hanno seguito comportamenti perfettamente legittimi. Il precedente della Lista Falciani - un elenco di presunti evasori sul quale hanno lavorato le autorità fiscali di vari paesi, ma il cui utilizzo in Italia è stato negato da una serie di pronunciamenti della Cassazione - non spaventa gli investigatori. E l'eventuale emersione di reati potrebbe far finire le singole posizioni nelle mani della magistratura. Una delle falle del sistema è proprio la perseguibilità dei fenomeni complessivi. I dati dei Laundromat - il riciclaggio di denaro da parte di cittadini russi prevalentemente verso paesi europei - ha dato origine anche in Italia «a una serie di accertamenti da parte della magistratura su singole posizioni da parte di varie procure, ma manca una ricostruzione del fenomeno complessivo e dunque di eventuali illeciti resi possibili da falle del sistema», spiega un investigatore.
La logica del mercato. I Pandora Papers e la gogna a priori per i milionari. Rainer Zitelmann su L’Inkiesta il 6 ottobre 2021. Non è certo che tutti i benestanti citati nell’inchiesta giornalistica sulle società di comodo abbiano compiuto un reato. Ma per alcuni media l’unica cosa che conta è ribadire lo stereotipo del facoltoso che nasconde i soldi nel paradiso fiscale. Secondo la mitologia greca, il vaso di Pandora conteneva tutti i mali conosciuti dall’umanità, come la malattia e la morte. Quando Pandora aprì il vaso, li liberò nel mondo. I giornalisti investigativi che stanno ora diffondendo nel mondo i Pandora Papers (così come avvenuto con i Panama e Paradise Papers) si sentono proprio come Pandora. I Pandora Papers contengono informazioni sui proprietari di società di comodo. La copertura mediatica si riferisce a una fuga di notizie o fuga di dati. In realtà, “fuga di dati” è una frase eufemistica per dire che i dati sono stati rubati attraverso l’hacking illegale. È l’equivalente di qualcuno che vi ruba dei soldi o accetta dei soldi rubati e poi sostiene che le banconote sono scappate da una perdita nel vostro portafoglio. Negli articoli di questi giorni vengono diffusi nomi di persone che attualmente possiedono o hanno posseduto (e in alcuni casi molti anni fa) società di comodo. Se queste società di comodo siano state usate per nascondere attività illegali o disdicevoli non è stato ancora stabilito. Il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, i cui giornalisti hanno coordinato questa e altre simili inchieste, scrive che «fare affari nei paradisi fiscali non è contro la legge, e molti degli affari e investimenti di cui si parla a seguito della fuga di notizie sembrano essere perfettamente legali. L’illecito avviene quando il reddito imponibile riportato nei paradisi fiscali non viene dichiarato alle autorità del fisco nazionali. Questo, a sua volta, è però quasi impossibile da verificare per i media». Tuttavia, queste parole si perdono all’interno di una marea di nomi che sono in qualche modo associati al denaro sporco. I media che riportano i Pandora Papers insinuano soprattutto che già solo il fatto di essere al cospetto di società di comodo sia automaticamente riprovevole. Facendo queste insinuazioni, i giornalisti denunciano figure di spicco nel campo della politica, dello sport e degli affari e li mettono così sotto una cattiva luce. Si può supporre che le società di comodo siano frequentemente utilizzate da chi ricicla denaro, da trafficanti di droga e politici corrotti di tutto il mondo. E visti molti dei nomi che ora vengono menzionati, l’ipotesi è che le accuse siano giustificate. Ciò che colpisce, tuttavia, è che in molti articoli, passati e presenti, i ricchi o i super-ricchi vengano tutti posti sotto il sospetto generale e messi sul banco degli imputati. Ovviamente gli articoli e i servizi giornalistici servono non tanto a chiarire i fatti ma ad alimentare una campagna mediatica. Ogni volta i giornalisti preparano le loro campagne con il tipo di professionalità normalmente utilizzata nelle campagne di marketing internazionale di grandi marchi: si cercano giornali partner in tutto il mondo e tutti lavorano insieme con precisione quasi militare. Quando i Panama Papers facevano notizia, la Süddeutsche Zeitung aveva un illustratore a tempo pieno che lavorava esclusivamente al progetto e ha persino pubblicato un filmato per documentare come è stato realizzato il reportage. Nessuno si preoccupa molto di come i dati sono stati acquisiti e se è giusto pubblicare queste notizie personali in barba alla privacy. Tutti operano secondo il principio che il fine giustifica i mezzi. E poiché molti dei lettori dei giornali ritengono già che la maggioranza dei ricchi e dei super-ricchi siano comunque evasori fiscali, le rivelazioni non fanno che confermare tali opinioni preconcette. Non sono però a conoscenza di un solo studio scientifico che abbia mai stabilito che la maggioranza dei ricchi evada le tasse o che lo faccia più frequentemente di tutti gli altri. Naturalmente, l’entità delle tasse non pagate di cui si parla in relazione ai ricchi è molto più grande di quella di qualcuno che ha una donna delle pulizie in nero. È molto probabile che un gran numero di persone i cui nomi appaiono ora sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo non solo non abbiano mai fatto nulla di illegale, ma nemmeno nulla che possa essere considerato moralmente riprovevole. Naturalmente, altre persone i cui nomi appaiono nei Pandora Papers sono ora giustamente sotto i riflettori per condotte a dir poco discutibili. Ciò che manca è qualsiasi tentativo di tenere separate queste due categorie di persone.
Claudio Del Frate per corriere.it l'8 ottobre 2021. Il caso dei «Pandora papers», vale a dire l’esistenza di architetture finanziarie che consentono a società e privati di pagare meno tasse del dovuto, ha riproposto un dilemma al quale fino a oggi non è stata trovata soluzione: la cosiddetta «elusione fiscale». Vale a dire, meccanismi perfettamente legali ma che tradotti nella realtà provocano diseguaglianze e ingenti perdite di gettito a numerosi Stati. Meccanismi il cui pilastro è, da sempre, l’esistenza di «paradisi fiscali»: Stati che applicano una tassazione «benevola» a chi trasferisca anche solo formalmente il domicilio sul loro territorio. In seguito a questa falla tutti i Paesi pagano un prezzo elevato. Italia compresa, Vediamo quanto. Tax Justice Network è una ong basata a Londra che monitora proprio questo fenomeno. Il suo ultimo report indica che i «paradisi fiscali» hanno sottratto in un anno agli altri Paesi profitti pari a 427 miliardi di dollari, pari a un gettito fiscale di 166 miliardi di dollari. Ad approfittare di questi escamotage (far figurare che i profitti sono stati realizzati offshore, anziché nello Stato in cui effettivamente vengono accumulati) sono innanzitutto grandi multinazionali, a cominciare dai giganti del web nei confronti dei quali da anni si parla dell’applicazione di una tassa ad hoc. L’Italia ha visto sparire in questa «botola» tasse per 12,4 miliardi, oltre 8 dei quali maturate da società, il resto da privati. Sempre Tax Justice network ha stilato la classifica dei paradisi fiscali più attrattivi, in base a una serie di parametri (basse aliquote, segretezza, servizi alla clientela, facilità di domicilio). Al primo posto figurano le Isole Cayman (che hanno «drenato» da sole 70 miliardi) seguite da Gran Bretagna (con 42 miliardi), Paesi Bassi e Lussemburgo. Il principale mezzo di contrasto mezzo in campo contro la volatilità fiscale è lo scambio automatico delle informazioni tra governi. L’Ocse ha elencato 97 Stati che aderiscono a tale patto, che ha portato a mettere sotto la lente d’ingrandimento 84 milioni di conti basati nei paradisi.
LE REAZIONI. Pandora Papers, cosa sta succedendo nel mondo dopo l’inchiesta sui tesori offshore. Il presidente cileno rischia l'impeachment, in Repubblica Ceca – dove si voterà a breve – la rielezione del primo ministro è sempre più incerta. Gli eurodeputati chiedono le dimissioni del falco olandese Hoekstra e al re di Giordania vanno di traverso i pomodori. Erika Antonelli e Chiara Sgreccia su L’Espresso il 7 Ottobre 2021. Pandora Papers, l’inchiesta realizzata dal consorzio di giornalismo investigativo Icij, di cui fa parte anche L’Espresso, ha svelato i tesori nascosti di leader mondiali, politici e vip. Nonostante siano usciti solo i primi nomi, i documenti hanno già iniziato a scuotere il panorama internazionale. Il presidente cileno Sebastián Piñera rischia l’impeachment dopo le rivelazioni contenute nei Pandora Papers. I deputati dell’opposizione, con l’obiettivo di chiarificare le responsabilità del presidente, si preparano a presentare un'accusa parlamentare che potrebbe portare alla sua rimozione, a sei settimane dal primo turno delle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 21 novembre. Anche la procura del Cile ha ordinato un'indagine separata sulla vicenda. Secondo quanto rivelato dall’inchiesta Piñera, liberista di destra, in carica - al secondo mandato - dal 2018, ha gestito affari per centinaia di milioni di dollari tramite aziende con sede nelle Isole Vergini britanniche, dove non esistono tasse sui redditi personali né sui profitti aziendali e nel 2010 ha utilizzato una di queste offshore per vendere, per 140 milioni di dollari, una parte di una compagnia mineraria cilena a un imprenditore amico, a sua volta nascosto dietro un’altra società registrata nelle Isole Vergini. Per il primo ministro della Repubblica Ceca Andrej Babiš, alla guida di un governo populista di destra, le rivelazioni dei Pandora Papers sono solo un modo per screditare la sua campagna elettorale e influenzare le elezioni parlamentari che si terranno i prossimi otto e nove ottobre. Babiš - già in difficoltà visto che il suo partito Ano, secondo gli ultimi sondaggi, otterrà risultati ben inferiori a quelli del 2017 - è accusato di non aver rivelato una serie di società di comodo utilizzate per acquistare una villa di lusso in Costa Azzurra, nota come “Chateau Bigaud”, per 22 milioni di dollari. Babiš ha negato di aver fatto qualcosa di sbagliato o illegale: «Ho pagato tutte le tasse. Questo è assurdo». La polizia nazionale ceca, invece, ha affermato che condurrà indagini sulla base delle informazioni contenute nei Pandora Papers, «non solo per quanto riguarda il primo ministro ma anche per tutti i cittadini della Repubblica ceca». Wopke Hoekstra, ministro delle Finanze olandese, ha fatto dell'austerity un mantra, cercando anche di bloccare il Recovery Fund e chiedendo all'Unione europea un'indagine sui conti dell'Italia, in piena crisi pandemica. Per poi finire al centro dell'inchiesta sulle società offshore. Nel caso di Hoekstra, alle Isole Vergini britanniche. Il suo coinvolgimento non è passato inosservato. Poco dopo le rivelazioni di Icij e L'Espresso, il cinque ottobre, l'Ue aggiorna la lista di quelli che considera paradisi fiscali. Rimuovendo le Seychelles e le isole caraibiche Anguilla e Dominica dall'elenco delle giurisdizioni che non cooperano sul piano fiscale. Il documento conferma stati come Samoa americana, Figi, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini americane e Vanuatu. Eppure, ricorda l'eurodeputato olandese di centro sinistra Paul Tang, mancano «grandi Paesi offshore che fanno affari con riciclaggio e evasione delle tasse». Tra cui proprio le Isole Vergini britanniche, l'angolo fortunato di Hoekstra. Anche l'eurodeputata socialista francese Aurore Lalucq la pensa così: «Alcuni non sono nemmeno elencati dall'Ue», dice. Per questo motivo, Lalucq ha redatto una risoluzione che verrà votata dalla plenaria dell'Eurocamera giovedì sette ottobre. Proprio il ministro delle Finanze olandese è responsabile dell'approvazione dell'elenco dei paradisi fiscali dell'Ue. Secondo alcuni eurodeputati, dunque, il conflitto di interessi è tale da richiederne le dimissioni. Le critiche nei confronti di Hoekstra non si fermano. «Stiamo parlando di una persona che evade le tasse – denuncia l’eurodeputata francese di sinistra Manon Aubry - mentre dalla sua posizione di potere decide quali paesi siano da inserire nella lista dei paradisi fiscali. E invita le persone povere a rassegnarsi alla crisi, mentre lui investe il suo denaro nelle Isole Vergini britanniche». I commenti provengono anche da politici italiani. «Il ministro delle finanze olandese predica austerità, critica l’Italia e invoca controlli sui nostri conti pubblici. Poi, da privato cittadino, fa affari nei paradisi fiscali con una società fantasma, per eludere la tassazione. Non ci interessa giudicare i suoi affari, ci interessa però che certi ministri siano estromessi dai tavoli europei dove si discute di vincoli di bilancio, fiscalità e tassazione globale», sostiene in una nota l’eurodeputato del gruppo Verdi/Alleanza libera europea Piernicola Pedicini. «C’è un grave problema politico e di credibilità, che è forse quello che più emerge dai Pandora Papers », afferma l'eurodeputata dei verdi Rosa D'Amato. Poi prosegue: «Con che credibilità l’Europa alza la bandiera della lotta a evasione e riciclaggio, quando abbiamo ben due capi di governo e un ministro delle Finanze che eludono il fisco. Io credo che in Europa serva più trasparenza. Qui non è in gioco solo la giustizia fiscale, ma anche e soprattutto la giustizia sociale». Re Abdullah II di Giordania sapeva che sarebbe servito correre ai ripari. Giorni prima che i Pandora Papers rivelassero dettagli sulle sue proprietà immobiliari straniere, il sovrano si è rivolto allo studio legale DLA Piper. Secondo l'accordo siglato, gli avvocati si impegnano a fornire «consulenza in merito a potenziale diffamazione e altre questioni relative ad articoli sul Re da parte dei media». E, pubblicata l’inchiesta, proprio da DLA Piper è arrivata la smentita sui presunti illeciti. Al leak di documenti i giordani hanno reagito in modi diversi. Alcuni hanno difeso il monarca sui social, definendo le accuse «immondizia» e postando video di Abdullah con canzoni patriottiche in sottofondo. Altri, al contrario, hanno sottolineato come acquistasse proprietà mentre al suo Paese arrivavano aiuti internazionali. La parola Pandora, poi, ha un suono simile a quella araba “bandoora”, pomodoro. Per questo Twitter e Facebook sono stati inondati di immagini di pomodori, tanto più che il re Abdullah li aveva definiti il suo cibo preferito. «Immagino ora non sarà più così», ha scritto un utente. «Non permetteremo di distruggere il nostro Paese, siamo a fianco del nostro leader nei momenti critici», ha invece replicato un altro. Il primo ministro del Pakistan Imran Khan ha dichiarato che indagherà su qualsiasi cittadino pakistano il cui nome si trova nei Pandora Papers e «se verrà accertato un illecito, prenderemo le misure appropriate». Khan ha detto di aver accolto con favore l’avvenuta fuga di notizie perché ha reso nota la ricchezza nascosta delle élite. Nei documenti non c’è nessuna evidenza che lega il primo ministro alla proprietà di società offshore, ma a essere esposte sono le partecipazioni finanziarie di numerosi suoi collaboratori di alto profilo, tra cui Chaudhry Moonis Elahi, un alleato politico chiave, che ha pianificato di occultare i proventi di un affare presumibilmente illecito in un trust segreto, così da nasconderli alle autorità fiscali del Pakistan.
Pandora Papers, indagini in 9 Paesi Gli Usa si scoprono paradiso fiscale. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2021. I magistrati di nove Paesi, tra i quali Spagna, Brasile, Australia e Repubblica Ceca, hanno già avviato indagini sulle rivelazioni dei «Pandora Papers»: evasione tributaria, riciclaggio. Paolo Gentiloni, Commissario europeo per l’Economia, annuncia che Bruxelles «presenterà una proposta contro l’abuso delle società di comodo entro l’anno». L’inchiesta condotta dall’«International Consortium of Investigative Journalists» che raccoglie 150 media nel mondo, ha svelato di politici, imprenditori, star dello sport e dello spettacolo. Le notizie continuano a fluire sui media internazionali. «Le Monde» scrive che Dominique Strauss Kahn, ex direttore generale del Fondo monetario, nel 2013 fondò una società in Marocco, la Parnasse International, su cui ha convogliato i redditi personali, sottraendoli al fisco francese. Il «Guardian», invece, chiama in causa la Corona che acquistò un edificio a Londra dalla famiglia di Ilham Aley, presidente dell’Azerbaigian. Il sospetto è che Aley abbia condotto un’operazione di riciclaggio. Ieri è stata anche la giornata delle smentite. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskow, ha liquidato le rivelazioni su Vladimir Putin come «inaffidabili». Il re di Giordania Abdullah II ha giustificato l’acquisto segreto di ville negli Stati Uniti e a Londra «con ragioni di sicurezza». E così via. Le «carte di Pandora»aprono un caso politico anche negli Stati Uniti. Il «Washington Post» ha seguito le tracce di 206 conti opachi usati da stranieri provenienti da 41 Paesi diversi. Tra loro figurano il presidente della Repubblica Domenicana Luis Abinader, il presidente dell’Ecuador, Guillermo Lasso, il re di Giordania, imprenditori, star dello spettacolo. Uno dei crocevia più attivi è il South Dakota, lo Stato che ha incentivato la formazione dei cosiddetti «trust». La legislazione locale consente a queste società di schermare l’identità del beneficiario e le movimentazioni di denaro. Nel giro di pochi anni i «trust» si sono moltiplicati in South Dakota. I «Papers» mostrano come il più attivo sia il Trident Trust, con sede a Sioux Falls. In realtà è un fenomeno di lunga durata, diffuso in diversi Stati, sia pure con diverse sfumature. Dal Delaware all’Alaska, dalla Florida al Nevada. Joe Biden, in una conferenza stampa, ha schivato la domanda sui «paradisi fiscali» interni. Il problema, però, c’è, visto che il presidente si è impegnato a «sradicare» evasione fiscale e corruzione. Il primo gennaio del 2021 il Congresso, dopo due anni di discussioni, ha approvato il , la legge che aggiorna, tra l’altro, gli strumenti anti riciclaggio. Il provvedimento impone alle società costituite negli Usa di rivelare chi siano gli azionisti o i beneficiari. Ma il nuovo provvedimento non menziona i «trust». In teoria ci sono margini per rammendare il buco legislativo: le norme entreranno in vigore quando il Dipartimento del Tesoro emanerà il regolamento attuativo. La scadenza prevista è gennaio 2022. L’Amministrazione dovrà fronteggiare la reazione degli Stati coinvolti. Uno schieramento bipartisan. Il South Dakota è governato dai repubblicani; il Delaware dai democratici.
Diana Cavalcoli per corriere.it il 4 ottobre 2021. L’inchiesta coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists, che svela le operazioni off-shore di decine di figure di spicco di oltre 90 stati, arriva fino in Italia. Basata su circa 12 milioni di documenti relativi a oltre 25 anni di attività, l’indagine è frutto delle rivelazioni di una fonte interna allo studio legale Alemán, Cordero, Galindo & Lee e testimonia l’esistenza di oltre 29 mila beneficiari di società offshore, intenzionati a occultare in paradisi fiscali parte delle loro ingenti ricchezze per sfuggire al fisco. L’inchiesta mette in fila operazioni, in alcuni casi al limite della legalità, messe in atto da 14 società internazionali incaricate da clienti facoltosi nel gestire capitali miliardari. Nella maggior parte dei casi l’attività principale è stata creare strutture «offshore» e «trust» in paradisi fiscali come Panama, Dubai, Isole Cayman e in paesi deve la riservatezza mette al riparo da controlli fiscali, come Monaco e Svizzera.
Gli italiani: le società all’estero di Ancelotti
Tra gli italiani secondo quanto riporta l’Espresso, unica testata italiana a partecipare all’inchiesta, emergono anche le società estere legate al nome di Carlo Ancelotti, l’ex calciatore ora allenatore del Real Madrid.
Il boss Amato
Tra i nomi coinvolti ci sarebbe il boss della camorra, Raffaele Amato che sta scontando una pena di vent’anni in carcere. Secondo le prime anticipazioni dell’inchiesta avrebbe utilizzato una società fiduciaria di Montecarlo per schermare la proprietà di una società-cassaforte inglese, utilizzata per l’acquisto di terreni e immobili in territorio spagnolo.
Zorzi e il nuovo nome giapponese (Hagen Roi) per le società all’estero
Tra i file, fa sapere l’Espresso, si ricava poi il nome dell’ex nazifascista Delfo Zorzi. L’uomo risulterebbe cliente della fiduciaria svizzera Fidinam. Zorzi avrebbe utilizzato il nuovo nome giapponese, Hagen Roi, ottenuto nel paese nipponico dove vive da quarant’anni. Al momento nessuno dei tre italiani coinvolti nell’inchiesta ha voluto rilasciare dichiarazioni in merito.
Giuseppe Del Gaudio per cronachedellacampania.it il 4 ottobre 2021. Napoli. C’è anche il nome del boss della camorra Raffaele Amato nei 12milioni di documenti riservatissimi dell’inchiesta Pandora Papers con la quale sono state smascherate le società offshore di politici, stelle dello sport e spettacolo, generali e big degli affari. Lo spietato boss scissionista di Secondigliano protagonista della famigerata faida di Scampia è in compagnia del re di Giordania, il presidente ucraino, il ministro olandese, dittatori africani, ma anche Julio Iglesias , Claudia Schiffer e Shakira e il circolo ristretto dei collaboratori di Vladimir Putin (amante compresa). Dall’inchiesta -anticipata da L’Espresso- emerge che Raffaele Amato ha utilizzato una compagnia di fiduciari con base a Montecarlo per schermare la proprietà di una società-cassaforte inglese, che ha comprato terreni e immobili in Spagna. Arrestato nel 2009 dopo anni di latitanza proprio in Spagna ed estradato in Italia, il boss Amato sta scontando una condanna definitiva a vent’anni di reclusione. I suoi fiduciari di Montecarlo, contattati più volte dal consorzio Icij, non hanno risposto alle nostre domande e richieste di chiarimenti.
Vip e capi di Stato, i tesori esentasse. Erica Orsini il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Svelate le liste: da Blair al re di Giordania, dalla Schiffer a Shakira. I potenti tremano. Quasi dodici milioni di documenti che per la prima volta rivelano al mondo i nomi e i dettagli finanziari di 29mila beneficiari che fanno affari schermati dall'anonimato di 95mila società off shore avviate ad hoc. È questo il clamoroso contenuto dell'inchiesta internazionale coordinata dal Consortium of Investigative Journalist (Icji), che ha visto lavorare insieme oltre 600 giornalisti di ben 150 testate internazionali. Li hanno chiamati Pandora Papers proprio perché vanno a scoperchiare i legami segreti dei miliardari di tutto il mondo con 14 studi riservati che si occupano di fabbricare queste società e spiega come le loro infinite ricchezze finiscano in paradisi fiscali come le Isole Vergini Britanniche, il Belize, Cipro, gli Emirati Arabi, Panama e la Svizzera. Nel novero di questi azionisti spregiudicati che fanno affari al limite della legalità, usando un sistema che è stato più volte condannato, ma mai ostacolato del tutto, ci sono persone di ogni tipo. Non solo vip come Carlo Ancelotti, l'ex modella Claudia Schiffer o la cantante Shakira. Ma anche 35 capi di Stato tra i quali il Re di Giordania, i presidenti dell'Ucraina, Kenya, Cile, Ecuador, ma anche politici europei come il ministro olandese dell'Economia, il primo ministro della Repubblica Ceca Andrej Babis, nonché l'ex premier laburista Tony Blair e sua moglie Cherie. La Bbc - che nell'ambito dell'inchiesta ha lavorato con il quotidiano The Guardian - riporta anche l'esistenza di un collegamento riferito al presidente russo Vladimir Putin che porterebbe fino a Monaco. I documenti da visionare sono moltissimi e nei prossimi giorni se ne saprà sicuramente di più, ma già si sa che nella lunga lista degli affaristi finora ignoti figurano anche i nomi di vip dello sport, dello spettacolo e della moda di ogni nazionalità, italiani compresi. Non sorprenderà nessuno probabilmente che non manchino i criminali, gli ex uomini d'affari caduti in bancarotta e poi rinati miracolosamente, ex terroristi, boss mafiosi e trafficanti di droga. Tutti questi personaggi, coperti dalle società offshore, opportunamente situate in Paesi dove non si pagano le tasse, nascondono le loro finanze al fisco e alla giustizia. Ma soprattutto, le nascondono agli altri cittadini che pagano le imposte anche per loro. Sempre la Bbc svela che uno dei documenti più interessanti racconta come uomini particolarmente facoltosi siano riusciti, attraverso un sistema legale, ad acquistare segretamente delle proprietà immobiliari nel Regno Unito. Una rivelazione che è destinata a imbarazzare molto il governo conservatore britannico dato che, fin dai tempi di David Cameron, era stata più volte promessa l'istituzione di un registro delle proprietà offshore. Un registro che fino ad ora invece non è mai stato realizzato e questo riporta alla luce la preoccupazione che dietro queste compagnie si celino meccanismi di riciclaggio di denaro sporco. Un esempio per tutti: secondo l'inchiesta, il presidente dell'Azerbaijan, Ilham Aliyev e la sua famiglia, accusati di aver saccheggiato il proprio Paese, sono coinvolti (insieme ad altri soci) in affari immobiliari sul territorio britannico del valore di circa 400 milioni di sterline. Ancora più imbarazzante la notizia che Aliyev e compagnia sembrano aver racimolato 31 milioni di sterline dalla vendita di una delle loro proprietà alla Crown Estate, ovvero l'impero immobiliare della Regina che viene gestito dal Tesoro e le cui entrate servono a raccogliere denaro da destinare alla Nazione. Al momento tutti questi passaggi sono perfettamente legali. Ma non altrettanto etici. Erica Orsini
Pandora Papers, il presidente dell'Azerbaijan: "Accuse contro di me solo per screditarmi dopo la vittoria nel Nagorno". Pietro Del Re su La Repubblica il 12 ottobre 2021. Presidente Ilham Aliyev, un anno fa le sue truppe combattevano contro l'esercito armeno nel Nagorno Karabakh. Il 9 novembre, però, la Russia ha imposto a entrambi un cessate il fuoco e schierato un suo contingente di peacekeeping. Da allora è soddisfatto della pax putiniana nella regione?
"Sì, salvo piccoli incidenti al confine, l'accordo funziona perché garantisce una certa stabilità. Rimangono ovviamente dei problemi da risolvere. Vorremmo, per esempio, impedire l'ingresso a chi entra illegalmente nei nostri territori liberati, oggi sotto il controllo russo, per svolgervi traffici di ogni genere".
Ricostruirete le zone che avete recentemente conquistato e che trent'anni fa furono distrutte dagli armeni?
"Sì, abbiamo lanciato un programma d'investimenti per le infrastrutture nei territori liberati che quest'anno ammonta a 1,3 miliardi di dollari. Abbiamo già riallacciato la rete elettrica in un'area di 10mila chilometri quadrati e stiamo asfaltando centinaia di chilometri di strade. Abbiamo già costruito un aeroporto e stiamo edificando case in due nuove città affinché possano tornare le centinaia di migliaia di profughi che furono scacciati dagli armeni".
Ci sarà anche un ruolo per l'Italia in questa ricostruzione?
"I nostri due Paesi sono legati da un forte partenariato strategico, e ci sono già numerose aziende italiane coinvolte in diversi settori, dall'energia all'agricoltura alla creazione di un locale museo della memoria. Dopo la Turchia, il Paese più implicato nella ricostruzione è l'Italia".
I prezzi del gas sono alle stelle in Europa e senza il Trans Adriatic Pipeline avremmo assistito a un incremento ancora maggiore in Italia. Quali sono le prospettive del gasdotto?
"Al momento dobbiamo ultimare l'ultima tratta del gasdotto transadriatico, attraverso il quale l'Italia già riceve gas dall'Azerbaijan. Abbiamo recentemente scoperto nuovi giacimenti in fondo al Mare Caspio, e prevediamo di poter presto rifornire un maggior numero di Paesi europei".
Il contingente azerbaigiano ha dato un grande contributo in Afghanistan per l'evacuazione. È pronto a riconoscere i nuovi padroni di Kabul?
"Il nostro esercito è stato uno degli ultimi a lasciare il Paese. In queste settimane, si sta profilando l'orientamento in materia di politica estera del nuovo governo di Kabul. Ogni nostra futura mossa diplomatica dipenderà dalle scelte che faranno i talebani. Se queste saranno positive, risponderemo in modo adeguato".
Quale potrebbe essere il contributo dell'Unione europea a una piattaforma di cooperazione tra i Paesi del Caucaso meridionale?
"Ne ho parlato l'estate scorsa con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. L'Ue ci sta già fortemente aiutando nel settore dei trasporti, ma anche in progetti di sviluppo post-bellico che coinvolgono Armenia e Azerbaijan e che richiedono nuovi trattati di cooperazione".
Teheran l'ha recentemente accusato di essere troppo vicino agli israeliani e di contare soltanto sulle armi sofisticate che le vendono per garantire la sua sicurezza. Che cosa risponde?
"Israele è solo un pretesto per demonizzarci agli occhi del mondo musulmano. I problemi con l'Iran non c'entrano nulla con le relazioni che l'Azerbaijan intrattiene con altri Paesi. La realtà è che noi chiediamo il rispetto delle nostre frontiere. Da quando abbiamo riconquistato parte del Nagorno Karabakh, c'è chi l'attraversa illegalmente perché all'interno di questi territori ci sono città armene. Molti sono dei camionisti iraniani che fanno affari con gli armeni. L'abbiamo comunicato più volte a Teheran, anche per via diplomatica, ma gli iraniani non ci hanno mai risposto se non minacciandoci, insultandoci e organizzando esercitazioni militari alle frontiere con il nostro Paese".
L'Espresso Lo speciale Pandora papers
Nei Pandora papers viene fuori il suo nome. Risulta infatti che tra il 2006 e il 2017 la sua famiglia e i suoi collaboratori hanno segretamente acquistato 27 beni immobiliari nel Regno Unito per 389 milioni di sterline tramite società offshore.
"Non è la prima volta che vengo accusato di malversazioni. In Occidente ci sono gruppi di potere vicini all'Armenia che usano questo tipo insinuazioni al solo scopo di screditarmi. So bene chi c'è dietro questo tipo d'inchieste giornalistiche e so anche che la nostra recente vittoria nella guerra del Nagorno Karabakh non è piaciuta a tutti. Ma si tratta soltanto di una campagna orchestrata ad hoc per colpire il mio Paese. Quanto alla sostanza delle accuse, sono presidente da diciotto anni, e prima ero un uomo d'affari di successo. Nel 2003 ho smesso di occuparmi dei miei affari e ho trasferito tutto ciò che avevo ai miei figli, i quali hanno ripreso il testimone e hanno investito nel nostro Paese e all'estero, il tutto nella più totale trasparenza".
Gianluca Paolucci per "La Stampa" il 5 ottobre 2021. L'Unione europea, per bocca del commissario all'economia e agli affari fiscali Paolo Gentiloni, ha confermato che prima di fine anno sarà presentata la proposta normativa per fronteggiare «gli abusi» delle società di comodo. Le autorità di nove paesi del mondo, dalla Repubblica Ceca all'India, dalla Spagna al Brasile e all'Australia, hanno annunciato l'apertura di indagini formali. Le rivelazioni dei Pandora Papers, come era prevedibile, stanno scatenando una tempesta globale. Il database di circa 12 milioni di documenti, sui quali hanno lavorato 600 giornalisti di 150 testate di vari paesi (per l'Italia l'Espresso) per la prima volta «espone» le ricchezze nascoste di un gran numero di capi di Stato e leader politici e non solo di vip e figure influenti come era stato per precedenti progetti analoghi. Non solo: per gli Usa il tema principale è ad esempio la normativa che consente al South Dakota di «nascondere» i veri beneficiari di asset per 367 miliardi di dollari, rendendo lo Stato Usa un vero e proprio paradiso fiscale dentro i confini di Washington e creando qualche problema al presidente Biden. Le reazioni dei personaggi chiamati direttamente in causa delle inchieste del consorzio guidato da Icij (International consortium of investigative journalism) sono le più variegate. Se il premier ceco Babis, che avrebbe acquistato tramite un complesso schema offshore una proprietà in Francia, nega qualunque coinvolgimento e sottolinea la coincidenza delle rivelazioni con l'imminente tornata elettorale, il presidente keniano Uhuru Kenyatta, arrivato al potere promettendo di combattere privilegi e corruzione e collegato dall'inchiesta a 13 società offshore, promette che farà piena chiarezza su questa vicenda. Dal Cremlino si sottolinea come tra i nomi usciti non ci sia un coinvolgimento diretto di Vladimir Putin, evitando di commentare la presenza della sua supposta amante nonché madre di una figlia mai riconosciuta dal presidente russo, diventata improvvisamente dopo la nascita della bambina una delle donne più ricche e influenti di Russia. Le rivelazioni dei Pandora Papers stanno scatenando un dibattito feroce anche in Gran Bretagna. Non solo per il ruolo di Londra come capitale della finanza opaca, come già dimostrato da una serie di inchieste giornalistiche. Ma anche per i cospicui finanziamenti arrivati ai Tories da figure coinvolte nelle investigazioni. Come i 2,1 milioni di sterline che i coniugi Chernukin hanno versato negli anni nelle casse del partito conservatore. Chernukin, considerato uno dei fedelissimi della prima ora del presidente, era stato nominato da Putin al vertice della banca statale Veb poche settimane dopo la sua prima nomina a primo ministro e dal 2004 vive a Londra, accreditato di una ricchezza personale di circa 350 milioni di sterline. Ripercussioni anche in Olanda, dove il ministro delle finanze Wopke Hoekstra - teorico del rigore dei conti e spesso polemico con Italia e paesi del Sud Europa - ha detto di «non sapere» che la società dove ha investito 12 anni fa con alcuni amici fosse domiciliata alle Isole Vergini britanniche, di aver sempre seguito le regole ma che avrebbe dovuto avere «maggiore cautela» nella vicenda.
Pandora Papers, ecco i tesori nei paradisi fiscali di 35 capi di Stato e di governo e migliaia di vip. Dodici milioni di documenti riservatissimi smascherano le offshore di politici, stelle dello sport e spettacolo, generali e big degli affari. Dal re di Giordania al presidente ucraino, dal ministro olandese ai dittatori africani, da Julio Iglesias a Claudia Schiffer. Cinque anni dopo i Panama Papers, L'Espresso pubblica in esclusiva per l'Italia i risultati della nuova inchiesta globale del consorzio Icij con oltre 600 giornalisti di 150 testate internazionali. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti su L'Espresso il 3 ottobre 2021. Cinque anni dopo i Panama Papers, una nuova inchiesta giornalistica internazionale ancora più ampia svela le ricchezze nascoste nei paradisi fiscali da migliaia di potenti di tutto il mondo. Ci sono 35 capi di Stato o di governo. Più di 300 politici di oltre novanta nazioni: ministri, leader di partito, parlamentari. Insieme a generali, capi dei servizi segreti, manager pubblici e privati, banchieri, industriali. Le nuove carte, chiamate Pandora Papers, documentano una miriade di affari ricchissimi con i nomi dei beneficiari, finora tenuti segreti. L’elenco degli azionisti schermati dal velo delle società offshore comprende il premier della Repubblica Ceca, il ministro olandese dell’Economia, l’ex capo del governo britannico Tony Blair, il Re di Giordania e presidenti in carica di Paesi come Ucraina, Kenya, Cile, Ecuador. Nella lista spiccano i nomi di molte celebrità dello sport, della moda e dello spettacolo. Ma ci sono anche criminali. Ex terroristi. Bancarottieri. Trafficanti di droga. E boss mafiosi, anche italiani, con i loro tesorieri. Migliaia di personaggi diversi per origini e storie personali, legati tra loro da un unico filo rosso: sono tutti clienti di 14 riservatissimi studi internazionali che fabbricano “offshore”. Cioè società collocate in giurisdizioni estere dove non esistono le tasse. E i titolari possono restare anonimi. Invisibili. E occultare le loro ricchezze al fisco, alla giustizia, agli elettori, a tutti gli altri cittadini. Che quindi sono costretti a pagare anche per questi privilegiati i costi di sanità, sicurezza, scuole, strade, ferrovie, acquedotti e tutti i servizi essenziali finanziati dagli stati nazionali con le entrate fiscali. I danni per la società civile causati dal proliferare di questi rifugi offshore sono ancora aumentati in questi tempi di pandemia, che ha innescato una crisi economica senza precedenti, moltiplicando le spese dello Stato per la sanità e per aiutare i più deboli. L’inchiesta, coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), si chiama Pandora Papers perché scoperchia un vaso di veleni di portata mondiale. Più di 11,9 milioni di documenti con i nomi di oltre 29 mila beneficiari di società offshore, fino a ieri sconosciuti. Dietro le carte intestate ai fiduciari, emergono per la prima volta investimenti e patrimoni esteri di politici europei e sudamericani, dittatori africani, ministri asiatici, sceicchi arabi. Le casseforti segrete di 46 oligarchi russi. Le offshore che azzerano le tasse a una super casta di oltre 130 multi-miliardari americani, indiani, messicani e di altre nazioni. I risultati dell’inchiesta, durata quasi due anni, sono il frutto del lavoro collettivo di oltre 600 giornalisti di 150 testate internazionali, tra cui l’Espresso in esclusiva per l’Italia. Dal Washington Post a Le Monde, dalla Bbc a El Pais, dai siti russi ai quotidiani sudamericani, indiani, australiani e africani, dall’Espresso alle tv svedesi e tedesche, i giornalisti di 117 nazioni diverse si sono impegnati a lavorare insieme, a scambiarsi ogni giorno notizie e documenti, fotografie e contatti, su una piattaforma informatica messa a punto dal consorzio. E a pubblicare i risultati dell’inchiesta nello stesso momento, all’unisono, a partire dalle 18.30 di oggi, domenica 3 ottobre. «Pandora Papers è la più grande inchiesta collettiva nella storia del giornalismo», scrive Icij nell’articolo di presentazione. I Pandora Papers documentano, tra mille altre storie mai raccontate prima d’ora, che il Re della Giordania, Abdullah II, ha acquistato ville e terreni negli Stati Uniti e a Londra, per oltre 100 milioni di euro, tramite offshore personali, mentre il suo governo riceveva miliardi dagli Usa per combattere il terrorismo ed evitare una rivoluzione araba in un paese alleato. Alle domande del consorzio, il Re della Giordania, attraverso un portavoce, ha risposto che lui, come sovrano, non paga le tasse. E i suoi investimenti esteri non sono stati dichiarati per ragioni di sicurezza e privacy. In Europa, il premier ceco Andrej Babis, che guida un governo populista di destra, ha usato società-schermo delle Isole Vergini Britanniche, nel 2009, per acquistare una villa da 22 milioni in Costa Azzurra. E non ha mai dichiarato quella proprietà estera alle autorità del suo Paese. Dove nel 2017 ha vinto le elezioni promettendo di combattere la corruzione e i privilegi delle élite. In Olanda, il ministro dell’Economia, Wopke Hoekstra, cristiano-democratico, che ha spesso attaccato l’Italia in nome del rigore finanziario, è entrato nel 2009 in una offshore controllata da una cordata di ex manager di un colosso bancario di Amsterdam, Abn-Amro. Ed è così diventato uno degli azionisti anonimi di una nota compagnia di safari in Africa. È rimasto nella offshore anche dopo l’elezione a senatore. E non ha mai dichiarato il suo investimento estero. In Ucraina, il capo dello Stato, Volodimyr Zelensky, ex comico portato al successo da uno show televisivo, ha posseduto segretamente per anni, tramite una società offshore, un’azienda di produzione e distribuzione di film e programmi tv. Nel marzo 2019, un mese prima del voto, ha ceduto le sue azioni a un amico, Sergiy Shefir, che dopo il successo elettorale è stato nominato da Zelensky primo consigliere pubblico della presidenza ucraina. Il 22 settembre scorso Shefir è sfuggito a un misterioso tentativo di omicidio: un commando armato ha ferito il suo autista. A Cipro, lo studio Anastasiades & Partners ha aiutato diversi oligarchi di Mosca, come rivela la corrispondenza interna, a creare nuove offshore per sfuggire alle sanzioni internazionali. In Russia l’affare più sorprendente riguarda però Svetlana Krivonogikh, indicata dalla stampa indipendente come ex fidanzata e madre di una figlia non riconosciuta da Vladimir Putin. I Pandora Papers rivelano che l’amica del presidente è la beneficiaria di una società offshore costituita nel 2003, esattamente un mese dopo la nascita della bambina, che ha comprato per 3 milioni e 600 mila dollari una residenza affacciata sul mare nel Principato di Monaco. Un affare gestito dagli stessi fiduciari che lavorano tuttora per gli oligarchi più vicini al presidente Putin. All’epoca del presunto flirt Svetlana lavorava come addetta alle pulizie in un hotel. Oggi ha un patrimonio personale di oltre 100 milioni. I Panama Papers, l’inchiesta giornalistica che nel 2016 svelò per la prima volta i segreti delle offshore, si fondava sui documenti riservati di uno studio legale, Mossack Fonseca. I Pandora Papers provengono da 14 società internazionali, con basi da Dubai a Singapore, da Cipro alle Isole Vergini Britanniche, dal Belize alle Seychelles, fino alla stessa Panama City, dove questa volta la fuga di notizie riguarda lo studio Alemán, Cordero, Galindo & Lee (Alcogal), che ha tra i fondatori un ex ambasciatore panamense negli Stati Uniti. I documenti ottenuti dal consorzio Icij coprono 25 anni di operazioni offshore, dal 1996 fino al 2020, ma le prime carte risalgono al 1970. Ognuno dei 14 “offshore provider” ha una costellazione di uffici e filiali in decine di paradisi fiscali, che funzionano come fabbriche di società anonime, messe a disposizione di banche, consulenti fiscali e studi legali di fama internazionale, che procurano ricchi clienti da tutto il mondo. Tra le tante celebrità sedotte dalle offshore compaiono la super modella tedesca Claudia Schiffer, registrata con il cognome della madre, star della musica come Shakira e Elton John, big internazionali del calcio, motociclismo e altri sport come il cricket. Il cantante spagnolo Julio Iglesias, 78 anni, è schedato come beneficiario di almeno venti società delle Isole Vergini Britanniche. Tesorerie caraibiche con tassazione zero, utilizzate da Iglesias, in particolare, per acquistare ville e terreni in Florida, a nord di Miami, nell’esclusiva isola privata di Indian Creek, protetta da bunker di guardie armate, per un valore dichiarato di 111 milioni di dollari. Come Mossack Fonseca a Panama, molte delle 14 società internazionali di gestione fiduciaria delle ricchezze dei vip hanno legami strettissimi con il potere politico, che decide le leggi fiscali, e con le autorità di controllo, che dovrebbero indagare anche su richiesta di magistrati stranieri. In Belize, un paradiso offshore che offre garanzie di totale anonimato, e per questo risulta frequentato da pericolosi criminali e grandi riciclatori di denaro sporco, le due agenzie fiduciarie più importanti sono state create dall’ex procuratore generale nazionale. A Cipro il primo offshore provider è lo studio di consulenze legali e fiscali fondato dall’attuale Presidente della Repubblica, Nicos Anastasiades, e oggi gestito dalle sue due figlie. Ma con i soldi, gli amici in paradiso si trovano anche vicino all’Italia. I Pandora Papers mostrano che un boss della camorra, Raffaele Amato, ha utilizzato una compagnia di fiduciari con base a Montecarlo per schermare la proprietà di una società-cassaforte inglese, che ha comprato terreni e immobili in Spagna. Amato è stato il capo degli «scissionisti», l’alleanza di clan camorristi che fu al centro della sanguinaria guerra di mafia che ha ispirato il libro e la serie televisiva Gomorra. Arrestato nel 2009 dopo anni di latitanza proprio in Spagna ed estradato in Italia, il boss Amato sta scontando una condanna definitiva a vent’anni di reclusione. I suoi fiduciari di Montecarlo, contattati più volte dal consorzio Icij, non hanno risposto alle nostre domande e richieste di chiarimenti. I Pandora Papers portano alla luce anche molti nuovi documenti su società offshore, intestate ad altri cittadini italiani, che erano menzionate, senza tutti i particolari che emergono ora, in varie indagini giudiziarie o fiscali. Ad esempio, l’ex nazifascista Delfo Zorzi, intercettato dalla polizia italiana nel 1997 mentre era latitante, utilizzava per le comunicazioni più riservate un telefonino intestato alla filiale svizzera di una misteriosa società offshore. La sua esistenza e le sue attività in Italia, dove Zorzi controllava segretamente catene di negozi e aziende di abbigliamento, fu svelata da un’inchiesta giornalistica dell’Espresso firmata da Alessandro Gilioli. I Pandora Papers ora documentano che Zorzi era cliente della Fidinam, una società fiduciaria svizzera controllata da prestigiosi avvocati ed ex magistrati, che aveva registrato quel cliente con il suo nuovo nome giapponese, Hagen Roi, ottenuto a Tokyo dove vive dagli anni ’70. Processato e condannato in primo grado per la strage di Piazza Fontana, Zorzi è stato assolto in appello e la Cassazione ha confermato in via definitiva la sua innocenza. Nel suo curriculum giudiziario compare solo una vecchia condanna definitiva dopo un arresto in Veneto nel 1968 per armi ed esplosivi.
Dai Pandora Papers emergono anche le società estere che sono finite al centro delle indagini del fisco spagnolo su Carlo Ancelotti, l’ex calciatore che adesso allena il Real Madrid, dopo anni di successi in Italia e all’estero. Ancelotti non ha risposto alle domande inviate dall’Espresso, da El Pais e dal consorzio Icij. Silenzio totale anche da Zorzi-Hagen. Nella montagna di documenti dei Pandora Papers ci sono molti altri nomi italiani, finora mai emersi: celebrità del calcio, moda e spettacolo, politici e loro familiari, evasori fiscali con i loro consulenti, mafiosi con i loro tesorieri. Le loro avventure nello spazio offshore verranno raccontate in esclusiva dall’Espresso a partire da venerdì prossimo (nell’edizione digitale accessibile da questo sito per gli abbonati) e nel numero su carta in edicola con Repubblica da domenica 10 ottobre.
Le notizie pubblicate in questo articolo sono il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell’Espresso e dei cronisti investigativi che fanno parte del consorzio e di altre testate internazionali, in particolare Fergus Shiel, Scilla Alecci, Jelena Cosic, Emilia Diaz-Struck, Will Fitzgibbon e Spencer Woodman (Icij), Roman Anin (Istories), Sylvain Besson (Tamedia), Joachim Dyfvermark (Svt), Daniele Grasso (El Pais), Kevin Hall (Miami Herald), Luke Harding (Guardian), Karlijn Kuijpers (Platform Investico), Mauritius Much (Sueddeutsche Zeitung), James Oliver (Bbc), Roman Shleynov (Occrp).
L'Espresso il 3 ottobre 2021. Paradisi Fiscali. I protagonisti coinvolti:
Tony Blair, ex premier del Regno Unito
Abdullah II, Re di Giordania
Dominique Strauss-Kahn, ex direttore Fmi
Svetlana Krivonogikh, ex fidanzata di Vladimir Putin
Andrej Babis, primo ministro della Repubblica Ceca
Uhuru Kenyatta, presidente del Kenya
Denis Sassou Nguesso, presidente del Congo
Najib Mikati primo ministro del Libano
Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, sceicco di Dubai
Milo Djukanovic, capo di stato del Montenegro
Wopke Hoekstra, ministro dell’economia in Olanda
Guillermo Lasso Mendoza, presidente dell’Ecuador
Hamad Bin Jassim Al Thani, sceicco del Qatar
Sebastian Pinera, presidente del Cile
Paolo Guedes ministro dell’Economia del Brasile
Lalla Hasnaa, principessa del Marocco
Volodymyr Zelensky, presidente dell’Ucraina
Nirupama Rajapaksa, ex ministra dello Sri Lanka
Nir Barkat, ex sindaco di Gerusalemme
John Dalli, ex ministro e commissario europeo
PROTAGONISTI.
L'Espresso: da Angelucci ai Berlusconi la mappa dei tesori offshore. Nelle nuove rivelazioni dei Pandora Papers anche l'imprenditore Alessandro Falciai, ex presidente di Mps, e la vedova De Michelis. La Repubblica il 15 ottobre 2021. Le azioni al portatore di Marina Berlusconi a Panama. Il condono fiscale e la tesoreria ai Caraibi dell’imprenditore-editore Giampaolo Angelucci. Le casseforti panamensi di Alessandro Falciai, l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena. Il trust a Singapore intestato all’ex ministro Gianni De Michelis, scomparso tre anni fa ma creato da sua moglie, Stefania Tucci, condannata per riciclaggio delle tangenti dell’amico faccendiere Luigi Bisignani. La società esotica aperta del presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, mentre era senatore di Forza Italia. Sono le storie di offshore, finora sconosciute, degli italiani con parte del patrimonio all’estero, rivelate dall’inchiesta Pandora Papers, il monumentale lavoro di ricostruzione dei flussi di denaro nei paradisi fiscali, condotto dal consorzio Icij e per l’Italia, in esclusiva, dai giornalisti dell’Espresso Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti.
Nel numero in edicola domani con Repubblica, L’Espresso focalizza l’attenzione sugli affari degli italiani indicati come Pep, «Persone esposte politicamente», dalle 14 società internazionali di gestione fiduciaria delle loro ricchezze. Un marchio imposto dalle leggi anti-riciclaggio per segnalare i titolari di cariche politiche o ruoli pubblici e i loro familiari che dovrebbe far scattare verifiche sui beneficiari e sull’origine dei fondi. I controlli, sulla carta, si fanno anche nei paradisi fiscali, ma restano un segreto professionale dei fiduciari.
Pandora Papers, così l'amico di Vladimir Putin ha pagato milioni all'uomo di Silvio Berlusconi a Mosca. di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti Grittani su L’Espresso il 15 ottobre 2021. Dai documenti dell’inchiesta di Icij e L’Espresso emergono gli affari offshore dell’ex manager Fininvest Angelo Codignoni. Finanziato via Caraibi e Montecarlo dall'oligarca Yuri Kovalchuk, che con l'appoggio del Cremlino ha creato dal nulla un impero mediatico. Un viaggio al centro del potere di Vladimir Putin, nel labirinto finanziario dei miliardari legati a filo doppio al Cremlino. I Pandora Papers gettano un fascio di luce sugli affari riservati degli oligarchi, la casta di intoccabili che dominano l’economia russa, e svelano legami d’affari con un manager italiano vicinissimo a Silvio Berlusconi. Il colossale archivio scoperchiato dal consorzio giornalistico Icij e, in Italia, dall’Espresso permette di seguire la pista dei soldi che dai palazzi di Mosca e San Pietroburgo conduce fino ai paradisi fiscali dei Caraibi. E dalle carte emerge il nome di Angelo Codignoni, che per almeno un decennio è stato descritto come l’anello di collegamento operativo tra il presidente russo e il leader di Forza Italia. I documenti raccontano di pagamenti per milioni di euro e per la prima volta svelano l’identità dei proprietari delle casseforti offshore che ricevono il denaro. Uno dei protagonisti di queste operazioni è proprio Codignoni, morto improvvisamente un paio di mesi fa in Russia, di cui era diventato cittadino nel 2015. In Italia la notizia è passata quasi del tutto inosservata sui media, con l’eccezione di una mezza dozzina di necrologi sul Corriere della Sera, compreso quello di Marina Berlusconi. Il manager cresciuto nelle fila della Fininvest, destinato ad accumulare onori e cariche all’ombra del Cremlino, è uscito di scena a 74 anni lasciandosi alle spalle una lunga scia di segreti. Adesso però i Pandora Papers alzano il velo sui suoi rapporti con l’oligarca Yuri Kovalchuk, al vertice della potentissima Bank Rossiya, più volte descritta come la banca personale di Putin. Il denaro rimbalza da un indirizzo offshore all’altro e tra le carte analizzate dall’Espresso c’è un contratto datato 30 giugno 2014 tra la Momentum Overseas delle British Virgin Islands (BVI) e la Telcrest investment di Cipro. Quest’ultima, secondo quanto si legge nel documento, si impegna a pagare alla prima 2,945 milioni di euro all’anno, divisi in 12 rate mensili, come compenso per non meglio precisati «servizi». A chi sono riconducibili queste due società? Momentum Overseas porta a Codignoni, a cui, si scopre nell’archivio segreto, sono stati affidati tutti i poteri di gestione e di rappresentanza dell’offshore caraibica. Telcrest, invece, faceva capo a Bank Rossiya e quindi all’oligarca Kovalchuk. All’epoca, la stessa holding cipriota controllava una quota del 25 per cento del gruppo televisivo russo Ctc. A questo punto si torna di nuovo a Codignoni, che fin da giugno del 2011 era approdato nel consiglio di amministrazione di Ctc, per poi esserne subito promosso al vertice con i gradi di co-presidente. Per il manager berlusconiano quella di un decennio fa è stata l’ennesima svolta di una carriera che lo aveva visto esordire in Francia negli anni Ottanta come responsabile della Cinq, un tentativo di replicare Oltralpe il successo di Canale 5, con esito fallimentare. Il suo nome compare per la prima volta nelle cronache politiche nel 1993, quando il Cavaliere gli affida l’organizzazione dei club di Forza Italia, da cui è nato il partito. L’incarico si esaurisce poco dopo la vittoria elettorale e Codignoni torna subito a occuparsi di tv, al vertice di Eurosport e poi di Sportitalia. Di lì a poco, l’ex braccio destro di Berlusconi si mette in proprio come consulente, apre una società a Montecarlo, la Acceleration Management, e sbarca in Russia preceduto dalla fama di mago della tv e della pubblicità. In quegli stessi anni i rapporti tra Berlusconi e Putin si sono fatti sempre più stretti, scanditi dagli incontri ufficiali come uomini di Stato e le rimpatriate tra amici in Costa Smeralda o nella dacia presidenziale sul mar Nero. Il nuovo zar aveva bisogno di controllare i media per consolidare il suo potere e ci è riuscito adottando la stessa strategia che gli ha permesso di portare sotto il controllo del Cremlino tutti i settori chiave dell’economia, dall’energia alle banche. Lo schema è semplice: le maggiori imprese russe vengono scalate da imprenditori che devono il loro successo ai rapporti privilegiati con il presidente russo. Kovalchuk è uno di questi boiardi, uno dei più vicini a Putin. Bank Rossiya, che era un piccolo istituto di credito di San Pietroburgo, nell’arco di un ventennio è diventato un colosso finanziario rilevando a prezzi di saldo aziende messe in vendita da gruppi di Stato come Gazprom. È il caso per esempio di Sogaz, una delle più grandi compagnie di assicurazioni del Paese. Tra i soci forti della banca si sono alternati altri amici personali del capo del Cremlino, come Gennady Timchenko, che ha fatto fortuna con il trading petrolifero, mentre una quota del 3 per cento, che vale decine di milioni di euro, appartiene a Svetlana Krivonogikh, la donna, ora ricchissima, che secondo la stampa russa indipendente ha avuto una lunga relazione sentimentale con Putin, da cui nel 2003 sarebbe nata anche una figlia. Mentre accumulava miliardi al comando di Bank Rossiya, il riservatissimo Kovalchuk (di lui si ricorda una sola intervista) ha anche creato un impero mediatico che non ha eguali in Russia. Il primo passo di questa nuova scalata risale al 2005, quando l’oligarca comprò una partecipazione in una piccola tv di proprietà del comune di San Pietroburgo. L’emittente, che si chiamava, guarda caso, Canale 5, l’anno dopo ottenne dal governo di Mosca la licenza per rilevare frequenze in 30 regioni del Paese. Codignoni entra in scena quando l’oligarca amico di Putin sta consolidando il suo potere nel sistema televisivo russo. Con incarichi ai massimi livelli: l’ex braccio destro di Berlusconi è stato cooptato nel consiglio d’amministrazione del National Media Group (Nmg), la holding di Mosca che ha rilevato il controllo di Ctc, a cui poi si sono aggiungi altri canali televisivi, aziende pubblicitarie e case di produzione cinematografica. Adesso i Pandora Papers illuminano l’altra faccia, quella fin qui nascosta, dell’irresistibile ascesa dell’uomo Fininvest emigrato in Russia alla corte del banchiere di Putin. L’archivio segreto rimanda per esempio a un contratto del gennaio 2014 tra la Momentum Overseas delle British Virgin Islands e la Acceleration Management Solutions, la società di Codignoni a Montecarlo. Quest’ultima si impegna a fornire servizi di consulenza alla offshore in merito, si legge nelle carte, alla partecipazione al board della Ctc, il colosso mediatico di Kovalchuk. Il compenso per la consulenza viene fissato in 1,8 milioni di euro all’anno. In base a questo contratto, quindi, una offshore caraibica gestita dall’ex manager berlusconiano avrebbe alimentato i conti bancari di un’altra società controllata dallo stesso Codignoni. Per avere lumi sulle motivazioni di questi movimenti di denaro, L’Espresso ha contattato gli uffici di Montecarlo della Acceleration Management, che è diretta da Mauro Sipsz, per molti anni socio e collaboratore, anche in Russia, di Codignoni. Le nostre domande sono però rimaste senza risposta. Così come gli interrogativi che riguardano altre sponde nei paradisi fiscali che i Pandora Papers attribuiscono all’ex collaboratore di Berlusconi. L’elenco comprende altre offshore come Baynen International, con sede a Panama, Alcott Services e Sunlight Corporate, registrate invece alle British Virgin Islands. Secondo questi documenti, gli affari di Codignoni hanno continuato a rimbalzare per un decennio tra Mosca, Montecarlo e i Caraibi. Il rapporto strettissimo con Kovalchuk non si è interrotto neppure dopo che Bank Rossiya, nel marzo del 2014, è stata colpita dalle sanzioni economiche decise dall’amministrazione statunitense e dall’Unione europea per punire Putin e i suoi fedelissimi dopo l’invasione russa della Crimea. Fino all’estate scorsa, il nome del manager italiano compariva ancora, in particolare, tra gli amministratori di Abr Management, la holding che controlla le attività di Bank Rossiya: il cuore del sistema Kovalchuk. Questione di affari, ma anche di sport. Codignoni, grande appassionato di motori, faceva parte anche dell’advisory board di Igora Drive, la società che ha costruito l’autodromo alle porte di San Pietroburgo dove a partire dal 2023 si svolgerà il Gran premio di Russia di Formula Uno. Un progetto sponsorizzato, manco a dirlo, da Putin in persona.
Pandora Papers, da Marina Berlusconi ad Angelucci ecco i personaggi legati alla politica con le offshore ai Caraibi. La villa alle Bermuda della figlia del leader di Forza Italia. Lo scudo fiscale dell’editore di Libero. Le cassaforti a Panama dell’ex presidente di Mps. Il trust di De Michelis e della vedova. E la tesoreria dell’ex senatore Bernabò Bocca. Sono le “Persone esposte politicamente” svelate nelle carte riservate dei fiduciari. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Leo Sisti su L'Espresso il 15 ottobre 2021. Le azioni al portatore di Marina Berlusconi a Panama. Il condono fiscale e la tesoreria ai Caraibi dell’imprenditore ed editore Giampaolo Angelucci. Le casseforti panamensi di Alessandro Falciai, l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena. Il trust a Singapore intestato all’ex ministro Gianni De Michelis, ma creato da sua moglie, Stefania Tucci, condannata per riciclaggio delle tangenti dell’amico Luigi Bisignani. La società esotica aperta del presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, mentre era senatore di Forza Italia. Sono storie di offshore, finora sconosciute, che riguardano italiani che hanno trasferito una parte del proprio patrimonio nei paradisi fiscali. Sono affari che riguardano «Persone esposte politicamente» (Pep), così come le classificano le 14 società internazionali di gestione fiduciaria delle ricchezze dei vip che sono al centro dell’inchiesta giornalistica Pandora Papers. Il marchio Pep è imposto dalle leggi anti-riciclaggio per segnalare i titolari di cariche politiche o ruoli pubblici e i loro familiari. L’etichetta dovrebbe far scattare verifiche sui beneficiari e sull’origine dei fondi incassati dalle loro offshore, con obbligo di comunicare nomi e cifre alle autorità interessate. Questi controlli, sulla carta, si fanno anche nei paradisi fiscali, ma restano un segreto professionale dei fiduciari. Di fatto nei Pandora Papers non si trova nemmeno una segnalazione sui Pep italiani.
La villa di Marina alle Bermuda
Nelle carte ottenute dal consorzio Icij e in Italia dall’Espresso spicca il nome di Marina Berlusconi, registrata come titolare effettiva di una società delle British Virgin Islands, chiamata Bridgestone Properties Limited. L’imprenditrice è schedata come Pep in quanto «figlia del leader di Forza Italia ed ex capo del governo». Il nome di quella offshore era emerso con le indagini milanesi degli anni ’90, che la collegavano però al padre. La Bridgestone rientrava infatti nell’elenco delle società estere da tenere riservate («Fininvest Group B very discreet»), sequestrato all’avvocato inglese David Mills, poi diventato testimone e quindi imputato con Silvio Berlusconi. La difesa ha sempre smentito qualsiasi legame tra le offshore e la Fininvest. Ora si scopre che per molti anni, dal 1991 al 2009, la proprietà della Bridgestone è stata attribuita all’anonimo possessore («bearer») di azioni al portatore emesse dallo studio Alcogal di Panama. I titoli di questo tipo, senza nomi, sono stati proibiti in Italia già dalla fine degli anni ’80, con la prima Convenzione internazionale contro il riciclaggio. Poi però le azioni sono state intestate a Marina Berlusconi, il 30 novembre 2009. Con una curiosa coincidenza: nella stessa data è stata pubblicata la circolare applicativa dello scudo fiscale varato dall’allora ministro Giulio Tremonti. Quando era ancora anonima, la Bridgestone ha acquistato dal gruppo Fininvest, per 12,2 milioni, uno yacht e una villa nelle Isole Bermuda, poi affittata a Marina Berlusconi, indicata negli atti solo come inquilina. Come referente finanziario, i fiduciari di Panama indicano la banca Cfm di Montecarlo, e annotano che il cliente è stato procurato da un’altra offshore, Granite Alliance Ltd, tuttora misteriosa. Marina Berlusconi ha risposto alle domande dell’Espresso, attraverso l’avvocato Niccolò Ghedini. Il legale spiega, per prima cosa, che i processi e le sentenze sul caso Mills «confermarono l’assoluta estraneità della signora Marina Berlusconi alla storia pregressa della Bridgestone, così come a ogni atto men che lecito». Il difensore precisa che a quella società, tuttora attiva, «fa capo unicamente la villa alle Bermuda, i cui beni sono ad esclusiva disposizione della proprietà, ovvero Marina Berlusconi» e «compare regolarmente nella sua dichiarazione dei redditi». L’avvocato Ghedini non specifica come e quando sia stata regolarizzata la offshore, e se la sua cliente abbia approfittato dello scudo fiscale. Oggi, comunque, «Marina Berlusconi non ha alcun altro tipo di attività o proprietà intestate a offshore e ha un giudizio totalmente critico sulle società che non adempiano i loro doveri fiscali in Italia».
Angelucci con lo scudo ai Caraibi
I Pandora Papers rivelano anche l’architettura estera più riservata del gruppo fondato da Antonio Angelucci, imprenditore e parlamentare di Forza Italia. E fanno luce su una offshore intestata a uno dei figli, Giampaolo Angelucci, che ha guidato per anni la holding di famiglia in Lussemburgo. In Italia il gruppo controlla ospedali con migliaia di posti letto, quotidiani di centrodestra come Il Tempo e Libero, e altre attività. La società offshore, mai emersa prima, si chiama Walla Invester Limited e ha sede nelle British Virgin Islands. È nata il 19 dicembre 2012, ma solo all’inizio del 2017 viene registrato come «beneficiario economico» Giampaolo Angelucci, con numero di passaporto e residenza in Lussemburgo. A gestire la offshore, come «director», è Luisella Moreschi, partner della società di consulenze fiscali Lmc, che ha assistito il gruppo Angelucci in Lussemburgo. Contattato dall’Espresso, Giampaolo Angelucci precisa: «Andavo spesso in Lussemburgo, ma non ho mai avuto la residenza fiscale all’estero. Ho sempre pagato le tasse in Italia». E la Walla delle Isole Vergini a cosa è servita? Angelucci è evasivo: «Non ricordo il motivo per cui è stata aperta nel 2017, mi pare che non abbia mai operato, poi è stata chiusa». La sua avvocata, Fulvia Astolfi, precisa che «la struttura del gruppo è stata ampiamente scrutinata dall'amministrazione finanziaria», con «verifiche e accertamenti che hanno trovato definizione tombale per tutte le posizioni». Mentre «il dottor Giampaolo Angelucci personalmente ha fatto ricorso a strumenti normativi quali lo scudo fiscale». A confermarlo è lo stesso Angelucci: «Siamo stati sottoposti a un procedimento fiscale, per tre anni la Guardia di Finanza ha analizzato contabilità e bilanci. Abbiamo chiuso la vertenza pagando una cifra con numerosi zeri». Ma come ha fatto a condonare con lo scudo del 2009-2010 una offshore del 2017? La Walla è stata sanata più tardi con una voluntary disclosure? È l’unica domanda rimasta per ora senza risposta. Il banchiere di Siena e gli yacht Alessandro Falciai è un manager entrato nel consiglio d’amministrazione del Monte dei Paschi nell’aprile 2015, dopo esserne diventato azionista con l’1,8 per cento, ed è stato presidente della grande e disastrata banca di Siena dal novembre 2016 al dicembre 2017, con l’appoggio del governo Renzi. Nei Pandora Papers appare come beneficiario di due società anonime di Panama. La prima, Mm Mc, è stata costituita nel 2013 e ha operato fino al 2019. La seconda, Vega Resources, è nata sempre nel 2013 e risulta tuttora attiva. Le due società estere non sono menzionate nelle sue dichiarazioni patrimoniali obbligatorie, pubblicate dalla banca. Interpellato dall’Espresso, Falciai ha spiegato che quelle offshore «sono state aperte per facilitare un’operazione commerciale di una mia società, Mondomarine, che è durata dal 2014 al 2016, e le loro attività sono state dichiarate al fisco italiano nel giugno 2017». Si tratta dell’azienda dei cantieri navali di Savona e Pisa, comprati dal manager con la fortuna incassata vendendo al gruppo Fininvest la società Dmt, con la speranza di rilanciarli. Mondomarine invece è fallita. E dopo aver denunciato le precedenti gestioni, nel 2017 Falciai si è ritrovato lui stesso indagato e ha rinunciato alla presidenza della banca, a cui era stato candidato dal ministero dell’Economia. Ricontattato dall’Espresso, Falciai ha chiarito, tramite un portavoce, che le offshore panamensi non hanno mai ricevuto denaro suo: hanno incassato il prezzo di due yacht, venduti a clienti italiani con i soldi all’estero, che lui ha riportato in Italia. Facendo una doppia voluntary disclosure, sia come persona che come società: un tipo di condono che a differenza dello scudo non garantisce l’anonimato e va comunicato al fisco, a costi più alti.
Il trust dei coniugi De Michelis
Dai Pandora Papers emerge anche un ricco patrimonio estero intestato a un protagonista della storia politica italiana, scomparso due anni fa. Nel 1994, quando fu travolto dall’inchiesta Mani Pulite, Gianni De Michelis, parlamentare socialista dal 1976 e più volte ministro, ammise di aver ricevuto soldi in nero da decine di imprese, ma giurò di non essersi arricchito: gestiva tutto il suo portaborse, per pagare i costi della politica. Ora si scopre che, passata la bufera, il politico veneziano è stato registrato come beneficiario di un fondo offshore con base a Singapore, Emerald Trust, insieme alla moglie Stefania Tucci. La signora inoltre è l’unica titolare di un’altra società estera, Wealth Info Holdings Limited, creata a Hong Kong il 18 aprile 2007, che risulta tuttora attiva. I fiduciari di Asiacity attribuiscono al trust un conto nella filiale di Antigua della banca svizzera Pkb, che ha movimentato per anni diversi milioni di dollari, provenienti dalla offshore della moglie. De Michelis è morto nel 2019 dopo una lunga malattia. Asiacity ha schedato entrambi i coniugi come personaggi ad alto rischio legati alla politica («High Risk Pep») quando De Michelis è diventato europarlamentare, dal 2004 al 2009, ma non ha mai segnalato nulla alle autorità italiane. La signora Tucci De Michelis lavora da vent’anni a Londra come consulente fiscale e ha avuto stretti rapporti con Luigi Bisignani, il faccendiere più potente d’Italia. L’amicizia le è costata un infortunio: è stata condannata con l’accusa di riciclaggio, nel 2018, per aver aiutato Bisignani a portare in Italia e investire a Roma, tramite società offshore, circa due milioni di euro: un quinto delle tangenti incassate dal faccendiere con lo scandalo Enimont. Anche Bisignani è stato condannato in quel processo-simbolo, come De Michelis e altri big. La signora ha risposto a tutte le domande dell’Espresso, chiarendo di essere la vedova di De Michelis, da cui si era separata nel 1999, ma non ha mai divorziato. «Il trust era mio ed è stato liquidato nel 2016-2017. Mio marito non era al corrente di esserne beneficiario. L’avevo designato per fargli ereditare i miei beni in caso di mia morte. Per quanto ne so, mio marito non ha mai percepito redditi all’estero». La vedova di De Michelis risponde anche sulla propria offshore: «La Wealth Info Holdings è tutt’ora in vita anche se negli ultimi anni non operativa. È stata costituita a Hong Kong per svolgere consulenze per soggetti interessati a relazioni commerciali con la Cina, che conosco molto bene. Dal 1999 sono residente a Londra e presento la dichiarazione dei redditi in Gran Bretagna, con tutte le attività che mi riguardano. Il conto ad Antigua è stato chiuso e le mie disponibilità trasferite regolarmente a Londra quando fu liquidato il trust. Non ho mai avuto conti esteri non dichiarati al fisco inglese. A Napoli ho ricevuto 17 avvisi di garanzia e ho riportato un’unica condanna, molto ingiusta».
Bocca e l’offshore dimenticata
Il presidente della Federalberghi, la lobby degli albergatori italiani, è registrato come titolare di una società anonima di Panama, Breckier Investments. La offshore è nata il 24 ottobre 2013, è rimasta attiva fino al 2019-2020 e risulta cancellata nel giugno 2021. Bernabò Bocca è stato schedato come Pep perché negli stessi anni, dal 2013 al 2018, è stato senatore di Forza Italia. La società estera però non compare nelle sue dichiarazioni patrimoniali, obbligatorie per i parlamentari, pubblicate dal Senato. La offshore è stata creata dallo studio Alcogal di Panama, che come referente finanziario del politico italiano indica un banchiere svizzero della PKB Private Bank. Alle nostre domande, Bernabò Bocca ha dato solo una breve risposta: «In riferimento alla casa di Panama City, l'immobile è stato regolarmente inserito nella dichiarazione dei redditi». L’Espresso lo ha ricontattato per sapere se la offshore possedesse conti bancari, oltre alla casa, e perché si è dimenticato di dichiararla al Senato. Nessuna risposta, almeno per ora.
Dagospia il 15 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo. La nota inviata dall'avvocato Niccolò Ghedini a "L'Espresso". Le passate vicende in cui si inserivano le dichiarazioni dell’avvocato Mills da voi citate (peraltro estrapolando alcuni passaggi in maniera parziale e dunque fuorviante, senza dar conto delle successive dichiarazioni dello stesso Mills) chiarirono totalmente l’assoluta estraneità della signora Marina Berlusconi alla storia pregressa della società Bridgestone Properties Limited così come ad ogni atto men che lecito. Estraneità confermata dalle decisioni dell’autorità giudiziaria, che escluse qualsiasi coinvolgimento della signora Berlusconi. La Bridgestone Properties Limited, cui fa capo unicamente la villa della signora Berlusconi alle Isole Bermuda, è una società immobiliare i cui beni sono ad esclusiva disposizione della proprietà, ovvero Marina Berlusconi. Compare regolarmente nella dichiarazione dei redditi che la signora Berlusconi presenta annualmente al fisco italiano, e su di essa vengono pagate tutte le tasse e le imposte previste dal nostro ordinamento tributario. Non esiste dunque alcun beneficio fiscale o di altro tipo. Per quanto riguarda lo “yacht” da voi citato, l’unica imbarcazione utilizzata dalla famiglia alle Isole Bermuda è un vecchio motoscafo di circa 10 metri ormai da più di vent’anni in disuso e ricoverato in un cantiere navale della Bermuda stessa. La signora Berlusconi, visti i suoi impegni, naturalmente non si occupa della gestione burocratica della società e della casa, avendo demandato in toto il compito ad un noto professionista monegasco, l’avvocato Maurizio Cohen, che agisce in completa autonomia. La signora Berlusconi non ha alcun altro tipo di attività o proprietà intestate a società cosiddette offshore. Il suo giudizio sull’utilizzo di dette società è totalmente critico, quando non rispettino la legislazione fiscale nazionale e non adempiano ai loro doveri fiscali in Italia. Ovviamente ogni illazione o ricostruzione non aderente alla realtà fattuale, così come ogni violazione della privacy, sarà perseguita nelle sedi più opportune. Avv. Niccolò Ghedini
Estratto dell’articolo di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Leo Sisti per espresso.repubblica.it il 15 ottobre 2021. Le azioni al portatore di Marina Berlusconi a Panama. Il condono fiscale e la tesoreria ai Caraibi dell’imprenditore ed editore Giampaolo Angelucci. Le casseforti panamensi di Alessandro Falciai, l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena. Il trust a Singapore intestato all’ex ministro Gianni De Michelis, ma creato da sua moglie, Stefania Tucci, condannata per riciclaggio delle tangenti dell’amico Luigi Bisignani. La società esotica aperta del presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, mentre era senatore di Forza Italia. Sono storie di offshore, finora sconosciute, che riguardano italiani che hanno trasferito una parte del proprio patrimonio nei paradisi fiscali. Sono affari che riguardano «Persone esposte politicamente» (Pep), così come le classificano le 14 società internazionali di gestione fiduciaria delle ricchezze dei vip che sono al centro dell’inchiesta giornalistica Pandora Papers. Il marchio Pep è imposto dalle leggi anti-riciclaggio per segnalare i titolari di cariche politiche o ruoli pubblici e i loro familiari. L’etichetta dovrebbe far scattare verifiche sui beneficiari e sull’origine dei fondi incassati dalle loro offshore, con obbligo di comunicare nomi e cifre alle autorità interessate. Questi controlli, sulla carta, si fanno anche nei paradisi fiscali, ma restano un segreto professionale dei fiduciari. Di fatto nei Pandora Papers non si trova nemmeno una segnalazione sui Pep italiani. (…)
Pandora Papers, Svetlana Krivonogikh ex fidanzata di Vladimir Putin. Società offshore e case a Monaco. L'Espresso e Icij il 3 ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Svetlana Krivonogikh, 46 anni, è una milionaria russa, socia d’affari di un oligarca, Yuri Kovalchuk, legatissimo al presidente Vladimir Putin. La signora possiede tra l’altro il 3 per cento della banca Rossiya, che dopo la guerra civile in Ucraina è stata colpita dalle sanzioni internazionali per i suoi strettissimi collegamenti con Il governo di Mosca. Secondo un’inchiesta giornalistica pubblicata nel novembre 2020 dalla testata russa Proekt, rilanciata da tutta la stampa internazionale, Svetlana sarebbe la madre di una figlia non dichiarata di Putin. Il presidente l’avrebbe conosciuta quando lei aveva 25 anni e lavorava come addetta alle pulizie in un hotel di San Pietroburgo. La figlia, Elizabeta Krivonogikh, è nata il 2 marzo 2003. L’identità del padre non è mai stata registrata all’anagrafe. I giornalisti di Proekt hanno utilizzato una sua fotografia (senza pubblicarla, per rispettare la privacy della minorenne) per un riconoscimento facciale, eseguito da esperti indipendenti, che ha confermato una straordinaria rassomiglianza con il presidente Putin. I Pandora Papers ora rivelano che Svetlana Krivonogikh è il beneficiario economico di una società offshore, Brockville Development Ltd, con sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche. La società è stata costituita il 2 aprile 2003, esattamente un mese dopo la nascita della figlia Elizabeta. Questa offshore è stata utilizzata per acquistare un lussuoso appartamento affacciato sul mare, con due garage privati, nel Principato di Monaco. Il rogito notarile, stipulato sempre nel 2003, riporta un prezzo di 3,6 milioni di dollari. Nei documenti non compare il nome della beneficiaria dell’affare: a firmare l’atto è un suo fiduciario, che ha gestito altre società offshore per molti dei più ricchi oligarchi di Mosca. Si ignora anche la provenienza dei fondi utilizzati per comprare quella residenza a Montecarlo all’allora cameriera russa. Negli anni successivi alla nascita della figlia, Svetlana Krivonogikh ha accumulato una fortuna complessiva di oltre cento milioni di dollari.
Pandora Papers, c’è anche l’«amante di Putin», titolare di un patrimonio da 100 milioni di dollari. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2021. Da studentessa a milionaria, con conti off shore. E una figlia che assomiglia al presidente russo. Chi è Svetlana Krivonogikh, nelle carte dell’inchiesta sui tesori nascosti. Una semplice studentessa, che si pagava gli studi anche grazie al lavoro di cameriera, diventata improvvisamente milionaria, con conti offshore e azioni di importanti banche. E la figlia che misteriosamente assomiglia in maniera significativa al capo dello Stato. Ogni volta che escono notizie su patrimoni nascosti nei vari paradisi fiscali, nell’elenco dei beneficiari ci sono sempre nomi russi. E molto spesso nomi di persone che in qualche modo sarebbero legate a Vladimir Vladimirovich Putin. Ogni volta, naturalmente, il Cremlino smentisce recisamente. In alcuni casi si tratta di vecchi amici d’infanzia casualmente diventati imprenditori abilissimi e ricchissimi. In altri, di persone di cui ai vertici della Russia «non si è mai sentito parlare». E’ questo il caso di Svetlana Krivonogikh, oggi quarantasettenne e madre di una ragazza di 18 anni, il cui nome è spuntato nuovamente nelle cronache con le rilevazioni dei cosiddetti Pandora Papers, carte segrete che porterebbero a centinaia di personalità mondiali con patrimoni prudentemente nascosti in località compiacenti. Svetlana sarebbe la proprietaria di un appartamento da 4 milioni di dollari a Montecarlo acquistato nel 2003, proprio all’indomani della nascita della figlia Elizaveta, detta Luisa. La storia di questa (allora) giovane e bella ragazza di San Pietroburgo è stata raccontata l’anno scorso dal giornale online Proekt che subito dopo è stato chiuso. Svetlana avrebbe conosciuto Putin quando questi era vice sindaco della città sul Baltico negli anni Novanta e, naturalmente, era felicemente sposato con Lyudmila che gli ha dato due figlie e che poi da Vladimir ha divorziato. La Krivonogikh era studentessa di economia e, sempre secondo il giornale russo, ebbe una storia con Putin che durò una decina d’anni. Elizaveta l’anno scorso era molto attiva sui social, dove pubblicava foto di gite su yacht, di viaggi in località esotiche. Proekt ha avuto la pessima idea (che forse è stata la principale causa della chiusura) di chiedere un parere a un esperto criminologo, specializzato nei riconoscimenti facciali. E questi ha stabilito che la ragazza aveva il 70,4 per cento di somiglianza con il presidente russo. Lei stessa, intervistata dalla rivista di gossip GQ nei mesi scorsi, ha affermato: «sono tante le persone che in Russia assomigliano a Vladimir Vladimirovich».
Fatto sta che la madre Svetlana è oramai una businesswoman di successo, titolare, sembrerebbe, di un patrimonio di 100 milioni di dollari. E’ socia di importanti conoscenti del presidente, ha una quota della banca Rossiya, definita dai critici del Cremlino la banca di Putin, perché controllata da oligarchi vicinissimi al presidente.E Elizaveta si sta avviando sulla strada giusta: studia management nel campo dell’arte e della cultura. Un giorno potrà subentrare alla madre nella gestione del patrimonio di famiglia.
Pandora Papers, Vladimir Putin e il nome della sua amante: un tesoretto nei paradisi fiscali, dettagli clamorosi. Libero Quotidiano il 04 ottobre 2021. Si chiama Svetlana Krivonogikh, il suo nome compare nei Panama Papers e sarebbe l'amante di Vladimir Putin: la donna, ex colf, avrebbe acquistato un lussuoso appartamento da 4 milioni di dollari nel 2003 a Monaco. Un periodo in cui secondo le indiscrezioni aveva appunto un rapporto con lo Zar e in cui stava accumulando un tesoro finanziario molto sospetto e chiacchierato anche in patria. In qualche modo, insomma, pur non essendo direttamente coinvolto, anche il presidente russo viene sfiorato dal nuovo capitolo della inchiesta internazionale su vip (politici e celebrità del mondo dello spettacolo) e paradisi fiscali, con 12 milioni di nuovi file "riservatissimi". Dal re di Giordania al presidente ucraino, dal ministro olandese ai dittatori africani, da Julio Iglesias a Claudia Schiffer. Nei documenti portati alla luce dal Consorzio dei giornalisti investigativi Icij e anticipati dall'Espresso che fa parte delle 150 testate internazionali che hanno lavorato all'indagine, c'è un po' di tutto. "Cinque anni dopo i Panama Papers - si legge nell'anticipazione de L'Espresso -, una nuova inchiesta giornalistica internazionale ancora più ampia svela le ricchezze nascoste nei paradisi fiscali da migliaia di potenti di tutto il mondo. Ci sono 35 capi di Stato o di governo. Più di 300 politici di oltre novanta nazioni: ministri, leader di partito, parlamentari. Insieme a generali, capi dei servizi segreti, manager pubblici e privati, banchieri, industriali". "Le nuove carte, chiamate Pandora Papers, documentano una miriade di affari ricchissimi con i nomi dei beneficiari, finora tenuti segreti. L’elenco degli azionisti schermati dal velo delle società offshore comprende il premier della Repubblica Ceca, il ministro olandese dell’Economia, l’ex capo del governo britannico Tony Blair, il Re di Giordania e presidenti in carica di Paesi come Ucraina, Kenya, Cile, Ecuador. Nella lista spiccano i nomi di molte celebrità dello sport, della moda e dello spettacolo. Ma ci sono anche criminali. Ex terroristi. Bancarottieri. Trafficanti di droga. E boss mafiosi, anche italiani, con i loro tesorieri".
Nei Pandora Papers anche l’amante di Putin, il Cremlino nega. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 4 ottobre 2021. "Affermazioni infondate". Il Cremlino liquida così l'inchiesta Pandora Papers diffusa dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) secondo cui diversi stretti collaboratori nonché presunti familiari del presidente Vladimir Putin possiederebbero ricchezze nascoste presso conti offshore. Eppure le rivelazioni dell'Icij corroborano vecchie pubblicazioni di siti investigativi russi come Proekt che nel frattempo è stato marchiato come "non grato" e messo al bando nella Federazione, mentre tutti i suoi giornalisti sono stati dichiarati "agenti stranieri".
Pandora Papers, 9 Paesi indagano e Mosca attacca. Gaia Cesare il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. Pioggia di smentite da politici e vip. Russia contro gli Stati Uniti: "Le maggiori lacune sono loro". Il giorno dopo lo scoperchiamento dei Pandora Papers è un susseguirsi di smentite, precisazioni, contrattacchi da parte di politici e vip coinvolti. Almeno nove Paesi hanno annunciato indagini sulle attività finanziarie di istituzioni e cittadini citati nell'inchiesta giornalistica coordinata dall'International Consortium of Investigative Journalists (IciJ) e il Parlamento europeo ha deciso di aggiungere la discussione sui Papers nell'agenda dei lavori di domani, per la settimana di plenaria a Strasburgo. L'indagine ha svelato i segreti finanziari di 29mila persone, tra cui 35 capi di Stato e di governo presenti e passati, sparsi in oltre 90 nazioni e coperti da 95mila società off-shore in vari paradisi fiscali, da Singapore a Dubai, da Cipro a Panama. La smentita più pesante, accompagnata da un contrattacco in stile Guerra Fredda, arriva dal portavoce del Cremlino, dopo che molti stretti collaboratori del presidente Vladimir Putin, che non compare mai direttamente, sono finiti nella lista dei detentori di patrimoni nascosti, compresa Svetlana Krivonogikh, imprenditrice milionaria con cui il leader russo avrebbe avuto una relazione e una figlia non dichiarata oggi diciottenne. La donna sarebbe proprietaria di un appartamento da 4 milioni di dollari, acquistato nel 2003 a Montecarlo, proprio all'indomani della nascita della figlia. «Affermazioni infondate», ribatte Mosca, secondo cui i russi «sono rappresentati in modo sproporzionato» nei Pandora Papers, dove il 14% delle circa 27mila società è riconducibile a cittadini russi, con 16 oligarchi legati a compagnie offshore. «L'unica cosa che attira davvero l'attenzione è la dimostrazione di quale Stato ha le maggiori lacune: gli Stati Uniti», sferza il Cremlino. Il copione di negazioni e smentite si ripete. Chi ha più da perdere è il premier ceco Andrej Babi, che fra tre giorni, l'8 e il 9 ottobre, si gioca la rielezione. Eppure la notizia di aver utilizzato 15 milioni di euro su conti offshore per acquistare proprietà immobiliari in Francia nel 2009, seguita dalla decisione dell'anticrimine ceca di aprire un'inchiesta, non dovrebbe incidere troppo. Lui spiega di «non aver mai commesso nulla di illegale o sbagliato» e sostiene di venire screditato in vista del voto. A negare un coinvolgimento nell'occultamento dei beni di un ex senatore russo (Leonid Lebedev) è il presidente cipriota Nikos Anastasiadis: «Non ne sono a conoscenza e lo ritengo impossibile». Repliche piovono da ogni angolo del pianeta, dal re di Giordania Abdallah II all'ex sindaco di Gerusalemme Nir Barkat fino a Londra. Dopo l'ex premier Tony Blair, che avrebbe risparmiato migliaia di euro in imposte per l'acquisto di un ufficio a Londra, l'attuale capo di governo Boris Johnson finisce sotto pressione per le donazioni al partito conservatore di Viktor Fedotov, tycoon russo del petrolio, ex comproprietario di una società al centro di un sistema corruttivo, e Mohamed Amersi, uomo d'affari dietro una tangente per la figlia dell'allora presidente dell'Uzbekistan.
A rallegrarsi dell'inchiesta è la Commissione europea, «entusiasta che la lotta all'evasione fiscale venga combattuta a tutti i livelli». Il commissario all'Economia Paolo Gentiloni promette «una proposta contro l'abuso delle società di comodo». Anche dalla Casa Bianca l'impegno: «L'Agenda Build Back Better di Biden reprimerà i regimi fiscali iniqui». Gaia Cesare
Pandora Papers, Tony Blair ex premier del Regno Unito. Società offshore e un palazzo a Londra. L'Espresso e Icij su L'Espresso il 3 ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Tony Blair è stato leader del partito laburista dal 1994 e capo del governo britannico per tre mandati, dal 1997 al 2007. Lasciato l’ufficio di primo ministro, ha svolto incarichi internazionali per le Nazioni Unite e ha lavorato come consulente privato e relatore. Sua Moglie, Cherie Blair, è avvocata ed è stata consulente legale di imprese private e governi stranieri. All’inizio del 2017 Tony e Cherie Blair hanno costituito una società immobiliare inglese, Harcourt Ventures, che in estate ha acquistato una società offshore già esistente, Roman International Ltd, con sede nelle Isole Vergini Britanniche. La società offshore era proprietaria di un palazzo di Londra, valutato 8,8 milioni di dollari, che in questo modo è stato acquisito dai coniugi Blair. Finora si ignorava a chi appartenesse quella offshore, cioè chi fosse il venditore. I Pandora Papers rivelano che era controllata da un’impresa immobiliare posseduta da un influente politico arabo, Zayed Bin Rashid Al Zayani, ministro dell’Industria e del Turismo del Bahrein. Secondo gli esperti di questioni fiscali consultati da Bbc e Guardian, partner inglesi del consorzio Icij, acquistare una proprietà a Londra attraverso una società offshore, anziché direttamente, consente al compratore di evitare le tasse immobiliari britanniche: un risparmio assolutamente legale, in base alle norme in vigore nel Regno Unito. Il palazzo di Londra oggi ospita la sede dello studio legale di Cherie Blair. La società offshore al centro dell’affare con il ministro del Bahrein è stata chiusa nel 2018.
Pandora Papers, Re Abdullah II di Giordania. Società offshore e residenze di lusso. L'Espresso e Icij su L'Espresso il 3 ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Abdullah II, 59 anni, è dal 1999 il re della Giordania, lo Stato del Medio Oriente che da decenni è un alleato strategico degli Stati Uniti e dell’Unione europea. All’estero ha saputo presentarsi come un monarca illuminato e tollerante. Le principali organizzazioni per i diritti umani lo hanno però accusato, anche in tempi recenti, di guidare un regime autocratico che tortura i detenuti politici e reprime oppositori e giornalisti. I Pandora Papers rivelano che Abdullah II possiede 33 società offshore con sede a Panama o nelle Isole Vergini Britanniche. I documenti mostrano che sono state utilizzate, tra l’altro, per schermare l’acquisto di almeno 14 residenze di lusso in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Sono ricche proprietà immobiliari localizzate nel centro di Londra, a Washington e in California, dove nel 2014 una offshore di Abdullah II ha comprato una villa enorme per 33,5 milioni di dollari. La Giordania ha ricevuto in questi anni finanziamenti per miliardi di dollari dagli Stati Uniti. Finora si ignorava che il sovrano avesse utilizzato società offshore per acquistare immobili negli stessi Stati Uniti. Le offshore di Re Abdallah II hanno investito all’estero, in totale, almeno 106 milioni di dollari tra il 2003 e il 2017.
Da espresso.repubblica.it il 5 ottobre 2021. Wopke Hoekstra è il ministro dell’Economia olandese dal 2017. Entrato in politica nel 2011, quando era avvocato e professionista della società di consulenze internazionali McKinsey, è diventato senatore e leader del partito cristiano-democratico. Durante il mandato parlamentare ha continuato a lavorare anche per McKinsey, che ha lasciato nell’ottobre 2017, quando il capo del governo Mark Rutte lo ha nominato ministro dell’Economia, carica riconfermata nel marzo 2021 nonostante i deludenti risultati elettorali del suo partito. Come ministro, Hoekstra ha criticato pubblicamente la finanza offshore, dichiarando di appoggiare le proposte dell’Unione europea per contrastare l’evasione ed elusione fiscale internazionale e per vietare le società anonime. Ha più volte polemizzato anche con l’Italia, fiancheggiato da altri ministri europei rigoristi, invocando più tagli e austerità per ridurre il debito pubblico. I Pandora Papers mostrano che Hoekstra è stato registrato nel 2010 come azionista della società offshore Candace Management Ltd, con sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche. E ha acquistato altre azioni della stessa offshore nel 2013 e 2014, dopo essere diventato senatore. Tra gli altri comproprietari della società delle Isole Vergini compaiono diversi manager o ex dirigenti della banca olandese Abn-Amro. L’amministratore e primo azionista della Candace Management Ltd è Jeroen Harderwijk, ex manager di Abn-Amro, che nel 2003 era stato uno dei fondatori di African Spirit Group (controllata dalla società Asilia Africa), una compagnia che organizza safari, famosa perché fu la prima ad assumere donne come guide. La Candace Management ha poi acquisito e oggi possiede il 25 per cento di African Spirit Group, che è partecipata con il 32 per cento dal fondo d’investimento statale norvegese Norfund. I documenti disponibili mostrano che il 31 maggio 2017, poco prima di diventare ministro, l’allora senatore Hoekstra possedeva ancora 627 azioni della società offshore Candace Management, mentre il socio più importante, Harderwijk, ne deteneva 15.300.
Pandora Papers, Andrej Babis primo ministro della Repubblica Ceca. La villa di lusso con società offshore. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Andrej Babis è il primo ministro in carica della Repubblica Ceca, alla guida di un governo populista di destra. Dopo la caduta del blocco sovietico, aveva fondato il gruppo agro-alimentare Agrofert, affermandosi come uno degli imprenditori più ricchi del Paese. Entrato in politica negli anni della crisi finanziaria, è stato ministro dell’economia e dal 2017 è il capo del governo. Gli ispettori anti-frode della Commissione europea hanno accusato la sua azienda privata di aver beneficiato di sussidi comunitari irregolari per circa 2 milioni di euro. Babis ha respinto ogni accusa. Ora è in corsa per la rielezione. I Pandora Papers rivelano che Babis ha utilizzato società offshore per comprare segretamente una villa di lusso in Francia, in Costa Azzurra, chiamata Chateau Bigaud, vicino a Cannes. Il prezzo, 22 milioni di dollari, è stato versato nel corso del 2009 attraverso una serie di società-schermo con sede nelle Isole Vergini Britanniche. L’affare offshore è stato gestito tramite un’immobiliare di Montecarlo, chiamata Scp Bigaud. Le società delle Isole Vergini erano ancora attive nel 2013, quando Babis è entrato in politica, ma non compaiono nelle sue dichiarazioni patrimoniali, obbligatorie per legge, dove non è menzionata neppure la proprietà in Francia.
Pandora Papers, Uhuru Kenyatta presidente del Kenya. Trust offshore e conti milionari. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Uhuru Kenyatta è presidente del Kenya dal 2013 e già in precedenza aveva ricoperto importanti cariche politiche. Appartiene a una delle famiglie più ricche e potenti dell’Africa, accreditata di un patrimonio di oltre mezzo miliardo di dollari. Suo padre è stato il primo presidente del Kenya e ha costruito le fortune familiari attraverso compravendite di terreni realizzate mentre era in carica. Nel 2017, durante l’ultima campagna elettorale che ha portato alla sua rielezione, Uhuru Kenyatta aveva promesso una dura lotta contro la corruzione e l’evasione fiscale. I Pandora Papers mostrano che il presidente Uhuru Kenyatta, sua madre e alcuni fratelli hanno utilizzato almeno sette trust e società offshore per gestire investimenti all’estero. I trust sono gestiti da fiduciari delle compagnie Alcogal e Trident. Le strutture offshore sono state costituite prima del 2013, ma sono rimaste attive anche dopo l’elezione a presidente. Le società controllate da Uhuru Kenyatta e dai suoi familiari hanno sede a Panama e nelle Isole Vergini Britanniche. Controllano immobili e conti bancari all’estero, in particolare a Hong Kong e nei paradisi fiscali britannici, per un valore complessivo di almeno 30 milioni di dollari.
Pandora Papers, Denis Sassou Nguesso presidente del Congo. Miniere di diamanti e società offshore. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Denis Sassou Nguesso è presidente del Congo-Brazzaville, ex colonia francese, dal 1997. Ex comandante militare, era già stato presidente dal 1979 al 1992. Ha riconquistato il potere dopo una sanguinosa guerra civile ed è accusato di guidare un regime repressivo che tortura e imprigiona i dissidenti. Sassou Nguesso e diversi suoi familiari sono sotto indagine in Francia e negli Stati Uniti con l’accusa di aver sottratto decine di milioni alle casse statali, per reinvestirli segretamente all’estero. Il Congo-Brazzaville è una nazione ricca di gas, petrolio e pietre preziose, ma il 90 per cento della popolazione vive con meno di due euro al giorno. I Pandora Papers rivelano che il presidente Denis Sassou Nguesso è personalmente il beneficiario economico di una società offshore, Inter African Investment Ltd, con sede nelle Isole Vergini Britanniche. La società controlla alcune delle più ricche miniere di diamanti del Congo-Brazzaville. È stata costituita nel 1998, all’inizio della seconda presidenza di Sassou Nguesso, ed è stata registrata come inattiva dai fiduciari di Alcogal solo nel 2018, dopo l’inizio delle indagini giudiziarie francesi e americane. Alla società Inter African Investment Ltd faceva capo un’altra offshore, Ecoplan Finance Ltd, che a sua volta controllava la maggioranza delle azioni della Escom Congo, un’impresa edilizia e immobiliare che possiede i diritti di sfruttamento delle miniere di diamanti congolesi. Julienne Sassou Nguesso, una figlia del presidente, ha rivestito la carica di amministratore di Ecoplan Finance Ltd. I documenti riservati svelati dai Pandora Papers si fermano al 2018.
Pandora Papers, Najib Mikati primo ministro del Libano. Società offshore e casa a Montecarlo. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Najib Mikati è il primo ministro in carica del Libano, nominato per la terza volta capo del governo come reggente in una nazione in grave crisi. Fa parte di una delle famiglie più ricche del Medio Oriente, accreditata di un patrimonio di oltre due miliardi di dollari. Insieme al fratello, ha fondato negli anni ’80 la prima compagnia di telefoni satellitari e poi il fondo d’investimento M1 Group, con attività in Sudafrica, Europa e Stati Uniti. In questi mesi il Libano sta attraversando una drammatica crisi economica e sociale. I Pandora Papers mostrano che Najib Mikati è stato presidente e amministratore della società anonima Hessville investment Inc., creata nel 1994 a Panama, che nel 2008 ha acquistato una proprietà immobiliare nel Principato di Monaco per più di 10 milioni di dollari. Finora si ignorava che la residenza di Montecarlo fosse stata comprata, tramite offshore, dall’attuale primo ministro libanese. I Pandora Papers documentano che anche suo figlio, Maher Mikati, è stato amministratore di almeno due società offshore.
Pandora Papers, Mohammed Bin Rashid Al Maktoum sceicco di Dubai. Società anonime e telco. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Lo sceicco di Dubai, Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, è una delle personalità più importanti del Medio Oriente. Dal 2006 è primo ministro e vicepresidente degli Emirati Arabi. Come uomo d’affari, controlla ricchissimi fondi d’investimento con base a Dubai e gli viene accreditato un patrimonio personale di 18 miliardi di dollari. Sotto il suo governo, gli Emirati sono diventati uno dei più importanti centri finanziari offshore e una rinomata meta del turismo di lusso. I Pandora Papers rivelano che lo sceicco Al Maktoum ha utilizzato segretamente società anonime con sede in altre giurisdizioni offshore, come Bahamas e Isole Vergini Britanniche. Tre società offshore, in particolare, sono state impiegate a partire dal 2008 per favorire l’espansione internazionale della compagnia telefonica Axiom, che ha tra i principali azionisti il gruppo Dubai Holding, controllato dallo sceicco stesso. Due di queste società offshore hanno avuto come amministratore unico, dal 2011, l’uomo d’affari Faisal Al-Bannai, fondatore e azionista di maggioranza della Axiom. Al-Bannai è anche titolare di una società privata, Dark Matter, che nel 2019 è stata accusata da un’inchiesta giornalistica internazionale dell’agenzia Reuters di aver spiato e hackerato i telefonini e i computer di attivisti per i diritti umani, giornalisti e oppositori politici del governo degli Emirati. Le società offshore collegate ad Axiom e allo sceicco e primo ministro di Dubai sono state chiuse tra il 2020 e il 2021.
Pandora Papers, Hamad Bin Jassim Al Thani sceicco del Qatar. Società offshore, banche e uno yacht da 300 milioni. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Lo sceicco Hamad Bin Jassim Al Thani è un membro della famiglia reale del Qatar, dove ha rivestito importanti cariche pubbliche. Dal 2007 al 2013 è stato capo del governo, ministro degli esteri e poi capo del fondo sovrano, Qatar Investment Authority, che gestisce un patrimonio di circa 300 miliardi di dollari. Ha svolto ruoli di mediazione e intervento diplomatico in numerosi conflitti in Africa e Medio Oriente, in particolare in Siria, Darfur e Afghanistan. I Pandora Papers documentano che lo sceicco Al Thani utilizza da anni numerose società offshore, con sede in paradisi fiscali come Panama, Bahamas, Isole Vergini Britanniche e Cayman, per gestire investimenti all’estero e ricchezze personali. Possiede un famoso super yacht da 300 milioni di dollari, chiamato Al Mirqab, anch’esso gestito da offshore. Una fondazione di Panama tuttora attiva, Tretop Family Foundation, controlla una offshore delle Isole Vergini Britanniche, Paramont Services Holdings Limited, che custodisce il 3 per cento delle azioni della Deutsche Bank.
Un’altra offshore ancora operativa, registrata alle Isole Cayman, si chiama Boomerang Investment Limited. Nel 2011 lo sceicco del Qatar ha incaricato i suoi rappresentanti di aprire una società fiduciaria con lo stesso nome, The Boomerang Trust, in Nuova Zelanda. Nel 2012, solo per il primo anno di gestione del trust, lo studio Asiacity gli ha addebitato una fattura di 225 mila dollari. Poi lo sceicco ha cambiato idea: nel 2013 Asiacity annota che il trust è rimasto vuoto.
Da espresso.repubblica.it l'11 ottobre 2021. Da quasi cinque mesi, dallo scorso maggio, è in corso a Milano un processo di cui non si parla. Eppure, è una storia impressionante. Che coinvolge i vertici dei Legionari di Cristo, la ricchissima congregazione religiosa fondata nel 1941 dal prete messicano Marcial Maciel Degollado, travolto da infiniti scandali sessuali con droga, amanti, figli segreti sparsi per il mondo. E condannato dal Vaticano, nel 2006, soltanto a dedicarsi a «una vita di preghiera e penitenza», prima di morire nel 2008. Sotto accusa ci sono quattro dirigenti della Congregazione, fortissima in Italia, Messico e Spagna, dove rappresenta l’ala conservatrice e integralista del mondo cattolico. Al centro del processo, due accuse: tentata estorsione e favoreggiamento. Pressioni e minacce per insabbiare una denuncia presentata nel 2013 in un commissariato milanese da due genitori disperati, Yolanda M. e Giuseppe L., per gli abusi sessuali subiti dal figlio nel seminario di Gozzano, vicino a Novara. Un sacerdote dei Legionari, padre Vladimir, avrebbe trasformato quel ragazzo in uno schiavo sessuale: un inferno, che lo ha spinto a meditare il suicidio, come lui stesso ha scritto in un tema conservato dai genitori, prima di abbandonare la vocazione. Per evitare lo scandalo, l’ennesimo, i quattro dirigenti della Congregazione avrebbero proposto ai due poveri coniugi un accordo scritto, illegale: negare che ci fossero mai stati abusi, se interrogati da magistrati, in cambio di 15 mila euro, da restituire se invece avessero parlato. Al loro no, deciso, sarebbe seguita una seconda proposta scritta, non più riferita ai giudici: tacere con le autorità ecclesiastiche, in cambio dei soliti 15 mila euro. Da ridare, se avessero rotto l’omertà, raddoppiati: 30 mila. Gli imputati del processo milanese, che respingono tutte le accuse, sono Luca Gallizia, italiano, ex rettore dell’università europea di Roma; Manuel Cordero Arjona, spagnolo, il legale della Congregazione; e due messicani, Victor De Luna De Santiago, responsabile economico, e Oscar Kuri Nader, direttore per il Nord Italia. I tre Legionari stranieri compaiono anche nei Pandora Papers, le carte riservate delle società offshore, analizzate da L’Espresso insieme a giornalisti americani, spagnoli e messicani. Già nel 2013 De Luna e padre Nader, che vivono nel quartier generale della Legione di Cristo, il palazzo di via Aurelia 677 a Roma, entrano come amministratori in una offshore di Hong Kong, la New Gate Foundation HK. E a fine giugno ne siglano un bilancio assurdo, senza cifre. A fine luglio invece è Cordero, tramite un’altra società estera, Education Developers Inc, a versare 2,4 milioni di dollari, a titolo di rimborso di un prestito decennale, a un trust offshore di Luis Garza Medina, messicano: un fedelissimo di padre Maciel, il fondatore dei Legionari. Medina è stato il vicario generale della Legione fino al luglio 2011, quando il Vaticano lo ha silurato. Anche gli altri tre imputati erano molto vicini a Maciel. Nel 2017 L’Espresso, con l’inchiesta chiamata Paradise Papers, aveva rivelato che i Legionari, fin dagli anni ’90, utilizzavano società delle Bermuda come tesorerie anonime per gestire centinaia di milioni: le rette pagate da migliaia di studenti delle loro scuole e collegi. Allora la Congregazione replicò che da tempo non usava più offshore. Come dire che erano problemi del passato, dei tempi del fondatore. I Pandora Papers ora mettono in dubbio la versione ufficiale. La Legione viene commissariata il 9 luglio 2010, quando Papa Benedetto XVI incarica monsignor Velasio De Paolis, poi nominato cardinale, di fare pulizia. Appena tre giorni prima, come emerge ora, Garza Medina ha costituito la prima cassaforte offshore in Nuova Zelanda, chiamata Retirement and Medicable Charitable Trust. Che alimenta anche conti svizzeri. Ed è legata ad altri trust, intestati a familiari di Medina, creati nel 2011, durante il commissariamento. Alcuni sono tuttora attivi. Gestiscono patrimoni per almeno 300 milioni. Investiti nell’acquisto di immobili nei quartieri più poveri della periferia di Miami, in Florida, e di altre città americane. Dove il consorzio Icij ha scoperto che centinaia di famiglie sono state sfrattate l’anno scorso, nonostante l’emergenza pandemia, dai misteriosi proprietari schermati dalle offshore, per poter ristrutturare e rivendere a caro prezzo le loro case. Alla domanda se questi investimenti siano stati comunicati alla Chiesa di Papa Francesco, i Legionari hanno risposto che «gli istituti religiosi non hanno un obbligo di fornire informazioni dettagliate al Vaticano sulle loro decisioni interne in materia finanziaria». Aggiungendo che solo uno dei trust, quello intitolato a opere di carità, è controllato dalla Congregazione. E confermando che gli altri appartengono a familiari dell’ex tesoriere Medina. A Milano intanto, nel processo per gli abusi da insabbiare con i soldi, si scopre che padre Vladimir, il rettore denunciato del seminario, è stato condannato in via definitiva a più di sei anni di carcere, nel 2020, ma è scappato in Sudamerica. Dalle email sequestrate emerge perfino un tentativo di coinvolgere l’allora vicario della diocesi di Milano, Mario Delpini, poi diventato arcivescovo. A incontrarlo, il 30 settembre 2013, è Gallizia, il Legionario italiano. Chiede l’approvazione della Chiesa per trattare con i genitori della vittima. Monsignor Delpini lo gela così: «Pensateci bene a fare un accordo con la famiglia, potrebbe essere usato come una prova di colpevolezza della Congregazione». Neanche un mese dopo, il 18 ottobre, la signora Yolanda si vede proporre, nella chiesa di Sant’Eustorgio a Milano, la prima scrittura privata per comprare il suo silenzio. Lei rifiuta. E dopo la seconda offerta, reagisce. Alle 08,21 del 9 gennaio 2014 chiama al telefono, intercettato dalla polizia, il cardinale De Paolis. Lui capisce che le hanno offerto denaro e commenta: «Questo è quello che si dà in Italia… Non firmi il patto, non firmi niente». Poi aggiunge: «Gli avvocati complicano le cose, anche le Sacre Scritture dicono che tra cristiani dovremmo trovare un’intesa». Yolanda esplode: «Non è un buon accordo consentire una menzogna». De Paolis è stupefatto: «No, no. Sono sorpreso da quello che hanno scritto questi avvocati… Lei ha chiesto aiuto perché ha avuto delle spese». Yolanda: «Il mio legale sostiene che ci deve essere un risarcimento, ma senza approvare clausole che non sono vere e sono pure criminali». Il giorno dopo, alle 21.19, viene intercettato padre Nader mentre parla con un legale. La linea è chiara: «In ogni caso, qualunque cosa dobbiamo firmare, la Congregazione deve essere tenuta fuori». La signora Yolanda è delusa e oggi dice all’Espresso: «Il cardinale non ha alzato un dito per aiutarci. Non è venuto incontro alle vittime. Mi sono sentita tradita. Sono cristiana, ma non sono più cattolica. Ora non vado più a messa, come mio marito». L’avvocata della famiglia, Daniela Cultrera, attacca i Legionari: «Il negoziato per comperare il silenzio delle vittime non è mai stato autorizzato dal cardinale De Paolis. E il modo in cui la Congregazione ha cercato di insabbiare lo scandalo non è un caso isolato». Chissà se qualcuno, a Milano o in Vaticano, ora indagherà sui trust offshore dei Legionari. E sulla provenienza dei tanti soldi offerti in questi anni in mezzo mondo, si spera con transazioni lecite, per zittire le vittime. Questa inchiesta è stata realizzata da Leo Sisti, Paolo Biondani, Vittorio Malagutti (L’Espresso), Spencer Woodman (Icij), Andrea Cardenas (Quinto Elemento Lab), Mathieu Tourliere (Proceso), Georgina Zerega (El Pais)
L’impero offshore del neofascista Delfo Zorzi gestito dall’avvocato svizzero di Licio Gelli. L’ex terrorista nero controlla segretamente decine di aziende, catene di negozi e proprietà dall’Italia alla Svezia, Francia, Svizzera e Giappone. Al vertice c’è il Thor Trust, amministrato da un famoso legale elvetico, condannato per il crack della Parmalat. Un telefonino anonimo usato durante la latitanza per comunicare con un leader di Forza Nuova. Paolo Biondani, Leo Sisti e Scilla Alecci (Icij) su L'Espresso il 21 ottobre 2021. Si chiama Thor Trust. È una tesoreria anonima, intitolata al dio guerriero della mitologia vichinga, con base a Panama. Custodisce le azioni di una ragnatela di società offshore, che controllano catene di negozi di abbigliamento, aziende di prodotti in pelle, imprese di import-export della moda italiana, stabilimenti e proprietà immobiliari, da Milano a Venezia, dalla Svezia al Giappone, dalla Svizzera alla Francia. I Pandora Papers ora ne svelano il titolare: Delfo Zorzi, ex terrorista dell’organizzazione nazifascista Ordine Nuovo, emigrato negli anni ’70 a Tokyo, dove è diventato milionario, ha sposato una ricca ereditiera e ha acquisito la cittadinanza nipponica con il nuovo nome di Hagen Roi.
Le offshore dell’ex terrorista nero sono gestite dai professionisti svizzeri della Fidinam, la più importante compagnia fiduciaria del Canton Ticino. I documenti riservati ottenuti dal consorzio giornalistico Icij e in Italia dall’Espresso indicano come «protector» del Thor Trust (cioè unico rappresentante dell’anonimo proprietario, con l’incarico di controllare e indirizzare gli amministratori fiduciari) uno dei più importanti avvocati elvetici: Gian Giorgio Spiess, uno dei fondatori della Fidinam, famoso in Italia soprattutto perché è stato lo storico legale svizzero di Licio Gelli. Il capo della P2 lo scelse come difensore di fiducia ai tempi d’oro della loggia massonica segreta e poi negli anni più difficili delle indagini sul crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e sulla strage di Bologna. In Svizzera, dove nascondeva centinaia di milioni, Gelli aveva bisogno di un avvocato di prestigio, con un’influenza anche politica: Spiess a Lugano ha fatto parte dell’assemblea legislativa e dell’esecutivo e ha rivestito cariche di rilievo in società e fondazioni. Ha guidato per molti anni anche il calcio europeo come membro, fino al 2018, del comitato esecutivo della Uefa. Il Thor Trust è al vertice di una piramide di offshore che controllano aziende e proprietà in Europa e in Estremo Oriente. A gestire tutta la costellazione di società anonime è proprio la Fidinam, che lavora per Delfo Zorzi almeno dal 2001. I primi documenti che emergono dai Pandora Papers riguardano la Vega Limited, una offshore dell’Isola di Man con sede operativa a Lugano. Le date sono inquietanti. Delfo Zorzi era stato incriminato a Milano nell’ultima indagine sulla strage di piazza Fontana e dal 1997 era un ricercato, con mandato di cattura internazionale. Il 30 giugno 2001 è stato condannato in primo grado all’ergastolo. In Svizzera la Fidinam ha iniziato a gestire la sua offshore due mesi dopo, nell’agosto 2001. Ma lo ha registrato come cittadino giapponese, con il nome di Hagen Roi. Per sbrigare le pratiche legali del Thor Trust e delle altre società collegate, la fiduciaria svizzera si è rivolta allo studio Alcogal di Panama, una delle 14 fabbriche internazionali di offshore che sono al centro dei Pandora Papers. Nelle carte trasmesse a Panama non viene mai citato il nome italiano del cliente e non si trova alcun riferimento alla strage di 17 innocenti a Milano, che segnò l’inizio del terrorismo politico in Italia. Come titolare effettivo della Vega viene infatti registrato il ricco cittadino giapponese Hagen Roi, senza precisare che si tratta della seconda identità del terrorista nazifascista allora latitante. In Italia Delfo Zorzi è stato poi assolto in appello, nel 2004, per insufficienza di prove e nel 2005 la Cassazione ha confermato la sua innocenza. Il suo ex capo, Carlo Maria Maggi, leader dell’organizzazione nazifascista Ordine Nuovo nel Triveneto, è stato poi condannato in via definitiva come organizzatore della strage di Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) insieme a un collaboratore del Sid, il servizio segreto militare allora dominato dalla P2, che era ancora segreta. La Vega Limited e altre società estere, lussemburghesi e portoghesi, gestite da una factotum italiana di Zorzi, furono svelate per la prima volta nel 2005 da un’inchiesta giornalistica dell’Espresso firmata da Alessandro Gilioli. Già quegli articoli indicavano l’ex terrorista nero come il vero proprietario, dietro lo schermo di quelle sigle anonime, di alcune aziende italiane di abbigliamento, tra cui la catena Oxus, che tra l’altro aveva un negozio, concesso in affitto a prezzo molto basso dal Comune di Milano, nella prestigiosa Galleria di fronte al Duomo. Quel favore immobiliare al nazifascista diventato milionario scatenò polemiche e proteste contro la giunta di centrodestra che allora governava Milano. Ora i Pandora Papers confermano quelle informazioni e allargano il quadro, facendo luce sulla catena di controllo di decine di società estere che fanno capo a Delfo Zorzi. In cima c’è il Thor Trust, che è attivo da molti anni e risulta ancora operativo nel 2017, quando si fermano i documenti disponibili. Almeno a partire dal 2009, questo fondo offshore funziona come tesoreria centrale dell’impero economico di Zorzi. Il trust, in particolare, custodisce le azioni di almeno sei offshore, tra cui la Vega Limited. Questa ha operato tra l’Europa e l’Estremo Oriente, quantomeno dal 2001 al 2015, nell’import-export di vestiti e prodotti in pelle. Un’altra offshore, attiva almeno fino al 2016, si chiama Cachak Comercio e Marketing, è collocata nel paradiso fiscale di Madeira e ha un ruolo di holding: controlla altre società operative, comprese alcune aziende italiane del settore dell’abbigliamento che hanno stabilimenti e magazzini tra Milano e Mestre, la città d’origine di Zorzi. Un’altra cassaforte finanziaria del gruppo, Meadcraft Holdings Ltd, ha sede a Cipro: dagli atti risulta che ha prestato 3,2 milioni di euro alla Vega Limited, ma nel 2006 il debito è stato condonato. Zorzi ha una società anonima anche a Panama, chiamata Tormes Trading Inc: è nata nel 2002 ed è stata gestita per anni da Daniela Parmigiani, la factotum in Italia di Zorzi, che negli ultimi tempi sembra però aver rotto i rapporti con lei. Zorzi ha usato invece una offshore dell’Isola di Man, chiamata Raven Limited, per comprare una proprietà immobiliare in Giappone, non meglio precisata. La stessa Raven, nel 2006, ha acquistato da una ditta olandese una quota di una società di prodotti d’abbigliamento con il marchio Hobbit, con una decina di filiali in Francia. Nel 2008 la offshore controllata segretamente da Zorzi ha rivenduto quelle azioni per 850 mila euro all’azienda francese Vob, che ha sede a Marsiglia. Nel mondo dell’estrema destra questo nome, tratto dai romanzi di Tolkien, richiama i «campi Hobbit», i raduni dei giovani neofascisti organizzati a partire dagli anni ’70. Alle offshore di Zorzi inoltre fanno capo, attraverso la società anonima lussemburghese Tall International, altre società italiane di abbigliamento, come la Fin Fashion, che ha sede in provincia di Venezia ed è tuttora operativa, e il Gruppo Italiano Pelle (Grup). In Svezia ha fatto scalpore la scoperta che è sempre Zorzi-Hagen a controllare segretamente, tramite la stessa catena societaria, il gruppo Mullbeck, che importa e rivende borse e vestiti dei più celebri marchi della moda italiana, in una serie di magazzini e negozi di lusso tra Stoccolma e Goteborg. La televisione svedese Svt, che fa parte del consorzio Icij, ha dedicato al caso un programma d’inchiesta in prima serata, spiegando come il nazifascista italiano, attraverso le società anonime ora smascherate dai Pandora Papers, è riuscito a infiltrarsi nel tessuto economico della nazione che è stata la culla della socialdemocrazia. Come rappresentante della proprietà, nei registi pubblici svedesi compare il nome di una signora del Montenegro. Contattata al telefono, la donna dice che bisogna rivolgersi all’avvocato della Mullbeck, che però non risponde alle chiamate e alle email inviate dalla tv svedese e dal consorzio Icij. La rete di offshore di Delfo Zorzi è servita anche a tenere i rapporti con altri ex terroristi di destra latitanti all’estero. Nell’estate del 1997, in particolare, la polizia di Milano ha intercettato un telefonino svizzero intestato alla Vega Limited, scoprendo che veniva utilizzato da Zorzi, mentre era ricercato, per trasmettere ordini e comunicazioni riservate. Nel tentativo (fallito) di sfuggire ai controlli della Digos, il latitante aveva organizzato una triangolazione di telefonate: lui chiamava dal Giappone il cellulare svizzero, a rispondere era un suo dipendente italiano che trasmetteva i messaggi ai destinatari. Tutto con nomi in codice: Zorzi veniva chiamato Gm, che sta per General manager, il suo portavoce Dottor C. Quelle intercettazioni giudiziarie documentano che Zorzi, anche mentre era ricercato per la strage di Piazza Fontana, continuava ad avere rapporti strettissimi con alcuni neonazisti romani. E con un capo storico dell’eversione nera, che allora era latitante a Londra: Massimo Morsello, condannato per terrorismo e banda armata insieme a Roberto Fiore, con cui nello stesso 1997 ha fondato Forza Nuova. Quell’estate la polizia italiana registra, attraverso il cellulare della Vega, continui colloqui a distanza con Morsello, con punte di 17 chiamate al mese. Riassumendo i risultati delle intercettazioni, gli agenti dell’antiterrorismo denunciano l’esistenza di «una struttura ramificata in più Stati: una Internazionale Nera che finanzia gruppi europei di estrema destra e fornisce supporto logistico per la latitanza all’estero di terroristi neofascisti italiani». Nei lontani anni di piombo, Fiore e Morsello erano i leader romani di Terza Posizione, l’organizzazione nazifascista da cui è nato il gruppo stragista dei Nar. Sfuggiti all’arresto, i due terroristi di destra hanno trascorso insieme quasi vent’anni di latitanza a Londra, dove sono diventati milionari affittando alloggi e posti letto per studenti con la loro impresa Meeting Point, poi ribattezzata Easy London. Fiore e Morsello hanno creato anche una ricca rete di trust. Rimasti liberi, sono riusciti a far cadere in prescrizione le loro condanne definitive e alla fine degli anni ’90 sono rientrati in Italia, accolti come leader da centinaia di neofascisti. Morsello è morto nel 2001, mentre Fiore ha continuato a fare politica ed è tuttora il leader del movimento neofascista, che da qualche mese cavalca le proteste contro i vaccini e nei giorni scorsi ha scatenato la giornata di devastazioni e violenze squadriste a Roma. Per la strage di Piazza Fontana, Delfo Zorzi è stato assolto in appello con un verdetto approvato in via definitiva dai giudici della Cassazione su richiesta della Procura generale. La stessa sentenza che lo ha scagionato, però, conferma che Zorzi è stato un terrorista di Ordine Nuovo e ha sicuramente commesso altri due attentati, senza vittime. La Corte d’assise d’appello, in particolare, spiega che Zorzi ha collocato personalmente una bomba con 5,7 chili di esplosivo, nella notte del 4 ottobre 1969, sotto le finestre di una scuola elementare di Trieste, frequentata dai bambini della minoranza slovena. Un mese dopo, il 6 novembre, sempre Zorzi ha piazzato un ordigno esplosivo con le stesse caratteristiche a Gorizia, vicino al cippo di confine tra l’Italia e la Jugoslavia di Tito. Entrambe le bombe non sono scoppiate perché il timer era difettoso. Ai due attentati hanno partecipato, insieme a Zorzi, altri tre neofascisti, che molti anni dopo hanno confessato tutto. Le definitive sentenze giudiziarie chiariscono che i due ordigni erano programmati per esplodere di notte: l’obiettivo non era uccidere, ma terrorizzare le famiglie slovene che vivono in Italia. Quindi entrambi gli attentati, senza vittime, sono finiti in prescrizione ancora prima che iniziasse l’ultimo processo per Piazza Fontana. Dove poi è caduta anche l’ipotesi di un collegamento con la strage di Milano: per i due attentati contro gli sloveni, Zorzi e i suoi camerati hanno usato candelotti di gelignite, una sostanza dinamitarda di tipo comune, di produzione industriale; mentre per l’eccidio del 12 dicembre 1969, come attestano tutte le perizie, gli stragisti hanno utilizzato un mix di due esplosivi molto più potenti, di provenienza militare. Anche la sentenza definitiva della Cassazione, che ha assolto Zorzi, conferma però che la strage di piazza Fontana va attribuita al gruppo veneto di Ordine Nuovo. E Delfo Zorzi, che seppe tutto a cose fatte e ne parlò ai suoi fedelissimi poche settimane dopo, è uno dei pochissimi che conoscono la verità sulla strage di Milano, la madre di tutte le bombe nere. Nel curriculum giudiziario di Zorzi, oggi, compare solo una vecchia condanna definitiva dopo un arresto nel 1968 per possesso di armi ed esplosivi. In questo quadro, il ruolo della Fidinam solleva interrogativi pesanti. La spiegazione più semplice è soltanto economica: i fiduciari svizzeri accettano clienti di ogni tipo, il consorzio Icij ha contato ad esempio 13 arrestati della Tangentopoli brasiliana, basta che siano ricchi e paghino la parcella. La presenza di Spiess personalmente al vertice dell’impero offshore di Zorzi, però, fa pensare a legami più profondi. Il potente avvocato e politico svizzero aveva difeso Licio Gelli negli anni più neri, segnati dall’omicidio di Roberto Calvi a Londra, le indagini milanesi sul crack criminale dell’Ambrosiano, la scoperta della P2, il primo arresto del capo della massoneria segreta in Svizzera, il sequestro dei suoi conti esteri con oltre 300 milioni rubati alla banca fallita, la clamorosa fuga in elicottero dal carcere di Ginevra, l’insabbiamento a Roma delle inchieste sulla loggia, fino alla cattura e all’estradizione in Italia. Dove Gelli è stato incriminato e condannato, con la sua cordata di ufficiali piduisti dei servizi segreti, anche come burattinaio dei più gravi depistaggi delle indagini sulla strage di Bologna, un altro massacro eseguito da terroristi nazifascisti. Il ruolo cruciale di Spiess nelle strategie difensive per salvare Gelli è descritto anche nelle sentenze milanesi sul Conto Protezione, uno dei capitoli più importanti del libro nero di Tangentopoli. Il nome di Spiess si collega però anche a un’altra bancarotta italiana di portata storica: il crack della Parmalat. Nel dicembre 2003, quando il fallimento del colosso del latte italiano rovinò migliaia di risparmiatori, l’ex patron Calisto Tanzi giurò di non aver rubato nulla e di non avere mai avuto alcun conto estero. A Milano però i pubblici ministeri Francesco Greco ed Eugenio Fusco scoprirono che Tanzi mentiva: aveva nascosto in Svizzera almeno 20 milioni di euro, su conti esteri personali, schermati attraverso società anonime intestate proprio a Spiess. Incriminato a Parma per complicità nella bancarotta, l’avvocato elvetico ha ammesso di aver svolto il ruolo di fiduciario per Tanzi, cioè di prestanome di lusso, e ha patteggiato una condanna a due anni e due mesi, con la condizionale, evitando il carcere. Al processo è emerso tra l’altro che i soldi trafugati dalle casse della Parmalat venivano riportati di nascosto in Italia, in valigie piene di contanti, da corrieri di valuta reclutati dalla Fidinam. Dopo il crack della Parmalat, nel 2004 Spiess è uscito dal consiglio di amministrazione della holding al vertice del gruppo elvetico, ma è rimasto fino al 2011 nel direttivo di una controllata, Fidinam Partecipazioni. E nonostante la condanna italiana, si è rimesso a fare il fiduciario per un personaggio come Delfo Zorzi, assumendo la carica di protector del suo trust quantomeno dal 2008 al 2012, gli anni a cui si riferiscono i documenti disponibili. L’intreccio fa venire il dubbio che avesse ragione l’allora procuratore di Parma, Vito Zincani (che come giudice istruttore aveva smascherato la trame esplosive tra terroristi neri e P2 per la strage di Bologna), a dirsi allarmato nello scoprire tanti personaggi vicini a Gelli anche nel crack da 15 miliardi di euro della Parmalat. Interpellata più volte dal consorzio Icij con domande molto dettagliate, la Fidinam ha fornito solo una breve risposta generale: «La nostra società rispetta e ha sempre applicato con diligenza tutte le leggi valide in Svizzera e le norme applicabili a livello internazionale». Sulle offshore di Zorzi, la Fidinam non ha fornito alcuna spiegazione, appellandosi alla «privacy» e al «segreto professionale sui rapporti con i clienti». L’Espresso, Icij e la tv svedese hanno inviato già in settembre numerose domande anche a Delfo Zorzi, per sapere tra l’altro perché abbia scelto di fare affari attraverso anonime società offshore, chi lo abbia presentato alla Fidinam, come mai abbia affidato il suo trust all’avvocato Spiess. Gli è stato chiesto anche come commenta le sentenze definitive sugli attentati contro gli sloveni e la condanna di Maggi per la strage di Brescia. Da Zorzi-Hagen, nessuna risposta.
Pandora Papers, ecco i soldi ai Caraibi del consulente del Vaticano Enrico Crasso. Il finanziere sotto processo per lo scandalo che ha travolto il cardinale Becciu controlla tre società nelle British Virgin Islands. E a Miami ha comprato due case di lusso. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Leo Sisti su L’Espresso il 5 Ottobre 2021. Nel gigantesco intrigo finanziario che va quest’oggi a processo in Vaticano, tra alti prelati, presunti falsari e consulenti d’alto bordo, c’è un filo rosso che porta a Miami, in un lussuoso appartamento della South Tower of Porto Vita, residenza esclusiva nel cuore del quartiere di Aventura. Enrico Crasso era solito trascorrere lunghi periodi in questo buen retiro per giocare a golf e rilassarsi. Quest’anno, però, niente vacanze americane. Crasso ha venduto la sua casa in Florida per 1,3 milioni di dollari (1,1 milioni di euro) nel febbraio scorso, poco prima di essere travolto dalla valanga giudiziaria che lo ha portato sul banco degli imputati insieme al cardinale Angelo Becciu, ex sostituto della Segreteria di Stato vaticana, e ad altri presunti complici come i finanzieri Gianluigi Torzi e Raffaele Mincione, tutti accusati di aver depredato le finanze della Santa Sede. L’appartamento messo in vendita era intestato alla HP Finance, una società di Miami citata nelle carte dell’inchiesta vaticana come uno degli snodi principali dei traffici illeciti di Crasso, che per oltre vent’anni, prima come manager del Credit Suisse e poi in proprio, ha gestito decine di milioni di euro su incarico, a partire dal 2012, del cardinale Becciu. Secondo la ricostruzione dei magistrati, una parte di quei soldi veniva sistematicamente dirottata nei conti bancari del consulente, ora chiamato a rispondere, tra l’altro, di peculato, estorsione, truffa e riciclaggio. Adesso, grazie alle carte dei Pandora Papers, è possibile seguire le tracce del denaro fino al paradiso fiscale delle British Virgin Island (BVI), nei Caraibi. Il nome di Crasso, infatti, ricorre più volte nell’immenso archivio di società offshore, oltre 11,9 milioni di documenti, svelato dall’Icij (International consortium of investigative journalism) e pubblicato da L’Espresso in esclusiva per l’Italia. Sono tre gli schermi offshore delle Bvi che hanno per azionista e beneficiario economico l’ex consulente del Vaticano. Si chiamano Dexiafin group, Dexia structures re e Dexie Miami. Quest’ultima nel 2007 aveva acquistato un altro appartamento in un condominio di lusso a Miami, il Grovenor House nel quartiere di Coconut Grove. La casa, pagata 2,2 milioni di dollari (circa 1,9 milioni di euro) è poi stata rivenduta nel 2018 al prezzo di 2,7 milioni di dollari (2,3 milioni di euro). Nell’atto depositato nel registro pubblico della Florida troviamo come compratore Miguel Angel Larach, un milionario dell’Honduras che l’anno successivo si è visto sequestrare su richiesta dei creditori gran parte del suo impero economico. Sempre a Miami, nella locale filiale del grande istituto di credito svizzero Ubs, Crasso aveva aperto un conto intestato alla Dexiafin structures re, un’altra società delle Bvi che compare nei Pandora Papers. Secondo le carte dell’accusa, questa sponda bancaria sarebbe servita per muovere buona parte dei 7 milioni di euro al centro di una manovra truffaldina. In sostanza, la Segreteria di Stato ha sottoscritto titoli strutturati (credit link notes) legati a obbligazioni della Dexiafin Municipal Agency, ma l’investimento sarebbe stato deciso sulla base di documentazione falsa. I soldi in teoria destinati ad acquistare i bond sono invece approdati all’Ubs di Miami sul conto della Dexiafin structures re. Chiamato in causa dagli inquirenti vaticani, Crasso ha dapprima respinto questa ricostruzione per poi ammettere, nell’interrogatorio del 9 dicembre dell’anno scorso, che il «documento era stato effettivamente predisposto» da lui. Il gioco di sponda via British Virgin Islands è solo una delle numerose complesse operazioni di cui il consulente per quasi trent’anni di casa in Vaticano è ora chiamato a rispondere in Tribunale. È stato Crasso, nel 2013 a introdurre in Vaticano Raffaele Mincione, il finanziere con base a Londra destinato di lì a poco a diventare, come viene definito dagli inquirenti, “l’indiscusso dominus delle politiche d’investimento della Segreteria di Stato”, suggeritore e principale beneficiario del fallimentare investimento nel palazzo londinese di Sloane Avenue, pagato 200 milioni di dollari. Nel frattempo, lasciato il Credit Suisse nel 2014, Crasso si è messo in proprio con sua fiduciaria personale a Lugano, la Sogenel e poi, dal 2016, è arrivato a gestire oltre 70 milioni di fondi del Vaticano con un fondo d’investimento di Malta, il Centurion. Denaro che è stato impiegato nelle iniziative più disparate, comprese alcune che potevano risultare imbarazzanti per la Santa Sede come il film hollywoodiano Rocketman, sulla vita del cantante Elton John. La lista delle operazioni sospette comprende anche l’acquisto di 7 milioni di obbligazioni della già citata Hp finance di Miami. Nel 2016 Crasso propose questo investimento alla Segreteria di Stato, senza rivelare, però, di essere il proprietario della società che avrebbe incassato quei soldi. Un’altra accusa, l’ennesima, per il finanziere che, contattato dall’Icij, si dichiara innocente ma ormai rassegnato alla condanna. «È un verdetto già scritto», dice. «Il Papa detta legge e tutti obbediscono».
(ANSA il 5 ottobre 2021) - Un paradiso fiscale da 367 miliardi di dollari con società di comodo collegate in molti casi a individui o imprese accusate all'estero di agire illegalmente, anche sul fronte del riciclaggio di Non si tratta della Svizzera di Panama o delle Isole Cayman, ma dello stato Usa del South Dakota, nuova frontiera per i professionisti dell'evasione e dell'elusione fiscale. E' quanto emerge dalle carte dall'inchiesta condotta dal Consorzio dei giornalisti investigativi, quella sui cosiddetti Pandora Papers. Documenti che gettano luce sull'ascesa dello stato del Midwest dove solo nel 2011 il settore delle società fiduciarie contava un giro di affari di appena 75,5 miliardi di dollari. Ma grazie all'aggressiva politica fiscale messa in campo per attrarre capitali esteri il South Dakota negli ultimi dieci anni è diventata la meta preferita dei furbetti del fisco, con oltre 200 società di comodo che fanno da scudo a miliardi di dollari. Così vi hanno trovato riparo un magnate colombiano o la famiglia dell'ex vicepresidente della Repubblica Dominicana Carlos Morales. Un caso che imbarazza l'amministrazione Biden, anche perchè non c'è solo il South Dakota, ma (seppure in misura minore) la Florida, il Delaware, il Texas e altri stati Usa.
Pandora Papers, Guillermo Lasso Mendoza presidente dell’Ecuador. Quattordici società offshore. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Guillermo Lasso Mendoza è presidente dell’Ecuador dall’aprile scorso. Ex banchiere, è entrato in politica nel 2012 fondando un partito di centrodestra chiamato Creo (Creare opportunità). Fa parte di una ricca famiglia che controlla il Banco Guayaquil, da lui diretto per quasi vent’anni. A partire dal 1998 ha ricoperto rilevanti cariche pubbliche: governatore della provincia di Guayas, ministro dell’Economia, ambasciatore. Nel 2011, quando si è candidato per la prima volta alla presidenza, ha conferito a un trust (chiamato GLM dalle sue iniziali) il proprio 40 per cento delle azioni della banca di famiglia, che ha come altri soci di maggioranza due suoi fratelli. Nel 2021 ha vinto le elezioni al ballottaggio, con l’appoggio di tutto il fronte conservatore, superando a sorpresa il candidato progressista che era in testa al primo turno. I Pandora Papers ora collegano il presidente dell’Ecuador a 14 società offshore, con sede a Panama e alle Isole Vergini Britanniche. L’intera catena di società anonime, finora sconosciute, ha fatto capo per molti anni a due fondazioni private panamensi, intitolate a celebri italiani, Bernini e Barberini, che erano gestite da fiduciari dello studio Aleman, Cordero, Galindo & Lee (Alcogal) di Panama City. Nel 2017 Guillermo Lasso ha firmato personalmente l’atto di trasferimento delle offshore in due nuove strutture fiduciarie di controllo, Bretten Trust e Liberty US Trust, costituite nel Sud Dakota, uno Stato americano che in questi anni è diventato un vero paradiso fiscale e societario. Altri documenti finora rimasti riservati mostrano che anche due fratelli del presidente, Eugenia e Carlos, controllano altre reti di trust e società offshore.
Pandora Papers, Sebastian Pinera presidente del Cile. Società offshore e miniere. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Sebastian Pinera è il presidente del Cile dal 2018. Ricco imprenditore e leader politico della destra liberista, negli anni ‘70 aveva fondato Bancard, una nota compagnia di carte di credito, che gli ha fruttato una fortuna personale stimata in 2,8 miliardi di dollari. Entrato in politica, negli anni ‘90 è diventato senatore e nel 2010 è stato eletto per la prima volta presidente. Nel 2017 l’agenzia di stampa cilena Ciper ha pubblicato le prime indiscrezioni su due società offshore costituite da Pinera e poi cedute ai figli. Nel 2018, quando si è ricandidato alla presidenza, Pinera ha promesso di conferire tutte le ricchezze della sua famiglia in un blind trust, cedendone ad altri la gestione. Ma non ha fatto menzione delle società offshore. I Pandora Papers documentano che Pinera e i suoi familiari hanno gestito affari per centinaia di milioni di dollari tramite società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche, dove non esistono tasse sui redditi personali né sui profitti aziendali. In particolare, Pinera e la sua famiglia, nel dicembre 2010, hanno utilizzato una di queste offshore per vendere il 33,3 di una compagnia mineraria cilena, per 140 milioni di dollari, a un amico imprenditore, a sua volta schermato da un’altra società delle Isole Vergini. I documenti rivelano che il saldo dell’ultima rata del prezzo, pari a 9,9 milioni, era condizionata alla mancata istituzione di una riserva naturale nella zona della miniera. Diventato presidente, nel 2011, Pinera non ha istituito l’area di protezione, che veniva invece richiesta dai movimenti ambientalisti. Finora si ignorava questa clausola riservata dell’accordo tra società offshore che ha coinvolto la famiglia del presidente cileno. Nel 2018, pochi giorni prima che Pinera iniziasse il suo secondo mandato presidenziale, un’altra offshore delle Isole Vergini Britanniche è stata sciolta, con conseguente liquidazione di beni per 3,4 milioni di dollari a favore di un’impresa cilena, di cui sono azionisti i quattro figli di Pinera. Le società offshore controllate da Pinera e dai suoi familiari sono state costituite tra il 1997 e il 2000, hanno operato segretamente per circa 20 anni e sono state chiuse nel 2018, poco dopo le prime fughe di notizie sulla stampa cilena.
Pandora Papers, Paolo Guedes ministro dell’Economia del Brasile. Società offshore nelle nelle Isole Vergini Britanniche. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Paulo Guedes è il ministro dell’Economia brasiliano dal 2019, nominato dal presidente in carica Jair Bolsonaro. Laureato in Economia a Chicago alla scuola ultra-liberista di Milton Friedman, è stato co-fondatore della banca d’affari Btg Pactual. Negli ultimi anni, quando le indagini sulla corruzione hanno travolto il sistema politico brasiliano, è diventato uno dei più importanti consiglieri elettorali di Bolsonaro, il candidato populista che ha riportato l’estrema destra alla presidenza del Brasile. I Pandora Papers rivelano che Paulo Guedes è azionista e amministratore di una società offshore, Dreadnoughts Internatinal Group, creata nel 2014 nelle Isole Vergini Britanniche. La sua offshore è gestita da fiduciari della società Trident Trust. Finora la notizia che il ministro dell’economia brasiliano ha una società offshore in un paradiso fiscale non era mai emersa pubblicamente. Guedes ha risposto alle domande del consorzio Icij, attraverso un portavoce, affermando di aver dichiarato al fisco brasiliano la proprietà di quella offshore. E ha aggiunto di essersi ritirato dall’attività privata di investimento quando è entrato in carica, rispettando così le leggi brasiliane contro i conflitti d’interessi. I Pandora Papers documentano che Paulo Guedes ha inserito come azionista della Dreadnoughts International Group anche sua figlia, che nel 2014 ha partecipato alla costituzione della offshore, in qualità di secondo amministratore. Dal 2015 ne è diventata azionista anche la moglie dell’attuale ministro. La società offshore risulta ancora attiva nell’agosto 2021.
Pandora Papers, Lalla Hasnaa principessa del Marocco. Offshore e una residenza a Londra da 11 milioni di dollari. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. La principessa Lalla Hasnaa è la sorella più giovane del re del Marocco, Mohammed VI, al potere dal 1999. Al sovrano viene accreditata una fortuna personale di 5,7 miliardi di dollari, che ne fa il monarca più ricco dell’Africa. Possiede miniere, industrie alimentari, banche. La principessa, come imprenditrice, controlla società immobiliari e fondi d’investimento in Marocco, ma è nota soprattutto come presidente della Fondazione Mohammed VI per la protezione ambientale, con cui ha partecipato a vari eventi internazionali insieme a leader politici di tutto il mondo. I Pandora Papers mostrano che la principessa Lalla Hasnaa possiede una società offshore alle Isole Vergini Britanniche, chiamata Oumaila Ltd. È stata costituita nel 2002 e poco dopo ha comprato una residenza di lusso a Londra, vicino a Kensington Palace, con cinque camere da letto, valutata 11 milioni di dollari. Secondo i documenti, la offshore ha pagato il prezzo con fondi provenienti dalla «famiglia reale del Marocco». Negli atti dei gestori fiduciari, tra i dati anagrafici sull’effettiva titolare della società (e quindi della proprietà di Londra), è registrata anche la sua professione: «Principessa».
Pandora Papers, Volodymyr Zelensky presidente dell’Ucraina. Società anonime per la compravendita di film e show tv. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Volodymyr Zelensky è presidente dell’Ucraina dal maggio 2019. Ex attore comico, è entrato in politica sfruttando il successo di un programma televisivo, in cui recitava il ruolo di presidente, e ha fondato un partito con lo stesso nome dello show, «Servitore del popolo». Ha vinto le elezioni dell’aprile 2019 promettendo di stroncare la corruzione che affligge da decenni il paese, dilaniato e impoverito dalla guerra civile che ha portato all’annessione russa della Crimea. I Pandora Papers documentano che Zelensky, fino al marzo 2019, è stato azionista di una società anonima con sede nelle Isole Vergini Britanniche, denominata Maltex Multicapital Corp, che ha come oggetto sociale l’acquisto di quote di aziende di produzione e distribuzione di film e programmi televisivi. Un mese prima delle elezioni, Zelensky ha ceduto le sue azioni a un amico fidato, Sergiy Shefir, che è poi diventato uno dei più importanti consiglieri pubblici del presidente ucraino.
Zelensky e Shefir avevano fatto affari insieme, nello stesso settore delle produzioni di film, prima di entrare in politica. Un documento del 25 giugno 2019 mostra che Shefir ha mantenuto la proprietà delle azioni della società offshore Maltex Multicapital Corp anche dopo aver ottenuto la sua attuale carica pubblica di primo consigliere dell’amministrazione presidenziale ucraina.
Pandora Papers, Nirupama Rajapaksa ex ministra dello Sri Lanka e cugina del presidente. Società offshore, opere d’arte e casseforti immobiliari. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Nirupama Rajapaksa è stata parlamentare e ministra per l’acqua dal 2010 al 2015 ed è cugina dell’attuale presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa. Suo marito, Thirukumar Nadesan, imprenditore alberghiero e consulente d’affari, è stato coinvolto nel 2016 in un’indagine giudiziaria, tuttora in corso, insieme a un altro componente della famiglia presidenziale, Basil Rajapaksa, parlamentare e attuale ministro delle Finanze. Indagati per appropriazione indebita di fondi in una discussa operazione immobiliare, entrambi respingono le accuse. L’ex ministra Nirupama Rajapaksa e il marito Nadesan, come documentano i Pandora Papers, sono gli effettivi beneficiari economici di una società offshore, gestita da uno studio fiduciario di Singapore, utilizzata per acquistare residenze di lusso a Londra e a Sydney, in Australia. L’anonima cassaforte immobiliare risulta ancora attiva nel 2019, quando si fermano i documenti disponibili. Nadesan ha utilizzato molti altri trust e società offshore, inoltre, per farsi pagare segretamente ricchissime consulenze da società straniere che hanno fatto affari con il governo dello Sri Lanka. Alcune delle sue offshore hanno poi comprato preziose opere d’arte, esportate all’estero. Nel 2018, in particolare, la Pacific Commodities, controllata segretamente da Nadesan, ha trasferito 31 quadri e altre opere d’arte asiatiche nel porto franco di Ginevra, dove è possibile custodire capolavori della pittura o della scultura in forma anonima, senza essere registrati e senza dichiarare nulla al fisco. In una serie di email confidenziali ricevute dai fiduciari di Asiacity Trust a Singapore, il commercialista di Nadesan ha scritto che il suo patrimonio complessivo ammontava già nel 2011, quando sua moglie era al governo, a oltre 160 milioni di dollari.
Pandora Papers, Nir Barkat ex sindaco di Gerusalemme. Società offshore e piattaforme di trading online. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Nir Barkat è stato sindaco di Gerusalemme dal 2008 al 2018. Dal 2019 è un deputato della Knesset, il parlamento israeliano, dove è uno dei rappresentanti più influenti del partito conservatore Likud. Nel 2021 si è candidato a guidare il partito nel caso di un futuro ritiro dell’ex premier Benjamin Netanyahu, che è indagato per corruzione. Come sindaco di Gerusalemme, Barkat era stato criticato per il suo aperto sostegno ai coloni di estrema destra e ai nuovi insediamenti nei territori palestinesi, considerati illegittimi dalle norme internazionali. Prima di entrare in politica, Barkat aveva fatto fortuna come imprenditore. Nel 1998 è stato uno dei fondatori del gruppo Brm, una società d’investimento in aziende tecnologiche che controlla anche la piattaforma di vendite online eToro. I Pandora Papers rivelano che Nir Barkat è stato azionista di una offshore delle Isole Vergini Britanniche (da lui controllata attraverso altre 3 società) che tra il 2007 e il 2011 ha acquistato il controllo delle filiali di eToro in Israele, Gran Bretagna e Russia. Le azioni sono state vendute da Brm Group. L’operazione offshore sembra quindi aver permesso al politico e imprenditore israeliano di fare affari personali con una sua società.
Pandora Papers, John Dalli ex ministro e commissario europeo. Una società offshore mai dichiarata. L'Espresso e Icj su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. John Dalli è stato più di vent’anni uno dei più influenti politici di Malta. Ha rivestito la carica di ministro dell’economia in tre governi fino al 2004, quando è passato agli esteri. Si è dimesso pochi mesi dopo, per le polemiche nate da uno scoop della stampa maltese: il ministero da lui guidato utilizzava per i viaggi istituzionali un’agenzia turistica collegata alle sue due figlie. Passata la bufera, Dalli è stato nominato ministro per le politiche sociali e nel 2010 è diventato commissario europeo per la sanità. La stessa Commissione europea lo ha però costretto a lasciare la carica nel 2012, quando gli ispettori anti-frode della Ue lo hanno messo sotto inchiesta con l’accusa di aver sfruttato il suo ruolo istituzionale per tentare di far modificare le norme contro il consumo di tabacco e sigarette, su pressione di un uomo d’affari maltese che agiva come lobbysta non dichiarato. Dalli ha respinto ogni accusa e si è anche appellato alla Corte europea di giustizia, senza successo.
Solo nel 2021 le autorità maltesi hanno aperto un’indagine per corruzione a carico di Dalli per lo scandalo del tabacco. L’ex ministro ha di nuovo smentito qualsiasi ipotesi di reato. I Pandora Papers ora documentano che John Dalli, nel 2006, ha costituito una società offshore nelle Isole Vergini Britanniche, chiamata Westmead Overseas Ltd, diventandone l’amministratore. Nel 2008, quando Dalli è tornato ministro, nella gestione della offshore gli sono subentrate le sue due figlie. I documenti disponibili non permettono di ricostruire l’attività economica né i movimenti bancari di questa società, che finora era rimasta anonima. Secondo i registri societari delle Isole Vergini, la Westmead Overseas Ltd è stata chiusa nel 2013, dopo le prime indagini europee sullo scandalo del tabacco. Gli atti ufficiali ottenuti dai giornalisti del consorzio Icij e del Times of Malta mostrano che John Dalli non ha mai dichiarato di possedere quella società offshore, né al parlamento maltese, né alle autorità europee, come invece è richiesto dalle norme nazionali e continentali.
Pandora Papers, Dominique Strauss-Kahn ex direttore Fmi. Consulenze e milioni offshore. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Dominique Strauss-Kahn è stato ministro francese dell’economia e direttore del Fondo monetario internazionale. La sua carriera si è interrotta nel 2011, quando è stato arrestato a New York con l’accusa di molestie sessuali a una cameriera di un hotel. Il procedimento penale è stato archiviato dopo una transazione civile, con versamento di una somma rimasta imprecisata. Quindi si è trasferito in Marocco, dove era vissuto da bambino, e ha avviato un’attività di consulente economico internazionale a favore di società private e amministrazioni statali, soprattutto africane. I Pandora Papers mostrano che Strauss-Kahn ha utilizzato una società registrata in Marocco con statuto offshore, Parnasse International Starlau, per ricevere diversi milioni di dollari per consulenze internazionali. Parcelle pagate da clienti come Rosneft, colosso statale russo del gas e petrolio, e Hna, un gruppo aeronautico cinese. Lo statuto offshore, che garantiva alla società marocchina una quasi totale esenzione dalle tasse, è terminato nel 2018. Lo stesso anno, Strauss-Kahn ha creato un’altra società di consulenze con un nome simile, Parnasse Global Ltd, ma con sede nel paradiso fiscale degli Emirati Arabi Uniti. Secondo lo statuto societario, offre «tecnologie di sicurezza per aziende private».
Pandora Papers: anche vip, cantanti e calciatori con i soldi offshore. Da Ringo a Elton John, dalla top model Claudia Schiffer a Shakira, sono tante le star citate nei documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. L’ha fatto Shakira. E ne hanno approfittato anche Ringo Starr, Claudia Schiffer, Julio Iglesias, la leggenda indiana del cricket Sachin Tendulkar e tanti altri vip. Pandora Papers, l’inchiesta sul sistema finanziario offshore, svela i nomi delle celebrità e dei personaggi pubblici che hanno fondato società in paradisi fiscali, come le Isole Vergini britanniche, per comprare yacht, jet privati, investire nel mercato immobiliare e custodire le ricchezze familiari. Paradisi fiscali, dove le tasse sono molto basse o nulle. E dove affari e identità personali possono rimanere nascosti. Creare aziende offshore è semplice, relativamente poco costoso e in molti casi legale. I documenti esaminati mostrano che è possibile creare società nei paradisi fiscali con poche centinaia di dollari. E arrivare a risparmiare milioni di tasse. Questi risparmi dei privati, però, hanno un costo per il pubblico. Gli economisti dicono che le holding offshore privano i governi di centinaia di miliardi di dollari di entrate fiscali ogni anno. I dodici milioni di documenti riservati ottenuti dal consorzio Icij svelano, tra mille altri segreti, che cosa fanno le celebrità con le loro ricchezze offshore.
Ecco la lista dei vip coinvolti nei Pandora Papers:
Ringo Starr
Claudia Schiffer
Flavio Briatore e Bernie Ecclestone
Shakira
Elton John
Julio Iglesias
Mario Vargas Llosa
Angel Di Maria
Tendilkar
Jackie Shroff
Pandora Papers, Flavio Briatore e Bernie Ecclestone. Società offshore per comprare una squadra inglese. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. Alcune celebrità usano compagnie offshore per compare yacht o jet privati. L'ex patron della Formula Uno, Bernie Ecclestone, e l'imprenditore italiano Flavio Briatore hanno acquistato una squadra di calcio londinese, usando una società registrata nelle Isole Vergini britanniche, chiamata Sarita Capital Investment. Il club in questione è il Queen Park Rangers, comprato nel 2007 per 28,2 milioni di dollari. Al tempo, era indebitato e lontano dalla Premier League da oltre dieci anni. Entrambi gli uomini d’affari hanno dovuto affrontare problemi fiscali, per altri loro affari offshore. Ecclestone, in particolare, nel 2008 è uscito da un'indagine durata nove anni del fisco inglese. E nel 2014 ha dovuto pagare 100 milioni di dollari per chiudere un processo per corruzione in Germania. In entrambi i casi negava di aver commesso illeciti con fondi offshore della sua famiglia. Briatore ed Ecclestone non sono gli unici magnati che possiedono club attraverso compagnie offshore. In uno studio del 2018, l’organizzazione di ricerca Tax Justice Network ha rivelato che un club su quattro, in Inghilterra e Scozia, aveva quote di proprietà significative detenute da società estere. Un’altra rete di offshore è entrata in scena quando Ecclestone e Briatore stavano cercando di vendere la loro quota del Queens Park Rangers, nel 2011. Dai documenti esclusivi del consorzio Icij emerge che l'accordo proposto includeva dei “termini di vendita” risalenti al febbraio 2011: una compagnia situata nel paradiso fiscale di Jersey, chiamata Exelixi Ltd, si impegnava a comprare le azioni di Ecclestone e della Sarita Capital, che fa capo a Briatore. Il grafico che riassume l'operazione riporta una complicatissima architettura societaria, che coinvolge otto offshore con sede nelle Isole Vergini britanniche, a Cipro e nel Delaware. I documenti non indicano se Ecclestone e Briatore abbiano tratto profitto da quella vendita. La squadra di calcio ha però registrato perdite ogni anno, secondo i bilanci annuali. Stando agli esperti consultati dal consorzio Icij, queste perdite potrebbero aver ridotto le tasse sui redditi personali di Ecclestone e Briatore. Contattato al telefono dai giornalisti inglesi e americani del consorzio, Ecclestone non ha saputo fornire dettagli specifici su Sarita Capital o sull'acquisto e vendita della squadra. Ha detto di aver fatto «un favore a Briatore» e che il suo nome è stato usato principalmente per attrarre altri investitori e manager. Il miliardario, oggi novantenne, ha aggiunto che Briatore e altri investitori erano più ottimisti riguardo le prospettive sportive del club. «Ero io l'unico a non essere particolarmente entusiasta, perché sono realista», ha dichiarato. Flavio Briatore, invece, non ha risposto alle numerose richieste di commento inoltrate dal consorzio Icij.
Davide Giancristofaro Alberti per ilsussidiario.net il 5 ottobre 2021. Fra coloro che sono finiti negli incartamenti di Pandora Papers, una serie di documenti che rivelerebbero l’esistenza di conti in paradisi fiscali da parte di celebrità e vip, vi sarebbe anche David Tassillo, co-proprietario del famoso sito per adulti Pornhub, portale dal fatturato di ben 97 miliardi di dollari annui. Secondo quanto si legge nell’inchiesta, Tassillo sarebbe registrato in due società del Delaware (Stati Uniti), con conti presso l’isola Anguilla e nelle Isole Vergini Britanniche, così come riportato dal Toronto Star citato dal Daily Mail. Il quotidiano canadese è infatti entrato in possesso de circa famosi 12 milioni di documenti in cui vengono elencati nomi, cognomi e conti di celebrità, politici, sportivi e autorità varie. Secondo quanto emerge, Tassillo era l’unico proprietario delle società Appscrutiny LLC e Appiation Management LLC, entrambe registrate nel Delaware, ma anche di Singleron Ltd, nelle Anguille, e di Teckkix nelle Isole Vergini britanniche. Lo stesso co-proprietario di Pornhub, secondo le “accuse”, avrebbe utilizzato azionisti e vari manager per creare le società di cui sopra, e celare così la propria identità, ma l’accusato ha rimandato al mittente ogni accusa, e parlando con i microfoni del The Star ha spiegato: “Ogni aspetto dell’attività, compresi gli obblighi fiscali, è stato gestito in conformità con la legge”. Tassillo ha inoltre spiegato che queste società erano state create per lavorare su una tecnologia che identifica e pulisce la rete dagli account fasulli “Per supportare l’attività, abbiamo fondato società nel Delaware, come molte aziende Fortune 500, nonché Anguilla e le Isole Vergini britanniche”, progetto conclusosi nel 2018 e che avrebbe fruttato, sempre secondo lo stesso miliardario, circa 100mila dollari. Non è la prima volta che il nome di Pornhub finisce in qualche inchiesta visto che lo scorso giugno era stata intentata una causa nei confronti del portale vietato ai minori a seguito di video pubblicati online senza il consenso dei protagonisti in cui si vedevano stupri e pedopornografia, spesso e volentieri azioni di revenge porn. 34 donne hanno così citato in tribunale Pornhub, di cui 14 minorenni all’epoca dei caricamenti non consensuali dei video.
Mario Vargas Llosa, il grande scrittore peruviano che ha vinto il premio Nobel, aveva negato di essere il possessore di una società delle Isole Vergini britanniche che era emersa nel 2016 con i Panama Papers, la prima inchiesta del consorzio che rivelò i segreti delle offshore. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021.
La nuova, colossale fuga di notizie, però, mostra che Llosa ha utilizzato un’altra società offshore, sempre registrata alle Isole Vergini, per investire i guadagni provenienti dalla sua attività di scrittore. Un portavoce di IIosa ha confermato a El País che lo scrittore era il proprietario della offshore nominata nei Pandora Papers, ma ha affermato che era in regola con le autorità fiscali ed è stata liquidata nel 2017.
Ringo Starr, che ha un patrimonio di 400 milioni di dollari, ha fondato due società alle Isole Bahamas. Sono state utilizzate per comprare immobili, tra questi un’abitazione privata a Los Angeles. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021.
Il batterista dei Beatles ha costuito anche cinque trust a Panama. Tre di questi possiedono assicurazioni sulla vita di cui i figli sono i beneficiari. Un altro gestisce le entrate di Starr e dei suoi concerti. Il musicista ha rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti del consorzio Icij.
Pandora Papers, Julio Iglesias cantante. Venti società offshore e un impero immobiliare. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. La superstar spagnola, cantante e cantautore, che ha un patrimonio personale di 936 milioni di dollari, possiede più di 20 offshore alle Isole Vergini britanniche. Otto di queste hanno acquistato immobili intorno a Miami, a partire dal 2008. Altre due aziende, non registrate nei Pandora Papers, possiedono case e terreni a Miami. Le offshore di Iglesias, di cui finora si ignorava l’esistenza, possiedono cinque proprietà immobiliari nell’isola privata di Indian Creek, in Florida, conosciuta come “il bunker dei miliardari”. Le società di Iglesias hanno venduto due dei lotti dell’Indian Creek nel 2020. Il New York Post aveva riportato che Jared Kushner e Ivanka Trump, la figlia dell’ex presidente americano, sarebbero i compratori di uno di quei lotti, pagati 32 milioni di dollari. Ivanka Trump e il marito non hanno risposto alle domande di Icij. Alcune delle offshore di Iglesias beneficiano di agevolazioni fiscali. Secondo la legge della Florida, i proprietari di più residenze possono designare una di queste come prima abitazione e così gli altri immobili, automaticamente, ricevono una speciale “esenzione per le case non di proprietà”. I documenti riservati ora mostrano che Russell King, un avvocato della Florida, ha creato le società nelle Isole Vergini per Iglesias tramite la società fiduciaria Trident Trust. Il legale King è citato nei registri pubblici come contatto per vari immobili a Miami di proprietà delle società di Iglesias. King, però, si è rifiutato di rilasciare commenti sulle offshore del cantante, dicendo al Miami Herald: «Non sono autorizzato a parlare di eventuali contatti che potrei aver avuto con clienti attuali o precedenti». King ha però confermato che utilizzare società offshore per acquistare immobili negli Stati Uniti ha senso per quei clienti che non sono né cittadini statunitensi né residenti permanenti, perché hanno poche esenzioni dalle tasse di successione. Per una persona non residente negli Stati Uniti, la tassa si applica a partire da 60 mila dollari, per un cittadino statunitense solo se i beni valgono più di 11,7 milioni di dollari. «Non ho mai consigliato ai clienti stranieri di comprare una proprietà direttamente, perché per loro sarebbe terribile” ha detto King. Iglesias non ha risposto alle ripetute richieste di commento da parte dei giornalisti del consorzio.
Pandora Papers, la pop star Shakira. Società offshore e guai con il fisco. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. L’utilizzo di offshore da parte di Shakira, per gestire il suo business musicale, ha portato nel 2018 all’apertura di un’indagine per evasione fiscale in Spagna. Nel luglio 2021 un giudice ne ha ordinato il rinvio a giudizio con l’accusa di non aver pagare circa 16 milioni di tasse tra il 2012 e il 2014. Quindi si aprirà un processo pubblico. Shakira all’epoca dichiarò di aver versato tutte le tasse non appena ha saputo che erano dovute alle autorità spagnole. Nei Pandora Papers ora spuntano, però, dei moduli con la firma di Shakira, con la data del 2019, che si riferiscono ad altre tre società offshore. Si tratta di moduli normalmente utilizzati per aprire nuove società. La cantante ha però negato di aver utilizzato offshore nel 2019, quando era già sotto inchiesta per evasione fiscale. I suoi portavoce hanno detto alle testate spagnole El País e La Sexta, partner del consorzio, che quei moduli in realtà servivano a trasferire quelle società in un altro studio legale, al fine di chiuderle, e che non avrebbero mai incassato soldi. Shakira, inoltre, ha affermato che da quando vive in Spagna è in regola con tutti gli obblighi fiscali.
Pandora Papers, Claudia Schiffer ex top model. Con sei società offshore. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. La modella tedesca Claudia Schiffer, star nelle pubblicità di Victoria’s Secret, L’Oreal e Pepsi, possiede almeno sei società nelle Isole Vergini britanniche. I registri mostrano che la super modella tedesca ha dato vita anche a un trust per investire i suoi guadagni in un fondo esentasse per la sua famiglia. I suo legali hanno dichiarato al consorzio che Claudia Schiffer è «in regola con il sistema fiscale del Regno Unito», dove vive con suo marito, il regista inglese Matthew Vaughn.
Da espresso.repubblica.it l'11 ottobre 2021. Nei documenti riservati dei Pandora Papers è registrato anche il nome della super modella italo-brasiliana Alessandra Ambrosio. Anche lei, come tante altre celebrità internazionali dello sport, musica e spettacolo, si è lasciata sedurre dalle offshore, le società esotiche che non pagano le tasse e permettono ai titolari di restare anonimi. La modella, che è nata in Brasile ma è anche cittadina italiana, compare nelle carte dei suoi fiduciari come beneficiaria di una società delle Isole Vergini Britanniche, chiamata Brava Assets Management. La stampa economica ha inserito per diversi anni Alessandra Ambrosio nel club delle dieci modelle più pagate del mondo, attribuendole una fortuna personale di almeno 60 milioni. Ad accompagnarla sulle passerelle offshore è stata la filiale americana della banca svizzera Ubs, di cui è cliente. Per creare la società caraibica, la banca si è rivolta allo studio Trident delle Isole Vergini, una delle 14 fabbriche internazionali di offshore da cui provengono gli 11,9 milioni di documenti riservati ottenuti dal consorzio icij. La società-cassaforte Brava è stata costituita nel 2008 ed è rimasta attiva almeno fino al 2018, quando si fermano i documenti della Trident ottenuti dal consorzio Icij. Nel 2011, la proprietà è stata schermata: da allora la offshore è intestata a un anonimo trust del Delaware, un paradiso fiscale e societario interno agli Stati Uniti. L’Espresso ha contattato la modella italo-brasiliana attraverso le agenzie che la rappresentano nel nostro Paese, a New York e in Brasile. Prima domanda: ha dichiarato al fisco brasiliano, italiano o americano gli incassi della offshore e le ricchezze custodite nel trust? Dalla signora Ambrosio, nessuna risposta.
Pandora Papers, la star del cricket Tendulkar. Società offshore che scompare. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. L’inchiesta giornalistica internazionale svela che Tendulkar, ex campione del cricket ed ex parlamentare indiano, era il proprietario di una società registrata alle Isole Vergini, che ha smantellato nel 2016, subito dopo la pubblicazione dei Panama Papers, anche se non compariva in quelle carte.
Un portavoce della fondazione benefica a lui intitolata ha scritto al consorzio che quella società gestiva investimenti legittimi e Tendulkar era in regola con gli obblighi fiscali, escludendo che sia mai stato coinvolto in pratiche illecite.
Pandora Papers, la pop star Elton John. Più di una dozzina di società offshore. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. L’icona pop, che ha un patrimonio è di oltre 530 milioni di dollari, possiede più di una dozzina di società registrate nelle Isole Vergini che incassano proventi dei suoi vari giri di affari. Oltre allo scrivere, registrare ed eseguire le sue canzoni, Elton John ha scritto la colonna sonora di film e spettacoli teatrali come “Il Re Leone” e “Billy Elliot”. Il nome di alcune offshore riecheggia quelli dei suoi successi, ad esempio Wab Lion King Ltd, oppure Hts Billy Elliot Ltd. In molti casi il musicista ha dato vita a due società in parallelo: una per i guadagni dal Regno Unito, un’altra per le entrate provenienti dall’estero. Tutte le società britanniche hanno David Furnish, il marito di John, come amministratore unico. Le celebrità possono classificare i loro guadagni da attività come i tour, i diritti d’autore e le vendite di dischi, come redditi d’impresa, al contrario dei lavoratori dipendenti, i cui salari sono sottoposti alle imposte, che in Gran Bretagna sono più alte, sui redditi delle persone fisiche. I portavoce di Elton John hanno dichiarato al consorzio che le sue offshore «pagano le imposte societarie nel Regno Unito» e «non vengono utilizzate per ridurre le tasse dovute.
Pandora Papers, la star di Bollywood Jackie Shroff con un trust offshore. L'Espresso e Icij il 4 ottobre 2021. L’attore indiano e produttore di film è stato beneficiario di un fondo offshore, insieme a sua figlia Krishna e al figlio Jai “Tiger”, anche lui attore. La suocera di Shroff, Claude Marie Dutt De Cavey, deceduta nel 2011, aveva creato il fondo, chiamato Media Trust, con sede in Nuova Zelanda, nel 2005. I Pandora Papers includono una fattura pagata al London Fiduciary Trust Group per la gestione riservata del fondo, che è stato chiuso nel 2013. Finora in India nessuno ne sapeva nulla. Molte delle celebrità che compaiono nei Pandora Papers sono o beneficiari o creatori di trust: fondi offshore che possono essere usati per assegnare future eredità distribuire e proteggere i patrimoni dal fisco o dai creditori. I documenti includono un “memorandum di desideri”, basato su discussioni tra Shroff e la fiduciaria che gestiva il trust. Secondo il documento, Shroff cercava di essere considerato il primo beneficiario del Media Trust. Mentre, per gli esperti, «la chiave di un vero trust è che gli amministratori siano del tutto indipendenti. C’è un problema quando l'indipendenza esiste solo sulla carta». La moglie di Shroff, Ayesha, ha dichiarato al consorzio che lei e suo marito non sono affatto a conoscenza che sia mai esistito alcun un trust di famiglia.
Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti per espresso.repubblica.it il 7 ottobre 2021. I Pandora Papers svelano le ricchezze offshore di due stelle del calcio nostrano. I nomi dell’allenatore della Nazionale, Roberto Mancini e quello di Gianluca Vialli, capo delegazione degli azzurri agli ultimi Europei, compaiono nell’archivio segreto svelato dall’inchiesta giornalistica internazionale del consorzio Icij, a cui partecipa anche L’Espresso in esclusiva per l’Italia. Mancini viene indicato nei documenti come l’azionista di Bastian Asset Holdings, con sede nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands (BVI). Nelle stesse carte, Vialli è invece qualificato come proprietario di un’altra società, la Crewborn Holdings, anche questa registrata alle BVI. Dai Pandora Papers emergono numerosi dettagli sulle attività dei due ex calciatori, già compagni di squadra nella Sampdoria campione d’Italia nel 1991. Si scopre così che il tecnico azzurro nel 2009 aveva segnalato a una fiduciaria italiana di essere intenzionato a chiedere lo scudo fiscale per regolarizzare la sua posizione con il Fisco. Secondo i documenti consultati da L’Espresso, la società caraibica di Mancini era proprietaria di un aereo. Lo schermo offshore di Vialli, cittadino britannico ormai da molti anni, è invece servito a gestire una serie di finanziamenti ad attività italiane.
Pandora Papers, ecco i nomi dei vip italiani con i soldi offshore. Calciatori e top model, tecnici e procuratori. Fortune al sicuro dalle Isole Vergini agli Usa. I primi nomi dei nostri connazionali con i soldi all’estero: da Roberto Mancini a Monica Bellucci, da Mino Raiola a Carlo Ancelotti e Walter Zenga. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti su L'Espresso.it l'8 ottobre 2021. Ricchi e famosi in trasferta ai Caraibi. I Pandora Papers confermano che anche i grandi nomi del calcio e le star dello spettacolo non resistono al fascino del rifugio offshore. L’allenatore della Nazionale, Roberto Mancini e il suo ex compagno di squadra Gianluca Vialli, l’attrice Monica Bellucci e il famoso procuratore sportivo Mino Raiola, protagonista del calciomercato internazionale. Sono solo alcuni tra i primi nomi italiani, quelli più famosi nel mondo, che emergono dall’inchiesta giornalistica internazionale del consorzio Icij, a cui L’Espresso partecipa in esclusiva per l’Italia. Ecco le loro storie, tutte con lo stesso finale: ricchezze e guadagni finiscono sotto l’ombrello di società nei paradisi fiscali, che garantiscono segretezza assoluta sull’identità dell’effettivo proprietario dei beni. Un eroe del calcio. Un aereo intestato a una offshore. E uno scudo fiscale. L’eroe è Roberto Mancini, da Jesi, artefice nel luglio scorso della vittoria della Nazionale al campionato europeo. L’aereo è un Piaggio, di proprietà di Bastian Asset Holdings, una società delle British Virgin Islands (BVI) controllata da Mancini a partire da dicembre del 2008. Con lo scudo fiscale, invece, l’allenatore azzurro ha potuto far rientrare in Italia il suo patrimonio detenuto all’estero, alle BVI. La storia, ricostruita da L’Espresso con i documenti dei Pandora Papers, comincia ad aprile del 2008, quando viene costituita la Bastian con sede ai Caraibi. Il mese dopo Mancini perde il posto da allenatore dell’Inter, incassa una buonuscita di 8 milioni di euro, ma resta disoccupato fino al dicembre del 2009 quando viene ingaggiato dal Manchester City. Intanto, esattamente un anno prima, a dicembre del 2008, Mancini era già diventato l’azionista unico di Bastian, la società offshore a cui era intestato un aereo Piaggio P180 Avanti acquistato per 7 milioni di dollari a novembre dello stesso anno. Il 13 gennaio 2009 Bastian fa il pieno di capitali grazie a un prestito di 5,5 milioni di dollari erogato da SG Equipment Finance Schweiz AG, una società con sede a Zurigo. Come garanzia, la finanziaria svizzera si prende in pegno sia il velivolo che le azioni della Bastian. A novembre del 2009, però, la situazione cambia ancora: Mancini torna nel pieno possesso delle azioni date in pegno e il mese successivo, mentre sta per iniziare la sua nuova avventura a Manchester, scrive alla Fidor-Fiduciaria Orefici di Milano per annunciare che «intende avvalersi delle opportunità offerte dalla recente normativa italiana sulla emersione delle attività detenute all’estero». La scelta di tempo non è casuale. La legge sullo scudo fiscale, promossa dall’allora ministro Giulio Tremonti, si stava avviando a scadenza. E quindi bisognava affrettarsi, per sfruttare i vantaggi offerti dalla sanatoria che garantiva la non punibilità dei reati tributari con il versamento di una quota forfettaria pari al 5 per cento del valore dei beni detenuto all’estero. Non sappiamo se Mancini abbia effettivamente aderito allo scudo fiscale, come preannunciato nella sua lettera. Per conoscere la sua versione dei fatti, L’Espresso ha inviato una mail a Silvia Fortini, moglie e legale di fiducia dell’allenatore della Nazionale. La nostra richiesta, però, è rimasta senza risposta. Dai documenti dei Pandora Papers si scopre che l’avvocata Fortini si è occupata anche dell’aereo intestato alla società caraibica, ceduto nell’ottobre del 2011. Nel bilancio di quell’anno si legge che il Piaggio P180 era l’unico asset della società, che quindi «sarà liquidata». Alle British Virgin Islands è approdato anche un altro calciatore da sempre legato a Mancini, suo compagno di squadra 30 anni fa nella Sampdoria dello scudetto. Dai Pandora Papers emerge infatti anche il nome di Gianluca Vialli, l’ex attaccante che ha accompagnato come capo delegazione la Nazionale azzurra agli Europei di luglio. Secondo quanto risulta dai documenti, a Vialli fa capo la società offshore Crewborne Holdings Limited, costituita nel 1998, mentre la Belvedere Investments Limited agisce come nominee (fiduciaria) per conto del Gianluca Vialli Family Trust. Non sembrano girare cifre da favola intorno a questa offshore, che nelle carte indica come «personal» la fonte dei fondi. Tra il 2008 e il 2013 i diritti di immagine di Vialli risultano trasferiti alla Crewborne Holdings, ma nei documenti non si fa menzione di come siano stati sfruttati. In compenso, emerge una vorticosa movimentazione di denaro sotto forma di prestiti, che aumentano dai 319 mila euro del 2009 fino ai 4,1 milioni nel 2012. Sono prestiti senza interessi e pagabili a vista. Da dove arrivano questi soldi? Il creditore è la Belvedere Investments, che, come detto, agisce fiduciariamente, per conto del Gianluca Vialli Family Trust. La maggior parte dei fondi prestati da Belvedere serve a finanziare la società portoghese Fish Eagle Trading e Servicos, costituita nel paradiso fiscale di Madeira. Una quota di molto inferiore viene invece girata a Claudio Giacopazzi, amico di lunga data di Vialli. Nel suo profilo Linkedin, Giacopazzi si definisce «senior advisor» di Fish Eagle, specializzata in produzione e distribuzione di materiali digitali nell’industria dell’entertainment. Lo stesso Giacopazzi aggiunge anche di essere stato, da giugno 2011 a giugno 2014, il general manager di Geniaware srl, una software house di Reggio Emilia che ha sviluppato il videogioco “Lords of football”, per cui Vialli ha fatto da consulente. Dai bilanci della Crewborne si scopre che la società delle BVI ha anche investito nel fondo chiuso BC European Capital VIII, gestito dalla BC Partners di Londra. Sarà una coincidenza, ma proprio BC Partners nel gennaio scorso sarebbe stata interessata, secondo rumors raccolti dal Sole 24 Ore, a comperare una quota dell’Inter dai cinesi di Suning, alleandosi con Vialli e con Fausto Zanetton, ex banchiere di Goldman Sachs e Morgan Stanley. Zanetton insieme all’ex calciatore ha fondato Tifosy, una piattaforma londinese di crowdfunding, che consente ai fan di investire in club sportivi. L’Espresso ha contattato Gianluca Vialli per chiedergli della Crewborne, liquidata nel 2017, e degli altri suoi investimenti. L’ex calciatore, via sms, ci ha informato di essere un cittadino britannico, aggiungendo solo che i suoi business investments, sono «registrati e gestiti» rispettando le norme fiscali. Il primo giugno Carlo Ancelotti è tornato sulla panchina del Real Madrid, che aveva già allenato tra il 2013 e il 2015. Tempo 48 ore e l’Agencia Tributaria, l’agenzia delle entrate spagnola, gli ha sequestrato un milione e 420 mila euro. L’accusa: aver omesso di dichiarare al fisco una parte dei compensi ricevuti in Spagna nel 2014 e nel 2015. Le indagini della Fiscalia, cioè la Procura di Madrid, sono riassunte in un comunicato del giugno 2020, nel quale si spiega che con un contratto del primo luglio 2013 Ancelotti aveva solo «apparentemente» trasferito per 10 anni i suoi diritti d’immagine alla società Vapia Limited delle British Virgin Islands, incassando 25 milioni di euro. I termini di quel contratto sono cambiati più volte e già il 4 di luglio del 2013 è entrata in scena una seconda società: non più Vapia Limited, ma Vapia LLP, una sorta di srl. I documenti dei Pandora Papers, che si aggiungono alle carte depositate al registro societario inglese, illuminano la storia di questa triangolazione finanziaria che si sviluppa tra Madrid, Londra e i Caraibi. Vapia LLP, fondata il 4 ottobre 2013, appena tre mesi dopo l’arrivo di Ancelotti a Madrid, ha infatti sede nella capitale britannica, mentre l’omonima Vapia Limited è stata costituita alle BVI e ha come beneficiario l’allenatore italiano. Fino al 2020, Vapia LLP viene qualificata negli atti come «dormant company», inattiva. Vapia Limited, invece, quella dei Caraibi, compare come «designated member» della sua omonima società inglese. Una funzione che le conferisce poteri importanti, tra cui nominare il revisore dei conti. L’Espresso ha potuto consultare anche il modulo degli azionisti della Vapia delle BVI. A pagina quattro, si leggono i nomi della Sonymore Limited e della Appledore Consulting Limited, i due schermi societari che detengono fiduciariamente, per conto di Ancelotti, il capitale della offshore. L’Information Form segnala anche che la società caraibica ha acquistato diritti d’immagine per un valore di 25 milioni di euro. Questa è proprio la cifra che sarebbe stata versata ad Ancelotti quando ha venduto, secondo l’accusa solo «apparentemente», i suoi diritti d’immagine. Nella ricostruzione della Fiscalia, «il Real Madrid ha effettuato ritenute fiscali, nel 2014 e nel 2015, per importi rispettivamente di 251.212 e 621.789 euro, mentre Magnolia Tv España lo ha fatto per 17.325 euro». Esclusi questi importi, per la Procura, né Ancelotti, «né nessuna delle società che apparentemente detengono i diritti di sfruttamento d’immagine, hanno dichiarato o versato tasse in qualsiasi parte del mondo». Queste accuse, riprese dai media spagnoli, hanno prodotto un primo risultato: il 22 dicembre 2020 la Vapia LLP si è cancellata dai registri societari. Anche Ancelotti ha reagito: il 23 luglio scorso l’allenatore ha ammesso di fronte ai giudici di aver aggirato le imposte, ma solo parzialmente: nega di aver evaso le tasse anche nel 2015, perché a maggio di quell’anno aveva già lasciato la Spagna, licenziato dal Real Madrid. L’Espresso e il quotidiano spagnolo El Pais hanno inviato domande dettagliate ad Ancelotti, che tramite il suo legale ha risposto per email: «Non faremo dichiarazioni». Lo chiamavano l’uomo ragno. Proprio come il titolo del suo libro, appena uscito. Walter Zenga tra il 1986 e il 1994 ha difeso la porta dell’Inter e della Nazionale. Poi, da allenatore, ha cominciato una nuova vita in giro per il mondo, Italia, Stati Uniti, Turchia, Serbia, Romania, sempre inseguito da un’ossessione: «Soldi, maledetti soldi», come ha ammesso lo stesso Zenga in una recente intervista al Corriere della Sera. E intanto, di viaggio in viaggio, l’uomo ragno ha costruito la sua ragnatela finanziaria, ora svelata dai Pandora Papers. A Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dove l’ex calciatore ha infine fissato la sua residenza, ha sede il Rawasawa Trust, a cui Zenga, in qualità di settlor, cioè fondatore, ha trasferito la proprietà dei suoi beni perché vengano gestiti da un fiduciario (trustee). Beneficiari del trust insieme all’ex portiere sono la moglie Raluca Rebedea e i due figli più piccoli. A curare tutte le pratiche per il cliente italiano è stato invece l’Asiaciti Trust di Singapore, una delle maggiori fabbriche mondiali di offshore. L’Espresso ha inviato all’ex campione alcune domande sulle ragioni che lo hanno convinto a ricorrere a un trust. «Sono questioni che attengono alla sfera privata, personale e familiare di Walter Zenga, che in ogni caso ha sempre agito nel pieno rispetto delle normative rilevanti per ciascuna giurisdizione», questa la risposta del suo legale. Che è l’avvocato Pier Filippo Capello, figlio dell’ex calciatore e grande allenatore Fabio. Gigio Donnarumma, Paul Pogba, Marco Verratti e poi la nuova stella del Borussia Dortmund, Erling Haaland, giusto per citare i nomi più famosi. I tifosi conoscono bene la scuderia di fuoriclasse di Carmine “Mino” Raiola, intermediario tra i più potenti del calciomercato internazionale, crocevia di affari milionari. Molto meno nota, invece, è la ragnatela societaria che Raiola ha allestito per gestire i suoi interessi. Una rete che va da Londra a Montecarlo, il paradiso esentasse dove il famoso procuratore sportivo risiede da tempo. Adesso però i Pandora Papers rivelano che questo network si estende anche oltre Atlantico. Nel centro offshore delle British Virgin Islands sono infatti registrate due società che hanno come unico beneficiario proprio Raiola. Si chiamano Gama Advisery e Gladiator Overseas. I documenti consultati da L’Espresso rivelano che il 6 aprile del 2017 la prima è passata sotto il controllo del procuratore italiano, origini campane ma cresciuto da immigrato con la famiglia in Olanda. Della seconda, Raiola è anche amministratore. Negli anni scorsi, in occasione di alcune importanti operazioni di calciomercato, il nome di Mino Raiola era già stato associato ad altre sigle estere, come Topscore Sports e Isports Worldwide, entrambe con sede a Londra, oppure Uniqq e Sportman di Montecarlo. Non è chiaro, invece, quali siano i rapporti tra i due schermi offshore delle British Virgin Islands e l’attività di Raiola. L’Espresso lo ha chiesto al diretto interessato, che però non ha riposto. Tra i vip italiani che si sono avventurati nel pianeta offshore c’è anche la principessa Maria Gabriella di Savoia. La figlia dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II, è registrata come azionista della Toga Finance, una società di Panama a tassazione zero costituita nel 2008, rimasta attiva per 12 anni e messa in liquidazione nel 2020. A gestirla erano i fiduciari svizzeri della Fidinam, riservatissima società di consulenze legali e fiscali fondata da avvocati ed ex magistrati. Che per creare quella offshore si sono rivolti allo studio Alcogal di Panama. Contattata dall’Espresso, la principessa di Savoia ha risposto dalla sua residenza svizzera. Tranquilla, cordiale, ha chiacchierato di giornalismo («Conoscevo Montanelli»), ma della società panamense non ha parlato, spiegando: «Guardi, io non so niente di questioni fiscali. Non sono in grado di rispondere, in quanto non ho alcuna conoscenza in materia di finanza e investimenti». Una dichiarazione, poi riconfermata per email, che non chiarisce se quella offshore sia stata dichiarata alle autorità elvetiche o italiane, e quali beni o attività abbia gestito. Maria Gabriella di Savoia vive da anni in Svizzera e con ogni probabilità non deve nulla al fisco di Roma. La famiglia Savoia fu bandita dall’Italia nel 1948, dopo la caduta del fascismo e la fine della monarchia: l’esilio è finito grazie a un’apposita riforma costituzionale del 2002. Cambiare la Costituzione, però, non è bastato a riportare in Italia le tasse. Anche Monica Bellucci è registrata nelle carte dei Pandora Papers con nome, data di nascita, numero di passaporto e cittadinanza: «italiana». I fiduciari di Panama la schedano come beneficiaria di una offshore delle BVI, la Kloraine Limited. E scrivono, nella corrispondenza interna, che «la società serve a gestire, come licenziataria, i diritti d’immagine dell’attrice Monica Bellucci». La offshore ha operato dal 2011 al 2015. Nelle carte si parla anche di un trust familiare, non identificato, che però non rientra nelle attività offshore. L’unica operazione registrata è quella compiuta nello stesso paradiso fiscale: il riscatto delle quote di un fondo d’investimento nelle Isole Vergini, per una somma imprecisata. Dopo il 2015 la società sparisce: probabilmente è stata chiusa e cancellata. L’attrice italiana ha risposto, già in settembre, alle domande dell’Espresso, chiarendo: «Sono fiscalmente residente in Francia da numerosi anni ed in regola con i miei obblighi tributari, tanto in Francia quanto all’estero. Atteso che la mia attività professionale mi consente di poter lavorare in tanti altri Paesi, i redditi che percepisco sono oggetto di una tassazione locale e di una tassazione in Francia, in conformità con le leggi e convenzioni vigenti fra questi Stati e senza nessuna interposizione di società di comodo offshore». Con queste parole, Monica Bellucci non smentisce di aver posseduto in passato una offshore. E non precisa come si sia conclusa un’indagine del fisco francese che riguardava anche un conto bancario trasmesso dalle autorità svizzere. La sua risposta fa però capire che l’attrice ha da tempo regolarizzato la sua posizione pagando tutte le tasse dovute. E ha liquidato la sua società estera diversi mesi prima che l’inchiesta Panama Papers, nel 2016, creasse il primo effetto-scandalo sulle offshore. Ben più ampia e complessa è l’architettura societaria che protegge le ricchezze di altre bellezze di fama mondiale, come Claudia Schiffer, registrata dai suoi fiduciari con il cognome della madre. La super modella tedesca controlla almeno sei offshore delle Isole Vergini Britanniche, con denominazioni fantasiose: 51 Red Balloons, Brewer Finance, Crimson Rosella, Pirilambo Limited, Tdu Holdings, Roxy International. Le società incassano i compensi delle pubblicità. E nelle Isole Vergini non esistono tasse sugli utili distribuiti ai soci. I Pandora Papers indicano «Claudia Maria De Vere Drummond», alias Schiffer, anche come fondatrice e beneficiaria del Roxy Trust. Un fondo offshore cointestato ai figli, alle sorelle e all’attuale consorte, il regista inglese Matthew Vaughn. I suoi avvocati hanno risposto ai cronisti del quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung che «la signora Schiffer è in regola con le leggi fiscali del Regno Unito, dove vive con il marito, e non è mai stata accusata di alcuna evasione e elusione delle tasse». Un’altra modella famosa sedotta dalle offshore è l’italo-brasiliana Alessandra Ambrosio, beneficiaria di una offshore delle BVI, la Brava Assets Management, costituita nel 2008 e attiva almeno fino al 2018. Nel 2011, la proprietà è stata schermata: da allora la offshore è intestata a un anonimo trust del Delaware, un paradiso fiscale interno agli Stati Uniti. Ad accompagnare la modella sulle passerelle esentasse è stata la filiale americana della banca svizzera Ubs, che si è rivolta allo studio Trident delle BVI. La stampa economica ha inserito per diversi anni Alessandra Ambrosio nel club delle dieci modelle più pagate del mondo, attribuendole una fortuna personale di almeno 60 milioni. L’Espresso l’ha contattata attraverso le agenzie che la rappresentano in Italia, a New York e in Brasile. Prima domanda: ha dichiarato al fisco brasiliano, italiano o americano i guadagni della offshore e le ricchezze custodite nel trust? Dalla signora Ambrosio, nessuna risposta.
Pandora Papers, Monica Bellucci attrice. Società offshore per i diritti d’immagine. L'Espresso e Icij su L'Espresso.it l'8 ottobre 2021. Anche Monica Bellucci è registrata nei Pandora Papers con nome, data di nascita, numero di passaporto e cittadinanza: «italiana». I fiduciari dello studio Alcogal di Panama City la schedano come beneficiaria di una offshore delle Isole Vergini Britanniche, chiamata Kloraine Limited. E scrivono, nella corrispondenza interna, che «la società serve a gestire, come licenziataria, i diritti d’immagine dell’attrice Monica Bellucci». La offshore ha operato dal 2011 al 2015, gli anni di cui i fiduciari chiedono i bilanci agli amministratori. Nelle carte si parla anche di un trust familiare, non identificato, che però non rientra nelle attività offshore. L’unica operazione registrata nelle carte dello studio Alcogal è quella compiuta nello stesso paradiso fiscale dove ha sede la società: il riscatto delle quote di un fondo d’investimento delle British Virgin Islands, per una somma imprecisata. Dopo il 2015 la offshore sparisce dagli archivi: probabilmente è stata chiusa e cancellata. L’attrice italiana è la prima celebrità che ha risposto, già in settembre, alle domande dell’Espresso, chiarendo: «Sono fiscalmente residente in Francia da numerosi anni ed in regola con i miei obblighi tributari, tanto in Francia quanto all’estero. Atteso che la mia attività professionale mi consente di poter lavorare in tanti altri Paesi, i redditi che percepisco sono oggetto di una tassazione locale e di una tassazione in Francia, in conformità con le leggi e convenzioni vigenti fra questi Stati e senza nessuna interposizione di società di comodo “offshore”». Con queste parole, Monica Bellucci non smentisce di aver posseduto una offshore in passato. E non precisa come si sia conclusa un’indagine del fisco francese che riguardava anche un conto bancario trasmesso a Parigi dalle autorità svizzere. La sua risposta fa però capire che l’attrice ha da tempo regolarizzato la sua posizione pagando tutte le tasse dovute. E ha liquidato la sua società estera diversi mesi prima che l’inchiesta Panama Papers, nel 2016, creasse il primo effetto-scandalo sulle offshore. Pur preoccupata per la diffusione sui media delle notizie che la riguardano, Monica Bellucci ha ringraziato L’Espresso per averle dato l’opportunità di spiegare la sua posizione in anticipo, prima di pubblicare l’articolo, e ha elogiato il giornalismo d’inchiesta.
Pandora Papers, Mino Raiola procuratore. Società offshore e interessi oltreoceano. L'Espresso e Icij su L'Espresso.it l'8 ottobre 2021. Gigio Donnarumma, Paul Pogba, Marco Verratti e poi la nuova stella del Borussia Dortmund, Erling Haaland, giusto per citare i nomi più famosi. Gli appassionati di pallone conoscono bene la scuderia di fuoriclasse di Carmine “Mino” Raiola, intermediario tra i più potenti del calciomercato internazionale, crocevia di affari che muovono milioni e alimentano il gossip dei tifosi. Molto meno nota, invece, è la ragnatela finanziaria che Raiola ha allestito negli anni per gestire le sue attività, una rete che va da Londra a Montecarlo, il paradiso esentasse dove risiede da tempo l’agente di Zlatan Ibrahimovic e del neointerista Denzel Dumfries. Adesso però i Pandora Papers rivelano che questo network si estende anche oltre Atlantico, fino alle British Virgin Islands. Nel centro offshore dei Caraibi sono state registrate due società che hanno come unico beneficiario proprio Raiola. Si chiamano Gama advisery e Gladiator overseas. I documenti consultati da L’Espresso rivelano che il 6 aprile del 2017 Gama Advisery è passata sotto il controllo del procuratore italiano, origini campane ma cresciuto da immigrato con la famiglia in Olanda. Della Gladiator Overseas, invece, Raiola è anche amministratore oltre che depositario di tutta la documentazione societaria, custodita, come si legge in un atto ufficiale, presso il suo domicilio di Montecarlo. Negli anni scorsi, in occasione di alcune importanti operazioni di calciomercato, il nome di Raiola è stato associato ad altre sigle, come per esempio Topscore sports e Isports Worldwide, entrambe con sede a Londra, oppure Uniqq e Sportman di Montecarlo. Nel 2016, Topscore e Uniqq avevano gestito il passaggio di Pogba dalla Juventus al Manchester United, mentre Isports Worldwide compare come “procuratore sportivo” nel contratto tra Donnarumma e il Milan siglato nel 2017. Non è chiaro, invece, quali siano i rapporti tra i due schermi offshore delle British Virgin Islands e l’attività di Raiola. L’Espresso lo ha chiesto al famoso procuratore sportivo, ma la mail inviata al suo indirizzo è rimasta senza riposta.
Lo chiamavano l'uomo ragno. L'Espresso e Icij su L'Espresso.it l'8 ottobre 2021. Proprio come il titolo del suo libro, appena uscito. Walter Zenga è stato un grande del calcio italiano: tra il 1986 e il 1994 ha difeso la porta dell’Inter e della Nazionale, partecipando a due mondiali e a un Europeo. Poi, da allenatore ha cominciato una nuova vita in giro per il mondo, Catania, Palermo, Cagliari, Crotone, Venezia, Serbia, Romania, sempre inseguito da un’ossessione, «Soldi, maledetti soldi», come ha ammesso lo stesso Zenga in un'intervista al Corriere della Sera del 15 settembre. E intanto, di viaggio in viaggio, l’uomo ragno ha costruito la sua ragnatela finanziaria, ora svelata dai Pandora Papers. A Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dove ha allenato alcune squadre locali tra il 2011 e il 2016, l’ex portiere dell’Inter ha fissato la sua residenza. E nella città araba, come si legge nei documenti consultati dall’International Consortium of Investigative Journalists” (ICIJ), ha sede il Rawasawa Trust, a cui Zenga, in qualità di settlor, cioè fondatore, ha trasferito la proprietà dei suoi beni perché vengano gestiti da un fiduciario (trustee). A curare tutte le pratiche burocratiche per conto del famoso cliente italiano è stato l’Asiaciti Trust, una delle maggiori “fabbriche” mondiali di offshore, che compare in ben 1,8 milioni di documenti sugli 11,9 milioni complessivi emersi nei “Pandora Papers”. Zenga è di casa a Dubai, dove vivono la moglie Raluca Rebedea e i due figli più piccoli, Samira e Walter junior. Sfogliando le 30 pagine dell'atto di regolamento (“Deed of Settlement”), si apprende che l’ex calciatore si è rivolto alla filiale neozelandese di Asiaciti Trust, la Asia Trust New Zealand Limited. Come beneficiari del trust, Zenga indica, oltre a sé stesso, anche la moglie e i due figli che abitano in una villa a Palm Jumeirah, un'isola famosa per i suoi alberghi di lusso, tra questi, l'hotel a forma di vela Burj al-Arab. È una villa costosa. In base a un atto che abbiamo potuto leggere, infatti, risulta che un versamento fatto a Zenga il 17 maggio 2017 per un ammontare di 260.301,82 dollari, è stato impiegato proprio per eseguire delle ristrutturazioni nella casa di Dubai. L’Espresso ha inviato all’ex campione alcune domande sulle ragioni che lo hanno convinto a ricorrere a un trust neozelandese. «Sono questioni che attengono alla sfera privata, personale e familiare di Walter Zenga, che in ogni caso ha sempre agito nel pieno rispetto delle normative rilevanti per ciascuna giurisdizione», questa la risposta del legale che assiste Zenga. Il suo nome: Pier Filippo Capello, figlio di Fabio, il grande allenatore che molte volte dalla panchina del Milan ha incrociato l’interista Zenga come avversario.
Pandora Papers, gli affari di Mancini e Vialli nei paradisi fiscali offshore. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2021. Le rivelazioni dell’inchiesta sui movimenti milionari del c.t. della Nazionale e del suo amico e collaboratore. Le società intestate ai due ex giocatori e i patrimoni gestiti in passato in loro nome. Ci sono anche Roberto Mancini e Gianluca Vialli nei Pandora Papers. Dalle carte risulta che tutti e due siano stati proprietari di società offshore nel paradiso fiscale delle Isole Vergini britanniche. Il Commissario tecnico della Nazionale è l’azionista della Bastian Asset holdings. Il suo ex compagno di squadra nella Sampdoria degli anni d’oro, è invece, il titolare della Crewborn Holdings. La notizia arriva proprio nel mezzo del torneo Nations League: per ora nessun commento dall’allenatore della Nazionale campione d’Europa. Vialli, invece, ha fatto sapere di «essere un cittadino britannico» e che i suoi «investimenti commerciali sono registrati e amministrati nel pieno rispetto della normativa fiscale».
L’inchiesta. Mancini, 56 anni, e Vialli, 57, sono i nomi più noti che emergono dal capitolo italiano, curato dall’Espresso, nell’inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists. Circa 11,9 milioni di documenti esaminati da 150 testate mondiali, tra le quali il Washington Post, Bbc, Guardian e Le Monde. Le rivelazioni hanno già portato alla luce, tra l’altro, gli affari segreti di 35 Capi di Stato e di governo, di cui 14 tuttora in carica. Da Vladimir Putin al re di Giordania Abdullah II; da Tony Blair al premier della Repubblica Ceca Andrej Babis. Anche le star dello spettacolo e della moda sono clienti assidui dei «paradisi fiscali»: Elton John, Ringo Starr, Claudia Schiffer. Almeno nove Paesi, tra i quali Australia, Gran Bretagna e Pakistan hanno già aperto le indagini.
I conti di Mancini. In volo sui Caraibi. Mancini controlla la Bastian Assett Holdings, base nelle caraibiche Isole Vergini Britanniche, dall’aprile del 2008. Da qui sembra transitare almeno una parte dei suoi redditi e delle sue ricchezze. Nel maggio di quell’anno lasciò la panchina dell’Inter con una buonuscita di otto milioni di euro. Nel novembre successivo ecco che la società offshore di Mancini acquista un aereo privato Piaggio P180 per sei milioni di euro. Nel gennaio 2009 si verifica uno strano passaggio di fondi. La Bastian riceve un prestito di 4,7 milioni di euro dalla Sg Equipment Finance Schweiz, una fiduciaria con sede a Zurigo. Gli svizzeri pignorano, a titolo di garanzia, sia il velivolo che le azioni della Bastian Assett. Nel novembre 2009 Mancini torna in pieno possesso delle azioni. Un mese dopo diventa l’allenatore del Manchester City. E nel dicembre del 2009 scrive alla Fidor-Fiduciaria Orefici di Milano per comunicare che aveva «intenzione di approfittare della recente legislazione italiana», cioè lo scudo fiscale introdotto dal governo Berlusconi che consentiva il rientro di capitali parcheggiati all’estero, in cambio di una tassa del 5% sul valore complessivo. Non è noto se Mancini si sia messo in regola con l’erario italiano. Il Piaggio P180 era rimasto l’unico asset della Bastian: fu venduto nel 2011, come premessa, si legge nell dossier di Pandora, per la «liquidazione» della società offshore.
Il trust di Vialli. L’ex attaccante della Sampdoria e della Juventus, protagonista dei Mondiali ‘90 e attuale accompagnatore della Nazionale, sarebbe arrivato prima di Mancini nelle Isole Vergini Britanniche, fondando la Crewborne Holdings Limited nel 1998. Un’altra società, la Belvedere Investments Limited opera come trust, cioè come fiduciaria, della famiglia di Gianluca Vialli. I «Pandora Papers» indicano che i fondi provengono «dal patrimonio personale» dell’ex giocatore. I proventi per i diritti di immagini, accumulati tra il 2008 e il 2013, confluirono nei due contenitori offshore. In quel periodo si verifica un curioso giro di denaro. La Crewborne riceve diversi prestiti senza interessi: si va dai 319 mila euro nel 2009 ai 4,1 milioni di euro nel 2012. Da dove arrivano questi soldi? Dalla Belvedere Investments, il trust della famiglia Vialli. Le risorse servono anche ad alimentare gli affari di Claudio Giacopazzi, grande amico di Gianluca. La Crewborne finanzia la Fish Eagle Trading e Servicos, base nell’isola di Madeira, paradiso fiscale portoghese. Giacopazzi ne è l’azionista principale. L’impresa è specializzata «nella produzione e nella distribuzione di materiale digitale per l’industria dell’intrattenimento». Crewborne fu liquidata nel 2017, ma non prima di aver investito nel fondo Bc European Capital VIII, gestito dalla Bc Partners di Londra. Quattro anni dopo, nel gennaio del 2021, si formò una cordata per tentare di comprare l’Inter dai cinesi di Suning. L’iniziativa partiva da Vialli e Fausto Zanetton, ex banchiere di Goldman Sachs e Morgan Stanley, che avevano fondato «Tifosy», una piattaforma aperta ai contributi dei supporter. All’impresa si era unito il Fondo Bc European Capital VIII, si scopre ora con i Pandora Papers, mettendo sul piatto i fondi di Vialli in arrivo dalle Isole Vergini Britanniche.
Pandora Papers, gli affari di Mancini e Vialli nei paradisi fiscali offshore. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2021. Ci sono anche Roberto Mancini e Gianluca Vialli nei Pandora Papers. Dalle carte risulta che tutti e due siano stati proprietari di società offshore nel paradiso fiscale delle Isole Vergini britanniche. Il Commissario tecnico della Nazionale è l’azionista della Bastian Asset holdings. Il suo ex compagno di squadra nella Sampdoria degli anni d’oro, è invece, il titolare della Crewborn Holdings. La notizia arriva proprio nel mezzo del torneo Nations League: per ora nessun commento dall’allenatore della Nazionale campione d’Europa. Vialli, invece, ha fatto sapere di «essere un cittadino britannico» e che i suoi «investimenti commerciali sono registrati e amministrati nel pieno rispetto della normativa fiscale».
L’inchiesta
Mancini, 56 anni, e Vialli, 57, sono i nomi più noti che emergono dal capitolo italiano, curato dall’ Espresso, nell’inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists. Circa 11,9 milioni di documenti esaminati da 150 testate mondiali, tra le quali il Washington Post, Bbc, Guardian e Le Monde. Le rivelazioni hanno già portato alla luce, tra l’altro, gli affari segreti di 35 Capi di Stato e di governo, di cui 14 tuttora in carica. Da Vladimir Putin al re di Giordania Abdullah II; da Tony Blair al premier della Repubblica Ceca Andrej Babis. Anche le star dello spettacolo e della moda sono clienti assidui dei «paradisi fiscali»: Elton John, Ringo Starr, Claudia Schiffer. Almeno nove Paesi, tra i quali Australia, Gran Bretagna e Pakistan hanno già aperto le indagini.
I conti di Mancini
In volo sui Caraibi. Mancini controlla la Bastian Assett Holdings, base nelle caraibiche Isole Vergini Britanniche, dall’aprile del 2008. Da qui sembra transitare almeno una parte dei suoi redditi e delle sue ricchezze. Nel maggio di quell’anno lasciò la panchina dell’Inter con una buonuscita di otto milioni di euro. Nel novembre successivo ecco che la società offshore di Mancini acquista un aereo privato Piaggio P180 per sei milioni di euro. Nel gennaio 2009 si verifica uno strano passaggio di fondi. La Bastian riceve un prestito di 4,7 milioni di euro dalla Sg Equipment Finance Schweiz, una fiduciaria con sede a Zurigo. Gli svizzeri pignorano, a titolo di garanzia, sia il velivolo che le azioni della Bastian Assett. Nel novembre 2009 Mancini torna in pieno possesso delle azioni. Un mese dopo diventa l’allenatore del Manchester City. E nel dicembre del 2009 scrive alla Fidor-Fiduciaria Orefici di Milano per comunicare che aveva «intenzione di approfittare della recente legislazione italiana», cioè lo scudo fiscale introdotto dal governo Berlusconi che consentiva il rientro di capitali parcheggiati all’estero, in cambio di una tassa del 5% sul valore complessivo. Non è noto se Mancini si sia messo in regola con l’erario italiano. Il Piaggio P180 era rimasto l’unico asset della Bastian: fu venduto nel 2011, come premessa, si legge nell dossier di Pandora, per la «liquidazione» della società offshore.
Il trust di Vialli
L’ex attaccante della Sampdoria e della Juventus, protagonista dei Mondiali ‘90 e attuale accompagnatore della Nazionale, sarebbe arrivato prima di Mancini nelle Isole Vergini Britanniche, fondando la Crewborne Holdings Limited nel 1998. Un’altra società, la Belvedere Investments Limited opera come trust, cioè come fiduciaria, della famiglia di Gianluca Vialli. I «Pandora Papers» indicano che i fondi provengono «dal patrimonio personal>» dell’ex giocatore. I proventi per i diritti di immagini, accumulati tra il 2008 e il 2013, confluirono nei due contenitori offshore. In quel periodo si verifica un curioso giro di denaro. La Crewborne riceve diversi prestiti senza interessi: si va dai 319 mila euro nel 2009 ai 4,1 milioni di euro nel 2012. Da dove arrivano questi soldi? Dalla Belvedere Investments, il trust della famiglia Vialli. Le risorse servono anche ad alimentare gli affari di Claudio Giacopazzi, grande amico di Gianluca. La Crewborne finanzia la Fish Eagle Trading e Servicos, base nell’isola di Madeira, paradiso fiscale portoghese. Giacopazzi ne è l’azionista principale. L’impresa è specializzata «nella produzione e nella distribuzione di materiale digitale per l’industria dell’intrattenimento». Crewborne fu liquidata nel 2017, ma non prima di aver investito nel fondo Bc European Capital VIII, gestito dalla Bc Partners di Londra. Quattro anni dopo, nel gennaio del 2021, si formò una cordata per tentare di comprare l’Inter dai cinesi di Suning. L’iniziativa partiva da Vialli e Fausto Zanetton, ex banchiere di Goldman Sachs e Morgan Stanley, che avevano fondato «Tifosy», una piattaforma aperta ai contributi dei supporter. All’impresa si era unito il Fondo Bc European Capital VIII, si scopre ora con i Pandora Papers, mettendo sul piatto i fondi di Vialli in arrivo dalle Isole Vergini Britanniche.
Pandora Papers, spuntano i nomi di Mancini e Vialli. Antonio Prisco il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nell'inchiesta sulle ricchezze offshore dell'Espresso ci sarebbero anche i nomi dei Gemelli del gol, Mancini e Vialli. Anche i nomi dell’allenatore della Nazionale, Roberto Mancini e quello di Gianluca Vialli, capo delegazione degli Azzurri, comparirebbero nell’archivio segreto svelato dall’inchiesta giornalistica internazionale del consorzio Icij (International Consortium of Investigative Journalists), a cui partecipa anche L’Espresso in esclusiva per l’Italia. Dodici milioni di documenti riservatissimi smascherano le ricchezze offshore di politici, stelle dello sport e spettacolo, generali e big degli affari. Dai Pandora Papers, si chiama così la più grande collaborazione giornalistica della storia, a cui partecipano anche media internazionali come El Paìs, The Washington Post, The Guardian, emergerebbero dunque numerosi dettagli sulle attività dei due ex calciatori, già compagni di squadra nella Sampdoria campione d’Italia nel 1991.
I documenti su Mancini
Secondo la documentazione ottenuta nei Pandora Papers, il ct della Nazionale avrebbe acquistato un aereo attraverso una società offshore nelle Isole Vergini britanniche nel 2008, pochi mesi dopo essere stato esonerato dell'Inter. Nei documenti viene indicato come l'azionista di Bastian Asset Holdings, società offshore fondata nell'aprile 2008 nell'arcipelago caraibico - un mese prima della fine della sua prima esperienza alla guida dell'Inter - poi acquisita nel dicembre dello stesso anno da Mancini, divenuto azionista unico della stessa. Bastian avrebbe acquistato appena un mese prima un aereo Piaggio P180 Avanti al prezzo di 7 milioni di dollari mentre l'allenatore aveva ricevuto 8 milioni di euro come indennità di fine rapporto dal club nerazzurro. Il 13 gennaio 2009, questa società ottiene un prestito di $ 5,5 milioni da SG Equipment Finance Schweiz AG. A garanzia del prestito presenta sia l'aereo che le azioni di Bastian. Nello stesso anno, nel mese di novembre Mancini avrebbe manifestato l'intenzione di avvalersi di un condono fiscale approvato dal governo italiano. Grazie al condono con il pagamento del 5% dei beni all'estero, gli stessi sarebbero potuti rientrare in Italia senza incorrere nella commissione di reati tributari. Tuttavia i documenti testimoniano le intenzioni di avvalersi del condono, ma alla fine non specificano se in realtà la possibilità si sia concretizzata. A questo proposito L'Espresso ha interpellato il suo avvocato e moglie, Silvia Fortini, senza però ricevere risposta. Due anni dopo, nell'ottobre 2011, la società caraibica è stata ceduta e il suo bilancio specifica che il Piaggio P180 era l'unico asset della società che "sarà liquidato".
I documenti su Vialli
Secondo i Pandora Papers, Vialli invece risulterebbe legato a società offshore delle Isole Vergini denominata Crewborne Holdings Limited, costituita nel 1998 e dagli atti consultati, l'ex calciatore comparirebbe come amministratore. In questa struttura offshore è presente anche un trust, denominato 'Gianluca Vialli Family Trust', il cui gestore è Belvedere Investments Limited. La fonte dei fondi della Crewborne Society è "personale", indicano i documenti. Tra il 2008 e il 2013 sono stati ceduti i diritti di immagine dell'ex giocatore, anche se non viene precisato come siano stati sfruttati. Dai documenti consultati risulta che Crewborne Holdings inizia a richiedere prestiti, passati da 319.000 euro nel 2009 a 4,1 milioni nel 2012. Tali crediti sono a tasso zero e il creditore è Belvedere Investments Limited. Questi prestiti sarebbero stati utilizzati per finanziare la società portoghese Fish Eagle Trading y Servicos, nel paradiso fiscale di Madeira, con una percentuale minore riservata a Claudio Giacopazzi, amico di una vita di Vialli che si presenta come "senior advisor" della società. Interpellato su queste informazioni, Vialli avrebbe dichiarato di essere cittadino britannico e che i suoi investimenti sono "registrati e gestiti" nel rispetto della normativa fiscale.
Antonio Prisco.
Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l’Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto
Pandora Papers, ecco le ricchezze offshore di Roberto Mancini e Gianluca Vialli. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti su L’Espresso il 7 Ottobre 2021. I due ex calciatori hanno creato società nelle British Virgin Islands per gestire alcune loro attività. Un documento rivela che l’allenatore della Nazionale nel 2009 era pronto ad aderire allo scudo fiscale. I Pandora Papers svelano le ricchezze offshore di due stelle del calcio nostrano. I nomi dell’allenatore della Nazionale, Roberto Mancini e quello di Gianluca Vialli, capo delegazione degli azzurri agli ultimi Europei, compaiono nell’archivio segreto svelato dall’inchiesta giornalistica internazionale del consorzio Icij, a cui partecipa anche L’Espresso in esclusiva per l’Italia. Mancini viene indicato nei documenti come l’azionista di Bastian Asset Holdings, con sede nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands (BVI). Nelle stesse carte, Vialli è invece qualificato come proprietario di un’altra società, la Crewborn Holdings, anche questa registrata alle BVI. Dai Pandora Papers emergono numerosi dettagli sulle attività dei due ex calciatori, già compagni di squadra nella Sampdoria campione d’Italia nel 1991. Si scopre così che il tecnico azzurro nel 2009 aveva segnalato a una fiduciaria italiana di essere intenzionato a chiedere lo scudo fiscale per regolarizzare la sua posizione con il Fisco. Secondo i documenti consultati da L’Espresso, la società caraibica di Mancini era proprietaria di un aereo. Lo schermo offshore di Vialli, cittadino britannico ormai da molti anni, è invece servito a gestire una serie di finanziamenti ad attività italiane.
Pandora Papers, Roberto Mancini ct dell’Italia. Scudo fiscale e aereo intestato a una offshore. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 7 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Un eroe del calcio. Un aereo intestato a una offshore. E uno scudo fiscale. L'eroe è Roberto Mancini, da Jesi, artefice nel luglio scorso della vittoria della Nazionale al campionato europeo. L'aereo è un Piaggio, di proprietà di Bastian Asset Holdings Ltd, una società delle British Virgin Islands (BVI) controllata da Mancini a partire da dicembre del 2008. Con lo scudo fiscale, invece, l’allenatore azzurro ha potuto far rientrare in Italia il suo patrimonio detenuto all’estero, alle BVI. La storia, ricostruita da L’Espresso con i documenti dei Pandora Papers, comincia ad aprile del 2008, quando viene costituita la Bastian con sede ai Caraibi. Il mese dopo Mancini perde il posto da allenatore dell’Inter, incassa una buonuscita di 8 milioni di euro, ma resta disoccupato fino al dicembre del 2009 quando viene ingaggiato dal Manchester City. Intanto, esattamente un anno prima, a dicembre del 2008, Mancini era già diventato l’azionista unico di Bastian, la società offshore a cui era intestato un aereo Piaggio P180 Avanti acquistato per 7 milioni di dollari a novembre dello stesso anno. Il 13 gennaio 2009 Bastian fa il pieno di capitali grazie a un prestito di 5,5 milioni di dollari erogato da SG Equipment Finance Schweiz AG, una società con sede a Zurigo, al numero 105 di Gladbachstrasse. Come garanzia, la finanziaria svizzera si prende in pegno sia il velivolo che le azioni della Bastian. Due settimane dopo, il 23 gennaio, il Piaggio viene concesso in leasing alla tedesca AirGo FLugservice di Magonza. A novembre del 2009, però, la situazione cambia ancora: Mancini torna nel pieno possesso delle azioni che a gennaio erano state date in pegno alla SG Equipment di Zurigo. Il mese successivo, i documenti segnalano un’altra importante novità. Mancini, che in quei giorni sta per iniziare la sua nuova avventura a Manchester, il 3 dicembre 2009 scrive alla Fidor-Fiduciaria Orefici di Milano e, per conoscenza, anche alla Bastian Asset Holdings delle British Virgin Islands per annunciare che “intende avvalersi delle opportunità offerte dalla recente normativa italiana sulla emersione delle attività detenute all'estero”. La scelta di tempo non è casuale. La legge sullo scudo fiscale, promossa dall’allora ministro Giulio Tremonti, si stava avviando a scadenza. E allora bisognava affrettarsi, per sfruttare i vantaggi offerti dalla sanatoria che con il versamento di una quota forfettaria pari al 5 per cento del valore dei beni detenuto all’estero, garantiva la non punibilità dei reati tributari. Non sappiamo se Mancini abbia effettivamente aderito allo scudo fiscale, come aveva preannunciato nella sua lettera. Per conoscere la sua versione dei fatti, L’Espresso ha inviato una mail all’allenatore della Nazionale e all’avvocata Silvia Fortini, moglie e legale di fiducia dell’ex calciatore della Sampdoria campione d’Italia nel 1991. La nostra richiesta, però, è rimasta senza risposta. Dai documenti dei Pandora Papers si scopre che l'avvocata Fortini si è occupata anche dell’aereo intestato alla società caraibica. In base a un accordo stipulato nel 2010 con la director di Bastian, Delta Denise Fraser, la moglie di Mancini si è impegnata, si legge nelle carte societarie, “a vendere il velivolo, numero di serie 1172, e tutti gli equipaggiamenti e le dotazioni di bordo, inclusi i motori e le eliche, ovvero il pacchetto azionario del 100 per cento della Bastian Assets Holdings Ltd (…) ad un prezzo massimo di 6 milioni e 400 mila dollari (…) con un prezzo minimo di vendita non inferiore a sei milioni”. Il negoziato per la va in porto nell’ottobre del 2011. Nel bilancio di quell’anno, approvato a febbraio del 2012, si legge che il Piaggio P180 era l'unico asset della società, che quindi “sarà liquidata”.
Pandora Papers, Gianluca Vialli ex calciatore e ct. Società alle Isole Vergini Britanniche. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 7 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. Alle British Virgin Island è approdato anche un altro calciatore a lungo legato a Mancini, suo compagno di squadra 30 anni fa nella Sampdoria dello scudetto. Dai documenti dei Pandora Papers emerge infatti anche il nome di Gianluca Vialli, attaccante che ha chiuso la sua carriera nel 1999 e di recente ha accompagnato come capo delegazione la Nazionale azzurra ai recenti europei di luglio. Secondo quanto emerge dai Pandora Papers, a Vialli fa capo la società offshore Crewborne Holdings Limited, costituita nel 1998, mentre la Belvedere Investments Limited agisce come nominee (fiduciaria) per conto del Gianluca Vialli Family Trust (GLV Trust). Non girano grandi cifre intorno a questa offshore, che nelle carte indica come “personal” la fonte dei fondi. Nel periodo compreso tra il 2008 e il 2013 i diritti di immagine di Vialli risultano trasferiti alla Crewborne Holdings, ma nei documenti non si fa menzione di come siano stati sfruttati. In compenso, i documenti esaminati da L’Espresso fotografano una vorticosa movimentazione di denaro sotto forma di prestiti, che aumentano progressivamente, dai 319 mila euro del 2009 fino ai 4,1 milioni nel 2012. Sono prestiti senza interessi e pagabili a vista. Da dove arrivano questi finanziamenti destinati alla Crewborne? Il creditore è la Belvedere Investments, che, come detto, agisce fiduciariamente, per conto del Gianluca Vialli Family Trust. La maggior parte dei soldi prestati da Belvedere serve a finanziare una società portoghese, Fish Eagle Trading e Servicos, costituita nella zona franca di Madeira. Una quota di molto inferiore viene invece girata a Claudio Giacopazzi, di Savona, un amico da lunga data di Vialli. Nel suo profilo Linkedin, Giacopazzi si definisce Senior Advisor di Fish Eagle, specializzata in produzione e distribuzione di materiali digitali nell'industria dell’”entertainment”. Lo stesso Giacopazzi aggiunge anche di essere stato, da giugno 2011 a giugno 2014, il “general manager” di Geniaware srl, una software house molto popolare nel mondo dei videogiochi, specialmente in campo sportivo. Per anni Gianluca Vialli ha fatto da consulente “Lords of football”, sviluppato proprio dall’azienda emiliana di Giacopazzi. L’ex giocatore della Sampdoria fin dagli anni Novanta è stato testimonial di altri videogiochi, come “Football Manager”, “Championship Manager” e “European Manager”. Dai bilanci della Crewborne si scopre che la società delle BVI ha anche investito nel fondo chiuso “BC European Capital VIII”, gestito dalla BC Partners di Londra. Sarà una coincidenza, ma proprio BC Partners sarebbe stata interessata, secondo rumors raccolti dal “Sole 24 Ore” nel gennaio scorso, a comperare una quota dell'Inter dai cinesi di Suning, alleandosi con Vialli e con Fausto Zanetton, ex banchiere di Goldman Sachs e Morgan Stanley. Zanetton insieme all’amico calciatore ha fondato Tifosy, una piattaforma londinese di crowdfunding, che consente ai fan di investire in club sportivi. Nel 2019 la coppia di investitori aveva anche dimostrato un certo interesse per la Sampdoria, ma poi non se n'è fatto più niente, come nel caso dell'Inter. L'Espresso ha contattato Gianluca Vialli per chiedergli della Crewborne, liquidata nel 2017, e degli altri suoi investimenti. L’ex calciatore, via sms, ci ha informato di essere un cittadino britannico aggiungendo che i suoi “business investments”, sono “registrati e gestiti” secondo le regole imposte da HMRC (il fisco di Londra, ndr). “Anche per rispetto degli altri shareholders – ha aggiunto Vialli - preferisco mantenere un certo livello di privacy rispetto a questa parte delle mie attività”.
Pandora Papers, il calciatore Angel Di Maria. Società offshore per i diritti d’immagine. L'Espresso e Icij su L’Espresso il 3 Ottobre 2021. I documenti dell’inchiesta internazionale dell’Icij svelano i segreti e i patrimoni dei potenti della terra. È una star del calcio argentino che guadagna 14,5 milioni di dollari all'anno giocando con il Paris-Saint-Germain. Ma non è l'unica fonte di reddito. Ce ne sono altre, che deposita in una compagnia offshore situata a Panama. I Pandora Papers rivelano che molte celebrità come lui versano gli introiti provenienti dai diritti di immagine in compagnie offshore. A giugno 2017, Di María si è dichiarato colpevole per due casi di evasione fiscale. Ha pagato una multa di oltre due milioni di euro per aver omesso di dichiarare le entrate dei suoi diritti di immagine del 2012-2013, incassi che aveva girato alla sua compagnia panamense – Sunpex Corporation Inc. – quando indossava la maglia del Real Madrid. Un portavoce del calciatore ha confermato ai giornalisti del consorzio che il calciatore ha creato la Sunpex e le ha venduto i suoi diritti di immagine nel 2009. Ma i Pandora Papers mostrano che quella offshore ha continuato a guadagnare con i diritti di immagine del calciatore, anche dopo il pagamento della multa fiscale. Ad agosto 2017, in particolare, Di María ha firmato un accordo che spostava in quella cassaforte panamense anche gli introiti delle sponsorizzazioni pagate dalla Adidas. Dall'inchiesta emerge che altri brand hanno negoziato con la compagnia offshore per pubblicizzare i loro prodotti. Per avere Di María che gira uno spot a Manchester con l'allora compagno di squadra Robin van Persie, posta materiale sui social e offre magliette autografate, l'agenzia di marketing che ha prodotto la pubblicità ha versato alla Sunpex 150 mila dollari. Il suo portavoce oggi dichiara che il calciatore ha fondato la offshore seguendo il consiglio di «un professionista» e che questo è stato consigliato anche a molti altri giocatori stranieri. Per la legge spagnola, almeno l'85 per cento dei soldi che un giocatore guadagna dal suo club deve essere tassato come reddito personale. Il resto può essere classificato come entrata dai diritti di immagine, soggetta a un'aliquota fiscale inferiore. Il governo spagnolo ha tentato di inasprire i controlli su atleti e celebrità che versano quelle entrate a compagnie situate nei paradisi fiscali. Per George Turner, direttore esecutivo del think tank TaxWatch, strategie come quelle di Di María sono un tentativo di separare il beneficio economico dalla persona che ne è responsabile. Però, dice, «il diritto di immagine non può esistere senza il giocatore».
Giorgio Gandola per "la Verità" il 24 settembre 2021. «È come se il Chievo si comprasse la Juve». In quell'estate pazza e sudata del 2005 nelle redazioni dei giornali e in Borsa è la frase più ripetuta, la metafora più piaciona, per commentare lo sbarco sulla piazza finanziaria dei «furbetti del quartierino» su un brigantino corsaro con l'obiettivo di mangiarsi in un boccone Banca Antonveneta, Banca Nazionale del Lavoro e Corriere della Sera. Una scorpacciata, una spallata al salotto buono delle grandi famiglie e dei patti occulti, il tentativo di trasformare grigi consessi cari a Enrico Cuccia in un capitalismo pop e un po' caciarone, senza distinguere i consigli d'amministrazione dalle feste in Costa Smeralda con le ragazze in guêpière e i tronisti in perizoma ingaggiati da Lele Mora. È un mondo nuovo che balla per pochi mesi e che domenica e lunedì torna protagonista in un docufilm di History Channel (pacchetto Sky) dal titolo obbligato I furbetti del quartierino, frase rubata in un'intercettazione a Stefano Ricucci, l'odontotecnico di Zagarolo, il più immaginifico della compagnia. È la storia di banchieri ambiziosi come Giampiero Fiorani detto Giampy, lodigiano, figlio di un operaio della Polenghi Lombardo, che dalla tolda della Popolare di Lodi lancia l'offensiva verso i palazzi del potere finanziario. È la storia dei cosiddetti «immobiliaristi» come lo stesso Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto i quali in un mercato capace di far raddoppiare gli investimenti danzano il ballo del mattone nel modo più spregiudicato. È anche lo spaccato di un'Italia in preda alla febbre del nuovo millennio e dell'euro, travolta da plusvalenze e giochi di Borsa, in cui anche il tornitore Brambilla sogna l'investimento vincente per raddoppiare il capitale. Tutto questo senza accorgersi di altri magheggi bancari e della tempesta perfetta all'orizzonte, con il crollo di Lehman Brothers e l'ingresso nella Valle di lacrime, che non è mai il nome di una discoteca. In spiaggia imperversano i Sugarfree con il brano Cleptomania, che già dovrebbe far capire qualcosa. E i furbetti tentano la rivoluzione, provano a stropicciare le giacche di seta delle storiche dinastie del capitalismo italiano, aiutati dal finanziere Emilio Gnutti, signore bresciano della «Razza Padana». Fiorani trasforma la Popolare di Lodi (banca di agricoltori e allevatori) in un colosso con 1.000 sportelli, delibera un aumento di capitale di 500 miliardi (in lire) e con l'aiuto degli immobiliaristi venuti dalla campagna romana prova a scalare l'Antonveneta di Padova, decima banca italiana, per contrastare l'opa lanciata dal colosso olandese dai piedi d'argilla Abn Amro, storico sponsor dell'Ajax di Amsterdam. Lo fa con metodi spicci; nell'inchiesta si parlerà di prestanome ottantenni, voti di morti in assemblea, operazioni su conti di correntisti ignari. Annuncia di lottare per difendere l'italianità e trova un alleato nell'allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio. Euroscettico, consapevole che l'Italia avrebbe dovuto assestare alcuni parametri prima di abbracciare la moneta unica, Fazio è mosso da un intento legittimo. Per lui «le banche straniere vengono a raccogliere i risparmi italiani per poi investirli in altri paesi». Il docufilm racconta tutto questo e lo fa con il supporto dei consulenti Fabrizio Massaro e Vittorio Malagutti, dà spazio al superteste dell'accusa Egidio Menclossi, ex amico di Fiorani, direttore della filiale di Lugano e primo a capire «che venivano messe in piedi strane operazioni finanziarie». I furbetti del quartierino non si risparmiano nulla, Ricucci scala banche e anche cuori da jet-set come quello di Anna Falchi, showgirl da rotocalco e calendario sexy. La conquista regalandole un mazzo di rose al giorno e un’aspirapolvere Folletto. È lui il centro del rutilante circo. Lui che, intercettato, butta lì frasi entrate nell'immaginario collettivo come «Quello sta a fa' er frocio col culo degli altri». Quando scopre che i metodi della compagnia sono sotto i riflettori della Procura di Milano minimizza: «Mica 'amo seviziato qualche ragazzino». I critici lo definiscono lanzichenecco. Lui ci rimane male: «Lanzi de che? Lo dicono a me, che vado a letto ogni sera con la Falchi?». Uno spasso, ma c'è qualcuno che non ride. È Giovanni Consorte, soprannominato il Cuccia rosso, storico tesoriere delle cooperative, colui che dovrebbe far entrare l'ex Pci negli affari che contano con la scalata di Unipol alla Bnl. La frase «Allora abbiamo una banca?», pronunciata al telefono con Piero Fassino ha fatto storia. Stessi alleati, Ricucci e Coppola. Con loro, gli eredi del partito comunista cercano la legittimazione finanziaria e Massimo D'Alema benedice l'affare con l'uscita: «Che male c'è a speculare, l'importante è che si rispettino le leggi». È proprio questo il problema. Alla fine di quell'estate sgangherata e folle la Procura di Milano sequestra le azioni, le scalate falliscono e la vulgata sussurra: «I poteri forti hanno reagito, per loro puoi toccare tutto ma non il Corriere». I furbetti del quartierino hanno lottato e perso. Volevano vincere senza omologarsi, volevano rompere gli schemi per sempre. Hanno sorpreso tutti in contropiede ma nei tempi supplementari il sistema li ha fermati. Alla fine vengono arrestati, il governatore Fazio si deve dimettere. Il resto lo fanno le sentenze: tutti condannati in media a tre anni e qualche mese. Ne escono vincitrici le grandi banche e le tartarughe del potere metropolitano. Quando la Cassazione conferma le sentenze, in alcuni impenetrabili attici di Roma e di Milano c'è chi brinda a champagne. Con gli stessi canini affilati ma con elegante sobrietà.
Niccolò Zancan per “La Stampa” il 22 settembre 2021. Si erano dimenticati tutti degli operai. Ma sono qui, invece. Dopo lo striscione con sopra scritto: «Noi siamo quelli che per vivere dobbiamo lavorare». Alessandro Tapinassi, 57 anni, conduttore di macchine a controllo numerico: «Il nostro collante è la solidarietà. Noi restiamo insieme, mentre la società ti insegna la solitudine». Gianluca Armino, 47 anni, padre di Giulia e Tomas: «Per quindici anni ho fatto il turno di notte per arrivare a 1.700 euro al mese. Ma da quando mi hanno messo al magazzino prendo 1.400. Con mia moglie abbiamo ancora quindici anni di mutuo sulla casa».
Valerio Boldrini, 49 anni, alla produzione dei semiassi del Ducato: «Non sono mai stato un estremista. Ma il modo che hanno usato per licenziarci è inaccettabile. Ci hanno presi in giro».
Luciano Morelli, 53 anni: «I proprietari della fabbrica sono scappati come dei ladri. Hanno liberato i loro uffici da un giorno all'altro. Pensano di prenderci per sfinimento, ma si sbagliano: sono proprio loro la nostra forza. Senza un accordo da qui non uscirà neanche un bullone».
È un altro giorno di presidio permanente davanti alla Gkn. Certo, è il giorno migliore da tre mesi a questa parte, dopo la sentenza del tribunale di Firenze che ha revocato la procedura di licenziamento per i 422 dipendenti dichiarandoli illegittimi. L'umore è buono. Ma nulla è cambiato. Sono sempre divisi per turni, come al lavoro. Alla cucina da campo oggi è in servizio l'operaio Andrea Agostinelli: «Frittata, piselli, arista». C'è la Sambuca del collettivo operaio a 20 euro e il portachiavi «Insorgiamo» a 3. Stanno qui. Dove la fabbrica di semiassi ex Fiat, controllata dal fondo inglese Melrose Industries, produceva utili e dava da mangiare a tutti. E adesso tutti ricordano due cose, più delle altre. Quella mail che aveva come oggetto «Chiusura dello stabilimento e interruzione delle attività produttive», per poi attaccare con queste parole: «Caro collega, abbiamo ritenuto opportuno e corretto informarti direttamente della comunicazione che la nostra Società, con rammarico». Nessun preavviso. Neanche un'avvisaglia. Avevano dato un giorno di vacanza. Serviva per poter chiudere la fabbrica e sbaraccare senza dipendenti fra i piedi. Ecco perché il secondo fatto che molti ricordano è il videomessaggio dell'amministratore delegato Andrea Ghezzi, spedito ai dipendenti per Natale 2020: «Cari colleghi, è stato un anno particolare e complicato, ma dal punto di vista aziendale possiamo ritenerci molto soddisfatti per aver saputo conciliare con successo diverse esigenze. La tutela della salute, le domande dei nostri clienti e la sostenibilità economica e finanziaria dell'azienda. Sarebbe stato difficile fare di meglio».
«Ti rendi conto?», domanda l'operaio Alessandro Tapinassi. «Qui si facevano utili, molti utili. Ma fare soldi con il lavoro non basta più. Vogliono chiudere per fare soldi con i soldi. Per una mera speculazione finanziaria. Intanto, hanno delocalizzato la produzione in Polonia e in Spagna».
All'ingresso dello stabilimento ci sono ancora gli ultimi pezzi prodotti per la Ferrari, alle 5.27 dell'ultimo turno di lavoro: era l'8 di luglio. «A nessuno di noi passava lontanamente per la testa che potessero mandarci via il giorno dopo». Un giudice ha stabilito che il modo usato dai proprietari di Gkn è inaccettabile. Dopo la sentenza, la proprietà ha convocato il primo tavolo di concertazione, alle 17 di ieri, all'Hotel Londra di Firenze. Ma tutti i sindacati e la Rsu dell'azienda di Campi Bisenzio non si sono presentati. «Non ci siamo andati perché non è il luogo adatto» dice Daniele Calosi, il segretario generale della Fiom di Firenze. «L'unico luogo deputato è la sede del ministero per lo sviluppo economico. Tocca al governo trovare un accordo per evitare i licenziamenti». Come ogni notte gli operai della Gkn vegliano sulla grande fabbrica spenta. Il sindaco di Campi Bisanzio, Emiliano Fossi, ha deviato il traffico dei camion per impedire il trasloco dei macchinari. Nessuno si fida più. La canzone che cantano al presidio dice: «Non c'è resa, non c'è rassegnazione, ma solo tanta rabbia che cresce dentro me». È la classe operaia del 2021. Neanche una parola sulla politica, ma questa politica fatta con i corpi: «Noi siamo insieme. La nostra vita è lavorare, il caffè freddo portato da casa, le feste per i nuovi figli. Siamo insieme da quando avevamo diciotto anni e adesso, che ne abbiamo cinquanta, siamo una famiglia. Noi restiamo qui». È buio. Il cancello della fabbrica si apre. «Ciao fratellino», dice l'operaio Alessandro Tapinassi. Arrivano quelli del turno di notte.
Ilario Lombardo e Paolo Baroni per "La Stampa" il 22 settembre 2021. Più incentivi e finanziamenti a chi resta e a chi investe nelle aree di crisi anziché multe e penalità per chi decide di chiudere o lasciare l'Italia. La sentenza di ieri del Tribunale di Firenze che ha annullato i licenziamenti alla Gkn porta inevitabilmente acqua al mulino di quanti sostengono che anziché spaventare le multinazionali sarebbe meglio convincerle a investire di più da noi come propone il ministro, leghista, dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti, decisamente contrario a provvedimenti straordinari e punitivi perché, «come dimostra le sentenza di ieri, da noi non c'è il Far West». Di tutt'altro parere il ministro del Lavoro Andrea Orlando, Pd, e il viceministro allo Sviluppo Alessandra Todde (5 Stelle) che da mesi lavorano ad un pacchetto di misure che ha allarmato Confindustria che da subito lo ha bollato come «anti-imprese». Dopo ieri il clamore suscitato dal caso-Gkn ha reso ancora più urgente una risposta del governo. A Palazzo Chigi c'è stata una riunione tra i tecnici dei ministeri presieduta dal consigliere economico del premier Francesco Giavazzi per decidere anche se sia meglio, come sembra, velocizzare il contenuto del decreto trasformandolo in un paio di emendamenti al decreto sulle "Crisi d'impresa" che è già all'esame del Senato. Per Mario Draghi non si tratta di sposare il modello di Giorgetti o quello di Orlando. Certamente, la convinzione del premier parte dalla stessa preoccupazione del titolare del Mise: non può passare il messaggio che le aziende vanno punite se decidono di trasferire altrove la produzione. «Vanno messe nelle condizioni di lavorare e di lavorare bene», è il ragionamento del capo del governo. Sì agli incentivi, a una logica di premialità, dunque, perché l'Italia, non si stanca di ripetere Draghi, deve diventare più attrattiva per gli investimenti, tanto più in una fase del genere, dopo il disastro della pandemia e l'occasione offerta dalla ripartenza. Detto questo, Draghi è anche convinto che le imprese non possano sfuggire alla loro «responsabilità sociale», quella che la Costituzione fissa come un dovere, nei confronti del territorio, dei lavoratori, dei cittadini in generale. Di questo equilibrio, tra la libertà del mercato e una certa etica delle aziende, Draghi parlerà dopodomani rivolto alla platea degli industriali, nel suo primo discorso da premier all'assemblea generale di Confindustria. Un discorso che suonerà come programmatico per le sfide del lavoro e l'impegno a far fiorire un tessuto imprenditoriale rivolto al futuro. Sul tavolo ieri i tecnici hanno messo l'intero ventaglio di ipotesi rimaste dopo le scremature fatte alla prima bozza messa a punto ad agosto. Per il Mise, come ha anticipato lo stesso Giorgetti a Cernobbio, servono innanzitutto misure premiali a favore delle aziende che decidono di investire in Italia nelle aree di crisi e bonus per chi decide di restare in Italia un determinato numero di anni. Il ministero del Lavoro ha invece proposto essenzialmente tre misure, decisamente addolcite rispetto a multe e «black list» prospettate in un primo momento. Si va dall'introduzione di un preavviso obbligatorio di 90 giorni prima di avviare le procedure di licenziamento per le imprese con più di 250 dipendenti al raddoppio o quanto meno un aumento significativo del «ticket licenziamenti» che serve a finanziare la disoccupazione (Naspi) sino alla possibilità di mettere in conto alle imprese che chiudono e lasciano l'Italia (magari dopo aver percepito contributi pubblici) tutti i costi di reindustrializzazione delle aree dismesse, i sostegni all'indotto e le politiche attive. Se arriverà il via libera del Mef, che come sempre deve individuare le risorse, non si esclude che già in settimana il Consiglio dei ministri possa decidere qualcosa. Né Orlando né la Todde sembrano tanto facilmente intenzionati a mollare. Ieri il ministro Pd è tornato a proporre «nuove regole per difendere il tessuto produttivo e industriale del nostro paese da operazioni di tipo speculativo». Ed ovviamente anche la Todde insiste per sfornare subito un decreto, che tra l'altro a questo punto potrebbe riguardare direttamente anche la Gkn, «in modo che tutte le grandi aziende, non in crisi, che hanno preso soldi pubblici e che intendono licenziare o decentrare le produzioni, seguano percorsi normati e ordinati nel segno della responsabilità sociale». Tutto il Movimento a partire da Conte e dal ministro dell'Agricoltura (ed ex titolare del Mise) Stefano Patuanelli la appoggiano. Dal fronte Pd «ok» al decreto sia il segretario Enrico Letta che il responsabile economico Antonio Misiani. Ma il rischio di cortocircuito Pd-5Stelle/Lega è altissimo, per questo Draghi non si sbilancia e cerca di mediare.
Gabriele De Stefani per "la Stampa" il 22 settembre 2021. Non si può chiudere una fabbrica senza discuterne con i lavoratori, né si può licenziare con una mail. Da ieri non è più solo la posizione dei sindacati, ma un punto fermo sancito da un tribunale: i giudici fiorentini hanno accolto il ricorso della Fiom Cgil, che chiedeva il blocco dei 422 licenziamenti della Gkn di Campi Bisenzio. Per i lavoratori è un punto pesante, anche simbolicamente, all'interno di una partita che però è ancora tutta da giocare: la fabbrica di semiassi per automobili per ora resta ferma e poche ore dopo la sentenza l'azienda controllata dall'inglese Melrose Industries ha fatto sapere che i programmi non cambiano e si andrà ugualmente alla chiusura. Nei piani della proprietà, insomma, non cambia il traguardo, ma solo il percorso: una vertenza tradizionale anziché una pratica liquidata con una comunicazione per posta elettronica. La Fiom aveva denunciato l'azienda dopo l'arrivo delle lettere di licenziamento lo scorso 9 luglio. Il tribunale ha riconosciuto il comportamento antisindacale per aver «impedito al sindacato stesso di interloquire, come sarebbe stato suo diritto, nella delicata fase di formazione della decisione di procedere alla cessazione totale dell'attività di impresa». Gkn era tenuta a informare il sindacato che il quadro economico «stava conducendo i vertici aziendali ad interrogarsi sul futuro dell'azienda stessa». L'8 giugno, appena un mese prima del licenziamento collettivo, l'azienda aveva comunicato ai sindacati l'intenzione di tagliare solo 29 posti, senza fare riferimento all'ipotesi di dire addio allo stabilimento fiorentino, finita all'ordine del giorno del consiglio di amministrazione convocato pochi giorni dopo. Per questo il giudice ha condannato Gkn a «revocare la lettera di apertura della procedura», e a «porre in essere le procedure di consultazione e confronto» previste sia dal contratto nazionale, sia da un accordo aziendale del luglio 2020. Secondo il giuslavorista Francesco Seghezzi, presidente di Adapt, la sentenza dimostra che «il sistema ha funzionato e ha protetto i lavoratori, punendo l'azienda che aveva violato il contratto collettivo di riferimento. Nuove regole? Si apre una fase di grandi cambiamenti, anche imprevedibili: serve più spazio per le parti sociali». L'azienda ha annunciato ricorso contro la sentenza, ma intanto ha convocato Rsu e sindacati per avviare già oggi le consultazioni imposte dal giudice: segno che le intenzioni sono di arrivare alla chiusura in fretta. Governo e sindacati proveranno a tenere viva la fabbrica: «Abbiamo vinto perché avevamo ragione - dice Francesca Re David, segretaria generale della Fiom -. Ora il presidente del Consiglio e il ministero dello Sviluppo economico facciano la loro parte: intervengano contro le delocalizzazioni e trovino una soluzione che garantisca la ripresa produttiva e l'occupazione nello stabilimento per i lavoratori di Campi Bisenzio e di tutto l'indotto». La politica è compatta nell'accogliere favorevolmente la sentenza e il leghista Giancarlo Giorgetti sottolinea che «l'Italia non è il Far West, le regole ci sono». Un modo per prendere le distanze dalla linea del collega Andrea Orlando e della vice Alessandra Todde, che rilanciano il decreto antidelocalizzazioni a cui avevano lavorato nelle settimane scorse, con un impianto che non era piaciuto al ministro dello Sviluppo economico, che lo aveva considerato troppo severo con le aziende.
G.G. per “Libero Quotidiano” il 7 settembre 2021. Chi l'avrebbe mai detto: il 3 per cento dei paperoni che popolano il mondo vive in Italia. Già, nel Paese del reddito di cittadinanza, nel Paese in cui è in buona parte la piccola media impresa a fare da pilastro all'economia. In ogni caso, il più ricco è sempre lui, Giovanni Ferrero, amministratore delegato dell'omonimo gruppo. Quella crema al sapor di nocciola che si spalma abbondante sulla fetta di pane, che suo padre ha saputo esportare in tutto il mondo insieme alle leccornie firmate Kinder-Ferrero, lo rende paperone indiscusso, con un patrimonio stimato che si aggira intorno ai 35,1 miliardi di dollari. Il suo, c'è da dire, è sempre stato un testa a testa con quel signore lungimirante che degli occhiali ha fatto la sua fortuna guadagnandosi un posto di tutto rispetto nella classifica delle persone più ricche del mondo. Si chiama Leonardo del Vecchio e con la sua creatura, Luxottica, oggi può contare su un patrimonio che si ferma - si fa per dire - a 25,8 miliardi di dollari. Almeno così emerge dal rapporto di Credit Suisse Nord America, secondo cui la ricchezza media dei paperoni è di 239 milioni di dollari a testa. Ma c'è un "però": dal momento che Giovanni Ferrero (quarantesimo nella classifica mondiale) ha spostato la sua residenza in Belgio (luogo in cui nel 1975 si era già trasferito con la famiglia, in cui ha frequentato la scuola europea prima di andare a specializzarsi in marketing negli Stati Uniti), diventando il più ricco del Paese, lo scettro di paperone d'Italia è di fatto passato nelle mani di Del Vecchio, seguito da Stefano Pessina (Alliance Boots) con un patrimonio di 9,7 miliardi di euro, da Massimiliana Landini (Menarini) con 9,1 miliardi di dollari, Giorgio Armani (7,7 miliardi) e Silvio Berlusconi (7,6 miliardi). E mentre i già milionari non hanno perso un solo centesimo durante la pandemia, va detto che i ricchi sono aumentati in tutto il mondo. Secondo i dati del Global Wealth Report, infatti, ne sono stati registrati 5,2 milioni in più, arrivando ad essere 56,1 milioni in tutto il globo. I più fortunati si trovano nel Nord America, con 12.400 miliardi di dollari contro i 4.200 miliardi custoditi in Europa. E, per non farsi mancare nulla, secondo Credit Suisse nei prossimi cinque anni la loro ricchezza aumenterà del 39%.
L'oro delle spiagge arricchisce l'investitore vip. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 27 luglio 2021. Sulla scia del Twiga di Briatore, lettino e ombrellone restano il magico tandem per guadagnare. La pandemia non ha spaventato Volpi, Fiorani, Marcegaglia, Rocco Forte e altri. Anche perché lo Stato picchia sui piccoli chioschi ma affitta ai grandi per un pugno di euro. E in Commissione a Bruxelles si riparla di multare l'Italia. La stagione estiva si avvia verso il tutto esaurito dopo mesi da incubo. Ma su spiagge e lidi incombe una minaccia meno nota della variante Delta. È una seconda procedura di infrazione da parte dell'Ue contro l'Italia per avere prorogato le concessioni sugli stabilimenti balneari con il decreto emergenziale del governo giallo-rosa dell'estate scorsa, quando il premier Giuseppe Conte ha portato da 365 a 2500 euro il canone minimo per sfruttare gli spazi in concessione dal Demanio. In compenso, ha prorogato le licenze che, secondo l'Europa, vanno messe a gara. La prima procedura aperta per violazione della direttiva Bolkestein sulla concorrenza era stata chiusa con promessa di ravvedimento prima della pandemia. La seconda rischia di essere molto più pesante e non basteranno a evitarla varie pronunce dell'Antitrust italiana contro i comuni che hanno prorogato le licenze, oltre a una sentenza del Tar che stabilisce la prevalenza della norma Ue contro quella nazionale. Il prossimo 10 ottobre, a ombrelloni chiusi, la questione sarà affrontata in seduta plenaria dal Consiglio di Stato. Nel frattempo, i concessionari di spiagge con annessi bar e ristoranti, parcheggi e noleggi, avranno portato a casa i frutti di una stagione che già l'anno scorso si è salvata grazie al turismo autarchico. La cancellazione dal canone dei valori Omi, i parametri immobiliari dell'agenzia delle Entrate che incidevano sugli impianti non rimovibili degli stabilimenti, ha provocato un introito minore per le casse pubbliche e ha ulteriormente avvantaggiato i concessionari più strutturati contro i gestori di chioschetti in versione popolare. I risultati di questa sperequazione nella sperequazione si vedranno soltanto alla fine del 2021. Ma anche i dati dell'Agenzia del demanio relativi al 2020 sono impressionanti.
I RE DELLA RIVIERA. Il simbolo dei balneari di alto bordo rimane lui, il geometra Flavio Briatore da Verzuolo (Cuneo). A luglio 2020, mentre la pandemia era in ferie, Briatore chiudeva un'epoca ribattezzando come Twiga la storica società Mammamia all'origine delle fortune dello stabilimento di Marina di Pietrasanta in Versilia. Fuori i vecchi soci Paolo Brosio e Marcello Lippi, dentro i gemelli Soldano e Dimitri Kunz Asburgo di Lorena, nobili immobiliaristi sanmarinesi di nascita e milanesi di adozione forniti di dieci cognomi in totale. Insieme alla sorella Anastasia, i fratelli sono entrati nella defunta Mammamia già nel 2018 in compagnia della lussemburghese Billionaire Lifestyle di Briatore e dell'altra madre fondatrice rimasta in squadra, Daniela Garnero Santanché, compagna di Dimitri. I passaggi di quote sono avvenuti con bonifici a sei zeri perché la concessione demaniale, pari a 16809 euro annui contro un fatturato 2019 di 4,4 milioni di euro e un utile di 60 mila, non impedisce la subconcessione a prezzi di mercato. A maggior ragione, sono libere le operazioni sul capitale delle società di gestione, molto più in linea con l'effettivo valore del business. Del resto, il ministero dell'Economia incassa dai balneari un centinaio di milioni all'anno. Se i canoni raddoppiassero, si parlerebbe sempre di cifre irrilevanti nel bilancio dello Stato. I comuni, dal canto loro, sono titolari delle concessioni ma non prendono un euro e hanno tutto l'interesse a chiudere un occhio soprattutto perché la classe politica nelle aree a motore economico turistico-balneare spesso coincide con gli imprenditori del settore o è sensibile agli interventi capital intensive. In questo modo, si è creato un groviglio di interessi che hanno tutto l'interesse a non entrare in conflitto. E i pesci grossi si avvicinano sempre più a riva, anche quando sono abituati a occuparsi di petrolio e banche. Se poi l'avventura nel credito va maluccio, sedia e lettino sono valori solidi in una regione come la Liguria dove turismo di massa e di élite sono spesso divisi da pochi chilometri. La coppia formata da Gabriele Volpi (ex Carige) e Gianpiero Fiorani, protagonista di un'altra epopea affaristico-giudiziaria, quella della Popolare di Lodi, è entrata nel business delle spiagge a maggio con i Bagni Rosa di Santa Margherita. Il vecchio marchio è andato al Ten beach club che attraverso una subholding (Ten food & beverage), in perdita fino al 2019 per 5 milioni di euro con 16 milioni di ricavi, fa capo alla White fairy di Volpi e alla Orlean ltd, presieduta da Volpi con Fiorani ad. Gli ex banchieri, che a marzo hanno anche rilevato la catena California bakery, puntano forte sulle spiagge del Levante con altri due stabilimenti: La Valletta e il Punta Sant'Anna a Recco, entrambi dotati di ristorante. Secondo gli atti societari, per gli oltre trecento dipendenti del gruppo è stata utilizzata la cassa Covid. Frequentatore stabile del Billionaire in Costa Smeralda, Fiorani non ha dimenticato gli anni ruggenti sull'isola e ha guidato l'appassionato di sport Volpi ad acquistare l'Arzachena attraverso l'olandese Social sport stichting. Il presidente del club di serie D è stato fino all'anno scorso Maurizio Felugo, ex centrovasca della Pro Recco di Volpi e del Settebello, riconvertito in manager. Il magnate petrolifero con base in Nigeria, grande sostenitore del presidente regionale Giovanni Toti, ha appena ceduto lo Spezia alla famiglia statunitense Platek. Si guadagna meglio con il posto sul bagnasciuga che con la serie A. Sempre a Santa Margherita Ligure a maggio sono passati di mano i Bagni Fiore di Gianluigi e Margherita Campodonico, entrambi oltre la soglia degli ottanta anni. Il canone demaniale 2020 è stato di 4721 euro. Gli oltre duemila metri quadrati dello stabilimento, con una parte in calcestruzzo e un pennello a mare, sono stati venduti per 5,76 milioni di euro sulla base di una concessione comunale risalente al 2004 (20 mila euro complessivi per sei anni) che di rinnovo in rinnovo è arrivata al 2033. Il compratore è il gruppo del food Langosteria holding di Enrico Buonocore che, quattro giorni dopo l'accordo con i Campodonico, ha girato il ramo d'azienda sdraio-ombrelloni all'hotel Splendido di Portofino, gestito dalla catena di alberghi di lusso Belmond. Marcegaglia è un altro grande gruppo entrato in forze nel settore, con resort a Pugnochiuso nel Gargano e nella laguna di Venezia.
BENGODI SARDO. Secondo il Demanio, circa il 90 per cento delle concessioni dei comuni di Arzachena, di Olbia, di Palau, dove si trovano gli stabilimenti fra i più lussuosi e cari dell'isola, fino al 2020 ha pagato il canone minimo di 365 euro. È il caso del Dolphin di Liscia Ruja, una delle spiagge più belle del mondo in prossimità di Porto Cervo. Fino al 2020, quando il governo ha aumentato il canone minimo che spesso non è stato versato aprendo la strada a centinaia di contenziosi, solo diciassette concessionari su 294 presenti nel territorio dei tre comuni avevano un canone superiore a mille euro e solo un concessionario pagava una cifra superiore a tremila euro all'anno. Al di fuori della Costa Smeralda, ex regno di Karim Aga Khan passato agli emiri qatarioti della famiglia Al-Thani, pagano concessioni popolari gli stabilimenti White beach club (Golfo Aranci, 1855 euro) e il Delfino club La Plage di Villasimius (2405 euro) che, nell'ultimo anno prima del Covid-19, sfiorava un milione di ricavi e 200 mila euro di profitti. Intorno al milione di incassi, c'è lo stabilimento di Porto Giunco, sempre nella località compresa nella nuova provincia Sud Sardegna. Nei documenti societari i fratelli Murgia, gestori del terreno con un canone di 4386 euro, denunciano anni difficili, fra alluvioni, invasione delle alghe, contributi regionali in ritardo e un furto a ottobre del 2019. Il pezzo pregiato dell'area è il Forte Village, in mano all'imprenditore inglese di origini ciociare Rocco Forte finanziato dal Fondo strategico della Cdp e dalla Kuwait investment authority (Kia). Alla fine dell'estate scorsa la Cdp, allora gestita da Fabrizio Palermo, ha lanciato un fondo da 2 miliardi di euro per sostenere gli hotel di prestigio messi in difficoltà dal Covid-19. Una manovra che ha fatto storcere il naso ai piccoli imprenditori balneari che già si sentono discriminati dalle nuove norme sull'Omi. Peraltro il canone del Forte Village, che si estende su un'area di 47 ettari con 220 mila metri quadrati di soli giardini tropicali, è sotto la soglia di povertà: 5551 euro e 14 centesimi all'anno.
CONDUZIONE FAMILIARE. Fra Capri e Positano, dove si fa turismo di alto livello da molto prima che in Sardegna, le famiglie di antica tradizione mantengono il controllo sugli stabilimenti di maggiore prestigio. L'Incanto di Positano, una compagnia ad azionariato diffuso con società alberghiera a parte, paga la concessione più alta (poco più di diecimila euro). Arienzo di Giuseppe Cinque è a quota 2798 euro mentre sull'isola gli Internazionali dei fratelli Albanese (4750 euro con 827 mila euro di ricavi), i Bagni Tiberio di Carmine De Martino (5196 euro e venti dipendenti) e Canzone del mare della famiglia Albanese-Iacono (3196 euro di concessione per oltre un milione di fatturato) tengono botta nonostante le difficoltà della pandemia. L'impresa a conduzione familiare è caratteristica anche della costa laziale fino alla bassa Toscana. A Gaeta l'Eden dei fratelli Vellozzi ha ricavi 2019 per 835 mila euro, profitti per 233 mila euro e un canone di 7259 euro, poco meno del doppio rispetto al Bahia blanca della famiglia Di Ciaccio. Il Villa Tiberio di Sperlonga, controllato da Artur Kollcaku, versa 2608,75 euro. La Spiaggia di Sabaudia dei fratelli Carbonelli paga 4439, mille in più della Capannina di Anzio, mentre è poco sopra i quattromila il Singita di Fregene, che fa parte di una piccola conglomerata con filiali a Marina di Ravenna e a Malta. Il Tridente di Porto Ercole, nel parco dell'Argentario, è stato riorganizzato l'anno scorso in una srl con quattro quote paritetiche presieduta da Fabrizio Fantaccini, ristoratore a Orbetello. Nella società figurano anche Andrea Formica, consigliere della Piaggio e docente alla Sda della Bocconi, e Daniele Avvento, titolare della Capannuccia di Ansedonia, finita in cronaca per una festa in spiaggia con il dj positivo al Covid-19 a ridosso dello scorso Ferragosto. Investimenti in rialzo e canoni in ribasso nell'area del Salento, la zona di turismo marittimo che si è più sviluppata negli ultimi anni. Le Cinque vele, della famiglia Pirelli-Stivala a Marina di Pescoluse, occupa un'aerea di 4 ettari con 1500 mq di concessione sul litorale. Oltre ai servizi spiaggia, è fornita di zona wellness, bar, servizi ristorazione e parcheggio. I ricavi si aggirano intorno al milione di euro per un canone d'occasione: 1804 euro all'anno. Fra le strutture più lussuose c'è Borgo Egnazia a Fasano. Lo gestisce Aldo Melpignano, figlio del banchiere italo-svizzero Sergio, morto nel 2015 dopo una carriera nel private banking fra Italia e Svizzera. L'eredità dell'ex presidente della Sg private banking di Ginevra, coinvolto negli scandali finanziari della seconda Tangentopoli, include un centro benessere, un campo da golf e, oltre alle stanze, una trentina di ville e fattura quasi 2 milioni di euro per un canone di 4546 euro. E la Sicilia? Sul territorio italiano che ha più chilometri di costa (oltre 1600) la banca dati del Demanio è muta. Fra le tre regioni autonome con sbocco a mare l'Isola è l'unica a gestire in proprio le concessioni balneari.
Da focus.it il 16 giugno 2021. I soldi danno la felicità? La domanda è antica e aveva già avuto una risposta: danno la felicità a patto che si utilizzino per avere tempo libero. Oggi un nuovo studio condotto dal Dipartimento di Scienze Psicologiche della Purdue University (Usa) racconta qualcosa in più: in parole poverissime, i soldi fanno la felicità a patto che non siano troppi. Superata una certa soglia, pare, la felicità diminuisce. Lo studio pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour individua la soglia critica: nella media, il reddito ideale per essere globalmente soddisfatti è 95.000 dollari all'anno (circa 80.000 euro, al cambio di marzo 2018), al netto di tasse e gabelle, è naturale. Per stare emotivamente sereni basta anche qualcosa in meno: 48-60.000 euro l'anno, gli uni per gli altri, perché per le famiglie con bambini si stima che l'asticella sia un po' più alta. Comunque, la forbice cambia in base al Paese: il reddito ideale più alto è atteso in Australia e in Nuova Zelanda, quello più basso in America Latina e nei Caraibi. Per definire i massimali i ricercatori si sono serviti dei dati raccolti da una società di consulenza americana, la World Gallup World, che ha mappato oltre 1,7 milioni di persone dai 15 anni in su, di 164 Paesi. Lo studio ha anche provato a spiegare perché una volta raggiunta la soglia limite sarebbe bene non superarla. I soldi - spiegano i ricercatori - rendono felici se soddisfano necessità primarie, come avere una casa, fare fronte alle spese, condurre una vita dignitosa. Soddisfatte queste, il rischio è di entrare in una spirale di bisogni indotti e superflui che non favoriscono la serenità. Poco conta se si è uomo o donna: secondo gli studiosi questa differenza è marginale. Piuttosto, incide il grado di istruzione: chi ha studiato di più ha una soddisfazione maggiore se raggiunge standard economici elevati, probabilmente perché è sottoposto a una pressione maggiore confrontandosi con chi è dello stesso ceto sociale.
Maria Cristina Fraddosio per “il Fatto quotidiano” il 29 agosto 2021. La gara a "chi ce l'ha più lungo " è intramontabile. I ricchi tengono il metro sempre a portata di mano e guai ad accorgersi che il vicino è più prestante. Scatta la corsa al ritocchino, che negli anni diventa ritoccone e così via in una frenetica rincorsa al centimetro che fa la differenza. È questo il motivo per cui si è passati dai 60 metri di un paio di decenni fa ai 140 attuali. Si parla chiaramente di yacht. Il lusso richiede come conditio sine qua non la lunghezza, che non vuol dire rinunciare ai dettagli. Un'antologia delle imbarcazioni più chic, appartenute a magnati, principi e star internazionali, è stata redatta dalla casa editrice newyorchese, anch' essa di libri di lusso, Assouline e si intitola Yachts: The Impossible Collection. La rassegna parte dal 1851 e arriva ai megayacht high-tech dei giorni nostri. Il libro-che in realtàè un'opera d'arte - è rilegato a mano e contenuto in un cofanetto di lino a conchiglia in edizione limitata. Costo: 820 euro, con guanti bianchi e borsa di tela in omaggio. Per parlare dei ricchi ci vuole classe e, infatti, a curare la pubblicazione è la giornalista, "redattrice di lusso", Miriam Cain. "Dalla leggendaria chiatta di lusso di Cleopatra al 'Ro yal Yacht Britannia' di Sua Maestà, dalle eleganti navi dell'età del jazz come la 'Nahlin', un tempo noleggiata da Re Edoardo VIII e Wallis Simpson, alla favolosa famiglia reale di Hollywood degli anni '60 invitata a bordo di 'Christina O' di Aristotele Onassis, la scena nautica ha ha sempre attratto le celebrità", si legge nell'antologia. Attualmente a livello globale esistono tremila imbarcazioni, che rientrano nella categoria del top dei top. Spaziano dal design classico con silhouette senza tempo a linee rivoluzionarie. L'imperativo degli ultimi anni che le accomuna è renderle sempre più sostenibili e i paperon de' paperoni -chefacciano sul serio o solo di facciata - sembrerebbero più sensibili del passato alla necessità di solLa lu è imp si è p da 60 a 140 d ece n care gli oceani senza inquinarli. Difficile da farsi dovendo muovere delle creature mastodontiche come le loro, eppure - assicurano - non impossibile. Senza rinunciare, però, a hotel, piscina, spa, bar, palestra, campo da tennis, giochi acquatici e aria condizionata. Restaurare gli yacht è uno dei passatempo preferiti di chi può permetterselo. Il principe Ranieri di Monaco trasformò una nave militare della Seconda guerra mondiale nel regalo di nozze per la sua Grace. E Onassis fece di un'antica nave canadese il 'Christina O' di 99 metri.
Un trio di italiani inquisiti in Calabria incassa milioni in Florida con le case degli sfrattati. Un’inchiesta giornalistica congiunta L’Espresso - Miami Herald svela i massicci investimenti in Florida di personaggi legati alla ‘ndrangheta e a un ex terrorista dell’Ira. Al centro del caso, una rete di società offshore rivelate dai documenti inediti del consorzio Icij. Paolo Biondani, Leo Sisti (l’Espresso), Ben Wieder, Shirso Dasgupta (Miami Herald) su L'Espresso il 7 Dicembre 2021. Dagli investimenti turistici in Calabria alle speculazioni immobiliari in Florida. Dal «Gioiello del mare», un mega resort sulla costa jonica, al grande business delle case di Miami. Affari milionari trattati da anonime società offshore, che nascondono interessi italiani. Sullo sfondo, l'ombra della ndrangheta. Nei primi mesi del 2013 in Calabria le operazioni Black Money e Metropolis colpiscono clan potentissimi, i Mancuso di Limbadi e i Morabito di Africo, con indagini a tappeto e arresti clamorosi. Ci sono nomi già noti alle cronache di mafia, molti con curriculum di grande spessore criminale. Ma anche colletti bianchi, professionisti, avvocati, uomini d’affari internazionali, incensurati e insospettabili. Antonio Velardo non è calabrese, è nato a Napoli nel 1977 ed è un giramondo. Si qualifica imprenditore immobiliare, anzi secondo il suo linguaggio "property developer”, e vanta tra l’altro un brevetto di pilota d'aereo ottenuto a Daytona Beach, negli Stati Uniti, e una laurea in ingegneria civile conseguita in un’università inglese. Controlla una costellazione di società in Italia e all’estero, sparse tra Gran Bretagna, Irlanda, Tunisia, Cipro, Santo Domingo e, appunto, Florida. In quelle due inchieste si trova coinvolto suo malgrado, fianco a fianco, con boss della ‘ndrangheta di prima grandezza, con imputazioni pesanti: in Black Money è accusato di associazione mafiosa ed evasione fiscale. Ai processi però l’accusa di mafia cade. Nel giudizio di primo grado, nel 2017, Velardo viene condannato a quattro anni solo per associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. In appello, nel 2019, anche questa accusa viene cancellata dalla prescrizione. Nel processo Metropolis, invece, viene assolto già in primo grado. L'idea di puntare sul «Gioiello del mare», nel comune calabrese di Brancaleone, nasce nel 2007. Velardo ci tiene, all’estero ha già piazzato immobili per un'azienda spagnola, quindi vuole rientrare in Italia. Guarda alla Calabria e viene attratto dall'idea di sfondare anche lì. Quel progetto immobiliare, grandioso, avrebbe dovuto fruttare 60 milioni di euro di ricavi netti. Prevedeva la costruzione, tra il 2006 e il 2013, di ben 422 appartamenti, realizzati da una società di un certo Antonio Cuppari, considerato vicino alla cosca dei Morabito, che in seguito verrà condannato a più di 11 anni di reclusione. Tutt’intorno, campi da golf, centri commerciali, hotel, impianti sportivi, piscine e aree giochi per bambini. Di fatto, una cementificazione selvaggia di un bellissimo territorio, molto contestata dalle organizzazioni ambientaliste. Nel marzo 2007 ecco dunque entrare in scena Velardo: firma con Cuppari un accordo di cinque anni. Sarà lui a promuovere la vendita di quegli alloggi a clienti inglesi e russi, insieme a un socio estero, Henry James Fitzsimons, che è già suo partner nella società irlandese Vfi Overseas di Dublino. Nella filiera commerciale entrano anche due calabresi doc di Melito Porto Salvo, Francesco L’Abbate, avvocato, e Domenico Musarella, commercialista. Tutti e due poi invischiati nell’inchiesta Black Money, con accuse di associazione per delinquere con finalità di riciclaggio ed evasione fiscale. In tribunale vengono condannati a meno di due anni, ridotti in appello a sei mesi, ma sono tuttora in attesa di un nuovo processo di secondo grado, ordinato dalla Cassazione, ma rinviato per il covid. Velardo, L’Abbate e Musarella formano un sodalizio d'affari che si muove non soltanto in Calabria, ma anche al di là dall’Oceano. Soprattutto in Florida, prima e durante quei processi calabresi. Le loro iniziative hanno lasciato tracce nei Pandora Papers, un'inchiesta mondiale coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), rappresentato in Italia dall'Espresso. Un lavoro giornalistico fondato su 11,9 milioni di documenti riservati che svelano come i ricchi e i potenti spostano ricchezze nei paradisi fiscali con l'aiuto di società offshore, create da 14 studi internazionali specializzati. Le carte mostrano che L’Abbate e Musarella sono beneficiari di compagnie offshore registrate nelle British Virgin Islands (BVI), come la Usa Tax Lien Investments e la Accent Wealth Ltd. Quest'ultima è stata costituita nell’agosto 2012 insieme a Jacopo Iasiello, trasferitosi da Napoli a Miami per lavorare come agente immobiliare, in collegamento con uno studio legale di Milano. E proprio a lui Velardo, senza sapere di essere intercettato, si è rivolto ai primi di marzo del 2011, chiedendo di procurargli una catenina d’oro per il battesimo del figlio di Antonio Maccarone, genero del boss calabrese Pantaleone Mancuso, detto Vetrinetta, nonché un Rolex per Maccarone stesso. Doveva fare bella figura, era lui il «padrino» di battesimo di quel bambino. Al telefono spiegava che si trattava di «un'operazione politica»: Maccarone era «una persona molto importante» E si raccomandava che l'orologio fosse «originale, certificato con la garanzia», perché lui cercava «protezione».
Gli affari con le case pignorate in Florida
Perché Velardo, L’Abbate, Musarella e Iasiello abbiano individuato nella Florida un’opportunità per fare soldi, è presto detto. La crisi dei mutui, quella dei famosi sub-prime del 2007-2008, culminata con il fallimento della banca americana Lehman Brothers e la successiva recessione mondiale, aveva provocato un'ondata di pignoramenti e sfratti. Milioni di persone, che si erano illuse di poter comperare a debito delle proprietà negli Stati Uniti, hanno perso tutto. Esplosa la crisi, sul mercato si è creata una grande abbondanza di appartamenti, ormai in svendita a valori stracciati. E il quartetto di imprenditori italiani ne ha approfittato, comperando in Florida più di 130 proprietà a un prezzo medio di 120 mila dollari, investendo, in totale, più di 15 milioni, secondo i risultati di una ricerca fatta dai giornalisti del Miami Herald, che hanno collaborato con L'Espresso. Transazioni molto spesso in contanti, concluse in tempi rapidissimi. In particolare tra il 2012 e il 2017, quindi anche durante le indagini italiane Black Money e Metropolis, le compagnie estere legate a Velardo hanno fatto incetta di almeno 70 case, molte delle quali situate nella contea di Miami-Dade, per un costo medio 85 mila dollari l’una. Acquisti realizzati tramite società denominate Apax Investments (in seguito ribattezzata American Wise Investments), Jafi Holding Corp e Dgi Real Estate Investment. Hanno speso più di 7 milioni di dollari, per poi rivenderle quasi tutte, spesso in pochi giorni, per 12,5 milioni. Elevato il margine di guadagno: 73 per cento. Una serie di domande scritte sottoposte a Velardo dall'Espresso e dal Miami Herald riguardano, in particolare, l'ingresso di un nuovo amministratore nelle società gemmate da Apax America: Antonio Naddeo. Perché cambiare manager? Erano periodi caldi per lui in Calabria. Forse temeva incriminazioni in Italia? «No», è la risposta scritta di Velardo, che precisa: «Ritenevo non corretto che io fossi l'unico manager delle mie società negli Stati Uniti». Ha avuto problemi nel continuare le acquisizioni immobiliari dopo lo scoppio dello scandalo giudiziario in Italia? «No». E così l’avventura immobiliare prosegue. Un esempio: l'8 agosto 2013 la Apax America 01, sotto la guida di Naddeo, compra un appartamento con due stanze da letto a West Little River, nelle vicinanze di Miami, per 74 mila dollari, e dopo appena cinque giorni lo cede alla società Lodgings Florida Corp con un ricarico del 62 per cento. Nove giorni dopo, Apax America rileva, a un isolato di distanza, una casa con quattro camere per 90 mila dollari rivendendola, dopo appena tre giorni, per 180 mila, esattamente il doppio. Con tutte le sue iniziative finanziarie, Velardo dispone di somme consistenti. Solo dall'avventura del «Gioiello del mare» la sua società Vfi Overseas avrebbe incassato più di 11 milioni. Per l'esattezza, secondo i documenti giudiziari, 11.189.645 euro.
Lo yacht ai Caraibi, la base ad Hammamet e il fisco italiano
Dove si trovava Antonio Velardo quando, tra febbraio e marzo del 2013, sono scattati i blitz per le inchieste antimafia Black Money e Metropolis? La sua risposta è sibillina: «A quell'epoca ero in giro, stavo facendo affari all'estero». In effetti, stando ai documenti, nell'ultima settimana di aprile veleggiava con il suo yacht «La Aventura» nelle acque dei Caraibi, in particolare nel Belize. Qui, a un controllo doganale, è stato fermato per alcune ore: si era dimenticato di dichiarare il possesso di più di 20 mila dollari, per cui è stato preso e scortato fuori dalle acque territoriali. Le carte giudiziarie raccontano però anche un’altra storia di agganci esteri. Anche se ufficialmente residente a Pompei, Velardo aveva fissato la sua base strategica in Tunisia, in un residence di Yasmine Hammamet. Una base fittizia, secondo il fisco italiano, creata per eludere le tasse. Qui Velardo sembra trasferire le sue attività fin dal maggio 2010. Ma il suo telefono è intercettato. E nei mesi successivi gli inquirenti registrano il suo commercialista mentre gli suggerisce di fermarsi in Tunisia per almeno 181 giorni, come richiede la legge, per poter essere considerato residente all’estero. L'imprenditore napoletano se la passa bene e scherza con i suoi interlocutori: «Ti invito alla mia villa, qua ti faccio impazzire». Sospetta di essere sotto inchiesta, ma sembra convinto di poter sfuggire alla giustizia italiana, tanto da insultare «quel pezzente del generale della Guardia di Finanza» che non potrà provare nulla «perché io ora sono tunisino». Ma il conteggio dei giorni di effettiva permanenza in Tunisia non è a suo vantaggio: sono troppo pochi. E in Italia doveva tornarci per forza, per seguire i suoi affari sul posto, al volante della sua Ferrari 612 Scaglietti. Dichiarandosi tunisino, come scrivono i giudici, Velardo non presentava alcuna dichiarazione dei redditi in Italia. In Irlanda invece ha percepito, nel 2009, almeno due milioni di euro: il 50 per cento degli utili distribuiti dalla società Vfi Overseas di Dublino, la stessa quota dell'altro socio, Henry James Fitzsimons. Le indagini fiscali italiane svelano anche altri redditi riscossi all'estero. Alla fine, Velardo aderisce allo scudo fiscale, il vantaggiosissimo condono fiscale del 2009-2010, che permetteva agli evasori di mettersi in regola versando una cifra forfettaria del 5 per cento del patrimonio detenuto all'estero. Quanto ha sborsato Velardo? A questa domanda risponde così: «Quando la legge è stata approvata, ero residente in Italia. Non avevo ancora comunicato il cambiamento di residenza. Per questo il mio avvocato mi ha consigliato di pagare quella tariffa. Ma non ricordo la cifra. Dovrebbe essere contenuta nei file del processo». Secondo i documenti recuperati dall’Espresso, ha condonato poco meno di quattro milioni, esattamente 3.589.090,00 euro. Somma da cui detrarre quel 5 per cento.
Velardo e l’ombra della ‘ndrangheta
L'Espresso e Miami Herald hanno domandato ad Antonio Velardo di chiarire i suoi rapporti con personaggi legati alla ‘ ndrangheta. La sua risposta è stata netta: «Non ho nessun rapporto, né l'ho mai avuto in passato». E ha chiesto ai giornalisti di «non ripescare accuse non supportate»: «Vi chiedo rispettosamente di chiarire che entrambi i processi si sono risolti a mio favore». L’imprenditore non ha risposto a interrogativi più specifici, ad esempio sul perché fosse stato proposto come padrino di battesimo di un figlio del genero di Pantaleone Mancuso. E ha preferito non commentare le sue stesse intercettazioni, in cui manifestava quanto fosse difficile fare affari in certe zone: «Mi hanno minacciato di morte… Mi hanno detto di non venire in Calabria, altrimenti mi ammazzano… Mi devono dare dei soldi e non vogliono pagare... Ma chi me l'ha fatto di venire in Calabria?». Quelle minacce provenivano dal «clan di Africo», un’area calabrese dominata dai Morabito Una cosca molto potente. E pronta a tutto. Perfino, come hanno documentato altre inchieste del passato, a rifornire di armi l'Ira, l’organizzazione terroristica irlandese. Forse è solo una coincidenza, ma anche il partner di Velardo, Henry James Fitzsimons, è un ex terrorista dell’Ira: era stato condannato a 15 anni per attentati dinamitardi. È ancora in contatto con lui? «Non l’ho più visto dal 2010», assicura Verlardo. La sentenza del processo Metropolis è del 2016: i giudici calabresi hanno assolto entrambi. Sul problema generale delle infiltrazioni in Florida della ‘ndrangheta L’Espresso ha sentito uno dei massimi esperti in materia, Antonio Nicaso, autore di molti libri insieme all’attuale procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Lo studioso conferma che l’allarme è altissimo: «La ‘ndrangheta è presente negli Stati Uniti fin dal 1880. I primi boss arrivarono da Podargoni, nel cuore dell’Aspromonte, e si trasferirono a New York. Le principali zone di influenza oggi sono lo Stato di New York, quello del New Jersey e parte della costa della Florida, territori che ben si prestano, oltre che al traffico di droga, anche al riciclaggio e al reimpiego di capitali in attività imprenditoriali e immobiliari. A Tampa sono stati anche individuati server riconducibili a esponenti della ‘ndrangheta, utilizzati per gestire giochi online illegali». Proprio per queste ragioni il livello di attenzione è molto alto. Il pericolo è stato segnalato anche da un organismo del Tesoro americano, il Geographical Targeting Orders (Gto), che dal primo novembre ha rinnovato un suo provvedimento speciale: monitorare gli acquisti di proprietà immobiliari al di sopra della soglia dei 300 mila dollari. Una preoccupazione sorta dalla necessità di identificare, nelle dodici più importanti città degli Stati Uniti, gli effettivi beneficiari che si nascondono al riparo di società di comodo. Nonostante queste misure, però, gli affari a Miami del quartetto calabrese-napoletano non ha fatto scattare alcuna segnalazione da parte delle autorità americane. Risolti tutti i problemi con la giustizia italiana, oggi Velardo si è lasciato alle spalle le vicissitudini del «Gioiello del mare»: il mega resort è stato confiscato dallo Stato con un provvedimento antimafia che ha colpito il suo costruttore, Antonio Cuppari, per un valore di 217 milioni di
Usate, quasi supercar: un sogno a pochi euro. Federico Pesce su La Repubblica il 27 maggio 2021. Sul web offerte di ammiraglie "con qualche anno" a prezzi da citycar. Ecco quali modelli cercare e le occasioni da non perdere. “Facciamo 4.500?", “Ve l’ho già detto, 5.000 euro è l’ultimo prezzo”. E sia. Staccate l’assegno, afferrate le chiavi e uscite dall’ufficio. A questo punto chiunque si aspetterebbe che ad attendervi fuori ci sia una Panda. O una Opel Corsa. Insomma un’auto di quelle nomali. E invece c’ è una Jaguar XJ nera anno 2005 con interni in pelle beige e radica ovunque, 4200 di cilindrata, 8 cilindri, 280 Cv, navigatore, climatizzatore, cambio automatico. Una macchina meravigliosa, lunga più di 5 metri, in grado di portare da Agrigento ad Aosta cinque persone in maniera principesca. Salite a bordo e non credete ai vostri occhi, accendete il motore e sentite gli otto cilindri che borbottano. Mettete la D e via, pronti a svergognare qualche malcapitato al primo semaforo. Ma è mai possibile? Una Jaguar XJ, la regina delle berline top di gamma, a soli 5.000 euro? Dove sta la fregatura? Nessuna fregatura e nessun trucco, solo una impietosa legge di mercato: l’auto ha 16 anni, consuma parecchio e costa mantenerla fra super bollo e manutenzione. E’ un sogno a pochi euro, ma questo sogno potrebbe anche trasformarsi in un incubo nel caso iniziasse a darvi problemi. Si tratta solo di sentirsela di rischiare o meno. Sul web di auto bellissime che ormai hanno una certa età ce ne sono a bizzeffe. Tanto per restare in tema Jaguar, una S-Type del 2005 grigia metallizzata, 3000 V6 diesel con 150.000 km sta intorno ai 1.900 euro. Una Mercedes CLK del 2007, anch’essa 3000 cc a 6 cilindri diesel con 230.000 km, 4000 euro tondi tondi. Si arriva a 7.700 euro (trattabili) per una Mercedes CL 500 del 2004, con 306 Cv a benzina e 200.000 km sul contachilometri. C’è da sbizzarrirsi: una Volkswagen Passat Variant del 2007 a poco più di 3.000 euro, in perfette condizioni. Una Bmw 630 del 2005, a 9.000 euro o una Toyota RAV4 del 2006, con 175.000 km, a 4.900 euro. A voi la scelta insomma...Anche le diverse zone d’Italia sono importanti. Roma e Milano sono le città dove i prezzi sono più alti, mentre in genere la provincia è più a buon mercato. Certo, c’è l’inconveniente di dover andare a provare l’auto magari a molti chilometri di distanza, con il rischio di rimanere delusi e aver fatto un viaggio a vuoto, ma in alcuni casi vale la pena rischiare. Non pensiate però di trovare la stessa offerta su marchi come Porsche, Ferrari, Aston Martin, Lamborghini e soci. Per costoro questa regola non vale, perché siamo sul terreno delle cosiddette dream-car, quelle auto davvero da sogno il cui prezzo è ben più salato. Per una Porsche Targa del 2003 con 78.000 km si sfiorano i 50mila euro, mentre per una Ferrari 360 Spider del 2004 si arriva tranquillamente a 100.000 euro. Federico Pesce
Dagotraduzione dal DailyMail il 28 maggio 2021. Rolls Royce ha presentato oggi la nuova auto più costosa al mondo: è la Boat Tail convertibile e costa 20 milioni di sterline, 23 milioni di euro. Il grand tourer convertibile è il primo di un trio esclusivo di limousine nautiche altamente personalizzate. A commissionarla, una coppia di facoltosi amanti per le cene all’aperto, e per questo l’auto ospita un incredibile ponte posteriore che si trasforma in un set per la cena con tanto di ombrellone. In dotazione insieme all’auto due orologi personalizzati, uno per lui e uno per lei, da inserire nel cruscotto per sincronizzarli al motore. Per costruire l’auto sono stati necessari quattro anni di «incredibile attenzione ai dettagli» per soddisfare i clienti che desideravano un’auto unica «per segnare il senso dell’occasione». Il prezzo dell’auto è il più alto al mondo: 23 milioni di euro sarebbero sufficienti a comprare 40 limousine Rolls-Royce Phantom personalizzate, e il doppio delle ultime due auto più care al mondo: la Sweptail da 10 milioni di sterline di Rolls-Royce del 2017, l'auto che ha dato il via al nuovo progetto Boat Tail; e l'hypercar unica Bugatti da 11,5 milioni di sterline "La Voiture Noir" che è stata mostrata per la prima volta al Salone di Ginevra nel marzo 2019. Ma quest’auto è stata progettata su misura: telaio, motore e base sono della limousine Phantom, ma tutto il resto è stato ideato in esclusiva, dai pannelli – i più grandi mai realizzati all’intricato meccanismo. La guida sarà a sinistra. Un indizio per chi volesse indovinare i misteriosi acquirenti.
Dagospia l'8 giugno 2021. Jesse Eisinger , Jeff Ernsthausen e Paul Kiel su propublica.org. Nel 2007, Jeff Bezos, allora multimiliardario e ora l'uomo più ricco del mondo, non ha pagato un centesimo di tasse federali sul reddito. Ha replicato di nuovo nel 2011. Nel 2018, anche il fondatore di Tesla, Elon Musk, la seconda persona più ricca del mondo, non ha pagato le tasse federali sul reddito. Michael Bloomberg è riuscito a fare lo stesso negli ultimi anni. L'investitore miliardario Carl Icahn lo ha fatto due volte. George Soros non ha pagato l'imposta federale sul reddito per tre anni di seguito. ProPublica ha ottenuto una vasta raccolta di dati dell'Internal Revenue Service sulle dichiarazioni dei redditi di migliaia delle persone più ricche della nazione, che coprono più di 15 anni. I dati forniscono uno sguardo senza precedenti nella vita finanziaria dei paperoni americani, tra cui Warren Buffett, Bill Gates, Rupert Murdoch e Mark Zuckerberg. Dati che rivelano non solo il loro reddito e le tasse, ma anche i loro investimenti, le compravendite di azioni, le vincite al gioco d'azzardo e persino i risultati degli audit. Nel loro insieme, demolisce il mito cardine del sistema fiscale americano: che tutti paghino la loro giusta quota e che gli americani più ricchi paghino di più. I registri dell'IRS mostrano che i più ricchi possono - perfettamente e legalmente - pagare tasse sul reddito che sono solo una piccola frazione delle centinaia di milioni, se non miliardi, delle loro fortune. Molti americani vivono di stipendio in stipendio, accumulando poca ricchezza e pagando al governo federale una percentuale del loro reddito che aumenta se guadagnano di più. Negli ultimi anni, la famiglia media americana ha guadagnato circa $ 70.000 all'anno e ha pagato il 14% di tasse federali. L'aliquota dell'imposta sul reddito più alta, il 37%, è stata introdotta quest'anno per le coppie su guadagni superiori a $ 628.300. I documenti fiscali riservati ottenuti da ProPublica mostrano che gli ultraricchi eludono efficacemente questo sistema. I miliardari americani si avvalgono di strategie di elusione fiscale al di fuori della portata della gente comune. La loro ricchezza deriva dal valore alle stelle dei loro beni, come azioni e proprietà. Questi guadagni non sono definiti dalle leggi statunitensi come reddito imponibile a meno che e fino a quando i miliardari non vendono. Per catturare la realtà finanziaria degli americani più ricchi, ProPublica ha intrapreso un'analisi che non è mai stata fatta prima. Abbiamo confrontato quanto in tasse pagavano ogni anno i 25 americani più ricchi con quanto Forbes stimava che la loro ricchezza fosse cresciuta nello stesso periodo di tempo. Chiameremo questa la loro vera aliquota fiscale. I risultati sono netti. Secondo Forbes, quelle 25 persone hanno visto il loro valore aumentare di 401 miliardi di dollari dal 2014 al 2018. Hanno pagato un totale di 13,6 miliardi di dollari di tasse federali sul reddito in quei cinque anni, rivelano i dati dell'IRS. È una somma sbalorditiva, ma equivale a una vera aliquota fiscale di solo il 3,4%. Nessuno tra i 25 più ricchi ha evitato tante tasse quanto Buffett, il nonno plurimiliardario. Forse è sorprendente, data la sua posizione pubblica di sostenitore di tasse più alte per i ricchi. Secondo Forbes, le sue ricchezze sono aumentate di 24,3 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2018. In quegli anni, Buffett ha riferito di aver pagato 23,7 milioni di dollari di tasse. Ciò equivale a una vera aliquota fiscale dello 0,1%.
Massimiliano Bianconcini per "reportergourmet.com" il 13 aprile 2021. L’idea di club esclusivi dove poter entrare solo su inviti e dove poter costruire reti di relazioni, oggi si direbbe network, scambiare idee e progetti e pianificare gli affari; ma anche solo poter passare dei piacevoli momenti di relax non è un concetto Ottocentesco o del Primo Novecento, non più di moda nella società contemporanea. Anzi, a guardare con attenzione è possibile rendersi conto che in giro per il mondo questi luoghi esclusivi esistono tuttora. Diventarne membro resta comunque arduo e soprattutto per entrare è necessario essere disposti a pagare fee di ingresso onerose, se non esorbitanti. Sono Club quasi impossibili per il consumatore medio, in cui si fanno grandi affari e si tirano fili invisibili. Non sono più segreti. Sono solo esclusivi. Un sinonimo, se vogliamo, nelle moderne democrazie planetarie. Ad ogni modo, a poterci entrare offrono vantaggi enormi. L’idea di club esclusivi, dove l’élite politica ed economica si incontra per un drink e scambia informazioni nasce in Gran Bretagna nel 1700 con i primi club per gentiluomini. Gli uomini dell’upper class crearono questi salotti eleganti, solitamente completi di bar, sala biliardo, biblioteca e diverse attrezzature di lusso. Ai tempi del Commonwealth, i club fiorirono in tutto il mondo. Più di una dozzina sono ancora attivi in Inghilterra e i membri che ne fanno parte rispettano l’etichetta e lo stile del club. Uno dei più tradizionali ed esclusivi di Londra è l’Oxford and Cambridge Club, che accoglie le élite delle università di Oxford e Cambridge, di per sé già esclusive. Eccoci già al primo requisito di adesione. Si incontrano in questo club che è situato a soli cinque minuti da Buckingham Palace sin dal 1821. Oltre a una laurea in una delle due più prestigiose università d’Inghilterra, è necessaria anche la raccomandazione di almeno due membri per entrare a pieno titolo nel club. Una volta dentro si è certi però di poter far parte degli eventi più esclusivi e si possono utilizzare le sale imponenti. La struttura ha 40 camere da letto, una biblioteca con 20.000 libri, una splendida terrazza sul tetto, due bar e due campi da squash. Al pari del precedente, uno dei club più interessanti era il Travellers Club, fondato a Londra nel 1819. Oltre alla solita raccomandazione da parte dei membri esistenti, un tempo il candidato per essere ammesso doveva dimostrare di essere stato come minimo 500 miglia in linea d’aria lontano da Londra. Oggi la regola è presa meno sul serio, ma ci si aspetta che i membri viaggino molto per il mondo. L’obiettivo del club è lo scambio internazionale. Al suo interno vi si sono svolti anche negoziati non ufficiali tra capi di stato, come nel 2003 tra la Gran Bretagna e la Libia. Come per l’Oxford and Cambridge Club, solo di recente è stato consentito alle donne di diventare membri. Nick Jones è il fondatore di un altro rimarchevole e lussuoso club inglese: la Soho House, con la quale ha dimostrato che i club, e soprattutto i loro membri, non devono essere vecchi di cent’anni. La struttura è nota per la rigorosa politica di iscrizione. Intanto va detto che non è solo un edificio, ma è una rete mondiale di lussuosi club, bar, ristoranti, cinema e altro ancora. Per entrare nella Soho House Berlin, un’incredibile proprietà in stile Bauhaus nel quartiere Mitte della Capitale tedesca, devi spendere come minimo 1.600 euro all’anno. Oltre alla quota di iscrizione di circa 500 euro. Se però si aggiunge un’ulteriore fee annuale di 1.910 euro, si ha accesso a tutte le Soho House del mondo. Attualmente sono 28 e quest’anno ne verranno aperti sei nuovi. Ma il club più esclusivo della Germania è il China Club Berlin. Si trova ubicato al quinto e sesto piano dell’Adlon Palais, nel centro della capitale, dove i ricchi si divertono. La quota annuale si aggira tra i 1500 e i 2500 euro, ma la soglia per gli aspiranti imprenditori che ne vogliono fare parte è molto più alta con una quota di ammissione che si aggira intorno ai 10.000 euro per i privati. Attualmente sono circa 700 coloro che hanno ritenuto la pena di entrare a far parte di questo gruppo esclusivo. Per rilanciare la tradizione dei club femminili, le due newyorkesi Audrey Gelman e Lauren Kassan hanno aperto la loro prima club room a Manhattan nel 2016. The Wing ora ha spazi di co-working inclusivi e tolleranti in diverse città americane, così come a Londra. I membri devono aderire a un codice di condotta rigoroso. Secondo il sito web del club, l’attenzione è rivolta all’antirazzismo, alla diversità, all’uguaglianza e all’inclusione. Tuttavia, The Wing ha recentemente dovuto affrontare una crisi comunicativa, dopo che la giornalista Amanda Hess ha denunciato comportamenti razzisti da parte del personale e degli ospiti. Nonostante lo scandalo, The Wing resta un rifugio attraente per donne e persone non binarie. La quota di iscrizione è di circa $ 200 al mese. L’Hong Kong Club, infine, è il più antico club per gentiluomini della città di Hong Kong e vanta una lunga tradizione. Spesso è chiamato semplicemente “The Club” e quelli che lo conoscono sanno cosa si intende quando si parla appunto del “The Club”. Nell’edificio in stile coloniale di 25 piani, le persone più influenti della città pagano una quota associativa il cui costo è segreto. Attualmente conta circa 1500 membri. Nessuno però racconta cosa avvenga tra le mura di questo edificio e quali siano le attività a cui si dedica l’élite facoltosa che ne fa parte.
Yoonji Han e Dakin Campbell per businessinsider.com l'1 marzo 2021. Erano più o meno le 9 di mattina del 12 agosto 2020 quando Arokia Raj si è reso conto per la prima volta che qualcosa era andato terribilmente storto. Raj, che fa parte di un team di Citigroup che elabora i pagamenti relativi ai crediti garantiti e ne gestisce il servicing, stava rivedendo le transazioni del giorno precedente quando ha notato un grosso scarto nelle cifre — una differenza di poco meno di 900 milioni di dollari. Ci ha messo poco a fare due più due. La cifra era identica, decimali compresi, al saldo di un debito che l’azienda di cosmesi Revlon aveva contratto quasi cinque anni fa. In pochi click fatali, Raj aveva trasferito erroneamente ai creditori di Revlon non solo gli interessi maturati — meno di 8 milioni di dollari – come avrebbe voluto fare, ma anche il saldo totale. Quei click hanno messo in moto una serie di eventi a catena: dall’invio per errore di quei 900 milioni di dollari a un gruppo di asset manager che avevano concesso quei crediti a Revlon si è passati a diverse battaglie in tribunale quando Citigroup ha cercato di recuperare i soldi, fino alla conclusione di martedì 23 febbraio scorso, segnata da una decisione che ha scosso Wall Street dalle fondamenta. Il giudice Jesse Furman di New York ha stabilito che i creditori possono tenersi i 500 milioni di dollari che non sono stati ancora restituiti a Citibank. La banca infatti è riuscita a recuperare gli altri 400 milioni. Insider ha esaminato le 101 pagine di motivazione della sentenza per capire esattamente come sia avvenuto, per citare le parole del giudice Furman, uno dei “più grandi passi falsi nella storia del banking”, che è costato alla banca 500 milioni di dollari.
Il credito concesso a Revlon. Citigroup lotta da tempo contro la tecnologia. I suoi sistemi sono un patchwork di pezzi derivanti da oltre una dozzina di fusioni aziendali e mai cuciti insieme. Uno dei più grandi bailout pubblici della crisi finanziaria andò proprio a questo gruppo bancario, che era entrato con forza nel settore dei titoli ipotecari nel momento sbagliato e non era stato in grado di avere un quadro complessivo di tutte le proprie esposizioni. La tecnologia ha dimostrato di aver avuto un ruolo cruciale anche ai fini della decisione di Michael Corbat di abbandonare l’anno scorso la carica di Ceo di Citigroup, dopo che gli enti di controllo si erano stancati della sua incapacità di rimettere in sesto la gestione dei rischi e della compliance e i sistemi informatici, come Insider ha riportato qualche tempo fa. Il caso di cui stiamo parlando ha avuto inizio nel 2016, quando Revlon, sempre in primo piano sugli scaffali del reparto di cosmetica dei grandi negozi, ha ottenuto da un gruppo di creditori 1,8 miliardi di dollari da ripagare in otto anni, qualche mese dopo aver comprato l’azienda di bellezza Elizabeth Arden al prezzo di 870 milioni di dollari. Revlon ha scelto Citibank come agente amministrativo, incaricandola di versare gli interessi dovuti e di svolgere servizi di back office per suo conto. Revlon, alle prese con una carenza di liquidità, nella primavera del 2020 ha cercato di procedere a una ristrutturazione del debito, in modo da ottenere altri 800 milioni di dollari e passa di debt financing. Ma i suoi creditori hanno interpretato la mossa come un tentativo di riappropriarsi della garanzia che aveva fornito a copertura dei soldi ottenuti. Hanno fatto causa all’azienda di cosmesi e hanno chiesto a Citibank di rinunciare al proprio incarico, sostenendo che stesse aiutando Revlon a portare a termine una ristrutturazione del debito opinabile.
L’errore di Citibank nel processo di revisione “a sei occhi”. Citibank l’11 agosto scorso si stava preparando a versare gli interessi dovuti ai creditori di Revlon. Questi non si aspettavano di ricevere i pagamenti, che esulavano dalle normali rate programmate e il cui invio si era reso necessario a seguito delle modifiche fatte da alcuni creditori alle proprie posizioni rispetto al 2016. Più o meno alle 4 del pomeriggio, il team Asset-Based Transitional Finance (Abtf) di Citibank ha ricevuto l’ordine di “versare il saldo sul wash account quando verranno elaborati gli interessi maturati”. I wash account, noti anche come clearing account (conti di transito), sono i conti in cui la banca tiene temporaneamente i soldi mentre li trasferisce, per assicurarsi che non escano dalle sue casse. All’incirca un’ora dopo il team Abtf, che elabora i pagamenti relativi ai crediti garantiti di Citibank e ne gestisce il servicing, ha ricevuto il via libera al versamento degli interessi ai creditori. In base a una testimonianza fornita da Raj, il dipendente che avrebbe poi scoperto lo scarto esistente fra le cifre, il team ogni volta che elabora questo tipo di transazioni deve generare un programma di maturazione degli interessi, compilare le fatture per i creditori e inserire le istruzioni sui pagamenti in Flexcube, il software usato da Citibank per inviare i bonifici. Le transazioni sono inoltre soggette alla procedura di approvazione “a sei occhi” seguita in Citibank: ogni operazione deve essere rivista e approvata da tre persone prima di essere eseguita. La prima persona quel giorno — cioè il maker, come viene chiamato in azienda — è stato Santhosh Kuppusamy Ravi, che ha inserito in Flexcube le informazioni sui pagamenti. Ravi ha selezionato la casella Principal (saldo) nel software, pensando di ordinare in questo modo il trasferimento del saldo sul wash account. Raj ha prestato il secondo paio di occhi svolgendo il ruolo del checker, rivedendo e verificando l’informazione prima dell’ultimo controllo da parte dell’approver, che in questo caso è stato Vincent Fratta, detto Vinny, responsabile del team Abtf. Ma quello di cui nessuno dei tre si è reso conto è che avrebbero dovuto selezionare altre due caselle in Flexcube, quelle con le voci Front e Fund, come spiegato nel manuale di Citibank. Altrimenti tutti i soldi — compreso il saldo — sarebbero stati trasferiti automaticamente sotto forma di bonifici. Entro le sei di quel pomeriggio i soldi hanno lasciato le casse della banca.
La scoperta dell’errore. Il mattino dopo, il 12 agosto, Raj stava rivedendo le transazioni del giorno prima quando ha scoperto che erano stati inviati ai creditori più di 900 milioni di dollari invece degli 8 milioni circa dovuti, corrispondenti agli interessi maturati. Il team leader Fratta, dopo essere stato avvisato da Raj, ha aperto Skype e ha dato la notizia al proprio superiore, Vincent Farrell, responsabile della divisione crediti di Citi per il Nord America. “Brutta notizia” ha scritto Fratta. “Saldo nel wash, sembra che i bonifici siano partiti.” Ha aggiunto qualcosa pochi minuti dopo. “Sì, confermato. Il saldo è stato inviato invece di essere trasferito sul wash per la ristrutturazione di Revlon.” Fratta, non ancora consapevole che la causa era stata un errore umano, ha pensato che ci fosse un bug nel software. Ha mandato un’email al team di supporto tecnico di Citibank: “Flexcube non sta funzionando bene e invia bonifici ai creditori/debitori.” Nel corso di quella giornata le persone coinvolte hanno finalmente capito ciò che era accaduto in realtà. Citibank alle 14:25 ha cominciato a inviare avvisi ai creditori chiedendo di restituire i soldi. Ne ha mandata una seconda serie alle 18, una terza il giorno dopo e vari avvisi sparsi in seguito.
"Si tratterà di un errore?". I creditori di Revlon avevano ceduto in outsourcing il compito di gestire i fondi e il portafoglio complessivo a varie società di gestione patrimoniale. Queste ultime, che comprendono fra le altre Allstate, HPS Investment Partners e Symphony Asset Management, non si aspettavano quei pagamenti, e sono rimaste perplesse quando hanno visto per la prima volta di aver ricevuto quegli inaspettati — ed enormi — bonifici da Citibank la mattina del 12 e del 13 agosto. “Che strano — si tratterà di un errore?” ha chiesto un portfolio manager a una collega che aveva ricevuto l’avviso di pagamento. “Non so se sia un errore, sembra molto improbabile.” Un partner e portfolio manager di Bardin Hill ha testimoniato che l’idea che un istituto consolidato come Citibank avesse commesso un passo falso di tale enormità “non mi è letteralmente passata per la testa. Lo trovo tuttora piuttosto strabiliante, nel complesso.” La notizia si è diffusa rapidamente fra i dipendenti delle società di asset management. “Com’è andata oggi al lavoro, amore? È andata bene, tranne per il fatto che ho inviato accidentalmente 900 milioni di dollari a persone che non avrebbero dovuto riceverli” ha scritto con una battuta un dipendente di Hps a un collega in una chat su Bloomberg. “Gli inconvenienti del lavoro da casa. Magari il cane avrà battuto le zampe sulla tastiera.” “Mentre suonava in sottofondo il brano Had a Bad Day [‘Ho avuto una giornata no’]” ha risposto il collega. Sembrava che tutti quanti si stessero chiedendo la stessa cosa: come era potuto succedere che Citybank avesse commesso un errore così enorme e “strabiliante”?
"Non restituite neanche una parte di quei fondi". Malgrado gli avvisi inviati dalla banca, i gestori patrimoniali dei creditori hanno detto ai clienti di tenersi i fondi che avevano ricevuto. “Revlon ha ripagato tutto!?” ha scritto un bank debt manager di Brigade Capital al responsabile del suo ufficio legale. Nei casi in cui una parte dei soldi era già stata restituita, gli asset manager hanno ordinato in breve tempo agli analisti di “sfoderare gli artigli e recuperare i fondi”. “NON RESTITUITE NEANCHE UNA PARTE DEI FONDI LEGATI A REVLON” ha scritto con enfasi un analista di Greywolf Loan Management in un’email. Questo atteggiamento ha scatenato un’intensa battaglia legale, abbinata a un’altra che si è svolta nel caotico mondo del trading a Wall Street. Alcuni manager della banca nel settembre scorso hanno ordinato agli addetti alle vendite e al trading di escludere i fondi interessati dai servizi sui quali fanno affidamento per prendere le decisioni di investimento e creare nuovi bundle obbligazionari, come Insider ha riportato qualche mese fa. È stato detto ai dipendenti di smettere di inviare informazioni di pricing sui titoli obbligazionari — informazioni che a Wall Street vengono chiamate runs — e di eliminare quei clienti da ogni eventuale mailing list di cui facessero parte. Agenti e trader in alcuni casi hanno ignorato messaggi inviati tramite le chat di Bloomberg, o si sono rifiutati di richiamare i clienti che li hanno cercati. Le ricerche documentali, i dati sul pricing e altre informazioni basate sull’andamento del mercato possono spesso tradursi nel vantaggio che i fondi devono ottenere per vincere il combattimento corpo a corpo che caratterizza un’attività stressante come il debt trading. I gestori patrimoniali però avevano dei motivi per credere che l’intero saldo fosse stato ripagato volutamente ai loro clienti, seppure in modo inaspettato. Dopotutto avevano ricevuto l’esatta quantità che spettava loro. Inoltre non potevano immaginarsi che Citibank, una vera e propria istituzione a Wall Street, avesse potuto commettere una gaffe così enorme. È stato su queste basi che diversi mesi dopo, durante un bench trial condotto via Zoom, gli avvocati difensori delle società di gestione patrimoniale hanno sostenuto che non fossero obbligate a restituire i soldi. “In tali circostanze [i creditori] hanno pensato, e hanno avuto motivo di pensare, che quei pagamenti fossero voluti” ha scritto il giudice Furman nelle motivazioni della sentenza. “Di fatto, pensare il contrario — cioè che Citibank, uno degli istituti finanziari più sofisticati del mondo, avesse commesso un errore mai avvenuto prima, un errore da quasi un miliardo di dollari — sarebbe stato quasi irrazionale.” Citigroup prevede di ricorrere contro la decisione della corte, in base a quanto ha dichiarato una portavoce della banca.
Stefano Agnoli per corriere.it il 26 febbraio 2021. Quanto bisogna essere ricchi per entrare nel club dell’1% dei più ricchi di un Paese? Dipende, ovviamente, dal Paese di riferimento. Per un monegasco (nel senso di residente nel Principato di Monaco) servirebbe un patrimonio di quasi 8 milioni di dollari, un po’ più di 6,5 milioni di euro al cambio attuale. Per un russo la quota sarebbe molto più bassa, 400mila dollari (330mila euro). Per un italiano, così come per uno spagnolo, sarebbero sufficienti 1,4 milioni di dollari, cioè 1,15 milioni di euro. Tanto o poco, ma sempre molto meno di uno svizzero o di un cittadino Usa, che per potersi dichiarare «affluent» avrebbero bisogno rispettivamente di 5,1 e di 4,4 milioni di dollari (4,2 e 3,6 milioni di euro rispettivamente). O di un residente di Singapore, dove per emergere servono 2,9 milioni di dollari (2,39 milioni di euro). La classifica, riportata da Bloomberg sulla base di uno studio del broker immobiliare Knight Frank, dipende ovviamente da tanti fattori, non ultimo quello del carico fiscale del Paese di riferimento. A Monaco e in Svizzera, ad esempio, le tasse sul reddito sono spesso assai basse o del tutto assenti. In Italia, secondo i numeri del ministero dell’Economia relativi alle dichiarazioni 2019, l’1,2% dei contribuenti ha dichiarato un reddito superiore ai 100mila euro (ma, ovviamente, un conto è il reddito e un altro il patrimonio). Non bisogna poi trascurare l’effetto causato, in entrambe le direzioni, dalla pandemia. Nello studio si mette in evidenza che la soglia di ingresso nell’1% più ricco a Monaco è almeno 400 volte più grande di quella del Kenya (è l’ultimo Paese sui 30 presi in esame), un Paese che a causa della crisi ha registrato due milioni di nuovi poveri in più, secondo le stime della Banca Mondiale. Mentre l’indice dei miliardari stilato da Bloomberg ha mostrato che lo scorso anno il gruppo dei 500 uomini più ricchi del mondo ha aggiunto 1.800 miliardi di dollari al proprio patrimonio, con Elon Musk e Jeff Bezos sopra tutti. Malgrado la crescita poderosa delle economie asiatiche, Cina in testa, i milionari restano abbondantemente più numerosi negli Stati Uniti, dove secondo lo stesso studio sono più di 180mila coloro che possono vantare una ricchezza superiore ai 30 milioni di dollari. Pechino è seconda, ma distanziata con circa 70mila ipermilionari (in Giappone sono 15 mila circa). Ottima anche la performance della ricchezza europea: 25 mila in Germania, 15 e 16 mila in Francia e Regno Unito, 10.400 in Italia e 7.600 in Svizzera, più o meno come in Canada e in Russia. La paura di tutti questi «happy few», nel post-pandemia, è una sola: le tasse. Ovvero che per rientrare dei debiti i governi facciano un pensierino proprio ai grandi patrimoni.
George Soros. Open Society, il leviatano dell’internazionale liberal. Pietro Emanueli su Inside Over il 28 novembre 2021. In Occidente e in (quasi) tutto il mondo va crescendo in maniera esponenziale il numero di coloro che parlano la lingua del liberal-progressismo, cioè di coloro che credono in cause quali il controllo della popolazione, l’arcobalenizzazione delle strutture sociali, familistiche e legislative e la legalizzazione delle droghe e che, in generale, anelano al superamento di tutto ciò che ha a che fare con il conservatorismo. La morte delle società conservatrici è un fenomeno che, almeno in parte, è naturale, genuino, fisiologico. Perché le società sono fluide, cangianti e mobili per definizione. Alcune tradizioni diventano dogmi, altre non riescono ad affermarsi che come consuetudine e periscono in quanto transitorie. Altre volte, però, il cambiamento è eteroguidato da regie esterne, menti raffinatissime in grado di dividere, polarizzare e talvolta sovvertire. E quest’ultimo è il caso della rete mondiale Open Society, il motore dell’internazionale liberal-progressista.
La storia
La storia delle Fondazioni Open Society comincia fra il 1979, anno della nascita dell’Open Society Fund, e il 1984, quando un investitore di origini magiare proveniente dagli Stati Uniti, e rispondente al nome di George Soros, riuscì ad aprire a Budapest, in collaborazione con l’Accademia ungherese delle scienze, un istituto dedicato alla diffusione dell’ideale della società aperta. Erano tempi difficili, di guerra fredda, ma Soros conosceva l’ambiente in cui era nato e aveva cognizione di quanto radicato ed esteso fosse il malcontento nei confronti dell’Unione Sovietica.
A partire dal 1984, anno della nascita della Fondazione Soros a Budapest, tanti piccoli istituti gemelli avrebbero cominciato ad apparire da parte a parte del Secondo mondo – dal Patto di Varsavia alla Repubblica Popolare Cinese –, arruolando analisti, attivisti e scienziati sociali più accomunati dall’anticomunismo che dall’adesione alla weltanschauung dell’investitore magiaro. Questa rete, come è noto, avrebbe giocato un ruolo determinante nel catalizzare il crollo dell’ordine comunista nell’Europa centrorientale e ivi sarebbe rimasta, espandendosi capillarmente e tentacolarmente a partire dal dopo-Guerra fredda.
Nel 1993, dopo nove anni di attività ininterrotte nello spazio ex comunista, Soros avrebbe infine deciso di porre tutte quelle fondazioni al di sotto di una sola entità coordinatrice: l’Open Society Institute. Un nome mantenuto fino al 2010, anno del cambiamento nell’attuale Open Society Foundations (OSF).
Soros, dell’OSI prima e dell’OSF dopo, non è mai stato il presidente, limitandosi a ricoprire il modesto incarico di direttore generale e ad esserne il principale contribuente – celebre è la donazione di diciotto miliardi di dollari effettuata nel 2017. Primo e storico presidente della rete della società aperta è stato Aryeh Neier, che ha occupato il posto dal 1993 al 2012, quando poi è stato succeduto da Christopher Stone. Quest’ultimo ha lasciato la presidenza a fine 2017, segnando l’inizio di un periodo di ristrutturazione e riforma palesato dai vari cambi avvenuti in cabina di regia in un arco di tempo relativamente breve: fra il 2018 e il 2021, infatti, l’OSF ha avuto ben due presidenti, Patrick Gaspard e Mark Malloch-Brown.
La ramificazione nel mondo
L’OSF è la seconda rete nongovernativa più ricca degli Stati Uniti in termini di budget – superata soltanto dalla Fondazione Bill e Melinda Gates – ma è, come si evince dal suo stesso sito web, “il più grande finanziatore privato di gruppi indipendenti che lavorano per la giustizia, la governance democratica e i diritti umani”.
Operante in oltre 120 Paesi, ovverosia in tre quarti del pianeta, la rete OSF gestisce, offre servizi di consulenza e/o finanzia università private – la Central European University –, think tank, organizzazioni nongovernative e realtà della società civile. Una ramificazione globale per scopo e natura alla quale si affianca una campagna di reclutamento non meno pervasiva, e neanche meno ambiziosa, che si basa sull’erogazione di migliaia di borse di studio su base annuale.
Nei soli Stati Uniti, dove ha luogo la stragrande maggioranza degli esperimenti condotti dall’OSF al fine della costruzione di un modello funzionante di società aperta, la creatura di Soros investe mediamente un quinto di tutto il denaro messo a disposizione annualmente per finanziare programmi, borse di studio ed entità di varia natura. Nello specifico, l’OSF accredita denaro sui conti delle più influenti fondazioni e organizzazioni liberal-progressiste, tra le quali la pro-aborto Planned Parenthood, la pro-immigrazione Alliance for Citizenship e la pro-lgbt Tides Foundation, ed è in prima linea nel supportare – con denaro, avvocati e lobbisti – i movimenti per la riforma del sistema giudiziario, per la ristrutturazione delle forze dell’ordine e per la giustizia razziale.
Gli Stati Uniti della contemporaneità, in sintesi, debbono ciò che sono in larga parte all’operato indefesso dell’infaticabile OSF, che ha inculcato la visione del mondo di Soros nelle menti e nei cuori di milioni di americani, che sono sempre più liberal e sempre meno conservatori.
L'influenza nel mondo
Tra le centinaia di entità sui cui conti è giunto denaro da parte dell’OSF, e che sono note per il coinvolgimento in rivoluzioni colorate e cambi di regime, figura e risalta il National Democratic Institute – che in Nicaragua ha storicamente finanziato il fronte anti-sandinista e che in Venezuela ha foraggiato e addestrato l’antichavista Unità Nazionale.
Vicinanza al NDI a parte, sono i valori, le attività e gli obiettivi statutari dell’OSF che hanno creato disagio, discordia, perplessità e finanche paura dentro e fuori l’Occidente, specie in quelle realtà dove conservazione e tradizione continuano a costituire le colonne portanti e le stelle polari di gente comune, ambienti culturali e classi politiche.
Accusate di condizionare le masse con il fine ultimo della destabilizzazione politica, cioè del cambio di regime, nel corso degli anni Dieci del Duemila le organizzazioni legate alla rete OSF sono state dichiarate indesiderate, e quindi chiuse, in Pakistan, Russia e Turchia, ricevendo attacchi e subendo pressioni per le medesime ragioni un po’ ovunque, dall’Europa – in particolare in Macedonia del Nord, Polonia, Romania e Ungheria – all’Asia – come in Myanmar all’indomani del colpo di Stato del 2021.
In Europa, o meglio nell’Unione Europe a, la battaglia contro l’OSF e la “sorosizzazione delle società” è stata avviata da Fidesz, il partito di Viktor Orban, che il boicottaggio di questo amplificatore del liberal-progressismo ha cominciato negli anni della crisi dei rifugiati e che da allora non ha più abbandonato, come palesato dalla chiusura della sede magiara della Central European University e dall’entrata in vigore della cosiddetta “legge anti-Soros” sulla regolamentazione delle organizzazioni nongovernative.
Harry Macklowe. Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2021. «Il cruccio più grande della mia vita? I miei genitori sono morti prima di vedere loro figlio costruire un grattacielo più alto dell'Empire State Building». A 85 anni il miliardario Harry Macklowe, leggendario immobiliarista di New York, è sempre attivissimo e pieno di curiosità. Cordiale e premuroso mentre mostra ad alcuni giornalisti stranieri la sua ultima scommessa imprenditoriale: la trasformazione di One Wall Street, la ex sede della banca Irving Trust, un edifico art déco costruito nel 1930 all'angolo tra Wall Street e Broadway, in un condominio con 566 appartamenti di lusso. Giacca blu un po' sgualcita, maglia grigia girocollo, Macklowe arriva sorridente sorseggiando un cappuccino da un bicchiere di cartone. Parla della nuova impresa - la più grande conversione di un edifico commerciale in condominio residenziale mai tentata a New York - ma è in vena di bilanci. Parla di tutto, dalla sua amicizia con Steve Jobs dalla quale nacque l'idea del cubo di cristallo che sovrasta il negozio sotterraneo della Apple in Fifth Avenue realizzato dalla sua società, fino alla sfida di 432 Park Avenue: il grattacielo residenziale alto 425 metri (più dell'Empire, al netto dell'antenna) fatto, nella parte superiore, di penthouse da 90 e più milioni di dollari per super ricchi che vogliono isolarsi dal mondo restando in mezzo a Manhattan. Parla di tutto, il vecchio Harry, con studiata semplicità, ma non del suo divorzio miliardario dalla moglie Linda dopo 57 anni di un matrimonio intenso e tempestoso. Finito talmente male che, come supremo sberleffo alla ex, Macklowe ha affisso un'immagine alta 13 metri sua e della nuova moglie, Patricia Lazar-Landeau, sulla facciata di 432 Park Avenue. Dicono non abbia mai perdonato a Linda di avergli fatto vendere il GM Building, l'edificio, un tempo della General Motors, sotto il quale c'è lo store di Apple. Mentre ci mostra le sue realizzazioni, a pochi chilometri da qui, nella sede di Sotheby' s, viene venduta parte della collezione d'arte accumulata in mezzo secolo da Harry e Linda. Un'asta da record con acquirenti asiatici, del Qatar, della famiglia reale saudita. Justin Sun, investitore in cryptovalute, compra Le Nez di Giacometti per 78 milioni di dollari, un imprenditore asiatico ne spende 82 per un Rothko e un Jackson Pollock viene battuto per la cifra record di 61 milioni. Alla fine l'incasso è di 676 milioni. E a maggio si ripete con altre opere, forse di maggior valore: servono a coprire i costi del divorzio. Non è un dolore separarsi da questi capolavori? Macklowe preferisce parlare d'altro: i genitori, i suoi anni giovanili. Spiegare perché ha puntato su One Wall Street: «Da ragazzo, prima di entrare nel settore immobiliare, il mio primo lavoro fu quello di fattorino per un'agenzia di pubblicità. Guadagnavo 35 dollari a settimana. Con quei soldi aprii il mio primo conto in banca. Qui, alla Irving. E quando, da manager di una società immobiliare, decisi di mettermi in proprio, comprare un edificio e ristrutturarlo, i soldi me li prestò la Irving». Così dopo la scomparsa di questa banca (acquistata trent' anni fa dalla Bank of New York dopo un fallito tentativo di fusione con l'italiana Comit), quando la sua sede - un enorme edifico sormontato da una torre di 200 metri che affaccia su Wall Street a fianco alla Borsa - è arrivata sul mercato, lui l'ha comprata: «Mica lo faccio per i soldi» si accommiata con sguardo furbo. «Mi piace ristrutturare, restaurare, pensare nuove soluzioni architettoniche». Come il cubo di Apple o usare i quattro piani sotterranei del caveau della banca per palestre e uno sterminato supermercato alimentare di lusso Whole Foods.
Elon Musk. Da Ansa il 13 dicembre 2021. Elon Musk è la persona dell'Anno 2021 per Time. "L'uomo che aspira a salvare il Pianeta e a darcene un altro dove potremo abitare: clown, genio, bastian contrario, visionario, industriale, showman: un folle ibrido di Thomas Edison, P.T. Barnum, Andrew Carnegie e il Doctor Manhattan di 'Watchmen'", così la rivista americana ha definito il Ceo di Tesla e Space X che ha conquistato la copertina che celebra la persona o il concetto più significativo dell'anno che sta per concludersi. Quest'anno Musk ha realizzato anche il sogno del primo volo di soli civili nello spazio, a settembre. Ed è anche diventato l'uomo piu' ricco del mondo, buttando giù dal gradino più alto del podio del Bloomberg Billionaires Index, l'elenco dei Paperoni il cui patrimonio viene aggiornato in tempo reale in base alle quotazioni di Borsa, il fondatore di Amazon, Jeff Bezos. Il suo patrimonio è stimato sui 222 miliardi di dollari, a ottobre. Nello stesso periodo il colosso delle auto elettriche ha raggiunto 1.000 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato diventando la prima casa automobilistica la mondo a centrare tale soglia e ha raggiunto l'Olimpo delle società a tre zeri come Microsoft, Aramco, Apple, Alphabet, Facebook e Amazon. Circa questa sua immensa ricchezza, Musk ha sempre detto di non essere interessato a cose materiali e che una metà del suo patrimonio "servirà a risolvere i problemi del nostro pianeta mentre l'altra metà servirà a costruire una città auto-sufficiente su Marte per assicurare la continuità della vita, di tutte le specie, nel caso in cui la Terra venga colpita da una meteorite". La copertina della Persona dell'Anno è un marcatore di influenza e pochi individui hanno avuto più influenza di Musk nella vita sulla Terra e potenzialmente anche oltre la Terra", ha scritto il direttore della rivista Time, Edward Felsenthal: "Nel 2021 Musk è emerso non solo come la persona più ricca del mondo, ma anche come l'esempio più' ricco di una massiccia trasformazione della società". La tradizione della Persona dell'Anno di Time risale al 1927: nata come "Uomo dell'Anno" riconosce da allora non solo un individuo, ma anche gruppi di individui o categorie, movimenti o idee che hanno avuto la maggiore influenza nell'anno che sta per concludersi. Nel 2020 hanno conquistato la copertina il presidente eletto Joe Biden e la sua vice Kamala Harris. La scelta annuale non è necessariamente considerata un onore: nel 1938 Adolf Hitler fu nominato Uomo dell'Anno per la sua influenza negativa. Time ha assegnato altri titoli in coincidenza con la copertina sulla Persona dell'Anno. L'ha ottenuto anche la cantante Olivia Rodrigo per l'entertainment, mentre gli scienziati che hanno messo a punto i vaccini anti-Covid sono stati scelti nella categoria Eroi dell'Anno.
Elon Musk: un rivoluzionario in politica? Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2021. Le auto elettriche, i viaggi nello spazio. Genio ribelle e showman, ora vuole cambiare la «cosa pubblica». Con la Tesla ha aperto, quando nessuno ci credeva, la strada al passaggio alla propulsione elettrica per le auto di tutto il mondo. Ha riaperto, con i suoi missili e le sue astronavi di SpaceX, l’era spaziale americana interrotta con il pensionamento degli shuttle, sostituendo competenza ingegneristica e pragmatismo alla burocrazia della Nasa e ridicolizzando gli altri concorrenti privati a partire da Boeing. Elon Musk, che fa anche mille altre cose — vuole portarci su Marte, fare viaggiare uomini e merci sottoterra ad alta velocità con la Boring Company e vuole impiantarci con la sua Neuralink un microprocessore nel cervello promettendoci che in questo modo non verremo soggiogati dall’intelligenza artificiale — è il genio inquieto, visionario e controverso che la rivista Time ha scelto come personaggio dell’anno.
Non è un santo né un uomo privo di contraddizioni: ha combinato anche diversi pasticci, molte sue sortite sono discutibili o addirittura da condannare (come quando, furioso per non averlo fatto lui, dette del pedofilo al salvatore di 12 bambini rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia). Lo sanno anche quelli di Time che, infatti, lo definiscono «clown, genio, visionario, industriale, salvatore del mondo, showman». Ma la rivista non assegna un premio Nobel e Musk certamente, al di là delle tante cose discutibili — scetticismo iniziale su vaccini e mascherine, dipendenti maltrattati, ritmi infernali di lavoro, grande disinvoltura nella comunicazione finanziaria che ha spinto la Sec, il «poliziotto» della Borsa, a sanzionarlo — è un grande protagonista: fa notizia quasi tutti i giorni come genio o come saltimbanco, è uno dei pochi che passerà alla storia per aver fatto cose durature per l’umanità ed è anche l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio personale stimato oltre 250 miliardi di dollari.
La cosa è discretamente rilevante in sé, ma lo diventa ancor di più se si riflette sul fatto che questo personaggio oggi circondato ovunque da fan adoranti e che ha 66 milioni di follower su Twitter, fino a pochi anni fa era, invece, assediato da gente che gli dava del buffone e del fallito. E la sua Tesla, effettivamente, fu sull’orlo del fallimento prima di diventare l’azienda che oggi vale mille miliardi di dollari, la metà del Pil italiano. Un super ricco che, però, non possiede nemmeno una casa, tutto preso, com’è dai suoi mille progetti industriali. Ma siccome è anche un narcisista, si diverte a intervenire su tutto su Twitter e, pur essendo un personaggio ruvido, per nulla empatico, va a sfogare il suo sarcasmo in tv anche in show satirici come Saturday Night Live. Bersaglio preferito Jeff Bezos, il miliardario fondatore di Amazon che arranca nello spazio con la sua assai meno avanzata Blue Origin e che è stato superato anche in ricchezza da Musk. Quando Jeff ha fatto ricorso contro la decisione della Nasa di affidare a Space X la costruzione del modulo di atterraggio lunare per la prossima missione sul nostro pianeta, Elon ha replicato secco: «Se Bezos sapesse far funzionare i suoi missili con tutti i suoi lobbisti e i suoi avvocati sarebbe già su Plutone».
Da qualche tempo, però, Musk ha un po’ cambiato registro: affronta sempre più spesso argomenti politici comincia a dirsi stanco del tanto lavoro e butta là provocazioni come l’ipotesi di mollare i suoi incarichi imprenditoriali per fare solo l’influencer. Parla di tutto: della nostra civiltà che rischia di scomparire se non facciamo più figli come della libertà di non vaccinarsi («io e i miei figli siamo immunizzati, ma chi non vuole non va criminalizzato: basta attacchi alla libertà dell’individuo»). Ed è strano sentire un grande imprenditore ormai americano formulare giudizi generosi (anche se non totalmente assolutori) sulla Cina di Xi Jinping (dove Tesla ha costruito la sua più grossa fabbrica), mentre, poi, spara a zero sul programma di governo di Joe Biden. Musk arriva a invitare il Senato a bocciare il piano d’investimenti sociali e ambientali Build Back Better: «Sono soldi buttati, non ci serve assistenza».
Vuole mettersi a fare politica? In questo campo è intervenuto spesso, anche criticando il sistema fiscale e Donald Trump, da presidente, andò personalmente ad omaggiarlo a Cape Canaveral quando partirono le sue prime missioni spaziali con uomini a bordo. Difficilmente Elon scenderà in campo ma alcuni vedono in lui una forza capace di trasformare la politica e anche il capitalismo. Si parla ormai di «muskism», una sorta di capitalismo tecnologico nel quale il problema delle diseguaglianze viene dissolto (o nascosto) grazie all’economia digitale.
Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 14 dicembre 2021.Con la Tesla ha aperto, quando nessuno ci credeva, la strada al passaggio alla propulsione elettrica per le auto di tutto il mondo. Ha riaperto, con i suoi missili e le sue astronavi di SpaceX, l'era spaziale americana interrotta con il pensionamento degli shuttle, sostituendo competenza ingegneristica e pragmatismo alla burocrazia della Nasa e ridicolizzando gli altri concorrenti privati a partire da Boeing. Elon Musk, che fa anche mille altre cose - vuole portarci su Marte, fare viaggiare uomini e merci sottoterra ad alta velocità con la Boring Company e vuole impiantarci con la sua Neuralink un microprocessore nel cervello promettendoci che in questo modo non verremo soggiogati dall'intelligenza artificiale - è il genio inquieto, visionario e controverso che la rivista Time ha scelto come personaggio dell'anno. Non è un santo né un uomo privo di contraddizioni: ha combinato anche diversi pasticci, molte sue sortite sono discutibili o addirittura da condannare (come quando, furioso per non averlo fatto lui, dette del pedofilo al salvatore di 12 bambini rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia). Lo sanno anche quelli di Time che, infatti, lo definiscono «clown, genio, visionario, industriale, salvatore del mondo, showman». Ma la rivista non assegna un premio Nobel e Musk certamente, al di là delle tante cose discutibili - scetticismo iniziale su vaccini e mascherine, dipendenti maltrattati, ritmi infernali di lavoro, grande disinvoltura nella comunicazione finanziaria che ha spinto la Sec, il «poliziotto» della Borsa, a sanzionarlo - è un grande protagonista: fa notizia quasi tutti i giorni come genio o come saltimbanco, è uno dei pochi che passerà alla storia per aver fatto cose durature per l'umanità ed è anche l'uomo più ricco del mondo con un patrimonio personale stimato oltre 250 miliardi di dollari. La cosa è discretamente rilevante in sé, ma lo diventa ancor di più se si riflette sul fatto che questo personaggio oggi circondato ovunque da fan adoranti e che ha 66 milioni di follower su Twitter, fino a pochi anni fa era, invece, assediato da gente che gli dava del buffone e del fallito. E la sua Tesla, effettivamente, fu sull'orlo del fallimento prima di diventare l'azienda che oggi vale mille miliardi di dollari, la metà del Pil italiano. Un super ricco che, però, non possiede nemmeno una casa, tutto preso, com' è dai suoi mille progetti industriali. Ma siccome è anche un narcisista, si diverte a intervenire su tutto su Twitter e, pur essendo un personaggio ruvido, per nulla empatico, va a sfogare il suo sarcasmo in tv anche in show satirici come Saturday Night Live. Bersaglio preferito Jeff Bezos, il miliardario fondatore di Amazon che arranca nello spazio con la sua assai meno avanzata Blue Origin e che è stato superato anche in ricchezza da Musk. Quando Jeff ha fatto ricorso contro la decisione della Nasa di affidare a Space X la costruzione del modulo di atterraggio lunare per la prossima missione sul nostro pianeta, Elon ha replicato secco: «Se Bezos sapesse far funzionare i suoi missili con tutti i suoi lobbisti e i suoi avvocati sarebbe già su Plutone». Da qualche tempo, però, Musk ha un po' cambiato registro: affronta sempre più spesso argomenti politici comincia a dirsi stanco del tanto lavoro e butta là provocazioni come l'ipotesi di mollare i suoi incarichi imprenditoriali per fare solo l'influencer. Parla di tutto: della nostra civiltà che rischia di scomparire se non facciamo più figli come della libertà di non vaccinarsi («io e i miei figli siamo immunizzati, ma chi non vuole non va criminalizzato: basta attacchi alla libertà dell'individuo»). Ed è strano sentire un grande imprenditore ormai americano formulare giudizi generosi (anche se non totalmente assolutori) sulla Cina di Xi Jinping (dove Tesla ha costruito la sua più grossa fabbrica), mentre, poi, spara a zero sul programma di governo di Joe Biden. Musk arriva a invitare il Senato a bocciare il piano d'investimenti sociali e ambientali Build Back Better: «Sono soldi buttati, non ci serve assistenza». Vuole mettersi a fare politica? In questo campo è intervenuto spesso, anche criticando il sistema fiscale e Donald Trump, da presidente, andò personalmente ad omaggiarlo a Cape Canaveral quando partirono le sue prime missioni spaziali con uomini a bordo. Difficilmente Elon scenderà in campo ma alcuni vedono in lui una forza capace di trasformare la politica e anche il capitalismo. Si parla ormai di «muskism», una sorta di capitalismo tecnologico nel quale il problema delle diseguaglianze viene dissolto (o nascosto) grazie all'economia digitale. Quanto agli affari di governo, in un'era in cui si discute molto di democrazia diretta e uso della tecnologia in politica, Musk sperimenta la possibilità di prendere decisioni che possono essere controverse o addirittura traumatiche organizzando referendum in rete tra i suoi follower: usa il suo carisma per ottenere consensi plebiscitari. Lo ha fatto quando ha deciso di vendere parte delle sue azioni Tesla per pagare le tasse sulle opzioni che riceverà l'anno prossimo: sapeva che la sua mossa avrebbe fatto crollare il titolo (che ha perso il 20% dai massimi) e allora se l'è fatta approvare preventivamente. Ora ha indetto un altro plebiscito sull'ipotesi di suo abbandono della guida delle aziende. Ma chi ci crede?
Iron(y) Man. Elon Musk è il perfetto super cattivo della nostra era? Pietro Minto su L'Inkiesta l'11 Dicembre 2021. Il direttore dell’Agenzia spaziale europea (ESA) ha accusato i governi mondiali di aver di abdicato al fondatore di SpaceX la gestione dei nostri cieli. Anche la sua Tesla è stata criticata perché l’autopilota permette di guidare mentre si gioca ai videogiochi. Intanto il miliardario sudafricano trolla su Twitter, vende case e dice di voler diventare un influencer. Nel settembre del 2015 Elon Musk fu ospite del Late Show di Stephen Colbert, che aveva da pochi giorni preso lo scettro da David Letterman. Nel corso dell’intervista, Colbert gli fece notare come la sua mission fosse quella di «salvare il mondo», pur essendo un miliardario: «O sei un super eroe o sei un super cattivo», disse il comico tra le risate del pubblico. Riguardare quel video dalle macerie del 2021 fa un effetto strano. All’epoca Musk era “solamente” un imprenditore: il capo di Tesla, quello di Spacex, il CEO di Solar City (l’azienda di pannelli solari che Tesla avrebbe comprato nel 2016). Mancava ancora un anno alle elezioni che avrebbero portato Donald Trump alla Casa Bianca; ma anche alla fondazione di The Boring Company, la sua bizzarra azienda che vuole traforare la California per far viaggiare macchine a tutta velocità sottoterra (non dite a Elon che esistono i treni). Nell’arco di questi sei anni il mondo è cambiato, ma forse non quanto Musk, che ha trasformato il suo account Twitter in un seguitissimo mix di meme edgy, polemiche politiche, battute anti-comuniste, riferimenti al 69, attacchi diretti a Bernie Sanders («Mi dimentico sempre che esisti», lo scorso novembre), e tweet con cui manipola – volente o nolente – il business trilionario dei Bitcoin e delle criptovalute in genere. Il tutto mentre le azioni di Tesla sono aumentate del 2378,52% in cinque anni, e la sua SpaceX lancia astronauti, satelliti e civili nello spazio.
A distanza di sei anni il dilemma di Colbert rimane valido più che mai: Elon Musk è un eroe o un villain? I fatti di questa settimana non sembrano dipingere un quadro idilliaco per l’ex marito di Grimes. Solo nei giorni scorsi, infatti, il nuovo direttore dell’Agenzia spaziale europea (ESA), Josef Aschbacher, ha criticato lo strapotere di Musk sulla questione spaziale, accusando i governi mondiali di aver di fatto abdicato a un privato billionaire la gestione dei nostri cieli. «Hai una persona che possiede metà dei satelliti attivi nel mondo, è incredibile», ha detto Aschbacher al Financial Times. «È lui che sta facendo le regole, de facto. Il resto del mondo, Europa inclusa, non sta rispondendo con la velocità dovuta».
I satelliti in questione sono di Starlink, altra impresa di Musk (lanciata nel 2015), che entro il 2025 vuole lanciare 11943 satelliti di piccola dimensione nella orbita terrestre bassa (42mila entro dieci anni, se glielo permettono), creando un network satellitare in grado di portare connessioni veloci in tutte le aree del mondo. In alcuni casi, di notte, è possibile vedere questi satelliti attraversare il cielo come una scia di punti (nemmeno troppo piccoli) luminosi. «Musk sta privatizzando il cielo notturno», si lamenta qualcuno da tempo. E presto non sarà nemmeno il solo a riempire di satelliti (e luce) le nostre notti: a fare da competitor a Starlink ci sono già la Kuiper, azienda finanziata da Amazon, OneWeb dell’imprenditore Greg Wyler e la cinese Hongyan.
Ma non occorre andare tanto lontano per trovare i guai di Musk. La sua Tesla, per esempio, è da tempo sotto osservazione da parte del Congresso statunitense per il modo con cui pubblicizza il suo Autopilot, il sistema di guida assistita dell’azienda che viene venduto come fosse Supercar, tanto da spingere l’azienda a distanziarsi dalle parole del suo CEO.
Non è tutto: da questa settimana, grazie a un aggiornamento del sistema operativo delle sue automobili, è possibile guidare una Tesla mentre si gioca ai videogiochi sul grande e iconico display di queste vetture. Anche in questo caso, Musk e i suoi giocano sui vuoti normativi, sperimentando opzioni che possono mettere in pericolo la vita di molte persone, nel nome dell’innovazione – o meglio, del denaro. E anche in questo caso i governi e gli enti che dovrebbero regolare questo settore sono confusi e inermi: gli avversari ideali per uno come Musk.
Discutere di queste cose online, specie su Twitter, è complesso perché a difendere Mr. Tesla c’è una schiera di accoliti del miliardario, i cosiddetti Tesla Bros, subito pronti a ergersi in piedi e prendere una pallottola nel nome del loro Fondatore. È evidente che, agli occhi dei bros, il dilemma di Colbert sia fuffa, classica propaganda liberal: è ovvio che Elon Musk stia salvando il mondo.
Al di fuori di questa setta, però, il dubbio rimane, eccome. Musk intanto continua la sua trasformazione da imprenditore seriale d’enorme successo a personalità tutto tondo. Una star. O un influencer di prestigio. Il matrimonio con la musicista Grimes è finito proprio quest’anno, a poco più di un anno dalla nascita del piccolo X Æ A-XII, detto affettuosamente «X» dai suoi genitori.
Quanto a Grimes – che ci tiene a precisare di non «identificarsi con la parola mamma» e di farsi chiamare solo «Claire» da suo figlio – sembra essersi pentita della rottura con Musk, almeno a giudicare dal testo del suo ultimo brano, “Player of Games”, che contiene versi quali: «I’m in love / With the greatest gamer / But he’ll always love the game / More than he loves me».
Musk, invece, se la passa come al solito, specie se si considera che è da almeno vent’anni che si comporta come se fosse in crisi di mezz’età da divorziato (macchine veloci! Razzi! Scavare tunnel!). Recentemente ha venduto la sua ultima casa, una magione da 32 milioni di dollari, per trasferirsi in una casetta da 50mila dollari che «prende in affitto da SpaceX», come ha spiegato su Twitter.
E se i Tesla Bros sono pronti a credere che tutti questi soldi servano a Musk per costruire «una colonia su Marte», noi temiamo siano solo una parte del suo piano di dominio finale. L’Endgame di Elon Musk. E se sarà da buoni o da cattivi, lo scopriremo presto.
Francesco Guerrera per "la Stampa" il 27 ottobre 2021. Prossima fermata: Marte. Dopo aver conquistato la Terra, Elon Musk punta a dominare il sistema solare. Il rivoluzionario più ricco del mondo ha metaforicamente piantato la sua bandiera sul nostro pianeta questa settimana quando Tesla, la sua azienda-scommessa sull'elettrificazione dell'auto, ha superato i mille miliardi di dollari di valore di mercato, raggiungendo Apple, Alphabet/Google, Amazon e Microsoft nel pantheon del capitalismo mondiale. Musk ha celebrato il traguardo con un breve tweet per i suoi 54 milioni di fan: «Wild $T1mes! " "Tempi Pazzeschi!» ma scritto con il simbolo del trilione di dollari, a scanso di equivoci. Ma gente come Musk - non che ce ne siano molti come lui - non è capace di sedersi sugli allori. La nuova frontiera per il 50enne di origine sud-africana è il trasporto di turisti sul pianeta rosso grazie ai razzi futuristici della sua SpaceX, la società che ha fondato per «rendere l'umanità una specie multiplanetaria». È facile alzare il sopracciglio all'entusiasmo esuberante e, forse un po' ingenuo, di un plurimiliardario con sogni grandi quanto il suo ego ma la storia recente ci insegna a non sottovalutare Elon Musk. Mai. Lui, tra l'altro, c'è abituato ad essere sottovalutato, o peggio. Sin da quand'era bambino nel Sud-Africa dell'apartheid e gli altri ragazzi afrikaner lo maltrattavano perché era un nerd. La sua risposta? Nascondersi dietro il suo Commodore Vic-20 per creare un videogioco che poi riuscì a vendere ad una rivista di computer per $500. Non male per un dodicenne. Gli ingredienti del futuro successo di Musk erano presenti già allora: un intelletto senza pari, una determinazione quasi sovraumana e la capacità, non sempre presente tra i «geni» di Silicon Valley, di trasformare innovazioni tecnologiche in denaro contante. Nel mio piccolo, ho avuto modo di osservare molte di queste caratteristiche quando intervistai Musk per questo giornale un po' di anni fa. Mi chiamò al telefono poco dopo la mia visita all'enorme fabbrica di Tesla nei sobborghi di San Francisco e ricordo di avere avuto un'impressione rara nella mia carriera - quella che il mio interlocutore avesse anticipato tutte le mie domande, quasi mi avesse letto nel pensiero. Fu un colloquio affascinante, di cui ricordo l'impazienza di Musk, la voglia irruente di spiegare i suoi sogni. Altri tratti meno piacevoli della sua personalità, si palesarono dopo, sotto i riflettori dei media, soprattutto l'intolleranza di Musk verso quelli meno intelligenti di lui (ovverosia quasi tutti noi). O la capacità di far pesare agli altri la sua superiorità intellettuale - Musk disse alla prima moglie mentre ballavano durante il ricevimento di nozze: «Io sono la persona dominante in questo rapporto». O la tendenza a non rispettare alcune regole, come dimostrato dalle sue battaglie con la Securities and Exchange Commission, l'authority dei mercati americani. Ma nella lotta darwiniana dell'imprenditoria Usa, soprattutto nella «tecnologica» costa Ovest, tutto è perdonato a chi vince. E Musk incominciò a vincere subito dopo aver finito l'università negli States. Come ogni «imprenditore seriale» che si rispetti, Musk imparò non in aula ma fondando azienda dopo azienda. Prima Zip2, società che produceva mappe online, venduta a Compaq per più di $300 milioni, poi X.com, che divenne PayPal, il titano dei pagamenti su internet. Ma la grande intuizione di Musk fu quella di prendere possesso di Tesla nel 2004 e risolvere i grandi problemi delle auto elettriche dell'epoca: la mancanza di stile e la paura che ti lasciassero per strada con le batterie scariche. Se la Toyota Prius sembrava un veicolo per nonne e ragionieri, ecco la Tesla Roadster, macchina super-sportiva che andava da 0 a 60 miglia in meno di quattro secondi. Come spesso accade con Musk, tecnologia e design furono accompagnate da acume per gli affari. Per combattere la «range anxiety», l'ansia di gamma, Musk si inventò un complesso accordo finanziario che permise a chi costruiva centraline di ricarica di usufruire di aiuti statali, facilitando la creazione di una nuova rete di rifornimento elettrico. Come per tutti gli eroi - e Musk ha persino ispirato il Tony Stark di Robert Downey Junior in Iron Man -è la vulnerabilità che li rende umani. Per Musk, il momento più buio arrivò nel 2008 quando Tesla e SpaceX erano vicine al fallimento e, nella vita personale, lui stava soffrendo per via di un divorzio molto duro. «Quello è stato sicuramente l'anno peggiore della mia vita», ha detto Musk che ha anche paragonato l'imprenditoria a «masticare vetro guardando nell'abisso». Nel 2021, Musk ha masticato poco vetro e assaporato molto, molto successo. Ma non basterà. Elon non si ferma a mille miliardi di dollari. Prossima fermata: Marte.
Musk prende in giro Bezos su Twitter: non sei tu il più ricco del mondo. Il Corriere della Sera il 132ottobre 2021. Elon Musk è attualmente la persona più ricca del mondo. E non vuole che Jeff Bezos lo dimentichi, anzi sembra proprio che lo prenda in giro. L’amministratore delegato di Tesla ha risposto a un tweet di Bezos con un emoji che mostra una medaglia d’argento con il numero 2. La risposta di Musk sembrava senza dubbio un riferimento alla «posizione» di Bezos nella classifica dei «Paperoni», che è appunto dietro lo stesso Musk. Il tweet di Musk era in risposta ad un tweet del numero uno di Amazon che faceva riferimento a un articolo del 1999 (in particolare, a una storia di copertina di Barron’s) nel quale veniva messo in dubbio il modello di business del gigante tecnologico. «Ascolta e tieni le orecchie aperte, ma non lasciare che nessuno ti dica chi sei», ha scritto Bezos su Twitter. «Oggi, Amazon è una delle aziende di maggior successo al mondo e ha rivoluzionato due industrie completamente diverse». Nelle risposte, si scorge quella di Musk con il numero 2.
Dagotraduzione dal Daily Star il 18 ottobre 2021. La ricchezza di Elon Musk è cresciuta fino a raggiungere la sorprendente cifra di 230 miliardi di dollari (200 miliardi di euro). Non solo. Il miliardario ha anche allungato il suo vantaggio su Jeff Bezos di Amazon, e adesso è solo in vetta tra gli uomini più ricchi del mondo. La fortuna personale di Musk è aumentata per via della vendita di azioni di SpaceX e per la forte performance del titolo Tesla. Bezos aveva precedentemente detenuto il titolo di persona più ricca del mondo, con un boom in Amazon durante la pandemia di coronavirus che ha visto il suo patrimonio netto salire a 191 miliardi di dollari (165 miliardi di euro). Musk è ora più ricco di Bill Gates e Warren Buffett messi insieme, entrambi in passato detentori del titolo di persona più ricca del mondo. All'inizio di quest'anno, Musk si è impegnato a regalare 150 milioni di dollari (90 milioni di euro), con un premio da 100 milioni di dollari (85 milioni di euro), in un concorso per la riduzione del carbonio. Bloomberg ha riferito che l'accordo SpaceX da solo ha aggiunto 11 miliardi di dollari (9,5 miliardi di euro) alla ricchezza di Musk. Musk, 50 anni, aveva commentato la notizia del suo crescente vantaggio su Bezos twittando un'emoji medaglia d'argento al fondatore di Amazon.
Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 13 ottobre 2021. Se la Gran Bretagna ha la famiglia reale, l'America ha scelto, come fonte di pettegolezzi di alta quota, le dispute fra i suoi miliardari. Un tempo tenevano banco quelle tra Bill Gates e Steve Jobs, oggi il loro posto è stato preso da Jeff Bezos ed Elon Musk, che sono anche i due uomini più ricchi del mondo. Pur essendo riuscito a costruire intorno ad Amazon il gruppo di imprese più potente e ramificato degli Usa, ed essere diventato lui stesso l'uomo più ricco del mondo, Bezos non è mai riuscito completamente a togliersi di dosso un certo alone da genietto solitario, l'immagine di un uomo sempre a caccia di riconoscimenti più che quella di un leader sicuro del suo ruolo; arricchito più che ricco. Poi, qualche tempo fa, Elon Musk l'ha scavalcato al vertice dell'indice Bloomberg dei miliardari - ora il gran capo di Tesla «vale» 222 miliardi di dollari grazie a nuove stime di mercato che attribuiscono alla sua Space X un valore superiore ai 100 miliardi mentre il fondatore di Amazon deve accontentarsi di un patrimonio di 191 miliardi - e allora l'imprenditore visionario che vuole portarci tutti su Marte ha deciso che era giunto il momento di prendere in giro Bezos non solo come industriale ma anche come miliardario. L'ha fatto a modo suo, aggiungendo un minuscolo ma bruciante meme, una piccola medaglia d'argento con su scritto il numero 2, sotto un lungo post nel quale Bezos ripubblica una copertina del 1999 della rivista Barron's che prevedeva, per Amazon, una fine catastrofica, e rivendica il suo straordinario successo contro tutti gli uccelli del malaugurio della stampa: annunciavano un fallimento e invece oggi, 22 anni dopo, Amazon vale 1600 miliardi di dollari ed è, scrive Bezos, «una delle imprese di maggior successo al mondo». Bene, bravo, ma sei pur sempre un numero due, gli dice con quel meme Musk, aggiungendo un'altra puntata alle polemiche tra i due super-ricchi, generalmente concentrate sulle loro imprese spaziali: altrimenti che polemiche d'alta quota sarebbero? La più recente riguarda l'assegnazione da parte della Nasa a SpaceX del contratto da 2,9 miliardi di dollari per la realizzazione del modulo di atterraggio che verrà usato nella prossima missione sulla Luna. Bezos ha fatto anche ricorso in tribunale contro questa scelta. Ma Musk, dall'alto della tecnologia spaziale di SpaceX, molto più avanzata e matura di quella della Blue Origin, per ora in grado solo di far volare razzi che compiono brevi missioni suborbitali come quella di turismo spaziale inaugurata questa estate dallo stesso Bezos, lo ha liquidato più volte con battute taglienti: «Fossi in lui perderei meno tempo coi magistrati e ne dedicherei di più a cercare di mettere in orbita i miei missili» e ancora «la strada verso la Luna non passa per i tribunali». Poi, quando Bezos ha denunciato la Starlink di Musk che sta mettendo in orbita grappoli di minisatelliti per telecomunicazioni (Blue Origin ha un progetto simile, Kuiper) Elon lo ha sbeffeggiato di nuovo: «Da quando non è più Ceo di Amazon e ha tempo libero, Jeff ha come hobby quello di denunciare Space X». Replica di Amazon: «Lo fai anche tu». Controreplica di Musk: «SpaceX denuncia per avere la possibilità di competere, Blue Origin denuncia per sottrarsi alla competizione». Divisi su tutto, Jeff ed Elon sono simili solo su una cosa: pagano pochissime tasse, briciole, sui loro giganteschi guadagni. Tutto legale. Addirittura, Bezos ha pagato zero imposte sul reddito nel 2007 e nel 2011, Musk ha fatto lo stesso nel 2018. Senza violare alcuna legge. Geni della tecnologia proiettati verso il futuro, in questo sono simili a vecchie volpi della finanza e dell'industria, da George Soros a Rupert Murdoch che, col Fisco, si comportano nello stesso modo.
Alla conquista del Texas. Elon Musk, l’ultima sfida di mister Tesla: energia elettrica e pannelli green. Vittorio Ferla su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Che le ambizioni di Elon Musk non avessero limiti lo sapevamo già. Dopo Richard Branson e Jeff Bezos, Elon Musk sarà il terzo magnate americano a inviare i primi civili nell’orbita terrestre bassa entro il gennaio del 2022. La sua SpaceX ha già venduto quattro voli charter multimilionari nello spazio. In attesa di questa missione (denominata Crew-2), il fondatore di Tesla continua a espandersi sulla terra. L’ultimo progetto è quello di fornire energia direttamente alle famiglie del Texas. A metà agosto, la Tesla Energy Ventures ha presentato una domanda alla Public Utility Commission del Texas per diventare fornitore di energia elettrica al dettaglio in un mercato dell’energia – quello del Lone Star State – vasto, frammentato e in gran parte non regolamentato. Nel frattempo, Tesla sta già costruendo grandi impianti di stoccaggio dell’energia, incluso uno vicino a Houston, la metropoli texana dove sorge il Johnson Space Center della Nasa, la sede Usa di tutti i voli spaziali con equipaggio umano. Nel trimestre chiuso il 30 giugno scorso, l’azienda ha venduto oltre 200mila veicoli elettrici, per un totale di 10,2 miliardi di dollari di entrate. Agli investitori Musk ha annunciato che, nei suoi piani, il business energetico dell’azienda dovrà eguagliare un giorno la sua produzione automobilistica. Il tycoon ha ampliato i suoi affari nel campo dell’energia con l’acquisto del fornitore di pannelli solari Solar City nel 2016. Secondo il Texas Monthly, Tesla potrebbe così essere attrezzata per consentire alle singole famiglie texane dotate di pannelli solari di guadagnare denaro condividendo l’energia in eccesso con la rete, una prassi già adottata in alcuni altri stati. Da uomo di business qual è, Elon Musk ha fiutato da tempo la fragilità del sistema dei servizi texano. Una fragilità emersa all’improvviso nel febbraio scorso quando un’ondata di freddo polare ha colpito gli Stati Uniti, soprattutto nel Texas: più di cento morti, quattro milioni di persone rimaste senza corrente, produzione energetica e reti elettriche paralizzate, cruciali attività industriali e tecnologiche bloccate dal maltempo. Per il Texas, vero e proprio hub energetico del Paese, capace di generare il doppio di energia del secondo stato in classifica, la Florida, è stato un collasso. L’emergenza ha “congelato” fonti tradizionali e fossili di energia: le centrali a gas naturale e a carbone, i giacimenti per il fracking di greggio. Ma anche le fonti rinnovabili e alternative quali l’eolico. Secondo la Federal Reserve di Dallas, la gelata è costata all’economia dello stato da 80 a 130 miliardi di dollari: danni diffusi a case e aziende, attività economiche distrutte, approvvigionamento idrico contaminato. Per il Texas, pertanto, l’espansione di Tesla potrebbe diventare un aiuto a diversificare il mix energetico dello stato, dominato da petrolio e gas, e a migliorare l’erogazione del servizio pubblico. Per Musk la produzione di energia elettrica potrebbe supportare l’alto fabbisogno energetico delle sue attività nello stato. Tesla, infatti, sta costruendo una “gigafactory”, ovvero una fabbrica di batterie su larga scala vicino ad Austin. E SpaceX, la compagnia di voli spaziali commerciali fondata da Musk nel 2002, ha una struttura di lancio a Brownsville, all’estremità meridionale dello stato. Insomma, la conclusione dell’affare può incontrare l’interesse di tutti. Vittorio Ferla
La sfida lanciata dal Ceo di Tesla. Elon Musk, la nuova sfida del miliardario: premio di 100 milioni per la migliore tecnologia cattura carbonio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. Una gara creativa per la migliore tecnologia cattura carbonio, con in palio 100 milioni di dollari. È la nuova sfida lanciata da Elon Musk, il miliardario americano (secondo uomo più ricco sul pianeta dietro Jeff Bezos, fondatore di Amazon) proprietario tra le altre cose di Tesla e SpaceX. La "lotteria" è stata annunciata da Musk su Twitter, dove è sempre molto attivo, rinviando ad ulteriori dettagli la prossima settimana. Poche parole che hanno catturato l’attenzione di tutti, incassando in poche ore oltre 30mila retweet e quasi 350mila "mi piace". Una sfida per il cambiamento climatico, la più grande ‘mission’ che i Paesi del mondo occidentale (e non solo) dovranno affrontare nei prossimi anni per evitare la fine dell’umanità come la conosciamo attualmente. Ambiente che da sempre è una delle ossessioni di Musk, tanto da entrare in Tesla come principale investitore nel 2004 e diventarne Ceo pochi anni dopo. La casa automobilistica che sul mercato offre esclusivamente vetture elettriche è diventata nel luglio dello scorso anno la società "regina del mondo" , superando Toyota nella capitalizzazione. Quanto ai primi commenti al tweet, in molti hanno proposto come migliore tecnologia il reattore di Sabatier. Di cosa si tratta? Prendendo il nome dal suo scopritore, Paul Sabatier, è una reazione chimica in cui il diossido di carbonio reagisce con l’idrogeno, in presenza di nichel quale catalizzatore e in condizioni di temperatura ottimale compresa tra 300-400 °C e alta pressione, producendo metano e acqua. Ma altri hanno, quasi ironicamente, postato al tweet di Musk una semplice foto di un albero, suggerendo al Ceo di Tesla di piantarli come soluzione semplice e ‘green’ per catturare carbonio. La prossima settimana ne sapremo di più.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Il lancio il 20 luglio in Texas. Voli turistici nello spazio, Bezos anticipa Musk e Branson: prezzi da capogiro. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Il 20 luglio in Texas è in programma il primo viaggio turistico nello spazio. Ad annunciarlo, con una operazione mediatica senza precedenti, è l’imprenditore americano Jeff Bezos -fondatore di Amazon – che volerà a bordo della navetta New Shepard, della sua società Blue Origin, insieme al fratello minore Mark e a un terzo passeggero, vincitore di un’asta online ancora in corso sul sito della stessa Blue Origin. L’offerente vincitore potrà partecipare al viaggio nello spazio. L’asta ha già visto la partecipazione di oltre 6000 ‘paperoni‘ da 143 Paesi del mondo. L’offerta attuale è pari a 2,8 milioni di dollari. L’asta si concluderà il prossimo 12 giugno. L’importo sarà devoluto alla fondazione di Blue Origin, Club for the Future , per ispirare le generazioni future a perseguire carriere in ambito Stem – discipline scientifico-tecnologiche – e aiutare a inventare il futuro della vita nello spazio. “Fin da quando avevo 5 anni ho sognato di viaggiare nello spazio. Il 20 luglio intraprenderò un viaggio con mio fratello. L’avventura più grande con il mio migliore amico”, ha annunciato Bezos su Instagram. Blue Origin è una società privata creata da Bezos con sede a Kent (Washington), un sobborgo di Seattle, dov’è situata la sua area di ricerca e sviluppo. Nel 2009 la società è stata premiata dalla NASA con 3,7 milioni di dollari con l’accordo sullo spazio all’interno del programma commerciale (CCDev) per lo sviluppo di concept e tecnologie per gettare le basi per future operazioni di volo spaziale umano. Ha ricevuto altri 22 milioni di dollari durante la seconda fase del programma. Si tratta di una mossa strategica per anticipare la concorrenza. Bezos – che lascerà ad Andy Jassy la carica di amministratore delegato di Amazon il 5 luglio – vuole accelerare nella ‘guerra’ tra le startup dello spazio che vede in campo anche il gruppo SpaceX guidato da Elon Musk e Virgin Galactic fondata da Richard Branson. Tutti e tre hanno investito miliardi di dollari nelle rispettive startup, ma sarà Bezos il primo a viaggiare nello spazio con la navicella costruita dalla sua società. Virgin Galactic dovrebbe lanciare navicelle nello spazio a partire dal 2022. Ad oggi sono stati già venduti circa 600 biglietti ad un prezzo che oscilla tra i 200 e i 250mila dollari.
Un progetto innovativo e low cost. L’ultima follia di Elon Musk: a cosa serve il tunnel di 3 chilometri progettato sotto Miami. Fabio Calcagni su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Nelle ultime settimane tutto ciò che tocca, o che per meglio dire nomina su Twitter, diventa ora. Elon Musk, l’istrionico imprenditore proprietario tra le altre cose di Tesla e secondo uomo più ricco sul pianeta, ne ha fatta un’altra delle sue. L’imprenditore si è infatti buttato a capofitto sull’idea, di cui si parla da decenni, di realizzare un tunnel sotterraneo per unire le due principali arterie di Miami, un modo per decongestionare il traffico cittadino, con la città che può contare su 470mila abitanti ma che nell’area metropolitana schizza a oltre 6 milioni. Il progetto sarebbe già pronto e affidato ad una delle sue compagnie, la The Boring Company, che ha già ultimato un tunnel presso la propria sede californiana (per test interni) e ultimando quello sotto il Las Vegas Convention Center, attendendo invece l’approvazione del progetto per un tunnel simile a Los Angeles. Il costo stimato da Musk sarebbe di "soli" 30 milioni di dollari per il tunnel lungo due miglia, circa 3 chilometri, da realizzare in soli sei mesi di lavoro. Della questione hanno già parlato lo stesso boss di Tesla e il sindaco di Miami, Francis Suarez, che lo ha reso noto via Twitter. Il primo cittadino attende ora un confronto col governatore della Florida Ron DeSantis e il sindaco della contea di Miami-Dade Daniella Levine Cava. A sorprendere positivamente la politica è che il piano di Musk sia enormemente più economico di tutti i progetti già visti negli anni scorsi: nel 2018 si parlava di un costo per l’opera di circa un miliardo di dollari e tempi di realizzazione superiori ai quattro anni.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Essere Elon Musk. Pier Luigi Pisa su La Repubblica. La vita, le idee e i segreti del visionario Ceo di Tesla e SpaceX che il 24 settembre prossimo sarà a Torino per partecipare all'Italian Tech Week.
1: l'infanzia in Sudafrica e il nonno esploratore
2: la madre modella, il papà ingegnere e la miniera di famiglia
3: il primo affare a 12 anni grazie a un videogame
4: quando finì all'ospedale, picchiato dai bulli della scuola
5: com'era il suo nightclub all'università (e cosa faceva lui)
6: la prima startup e la supercar comprata con i primi guadagni
7: il problema delle ferie
8: il razzo russo che costava troppo e le origini di SpaceX
9: il nome della sua navicella spaziale ha un significato nascosto
Da corriere.it il 9 maggio 2021. «Sto facendo la storia perché sono la prima persona con la sindrome di Asperger a condurre lo show. O almeno, il primo ad ammetterlo». Elon Musk si è presentato così ai telespettatori del Saturday Night Live, il programma cult della tv americana di cui l'8 maggio è stato ospite insieme ai cantanti Miley Cyrus e the Kid Laroi. Il suo intervento, come tradizione, è stato il momento più atteso dello show e l'imprenditore americano non ha deluso i suoi fan, rivelando di essere affetto da questo disturbo dello sviluppo neurologico. «A volte dico cose strane, ma è così che funziona il mio cervello - ha poi proseguito il miliardario - Ho reinventato le auto elettriche e mandato razzi su Marte, pensavate fossi un ragazzo normale e tranquillo?».
Sui social: chi lo difende e chi lo attacca. Molti spettatori, sui social, hanno fatto notare al neo imperatore di Marte, come si è autodefinito qualche settimana fa, che in realtà questo primato non spetta a lui ma all'attore Dan Aykroyd nel 2003. Poco importerà al visionario fondatore di Tesla, che ormai ci ha abituati a queste uscite molto spettacolari, sia sui social (una delle ultime dichiarazioni: «Vendo tutto e tengo solo i soldi per costruire una città su Marte») che in tv. Alcuni utenti hanno comunque lodato il suo intervento, per aver portato il tema della sindrome di Asperger (di cui soffre anche Greta Thumberg e Susanna Tamaro) ad una platea internazionale. Secondo altri, invece, il monologo è stato solo un (ennesimo) modo per attirare l'attenzione su di sé.
Che cos'è la sindrome di Asperger. La sindrome di Asperger prende il nome dallo psichiatra e pediatra austriaco Hans Asperger ed è considerata una forma di autismo «ad alto funzionamento»: infatti non isola quanto l’autismo in senso stretto e non comporta significativi ritardi nello sviluppo del linguaggio o dello sviluppo cognitivo. Chi è affetto da questa sindrome può avere una compromissione delle interazioni sociali che può esprimersi con diversi livelli di gravità e spesso adotta comportamenti ripetitivi e stereotipati, sviluppa attività e interessi molto ristretti. Il 20 febbraio è la giornata internazionale dedicata agli «Aspie», persone affette dalla sindrome.
Rupert Murdoch. Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 3 marzo 2021. Segregato per mesi nella sua residenza inglese nell' Oxfordshire per paura del coronavirus, con la famiglia spaccata dalla disputa tra i figli - Lachlan, attuale amministratore del gruppo, e James che se n' è andato sbattendo la porta - e con la Fox , il gioiello della corona che produce l' 80 per cento dei profitti, in piena tempesta post-elettorale Usa, Rupert Murdoch viene descritto da molti sul viale del tramonto imprenditoriale. Avrebbe tutti i diritti di appendere le scarpe al chiodo, visto che è arrivato al traguardo dei 90 anni (li compirà tra una settimana). Ma il vecchio tycoon australiano dell' editoria che, partendo, da un giornale ereditato dal padre, Keith, ad Adelaide, ha costruito in 70 anni un impero di giornali e televisioni molto influente in tutto il mondo anglosassone, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, non ama guardare indietro e fare bilanci. Non l' ha fatto quando ha compiuto 70 anni e nemmeno agli 80. Con qualche motivo, visto che le sue conquiste principali - il Wall Street Journal e la Fox appunto - sono arrivate quando Rupert aveva alle spalle già quasi mezzo secolo di carriera da editore. Il patriarca, che ha diviso in un trust il suo patrimonio tra i sei figli, ma ha mantenuto il controllo delle aziende, continua a guardare avanti mosso dall' ambizione e dallo spirito di avventura. Certo, James e Lachlan aspettano la sua uscita di scena per una resa dei conti familiare. E anche chi ammira la carriera di un editore conservatore capace di navigare anche in tempeste politiche avverse - Murdoch ha avuto rapporti con 12 presidenti, a partire dall' incontro con John Kennedy nel 1962 - gli rimprovera due errori: non aver creato una linea di successione chiara per mantenere compatto il gruppo anche in futuro e aver consentito che la linea sempre più radicalmente di destra della Fox sconfinasse alla fine, trascinata da Donald Trump, in un ruolo attivo nella diffusione di teorie cospirative e di falsità che hanno destabilizzato la democrazia Usa fino all' assalto al Congresso del 6 gennaio. I mesi delle elezioni presidenziali sono stati duri per il patriarca chiuso nel suo maniero, con Lachlan, capo della Fox e ancor più conservatore del vecchio Rupert, che ha lasciato mano libera agli anchor trumpiani mentre James (capo dell' impero negli anni in cui Lachlan si era ritirato in Australia) ha lasciato tutti gli incarichi in un gruppo familiare del quale non condivide più le scelte politiche: dalla copertura data anche alle sortite più estreme, quasi golpiste, di The Donald, fino ai mutamenti climatici e all' ambiente. Rupert - imprenditore prima ancora che conservatore - ha continuato a tenere la Fox vicina a Trump convinto che lì ci fosse un enorme bacino di ascoltatori, mentre l' audience di sinistra era già presidiata dalla Cnn e da altre reti. Ma attraverso il Wall Street Journal ha continuato a segnalare, in un' ottica pur sempre conservatrice, eccessi e rischi delle scelte di Trump. E dopo il voto ha lasciato che la Fox si spaccasse tra giornalisti che riconoscevano i dati numerici della vittoria di Biden e commentatori che continuavano a parlare di truffe nei seggi e di elezioni rubate. Risultato: Trump ha cominciato ad accusare di tradimento la tv di Murdoch spingendo una parte dei suoi elettori a emigrare verso altre reti ancor più schierate con lui come Newsmax e Oann . Ora Fox , in calo di ascolti e anche di entrate pubblicitarie per il ritiro di inserzionisti che non vogliono essere associati ad anchor considerati da molti razzisti o antidemocratici, rischia di non essere più la gallina dalle uova d' oro del gruppo. La rete è corsa ai ripari licenziando Lou Dobbs, il conduttore che ha dato più credito alle teorie cospirative, ma questo andamento zigzagante e la famiglia spaccata disorientano NewsCorp e FoxCorp, i due gruppi rimasti nelle mani dei Murdoch che due anni fa hanno incassato 71 miliardi di dollari dalla vendita alla Disney della 21st Century Fox (cinema e spettacoli tv). Così qualche settimana fa Rupert si è vaccinato ed è tornato a Los Angeles per riprendere la guida dell' impero. Forse prepara qualche altra sorpresa societaria (come la fusione tra giornali e tv o la vendita della Fox ) ora che sta per scadere il periodo nel quale non poteva vendere o comprare per non perdere i benefici fiscali dell' operazionen Disney. A 90 anni, felice con la sua quarta moglie, Jerry Hall, Rupert non sembra aver perso il suo ottimismo: ha appena vinto la sua battaglia decennale contro big tech - Google e Facebook costrette (anche per via di una nuova legge australiana) a concordare il pagamento delle notizie delle testate di Murdoch messe nei loro canali social - e ha comprato una nuova, imponente residenza vicino Londra: Great Tew Manor, un castello in rovina il cui restauro richiederà diversi anni. Lui non ha fretta: mamma Elisabeth è arrivata serenamente a 103 anni.
Mark Zuckerberg. Enrico Forzinetti per corriere.it il 25 luglio 2021. Quanto vale la vita di Mark Zuckerberg? Una risposta univoca non esiste ma una buona indicazione indiretta ci viene data dalle spese per la sua sicurezza sostenute da Facebook. Secondo l’ultimo report citato da Protocol si parla di 23,4 milioni di dollari nel solo 2020, in aumento rispetto ai 20,4 dell’anno precedente. Una parte di questo incremento è certamente attribuibile al rischio Covid e alle ultime misure per la protezione durante il lavoro da remoto, diventato predominante nell’ultimo anno e mezzo.
Chi c’è agli altri due posti del podio. Se si va più nello specifico della situazione di Zuckerberg, in verità 10 milioni sono una cifra forfettaria che il fondatore del social riceve per la sua sicurezza privata mentre gli altri 13,4 sono quelli spesi direttamente da Facebook in maniera aggiuntiva. Ma è la stessa società ad avere a cuore l’incolumità dei propri vertici dato che al secondo posto della classifica assoluta nel settore tech c’è la COO di Facebook Sheryl Sandberg, per cui sono stati spesi 7,6 milioni. Sul terzo gradino del podio troviamo invece il Ceo di Google Sundar Pichai, la cui sicurezza è costata 5,4 milioni. Ma anche per la guida di Mountain View si può osservare un importante incremento rispetto al 2019, quando invece erano stati investiti solamente (si fa per dire) 3,3 milioni. A rincorrere i primi tre nella nella lista di manager del mondo tecnologico ci sono tutti gli altri più distanziati.
Crollano le spese per l’ad di Uber. Per il fondatore di Lyft John Zimmer sono stati pagati poco più di due milioni di dollari, mentre il Ceo di Oracle è costato 1,7 milioni. Poco sotto troviamo Jeff Bezos di Amazon, con 1,6 milioni. Ma bisogna anche sottolineare che in questo caso la restante parte la mette l’uomo più ricco al mondo di tasca propria, non figurando quindi tra le spese aziendali. Non ci sono invece dati riguardanti Satya Nadella, Ceo di Microsoft, mentre per Tim Cook di Apple non si è andati oltre i 500 mila dollari. Ma il dato più curioso di tutti è quello legato all’ad di Uber Dara Khosrowshahi per cui sono crollate le spese: dai due milioni di dollari del 2019 agli 850 mila dell’anno passato. La società di noleggio auto con conducente ha anche specificato che 120 mila dollari sono stati spesi per il lavoro da remoto e che al suo amministratore delegato è stato affidato anche un esperto di sicurezza per occuparsi della casa.
Il discusso libro sulle “brutte verità” di Facebook. Il Post DOMENICA 25 LUGLIO 2021. Due giornaliste del New York Times hanno ricostruito le vulnerabilità, gli interessi e i dissidi interni al social network. Un libro scritto da due apprezzate giornaliste del New York Times, Sheera Frenkel e Cecilia Kang, uscito negli Stati Uniti il 13 luglio, è da alcuni giorni oggetto di estese attenzioni tra analisti e commentatori interessati all’ampio dibattito sui sociali network. Intitolato An Ugly Truth: Inside Facebook’s Battle For Domination, tratta delle responsabilità di Facebook nella diffusione di comportamenti legati alla disinformazione, all’incitamento all’odio, alle teorie del complotto e alla violenza. Le responsabilità sono principalmente definite in termini di interessi economici nella monetizzazione di contenuti divisivi e infondati, e in termini di mancata attivazione di tempestivi e appropriati protocolli di protezione, nonostante la consapevolezza delle infiltrazioni russe e di altri fenomeni relativi alla sicurezza nazionale all’interno dell’azienda. Il libro di Frenkel e Kang si sofferma inoltre sui dissidi interni tra reparti e figure centrali all’interno di Facebook, incluso il rapporto problematico tra il CEO e cofondatore Mark Zuckerberg e l’influente direttrice operativa Sheryl Sandberg. Per scriverlo, Frenkel e Kang – che al New York Times si occupano regolarmente di sicurezza informatica e aspetti normativi di Internet – hanno raccolto più di 1.000 ore di interviste a oltre 400 dipendenti ed ex dipendenti di Facebook di ogni livello, consulenti esterni, avvocati e altri professionisti vicini all’azienda. Molte tra le persone intervistate hanno inoltre fornito promemoria interni, email e altri documenti consultati dalle autrici del libro. In precedenza, Frenkel aveva lavorato per dieci anni come corrispondente dal Medio Oriente. Kang, passata al New York Times nel 2015 dopo dieci anni al Washington Post, aveva peraltro collaborato in passato a un articolo sui rapporti tra la NSA e le grandi aziende di Internet, premiato con il Pulitzer nel 2014.
La disinformazione su Facebook. An Ugly Truth si concentra su quanto accaduto all’interno di Facebook tra la campagna presidenziale del 2016 e l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, un periodo di tempo in cui l’ex presidente Donald Trump ha di molto incrementato la sua popolarità e influenza sulla piattaforma, contribuendo anche alla diffusione di informazioni false o fuorvianti. Il titolo del libro è tratto da un promemoria interno intitolato The Ugly (“il brutto”) e inviato nel giugno 2016 da Andrew Bosworth, un dirigente di Facebook descritto come uno tra i più stretti collaboratori e confidenti di Zuckerberg. All’epoca, una squadra di tecnici e sviluppatori di Facebook era impegnata nella raccolta dei dati provenienti dall’analisi dei news feed, lo strumento che aveva permesso a Facebook di incrementare notevolmente i guadagni dando priorità al coinvolgimento degli utenti (engagement) e al raggruppamento di persone con idee simili. «Giovani intraprendenti si resero conto di poter fare soldi dando agli americani il tipo di contenuti che desideravano», scrivono Frenkel e Kang. «Improvvisamente, storie che davano Hillary Clinton segretamente in coma, o che asserivano l’esistenza di un figlio di Bill Clinton nato da una relazione extraconiugale, si diffusero su Facebook. Le persone che ci stavano dietro erano in gran parte apolitiche, ma sapevano che più stravagante era la storia, più era probabile che un utente facesse clic sul collegamento». I tecnici segnalarono il problema ai superiori, raccontano Frenkel e Kang, ma fu detto loro che le notizie false non violavano le regole di Facebook. «Vedevamo tutti questi siti spazzatura occupare un posto di rilievo nel feed delle persone, sapevamo che le persone aprivano Facebook e vedevano notizie totalmente false nella parte superiore della loro homepage, ma [i superiori] continuavano a ripeterci che non c’era nulla che potessimo fare: le persone potevano condividere tutto ciò che volevano condividere», scrivono Frenkel e Kang citando un ex dipendente. Un aggiornamento dell’algoritmo di Facebook, pensato per cercare di risolvere il problema, ebbe altre conseguenze indesiderate. La modifica diede priorità ai contenuti di familiari e amici, a scapito dei siti inaffidabili, ma analisi condotte da ricercatori esterni portarono alla conclusione che anche siti accreditati come quelli di CNN e Washington Post erano stati penalizzati. Gli utenti smisero di vedere quelle news e continuarono a vedere contenuti falsi e ultradivisivi condivisi da familiari e amici. A fronte delle crescenti preoccupazioni dei dipendenti, Bosworth, il dirigente in confidenza con Zuckerberg, diffuse la nota interna da cui è tratto il titolo del libro di Frenkel e Kang. Noi mettiamo in connessione le persone. Punto. È la ragione per cui tutto il lavoro che facciamo per la crescita è giustificato. Tutte le discutibili pratiche di importazione dei contatti. Tutto il linguaggio subdolo che aiuta le persone a essere rintracciate dagli amici. Tutto il lavoro che facciamo per portare più comunicazione. […] Così colleghiamo le persone. Questo può essere negativo se lo rendono negativo. Forse l’esposizione ai bulli può costare la vita a qualcuno. E forse qualcuno muore per attacchi terroristici coordinati tramite i nostri strumenti. E ancora continuiamo a connettere le persone. La spiacevole verità è che crediamo così profondamente nel valore della connessione tra le persone che tutto ciò che ci consente di connetterne di più e più spesso è una cosa buona de facto. «In un certo senso, questo sintetizza tutto ciò che occorre sapere su Facebook», ha scritto John Naughton sul Guardian commentando questo passaggio del libro. «L’unica cosa che Bosworth omise di menzionare è che più persone Facebook connette, più soldi Facebook guadagna». Uno dei personaggi ritenuti fondamentali per lo sviluppo di strategie aziendali redditizie in Facebook fu Sheryl Sandberg, direttrice operativa e da molti considerata la persona più influente all’interno dell’azienda dopo Zuckerberg, che la assunse nel 2008 quando lui aveva 23 anni. Lei ne aveva 39 ed era da molti già considerata e descritta come un esempio di straordinario successo femminile in contesti strutturalmente maschili. Proveniva da una ammirata carriera da dirigente in Google, dopo una laurea in economia all’Università di Harvard e un’esperienza politica tra i Democratici come capo dello staff dell’ex segretario del Tesoro Larry Summers, durante la presidenza Clinton. Il nome di Sandberg era peraltro circolato tra quelli possibili per il ruolo di segretario del Tesoro in un’eventuale amministrazione di Hillary Clinton. Per raggiungere gli obiettivi di crescita di anno in anno, spiegano Frenkel e Kang, Facebook ha continuato a sviluppare per lungo tempo la sua tecnologia di base prendendo decisioni aziendali basate su quante ore della giornata le persone trascorrono su Facebook e quante volte al giorno ci ritornano. Da questo punto di vista, la ragione degli accessi non era tenuta in considerazione, e per gli algoritmi era indifferente se le persone tornavano per augurare buon compleanno agli amici o se tornavano perché «attratti in qualche spirale di disinformazione e cospirazione». «I problemi di Facebook erano caratteristiche della piattaforma, non bug [cioè errori], ed erano la naturale conseguenza di una collaborazione tra Zuckerberg, CEO e co-fondatore di Facebook, e la sua colta socia d’affari, Sandberg, direttrice operativa dell’azienda. Lui era il visionario della tecnologia e lei aveva capito come generare rendita dall’attenzione degli attuali 2,8 miliardi di utenti di Facebook. Insieme avevano lavorato per creare la più vasta rete di scambio di idee e comunicazioni al mondo», hanno scritto Frenkel e Kang.
I rapporti tra Sandberg e Zuckerberg. Una parte del libro si concentra sull’evoluzione del rapporto tra Sandberg e Zuckerberg durante la presidenza di Trump. «Il suo ruolo come vice-Zuckerberg diventò meno saldo, con la promozione di molti altri dirigenti in azienda e con la sua influenza in diminuzione a Washington», scrivono Frenkel e Kang. Lei era entrata in Facebook per le sue riconosciute e apprezzate competenze professionali, e per la sua lunga esperienza nelle relazioni con funzionari governativi e rappresentanti delle istituzioni. Era un’area in cui Zuckerberg aveva intravisto una particolare debolezza dell’azienda, proprio in un momento in cui quei funzionari cominciavano a chiedersi se la raccolta di dati da parte delle piattaforme gratuite come Facebook potesse danneggiare in qualche modo gli utenti. Nei primi tempi, oltre che suggerire scelte straordinariamente redditizie, Sandberg contribuì in modo significativo alla credibilità pubblica dell’azienda. Rappresentò Facebook al President’s Council on Jobs and Competitiveness, un comitato formato da vari dirigenti di imprese e università istituito dal presidente Obama nel 2009. Una volta accompagnò lo stesso Obama a bordo dell’Air Force One per un discorso del presidente sull’economia nella sede principale di Facebook a Menlo Park, in California. Già a partire dal 2010 cominciarono tuttavia a emergere alcune incomprensioni tra Sandberg e i funzionari del governo nel corso delle prime indagini sul trattamento dei dati, tra cui quella della Federal Trade Commission (FTC), l’agenzia governativa che si occupa di tutela dei consumatori e di privacy. A ottobre del 2010, durante un incontro con il presidente della FTC Jon Leibowitz, Sandberg sostenne che le possibilità di controllo dei dati personali per gli utenti di Facebook fossero maggiori rispetto a quelle offerte da qualsiasi altra società di Internet. Leibowitz contestò in parte quell’osservazione segnalando che aveva visto sua figlia adolescente modificare con difficoltà impostazioni sulla privacy che avevano fino a quel momento reso molto semplice per soggetti sconosciuti trovare su Facebook lei e altri utenti come lei. Sandberg replicò cambiando argomento, atteggiamento che Leibowitz sembrò non gradire, stando a quanto riportato da persone presenti alla riunione e sentite da Frenkel e Kang: «sembrava ascoltare soltanto quello che voleva sentire».
A causare il progressivo isolamento in azienda di Sandberg e della sua squadra di lavoro, sempre meno numerosa, secondo le fonti consultate da Frenkel e Kang, contribuì in modo significativo il contesto politico e mediatico prodotto dal caso Cambridge Analytica e dalle generali e crescenti critiche, indagini e richieste di chiarimenti rivolte a Facebook in materia di trattamento dei dati personali, violazioni della privacy e reticenze in merito alle interferenze russe nelle elezioni presidenziali. Frenkel e Kang scrivono che Zuckerberg cercò di instaurare una relazione amichevole con Trump, e nel frattempo cominciò ad assumere in prima persona cariche aziendali in precedenza delegate a Sandberg, la cui antipatia verso Trump era nota. Dall’altra parte, Sandberg si circondò sempre più di consulenti politici esterni e di funzionari delle pubbliche relazioni spesso in disaccordo con gli altri membri dell’azienda. Fece inizialmente affidamento sul collega Joel Kaplan, vicepresidente responsabile delle politiche globali, ex funzionario dell’amministrazione di George W. Bush nonché collega di Sandberg a Harvard. Fu Kaplan a spiegare a Sandberg e Zuckerberg che occorreva ricostruire i rapporti con i Repubblicani, risentiti per il precedente sostegno ai Democratici. E dopo un imbarazzato incontro del presidente con i più importanti dirigenti delle società tecnologiche americane, avvenuto a dicembre 2016, fu direttamente Zuckerberg a diventare l’emissario di Facebook a Washington, sostengono Frenkel e Kang. «Le crepe descritte dalle autrici tra Mark e Sheryl e le persone che lavorano con loro non esistono», ha risposto la portavoce di Facebook Dani Lever, commentando le prime anticipazioni del libro di Frenkel e Kang, e facendo notare che il ruolo di Sandberg nell’azienda non è cambiato. Lever ha anche affermato che le ipotesi di un isolamento di Sandberg in Facebook sostenute nel libro sembrano replicare gli schemi tipici degli «attacchi alle donne leader, basati sulla negazione del loro potere e delle loro competenze, e sulla loro emarginazione». Né Zuckerberg né Sandberg hanno accettato di essere intervistati durante la stesura del libro. Frenkel e Kang sostengono che una delle ragioni della presunta insoddisfazione di Zuckerberg rispetto al lavoro di Sandberg riguardasse la gestione delle relazioni pubbliche in occasione delle interferenze elettorali russe e del caso Cambridge Analytica, l’azienda di consulenza e marketing – in contatto con alcuni stretti collaboratori di Donald Trump – responsabile dell’uso scorretto di enormi quantità di dati personali prelevati da Facebook. Sebbene le violazioni non riguardassero tecnicamente disguidi o inefficienze afferenti al lavoro di Sandberg e della sua squadra, Frenkel e Kang affermano che tra i dirigenti cominciarono a circolare perplessità riguardo ai tentativi di Sandberg di salvare l’immagine della società. In un incontro dell’8 maggio 2019 con la speaker della Camera Nancy Pelosi, raccontano Frenkel e Kang, Sandberg ammise i problemi di Facebook e spiegò le azioni intraprese dall’azienda per tentare di risolverli. Facebook aveva eliminato falsi account esteri e assunto migliaia di moderatori di contenuti, e aveva iniziato a utilizzare l’intelligenza artificiale e altre tecnologie per cercare di rintracciare e rimuovere rapidamente e più efficacemente la disinformazione. Sandberg spiegò inoltre a Pelosi che Facebook non avrebbe ostacolato e anzi avrebbe facilitato i tentativi del governo di regolare Internet, come peraltro indicato da Zuckerberg il mese prima in un articolo pubblicato dal Washington Post. Appena due settimane più tardi, circolò molto su Facebook – condiviso dalla pagina Politics Watchdog – e ottenne oltre due milioni di visualizzazioni un video in cui Nancy Pelosi parlava in modo incerto e balbettante durante una conferenza stampa. Il video era stato manipolato ma veniva presentato come autentico su numerose pagine Facebook e in molti gruppi privati, e cominciò a circolare anche su altri social network. «Cos’ha che non va Nancy Pelosi?», scrisse Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e avvocato personale di Trump, condividendo il video. YouTube rimosse rapidamente il video, mentre Facebook temporeggiò in attesa di prendere una decisione e formulare una risposta convincente per lo staff di Pelosi, che – riferiscono Frenkel e Kang – cominciò a chiamare insistentemente per chiedere spiegazioni in merito all’inarrestabile diffusione del video. Quel video aveva facilmente aggirato i controlli dei fact checkers e degli strumenti di intelligenza artificiale, che non lo avevano classificato come contenuto falso. Fu però un esempio molto chiaro, scrivono Frenkel e Kang, delle divisioni interne in Facebook e del disaccordo vigente su importanti questioni di principio. Sandberg disse che riteneva più che sufficienti gli argomenti a sostegno della necessità di eliminare il video in base alle regole contro la disinformazione. Kaplan e i membri del team responsabile delle politiche aziendali sostennero l’importanza di apparire neutrali riguardo ai contenuti politici e mostrare coerenza rispetto alle precedenti difese della libertà di parola. Zuckerberg chiese se il video potesse essere definito una parodia, nel qual caso avrebbe potuto rappresentare un contributo importante per il dibattito politico. Due giorni dopo la pubblicazione del video, Zuckerberg prese la decisione: mantenere online il video. La distanza tra Sandberg e i dirigenti di Facebook, proseguono Frenkel e Kang, aumentò ulteriormente in tempi più recenti, all’inizio del 2021, dopo l’attacco al Congresso degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021. In un’intervista con Reuters, Sandberg suggerì che le responsabilità dell’organizzazione dell’assalto dovessero essere rintracciate in piattaforme che «non hanno la nostra capacità di arrestare l’odio, non hanno i nostri standard e non hanno la nostra trasparenza». Quella dichiarazione – un riferimento a piattaforme come Parler e Gab, utilizzate dall’estrema destra – fu ripresa da siti e giornali, e in molti la intesero come un modo di non ammettere responsabilità da parte di Facebook. Anche in questa occasione, scrivono Frenkel e Kang, alcuni dirigenti considerarono inappropriata la strategia difensiva attuata da Sandberg. Dopo pochi giorni, cominciarono a emergere prove evidenti di un coordinamento delle milizie di estrema destra portato avanti su Facebook sia prima che durante l’assalto. Alcuni membri del gruppo “Oath Keepers” avevano apertamente parlato delle prenotazioni delle camere d’albergo, dei biglietti aerei e di altri aspetti logistici del loro viaggio programmato a Washington. «Se non siete disposti a usare la forza per difendere la civiltà, allora preparatevi ad accettare la barbarie», era scritto in un messaggio pubblicato il 5 gennaio su una pagina Facebook chiamata “Red-State Secession” e frequentata da membri dei gruppi “Oath Keepers” e “Proud Boys” che avevano condiviso anche le immagini delle armi che avevano intenzione di portare alla manifestazione del 6 gennaio.
Le interferenze russe. Un’altra questione lungamente trattata in An Ugly Truth riguarda la catena di gestione interna delle informazioni sugli aggiornamenti e sulle problematicità dei sistemi dell’azienda. Nella maggior parte dei casi, le persone all’interno di Facebook erano al corrente di quello che succedeva ai sistemi, o per averlo rilevato direttamente o per essere state informate da altre persone. Ma spesso, al momento di riportare le comunicazioni ai superiori, a quelle comunicazioni non seguivano decisioni né azioni mirate a ridurre i rischi o trovare contromisure in tempi rapidi. L’esempio più significativo è quello delle interferenze russe nei sistemi di Facebook, scoperte tra il 2016 e il 2017 dal team di investigatori interni guidati dal capo della sicurezza aziendale Alex Stamos, assunto in Facebook nel 2015 dopo un’esperienza di alto profilo in Yahoo. Stamos aveva contribuito a scoprire una vulnerabilità nei sistemi di Yahoo, approvata dalla CEO Marissa Mayer e intenzionalmente inserita per assecondare una richiesta di sorveglianza degli utenti da parte del governo. Si era quindi dimesso poche settimane dopo. Le interferenze russe durante le elezioni presidenziali del 2016 furono due, raccontano Frenkel e Kang. La prima proveniva dall’agenzia di intelligence militare russa nota con la sigla GRU, i cui agenti avevano creato account e pagine Facebook per diffondere notizie false. Fu scoperta a marzo 2016, come chiarito in un’analisi circolata poi internamente l’anno successivo. Inizialmente il team di Stamos condivise una serie di rapporti sulla scoperta dell’interferenza con l’FBI, oltre che con i suoi diretti superiori, ma non ricevette alcuna risposta. Quella situazione generò una certa frustrazione, scrivono Frenkel e Kang. Innanzitutto nel gruppo di Stamos nessuno sapeva se le agenzie di intelligence statunitensi stessero conducendo altre indagini e operazioni in autonomia. Inoltre Stamos e i suoi colleghi non avevano tra le mani il tipo di prove che avrebbe permesso loro di attribuire senza alcun dubbio, anche in un tribunale, quelle attività al governo russo. Facebook mostrò intanto una certa lentezza nel rimuovere quei contenuti, spiegano Frenkel e Kang, perché all’epoca non esistevano regole specifiche contro i gruppi stranieri che creavano pagine per manipolare l’opinione pubblica americana. Facebook non intraprese alcuna azione nemmeno dopo aver notato che una pagina gestita da utenti in Russia e chiamata DCLeaks stava distribuendo il contenuto di email rubate alla campagna elettorale di Hillary Clinton. La pagina fu chiusa soltanto dopo che un analista responsabile della sicurezza appurò che i documenti condivisi contenevano informazioni personali, condizione che rappresentava una chiara violazione delle regole di Facebook. La prima interferenza russa scoperta dal gruppo di Stamos fu motivo di divisioni all’interno dell’azienda, scrivono Frenkel e Kang. All’interno del gruppo di raccolta delle informazioni sulle minacce informatiche, si discusse su cosa si dovesse fare. Facebook era un’azienda privata, sostenevano alcuni, non un’agenzia di intelligence; la piattaforma non era tenuta a riferire le sue scoperte. Per quanto ne sapevano dentro Facebook, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (NSA) stava monitorando gli stessi account russi e forse stava pianificando arresti. E sarebbe quindi stato irresponsabile per Facebook dire qualsiasi cosa. Altri sostenevano che il silenzio di Facebook stesse facilitando gli sforzi russi per diffondere le informazioni rubate. La società avrebbe quindi dovuto rendere pubblico che account riconducibili alla Russia stavano diffondendo documenti rubati attraverso Facebook. Per queste persone nell’azienda, la situazione appariva come una potenziale emergenza nazionale. «Fu pazzesco. Non avevano un protocollo pronto, e quindi non volevano che prendessimo provvedimenti. Una cosa senza senso», ha riferito un membro del team della sicurezza. Un’altra interferenza russa – in questo caso da parte dall’azienda Internet Research Agency, nota anche come “fabbrica dei troll”, con sede a San Pietroburgo – fu scoperta da Facebook soltanto dopo le elezioni. Un’indagine interna, portata avanti da Stamos e dal suo gruppo di lavoro all’insaputa di Zuckerberg e Sandberg, chiarì che l’azienda russa aveva pubblicato 80 mila post e speso 100 mila dollari in 3.300 annunci pubblicitari, raggiungendo 126 milioni di utenti americani. Fu questo, raccontano Frenkel e Kang, il momento in cui la posizione di Stamos all’interno di Facebook si indebolì. Le tensioni emersero con una certa evidenza nel corso di una riunione avvenuta il 9 dicembre 2016, in cui Stamos presentò i risultati dell’indagine sulle interferenze russe a Zuckerberg, il quale rispose: «Oh cazzo, come ci siamo persi questa cosa?».
L’indagine di Stamos avrebbe potuto esporre la società a responsabilità legali o metterla sotto la vigilanza del Congresso, e Sandberg, in qualità di responsabile dei rapporti tra Facebook e Washington, alla fine sarebbe stata chiamata a Washington per spiegare le scoperte di Facebook al Congresso. «Nessuno pronunciò queste parole, ma c’era questa sensazione che non si potesse rivelare ciò che non si conosce», secondo un dirigente che partecipò alla riunione. La squadra di Stamos aveva scoperto informazioni che nessuno, incluso il governo degli Stati Uniti, aveva appreso in precedenza. Ma in Facebook, prendere l’iniziativa non era una cosa sempre apprezzata. «Indagando su ciò che la Russia stava facendo, Alex ci aveva costretto a prendere decisioni su cosa dire pubblicamente. E la gente non ne era contenta», ha ricordato il dirigente. «Si era preso la responsabilità di scoprire un problema. Non è mai una buona idea», ha osservato un altro partecipante alla riunione. Come nel caso di Sandberg, anche Stamos fu progressivamente isolato all’interno dell’azienda, raccontano Frenkel e Kang. «Quando tornò al lavoro a gennaio, gran parte della sua squadra della sicurezza formata da 120 persone era stata sciolta». Era accaduto in parte per effetto di una scelta suggerita dallo stesso Stamos, ossia quella di distribuire quei dipendenti in vari reparti dell’azienda anziché lasciarli separati dagli altri gruppi. Ma una volta separati da Stamos, rimasto da parte sua con una squadra di appena cinque persone, quei dipendenti spediti in altri reparti «non ebbero alcun ruolo né visibilità nel loro lavoro». Secondo John Naughton, che ha scritto di An Ugly Truth sul Guardian, uno degli effetti sorprendenti del libro è scoprire che all’interno di Facebook ci sono probabilmente più tensioni di quanto si pensi. Molti dipendenti di Facebook hanno provato angoscia, frustrazione o rabbia per ciò che il loro datore di lavoro ha fatto nella sua incessante ricerca della crescita. Alcuni hanno tentato di avvisare i loro superiori riguardo alle loro preoccupazioni. Ma più e più volte le cattive notizie non hanno convinto quei capi perché non erano sincronizzate con l’imperativo prioritario di una crescita aziendale senza fine. E, come osservava notoriamente Henry Louis Mencken [giornalista e saggista statunitense], è difficile spiegare qualcosa a qualcuno il cui stipendio dipende dal non capire quella cosa. Altre analisi del libro di Frenkel e Kang arrivano a conclusioni più generali e relative al funzionamento attuale delle società. Secondo il giornalista esperto di tecnologia Casey Newton, che in passato ha lavorato con Frenkel e Kang, la storia delle elezioni del 2016 va oltre l’influenza russa esercitata su Facebook. È una storia sull’accelerazione della polarizzazione nel nostro paese; sulle preoccupazioni dei bianchi per i cambiamenti demografici; sul declino del giornalismo locale; e sulla frattura del nostro più ampio ecosistema di informazioni. Neppure la storia sull’interferenza russa riguardava semplicemente Facebook: il paese ha aperto la strada alla strategia di “hack and leak” — rubare documenti e condividerli con i principali organi di stampa, nascondendo la loro origine e dando a quei documenti maggiore legittimità una volta pubblicati. Newton osserva che oggi Facebook, anche per effetto di quelle interferenze e delle scoperte di Stamos, è certamente una piattaforma tecnicamente meno vulnerabile, ma che questo non implica di per sé un ambiente informativo sano. «Le notizie di alta qualità sono troppo spesso relegate in una scheda secondaria, mentre a seconda del tuo amico e di cosa segui, il tuo feed potrebbe essere stupido, partigiano e polarizzante come sempre. Quale sarà il risultato delle persone che consumano anni di post attraverso feed che le informano male o le portano all’indignazione?». Secondo Newton, le questioni fondamentali che emergono dalla lettura di An Ugly Truth non riguardano neppure tanto il dibattito sul modello di business “rotto” di Facebook. «Se Facebook avesse disattivato gli annunci nel 2015 e fosse diventato un’organizzazione senza scopo di lucro, la grandissima parte delle operazioni di interferenza russa nel 2016 sarebbe stata ancora possibile. Per me, questa è la storia di un social network enorme, potente, per lo più non regolamentato e – visto che i suoi dati sono di proprietà privata – ancora poco compreso». Stamos lasciò Facebook nell’estate del 2018, e insegna oggi al Centro per la sicurezza e la cooperazione internazionale dell’Università di Stanford, dove è anche direttore dello Stanford Internet Observatory, un gruppo di lavoro da lui fondato che analizza e studia le dinamiche di influenza sviluppate sulle piattaforme social in tutto il mondo.
Bill Gates. Matteo Persivale per "corriere.it" il 20 maggio 2021. Bill Gates senior (1925-2020), padre di Bill, avvocato di un ottimo studio di Seattle, ha cresciuto i suoi figli nell’agiatezza ma ha sempre insistito con Bill junior detto Trey, con Kristi e Libby, sull’importanza di mantenere un basso profilo, instillando nella prole una rigorosa etica protestante molto americana «vecchia scuola» che lega indissolubilmente al benessere economico il senso del dovere, del rigore, della beneficenza verso i più deboli, e l’allergia alle spese inutili, allo sfoggio pacchiano di denaro. Pochi uomini al mondo sono meno eccentrici di Bill Gates, che all’insegnamento paterno si è ispirato per la sua fondazione benefica: l’unica famosa bizzarria di Gates, miliardario che non ha mai amato vestiti o orologi o vita notturna, è sempre stata la passione per la velocità e per le belle macchine (i primi soldi di Microsoft furono subito investiti dal giovane Bill in una Porsche, con quasi immediato arresto per eccesso di velocità: la foto segnaletica diventa periodicamente virale su Internet). Proprio per questo senso dell’etica protestante assimilato da papà, Gates prese una decisione netta che stupì tutti, vent’anni fa: annunciò che ai suoi figli non avrebbe lasciato l’enorme patrimonio (attualmente intorno ai 130 miliardi di dollari, vedremo quanti ne resteranno dopo il divorzio da Melinda), che quei soldi sarebbero finiti in beneficenza, che ereditare miliardi non aiuta a tracciare il proprio percorso nella vita. Per questo, si è sempre saputo che Jennifer Katharine (25 anni), Rory John (21, quasi un sosia del papa da giovane, occhiali da vista extra-large compresi), e la più piccola, Phoebe Adele, avrebbero un giorno ereditato «soltanto» dieci milioni di dollari a testa, nient’altro. Ovviamente, tutto è relativo: trenta milioni (da dividere per tre) sono da una parte tantissimi soldi, ma sono anche lo 0,00023% della fortuna paterna. Una lettura attenta delle (poche) carte del divorzio Bill-Melinda Gates finora rese pubbliche sembrerebbe però indicare che tra i temi attualmente in discussione tra i due team di avvocati, c’è anche la possibile revisione del testamento del fondatore di Microsoft, per modificare (si presume in senso migliorativo) la quota dei 10 milioni a testa decisa da Bill (i coniugi dicevano ai bei tempi di aver deciso di comune accordo, ma si sa le cose cambiano). Melinda ha infatti ingaggiato Robert Cohen dello studio Cohen Clair Lans Greifer Thorpe & Rottenstreich (tra i clienti, il magnate Michael Bloomberg e Ivana Trump), 81enne, che da decenni è uno dei più famosi divorzisti d’America; ma anche – e questo è il dato insolito, per un caso di divorzio – un’esperta di diritto di successione (Loretta Ippolito dello studio Paul Weiss) e Bruce Birenboim, specializzato in trust e affidamento fiduciario.
Bill Gates, pesanti accuse di bullismo di 4 dipendenti: "Urla, insulti e ci tracciava le targhe". Libero Quotidiano il 30 giugno 2021. Bill Gates è stato accusato di bullismo da quattro suoi dipendenti Microsoft, l'azienda d'informatica da lui fondata nel 1975. Un ex dirigente che ha parlato sotto anonimato ha detto a Insider che "aver avuto un incontro con Bill è stata solo un'opportunità per essere sgridato". Altre fonti, invece, hanno rivelato che la frase tipo di Gates era: "Questa è l'idea più stupida che abbia mai sentito". E che spesso imprecava contro i suoi dipendenti. Ma non è tutto. Sempre secondo fonti anonime, l'imprenditore miliardario avrebbe anche tracciato i suoi dipendenti memorizzando le loro targhe. Uno dei dirigenti ci è andato giù pesante facendo una rivelazione: "Non sa davvero come scherzare o come connettersi con le persone. È solo un essere umano imbarazzante per quanto riguarda le interazioni sociali". Una testimone ci ha addirittura messo il nome e la faccia. Maria Klawe, membro del consiglio di amministrazione di Microsoft dal 2009 al 2015, ha dichiarato che "una persona come Bill Gates pensa che le solite regole di comportamento non si applichino a lui". Poi lo ha accusato di non essere ricettivo ai suggerimenti sul miglioramento della diversità. La Klawe, inoltre, ha detto che Gates si è sempre comportato come se si sentisse la "persona più intelligente nella stanza". "Quando i dirigenti donne suggerivano iniziative sulla diversità, Gates replicava: 'Stai cercando di distruggere l'azienda?'", ha confessato l'ex membro del cda. Il portavoce dell'imprenditore, intanto, ha detto a Insider che le accuse di Klawe sono "gravi".
Dal Messaggero.it il 30 giugno 2021. Alcuni dipendenti Microsoft hanno accusato il fondatore Bill Gates di essere un "bullo" d'ufficio il cui slogan era «questa è l'idea più stupida che abbia mai sentito». La reputazione di Gates come capo irascibile è iniziata non molto tempo dopo aver lanciato il gigante della tecnologia Microsoft con l'amico d'infanzia Paul Allen nel 1975, ha riferito The Insider. Un portavoce del miliardario ha subito negato che Gates abbia maltrattato i dipendenti. Gates, 65 anni, è stato messo sotto esame dopo che lui e Melinda Gates hanno annunciato il loro divorzio a maggio e sono emerse notizie sulle sue presunte relazioni extraconiugali e preoccupazioni sulla natura della sua relazione con il pedofilo condannato Jeffrey Epstein. Un ex dirigente di Microsoft che ha parlato in condizione di anonimato ha detto a Insider che «aver avuto un incontro con Bill è stata solo un'opportunità per essere sgridato». Altre fonti che hanno parlato con Insider hanno descritto la sua frase come «questa è l'idea più stupida che abbia mai sentito» e hanno detto che era noto per aver imprecato contro i suoi dipendenti. Gates avrebbe tracciato i suoi dipendenti memorizzando le loro targhe, sempre secondo le fonti anonime. Alcuni dipendenti Microsoft che hanno parlato con Insider, tuttavia, hanno difeso Gates dicendo che «ha urlato a tutti allo stesso modo» ma hanno anche ammesso che il suo stile di gestione potrebbe aver intimidito alcuni dipendenti. «Non sa davvero come scherzare o come connettersi con le persone», ha detto un altro ex dirigente, che ha descritto gli incontri da solista con Gates come imbarazzanti. «È solo un essere umano imbarazzante per quanto riguarda le interazioni sociali». Maria Klawe, ex membro del consiglio di amministrazione di Microsoft dal 2009 al 2015, ha affermato che «una persona come Bill Gates pensa che le solite regole di comportamento non si applichino a lui» e lo ha accusato di non essere ricettivo ai suggerimenti sul miglioramento della diversità. Klawe ha detto che Gates si è comportato come se fosse la «persona più intelligente nella stanza» e che la diversità non era qualcosa di cui Gates fosse «interessato a sentire». Klawe ha poi raccontato: «Quando i dirigenti donne suggerivano iniziative sulla diversità, Gates replicava “Stai cercando di distruggere l'azienda?"». Il portavoce di Gates ha detto a Insider che le accuse di Klawe sono «gravi». Le relazioni e gli incontri di Gates con i dipendenti sono stati a lungo argomento di discussione sul miliardario, sempre secondo Insider.
Warren Buffett lascia la Fondazione Gates: dubbi sul futuro. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 25 giugno 2021. Per la Fondazione Gates è forse la peggiore delle notizie: il leggendario investitore americano Warren Buffett, 90 anni, ha infatti deciso di lasciare i vertici dell’istituzione filantropica più potente del mondo, aprendo scenari piuttosto incerti sul futuro del sodalizio fondato da Bill e Melinda Gates, nel momento peraltro più difficile per la Fondazione dopo il divorzio della celebre coppia annunciato nelle scorse settimane. Come riporta l’agenzia Reuters, Buffett ha dichiarato in una nota di essere stato un “fiduciario inattivo” per anni presso la fondazione, ma ha supportato pienamente l’amministratore delegato Mark Suzman e ha sottolineato i loro obiettivi erano “sincronizzati al 100%”. Non ha tuttavia voluto spiegare il motivo delle dimissioni, pur rimarcando il fatto che ha rinunciato a tutte le cariche di amministratore al di fuori del Berkshire, riducendo il suo carico di lavoro. Il milionario-filantropo ha anche annunciato una nuova donazione di oltre 4,1 miliardi di dollari, comprendente quasi 15,2 milioni di azioni Berkshire Classe “B”, alla Fondazione Gates e a quattro enti di beneficenza, come parte del suo impegno a donare il 99% del suo patrimonio netto. Dal 2006 in poi il magnate ha donato più di 41,5 miliardi di dollari di azioni Berkshire, tra cui 32,7 miliardi di dollari alla Fondazione Gates.
Dubbi sul futuro della Fondazione Gates. I dubbi sul futuro della fondazione erano emersi, nelle scorse settimane, a seguito dell’annuncio del divorzio fra Bill e Melinda Gates. Come sottolineava il Financial Times, il futuro della fondazione dipende dall’entità dei contributi provenienti dalle loro fortune ora separate, nonché dall’ammontare di ulteriori donazioni da parte di Warren Buffett, amico della coppia e sesto uomo più ricco del mondo dopo Mark Zuckerberg con un patrimonio di 99.6 miliardi di dollari. Secondo il professor Henry Peter dell’Università di Ginevra, “l’ecosistema della fondazione si basa in realtà su soli tre fiduciari”, ha detto, riferendosi a Gates e Buffett. E ora che il milionario ha deciso di uscire di scena, è facile credere che anche la Fondazione Gates potrebbe perdere il primato di fondazione più potente e influente del mondo: nel 1996 Bill Gates sposò la moglie Melinda e nel 2000 lanciarono insieme la Bill & Melinda Gates Foundation, che con con un asset di 50.7 miliardi di dollari è oggi considerata la fondazione più grande del pianeta. Come riporta sempre il Financial Times, alcuni ex dipendenti e consulenti si stanno chiedendo se l’istituzione che la coppia ha guidato per 21 anni possa continuare nel suo stato attuale alla luce delle ultime notizie: altri sono invece convinti che negli anni abbia costruito le relazioni istituzionali necessarie per andare avanti in ogni caso. Il personale della Fondazione conta ora più di 1.600 persone. In una nota inviata al suo personale, l’amministratore delegato Mark Suzman ha riconosciuto l’incertezza suscitata dalle dimissioni di Buffett. “So che la partenza di Warren solleva interrogativi sulla governance della fondazione. Come ho già detto in precedenza, ho discusso attivamente con lui, Bill e Melinda degli approcci per rafforzare la nostra governance”, ha scritto, promettendo ulteriori dettagli nelle prossime settimane. Nella stessa nota, Melinda ha affermato di essere “grata per la generosità, la leadership e l’amicizia di Warren”, mentre Bill ha reso omaggio alla sua “amicizia duratura” con il milionario e ha affermato che la fondazione “avrà sempre un profondo senso di responsabilità nei confronti di Warren”.
Epstein, tradimenti e ombre: il divorzio fra Bill e Melinda Gates. Come sottolinea IlGiornale.it, si tratta di un divorzio che era nell’aria da tempo, quello fra Bill e Melinda Gates. Secondo quanto riportato da una fonte anonima citata dalla rivista People, molto vicina alla coppia, ci sarebbero più cause che avrebbero portato Bill e Melinda a separarsi dopo aver passato tanti anni insieme. Secondo quanto è poi emerso nelle settimane successive all’annuncio del clamoroso divorzio, fra le cause della rottura, ci sarebbe un tradimento, o forse più di uno: Bill, infatti, avrebbe avuto una relazione con una giovane cinese, che lavora dal 2015 per la Fondazione Bill e Melinda Gates in qualità di interprete. Secondo altri, invece, fra le cause scatenanti ci sarebbe la “pericolosa” e nota amicizia del fondatore di Microsoft con il magnate-pedofilo Jeffrey Epstein, morto, in circostanze tutt’altro che chiare, il 10 agosto 2019 presso il Metropolitan Correctional Center di New York. Come riportato dal Daily Beast, Gates sperava che l’amico finanziere, molto conosciuto e influente presso l’élite newyorkese e statunitense, potesse aiutarlo nell’impresa di ricevere il Premio Nobel per la Pace, come ha confermato un ex dipendente della Gates Foundation. Le imbarazzanti rivelazioni sulla vita segreta di Bill Gates hanno convinto Warren Buffett ha mollare la Fondazione di famiglia? Difficile credere che l’annuncio delle scorse ore sia completamente slegato da tutto questo.
Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 9 luglio 2021. Quando annunciarono il loro divorzio Bill e Melinda Gates assicurarono che la fondazione da loro creata 21 anni fa - la più grande centrale filantropica del mondo con 1600 dipendenti, un fondo di 50 miliardi di dollari, interventi su vari problemi sanitari e sociali in molti Paesi per almeno 5 miliardi l'anno - avrebbe continuato a funzionare regolarmente. Poi, però, con l’uscita di scena del miliardario Warren Buffett, terzo trustee della Fondazione, possibile elemento di equilibrio tra i due, i timori di una paralisi della grande organizzazione di Seattle per dissidi tra gli ex coniugi che la co-presiedono, si sono diffusi anche all' interno della struttura. Ora, però, la Bill & Melinda Gates Foundation annuncia un accordo tra i due. Più che un piano d' azione, è la creazione di un'uscita di emergenza da attivare in caso di crisi: se emergeranno dissidi insanabili sulla gestione della fondazione, tra due anni Melinda French Gates la lascerà e otterrà da Bill risorse aggiuntive da destinare allo sviluppo di Pivotal Ventures, l'organizzazione filantropica personale che la moglie di Gates già gestisce in proprio da tempo. Come fa, del resto, anche Bill che affianca alla grande fondazione di Seattle la sua personale Gates Ventures. Negli anni Bill e Melinda hanno costruito una macchina poderosa che ha contribuito in modo decisivo a combattere l'Aids e a sradicare alcune malattie endemiche dall' Africa. Questo motore della beneficenza faceva, però, capo solo a quattro persone: i tre fiduciari (trustees), cioè Bill, Melinda e Buffett, e il padre del fondatore di Microsoft, William Gates Senior che, da co-presidente della Fondazione, ne sorvegliava e, in parte, indirizzava, l'attività. La morte, l'anno scorso, di Bill Sr e il tempestoso divorzio dei coniugi Gates hanno creato un vuoto, reso ancora più grave dalla recente uscita di Buffett. Il vecchio Warren non ha fatto polemiche: ha attribuito la sua scelta all' età (compirà 91 anni ad agosto) e ha comunque versato altri 3,2 miliardi di dollari nelle casse dell'organismo filantropico. Ma nel suo comunicato non ha citato mai Melinda né Bill, per tanti anni suo grande amico, limitandosi a riconfermare la fiducia all' ad, Mark Suzman. Il quale, dopo aver sostenuto ai tempi dell'annuncio del divorzio che per la Fondazione non sarebbe cambiato nulla, in seguito all' uscita di Buffett ha cominciato a mandare ai dipendenti messaggi sempre più allarmati fino ad ammettere di temere «seri problemi di governance». Qualche settimana fa il Wall Street Journal ipotizzò una riforma della Fondazione con l'adozione di un modello di gestione diverso: un consiglio d' amministrazione con la partecipazione di direttori autorevoli ed esperti di varie aree. L' accordo raggiunto nei giorni scorsi sembra andare in questa direzione: riguarda, oltre alla possibile uscita di scena di Melinda, l'ingresso di nuovi trustees in sostituzione di Buffett e il varo di un nuovo modello organizzativo. Suzman e il direttore generale della fondazione presenteranno entro gennaio a Bill e Melinda una proposta di riorganizzazione. Difficile dire se gli ex coniugi riusciranno a continuare a collaborare (Melinda appare molto risentita con Bill) e se, in caso contrario, il nuovo modello di governance basterà a evitare la disgregazione della centrale filantropica. Per adesso, comunque, contrasti e controversie hanno avuto l'effetto di riempire ulteriormente i forzieri della Fondazione. Dopo i miliardi aggiuntivi versati da Buffett, anche Bill e Melinda hanno voluto dare una prova tangibile del loro rinnovato impegno versando altri 15 miliardi di dollari.
Enrico Forzinetti per "corriere.it" l'8 luglio 2021. L’annuncio via Twitter del divorzio tra Bill e Melinda Gates dello scorso inizio maggio aveva lasciato tutti piuttosto stupiti per l’apparente solidità di un’unione lunga 27 anni, nonostante poi le successive ricostruzioni abbiano parlato di un passo meditato da tempo e si siano soffermate anche su aspetti curiosi come l’accordo che permetteva a lui di vedere una sua ex fidanzata un weekend all’anno. Allora però non erano stati chiariti alcuni punti centrali delle loro attività (e ricchezze) comuni, tra cui anche l’impegno nella Fondazione che porta il loro nome. Con una nota diffusa dall’amministratore delegato di Mark Suzman è stato definito che a Melinda potrà essere chiesto tra due anni di lasciare il suo ruolo di co-presidente nel caso emergesse l’impossibilità di proseguire il proprio lavoro a fianco dell’ex marito Bill. In quel caso il fondatore di Microsoft verserebbe all’ex moglie nuove risorse (al momento non quantificate) per la sua attività filantropica, senza intaccare però la dotazione della Fondazione. Tra le altre novità comunicate c’è anche il conferimento di ulteriori 15 miliardi di dollari per le attività della organizzazione stessa che vanno ad aggiungersi agli oltre 50 già stanziati nel corso degli ultimi due decenni. Risorse che in questo arco di tempo sono state indispensabili in attività per combattere la povertà a livello globale oppure in favore della parità di genere. Infine è stata anche espressa la volontà di ampliare il numero dei fiduciari per ampliare le personalità e le esperienze all’interno della Fondazione. Una decisione che in realtà era già nell’aria dopo il passo indietro di qualche settimana fa dell’altro miliardario filantropo Warren Buffett, amico intimo dei Gates che congedandosi ha effettuato un’ultima donazione da oltre 4 miliardi di dollari.
(ANSA il 3 agosto 2021) Bill e Melinda Gates sono ufficialmente divorziati. Un giudice ha messo fine al loro matrimonio dopo 27 anni. La coppia aveva presentato istanza lo scorso maggio citando la sopravvenuta incompatibilità tra i due coniugi. I termini del divorzio non sono stati resi noti. Tuttavia, come già precedentemente annunciato, i due continueranno a lavorare assieme nei loro progetti filantropici con la fondazione. Secondo il Bloomberg Billionaires Index, la fortuna dei Gates vale 152 miliardi di dollari, il che significa che ognuno dei due ex coniugi potrebbe mettersi in tasca potenzialmente circa 76 miliardi di dollari ciascuno. (ANSA).
Bill Gates e la moglie Melinda divorziano: “Non crediamo più di poter crescere insieme come coppia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Fine della coppia di filantropi più celebre del mondo. Bill Gates e Melinda Ann French Gates si dividono, dopo 27 anni. Il divorzio comunicato in un post congiunto su Twitter. “Dopo molte riflessioni e molto lavoro sulla nostra relazione, abbiamo deciso di porre fine al nostro matrimonio — si legge nel post — Negli ultimi 27 anni abbiamo cresciuto tre bambini incredibili e costruito una fondazione che lavora in tutto il mondo per consentire a tutte le persone di condurre una vita sana e produttiva. Abbiamo continuato a condividere la convinzione in quella missione e continueremo a lavorare insieme alla fondazione, ma non crediamo più di poter crescere insieme come coppia in questa fase della nostra vita. Chiediamo spazio e privacy per la nostra famiglia mentre iniziamo a navigare in questa nuova vita”. Tra i due non c’era alcun contratto pre-matrimoniale. Il sito Tmz scrive che sarebbe stata Melinda a presentare la causa di divorzio per il matrimonio irrevocabilmente compromesso. Il sito ha ottenuto i documenti del caso. A quanto riportato, la coppia si sarebbe già separata. Melinda non avanza alcuna pretesa economica nei confronti del padre fondatore di Microsoft. Il divorzio dovrebbe essere definito senza una causa. Il patrimonio di Bill Gates è pari a 129,2 miliardi dollari, secondo Forbes, la quarta persona più ricca del mondo. La Fondazione filantropica Bill & Melinda Gates è considerata la fondazione privata più grande al mondo. Fondata nel 2000, si occupa di combattere malattie come l’AIDS. La stessa si è impegnata fortemente nel contrasto, attraverso investimenti e ricerca, alla pandemia da covid-19. Già nel 2015 Gates aveva anticipato il rischio di una grande epidemia che avrebbe potuto causare fino a dieci milioni di morti. Sui social il messaggio della figlia maggiore della coppia, Jennifer, di 25 anni. “È stato un periodo difficile per tutta la nostra famiglia. Sto ancora imparando come gestire al meglio le mie emozioni, così come noi tutti in questo momento, e sono grata di averne la possibilità”. Si legge su Instagram, in un messaggio di ringraziamento per tutti coloro che le hanno rivolto “parole gentili e di conforto”. La coppia ha avuto altri due figli, Rory e Phoebe. “Grazie per comprendere il mio desiderio di privacy mentre ci approcciamo a una nuova fase della nostra vita”, ha osservato Jennifer.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da tag43.it il 7 maggio 2021. Il divorzio tra Bill e Melinda Gates ha avuto una fortissima eco in Cina, dove il fondatore di Microsoft gode di un livello di fama superiore a quello di ogni altro imprenditore occidentale. Il giorno dell’annuncio, l’hashtag #BillGatesDivorce ha generato oltre 830 milioni di visualizzazioni e 66 mila post di discussione sulla piattaforma cinese Weibo (analoga a Twitter), surclassando di gran lunga i 91 milioni di visualizzazioni dedicate al divorzio tra Jeff Bezos, fondatore di Amazon, e MacKenzie Scott avvenuto nel 2019. Gli utenti di Weibo hanno espresso moltissime preoccupazioni: da come la coppia avrebbe diviso l’enorme fortuna alle possibili conseguenze della rottura su Microsoft e sulla fondazione di beneficenza che i due hanno creato. Non solo, la fine di una relazione durata 27 anni ha scosso nel profondo la sensibilità degli internauti cinesi: «Se anche tu, Bill, sei divorziato, come possiamo noi continuare a credere nel matrimonio?».
Le radici di Microsoft in Cina. Sebbene Bill Gates non gestisca più Microsoft, la società ha trascorso decenni a creare legami di amicizia con Pechino e i suoi prodotti hanno una presenza considerevole in Cina. Inoltre, mentre Facebook è inaccessibile, LinkedIn di Microsoft rimane uno dei pochi social media occidentali disponibili nel Paese. Anche il motore di ricerca Bing è operativo, mentre Google è escluso da anni. Lo stesso Bill Gates conta più di 4 milioni di follower su Weibo.
Bill, «vecchio amico del popolo cinese». Non solo. La Bill and Melinda Gates Foundation ha istituito una propria sede a Pechino nel 2007 e ha collaborato con il governo cinese su diversi progetti nel Paese, dall’intervento contro l’Hiv alla riduzione della povertà. Gates ha visitato la Cina più di una dozzina di volte dagli Anni 90 e ha coltivato relazioni amichevoli con i vertici del Partito. Tanto che nel 2018 è stato persino salutato dal Pcc come «vecchio amico del popolo cinese», un titolo esclusivo e riservato a pochi.
Dagotraduzione dal DailyMail il 10 maggio 2021. Quando era ancora scapolo, Bill Gates organizzava feste con spogliarelliste e non era certo «un ragazzo del coro». A raccontarlo il giornalista James Wallace, che negli anni '90 sul fondatore di Microsoft ha scritto due libri. «Molti di quei ragazzi Microsoft all'epoca erano giovani che per due o tre giorni giravano con magliette macchiate di pizza avorando sul codice del software», ha detto l'ex giornalista investigativo del Seattle Post-Intelligencer. «Poi organizzavano feste piuttosto selvagge, uscivano e assumevano spogliarelliste a Seattle da portare a casa di Bill. Allora non era un ragazzo del coro, non era solo un piccolo secchione di computer. Aveva una vita». Nel 1997, il secondo libro di Wallace sul miliardario, "Overdrive: Bill Gates and the Race to Control Cyberspace", descriveva le presunte feste nude a Laurelhurst, la casa di Washington di Gates, con dettagli ancora più scabrosi. L'ex giornalista del Post-Intelligencer ha scritto che i media nazionali volevano mantenere il rapporto con Gates e quindi «non hanno riferito delle feste di addio al celibato selvagge che il presidente di Microsoft avrebbe organizzato nella sua casa di Seattle, per le quali Gates avrebbe visitato uno dei locali notturni per nudisti di Seattle assumendo ballerini per venire a casa sua a nuotare nudi con i suoi amici nella piscina coperta». Wallace ha scritto che il «donnaiolo» Gates ha anche messo a dura prova la relazione nascente con la moglie Melinda. L'amico di lunga data di Gates ed ex dirigente di Microsoft Vern Raburn ha ammesso che Gates «amava fare festa» e non era fedele a Melinda quando hanno iniziato a frequentarsi per la prima volta, ma era «molto orgoglioso del fatto che non avesse fatto nulla di tutto ciò» da quando la coppia si è sposata.
Da “Libero Quotidiano” l'8 maggio 2021. C'entrerebbe anche Jeffrey Epstein, il miliardario accusato di pedofilia, nella fine del matrimonio tra Bill e Melinda Gates. Il divorzio della coppia - impegnata da anni nel migliorare l’assistenza sanitaria a livello internazionale - ha sconvolto tutti, portando i giornali di mezzo mondo a scavare nella vita privata del fondatore di Microsoft. Come riportato dal Corriere della Sera, che cita il Daily Beast, la crisi di coppia avrebbe radici remote. Uno dei motivi della separazione, infatti, sarebbe l'amicizia di lunga data tra Gates ed Epstein, arrestato per abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni, morto suicida in carcere due anni fa. Bill e Melinda avevano incontrato Jeffrey nella sua casa dell’Upper East Side, a New York, nel 2013. La visita, però, non era stata affatto gradita da Melinda, sia per i comportamenti maleducati del miliardario sia per le accuse di pedofilia che già cominciavano a circolare su di lui. Il legame tra Gates ed Epstein avrebbe sempre pesato sulla coppia di filantropi. Melinda, infatti, dopo l’arresto di Jeffrey nel 2019, aveva scoperto che Bill lo aveva incontrato altre volte, già dal 2011. "Quell’uomo mi affascina", avrebbe confidato Gates a un collega tempo fa. E non solo. Il fondatore di Microsoft avrebbe persino accettato un passaggio sul jet privato di Epstein, il cosiddetto “Lolita Express”, per andare dal New Jersey a Palm Beach, in Florida. A tal proposito Gates nel 2019 si era giustificato così: "Jeff era l’uomo giusto per raccogliere fondi e aiutare la gente. Conosceva un sacco di gente". Alla base della fine del matrimonio, comunque, non ci sarebbe solo l'ombra di Epstein. Pare anche che Melinda non riuscisse più ad accettare una clausola dell'accordo prematrimoniale, che consentiva a Bill di passare un weekend al mare ogni anno con l’ex Ann Winblad
Dagotraduzione dal Daily Mail il 5 agosto 2021. Ieri Bill Gates ha ammesso che è stato un «enorme errore» passare del tempo con il pedofilo Jeffrey Epstein e ha rivelato di aver condiviso con lui «diverse cene». Gates, 65 anni, intervistato da Anderson Cooper nel suo show per la Cnn, ha anche rivelato che il suo divorzio dall'ex moglie Melinda French Gates «è stato fonte di grande tristezza personale». La relazione di Gates con Epstein risale al 2011, ma nel settembre 2013 è diventata fonte di dissapori tra lui e Melinda, preoccupata per la sua amicizia con il pedofilo. Secondo quanto riferito, Melinda ha detto agli amici che era furiosa per la loro presunta amicizia e che non voleva avere nulla a che fare con Epstein – tanto da aver assunto nel 2019 un team di avvocati divorzisti dopo che gli incontri di Gates con Epstein sono diventati pubblici. Secondo quanto riportato Gates ha visitato la casa di Epstein numerose volte e ha persino parlato con lui del suo matrimonio «tossico». Secondo il Daily Beast, Epstein gli avrebbe dato consigli su come porre fine al suo matrimonio. Il miliardario ha detto a Cooper che «certamente» anche lui nutriva preoccupazioni per Epstein, che si era dichiarato colpevole anni prima che il magnate della tecnologia lo incontrasse. «Ho cenato diverse volte con lui sperando che potesse aiutarmi alla raccolta di fondi per la filantropia attraverso i suoi contatti». «È stato un enorme errore passare del tempo con lui e dargli la credibilità di essere lì. C'erano molti altri in quella stessa situazione, ma ho commesso un errore». Il portavoce di Gates ha dichiarato a Insider a giugno che Gates non aveva «assolutamente alcuna partnership commerciale o amicizia personale» con Epstein e che qualsiasi incontro tra i due riguardava la filantropia. Cooper ha anche chiesto a Gates se avesse «rimpianti» dopo che molti dipendenti nei mesi scorsi lo hanno accusato di comportamento scorretto sul posto di lavoro. «Certamente tutti hanno [rimpianti], ma è un momento di riflessione e, a questo punto, ho bisogno di andare avanti», ha detto Gates. «Il mio lavoro è molto importante per me, all'interno della famiglia guariremo nel miglior modo possibile e impareremo da ciò che sta accadendo».
Da tgcom24.mediaset.it il 17 maggio 2021. Il board di Microsoft decise nel 2020 che Bill Gates doveva dimettersi. La decisione fu presa in seguito a un'indagine sui rapporti sentimentali che Gates avrebbe avuto per anni con una dipendente dell'azienda, rapporti ritenuti inappropriati. Lo riporta il Wall Street Journal. Il Cda di Microsoft, racconta il Wsj, arruolò alla fine del 2019 uno studio legale per indagare su Gates dopo che una dipendente sostenne in una lettera di aver avuto per anni un a relazione sessuale col fondatore della società. Durante l'inchiesta alcuni membri del board ritennero che non era più appropriato per Gates farne parte. Gates, stando al Wsj, diede le dimissioni prima del completamento dell'inchiesta. Il portavoce di Gates ammette parlando col Wsj che "c'è stata una relazione sentimentale quasi 20 anni fa che è finita amichevolmente", ma sottolinea come la decisione di lasciare il Cda "non fu affatto legata a tale questione". L'addio a Microsoft di Gates, aggiunge il portavoce, "fu legato alla volontà di avere più tempo per le attività filantropiche".
Dagotraduzione da Vanity Fair l'8 giugno 2021. Il divorzio di Bill e Melinda Gates dopo 27 anni di matrimonio e una partnership storica è diventato immediatamente una leggenda da tabloid, tutti usciti con titoli appariscenti, scatti dei paparazzi e speculazioni febbrili. Gruppi di persone intorno alla Silicon Valley, nella regione dei cavalli della Florida e in tutta New York City hanno studiato privatamente le notizie per settimane. Quasi tutti i principali editori hanno pubblicato i dettagli. All'interno di Microsoft, tuttavia, le cose sono state stranamente silenziose. Non c'è stata alcuna discussione formale sulla scissione: nessuna riunione del team a livello aziendale o interno, nessuna e-mail di massa, almeno non ancora. Secondo un attuale dipendente di Microsoft, la notizia ha avuto un effetto minimo, se non nullo, sulle operazioni quotidiane di Microsoft. Bill ha essenzialmente lasciato l'azienda intorno al 2008. Ma presto potrebbe cambiare tutto. Mentre il divorzio procede, chi conosce la coppia si aspetta che emergano ulteriori dettagli. Secondo due persone che hanno familiarità con la situazione, qualcuno nella cerchia di Melinda ha lavorato con un investigatore privato fino al deposito. Ma un portavoce di Melinda ha definito l'affermazione «completamente falsa. Né Melinda né nessuno sotto la sua direzione hanno mai assunto un investigatore privato». Sebbene Microsoft non stia commentando le notizie, potrebbe diventare più difficile per il gigante della tecnologia non affrontare i rapporti sulla condotta di Bill, sia in ufficio che fuori: gli ex dipendenti che hanno sopportato comportamenti inappropriati sul posto di lavoro, le relazioni romantiche con i subordinati e le richieste di un capo che, per anni, è stato dipinto come un salvatore tecnologico nerd. C'è stato un tempo in cui Bill Gates era visto come una delle persone più malvagie viventi; digitando il suo nome in uno dei primi motori di ricerca, Internet restituiva risultati come «anticristo». Quando Microsoft ha perso la causa antitrust del 2001, il pubblico ne è stato felice. Ma da allora, Gates ha intrapreso un grande sforzo, durato 20 anni, per mostrarsi come un bravo ragazzo sfigato profondamente eccitato dalle nuove tecnologie e alla guida dello sforzo per risolvere i mali del mondo. Ha donato miliardi per combattere la malaria, il cambiamento climatico, la fame nel mondo. Ha cercato di avvisare della potenziale pandemia nel 2015, e quando la sua visione è diventata realtà, è stato in prima linea per la ricerca sui vaccini. Sulla scia del suo divorzio, tuttavia, è diventato sempre più chiaro che c'è un'innegabile dualità in Bill Gates. Per decenni sono circolate storie su quanto sia difficile lavorare con lui, e secondo un suo ex dipendente queste storie sono vere. Queste storie sono state in gran parte messe a tacere con accordi di non divulgazione, apparentemente per tenere nascosti ulteriori dettagli dannosi, ha detto questa persona. «Per così tanto tempo ti è stato detto: “Hai un NDA (un accordo di non divulgazione, ndr). Non puoi parlare”», ha detto l'ex dipendente, che ha firmato un accordo simile. L'attuale ondata di segnalazioni sul comportamento di Gates ha incoraggiato questa persona ad aprirsi, ma è perfettamente consapevole che Gates ha degli avvocati a portata di mano. Come la maggior parte dei leader delle aziende tecnologiche, ha spiegato il dipendente, Gates era spesso impaziente ed esigente, comportamento che era all'ordine del giorno data la rapida velocità del settore, la feroce lotta per ruoli di leadership e le fluttuazioni del mercato, in cui le più grandi aziende tecnologiche del mondo possono guadagnare o perdere miliardi di valore di mercato in un solo giorno. Un ex partner che ha lavorato direttamente con Gates in Microsoft su alcuni importanti annunci di prodotti ha spiegato che nel caso una scadenza non fosse stata rispettata, il responsabile avrebbe risposto direttamente a Gates. L'ex dipendente che ha firmato un NDA lo ha definito "implacabile" e "intransigente", aggiungendo: «Ti faceva una domanda e quando rispondevi, ti guardava e diceva: “Non è la risposta giusta”». Per anni ci sono state voci, all'interno di Microsoft e nei più ampi circoli professionali e sociali di Gates, di relazioni extraconiugali inappropriate. Niente di tutto ciò è stato del tutto scioccante, nonostante l'apparente contrasto con la sua persona pubblica. La relazione di Bill e Melinda è iniziata come una storia d'amore in ufficio, con Bill come capo e Melinda come l'impiegata più giovane con cui ha flirtato a una conferenza prima di chiederle di uscire nel parcheggio dell'azienda. Come Il New York Times ha riportato, Bill perseguitò donne che lavoravano per lui un paio di volte mentre era presidente di Microsoft; una volta chiese via mail a un dipendente di uscire a cena, un'altra volta invitò una dipendente della Fondazione Gates a cena mentre erano in viaggio d'affari a New York. A volte, le donne non si sentivano sotto pressione, ma l'equilibrio di potere era irrimediabilmente sbilanciato. Secondo il Wall Street Journal nel 2019, il consiglio di amministrazione di Microsoft ha aperto un'indagine sul comportamento di Bill dopo essere stato informato delle sue avances a una dipendente nel 2000. Bill si è dimesso dal consiglio l'anno successivo, dopo che la società ha assunto uno studio legale per esaminare l'accusa. (Una portavoce ha affermato che la sua "decisione di abbandonare il consiglio" non aveva nulla a che fare con la vicenda.) Per le persone che lavoravano per lui, il comportamento di Bill era un segreto di Pulcinella. L'ex dipendente che ha firmato un NDA ha detto che ci sono stati momenti in cui Bill è entrato in ufficio alla guida di una Mercedes e un'ora dopo, uno dei suoi addetti alla sicurezza si è presentato con una Porsche marrone dorata con cui Bill è andato via. «Succedeva quando era con le donne», ha detto l'impiegato. «Sapevo che c'erano molti incontri fuori sede che non erano nel suo calendario». Secondo qualcuno vicino a Bill, le sue infedeltà non erano un segreto per molte delle persone intorno a lui. Un'altra fonte vicina a Bill ha contestato che sarebbe scomparso dall'ufficio, dicendo che era «una delle persone più intensamente programmate del pianeta». Non è chiaro quanto Melinda sapesse del comportamento di suo marito o di queste voci, o quanto abbiano preso in considerazione la sua decisione di chiedere il divorzio. Le persone vicine alla coppia hanno detto che c'era stata tensione per un po' di tempo, che avevano vissuto vite separate per anni e che la decisione di separarsi era stata ritardata fino a quando la loro figlia più giovane si fosse diplomata al liceo. Il Times ha riferito che nel 2018 Melinda non era soddisfatta del modo in cui Bill aveva affrontato una denuncia per molestie sessuali contro il suo manager di lunga data, insistendo nel coinvolgere investigatori esterni. E poi nel 2019, quando la relazione tra suo marito e Jeffrey Epstein è diventata di dominio pubblico, ha assunto avvocati divorzisti, mettendo in moto un piano.
L'indiscrezione del WSJ. Bill Gates, i retroscena dietro l’addio alla presidenza Microsoft (e il divorzio): la relazione del miliardario con una dipendente. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Maggio 2021. Non era corretto che Bill Gates, co-fondatore di Microsoft, continuasse a far parte del consiglio di amministrazione della società di informatica mentre gli altri membri stavano indagando sulla relazione, considerata inappropriata, tra il miliardario e una dipendente del gruppo. È quanto riporta un rapporto del The Wall Street Journal, citando fonti anonime. Secondo il giornale statunitense, i membri del consiglio che indagavano sulla questione avevano assunto uno studio legale già alla fine del 2019 per condurre un’indagine dopo che un’ingegnera Microsoft aveva affermato in una lettera di aver avuto una relazione sessuale con Gates per diversi anni. Il Journal riferisce che Gates si è dimesso prima che l’indagine del consiglio fosse terminata. Una portavoce di Gates ha riconosciuto l’esistenza di una relazione allacciata quasi 20 anni fa e che si è conclusa “amichevolmente” e ha spiegato che “la decisione di Gates di uscire dal consiglio non è in alcun modo correlata a questa vicenda”. Quando ha lasciato il consiglio di amministrazione di Microsoft lo scorso anno, Gates aveva detto che si stava dimettendo per dedicarsi alla filantropia. Notizie che trapelano a poche settimane dall’annuncio del divorzio, dopo 17 anni di matrimonio, tra Bill e Melinda Gates. I due avevano spiegato in una nota che continuato a lavorare insieme alla Bill and Melinda Gates Foundation, una delle più grandi fondazioni di beneficenza del mondo. Ma dietro un divorzio che all’inizio era apparso "amichevole", erano rapidamente emersi particolari di ben altro tenore. Già domenica scorsa il New York Times aveva riferito che Gates aveva sviluppato “una reputazione di condotta discutibile in contesti legati al lavoro”. Il Times aveva precisato che, almeno in alcune occasioni, Gates aveva tentato degli approcci nei confronti di donne che lavoravano per lui alla Microsoft e alla Bill and Melinda Gates Foundation. Il quotidiano aveva citato per quell’articolo persone con una conoscenza diretta dei suoi comportamenti. Altra vicenda che avrebbe spinto Melinda French a chiedere il divorzio, secondo i media americani, erano i frequenti contatti tra il co-fondatore di Microsoft e l’amico e miliardario Jeff Epstein, morto in carcere nel 2019 dopo la condanna per abusi sessuali sui minori.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2021. Appreso che Bill Gates non si dimise da Microsoft per poter fare il filantropo, ma perché aveva una tresca con una dipendente, mi domando che cosa succederà adesso. Si bruceranno i suoi computer nelle pubbliche piazze o ci si limiterà a fingere che l'uomo più famoso del millennio dopo Steve Jobs non sia mai esistito? Bill era il buono per eccellenza: nelle foto trovavi sempre il suo sguardo miope e il suo cappellino da baseball accanto al bimbo magro di qualche villaggio o al pozzo d' acqua di qualche deserto. Anche chi lo contestava, lo faceva per motivi ideologici: non criticava l'uomo, ma il capitalista. La sua condotta esemplare di padre, marito e produttore seriale di buone azioni era un fatto assodato, tanto da averlo reso persino noioso. Ma nessun eroe è tale per il suo cameriere (e per l'avvocato della sua ex moglie). Ogni volta che scoprono questa ovvietà, gli altri uomini ci restano male e si compiacciono nel togliergli la corona che erano stati loro a mettergli in testa. Sorpresi e indignati dalla rivelazione che anche lui è un'anima vulnerabile e gioca continuamente a braccio di ferro con le sue debolezze. Confesso che il Bill Gates accessoriato di doppia vita mi sta per la prima volta simpatico. Non è un santo, e neanche un santino, ma un povero cristo come tanti, solo molto più ricco, intelligente e fortunato della media. La prova che ciascuno ha un travaglio dentro di sé e per questo non è da giudicare. Semmai un po' da compatire.
Paolo Mastrolilli per "la Stampa" il 18 maggio 2021. Alla fine, la crisi matrimoniale tra Bill Gates e Melinda French potrebbe avere la spiegazione più antica del mondo: l'infedeltà. Perché da quando l'ex coppia più ricca del pianeta ha annunciato il divorzio, le voci sui comportamenti non irreprensibili del marito si stanno rincorrendo. All'inizio erano i pettegolezzi sulle feste a base di spogliarelliste che Bill organizzava da giovane, poi l'amicizia pericolosa con Jeffrey Epstein, e ora anche l'accusa di una relazione extraconiugale con una dipendente, che secondo il «Wall Street Journal» sarebbe il vero motivo per cui era stato costretto a lasciare il consiglio d' amministrazione della Microsoft e dedicarsi alla filantropia. Quando il 3 maggio i Gates avevano annunciato il divorzio, avevano scritto che dopo 27 anni non vedevano più la possibilità di «continuare a crescere insieme». La decisione sembrava consensuale, includeva l'accordo per dividere il patrimonio da oltre 130 miliardi di dollari, e l'impegno a proseguire la gestione congiunta della Foundation. Poi si era scoperto che a chiedere la separazione era stata Melinda, perché il matrimonio celebrato nel 1994 era irreparabilmente compromesso. Subito era cominciata l'inevitabile caccia ai perché. Il primo elemento singolare emerso era stato l'accordo tra i due coniugi che consentiva a Bill di passare un weekend all' anno con l'ex fidanzata Ann Winblad, nel suo cottage sulla spiaggia dell' Outer Banks in North Carolina. Ok, era un vecchio amore finito, ma erano rimaste le affinità elettive dell'amicizia. Poi il biografo James Wallace aveva ricordato le feste di Bill, quando invitava spogliarelliste a nuotare nude nella sua piscina. Peccati di gioventù, ma precedenti al matrimonio. I sospetti si erano fatti più seri, quando era arrivata la conferma degli incontri con Epstein, conosciuto nel 2011. La versione ufficiale era che parlavano di filantropia, ma in realtà Gates aveva avuto parecchi incontri col pedofilo nella sua casa di New York, fermandosi spesso fino a tarda notte. Nel 2013 Jeffrey aveva ospitato a cena Bill e Melinda, che si era offesa per i suoi comportamenti e l'aria da club per soli uomini della townhouse. Infuriata, aveva costretto il marito a darci un taglio. Ora si scopre che durante quelle visite Gates si lamentava del proprio matrimonio, al punto che Epstein gli aveva offerto i servizi del suo avvocato per chiuderlo. Di sicuro c' è che nell' ottobre del 2019, quando le frequentazioni tra Bill e Jeffrey erano diventate pubbliche, era stata Melinda a contattare i propri legali per discutere il divorzio, a maggior ragione visto il suo crescente impegno per le cause femministe. Proprio in quei mesi, secondo il Wall Street Journal, il board della Microsoft aveva aperto un'inchiesta sul fondatore, dopo aver ricevuto la denuncia di una dipendente, ingegnere nella compagnia, che sosteneva di aver avuto una relazione extraconiugale con lui. Nella lettera, lei aveva chiesto di cambiare mansione e far leggere il testo alla moglie. Anche Melinda lavorava in Microsoft, quando si era fidanzata con Bill. Ma quelli erano altri tempi, e poi si erano sposati. Nell' era del movimento #MeToo, invece, chiudere gli occhi su una relazione così pericolosa sarebbe stato un rischio insostenibile. Così Gates, appena rieletto nel consiglio di amministrazione, nel marzo del 2020 era stato costretto a dimettersi, senza neppure aspettare l' esito dell' indagine. Una portavoce di Bill ha ammesso che «c' è stata una relazione circa 20 anni fa, terminata amichevolmente. La decisione di lasciare il board non è collegata in alcuna maniera a questa vicenda». Può darsi, ma il suo effetto sul matrimonio con Melinda resta invece tutto da appurare.
Matte Persivale per “corriere.it” il 18 maggio 2021. (…) Lo humour sadico del destino? Tra le varie accuse rivolte a Gates c’è quella di aver proposto — spesso via mail — a dipendenti Microsoft di uscire a cena con lui. Cosa ovviamente inappropriata. Il dovere di cronaca impone anche di riferire che Melinda French, negli anni ‘80 product manager Microsoft, era per l’appunto un’impiegata del ceo Gates quando lui, in un parcheggio, le chiese di uscire a cena, e il resto è storia di un lungo matrimonio ora finito malissimo. E la storia del loro primo appuntamento con la proposta di uscire avanzata da Bill in modalità «rivincita dei nerd» rappresentava uno degli aneddoti che la coppia ripeteva spesso. (…)
I dolori del giovane Bill (Gates). Piccole Note il 18 maggio 2021 su Il Giornale. Tempi bui per il filantropo più famoso e autorevole del mondo, ché Bill Gates è un leader del settore. In questi tempi di pandemia ha imparato a conoscerlo anche chi non lo conosceva, ché il guru, o paraguru che dir si voglia, ha pontificato su ogni media del globo, sui vaccini e l’emergenza Covid-19, in particolare, non dimenticando di discettare anche sul green e altro. Non che dicesse granché in queste interviste: anzi si tratta di un mix di banalità e furberia, e però nessuno poteva fare a meno delle sue opinioni, ché il paraguru è oracolo e vate. D’altronde la sua Fondazione ha costruito un feeling particolare con i media: ne paga tanti come annota The Intercept, da cui un trattamento di favore che gli ha evitato critiche usuali ai comuni mortali, come rileva il sito americano (che si ferma qui, tralasciando l’usuale profluvio di sperticati elogi che ne accompagnano i vaticini). Dopo aver rivoluzionato il mondo col digitale, grazie alla sua Microsoft, ha continuato la sua rivoluzione altrove. Grazie ai soldi incassati con la sua creatura tecnologica ha costruito il suo ente benefico, un vero gigante della Filantropia. Così The Intercept, “la Bill and Melinda Gates Foundation è di gran lunga la più grande istituzione di questo tipo del mondo. Le sue attività, per 41 miliardi di dollari sono più del doppio delle attività complessive delle fondazioni ‘Big Three’, Ford (12 miliardi), Rockefeller (4 miliardi) e Carnegie (3 miliardi)”. Un articolo del Washington Post racconta i lati oscuri di questi Istituti benefici, che alcuni ultra-ricchi usano per non pagare le tasse e i cui fondi spesso restano nella disponibilità degli stessi, alla stregua di un fondo investimenti. Gates i fondi li ha investiti in vari settori. The Intercept dettaglia gli investimenti della Fondazione Bill & Melinda nel settore scolastico, campo che poi ha abbandonato perché impegno infruttuoso. A quanto pare le scuole che hanno fondato, che avrebbero dovuto garantire un livello di istruzione migliore di quelle pubbliche alle classi meno agiate, non hanno raggiunto lo scopo. Secondo un critico della Fondazione il problema è che i poveri restano tali, e anche con scuole migliori il loro destino resta appeso. E forse il supermiliardario avrebbe fatto meglio a interpellarsi sull’enorme sperequazione che garantisce a lui tanta ricchezza e alle moltitudini tanta povertà, che magari impegnandosi a correggere un po’ tale sistema avrebbe arrecato quel beneficio che (forse) davvero desiderava. Ma il fallimento scolastico non ha scoraggiato Bill a fare del bene, da cui l’impegno sanitario globale dispiegato dalla sua Fondazione, che gli ha garantito l’aureola di paraguru. Così si è dato da fare per vaccinare mezzo mondo da varie malattie. The Intercept sgrana successi, altri annotano altrettanti nefasti insuccessi, ma è controversia nella quale non entriamo. Di certo è diventato un’autorità mondiale nel settore, tanto che pure l’Organizzazione mondiale della Sanità deve assecondare i suoi disegni. In altra nota abbiamo riportato un raro articolo mainstream critico su Bill, in cui si riferiva della sua influenza su tale Organizzazione, tanto che chi voleva diventarne presidente doveva prima passare da lui (articolo redatto su fonti anonime dell’Oms: nessuno voleva esporsi contro Bill…). Un’influenza che ha usato anche per blindare i brevetti dei vaccini Covid-19, mandando in fumo il progetto dell’Oms di creare una rete globale di ricerca e sviluppo che avrebbe dovuto distribuire gratis al mondo, in particolare ai Paesi poveri, il sospirato antidoto al virus. Invece ha vinto la sua idea, il Covax, che garantisce la proprietà intellettuale dei vaccini a Big Pharma e prevede una distribuzione degli stessi basata sulla Filantropia, il cui tragico fallimento è sotto gli occhi di tutti. Non solo, Bill ora si sta spendendo per impedire la liberalizzazione dei brevetti che permetterebbe la produzione di vaccini anche nei Paesi poveri, richiesta partita da India e Sudafrica, alla quale anche Biden ha dato il suo autorevole placet. Non solo il settore sanitario. Da tempo Bill si è preso pena anche della fame del mondo, investendo nel settore della produzione agricola. Suoi compagni di avventura la Monsanto e la Cargill, vere superpotenze del settore, nelle quali ha investito e con le quali ha iniziato a lavorare in Africa. Tale connubio ha suscitato critiche, per via dei compagni di merende prescelti, noti per aver fatto dilagare gli OGM in Africa, in danno all’agricoltura locale e affamando vieppiù la sua popolazione. Tanto che il Guardian si chiede: “Gates è irrimediabilmente ingenuo sostenendo due dei giganti agricoli più aggressivi del mondo? Dopotutto, c’è una genuina preoccupazione a livello governativo e della comunità internazionale sul fatto che il modello di agricoltura estensiva hi-tech degli Stati Uniti sia inappropriato per la maggior parte dell’Africa e non debba essere imposto agli agricoltori più poveri nel nome di "nutrire il mondo"”. Evidentemente c’è un’attrazione fatale di Big Pharma per l’agricoltura, dato che la Monsanto nel 2018 è stata acquistata dalla Bayer, ma questo è discorso da approfondire… Però è evidente che Bill ci ha preso gusto, tanto da iniziare a far incetta di terra che lo ha fatto diventare in poco tempo “il più grande proprietario terriero d’America” (Forbes). Il paraguru è contadino puro, e nel suo animo sembra rinnovarsi l’eterno duello tra contadini e allevatori, da cui le sue esternazioni molto green contro l’allevamento di animali, che sarebbe tra le prime cause di inquinamento atmosferico del mondo (sic). Sul punto ci si potrebbe chiedere se si darà anche a produrre carne sintetica: se eliminiamo gli allevamenti sarà questo prodotto di laboratorio a dover “nutrire il mondo”. Ma non ce lo domandiamo… (segue)
Bill Gates, per cosa incontrava l'orco Jeffrey Epstein: sconvolgente indiscrezione, adesso si capisce tutto. Libero Quotidiano il 19 maggio 2021. Bill Gates e l'ossessione per il Premio Nobel per la Pace. Sarebbe questo il motivo per cui il fondatore di Microsoft avrebbe spesso frequentato Jeffrey Epstein, il miliardario finito in carcere per abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni e morto suicida in cella nel 2019. Un ex dipendente della fondazione di Bill e Melinda Gates ha fatto una rivelazione al magazine online Daily Beast: "Bill pensava che Jeffrey sarebbe stato in grado di aiutarlo, che avrebbe conosciuto le persone giuste, che avrebbe trovato il modo per aggiustare le cose in modo da poter ottenere il Premio Nobel per la pace, che è ciò che Bill vuole più di ogni altra cosa al mondo". E ancora: "Penso che alla fine sia rimasto deluso che non abbia funzionato". Gates, insomma, avrebbe frequentato Epstein per interessi personali. In ogni caso, adesso questa frequentazione sta gravemente danneggiando la sua reputazione e sarebbe anche stata il motivo alla base del divorzio dalla moglie Melinda. Il fondatore di Microsoft, quindi, sperava che l'amico, grazie alla lunga lista di clienti istituzionali e amici potentissimi, potesse in qualche modo far presa sull’Accademia. L'idea fissa del Nobel per la pace - come scrive il Corriere della Sera - parte da lontano. Già nel 2008, ultimo giorno di lavoro a Microsoft, la piccola startup da lui fondata con l’amico Paul Allen nel 1975, si pensava che Gates lasciasse la sua azienda per dedicare tutto il suo tempo non alla famiglia, ma alle attività necessarie per vincere il Nobel per la pace. Bill ha vinto premi un po' ovunque, ma per il Nobel ancora nulla da fare. Pare addirittura che Gates tenesse in preallarme la fondazione, ogni anno, nel giorno della comunicazione del vincitore del Nobel. Doveva sempre esserci qualcuno pronto a rispondere al telefono, nonostante le nove ore di fuso orario tra la Svezia e Seattle.
Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 19 maggio 2021. Il passatempo preferito di Bill Gates, da bambino, era leggere l' enciclopedia, in sequenza, tutta intera, dalla A in poi.
Nel suo libro del 1995, La strada che porta a domani , parla di come i documenti digitali interattivi abbiano reso le enciclopedie mille volte più semplici da consultare, e fa un esempio. Se cerchiamo una lista dei vincitori dei premi Nobel, spiega Gates, possiamo dividerli per categorie, per anno, eccetera, senza bisogno di leggere tutto l' elenco completo. Ecco, i premi Nobel. Al liceo Lakeside di Seattle, i compagni dicevano che «Bill il genio» avrebbe sicuramente vinto un Nobel. E il 27 giugno del 2008, ultimo giorno di lavoro a Microsoft, la piccola startup da lui fondata con l' amico Paul Allen nel 1975, si disse da più parti che Gates lasciava la sua azienda per dedicare tutto il suo tempo non alla famiglia come fanno i baby-pensionati, ma per vincere il Nobel per la pace. Il «computer guy», il tizio dei computer come lo chiamavano sprezzanti ai convegni medici quando lui non sentiva, leggeva da anni libri di chimica, medicina, entomologia. Si convinse che sarebbe possibile eradicare la malaria, una malattia che fa mezzo milione di morti l' anno, specialmente bambini, specialmente nei Paesi in via di sviluppo. Da quando la fondazione Bill & Melinda Gates ha deciso di cancellare la malaria i casi sono diminuiti del 57%, uno dei grandi successi della storia della scienza. La regina d' Inghilterra l' ha nominato Cavaliere Comandante dell' Impero Britannico, e non può essere chiamato «Sir Bill» solo perché non è cittadino britannico (e suddito della Corona), e Bill ha vinto premi un po' ovunque. Tranne il Nobel. Eppure - è un segreto di Pulcinella - al di là delle dichiarazioni pubbliche, Gates teneva in preallarme la fondazione, ogni anno, nel giorno della comunicazione del vincitore del Nobel per la pace: doveva sempre esserci qualcuno pronto a rispondere al telefono, nonostante le nove ore di fuso orario tra la Svezia e Seattle. Ieri, il magazine online Daily Beast spiegava che l' imprudente, incomprensibile, rischiosissima frequentazione di Gates con il miliardario pedofilo Jeffrey Epstein (morto in carcere nel 2019) che ne sta gravemente danneggiando la reputazione e avrebbe provocato il divorzio dalla moglie Melinda, era dovuta al suo desiderio di vincere il Nobel - Epstein, intrallazzone della finanza internazionale con una lunga lista di clienti istituzionali e amici potentissimi, era l' uomo giusto per far presa sull' Accademia? «Eravamo consapevoli del rischio per la reputazione della fondazione e di Bill e Melinda - ha detto un ex dipendente della fondazione al Daily Beast - Bill pensava che Jeffrey sarebbe stato in grado di aiutarlo, che avrebbe conosciuto le persone giuste, che avrebbe trovato il modo per aggiustare le cose in modo da poter ottenere il Premio Nobel per la pace, che è ciò che Bill vuole più di ogni altra cosa nel mondo». E poi la conclusione, sublime understatement: «Penso che alla fine sia rimasto deluso che non abbia funzionato». Un altro grande intrallazzone della nostra epoca, il petroliere Armand Hammer (1898-1990), messaggero diplomatico top secret tra Washington e Mosca, fece di tutto per vincere il Nobel: dopo la sua morte si scoprì che a forza di pressioni (e elargizioni) arrivò a un solo voto dal premio. Che però quell' anno fu assegnato a un concorrente, il Dalai Lama. Hammer era proprietario del Codice Leicester leonardesco, che ribattezzò Codice Hammer. Dopo la sua morte, gli eredi hanno messo all' asta quel tesoro leonardesco. Dal 1994 è di Bill Gates.
Bill Gates e Melinda, questioni di letto. Gossip piccante sul divorzio dell'anno: "Cosa non funzionava nella coppia". Libero Quotidiano il 5 maggio 2021. Non una questione di soldi. Dietro al divorzio tra Bill e Melinda Gates, una notizia a sorpresa per il resto del mondo ma non per i più vicini alla coppia, ci sarebbe una semplice, anche banale storia di sentimenti finiti. E forse di sesso che, vista l'età, lo stress accumulato e i viaggi in giri per il mondo (per cercare di salvare l'umanità, peraltro) non funzionava più come un tempo. Nulla di nuovo sotto il sole, certo, ma in ballo ci sono decine di miliardi di dollari e l'uomo che forse più di ogni altro ha contribuito a cambiare la faccia del pianeta dal punto di vista tecnologico con la sua Microsoft, quindi tutto è amplificato. Ora si è appreso che è stata Melinda a volere il divorzio, nei documenti legali si parla espressamente di un matrimonio "spezzato in modo irrimediabile". Non c'entrerebbero le corna, come nel chiacchieratissimo divorzio tra l'altro multimiliardario Jeff Bezos e l'ex MacKenzie Scott. "Alcune fonti dell'entourage descrivono una unione in crisi da anni - riporta Repubblica - e la stessa Melinda confessò la difficoltà di tenere in vita il legame". Melinda cita la "mancata crescita" di coppia, un modo gentile per dire che forse ognuno stava andando per conto proprio, dopo 27 anni. E c'è chi dice che abbia pesato la distrazione per l'attività benefica di Bill, sempre più lontano dalla moglie. Una volta compreso che il matrimonio si stava spezzando, Gates avrebbe addirittura fatto un passo indietro nella sua Fondazione. Troppo tardi, evidentemente. Una cosa è certa: non c'erano accordi pre-matrimoniali tra i due e dunque si dovrà trovare una mediazione sulla spartizione del loro immenso patrimonio. Resteranno, pare, a guidare da vicepresidenti il loro "Impero del Bene", la Fondazione omonima impegnata su aiuti alle donne (il ramo di Melinda) e al Terzo mondo (quello di Bill, specie ora sul fronte vaccino anti-Covid) con un asset per 50 miliardi di dollari. Noccioline rispetto al patrimonio personale degli ex coniugi: 133 miliardi di dollari di ricchezza per il fondatore di Microsoft (gennaio 2021), 70 miliardi della ex moglie, e altri 7 miliardi in azioni di Microsoft. Sulla carta, impossibile litigare con così tanta ricchezza da spartirsi.
Bill e Melinda Gates, il dettaglio clamoroso nell'accordo prematrimoniale: "Poteva passare un weekend all'anno con l'ex". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Sono al centro del dibattito pubblico da giorni ormai: Bill e Melinda Gates continuano a far parlare di sé dopo il comunicato choc in cui annunciano il divorzio dopo ben 27 anni di matrimonio. L'ultima bomba sulla coppia, però, è stata sganciata da Megan Stack, giornalista del Los Angeles Times, che in un tweet ha scritto: "A volte c’è un piccolo dettaglio nella vita di una persona famosa che ti resta nella testa per anni: per me c’è Bill Gates che ha negoziato nell’accordo prematrimoniale il diritto di passare un weekend all’anno nella casa al mare della sua ex fidanzata". Erano in molti a pensare che tra Bill e Melinda non sarebbe mai finita. E invece la loro storia è naufragata. I due si sono sposati su una spiaggia delle isole Hawaii nel 1994. A capodanno per la precisione. La cerimonia - come ricorda il Corriere della Sera - era stata celebrata in gran segreto. Erano stati noleggiati addirittura tutti gli elicotteri dell'isola per evitare i paparazzi. Adesso dopo il divorzio viene fuori questa notizia. La fonte della giornalista è un vecchio articolo della rivista Time, scritto nel gennaio del 1997 dal biografo Walter Isaacson. Lo scrittore raccontò il vero Bill Gates, parlando ad esempio del tormentato rapporto con la madre, dell’amicizia con il socio Paul Allen, e infine dell'incontro con quella che poi sarebbe diventata sua moglie. I due si conobbero quando Gates aveva 42 anni ed era già miliardario. Galeotto fu un evento stampa di Microsoft a Manhattan nel 1987. Melinda aveva nove anni meno di lui ed era una dipendente della sua società. Il loro matrimonio fu ricco di compromessi. Tra questi anche quello su Ann Winblad, imprenditrice tecnologica con cui Bill era stato fidanzato negli anni Ottanta. I due si lasciarono poco prima che Bill conoscesse Melinda, anche perché Winblad era più grande di cinque anni e cercava un matrimonio, ma rimasero comunque molto amici. Visto il loro rapporto, Melinda concesse al marito di trascorrere un lungo weekend con l'ex ogni primavera. I due di solito si vedevano in un cottage sulla spiaggia in North Carolina: insieme — raccontavano gli ex fidanzati — si divertivano facendo una sorta di kart da spiaggia e discutevano di biotecnologia mentre giocavano con i videogiochi.
Valeria Robecco per "il Giornale" l'11 maggio 2021. L'addio tra Bill e Melinda Gates (o Melinda French, come vuole essere chiamata ora lei, tornando a usare il suo cognome da nubile) è stato per molti un fulmine a ciel sereno. In realtà, invece, non si è trattato di una decisione inaspettata, ma di un processo maturato almeno due anni fa. Lei infatti, secondo alcune fonti e documenti citati dal Wall Street Journal, aveva iniziato a consultare degli avvocati divorzisti già dall' ottobre del 2019, lo stesso mese in cui il New York Times rivelò i numerosi incontri del marito con Jeffrey Epstein, il controverso finanziere suicidatosi in carcere nei mesi precedenti dopo l' arresto per traffico sessuale di minorenni. Nella dichiarazione congiunta pubblicata su Twitter in cui annunciavano la separazione, i Gates hanno affermato: «Non crediamo più di poter crescere insieme come coppia in questa prossima fase della nostra vita». E lei ha spiegato che il loro matrimonio era «irrimediabilmente compromesso». Nessuno dei due ha spiegato però cosa abbia provocato la rottura. Secondo un ex dipendente della Bill & Melinda Gates Foundation, una enorme fonte di preoccupazione per la quasi ex signora Gates erano proprio i rapporti del consorte con Epstein. Il Daily Beast aveva già scritto che lei - impegnata nel promuovere i diritti delle donne - si adirò quando nel 2013, insieme al marito, incontrò l' ex finanziere nella sua residenza a Manhattan: disse a Bill che non era a suo agio e confidò agli amici che non voleva avere nulla a che fare con Epstein, già chiacchierato per le accuse di aver sfruttato sessualmente minorenni. Lui, però, continuò a frequentarlo, accettando anche un passaggio sul Lolita, il suo jet privato usato per trasportare le minorenni nelle sue lussuose residenze. Anche se Gates ha sempre sostenuto di averlo incontrato nell' ambito della sua attività filantropica, escludendo di aver partecipato ad incontri equivoci o a sfondo sessuale organizzati da Epstein. Quando gli incontri tra i due magnati diventarono pubblici, comunque, la situazione degenerò e Melinda contattò gli avvocati, scegliendo tra i suoi legali Stephan Cohen, l' avvocato del divorzio di Michael Bloomberg e di Ivana Trump, la prima moglie dell' ex presidente Usa. Poi, nei mesi successivi, la coppia iniziò a negoziare la separazione, disertando il forum economico di Davos poco prima che Bill si dimettesse dal board di Microsoft e Berkshire Hathaway. Il New York Times, comunque, si è spinto a leggere nel «body language» di Melinda segnali di frizioni con il marito sin da alcune apparizioni pubbliche nel 2014, mentre il magazine People ha confermato che la decisione di separarsi solo ora è legata all' attesa che Phoebe, la più giovane dei tre figli, diventasse maggiorenne e si diplomasse. Nei giorni scorsi, invece, i tabloid Usa avevano rivolto l' attenzione verso l' interprete cinese Zhe «Shelly» Wang, che ha lavorato per la fondazione Gates dal 2015, e verso Ann Winblad, imprenditrice tecnologica ex fidanzata di Bill negli anni Ottanta, che passava con lui ogni primavera un weekend lungo nella sua casa al mare, con il consenso dei rispettivi coniugi. Intanto, i Gates avrebbero deciso di dividere equamente il patrimonio stimato oltre 130 miliardi di dollari e nei giorni scorsi Melinda ha già incassato i primi trasferimenti per un totale di 2,4 miliardi di dollari. Entrambi resteranno co-presidenti della Fondazione, ma resta da capire se continueranno a condividere priorità e filosofia organizzativa.
Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" l'11 maggio 2021. Il divorzio tra Bill e Melinda Gates che ha colto tutti di sorpresa non è stato un fulmine a ciel sereno: Melinda French, come ora vuole essere chiamata tornando al suo cognome da ragazza, aveva cominciato a contattare avvocati divorzisti già più di un anno e mezzo fa, nell'ottobre 2019. Il Daily Beast e il Wall Street Journal scrivono che l'offensiva legale è partita dopo che la stampa aveva cominciato a parlare dei frequenti contatti tra Bill Gates e il miliardario pedofilo Jeff Epstein, morto in carcere, apparentemente per suicidio, nell'agosto di quell'anno. Secondo fonti vicine ai due coniugi di oltre 25 anni di matrimonio, dal 2013 Melinda aveva espresso il suo disprezzo per il personaggio che i due avevano conosciuto insieme e aveva rifiutato ulteriori incontri. Bill, invece, aveva continuato a frequentarlo. Per discutere di filantropia, ha sempre detto lui. Ma alla fine Bill ha ammesso che quel rapporto è stato un errore e Melinda è andata su tutte le furie dopo il racconto fatto dal New York Times di una notte quasi interamente passata da Bill a casa di Epstein a New York. La rottura a quel punto è divenuta inevitabile con la pandemia che ha reso tutto ancora più cupo, obbligando la coppia a vivere reclusa nella villa da 6.600 metri quadri sul Lake Washington, a Seattle, nella quale i Gates hanno cresciuto i loro tre figli. In realtà il matrimonio, che non deve essere mai stato frutto di grandi passioni (quando erano fidanzati Melinda sorprese Bill che su una lavagna stava elencando vantaggi e svantaggi di un'unione coniugale, e non fece una piega) era in crisi da tempo. La fondazione filantropica, che apparentemente li univa, in realtà li divideva sempre più, almeno dal 2013. Melinda, al comando fin da quando venne costituita più di vent' anni fa, aveva dovuto farsi da parte quando Bill lasciò le cariche in Microsoft per dedicarsi totalmente alla beneficenza. La stessa Melinda ha confessato anni fa in un libro che, quando nel 2012 chiese di poter scrivere a quattro mani con Bill il rapporto annuale della Fondazione e i suoi programmi futuri, ricevette un'accoglienza gelida dal coniuge e pensò che potesse essere un motivo sufficiente per divorziare. La crisi rientrò perché Bill lasciò più spazio a Melinda mentre i frequenti viaggi in Africa e in altri luoghi nei quali la Fondazione è attiva rendevano la convivenza meno problematica. Poi sono tornate le divisioni: oltre ad Epstein e al Covid che ha azzerato la vita sociale dei coniugi, un peso per arrivare a separare vite (e patrimoni) di Bill e Melinda pare l'abbia avuto, involontariamente, MacKenzie Scott, l'ex moglie di Jeff Bezos. Amica di Melinda, Scott, divorziando dal fondatore di Amazon e incassando decine di miliardi di dollari che ha in parte già reinvestito in attività benefiche, ha acquistato un alto profilo pubblico, indipendente dall'ex marito.
Valeria Braghieri per "il Giornale" l'11 maggio 2021. La vita è una battaglia persa. È questo che davvero ci insegna la vicenda di Bill Gates e del suo «declino personale», sorprendente tanto quanto la sua geniale ascesa. Pensavamo fosse un destino da «mortali» quello di sentirsi troppo spesso dove non si vorrebbe essere. Assieme a quella soffocante sensazione di non aver centrato il bersaglio, di essere andati un po' più a destra o un po' più a sinistra rispetto al centro. Di essersi fermati poco prima della meta, o di essere andati qualche passo oltre, perdendosela comunque. Pensavamo fosse un tormento «troppo umano» quello di pensare di aver sbagliato vita. Di essersi infilati in quella di un altro anziché accomodarsi in una fatta apposta per noi. Quando si litiga, si fallisce, si rimpiangono lavori e amori. Quando si pensa al momento esatto in cui il bivio era «ancora» davanti e noi dovevamo «ancora» decidere. Quando non avevamo «ancora» capito chi essere, e quindi potevamo «ancora» essere chiunque. Ecco. Quel momento. Pensavamo fosse roba per gente «normale», per chi ha meno mondo nell' orizzonte. Invece, poi, viene fuori che il secondo uomo più ricco del globo, il genio che ha ridisegnato la terra e il nostro modo di starci, andava alle feste del pedofilo Jeffrey Epstein, siglava un accordo prematrimoniale per garantirsi un lungo week end ogni primavera con la ex fidanzata e si faceva (si fa) lasciare da una moglie delusa e indignata. Viene fuori che nemmeno Bill Gates ce l' ha fatta. Che nemmeno lui è esattamente nella vita che vuole. Al riparo da rimpianti e contorsioni. Non sono «solo» i soldi il motivo per cui credevamo che Gates fosse esattamente al suo posto. E invece... C' è una voragine vuota. Bill Gates, l' uomo che sognava di mettere, e ha messo, un computer «su ogni scrivania e in ogni casa», l' uomo che usa una porzione di cervello che noi non sappiamo nemmeno di possedere, l' uomo che si è vendicato del compagno secchione nel modo in cui chiunque sogna di vendicarsi - «Fui bocciato in alcune materie, ma il mio amico le passò tutte. Ora lui è un ingegnere alla Microsoft, mentre io sono il proprietario della Microsoft». Tre figli, una moglie filantropa, jet personali per raggiungere delle isole personali. Eppure... era affascinato da quel signor Epstein che emanava una spaventosa, inaudita violenza da codardo. E non poteva fare a meno di quell' ex autoritaria e inaccessibile. E chissà cos' altro: una vita dentro l' altra. Gates hackerato da se stesso.
Il tesoro di Bill (che Melinda non vuole). Valeria Robecco il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Il magnate ha un patrimonio di 130 miliardi. L'ex moglie non avrebbe avanzato pretese. È stata Melinda Gates a chiedere il divorzio dal marito Bill, ma è giallo sull'esistenza o meno di un contratto pre-matrimoniale. Sono questi i primi dettagli che trapelano dopo la notizia bomba dell'addio, annunciato dalla coppia con un comunicato congiunto. «Dopo molte riflessioni e molto lavoro sulla nostra relazione, abbiamo deciso di porre fine al nostro matrimonio. Negli ultimi 27 anni abbiamo cresciuto tre figli incredibili e costruito una fondazione che lavora ovunque per consentire a tutti di condurre una vita più sana e produttiva», spiegano Bill e Melinda, rispettivamente 65 e 56 anni. Ma se i due assicurano che continueranno «a lavorare insieme alla fondazione», che gestisce asset per 50 miliardi di dollari, ammettono pure che non possono più «crescere come coppia in questa fase della nostra vita». Secondo i media Usa, nei documenti per il divorzio depositati nella King County, la quasi ex signora Gates ha parlato di nozze «irrimediabilmente compromesse». Melinda, che detiene una ricchezza personale di circa 70 miliardi di dollari, non avanzerebbe alcuna pretesa economica nei confronti del marito, che ha in tasca oltre 133 miliardi. È giallo invece sull'esistenza o meno di un contratto prematrimoniale: secondo Tmz non c'è, ma per altri osservatori è difficile pensare che non esista un accordo per un patrimonio così immenso. Dalle carte del tribunale, tuttavia, emerge che la coppia ha un «contratto di separazione» (documento solitamente firmato alla fine di un matrimonio), ma non un accordo prematrimoniale. Secondo quanto scrisse nel 1997 il biografo Walter Isaacson su Time, però, lui avrebbe firmato con la moglie un'intesa per cui aveva il diritto di passare un weekend all'anno nella casa al mare della sua ex fidanzata, l'imprenditrice Ann Winblad, che frequentò dal 1984 al 1987 e con cui rimase in ottimi rapporti. I Gates dovrebbero comparire in tribunale nell'aprile 2022, ma quasi certamente il divorzio sarà definito senza una causa. Dal matrimonio nel 1994 a Lanai, Hawaii, sono nati tre figli: Phoebe Adele, 18 anni, Rory John, 21, e Jennifer Katharine, 25. Nel 2000 hanno fondato la Bill & Melinda Gates Foundation, una delle maggiori operazioni filantropiche della storia. Il clamoroso annuncio della rottura dopo 27 anni di nozze è giunto come un fulmine a ciel sereno per i più, ma non per chi conosceva bene la coppia: loro sapevano che il rapporto si era lentamente deteriorato. Pare che lei scalpitasse per rendersi più indipendente e affermare la sua personalità a prescindere dal marito, anche all'interno della Fondazione. In una nota l'organizzazione ha fatto sapere che Bill e Melinda «rimarranno co-presidenti e curatori» e «non sono previsti cambiamenti ai loro ruoli», ma «continueranno a lavorare insieme». Lei stessa tuttavia in passato ha raccontato come abbia dovuto combattere per veder riconosciuti i suoi spazi: «Bill ha dovuto imparare a doversi porre alla pari, e io a farmi avanti per essere alla pari». Ora l'attenzione è soprattutto concentrata sull'immenso patrimonio di famiglia. Melinda ha già una sua azienda, la Pivotal Ventures, che investe in questioni legate soprattutto all'emancipazione delle donne. Il co-fondatore di Microsoft invece (in questo momento è la quarta persona più ricca del mondo) ha fondato la Gates Ventures con cui persegue i suoi interessi al di fuori della Fondazione. I due hanno ancora l'1% di azioni di Microsoft, per un valore di circa 7 miliardi. Sono i più grandi proprietari di terreni coltivati in America e, attraverso un fondo di investimento, detengono un vasto portafoglio di azioni, dalla catena di hotel Four Season alla Canadian National Railway. Tra le proprietà immobiliari c'è la magione di famiglia di oltre 6mila metri quadrati a Seattle, oltre a una villa a San Diego e due ranch in New Mexico e in Wyoming.
Paolo Mastrolilli per "La Stampa" il 5 maggio 2021. La rivoluzione ci sarà, ma promette di scuotere il mondo della filantropia dei Gates allargandola, e forse rendendola anche più politica. E' stata lei, Melinda, a chiedere il divorzio da Bill. Tra i due non c'era nemmeno un «prenuptial», gli accordi che si firmano prima del matrimonio per mettere subito in chiaro le condizioni dell'eventuale fine. Solo un «contratto di separazione», definito dopo la rottura. Il ceo della loro Foundation, Mark Suzman, ha però assicurato che «intendono continuare questo lavoro insieme», mentre Melinda già punta a dedicarsi con maggior impegno alle cause femminili, attraverso il suo incubatore di investimenti Pivotal Ventures. I dettagli della separazione sono contenuti nella «Petition for Divorce», depositata presso la Superior Court of Washington nella County of King. Questo documento di appena dodici pagine ha messo fine all'unione di quella che è stata a lungo la coppia più ricca al mondo, giustificandola dal fatto che «il matrimonio è irreparabilmente spezzato». Bill aveva conosciuto Melinda, dipendente della Microsoft, durante un picnic organizzato dalla compagnia nel 1987. Si erano intesi subito, lui «nerd» secchione fidanzato con l'azienda, e lei seria ragazza cattolica, seppur liberal nel cuore, che aveva studiato economia. Dopo un anno di uscite senza impegno, lui le aveva confessato che l'amava, aggiungendo la domanda: «E ora cosa succede?». Per la proposta di matrimonio l'aveva invitata in una stanza, dove aveva scritto sulla lavagna tutti i pro e i contro dell'unione: «Volevo dimostrarle che prendevo la cosa molto sul serio». Il primo gennaio del 1994 si erano sposati alle Hawaii. Dopo 27 anni e tre figli, Jennifer di 25 anni, Rory 21, e Phoebe 18, Melinda ha chiesto la «Dissolution». I due lo hanno annunciato insieme via Twitter: «Dopo molte riflessioni e molto lavoro sulla nostra relazione, abbiamo deciso di porre fine al nostro matrimonio. Negli ultimi 27 anni abbiamo cresciuto tre figli incredibili e costruito una Fondazione che lavora in tutto il mondo per consentire alle persone di condurre una vita sana e produttiva. Continueremo a lavorare insieme alla Fondazione, ma non crediamo più di poter crescere insieme come coppia in questa fase della nostra vita». Jennifer, la figlia più grande che studia medicina a New York, ha commentato così: «E' un momento difficile per la nostra famiglia». I motivi per cui il matrimonio è irreparabilmente compromesso non sono specificati, ma già in passato erano girate voci di difficoltà per le differenze di focus e priorità, che però erano state ricomposte. Bill poi era stato trascinato anche nei pettegolezzi relativi al milionario pedofilo Epstein, che aveva frequentato a New York. In base alle carte presentate in tribunale, però, la separazione è consensuale. Bill, 65 anni, sarà assistito dallo studio Munger, Tolles & Olson; Melinda, 56, da Paul Weiss. I figli sono tutti maggiorenni, e quindi non ci sono problemi di affido, mentre lei non ha chiesto gli «alimenti». L'accordo di separazione dividerà i beni, di quello che secondo Forbes è il quarto uomo più ricco al mondo. Ammontano a oltre 150 miliardi di dollari, più investimenti in varie aziende attraverso il fondo Cascade, oltre alla Microsoft che ormai rappresenta solo il 19,6% del patrimonio complessivo. I Gates sono anche i più grandi proprietari terrieri degli Usa, e condividono la villa Xanadu 2.0 vicino Seattle, valutata oltre 150 milioni. Sui beni c'è l'accordo, e i figli non se la passeranno male, anche se la coppia aveva sempre affermato che non avrebbero ereditato tutta la fortuna dei genitori. Il vero interrogativo dunque riguarda le attività filantropiche, diventate la prima occupazione per entrambi. Il ceo della Bill & Melinda Gates Foundation, Mark Suzman, ha scritto ai dipendenti che entrambi vogliono portarla avanti insieme. Con una dotazione di 50 miliardi di dollari è tra le più ricche al mondo, e regala circa 5 miliardi all'anno, inclusi ora forti investimenti per i vaccini contro il Covid. Melinda però ha sempre avuto ambizioni più politiche di Bill, e ora sarà libera di perseguirle, un po' come ha fatto MacKenzie Scott dopo il divorzio da Jeff Bezos. L'aveva confermato durante un colloquio che avevamo avuto con lei nel luglio scorso, in occasione della pubblicazione su Foreign Affairs del paper «The Pandemic's Toll on Women», con cui aveva approfondito l'impatto negativo sproporzionato del virus sulle donne. «Stiamo vedendo - aveva detto - la differenza che fa la leadership femminile. Ci sono grandi leader uomini che fanno cose giuste, ma le donne portano una visione diversa e hanno più attenzione per l'intera società. Ho parlato con Jacinda Ardern quando la Nuova Zelanda aveva zero casi, ma lei si preoccupava di garantire la sicurezza agli altri Stati insulari vicini. La cancelliera Merkel, invece dei suoi successi, mi ha spiegato gli sforzi per raggiungere le persone più emarginate. Tutto ciò dimostra perché abbiamo bisogno di leadership femminile». Quindi aveva indicato le linee per una politica estera femminista: «Poniamoci alcune domande: dove bisogna investire per aiutare le donne, che poi promuovono le loro famiglie e la società? Quali sono le barriere che le frenano? Il mio paper propone quattro aree, sanità, economia, dati e leadership femminile. Uno degli ostacoli più grandi, però, è la violenza domestica: come possiamo ridurla?». Ora potrà provarci lei, con le sue forze.
Anna Guaita per "Il Messaggero" il 5 maggio 2021. Se il mondo ha reagito con grande sorpresa, alcuni amici più vicini sapevano da tempo che il matrimonio di Bill e Melinda Gates stava traballando. La documentazione per il divorzio, presentata da Melinda, è trapelata ieri sui media americani e non lascia dubbi sul fatto che la coppia è già separata, e anzi ha firmato un accordo di separazione in cui sarebbe contenuto anche il piano per la divisione dei beni che la coppia ha accumulato nei 27 anni di matrimonio. Nei documenti due punti sono espressi chiaramente, che la coppia considera il matrimonio «irreparabilmente rovinato» e che si vedranno in tribunale nell'aprile dell'anno prossimo. Questo appuntamento tuttavia sarà preceduto da un incontro con il giudice in settembre, per constatare se i due abbiano trovato un accordo definitivo e si possa risolvere tutto in modo amichevole. Girano voci che Bill e Melinda si siano assicurati i più importanti avvocati nel settore del divorzio, ma c'è anche chi sostiene che abbiano già risolto tutto nonostante la loro sia una ricchezza di dimensioni tanto gigantesche da poter essere paragonata al Pil di qualche nazione. Non bisogna dimenticare infatti che tutti e due sono metodici, fortemente portati alle scienze informatiche e all'economia, e tutti e due sono manager di eccellente livello. Bill ha sempre avuto una grande ammirazione per le donne intelligenti, tanto che è sempre rimasto molto amico della sua prima fidanzata Ann Winblad: dopo il matrimonio ha concordato con Melinda di poter incontrare la sua ex ogni anno per un weekend di riposo. Nel tweet identico che la sera di lunedì hanno messo in rete per annunciare la separazione, i Gates spiegano di aver speso tempo ed energie nel tentare di salvare il matrimonio. Ora sappiamo anche che quando Bill ha lasciato del tutto la Microsoft nel 2020, lo ha fatto proprio per trascorrere più tempo con lei. A San Valentino del 2020, Bill twittava una foto con Melinda in cui dichiarava «Non avrei potuto chiedere un partner migliore per il mio viaggio». In un documentario dell'anno prima, Bill diceva: «Con lei ho davvero un rapporto paritario, lei è molto come me, ottimista e appassionata della scienza». E tuttavia, non appena la figlia minore, Phoebe, ha compiuto 18 anni, è arrivato il divorzio. Gli amici bene informati sostengono che l'essere stati partner eguali aiuterà Bill e Melinda a restare amici, e che non ci saranno lotte. Non si può comunque negare che dividere il patrimonio debba essere complicato. Tutti e due hanno attività separate e indipendenti, lei ha fondato nel 2015 la società di investimenti «Pivotal Ventures» e lui nello stesso anno ha creato la «Gates Ventures». Tutti e due hanno firmato la «Giving Pledge», l'impegno a dare in beneficenza oltre la metà dei propri beni prima della morte, e nel 2000, su istigazione di lei, hanno aperto la Fondazione Bill e Melinda Gates, alla quale hanno già trasferito 50 miliardi di dollari. Ultimamente la Fondazione ha investito più di un miliardo di dollari nella pandemia. Bill e Melinda hanno scritto che intendono continuare a gestirla insieme, ma esperti del settore pensano che Melinda vorrà essere sempre più generosa. Se mai ci sono stati segnali di disaccordo fra i due, infatti, è stato proprio sulla necessità di essere più generosi con la loro ricchezza, che lei giudicava eccessiva: «Diventerà una donatrice molto più progressista - suggerisce David Callahan, studioso della filantropia americana -. Con il patrimonio che le toccherà è probabile che apra un'altra fondazione per concentrarsi sui temi che le stanno più a cuore». Melinda è da tempo impegnata nell'aiutare le donne a conquistare l'autosufficienza, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. La ricchezza di Bill Gates non è più esclusivamente legata alla Microsoft, dalla quale oggi dipende meno del 20% del suo valore. Nel corso degli anni, Bill ha investito in catene di alberghi, concessionarie automobilistiche, fabbriche di macchine agricole, ferrovie, immense proprietà terriere, varie ville, un'isoletta nei Caraibi, e ha perfino quasi due miliardi di dollari di azioni della Diageo, la società di prodotti alcolici come il whisky Johnny Walker e la birra Guinness. Nel garage della sua villa sul Lago Washington nell'omonimo Stato, conserva una raccolta di auto sportive di immenso valore come la Ferrari 348. Nella stessa villa, il cui valore si aggira sui 130 milioni di dollari, conserva una raccolta di opere d'arte che comprendono anche il Codex Leicester, la famosa raccolta di scritti di Leonardo Da Vinci che Bill comprò nel 1994 per 30 milioni e oggi ne vale il doppio.
Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. Se Nicole Kidman si disse felice, dopo il divorzio dall'aitante ma non altissimo Tom Cruise, di poter tornare a indossare i tacchi, Melinda Gates adesso potrà comprare tutti gli iPhone e i computer Apple che vuole. I soldi, nel cammino della separazione non solo dal marito ma dalla Microsoft, non le mancheranno: oggi la donna più potente del mondo non è Angela Merkel, né Ursula von der Leyen, né Christine Lagarde, ma Melinda Ann French Gates, nata il 15 agosto 1964 a Dallas, Texas, liceo dalle Orsoline e laurea (con master) all'ottima Duke, sempre col massimo dei voti tanto da scherzare sul suo essere una secchiona sposata con il secchione più famoso del mondo. Melinda French Gates è la più potente non solo perché gestisce (e continuerà a gestire) con Bill una Fondazione benefica da 50 miliardi di dollari che porta il nome di entrambi, ma perché il patrimonio dell'ex marito è di circa 150 miliardi di dollari e non è mai stato siglato, tra i due, un accordo prematrimoniale. Non c'era un contratto per determinare, in anticipo, quanti soldi sarebbero spettati alla moglie in caso di divorzio, neanche tra Jeff Bezos e Mackenzie Scott e sappiamo come è finita - il patrimonio del fondatore di Amazon, circa 129 miliardi di dollari, venne quindi diviso a metà. Difficile prevedere cosa succederà, in termini di accordi finanziari, tra i non ancora ex-coniugi Gates, ma è evidente che alcune legioni di avvocati stanno in queste ore lavorando agli aspetti più pratici della separazione (Melinda si è affidata allo studio del divorzista Robert Cohen che in precedenza ha lavorato per Ivana Trump, Michael Bloomberg e il comico Chris Rock). Bill & Melinda hanno passato trentaquattro anni insieme, ventisette dei quali come marito e moglie: si sono conosciuti nel 1987 a New York, e si sono sposati il 1° gennaio 1994. Tre figli - Jennifer, Rory e Phoebe - e una casa da 150 milioni di dollari soprannominata Xanadu 2.0, versione aggiornata (al mondo digitale) della megavilla del magnate protagonista di «Quarto Potere», il film di Orson Welles. La questione dei figli, sotto il profilo finanziario, è stata risolta da anni: Gates è convinto che «ereditare miliardi non aiuta a formare il carattere» e d'accordo con Melinda ha stipulato che ciascuno dei tre figli erediterà «soltanto» 10 milioni di dollari. Il resto finirà alla Fondazione. D'accordo, ma cosa sarà della Fondazione stessa: continueranno Bill e Melinda a lavorare fianco a fianco come nei decenni precedenti? L'intesa, tra i due, è sempre stata civile: Gates, uomo magari non straordinariamente carismatico ma di ammirevole pragmatismo, fece presente all'allora fidanzata Melinda che gli sarebbe piaciuto continuare con una tradizione alla quale era affezionato, un weekend all'anno passato in vacanza con un'amica (e ex fidanzata), l'ex programmatrice Microsoft e ora venture capitalist Ann Winblad. Melinda disse sì, e Bill anche da sposato continuò la tradizione. D'altronde c'è un aneddoto che fa capire bene l'indole precisina del personaggio: quando ancora erano fidanzati Melinda lo scoprì intento a annotare in un grafico, su una lavagna, i pro e i contro di un eventuale matrimonio con lei.
Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. Nel 2020, anno primo della pandemia, due figure tenevano testa alla linea minimalista di Donald Trump. Uno era il virologo Anthony Fauci. L'altro Bill Gates, fiancheggiato dalla moglie Melinda. Il New York Times scrive che per tutta la giornata di ieri, molti dei 1.600 collaboratori della Bill e Melinda Gates Foundation si sono scambiati messaggi preoccupati. «E adesso?». Il direttore esecutivo, Mark Suzman, ha provato a rassicurare tutti: «È chiaramente un momento difficile sul piano personale, ma entrambi mi hanno assicurato che continueranno a impegnarsi nella Fondazione». L'organizzazione, costituita nel 2000 dal fondatore di Microsoft insieme con la moglie, è considerata la più importante non profit del mondo. Naturalmente contano le risorse: il capitale ammonta a 50 miliardi di dollari. Ma ciò che spicca è l'approccio innovativo. Poca assistenza, poca filantropia consolatoria; tante iniziative di grande impatto politico. Bill e Melinda hanno chiamato a raccolta scienziati e manager di alto livello. Hanno intuito fin dal 2000 la pericolosità delle pandemie; hanno elaborato progetti concreti per contrastare il «climate change». Un modello da studiare, cui si sono ispirati, tra gli altri, Michael Bloomberg e l'attore Sean Penn con la sua Core. Non è esagerato sostenere che oggi la Fondazione dei Gates possa essere paragonata a uno Stato sovrano. L'anno scorso Donald Trump decise di bloccare i finanziamenti all'Organizzazione mondiale della Sanità, pari a 889 milioni di dollari, il 20% del capitale a disposizione dell'agenzia Onu, fondata nel 1948. L'ex presidente americano accusò il direttore dell'Oms, Tedros Adhanom, di essere «un pupazzo manovrato dai cinesi». Ci fu una grande polemica. Ma negli Stati Uniti solo i Gates fecero un passo concreto. Bill difese apertamente Adhanom e la Fondazione confermò la posizione di secondo finanziatore dell'Oms, con una quota di 531 milioni di dollari. La Fondazione ha ormai una funzione di guida mondiale nella lotta alla pandemia: ha investito 1,75 miliardi di dollari nella produzione e nella distribuzione dei vaccini, entrando in forze nel Covax, il consorzio costituito per aiutare i Paesi più poveri. Negli ultimi mesi c'è stato anche qualche contrasto tra i Gates e il neo presidente Joe Biden. La Casa Bianca ha teorizzato e attuato l'America First in materia di immunizzazione: prima gli americani, poi gli altri. Bill, invece, si è fatto intervistare regolarmente dalle tv statunitensi per chiedere «più generosità» e anche «più lungimiranza» a Biden. Senza una vaccinazione, rapida e universale, il contagio non sarà sconfitto. Adesso bisogna capire se e come il divorzio potrà cambiare qualcosa. Forse non sarà un problema di patrimonio. La ricchezza di Bill ammonta a 133 miliardi, quella di Melinda a 70 miliardi. I due hanno anche investimenti finanziari separati con cui alimentare la Fondazione. Il tema, invece, sarà quello della gestione. Bill, 65 anni, e Melinda, 56, hanno condiviso il lavoro per venti anni. Hanno studiato, esplorato; sono cresciuti politicamente, sono diventati protagonisti del dibattito pubblico. Sempre insieme: anche questa è stata la loro forza.
DAGONEWS il 6 maggio 2021. Volete sbirciare la casa dove Bill Gates incontrava l’ex fidanzata Ann Winblad? Il “New York Post” ha scodellato le immagini della casetta abbastanza modesta dove i due ex piccioncini si davano appuntamento per il loro weekend annuale. Si trova a Outer Banks, nella Carolina del Nord, e per più di un decennio è stato il luogo dove Bill E Ann si godevano tre giorni, “tra passeggiate in spiaggia e lunghe chiacchierate sulla biotecnologia”. La fuga, come ha raccontato il “Time”, era parte di un "accordo" che Bill aveva stipulato con la moglie Melinda. Ma tornando alla casa. Si tratta di una casa indipendente su due livelli, costruita nel 1982 e che dal 2016 viene affittata. All’epoca dei weekend era di proprietà di Ann che compare ancora oggi come trustee. La casa di vacanze di fronte all'oceano, descritta come un "rifugio reale per gli amanti della spiaggia" sul sito di affitti, è piuttosto umile e senza pretese per uno degli uomini più ricchi del mondo. Al piano terra c’è una grande sala con soggiorno, sala da pranzo e cucina, oltre a due camere da letto. Altre due camere da letto si trovano al livello superiore, così come un soppalco con un divano letto. Il grande vantaggio è l’accesso a una spiaggia privata. Un weekend di tre notti, può costare fino a 2.700 dollari. Se il prezzo vi sembra esagerato sappiate che è andata a ruba in pandemia: la prossima disponibilità è per settembre.
Dagotraduzione dal DailyMail il 6 maggio 2021. Bill e Melinda Gates volevano annunciare il loro divorzio a marzo. Subito dopo, Melinda aveva progettato di passare qualche giorno con i figli, a suo dire furiosi con Bill, in un'isola caraibica privata alla cifra di 132.000 dollari a notte per sfuggire ai media. Secondo fonti anonime, l'annuncio è stato poi ritardato perché gli avvocati non avevano ancora trovato un accordo. Melinda e i ragazzi, Jennifer (25), Rory (21) e Phoebe (18) sono partiti lo stesso per Calivigny Island, un'isola privata a Grenada, perché i figli era «molto arrabbiati» con il padre. Queste dichiarazioni confermano che i due hanno trovato un accordo finanziario prima di annunciare il divorzio e depositare i documenti. E per la prima volta gettano un'ombra su quella che era sembrata una separazione serena. Per adesso solo Jennifer, la più grande dei tre figli, ha parlato dei genitori. Su Instagram ha descritto gli ultimi mesi come «impegnativi» per l'intera famiglia, ma non si è spinta oltre. Bill e Melinda per adesso non hanno fornito grandi spiegazioni sul loro divorzio. Si sono limitati a scrivere, nei documenti consegnati al tribunale, che «non possono più crescere come coppia» (entrambi) e che il loro matrimonio è «irrimediabilmente rotto» (Melinda). Non mancano voci sulla loro separazione: il fine settimana che Bill dedicava ogni anno alla sua ex, Ann Winblad, trascorso in una romantica casa di fronte all'oceano nella Carolina del Nord e di cui Melinda era a conoscenza. O la giovane interprete cinese impiegata presso la loro fondazione e sospettata di essere l'amante di Bill (lei ha smentito). Bill e Melinda si sono sposati nel 1994 e non hanno firmato accordi prematrimoniali. Non è ancora chiaro come divideranno l'enorme fortuna di 130 miliardi che hanno in cassaforte. Lunedì, il giorno dell'annuncio, la società di investimento di Bill Gates, Cascade, ha trasferito 1,8 miliardi di dollari in azioni a Melinda. Sappiamo anche che Bill ha consegnato a Melinda 14 milioni di azioni della Canadian National Railway Compani (valore 1,5 miliardi) e 2,9 milioni di azioni di AutoNation.
Massimo Gramellini per il Corriere della Sera il 6 maggio 2021. Uno degli aspetti più curiosi della vita privata di Bill Gates sta riaffiorando nei giorni del suo divorzio ed è l'accordo prematrimoniale che dal 1994 a oggi gli ha consentito - con la piena benedizione della moglie - di trascorrere un fine settimana all' anno nella casa al mare della fidanzata precedente «per discutere insieme di biotecnologie e dedicarsi ai videogiochi». La prima cosa che colpisce è la trasparenza. L' omologo italiano di Bill Gates, chiamiamolo Guglielmo Ponti, avrebbe rivisto volentieri la sua ex solo a condizione di poterlo fare di nascosto, ingegnandosi ogni volta a trovare scuse diverse a cui la signora Ponti avrebbe fatto finta ogni volta di credere per non prosciugargli le residue riserve di autostima. Ma forse la prima cosa che colpisce è il romanticismo di tutta la faccenda: un déjà-vu annuale, vidimato dai rispettivi coniugi e protratto nei decenni, per mantenere fede a quella promessa di non perdersi di vista che le coppie perbene si fanno sempre al momento di lasciarsi, ma che non riescono a rispettare quasi mai. Abbiamo scherzato. In realtà la prima cosa che colpisce è il menu delle fuitine programmate: Bill Gates e Ann Winblad, anche lei talento della Silicon Valley, si imboscano una volta l'anno in una casetta della Carolina del Nord per parlare di biotecnologie e sfidarsi ai videogiochi. Che se fosse una bugia, renderebbe onore alla creatività del fondatore di Microsoft e della sua ex. Ma se fosse vera, gliene renderebbe persino di più.
Andrea Marinelli per corriere.it il 6 maggio 2021. Con l’improvviso divorzio dei Gates, è riemerso dai social un vecchio accordo stretto prima del matrimonio: Melinda aveva concesso a Bill il permesso di passare ogni primavera un lungo weekend al mare con l’ex fidanzata Ann Winblad, con cui si era lasciato nel 1987 — l’anno in cui guadagnò il suo primo miliardo — poco prima di conoscere la sua futura moglie. Gates e Winblad si erano conosciuti nel 1984 a una conferenza tecnologica e avevano cominciato a uscire virtualmente: andavano a vedere lo stesso film in città diverse, e intanto si parlavano al telefono. All’epoca lui era però troppo preso da Microsoft per pensare al matrimonio, mentre lei, cinque anni più grande, desiderava una famiglia: finì così, ma quando Bill — sei anni dopo — decise di sposare Melinda, chiamò l’ex fidanzata per chiederle l’approvazione. Che arrivò. Oggi Winblad ha 70 anni, vive a San Francisco ed è sposata da sei anni con Edward Alex Kline, investigatore privato 63enne e fratello dell’attore Kevin Kline, insieme al quale recitò una piccola parte nel film Un pesce di nome Wanda. Soprattutto, però, Winblad è una leggenda della Silicon Valley, un mondo che ha contribuito a costruire: fin dagli albori di Big Tech, infatti, Winblad ha lasciato la sua impronta in decine di startup, a cominciare da Microsoft di cui fu uno dei primi investitori. Sul suo intuito straordinario ha costruito una fortunata carriera da venture capitalist e imprenditrice tecnologica in un settore dominato dagli uomini: sua è la celebre definizione «i dati sono il nuovo petrolio», offerta a un giornalista nel 2012 ben prima che la questione diventasse di dominio globale. Già negli anni Settanta aveva capito il valore del software e in gioventù è stata una pioniera della programmazione femminile: fondò a 26 anni Open System, una delle prime società di software, e sei anni dopo la vendette per 15 milioni di dollari, dedicandosi alla consulenza. Fra i suoi clienti arrivarono colossi come Ibm e Microsoft, e fu così che conobbe il giovane Bill Gates. «All’epoca non era un pezzo grosso», ha raccontato nel 2005 in un’intervista al San Francisco Chronicle. «C’è stato un periodo in cui avevo un patrimonio maggiore del suo e dovevo pagare tutto io. È stato un periodo breve, ma memorabile». La relazione finì, ma rimasero amici e proseguì anche il rapporto professionale. Quando lei nel 1999 fondò Hummer Winblad Venture Partners insieme all’ex giocatore di basket John Hummer, lui era fra i partner: in pochi anni lanciarono 16 startup, metà delle quali finirono quotate a Wall Street.
Chi è Melinda Gates, l’informatica e filantropa ex moglie del fondatore di Microsoft Bill. Vito Califano su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Bill Gates e la moglie Melinda si sono lasciati. Lo hanno fatto sapere attraverso i social network. Fine dunque della storia d’amore di una delle coppie più famose al mondo e di sicuro della coppia di filantropi più famosa al mondo. Informatica, imprenditrice, filantropa, sarebbe stata proprio Melinda a chiedere il divorzio. Un rapporto che non aveva più nulla da dare ai due, hanno spiegato. Una relazione lunga 34 anni, un matrimonio lungo 27 anni. Melinda Ann French Gates è un’imprenditrice e informatica statunitense. Nata a Dallas nell’agosto del 1964, si è laureata all’Università di Duke in informatica prima di prendere un master in business administration alla Duke’s Fuqua School of Business. Dal 1987 cominciò a lavorare come sviluppatrice di software alla Microsoft. Dopo l’incontro con Bill Gates il matrimonio nel 1996. La coppia ha avuto tre figli: Jennifer, Phoebe e Rory. La famiglia ha vissuto alla mansion Xanadu 2.0 a Medina, nei pressi di Seattle, Stato di Washington. Bill e Melinda hanno fondato nel 2000 la Fondazione che porta il loro nome. La Fondazione è considerata la più grande privata al mondo con 50,7 miliardi di dollari di attività. I suoi obiettivi sono l’assistenza sanitaria, la riduzione della povertà estrema, l’accesso all’istruzione, l’accesso alle tecnologie. Melinda è diventata membro del consiglio d’amministrazione della Duke University e co-presidente della commissione governativa dello Stato di Washington sull’educazione infantile. E’ stata membra del consiglio di amministrazione di Drugstore.com e del quotidiano The Washington Post. Melinda Gates è considerata una delle donne più influenti al mondo da Forbes. Ha scritto e pubblicato un libro, The Moment of Lift: How Empowering Women Changes the World, sull’empowerment femminile. Ha fondato Pivotal Ventures, società di investimenti e incubazione che punta a guidare progresso sociale delle donne e delle famiglie americane. La coppia ha annunciato il divorzio con un post su Twitter: “Dopo molte riflessioni e molto lavoro sulla nostra relazione, abbiamo deciso di porre fine al nostro matrimonio. Negli ultimi 27 anni abbiamo cresciuto tre bambini incredibili e costruito una fondazione che lavora in tutto il mondo per consentire a tutte le persone di condurre una vita sana e produttiva. Abbiamo continuato a condividere la convinzione in quella missione e continueremo a lavorare insieme alla fondazione, ma non crediamo più di poter crescere insieme come coppia in questa fase della nostra vita. Chiediamo spazio e privacy per la nostra famiglia mentre iniziamo a navigare in questa nuova vita”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Simona Siri per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Non si fa chiamare con il cognome dell' ex marito, Jeff Bezos, e neanche con quello del nuovo, Dan Jewett, un insegnante di Seattle sposato a marzo. Lei è semplicemente MacKenzie Scott, ammesso che ci sia qualcosa di semplice nell' essere una delle donne più facoltose e generose del mondo. Nel 2019 il divorzio dopo 25 anni di matrimonio dal fondatore di Amazon nonché uomo più ricco del mondo (193,5 miliardi di valutazione secondo Forbes) le aveva lasciato in dote 59 miliardi. Oggi, sta mantenendo quello che aveva già promesso alla vigilia della separazione, ovvero dare gran parte della sua fortuna in beneficenza. È di ieri la notizia che la signora Scott ha deciso di donare altri 2.74 miliardi di dollari a 286 organizzazioni. Non è la prima volta. Nel luglio 2020 aveva già donato 1,7 miliardi a 116 organizzazioni, a dicembre altri 4,2 miliardi erano andati a 384 organizzazioni. Un totale di otto miliardi negli ultimi undici mesi per lei non sono un problema visto che le azioni di Amazon - ne possiede un quarto - sono schizzate ulteriormente in alto grazie alla pandemia, tanto da fare scrivere al New York Times che «Mrs Scott sta accumulando ricchezza più velocemente di quanto possa spenderla». Eppure è una cifra che fa impressione, anche per il modo in cui è elargita. A differenza di Melinda Gates, Scott non ha creato una sua fondazione, cosa che richiederebbe documenti pubblici sulle spese e la presenza di uno staff. Quando decide di donare, scrive un post sul blog che ha sulla piattaforma Medium in cui si lascia andare ad alcune riflessioni («sarebbe meglio se la ricchezza non fosse concentrata in un piccolo numero di mani», ha scritto nell' ultimo) e lo annuncia al mondo. Chiamarlo un metodo anticonvenzionale di filantropia è un eufemismo. Tra i riceventi di questo nuovo ciclo di donazioni ci sono l' Apollo Theatre, il Balletto Hispánico e il Dance Theatre di Harlem a cui sono andati 10 milioni. Simili quantità sono andate all' Università della California e all' Università del Texas, a organizzazioni focalizzate sulla giustizia razziale come la Race Forward e Borealis Philanthropy, a gruppi incentrati sull' equità di genere e sulla lotta alla violenza domestica e ad altre organizzazioni non profit tra cui l' Authors League Fund, che aiuta gli scrittori in difficoltà finanziarie, e Afrika Tikkun, che lavora per porre fine alla povertà infantile in Sud Africa. Istituzioni scelte personalmente da lei, dal marito Dan e da un gruppo di consulenti e ricercatori. «Vorrei che l'attenzione fosse su di loro», ha scritto nel blog. «Anche se so che gli articoli saranno sulla mia ricchezza». E poi: «Questi 286 gruppi sono stati selezionati attraverso un rigoroso processo di ricerca e analisi. Queste sono persone che hanno passato anni a portare avanti con successo obiettivi umanitari, spesso senza sapere se ci sarebbero stati fondi nei loro conti in banca. Cosa pensiamo che potrebbero fare con più soldi a disposizione di quanto si aspettassero? Acquistare i rifornimenti necessari. Trovare nuovi modi per aiutare. Assumere personale extra sapendo di poter pagare loro lo stipendio per i prossimi cinque anni. Comprare delle sedie. Smettere di lavorare durante il fine settimana. Dormire un po'».
Francesco Semprini per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Melinda French Gates inaugura la sua campagna per il rafforzamento della previdenza sociale partendo dalla Casa Bianca. L' obiettivo è di incassare l'appoggio delle istituzioni su alcuni temi portanti come i congedi retribuiti, in particolare a scopo parentale, e l'assistenza all' infanzia. E non a caso l'ex moglie di Bill Gates è partita dal 1600 di Pennsylvania Avenue, visto che nel piano infrastrutturale presentato da Joe Biden, il cui valore complessivo si aggira attorno ai 4 mila miliardi di dollari, è riservata una rilevanza particolare a questi aspetti. La signora French Gates si è così recata due giorni fa alla Casa Bianca dove ha avuto colloqui col capo di gabinetto del presidente Ron Klain, e la consigliera per la politica interna Susan Rice, assieme ad altri alti funzionari dell'amministrazione. «Melinda ha incontrato i leader a Washington per ragionare su strategie volte a far fronte alla pandemia (in particolare nel Sud del Mondo) ringraziando al contempo i politici per gli sforzi compiuti a sostegno della campagna di vaccinazione globale - ha reso noto una portavoce -. Si è anche sottolineata la necessità di una politica federale di congedo retribuito per sostenere la ripresa economica e occupazionale». Nell' agenda dei lavori dell'attivista filantropica ci sono stati anche una serie di incontri con membri di Capitol Hill, tra cui la senatrice Patty Murray di Washington, lo Stato di origine dell'ex marito e la sede del quartier generale di Microsoft, il gigante del software co-fondato da Bill assieme a Paul Allen nel 1975 che ha sede, appunto, a Redmond. La scorsa settimana, French Gates si è unita invece al Democratic Women' s Caucus per dare il via a un incontro virtuale con esperti e addetti ai lavori dove si sono formulate proposte incentrate su assistenza ed emancipazione economica delle donne. French Gates e la sua organizzazione, Pivotal Ventures, si battono da tempo per agevolare politiche volte a favorire il rafforzamento del ruolo delle donne nella società anche attraverso una maggiore assistenza all' infanzia. Oltre a perorare campagne di ampio respiro rivolte al sostegno delle realtà meno fortunate del Pianeta. In questo senso l'ex moglie di Bill (i due hanno annunciato la separazione a maggio con un Tweet e dopo aver raggiunto un corposo e articolato accordo) ha trovato una sponda in Biden che ha posto alcuni di questi temi al centro della propria politica di rilancio del Paese nel post pandemia. La prima gamba dell'American Jobs Plan (2 miliardi di dollari) prevede stanziamenti in grandi opere come strade, ponti, completamento della banda larga, ammodernamento della rete elettrica e di quella idrica. La seconda fase (per altri 2 mila miliardi) è stata modulata per agire su altri settori economico-sociali affetti talvolta da obsolescenza, come sanità, assistenza e istruzione. Una sintonia perfetta si profila tra Joe e Melinda che si innesta perfettamente nel solco delle attività portate avanti dalla Fondazione Bill & Melinda Gates sopravvissuta indenne alla separazione fra i due, come ha tenuto a sottolineare lo stesso Bill. «Continuiamo a condividere la nostra convinzione in questa missione e ci lavoreremo insieme ma non crediamo di poter crescere come coppia». Fine dell'amore, quindi, ma non dell'organizzazione filantropica con un patrimonio di circa 50 miliardi di dollari, frutto di un progetto nato nel 1993, su una spiaggia di Zanzibar che ha cambiato la vita di Melinda, in questo caso per sempre.
Leonid "Len" Blavatnik. Gabriele De Stefani per “la Stampa” il 22 agosto 2021. Gli altri oligarchi ogni tanto si comprano una squadra di calcio, per divertirsi con un Pallone d'Oro o una Champions League. Leonid "Len" Blavatnik invece ha deciso di prendersi tutto il calcio. Campionato dopo campionato, con il progetto di fare della sua Dazn la Netflix del pallone. Ora la battaglia per rivoluzionare il calcio in tv passa per la Serie A e per l'alleanza con Tim. Sky battuta all'asta per i diritti triennali con un investimento da un miliardo e mezzo di euro per Dazn attraverso Perform e di un miliardo per l'ex monopolista, format inediti, la partita sul telefonino, solo con la connessione internet e in esclusiva: nulla sarà più come prima, per 33 milioni di tifosi italiani il futuro lo disegna Len. In silenzio e senza farsi troppo vedere in giro, come sempre: un paio di interviste in tutta la sua vita, rarissime comparsate alle inaugurazioni dei musei finanziati con decine di milioni di dollari all'anno, solo un blitz una notte a San Siro per un derby di Milano visto in tribuna, naturalmente senza che nessuno lo riconoscesse tranne l'amico Paolo Scaroni, ex competitor nel mondo dell'energia e ora presidente del Milan. A Blavatnik l'operazione Dazn sta costando molto (un miliardo e mezzo perso nel 2019 a livello mondiale) e rendendo nulla, ad oggi. Gli era già successo agli inizi di molti dei suoi progetti finanziari e industriali: dalla partenza a ostacoli nell'ex Urss allo scetticismo degli analisti quando rilevò Warner Bros, fino alle partecipazioni in Zalando e Spotify. Nel lungo periodo però Blavatnik, l'uomo più ricco del Regno Unito e 45° al mondo con un patrimonio di 25 miliardi di dollari, ha sempre vinto. La partita che gli cambia la vita la gioca al tempo della guerra delle privatizzazioni, al tramonto dell'Unione sovietica. Un successo finanziario, politico e d'immagine: fa fortuna e si smarca da quei legami ingombranti con la politica russa che gli altri oligarchi porteranno sulle spalle. Non ci sono sospetti per il filantropo che finanzia musei, ospedali e università. Un'operazione così riuscita che Blavatnik nel 2017 viene nominato Cavaliere della regina Elisabetta. L'inserimento nell'establishment è pieno, i sospetti riguardano altri. Le origini Blavatnik nasce a Odessa, allora sotto bandiera sovietica, nel 1957. Il primo incontro decisivo della sua vita lo fa da adolescente: al liceo di Yaroslav, la città a 300 chilometri da Mosca dove si è trasferito con la famiglia di origine ebraica, diventa amico di Viktor Vekselberg, futuro signore dell'energia. Siamo nella prima metà degli anni '70. Len e Viktor sono due compagni di banco che quindici anni dopo, poco più che trentenni, diventeranno alleati nella guerra delle privatizzazioni. In mezzo, ci sono il trasferimento a Brooklyn, gli studi in Informatica alla Columbia University, la cittadinanza americana (poi arriverà anche quella britannica) e la fondazione della Access Industries, tuttora holding di un gruppo con partecipazioni per 20 miliardi di dollari, dall'alluminio all'acciaio, dal petrolio alle app. La prima preda dei due vecchi amici si chiama Tnk, colosso dell'energia che sta soffrendo i guai di tutta l'industria sovietica. Blavatnik e Vekselberg la rilevano insieme ad un terzo socio e da lì svoltano. Pochi mesi e tocca alla concorrente Sidanko, partecipata da British Petroleum, che scivolerà nella bancarotta e verrà così spogliata a prezzi irrisori. Finirà che nel 2003 sarà la stessa Bp a offrire 7 miliardi di dollari per far nascere la Tnk-Bp: 2 di questi miliardi, secondo il Financial Times, costituiranno il profitto netto di Blavatnik. Negli anni Duemila, con interessi ormai lontani dalla Russia e trasferito a Londra nella sua residenza di Kensigton, Blavatnik piazza colpi pesanti soprattutto in America. Nell'industria tradizionale, con l'acquisizione da 1,8 miliardi di dollari del big americano della chimica LyondelBasell, che ora ne vale 9: «The greatest deal in Wall Street story» secondo Forbes. E nell'industria del divertimento, con Warner Music. Un'operazione, quella per la terza casa discografica del mondo, tutta controvento. Se scegliere il digitale - da Spotify a Dazn a Snapchat - vuol dire scommettere sul futuro, puntare 3,3 miliardi di dollari su un'azienda che nel 2011 iniziava a patire i colpi dello streaming e della pirateria online era considerato un azzardo dagli analisti. Com' è andata a finire? Warner Bros è quotata al Nasdaq dal giugno 2020 e oggi vale 19 miliardi di dollari, sei volte l'investimento di dieci anni fa. Finanza e politica Il potere finanziario si intreccia con la politica, sempre nello stile silenzioso da cui Blavatnik non si è mai scostato. Per anni finanzia sia i democratici che i repubblicani, da Barack Obama a John Mc Cain, da Hillary Clinton a Mitt Romney. È durante l'era Trump che l'asse si sposta con decisione verso destra: donazioni più generose e uscite pubbliche in eventi elettorali del presidente, di nuovo insieme a Vekselberg. Con una sostanziale differenza: il vecchio amico sarà colpito dalle sanzioni contro la Russia, Len no. La strategia per stare con i piedi dentro l'élite, anche se lontano dai riflettori, corre anche sui binari della filantropia: 800 milioni di dollari donati in dieci anni dalla sua Fondazione a 250 enti nel mondo, tra cui 65 alla Tate Modern, 200 a Harvard, 115 a Oxford, 10 al sistema sanitario del Monte Sinai. Potere silenzioso e capacità diplomatica, relazioni occidentali e amicizie russe. L'ultima sfida Ora la partita delle nuove tecnologie è l'ultima frontiera dell'ex studente di Informatica della Columbia. Sono i successi ottenuti con Deezer, Spotify e Snapchat a spingere Blavatnik nell'avventura di Dazn. La app arriva in 200 paesi, soprattutto con la boxe, ma il business della over the top dello sport è ancora in fase di lancio. In Italia il percorso è partito nel 2018, con qualche intoppo nella qualità dello streaming che ha fatto storcere il naso a molti utenti. Intoppi, appunto, se questa è l'alba della grande transizione digitale. L'alleanza con Tim, che ha investito un miliardo per fare del calcio il cavallo di troia per portare internet veloce nelle case degli italiani, chiarisce i contorni di un progetto di lungo periodo. La partita della serie A, intanto, si vince con tre milioni di abbonati. Siamo solo al fischio d'inizio.
Jeff Bezos. (ANSA il 9 dicembre 2021) - L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha irrogato una sanzione di oltre 1 miliardo di euro (1.128.596.156,33) alle società Amazon Europe Core S.à r.l., Amazon Services Europe S.à r.l., Amazon EU S.à r.l., Amazon Italia Services S.r.l. e Amazon Italia Logistica S.r.l. per violazione dell'art. 102 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (abuso di posizione dominante). Secondo l'Autorità, Amazon ha danneggiato gli operatori concorrenti nel servizio di logistica per e-commerce. Imposte al gruppo misure comportamentali che saranno sottoposte al vaglio di un monitoring trustee.
Amazon - spiega l'Antitrust - detiene una posizione di assoluta dominanza nel mercato italiano dei servizi di intermediazione su marketplace, che le ha consentito di favorire il proprio servizio di logistica, denominato Logistica di Amazon (Fulfillment by Amazon, c.d. "FBA"), presso i venditori attivi sulla piattaforma Amazon.it ai danni degli operatori concorrenti in tale mercato e di rafforzare la propria posizione dominante.
Secondo l'Autorità, le società hanno legato all'utilizzo del servizio Logistica di Amazon l'accesso a un insieme di vantaggi essenziali per ottenere visibilità e migliori prospettive di vendite su Amazon.it. Tra tali vantaggi esclusivi spicca l'etichetta Prime, che consente di vendere con più facilità ai consumatori più fedeli e alto-spendenti aderenti all'omonimo programma di fidelizzazione di Amazon.
L'etichetta Prime consente, inoltre, di partecipare ai famosi eventi speciali gestiti da Amazon, come Black Friday, Cyber Monday, Prime Day e aumenta la probabilità che l'offerta del venditore sia selezionata come Offerta in Vetrina e visualizzata nella cosiddetta Buy Box. Amazon ha, così - rileva la nota dell'Antitrust - impedito ai venditori terzi di associare l'etichetta Prime alle offerte non gestite con FBA.
L'istruttoria ha accertato che si tratta di funzionalità della piattaforma Amazon.it cruciali per il successo dei venditori e per l'aumento delle loro vendite. Infine, ai venditori terzi che utilizzano FBA non viene applicato lo stringente sistema di misurazione delle performance cui Amazon sottopone i venditori non-FBA e il cui mancato superamento può portare anche alla sospensione dell'account del venditore. In tal modo - evidenzia l'Antitrust - Amazon ha danneggiato gli operatori concorrenti di logistica per e-commerce, impedendo loro di proporsi ai venditori online come fornitori di servizi di qualità paragonabile a quella della logistica di Amazon.
Tali condotte hanno così accresciuto il divario tra il potere di Amazon e quello della concorrenza anche nell'attività di consegna degli ordini e-commerce. Per effetto dell'abuso, inoltre, sono stati danneggiati anche i marketplace concorrenti: a causa del costo di duplicazione dei magazzini, i venditori che adottano la logistica di Amazon sono scoraggiati dall'offrire i propri prodotti su altre piattaforme online, perlomeno con la stessa ampiezza di gamma.
L'Autorità - prosegue la nota - ha ritenuto tale strategia abusiva particolarmente grave e, anche in considerazione della sua durata, degli effetti già prodotti e delle dimensioni del Gruppo, ha deciso di irrogare la sanzione. Inoltre, per ripristinare immediatamente le condizioni concorrenziali nei mercati rilevanti, ha imposto ad Amazon misure comportamentali che saranno sottoposte al vaglio di un monitoring trustee: Amazon dovrà concedere ogni privilegio di vendita e di visibilità sulla propria piattaforma a tutti i venditori terzi che sappiano rispettare standard equi e non discriminatori di evasione dei propri ordini; Amazon dovrà definire e pubblicare tali standard e, a far data da un anno dall'assunzione della decisione, astenersi dal negoziare con i vettori e/o con gli operatori di logistica concorrenti - per conto dei venditori - tariffe e altre condizioni contrattuali applicate per la logistica dei loro ordini su Amazon.it, al di fuori di FBA.
Fra Gundam e il capitalismo extraterrestre: chi è Jeff Bezos e perché vola nello Spazio. Emilio Cozzi su La Repubblica il 19 luglio 2021. Ritratto dell'uomo che ha cambiato le nostre vite, e insieme il mondo intero, alla vigilia di un'impresa che non è solo un'impresa. Vola nello Spazio il 20 luglio del 2021, a 52 anni esatti da primo passo lunare di Neil Armstrong, quello "piccolo per un uomo, ma gigantesco per l’umanità". Lo fa spinto da un razzo di 18 metri costruito dalla sua Blue Origin, primo imprenditore spaziale a balzare oltre i 100 chilometri che convenzionalmente esauriscono il cielo, una linea non superata da Richard Branson, e con una capsula chiamata come il primo statunitense spuntato oltre l’atmosfera, Alan Shepard, pellegrino suborbitale il 5 maggio del 1961. Non pago, invita ad accompagnarlo il fratello Mark, il 18enne Oliver Daemen, figlio dell’amministratore delegato di una società di investimenti dei Paesi Bassi (ha preso il posto della persona che aveva pagato 28 milioni di dollari per partecipare) e nientemeno che Mary Wallace “Wally” Funk, 82 anni di leggenda dell’aviazione nonché una delle Mercury 13, il gruppo di donne segretamente addestratosi per volare sulla Luna, ma poi mai contemplato dalla Nasa per farlo. Una bella rivincita e forse anche un lapsus freudiano, capace di rivelare l’attitudine tipica di Jeffrey Preston Bezos, nato Jorgensen e oggi più noto come Jeff, uno che qualsiasi cosa tocchi punta a stravolgerla. Un uomo che, se non suonasse banale, l’aggettivo dirompente descriverebbe alla perfezione. Beninteso, dirompente qualunque cosa Bezos decida di fare o abbia già fatto.
Un impegno a tutto tondo. Cominciò tutto all’inizio degli anni Novanta, quando Internet era un Ufo (oggi si direbbe Uap) i cui avvistamenti entusiastici si moltiplicavano su giornali e televisioni. E questo nonostante la Rete fosse un sistema lento e rumoroso per distribuire qualche immagine e i pensieri dei pochi iniziati all’esoterica programmazione in html. Bezos, poco meno di trent’anni e una laurea a Princeton in Ingegneria elettronica, lavorava a Wall Street per un hedge fund. Non un impiego mal retribuito e per di più in grado di fargli incontrare una collega diventata sua moglie nel 1993, MacKenzie Scott, una delle prime persone a dirsi attratta dalla quella strana, debordante risata (che a onor il vero, YouTube docet, terrorizza più d’uno). Eppure in quel momento Bezos non riusciva a togliersi un’idea dalla testa: quando i nerd ancora filosofeggiavano sul da farsi, nella sua testa Internet era già commercio fatto in Rete, era la possibilità di ricevere un prodotto senza muoversi da casa, un modo quasi ovvio di saltare l’intera filiera del retail e della distribuzione. A un certo punto, durante una pausa pranzo, propose al capo una passeggiata. Gli raccontò per filo e per segno la sua visione del futuro: un negozio online, che sarebbe partito con i libri (il bene più facilmente commerciabile da un catalogo elettronico) e si sarebbe esteso a chissà quanti altri prodotti, forse tutti, grazie a una logistica via via più avanzata, alla velocità dei pagamenti con carta di credito e alla capacità di imparare in modo autonomo. Sì, il negozio online, uno studente provetto. Quando concluse, il capo lo guardò e gli disse che “è un’idea eccezionale, ma detta da uno che non dovrebbe lavorare qui”. Non è dato sapere se proruppe uno dei suo sghignazzi destinati alla celebrità. È anzi più probabile Bezos prese la cosa parecchio sul serio, visto che di lì a poco salutò l'impiego e Wall Street. Con la moglie piantò baracca e burattini e insieme partirono per Seattle, all’epoca la mecca degli interessi giovanili (la musica e la moda grunge, i Nirvana, i Pearl Jam e gli Alice in Chains). Quindi si stabilì nel suo nuovo ufficio, un garage corredato da un unico cartello vergato a mano, col pennarello: “Amazon.com”. Se anche questa volta non fosse vera, si eviterebbe la seconda banalità, cioè scrivere che “tutto il resto è storia”. Ma, appunto, così è: nel 2017, in occasione del ventesimo anniversario della calata in Borsa di Amazon, una delle più grandi firme del giornalismo economico, Andrew Ross Sorkin, scrisse di come Bezos avesse “un autentico e legittimo claim per aver cambiato il modo in cui viviamo”. Piaccia o meno, è difficile non essere d’accordo, soprattutto in tempi di lockdown e prove generali di apocalisse: Amazon ci ha cambiato la vita. E con lei ha trasformato il mondo. Certo, luci e ombre, quest’ultime all’ordine del giorno per chi, dal New York Times a Report, da più di un lustro dedica alle gesta imprenditoriali di Bezos inchieste giornalistiche modello Watergate. Amazon è entrata da anni nel Trillion Dollar Club, il ristrettissimo gruppo di aziende con una capitalizzazione superiore ai 1000 miliardi di dollari. E già da prima, nelle classifiche stilate dalle riviste del capitalismo, Bezos figurava come l’uomo più ricco di tutte le terre emerse, avendo superato Bill Gates e la ridda di sultani e principi del petrolio (con cui ebbe peraltro qualche problema). Per quanto la sua figura si sia per decenni improntata al basso profilo (leggenda vuole che durante un consiglio di Amministrazione i suoi dirigenti gli domandarono cosa avesse nelle tasche laterali dei pantaloni che portava sempre: ne uscì un coltellino svizzero, con un “può sempre servire” a giustificarlo), oggi è impossibile ignorare come Bezos punti a un unico scopo: continuare a cambiare la vita dell’uomo. E su molteplici livelli. Di sicuro non solo per quanto riguarda quei prodotti che, ordinati la sera, arrivano a casa la mattina successiva, o, presto, in qualche minuto grazie alle consegne via drone e ai dirigibili magazzino che ci svolazzeranno sulla testa. E non è una scena di Metropolis o Blade Runner: video bufale del 2019 a parte, Amazon ha davvero depositato un brevetto del genere, per il cosiddetto Airborne Fulfillment Center, depositato nel dicembre del 2014. Da un punto di vista della pura informatica, il cloud di Amazon, cioè il sistema di stoccaggio dei dati disponibile online, è la forza maggiore del mercato e sfoggia un’utilità applicativa di cui è complicato tracciare i confini: lo usano le startup più à la page quanto i servizi segreti. A inizio luglio, una delle cause più importanti intentate da Amazon è andata a segno: il Pentagono ha ritirato la commessa del suo sistema cloud, ribattezzato Jedi (Joint Enterprise Defense Infrastructure), che sotto la presidenza Trump era finita a Microsoft. Appalto da rifare e 10 miliardi di dollari da rimettere sul tavolo. Non è un caso che oggi il cloud sia il ramo di maggior profitto di Amazon. Stessa musica per quanto concerne la logistica: l’azienda fondata da Bezos ha trasformato la disciplina in modo irreversibile, con lo spettacolo, anche inquietante, degli scaffali in grado di muoversi da soli. Qualche anno fa, Bezos comprò una startup di robotica, Kiva Systems, oggi attiva come Amazon Robotics, di un professore italiano dell’Eth di Zurigo, Raffaello D’Andrea, noto per coreografare impressionanti balletti tra automi (alcune sue invenzioni sono al Cirque du Soleil). La lungimiranza di Bezos impose di trasferire quella tecnologia ai suoi magazzini efficientandone l’operatività in modo massivo. O disumano, se si preferisce. Detto in estrema sintesi: è inevitabile che il mondo si adatterà a Bezos, lo imiterà, oppure comprerà da lui le tecnologie d’avanguardia. Si pensi, per esempio, ad Amazon Go, un supermercato in cui si preleva dallo scaffale quel che serve e si va via senza nemmeno metter mano alla carta di credito. Non si eliminano solo i cassieri, di per sé già una questione non marginale: si elimina la cassa. Già attivo al 2131 della Settima Avenue di Seattle, vicino all’angolo con Blanchard Street, il punto vendita di ultima generazione sbalordisce perfino gli ingegneri elettronici, che lo frequentano nel tentativo, a oggi vano, di comprenderne la tecnologia. Inevitabile e legittimo esplodano dubbi e polemiche, peraltro furoreggianti anche quando è il riconoscimento facciale venduto da Amazon a venir scrutato con il microscopio. Non che l’impatto di Bezos sul vivere quotidiano della nostra specie si esaurisca qui: l’acquisto, nel giugno del 2017, della catena di supermercati Whole Foods per 13,4 miliardi di dollari ha centrato la distribuzione alimentare americana come un treno contro un muro; stesso incidente nel giornalismo, quando Bezos ha acquistato il Washington Post, il quotidiano più prestigioso della capitale Usa, noto per le sue inchieste e dove ora funziona il paywall forse più stringente della Rete (se non paghi, non leggi), a dimostrazione di quanto Bezos creda nel lavoro giornalistico vecchio stile. L’impegno per il Washington Post non è stato una passeggiata. Come uomo più ricco del mondo e come editore di una testata così importante, Bezos si è trovato nel vortice di uno strano ciclone geopolitico. All’inizio del 2019, un tabloid americano, il National Enquirer, rese pubblico il sexting fra Jeff e la vicina di casa, Lauren Sanchez, all’epoca altrettanto sposata e oggi, dopo il divorzio, sua compagna ufficiale. Su Medium, lui si affrettò a dirsi vittima di un tentativo di estorsione, facendo nomi e cognomi. Tant’è: nel marzo dello stesso anno il suo principale consulente alla sicurezza, Gavin De Becker, accusò i sauditi di aver hackerato il telefonino di Bezos. Poche settimane prima, il Washington Post aveva dato ampia copertura alla fine tragica di uno dei suoi editorialisti, Jamal Khashoggi, squartato al consolato saudita di Istanbul.
Le ragioni del viaggio nello Spazio. Eppure, sebbene strategica, è lontano da questa spirale che Bezos promette di cambiare il destino dell’umanità tutta. È fuori dalla sua atmosfera che l’ex patron di Amazon oggi punta a cambiare la Terra. Il piano è stato reso pubblico il 9 maggio del 2019, in una presentazione fatta in prima persona per Blue Origin, l’azienda aerospaziale di razzi riutilizzabili da lui fondata nel 2000. I cinquanta minuti di pitch, culminati nel disvelamento del modulo lunare Blue Moon, hanno toccato vette di industria e filosofia dello Spazio tuttora difficili da raggiungere. Chi non lo avesse già immaginato, è stato edotto sulla vera ispirazione del vangelo spaziale secondo Bezos: il fisico Gerard K. O’Neill (1927-1992). Celebre soprattutto per il suo Colonie umane nello Spazio, un libro scritto nel 1977 mentre lavorava con la Nasa alla selezione di alcuni habitat extraterrestri, O’Neill era contrario all’idea di un insediamento umano su Marte o su qualsiasi altro pianeta, quella che invece anima forsennatamente qualsiasi sforzo extraterrestre di Elon Musk. O’Neill era convinto che sforzi del genere avrebbero, nel migliore dei casi, reso sostenibile un raddoppio della popolazione umana (uno dei problemi più dibattuti sul finire degli anni Settanta). Ben diversi sarebbero stati i benefici collettivi offerti da un sistema di colonie spaziali orbitanti, enormi tubi abitabili situati sui punti di Lagrange, cioè laddove, a causa delle dinamiche gravitazionali del sistema Terra-Luna, gli avamposti galleggerebbero stabili. Nelle colonie spaziali immaginate da O’Neill, dove la gravità verrebbe riprodotta con l’artificio della rotazione, sarebbe possibile creare città a misura d’uomo, parchi, cinema, piscine e ristoranti, complessi abitativi capaci di ospitare miliardi di persone. Nella sua presentazione, Bezos ha ripescato tutte le illustrazioni fatte ai tempi di O’Neill, che più di trenta anni fa ispirarono anche il regista giapponese Yoshiyuki Tomino nella creazione del cartone culto Gundam. Per quanto roboante (come può essere altrimenti, se di mezzo c’è chi può vantarsi di averci cambiato la vita?), lo scopo spaziale di Bezos era ed è chiaro: portare nello Spazio l’umanità per “salvare il pianeta”. Proprio come Gundam: fare sì che la nostra origine rimanga blu. Perché per la Terra non esiste un piano B. Il proposito sarebbe di illuminata nobiltà se non fosse corredato dalle solite ombre. Così, come teorizzato da O’Neill, sarebbe il caso di riflettere su come, in assenza di gravità, l’industria pesante potrebbe diventare di gran lunga più conveniente: si immagini di mettere insieme una petroliera con un saldatore, però spostando gigantesche lamine di acciaio senza peso. Non è un caso che a Bezos sia capitato di sottolineare che sulla Terra dovrebbero rimanere solo le industrie leggere. A questo punto non è un azzardo immaginare che la frontiera della commercializzazione delle orbite più prossime alla Terra, uno dei pilastri della new space economy, possa coincidere con fabbriche orbitanti. Delocalizzandole nello Spazio, con automazioni sempre più performanti: chi mai potrebbe competere? Quale concorrente potrebbe opporsi alla produzione in assenza di gravità di aerei, navi, auto, o anche solo di mobili d’arredamento, realizzati con costi irrisori e nemmeno un briciolo di inquinamento all’amato pianeta blu? Piccolo dettaglio: la scena resta un’ipotesi. Sebbene calato da 18.500 dollari al chilogrammo fino a circa 3mila, oggi il trasporto oltre l’atmosfera rimane un’affare costoso. Ecco perché l’impegno di Blue Origin (come di SpaceX) si concentra sui razzi riutilizzabili: andare e venire dall’orbita dovrà diventare routine, prassi ordinaria se non quotidiana. Bezos sogna apertamente un mondo senza soluzione di continuità col vuoto che lo circonda, immagina un’infrastruttura così solida da consentire a uno studente universitario di usarla per fondarci una startup spaziale, esattamente come all’inizio degli anni Novanta lui sfruttò l’infrastruttura postale, informatica e creditizia per costruire Amazon. E ancora una volta: no, questa non è fantascienza. Bezos sta traducendola in realtà, forte di una disponibilità economica con pochi eguali sulla Terra. Il 5 luglio si è dimesso da Amazon, lasciandola nelle mani di Andy Jassy, il cervellone cui in precedenza aveva già affidato il progetto del cloud. Significa che adesso Bezos avrà più tempo per stare con la nuova compagna, per allenarsi in palestra (i muscoli improvvisi sfoggiati di recente sono stati oggetto di attenzione e di critica), o per divertirsi a piacimento. Come quando si fece fotografare mentre pilotava un robot coreano, un’immagine che a qualcuno ricordò i villain dei film di James Bond, film che, come la storica casa produttrice di 007, la Metro Goldwyn Mayer, dallo scorso maggio fanno parte delle proprietà di Amazon). Muscoli e 007 a parte, la verità è che, seguendo quanto già diceva da ragazzino, ora il cuore e il tempo di Bezos saranno impiegati nelle sue ambizioni esoplanetarie. In un articolo del giornalino del liceo, un ancora minorenne Jeffrey scrisse che “la Terra è limitata, e se l’economia e la popolazione mondiali continueranno a espandersi, lo Spazio sarà l’unica via da seguire”. Dal giornalino al Washington Post, dalle passeggiate con il capo a quelle spaziali in stile Gundam, sono passati sì e no cinque decenni. Nemmeno mezzo secolo per continuare a cambiare il mondo, “un passo alla volta, ma inesorabilmente”, come recita il motto di Blue Origin. Sarà, ma gradatim, ferociter la rivoluzione di Bezos potrebbe essere rapida. Quasi come un pacco Amazon.
Arturo Zampaglione per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 15 giugno 2021. Tutto è pronto nel quartiere generale di Amazon, a Seattle, per un cambio della guardia dal sapore epocale. Lunedì 5 luglio, Jeff Bezos, che era solo trentenne quando mise a soqquadro il mercato internazionale dei libri, e che ha poi guidato la rivoluzione dell'e-commerce a livello globale e si è imposto in diversi settori (dal giornalismo e all'esplorazione dello spazio, dal cinema all'intelligenza artificiale), diventando nel frattempo l'uomo più ricco del mondo, passerà il testimone ad Andy Jassy. Il nuovo chief executive, 53 anni, finora responsabile del cloud computing del gruppo, guiderà un impero con un milione e 200mila dipendenti e una capitalizzazione di borsa di 1.650 miliardi di dollari. «Fidatevi di lui, è un ottimo manager», ripete Bezos, nel tentativo di tranquillizzare investitori, analisti (e politici), ancora confusi per il nuovo corso e preoccupati per il passo indietro del fondatore (e maggior azionista), che da luglio si accontenterà del ruolo di "presidente esecutivo" del gruppo. Resta il dubbio: perché Bezos lo ha fatto? Perché, a soli 57 anni, ha rinunciato a una posizione di tanto potere e immenso prestigio? «Per perseguire altri interessi e altre passioni», risponde lui, ricordando che negli ultimi anni si è già lanciato in tante altre avventure imprenditoriali, a cominciare da Blue Origin, la società texana per l'esplorazione dello spazio, in cui investe annualmente 1 miliardo di dollari. Del resto, proprio dallo spazio, comincerà la seconda vita di Bezos: il 20 luglio, appena due settimane dopo aver lasciato la poltrona di Amazon, sarà a bordo della capsula New Shepard (Nuovo pastore), inaugurando insieme al fratello Mark la prima missione "turistica" della Blue Origin. «Sarà una grande avventura», ha detto Bezos dando l'annuncio su Instagram. «Sognavo di andare nello spazio sin da quando avevo 5 anni». Intendiamoci: si tratterà di un breve volo suborbitale, a non più di 100 chilometri dalla superficie terrestre. Ma ovviamente comporterà vari rischi, forse troppi. Lui non ci fa caso. Chi lo conosce, dice che è entusiasta del progetto ed è convinto più che mai convinto della svolta esistenziale: che, dall'esterno, può apparire anticonformista, quasi bizzarra, ma che in realtà ricalca un modello molto diffuso tra i "tech billionaries", i giovani miliardari dell'alta tecnologia. Basta ricordare che Bill Gates aveva appena 53 anni (ed era ancora l'uomo più ricco del mondo, prima di essere superato da Bezos) quando lasciò a Steven Ballmer la gestione quotidiana della Microsoft per dedicarsi, insieme alla moglie Melinda da cui ha appena divorziato, alla sua Fondazione filantropica. E che nel 2019, a soli 47 anni, i due fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, hanno abbandonato la tolda di comando del motore di ricerca di Mountain View per dedicarsi ad altri interessi (e godersi i miliardi accumulati). Questo modello si discosta in modo netto da quello di altre epoche e altri settori, quasi a indicare un diverso dna degli imprenditori hi tech. Tradizionalmente e ovunque nel mondo, capitani di industria, grandi banchieri o magnati del petrolio sono rimasti al timone delle aziende fino a tarda età. Ancora adesso, Warren Buffett, che ha 90 anni (e 96 miliardi di dollari), coltiva la sua immagine di "mago di Omaha" lavorando sodo e diffondendo i dogmi della sua saggezza finanziaria, quasi a dispetto di criptovalute e "meme stock”. Rupert Murdoch continua a guidare il suo impero editoriale a 90 anni suonati. Anche Charles Koch, paladino (e finanziatore) della destra americana, non demorde: a 85 anni, e con 46 miliardi, non pensa minimamente ad andare in pensione. Bezos e i suoi colleghi del mondo hi tech hanno invece un atteggiamento molto diverso: legato a ragioni generazionali, finanziarie e psicologiche. È vero che per tutto il mondo - e non solo per il club dei baby-miliardari - la vita media si è allungata, aprendo per molti la possibilità di una seconda vita, o addirittura di una "terza", dopo la prima parabola professionale: come ha raccontato bene Enrico Oggioni nel suo libro I ragazzi di 60 anni (Mondadori). L'industria tecnologica ha poi permesso arricchimenti rapidissimi, quasi inconcepibili nel passato: Bezos era appena trentacinquenne quando entrò nella classifica dei Paperoni stilata annualmente a Forbes, con un patrimonio di 10,1 miliardi di dollari (adesso, di miliardi, ne ha 188). La rapidità (e relativa facilità) dell'accumulazione patrimoniale ha avuto due altri effetti: da un lato ha ridotto l'incentivo a lavorare più a lungo nella speranza di ulteriori guadagni, favorendo così i prepensionamenti; dall'altro ha reso più effimero il concetto di ricchezza, che è finito per passare in secondo piano rispetto ad altre motivazioni, come amori, passioni, benessere, ruoli sociali e retaggio. Certo, in America più che altrove, viene alimentato il mito del pensionamento precoce. L'etica calvinista del lavoro cede il passo al miraggio di una vita opulenta, fattiva, proiettata nelle bellezze del mondo e incoraggiata dall'aiuto (interessato) di Wall Street. Ma, alla fine, è anche una questione genetica: i nuovi e giovani miliardari dell'industria tecnologica tech sono "diversi", sempre pronti a mettersi in discussione e rischiare nuove imprese. E poi sono tanti, tutti ricchi: secondo l'ultima classifica di Forbes del 2021, grazie all'effetto Covid i "tech billionaires" hanno raggiunto una ricchezza complessiva di 2500 miliardi di dollari, cioè poco più del pil annuale dell'Italia, e superando i loro colleghi della moda, del commercio e della finanza. Questa seconda vita dei big dell’hi tech rappresenta un trend, un nuovo corso del settore. Sembra una moda: ogni protagonista vuole lasciare un segno al di là del marchio della sua azienda. La difesa dell'ambiente è uno degli obiettivi di maggior interesse. Anche lo spazio. Ma non sono i soli: c'è quasi una competizione verso nuovi obiettivi e nuove frontiere. Larry Page, ad esempio, ha finanziato la nascita della Singularity Univesrity, un think-tank che si definisce transumanista. Mentre Elon Musk, capo di Tesla e fondatore di Space X (la maggiore società spaziale privata), che compirà 50 anni la settimana prossima, ha già annunciato ufficialmente dove vorrà essere sepolto: su Marte.
Erin McDowell per businessinsider.com il 18 gennaio 2021. Jeff Bezos, il noto fondatore, AD e presidente di Amazon, ha una delle storie di maggiore successo dell’era di internet. Però, prima di diventare la persona più ricca al mondo, Bezos proveniva da umili origini. Figlio di una madre adolescente e di un padre assente, Bezos dimostrò grandi doti già in giovane età. Dopo la laurea alla Princeton University e l’abbandono della propria carriera nella finanza, Bezos lanciò Amazon dal suo garage a Seattle. In occasione del suo compleanno del 12 gennaio, ecco 13 cose che probabilmente non sai su Jeff Bezos. Sua madre, Jacklyn Bezos, lo partorì quando era adolescente. Secondo la CNBC, la Bezos, che all’epoca si chiamava Jacklyn Gise Jorgensen, era appena diciassettenne e al terzo anno di liceo quando partorì suo figlio nel 1964. All’epoca, i dirigenti del liceo le dissero che non le sarebbe stato permesso di finire lì gli studi. Dopo che le fu concesso restare, a condizioni molto rigorose, Jacklyn Bezos si diplomò e poi divorziò dal padre biologico di Jeff, Ted Jorgensen, a meno di un anno dal matrimonio. Jeff Bezos aveva poco più di un anno. Jacklyn ha lottato per far quadrare i conti lavorando come segretaria e secondo la CNBC, a un certo punto non aveva abbastanza soldi per permettersi un telefono. Determinata a migliorare la vita propria e del figlio, Bezos si iscrisse corsi universitari con professori che le permettevano di portare il figlio con sé. All’università incontrò Mike Bezos, che poi sposò, un immigrante cubano che diede il proprio cognome a Jeff diventandone il padre.
Il padre biologico di Bezos è stato un artista circense. Secondo la biografia di Jeff Bezos del 2013 scritta da Brad Stone, “Vendere tutto: Jeff Bezos e l’era di Amazon“, il padre biologico dell’attuale miliardario è stato monociclista e artista circense. Quando Stone rintracciò Jorgensen per la biografia, pare che quest’ultimo non avesse visto il figlio da decenni e non si fosse reso conto di esserne il padre biologico. Jorgensen si mise in contatto con il figlio e i due si riappacificarono, con Bezos che avrebbe detto, secondo Stone, “di non nutrire alcun rancore verso Jorgensen”. Ted Jorgensen morì il 16 marzo 2015, a 71 anni.
Bezos era interessato al funzionamento delle cose e all’ingegneria anche da piccolo. Quando Bezos era un bambino piccolo, pare che si sentisse troppo vecchio per dormire in un lettino e fosse riuscito da solo a smontarlo con un cacciavite. Al momento di andare al liceo, Bezos aveva trasformato il garage di casa in laboratorio per le proprie invenzioni, lo scrive la Harvard Business School, citando “Grinta. Il potere della passione e della perseveranza” di Angela Duckworth.
Ha fondato la sua prima impresa quando era ancora al liceo. Mentre era al liceo, Bezos fondò la sua primissima impresa, un campo di formazione estivo per ragazzi tra i dodici e i quattordici anni chiamato Dream Institute. Secondo Insider, Bezos e la sua fidanzata dell’epoca lavorarono entrambi al campo facendo pagare ai sei partecipanti 600 dollari a testa. Prima di avviare il campo, Bezos aveva lavorato anche da McDonald’s per un’estate.
Bezos lavorò a Wall Street nei primi anni Novanta. Come già riferito da Insider, dopo la laurea alla Princeton University in informatica e ingegneria elettronica, Bezos lavorò per varie compagnie finanziarie a Wall Street, New York, tra cui Fitel e la società d’investimento D.E. Shaw. Bezos fece carriera diventando il più giovane vice presidente della D.E. Shaw nel 1990, ma dopo quattro anni si dimise per fondare una libreria online.
Bezos fondò Amazon nel suo garage. Dopo aver lanciato un prototipo del sito di Amazon e aver chiesto a 300 amici di fare un beta test, insieme ai primi dipendenti si mise a sviluppare nel proprio garage un software per il sito. Lo spazio era così piccolo che Bezos doveva tenere le riunioni al locale Barnes & Noble, secondo Insider. Poi, il piccolo team ampliò le proprie attività e iniziò a lavorare in un bilocale. Anche la ex moglie di Jeff Bezos, MacKenzie Bezos, ebbe un ruolo importante nella fondazione e nei primi anni di Amazon. In seguito al divorzio del 2019 dopo 25 anni di matrimonio, MacKenzie Bezos ricevette il 25% delle azioni di Amazon della coppia, per un valore dell’epoca di circa 38 miliardi di dollari.
Jeff Bezos stava per chiamare la propria compagnia “Cadabra” invece di Amazon. Secondo un precedente articolo di Insider, inizialmente Jeff Bezos voleva battezzare la propria compagnia con un nome dal suono più magico, ma fu sconsigliato dal farlo dal primo avvocato di Amazon, Todd Tarbert. Tarbert spiegò che il nome “Cadabra” somigliava troppo a “cadaver”, soprattutto al telefono. Alla fine, il fondatore e futuro miliardario scelse Amazon, dal più grande fiume del mondo, dato che stava per realizzare la più gande libreria del mondo.
Bezos era su un elicottero che si schiantò nel 2003. Mentre era bordo di un elicottero Aérospatiale Gazelle con il suo avvocato, la guida Ty Holland e il pilota Charles Bella, Bezos fu coinvolto in un grave incidente nel Texas occidentale dopo che il vento aveva fatto perdere la rotta al velivolo. Secondo Insider, l’elicottero finì capovolto in un torrente e si riempì parzialmente d’acqua. Bella, Bezos e Holland sfuggirono tutti allo schianto con ferite lievi, mentre l’avvocata Elizabeth Korrell con la rottura di una vertebra. “Evitate gli elicotteri se possibile”, Bezos disse a Fast Company nel 2004. “Non sono affidabili come i velivoli ad ala fissa”.
Bezos è il proprietario del Washington Post. Bezos acquisì la società editoriale nel 2013 per 250 milioni di dollari. All’epoca, il patrimonio netto di Bezos era stimato a oltre 25 miliardi di dollari. Subito dopo l’acquisizione, le azioni di The Post Company salirono del 5,5% nelle negoziazioni fuori orario. Secondo la CNN, sotto la proprietà di Bezos, il giornale, che era in difficoltà, ricavò profitti nel 2016, 2017 e 2018.
Il miliardario gestisce anche la sua privata azienda aerospaziale Blue Origin, da lui fondata. La compagnia di produzione aerospaziale e di servizi di volo sub-orbitale è stata fondata nel 2000 e ha sede a Kent, Washington, che è anche lo stato di origine di Bezos. La dichiarazione d’intenti della compagnia recita: “Blue Origin è convinta che per preservare la Terra, la nostra casa, per i nipoti dei nostri nipoti, dobbiamo andare nello spazio per sfruttare sue risorse e la sua energia illimitata”.
Bezos compare in un cameo in “Star Trek Beyond”. Bezos interpretò un alieno nel film del 2016 e pare che abbia impressionato sul set; la stella del cinema Chris Pine che ha detto che l’AD arrivò sul set con tre limousine e accompagnato da nove guardie del corpo. “Per anni ho implorato la Paramount, che è di proprietà di Viacom, di farmi partecipare a un film di "Star Trek". Ho insistito davvero molto, e potete immaginare il povero regista che ha ricevuto la telefonata, "Devi far recitare Bezos nel tuo film di Star Trek"”, ha detto Bezos ai Pathfinder Awards del 2016 al Museum of Flight di Seattle. “Mi sono divertito tantissimo. Era nella lista di cose da fare”.
È diventato miliardario partendo da zero nel 1999 a 35 anni. L’anno in cui Bezos ha fatto il suo primo ingresso nell’elenco Forbes Billionaires, la sede di Amazon si trovava nella stessa via di un banco dei pegni e di negozi di film per adulti, secondo CNBC. Dall’inizio del nuovo millennio, il patrimonio netto di Bezos è cresciuto in modo impressionante…Nell’agosto del 2020, Bezos è diventata la prima persona nella storia moderna ad accumulare un patrimonio di oltre 200 miliardi di dollari. Al 12 gennaio 2021, Bezos detiene un patrimonio di 181,7 miliardi di dollari, secondo Forbes, che lo rende ufficialmente la persona più ricca al mondo, anche se recentemente Elon Musk lo avrebbe superato.
Da "ilfattoquotidiano.it" il 24 marzo 2021. (…) MacKenzie Scott è davvero una delle donne più generose al mondo, se non addirittura la più generosa: come riporta il Telegraph, un consulente filantropico ha descritto il suo esborso totale per il 2020 di 6 miliardi di dollari come “una delle maggiori distribuzioni annuali da parte di un individuo vivente a enti di beneficenza operativi“. Subito dopo il divorzio multimiliardario da Bezos, la scrittrice 50enne ha infatti aderito con forza all’iniziativa di Buffet, donando solo lo scorso anno 4 miliardi di dollari. (…) Dopo l’addio coniugale Scott si è dedicata alla filantropia, donando a una serie di associazioni anche poco conosciute. E, ha assicurato ora, il suo approccio non è destinato a cambiare con le nozze: “Andrò avanti fino a che la cassaforte non sarà vuota”.
Alessio Lana per "corriere.it" il 13 maggio 2021. Tutti noi conosciamo Nina Rolle. Magari non abbiamo mai sentito questo nome eppure abbiamo parlato con lei migliaia di volte. È infatti la voce di Alexa, l'assistente vocale di Amazon. L’azienda di Bezos non ha mai svelato in modo ufficiale uno dei più curiosi segreti del mondo tecnologico. Fin da quando è apparsa sul mercato, nel lontano – tecnologicamente parlando – 2014, Alexa è diventata sinonimo stesso dell'assistente virtuale, di quella voce incorporea che risponde a tutti i nostri comandi ma nessuno sapeva chi ci fosse dietro. Fino ad ora almeno. Per il suo libro Amazon Unbound: Jeff Bezos and the Invention of a Global Empire, l'autore Brad Stone si è lanciato in questa ricerca curiosa e affascinante arrivando alla soluzione.
Scelta da Jeff Bezos. Di fronte al silenzio dell'azienda, Stone ha messo alle strette diversi doppiatori professionisti identificando Alexa nella voce di Nina Rolle, una donna di Boulder, in Colorado, molto nota nel mondo tecnologico, tanto da aver doppiato anche per marchi come Honda, Jenny Craig e Chase. Secondo l'autore la donna è stata scelta dopo mesi e mesi di provini e la decisione finale è arrivata proprio da Jeff Bezos in persona. Chiaramente Rolle non ha potuto confermare, anzi ha perfino evitato di rispondere alle domande di Stone, ma l'autore ha svelato altri particolari poco noti di Alexa.
I test segreti (e il sospetto dei vicini). Tra le tante spigolature offerte da Stone ce ne sono un paio davvero interessanti. Per esempio, Bezos all’inizio aveva pensato a un assistente vocale con tante voci diverse, ognuna per determinati compiti. Una scelta di difficile attuazione che era stata accantonata dagli ingegneri perché poco pratica. Per testare Alexa sul campo, Amazon aveva affittato diverse case a Boston, Seattle e in altre città dove gli impiegati conducevano esperimenti di nascosto. Spesso però i vicini chiamavano la polizia: quel viavai di persone diverse che entravano e uscivano dai vari appartamenti era sospetto e c'è chi aveva pensato a qualche strano traffico come lo spaccio di droga o la prostituzione. Una volta gli agenti erano arrivati davvero: gli impiegati allora gli avevano mostrato la casa dando spiegazioni vaghe per poi abbandonare la casa. Meglio non attirare troppa attenzione, la concorrenza è sempre in agguato.
Stefano Lorenzetto per corriere.it il 10 maggio 2021. Nel 1994, quando la fondò nel garage della sua casa di Seattle, Jeff Bezos avrebbe voluto chiamarla Abracadabra, «ma nella pronuncia americana la parola suonava simile a cadavere, e così ripiegò su Amazon», rievoca Mariangela Marseglia, country manager per Italia e Spagna della principale società di commercio elettronico. Solo che il Rio delle Amazzoni bagna tre Stati, mentre il magnate calvo ha inondato con i suoi prodotti buona parte del pianeta, fino a diventarne il più ricco abitante: il patrimonio personale ammonta a 201,4 miliardi di dollari (stima di Forbes aggiornata al 21 marzo). Mandata nell’ottobre 2010 alla conquista del nostro Paese, Marseglia fino al 2012 non ha avuto nemmeno un ufficio: «Lavoravo da Parigi con un gruppetto di ragazzi, altri operavano dal Lussemburgo. In tutto eravamo una trentina di persone». Oggi con i suoi 46 anni è la veterana di Amazon Italia, i cui dipendenti hanno un’età media di 32, e può guardare Milano dal giardino pensile della sede di viale Monte Grappa, cioè dall’alto in basso: dà lavoro a 9.500 persone e fattura 4,5 miliardi l’anno. Al primo hub di Castel San Giovanni (Piacenza), ne ha aggiunti due nella zona di Roma, tre in Piemonte, uno in Veneto. Altri tre li inaugurerà entro il 2021. A selezionare Marseglia fu Diego Piacentini, all’epoca vicepresidente senior e secondo azionista di Amazon dopo Bezos, in seguito chiamato dal governo Renzi a ricoprire pro bono dal 2016 al 2018 il ruolo di commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale. «Cinque colloqui prima d’incontrarlo».
E perché assunse proprio lei?
«Non certo per la mia esperienza. Venivo da anni di marketing e fui messa a occuparmi di libri, logistica e acquisti. Credo che avesse intravisto qualcosa nel mio modo di lavorare e di essere».
Lo darei per scontato.
«Qui cerchiamo d’individuare il talento, più che saggiare l’esperienza. Lavorare in Amazon significa ricominciare daccapo. Io non sapevo nulla del digitale, per esempio. Ho imparato da zero».
Conosce Jeff Bezos?
«Conoscere è una parola grossa. Ho avuto la fortuna di osservarlo all’opera in vari meeting nell’anno in cui sono stata il braccio destro di Piacentini nel quartier generale di Seattle. L’ultima volta ci siamo visti prima della pandemia».
Che tipo è?
«Non ho mai incontrato una persona più originale e curiosa di lui. Bezos non appartiene all’oggi: è l’uomo del futuro. Non si fa distrarre dal rumore di fondo in cui tutti siamo immersi. Ha obiettivi di lungo periodo e li persegue con pertinacia e capacità straordinarie».
Allora perché si sarà comprato il «Washington Post»? Da molti i giornali sono considerati residui del passato.
«Bella domanda. L’informazione di qualità diventerà sempre più importante, secondo me. Il citizen journalism contiene un inganno, a chiunque tenga un telefonino in mano fa credere di essere un giornalista. È la censura nella sua forma moderna: in passato si praticava nascondendo le notizie, oggi moltiplicandole a dismisura, cosicché non riesci più a distinguere il vero dal falso. Bezos ha capito che l’editoria autorevole alla lunga è vincente. Infatti il Washington Post cresce, ha i conti in ordine. E non esita a criticare anche Amazon, glielo assicuro da abbonata all’edizione digitale».
Voi vendete merci acquistate all’ingrosso o fungete solo da piattaforma?
«Metà e metà».
Chi sceglie quelle da porre in vetrina?
«Chi le propone. Ci fidiamo. Non ci sono filtri da parte nostra. Purché non si tratti di armi e non siano offensive o blasfeme. Se cogliamo segni di fraudolenza, come potrebbe essere un oggetto made in China spacciato per ceramica artistica di Vietri sul Mare, interveniamo».
Non l’avete fatto con «Scoreggia succosa» offerta da Stoked Skills Llc per Alexa, il vostro assistente virtuale.
«Mi pare uno scherzo, non un prodotto. Siamo tolleranti con gli sviluppatori di skill. Farò senz’altro una verifica».
Ma quanti prodotti vende Amazon?
«In Italia siamo arrivati a 250 milioni».
Se penso che Bernardo Caprotti sbuffò quando gli chiesi di far arrivare in Esselunga il tonno con la ’nduja: «Ma si rende conto che ho già 27.000 referenze?».
«Caprotti era bravissimo a fatturare il doppio di noi con 150 supermercati».
Ora anche voi portate la spesa a domicilio in due ore con Amazon Fresh.
«Solo in due città: Milano, inclusi molti Comuni dell’hinterland, e Roma».
Un’idea che ha collaudato lei, giusto?
«Sì, ero responsabile del servizio Prime Now in Europa. Milano nel 2015 fu la seconda città dopo Londra a sperimentarlo. Oggi vende 20.000 prodotti».
Imitate Esselunga con Amazon Go.
«Non proprio. I nostri sono negozi automatizzati, privi di casse. Per il momento ce ne sono due a Londra. Io usavo quello di Seattle. Un’esperienza avveniristica. Entri, ti fai riconoscere con un codice QR, prendi dagli scaffali, esci e in pochi secondi ti arrivano scontrino e addebito in carta di credito sul telefonino».
E se nel conto trovi un articolo in più?
«Contatti il servizio clienti. Ma il sistema non sbaglia mai. È basato su telecamere, computer vision e intelligenza artificiale. Ho provato di proposito a ingannarlo, togliendo i prodotti, rimettendoli nei posti sbagliati. Niente da fare».
Ci arriverà anche la concorrenza.
«Sa qual è il bello di Amazon? Dopo aver collaudato una tecnologia, la mette a disposizione. Quindi potremmo venderla anche a Esselunga. Se tutte le aziende che innovano si aprissero, moltiplicherebbero i benefici per l’economia».
Quanto spende il vostro cliente tipo?
«In media acquista uno o due prodotti per ordine e paga intorno ai 30-35 euro».
A voi quanto resta?
«Da un minimo del 5 per cento a un massimo del 15, che varia se il rivenditore affida a noi logistica e magazzino».
Però intascate 36 euro l’anno dagli abbonati per le consegne in 24-48 ore.
«Amazon Prime prevede anche sottoscrizioni mensili. E comunque regala le spese di spedizione e consente di accedere gratis a film, serie tv e musica».
Quanti articoli vendete in un’ora?
«Francamente non glielo so dire. Non siamo così ossessivi nel monitoraggio».
Non vi appassionano le statistiche?
«Tutt’altro, i numeri ci piacciono molto. Ma più per l’input che per l’output».
Traduca.
«Vendere tot prodotti al minuto è il risultato. Ma ci arrivi solo se hai lavorato bene a monte. Quindi a me interessa l’esaurimento delle scorte, perché so che a ogni rottura di stock corrisponde una vendita mancata e un introito perso».
Se i negozianti delle città organizzassero tante piccole Amazon di prossimità per recapitare la spesa in un’ora con i mototaxi, voi sareste spacciati?
«È già accaduto. Durante il lockdown, il fatturato online delle aziende fisiche è aumentato del 30 per cento. La concorrenza è benvenuta. Le imprese che entro il 2030 non si saranno digitalizzate subiranno un inesorabile declino, dice l’Ue».
Ho letto il suo motto: «Quando c’è la volontà, si trova la strada». Ma non basta voler abitare su Giove per arrivarci.
«Come lei saprà, Jeff Bezos ha fondato Blue Origin, una start up per i voli spaziali. È importante coltivare dei sogni, nutrire delle ambizioni buone».
Intanto vi accontentate di consegnare i pacchi sulla terra con i droni.
«Lo stiamo facendo a Cambridge, in forma sperimentale. Ma ci sono limitazioni di peso e di ingombro. È chiaro che non puoi recapitare con il drone un’asse da stiro, anche se è leggera».
Per trasportare un oggetto a Trieste da dove dovrebbe partire il drone?
«Il centro di distribuzione più vicino è Castelguglielmo, provincia di Rovigo».
In linea d’aria saranno almeno 180 chilometri. Costerebbe una fortuna.
«Stiamo valutando le circostanze avverse. Un drone ha un’autonomia di volo di un’ora. In più il cliente deve disporre di un giardino dove farlo atterrare».
I commercianti al dettaglio vi odiano.
«Sbagliano. Con noi possono raggiungere acquirenti fuori dal proprio bacino di utenza e dai confini nazionali. In Italia operano su Amazon ben 14.000 piccole e medie aziende, 600 delle quali con un fatturato digitale superiore agli 800.000 euro. Potrei raccontarle decine di storie su stati di crisi superati grazie a noi».
Mi accontento di un paio.
«Zenoni & Colombi di Nembro, biancheria per la casa. Durante la pandemia, in piena zona rossa, ha moltiplicato le vendite online. Oppure Francesco Morici che da Trapani, con la sua Rarezze, vende pasta di mandorla in tutta Europa».
Vi accusano di ritmi lavorativi che costringerebbero gli addetti dei vostri centri logistici a fare pipì nelle bottiglie.
«Non so neppure che cosa rispondere. Ogni anno 18.000 italiani visitano i nostri hub e vedono toilette ovunque».
Eppure Cgil, Cisl e Uil hanno scelto di celebrare il 1° Maggio davanti al centro Amazon di Passo Corese. Come mai?
«Me lo sto chiedendo anch’io. Nel 2020 abbiamo assunto 2.600 persone a tempo indeterminato, paghiamo più dei minimi contrattuali, copriamo persino per quattro anni il 95 per cento dei costi di riqualificazione dei dipendenti che desiderano andare a lavorare altrove».
Però pare che qui non versiate tasse.
«Falso. In Italia il contributo fiscale nel 2019 è stato pari a 234 milioni di euro».
Lei acquista su Amazon?
«Ah sì. Mobili, libri, giocattoli. Ma nei fine settimana compro frutta, verdura, formaggi, salami e miele alla Cascina Biblioteca, una cooperativa di Lambrate».
E perché non utilizza Amazon Fresh?
«Perché è una fattoria fondata nel 1200 dai frati Umiliati. E ci trovo gli animali».
Tutto su Mr. Amazon. Riccardo Staglianò su La Repubblica il 24 dicembre 2020 2021. Jeffrey Preston Bezos, 56 anni, è il fondatore, presidente e amministratore delegato di Amazon. È stato adottato (come Jobs), ha un cane (Kamala), un ufficio (day one) e 14 sacri principi cui attenersi scrupolosamente. Ecco chi è l'uomo più ricco del mondo. Pasqua con i tuoi (vaccino permettendo), Natale con l'Amazon che vuoi. Quella che consegna i regali ai nonni che non vedremo. Quella dell'alternativa streaming all'iperglicemica tv delle festività. Quella ancora che ipnotizza i bimbi con Alexa. Giusto per fare qualche esempio. Perché ciò che normalmente associamo al nome dell'azienda fondata da Jeff Bezos è solo la punta del pinnacolo dell'iceberg digitale che crediamo di conoscere. E ciò spiega i numeri record collezionati dal suo ideologo. Duecento miliardi di dollari, il patrimonio personale più alto di sempre, 24 dei quali cresciuti grazie al lockdown che ha affossato il resto dell'umanità. O, da un'altra prospettiva, 9 secondi: il tempo che gli ci vuole a guadagnare lo stipendio annuale di un suo magazziniere. Il quale, stando all'algoritmo, ogni 8 secondi dovrebbe invece prelevare una merce dagli scaffali, scarpinando a passo di carica fino a 20 chilometri al giorno. Ottocentoquarantamila è invece il conto globale dei dipendenti, per ognuno dei quali avrebbe però fatto fuori 2 o 3 altri lavoratori, stando a una stima di MarketWatch, una delle tante che provano a quantificare il ruolo che il sito di commercio elettronico ha avuto nella retail apocalypse, la carneficina di negozi. E tutto ciò prima del dispiegamento di oltre 200 mila robot nei magazzini. Per non dire dei sacri 14 Principi a cui devono attenersi i dipendenti. Delle 48 ore, il termine di consegna per tutte le merci di Prime. O dei 60 secondi, il tempo garantito tra l'ordine di un libro su Kindle e il suo scaricamento. Tacendo delle crescite record che, anno dopo anno, il fondatore riassume nelle comunicazioni agli investitori e che ora ha raccolto in Invent and Wander, inventa e girovaga, la sua versione delle lettere ai Corinzi dove "l'amore che non viene mai meno", l'oggetto della sua fede, è quello nei confronti del cliente, intorno al quale tutta la cosmogonia bezosiana si muove. Un corpus testuale affidato a Harvard Business Review Press che, per la prima volta, ci fa entrare nel sistema operativo del più ricco, potente, geniale, odiato e largamente misconosciuto manager vivente. La prima difficoltà, parlando della sua creatura, è definitoria. Di cosa si occupa Amazon? Pensiamo di saperlo tutti, ma non è detto. È diventata famosa come negozio, anzi l'Everything Store dal titolo del libro di Brad Stone, ma ormai si arricchisce di più come fornitrice di servizi informatici (Amazon Web Services). Perché sulle merci ha una politica dei prezzi ferocemente al ribasso, talvolta in perdita, mentre sul cloud ha margini ampi. In buona sostanza nel 2018 su 208 miliardi di dollari di vendite, Amazon faceva profitti per 5 miliardi, contro i 7 incassati sul fatturato Aws di soli 26 miliardi. Perché dalla Cia a Netflix, che pure è sua concorrente sul terreno delle piattaforme video, la metà di tutti coloro che nel mondo hanno bisogno di servizi cloud si appoggia ai suoi server. Grazie al fenomenale numero di ricerche che ogni giorno milioni di clienti effettuano sul suo sito, è diventata anche una superpotenza pubblicitaria: chi, meglio di Amazon, conosce i desideri merceologici delle persone? E poi c'è il Washington Post, comprato con l'argent de poche di Bezos e rivitalizzato in sei anni, passando da 500 a 850 giornalisti. Per chiudere, ma solo per amor di brevità, con la passione più antica: le spedizioni spaziali private a 200 mila dollari a biglietto che Blue Origin intende offrire nei prossimi anni. Dunque, "di che si occupa Amazon" non era alla fine una domanda oziosa. E se all'Agenzia delle entrate dovessero trovare il codice Ateco per i ristori potrebbero impazzire. Più che un'azienda è un ecosistema dove business apparentemente irrelati si parlano fitto fitto nella testa del fondatore. O, per dirlo con la lettera del 2014, "sono abbastanza sicuro che siamo la prima azienda che ha scoperto come trasformare la vincita di un Golden Globe in un aumento nella vendita di attrezzi per il bricolage e di salviette umidificate per neonati". Si riferisce al premio per la serie Transparent, su un padre che in vecchiaia si rivela trans, e ai suoi effetti collaterali. Ovvero attivare il circolo virtuoso che fa, più o meno, così: ridurre la quantità di cartone dei pacchi o il tempo per spedirli consente risparmi; che a loro volta si trasformano in ribassi sui prezzi; che aumentano il volume delle vendite; che riducono i costi fissi (non cambia molto far funzionare un server per mille o diecimila transazioni), consentendo ulteriori ribassi sui prezzi. "I clienti li amano e, nel lungo periodo, fanno bene anche a voi" scriveva nel 2000 Bezos agli azionisti, avvisandoli: "Aspettatevi di vederci ripetere questo loop". Ad infinitum. E così è stato. Ma se è vero che un abbonato Prime spende in media 1.400 dollari all'anno contro i 600 di uno non Prime, bisogna inventarsi sempre nuovi motivi per farlo iscrivere. Quindi la musica. Lo spazio illimitato per archiviare le foto. E via aggiungendo. Soprattutto i film, e ci siamo arrivati, che se vincono premi più gente vuole vederli, anche a costo di abbonarsi. Facendo ripartire quel meccanismo che, dal 1997 della quotazione a oggi, ha moltiplicato il valore delle azioni di 170 volte, per cui se avevi investito 1.000 dollari ora ti compravi un monolocale. Filosofia a parte, l'incognita rimane l'uomo. Biografia minima della sua versione beta. Jeffrey Preston Jorgensen nasce a Albuquerque, New Mexico, nel 1964 da una studentessa diciassettenne che l'ha avuto col gestore di un negozio di bici che si esibiva sul monociclo in un circo e dal quale divorzia quasi subito. A quattro anni il nuovo compagno Miguel Bezos, esule cubano che arriva in America con una giacca fatta di stracci, lo adotta - com'è successo a Steve Jobs. Altro adulto di riferimento è il nonno materno, responsabile di un'agenzia atomica federale, nel cui ranch in Texas il piccolo Jeff passerà estati a castrare tori e aggiustare tubature. A riprova di una precoce capacità analitica il ragazzino, esasperato dal fumo delle sue sigarette, un giorno vaticina alla nonna che, "considerando due minuti per boccata, avrai sottratto nove anni dalla tua vita". Lei si mette a piangere, il nonno lo ammonisce: "Jeff, un giorno ti accorgerai che è più difficile essere gentili che intelligenti". Primo della classe al liceo in Florida dove la famiglia si è trasferita, gli affidano il discorso di commiato in cui immagina un futuro in cui tutti dovranno trasferirsi su un altro pianeta perché la Terra non avrà abbastanza risorse. Poi, a Princeton, vagheggia studi di fisica teorica per poi ripiegare su ingegneria elettronica. Infine a New York lavora per l'hedge fund D.E. Shaw col compito di individuare "opportunità di investimento" nel mondo nuovo internettiano. È lì che, dopo aver spiegato agli amici il suo women flow (parafrasi del deal flow per cui i broker non prendono in considerazione investimenti sotto una certa cifra), secondo il quale avrebbe accettato solo candidate "in grado di tirarlo fuori, al bisogno, da una prigione del Terzo mondo", conosce MacKenzie Scott, ex assistente della scrittrice premio Nobel Toni Morrison, e la sposa. Di quel periodo l'agnizione più importante è questa: "Mi accorsi del fatto che l'utilizzo del web cresceva del 2.300 per cento all'anno". Così, applicando il suo "metodo di minimizzazione dei rimpianti" ("Quando avrò 80 anni mi pentirò di aver lasciato Wall Street? No. E invece di essermi perso l'inizio di internet? Sì") prende la decisione che lo traghetterà verso la sua prima release: aprire un negozio online. Quando nel '94 affitta gli uffici a Bellevue, sobborgo di Seattle dove ha sede anche Microsoft, sono lui, MacKenzie e un programmatore. La sua invenzione logistica più significativa, in quei giorni, è l'introduzione di ginocchiere per non farsi male quando infila i libri nei pacchi accucciato a terra. A lungo guiderà una Honda Accord largamente sottodimensionata rispetto alle sue finanze. Una frugalità che è rimasta nell'ethos aziendale a giudicare da come guardano i neoassunti che commettono l'impudenza di stampare documenti su un lato solo anziché su due o peggio ancora quelli che chiedono di volare in business. Vecchia fissa anche di Gates ("Comunque non si arriva prima!") che con mister Amazon condivide soprattutto un certo millenarismo ("Siamo sempre a sei mesi di distanza dal fallimento"). Bezos lo esprime nel culto del Giorno 1, che nella vita delle aziende corrisponde allo start-up, l'avviamento. Seguito dal 2, la stasi. Dal 3, l'irrilevanza a cui si accompagna il 4, "straziante, dolorosissimo declino", che precede il 5, la morte. L'importante, quindi, è non uscire mai dalla prima, energetica casella. Per farlo bisogna concentrarsi non tanto sulla concorrenza (che una volta che l'hai staccata ti puoi rilassare e a quel punto sei fottuto) quanto sui clienti, per definizione incontentabili. Il messaggio è la pietra angolare su cui è edificata la sua chiesa, a partire dal nome dell'edificio che ospita il suo ufficio (Day One, appunto) ed è stampigliato anche nei bagni dei magazzini. E ogni anno le lettere ai dipendenti si concludono con un "Ricordatevi che siamo sempre al Giorno 1", gemello diverso del motto dei Navy Seals ("L'unico giorno facile era ieri"). Religione del cliente che si estrinseca al massimo livello con invenzioni tipo il pulsante Mayday sui tablet Fire Hd dove, se qualcosa va storto, basta premerlo e qualcuno interviene direttamente sull'apparecchio. Assistenti così servizievoli che in pochi mesi avrebbero totalizzato almeno 35 proposte di matrimonio, pulsione provata di recente anche dal cronista, alle prese con uno spinoso problemino di software, verso l'impareggiabile Emanuela da Cagliari a cui manda i migliori auguri. Poi, però, arriva il gennaio 2019. Il tabloid National Enquirer spara la bomba: Bezos ha un'amante. Si tratta di Lauren Sanchez, moglie a sua volta di un celebre agente di Hollywood che il fondatore, complice il coinvolgimento creativo in Amazon Videos, ha cominciato voluttuosamente a frequentare. Con tutti gli ammennicoli, compresa la villona a Beverly Hills e il farsi vedere in giro con Matt Damon. Il riassunto migliore è di un cinematografaro: "Se c'è un'inaugurazione Bezos non manca mai. Andrebbe anche all'apertura di una busta!". In effetti, dal 2017, quando Forbes lo laurea il più ricco del mondo, l'uomo è cambiato. Narra la leggenda, riportata dal New Yorker, che pochi giorni dopo l'exploit Bill Gates lo inviti a pranzo proponendo come possibili giorni "martedì o mercoledì". La segretaria verifica: sono entrambi disponibili. Ma Bezos non ci sta: "Facciamo giovedì". Una cazzimma inedita. Poco cibo, tanti pesi: gonfia. E si rade in maniera più radicale accentuando la somiglianza con Jean-Luc Picard, il comandante di Star Trek idolo di gioventù che gli ha ispirato il computer parlante Alexa e il nome da dare al cane, Kamala, che non ha niente a che vedere con la neo-vicepresidente e tutto con la kriosiana che si innamora del pilota intergalattico. Pochi giorni dopo il lercio scoop, Bezos annuncia il divorzio dalla moglie, con la quale ha quattro figli. Di lì a poco denuncia pubblicamente un tentativo di estorsione per non pubblicare foto compromettenti (il meglio tweet di quei giorni è: "Le dick pic, foto intime, di Jeff Bezos rivelano che ha palle di acciaio"). Giornalacci lo fotografano in costume con fantasia di polpi a Saint-Tropez e raccontano che ha conosciuto i genitori della nuova bella mentre si scopre che le schermate dei messaggini compromettenti le avrebbe vendute, per 200 mila dollari, proprio il potenziale cognato. Ad aprile il divorzio viene ufficializzato: Jeff si tiene il 75 per cento delle azioni e la totalità dei diritti di voto mentre a MacKenzie ne va un quarto, quasi 36 miliardi, sufficienti per farla diventare la donna più ricca del mondo e farle annunciare di aver ripreso in mano un romanzo a lungo abbandonato. Gli analisti temono che le vicende private possano offuscare la leggendaria razionalità dell'uomo, ma vengono prontamente rassicurati dai risultati di Borsa.
Che però non azzerano la cattiva stampa. Nel S-Team, il sinedrio di 18 senior che gestisce l'impero amazoniano, c'è una sola donna, alle risorse umane, e nessun nero. L'allergia verso i sindacati è notoria, alimentata anche da episodi come quello di vent'anni fa, quando una union locale provò a organizzare 400 addetti all'assistenza clienti a Seattle e l'azienda li mandò tutti a casa. Nel 2018 Bernie Sanders propone la legge Stop Bad Employers by Zeroing Out Subsidies, che in acronimo fa Stop BEZOS, accusato di pagare così poco i propri dipendenti da costringerli a chiedere i sussidi statali. I famigerati working poor. Una campagna che lo convince non solo ad alzare i salari minimi a 15 dollari l'ora, un sogno per tanti americani, ma anche a sfidare i suoi concorrenti a fare almeno altrettanto. Resta l'imbarazzo delle tasse. In quello stesso anno, parliamo di imposte federali sul reddito, il fondatore non ha pagato un dollaro. Un po' come Trump che però lo chiama Jeff Bozo, "coglione", reputandolo il mandante del trattamento ruvido che il Post gli ha riservato in questi anni e contro cui si vendicherà facendogli revocare una mega-commessa da 10 miliardi di dollari per servizi cloud al Pentagono. Bezos fa ricorso, ma non ci perde il sonno. Anche perché quello della pandemia è stato forse l'anno più ricco di sempre. Non potendo uscire di casa, l'everything store è diventato l'emporio dell'umanità. E mentre i supermercati tradizionali, travolti dagli ordini, ci mettevano settimane per consegnare, ad Amazon bastavano giorni. Quindi che giudizio diamo dell'uomo e della sua creatura a dieci anni precisi dallo sbarco italiano? Raramente le due entità sono state così compenetrate. Al punto che il Capo ha creato una nuova figura, il consulente tecnico, ribattezzato Jeff-bot, che lo segue passo passo per almeno un anno, assorbe la sua visione e prova a infonderla ai livelli gerarchici più bassi. Tra i 14 Principi di leadership annunciati svettano "Mai rispondere: non è compito mio", "Inventa e semplifica" e il fondamentale e impervio "disagree and commit", sii pure in disaccordo, dillo, ma una volta detto impegnati come se l'idea fosse stata tua. Bezos ha costruito la sua azienda come un generale gestisce West Point. Ai potenziali dipendenti fa sapere: "Si può lavorare a lungo, intensamente o con scaltrezza, ma da noi non puoi limitarti a scegliere due delle tre opzioni". Le vuole tutte. Per quanto riguarda il richiamo del nonno alla gentilezza, se n'è andato con lui. "Sei pigro o solo incompetente?", "Questo documento è stato chiaramente scritto dalla squadra B. Qualcuno mi può far avere quello della squadra A?", "Perché mi rovini la vita?" sono solo alcune delle risposte al curaro, che rievocano il panico dei dipendenti di Microsoft alla prospettiva di trovarsi in ascensore con Bill o di quelli di Apple nel fronteggiare Jobs, l'"agguerrito buddista" della memorabile definizione di Evgeny Morozov. Ma forse bisogna arrendersi: se sei un poeta fai un'altra carriera. Eppure, da giovane, Bezos giurava di amare Kazuo Ishiguro, il Nobel dell'introspezione, l'autore di Quel che resta del giorno. C'è quello e il suo contrario. Da un formidabile numero consecutivo di anni Amazon risulta l'azienda che gode della fiducia dei consumatori americani più alta di sempre. Anche più dell'esercito. Nonostante che il segretario trumpiano al tesoro Steven Mnuchin abbia dichiarato, non senza ragioni, che ha "distrutto l'industria al dettaglio". Una critica largamente condivisa anche dal quarantaseiesimo presidente se, ancora pochi mesi fa, Joe Biden ne parlava come epitome del "capitalismo fuori controllo". Da anni le antitrust si interrogano su come mettere un freno a Amazon ma, come la giurista Lina Khan ha osservato nel 2017 sul Yale Law Journal, "è come se Bezos avesse immaginato la crescita dell'azienda disegnando prima le leggi sulla concorrenza e poi si fosse inventato strade per bypassarle senza sforzo". Perché il sintomo classico del comportamento monopolista è di far alzare i prezzi, mentre Amazon li abbassa. Ma ciò non ha impedito alla Commissaria europea Margrethe Vestager di istruire un'indagine sull'ipotesi che l'azienda abbia abusivamente utilizzato i dati dei venditori terzi sulla piattaforma per favorire i propri prodotti. Balla una multa pari al 10 per cento del fatturato, dunque di oltre 20 miliardi di euro. Le azioni sono andate giù sull'annuncio dell'efficacia del vaccino Biontech-Pfizer, che un giorno farà uscire la gente di casa, ma dopo due giorni hanno ricominciato a salire. Non risulta che Bezos abbia cambiato la sua abitudine di godersi un risveglio lento e di non fissare mai riunioni prima delle 10. Come le sue Lettere ai dipendenti confermano è uno stratega, della tattica non sa cosa farne. Per rendere il concetto più plastico ha anche stanziato 42 milioni per costruire, sopra al suo ranch texano, un orologio Long Now pensato per durare 10 mila anni, che muoverà il braccio avanti ogni cento. D'altronde, che alla Casa bianca ci sia un democratico o un repubblicano, la Corte dei conti americana ha calcolato che sulle sedici principali agenzie federali solo l'11 per cento ha già fatto la transizione nel cloud. E in Italia, per dire, Amazon è sinonimo di commercio elettronico ma sul totale vende solo il 7 per cento delle merci. C'è gran margine di crescita. Come ha fatto notare Stratechery, un sito informatissimo sugli scenari tecnologici, il master plan è chiarissimo: "Amazon vuole fornire la logistica per chiunque e qualsiasi cosa, perché se tutto passa attraverso di lei sarà nella posizione per raccogliere tasse su uno stupefacente numero di transazioni". Un trilione di fiorini. Personalmente vivo un sentimento odi et amo credo comune a molti: detesto il paradigma, adoro il prodotto. L'ha detto benissimo sull'Atlantic Franklin, il primogenito dei fratelli Foer: "Jeff Bezos ha vinto il capitalismo. La domanda per la democrazia è: ci sta bene?". Compreso il fatto che i magazzinieri facciano una gara sempre più parossistica con i robot o i corrieri accelerino, chiedete a Ken Loach, per non farsi fregare dai droni? Bezos vince perché ragiona a decadi. La politica dovrebbe almeno riuscire a superare la fine del mese. Altrimenti non c'è partita. Sul Venerdì del 24 dicembre 2020
Tutto su…Benjamin de Rothschild. Franco Zantonelli per "la Repubblica" il 10 febbraio 2021. «Un precursore, l' uomo che aveva visto per tempo la fine del segreto bancario svizzero». Così, lo scorso 16 gennaio, il quotidiano Le Temps rendeva omaggio al barone Benjamin de Rothschild, dell' omonima famiglia di banchieri e banchiere a sua volta, morto la sera prima d' infarto a soli 57 anni nel suo castello di Pregny, nei sobborghi eleganti di Ginevra. Il barone sarà stato pure un visionario per le questioni che riguardavano il mondo della finanza ma chissà se si era immaginato il vespaio che si sarebbe scatenato nella sua famiglia, in seguito alla sua prematura scomparsa. Due donne, la moglie Ariane, nata in Salvador da una famiglia franco-tedesca, e la madre Nadine, ex attrice francese e autrice molto nota di manuali di savoir vivre e di bon ton , una volta celebrate le esequie del congiunto hanno iniziato una disputa ereditaria che sembra fatta su misura per le riviste di gossip. In ballo c' è un patrimonio che, stando alla rivista economica Challenges dovrebbe ammontare a 4,3 miliardi di euro. Il pezzo più pregiato è la banca privata ginevrina Edmond de Rotschild, con 2.500 dipendenti e depositi per 173 miliardi di franchi, circa 165 miliardi di euro. Seguono diverse residenze extra-lusso, tra cui il castello dove il cuore del barone è ceduto all' improvviso poco meno di un mese fa, la sua collezione di 300 auto e 50 moto, quadri di Goya, Rembrandt e Fragonard, diverse parures di gioielli che insieme formano il "Tesoro di Napoli". Per non parlare dell' hotel Four Seasons a Megève, sulle Alpi francesi, e al Maxi Edmond de Rotschild, un trimarano da regata di 32 metri. A stabilire l' attribuzione della cospicua eredità del barone è un testamento, depositato presso lo studio del notaio di Ginevra Didier Bottge. Il quale, interpellato dalla Tribune de Genève , ha replicato affermando che si tratta di «questioni private». Non v' è dubbio sia così ma a suscitare il gossip c' è un fatto, ovvero i conclamati pessimi rapporti tra la vedova 55 enne, Ariane, e la suocera 88 enne, Nadine. «Nadine - ha confidato una fonte vicina alla famiglia - ha sempre avuto l' ossessione di dover avere a che fare direttamente con Ariane, nel caso in cui il figlio morisse prematuramente. Si è pure lamentata del fatto che la nuora le impedisse di vedere le nipoti». Quattro ragazze, nate tra il 1995 e il 2002, che dovrebbero figurare nel testamento, gelosamente custodito dal notaio Bottge, quali eredi dirette del patrimonio di Benjamin de Rothschild. Essendo però al momento ancora troppo giovani, le redini della holding che gestisce gli affari di famiglia, ovvero il gruppo Edmond de Rothschild, sono saldamente nelle mani di Ariane. Da 5 anni, peraltro, il marito, che preferiva dedicarsi ai suoi numerosi hobby, l' aveva insediata alla testa del Cda dell' azienda di famiglia. Tutto risolto? Per niente visto che, oltre alla suocera che gliel' ha giurata, Ariane de Rothschild deve vedersela con Camillia, sorellastra del marito, nata da una relazione extraconiugale del suocero. Dell' esistenza della quale Benjamin, come in un romanzo di Liala, ha saputo solo ai funerali del padre. In aggiunta a questo palcoscenico litigioso tutto al femminile, a insidiare la fortuna della dinastia ci si sono messi, pure, i cugini francesi, loro stessi banchieri, con i quali il ramo svizzero ha dovuto battagliare legalmente per il controllo del cognome o, se si preferisce, del marchio Rothschild. Controversia chiusasi nel 2018 con un armistizio, in base al quale a entrambi i rami della famiglia è consentito di palesarsi come Rothschild. Nel frattempo, forse ritenendo che Ariane sia una figura fragile, i Rothschild francesi ne hanno messo alla prova la saldezza di banchiera direttamente in casa sua acquistando, proprio a Ginevra, un istituto specializzato nella gestione patrimoniale, la banca privata Pâris Bertrand. L' obiettivo pare chiaro: sottrarre clienti ai cugini, approfittando del denominatore comune di un cognome che da sempre fa rima con banca. Difficilmente, però, l' avranno vinta senza battagliare duramente. Ariane de Rothschild, che ha affascinato il Nouvel Observateur con «il suo fare diretto e i suoi limpidi occhi azzurri», non pare donna che si lasci intimidire facilmente. Anche la suocera Nadine, di cui si dice abbia in banca 200 milioni di euro in contanti, farà fatica ad ottenere una fetta dell' eredità del figlio, senza ricorrere a qualche agguerrito studio legale. Quello che sembra ormai certo è questo nuovo capitolo della saga dei Rothschild contro Rothschild si annuncia ricco di colpi di scena.
Roman Abramovich. DAGONEWS il 29 marzo 2021. La città di Bremerhaven, sulla costa settentrionale della Germania, ha la reputazione di essere una comunità tranquilla e riservata. In questo momento, tuttavia, si sente una strana energia. Il nuovissimo superyacht da quasi 500 milioni di euro costruito per il proprietario del Chelsea Football Club Roman Abramovich ha completato le sue prime prove in mare. Le riprese video mostrano l'enorme nave da 48 cabine mentre viene delicatamente trascinata fuori dal cantiere navale Lloyd Werft nella città tedesca di Bremerhaven. Per manovrare il Solaris fuori dal cantiere navale sono stati utilizzati due rimorchiatori che lo hanno trascinato dolcemente in acque più profonde. Lungo circa 140 metri, Solaris non è lo yacht più grande né il più costoso della flotta del magnate russo ma, con un prezzo di quasi 503 milioni di euro, è il superyacht su misura più costoso mai costruito e probabilmente il più tecnologicamente avanzato. Allora cosa sta ricevendo Abramovich, 54 anni, per i suoi soldi? E perché sta sprecando centinaia di milioni su un nuovo superyacht che è in realtà più piccolo del suo Eclipse? Sebbene gran parte del progetto sia nascosto nel segreto, sappiamo che avrà 48 cabine, un equipaggio di 60 persone e spazio per 36 ospiti, alloggiati in lussuose camere da letto tra gli otto ponti della barca dotata di ascensore. Questo colosso galleggiante ha due motori elettrici ad alta tecnologia chiamati Azipods che alimentano eliche super efficienti in grado di ruotare di 360 gradi, rendendo superfluo l’uso del timone. Basandoci sulle specifiche degli altri yacht di Abramovich e delle ultime tendenze nel mondo dei superyacht, possiamo anche presumere che gli amici e i soci abbastanza fortunati da ricevere un invito su Solaris avranno accesso a una vasta gamma di servizi: una palestra, una sauna, una vasca idromassaggio e almeno una piscina sono di serie su barche come queste. Se fosse simile all'Eclipse, sarà anche dotata di un salone di bellezza completo di estetista e parrucchiere. Mentre Eclipse ha un night club con pista da ballo, Solaris avrà invece un "beach club" all'aperto nella sezione di poppa del ponte superiore. Naturalmente, avrà anche quei giocattoli oceanici che fanno luccicare gli occhi dei miliardari più annoiati: una flotta di 20 moto d'acqua ad alta velocità; almeno un elicottero per traghettare gli ospiti dalla nave alla riva ed è difficile credere che qualcuno come Abramovich non investirà nell'ultimo must-have: un sottomarino personale. Dopotutto, sarebbe il modo migliore per osservare la bellezza naturale dell'oceano senza indossare una muta oppure rischiare l’attacco di uno squalo. Un modello entry-level costa circa 1.7 milioni di euro e un sottomarino di fascia alta con tutti gli extra opzionali potrebbe costare fino a 5.1 milioni di euro. Ma uno dei sommergibili più ricercati tra i miliardari è quello prodotto da Triton grazie a una joint venture con il marchio di auto di lusso Aston Martin chiamata “Project Neptune”. Oltre a Solaris ed Eclipse, si ritiene che Abramovich abbia precedentemente avuto almeno altri sei superyacht: la nave di 113 metri “Le Grand Bleu”, il “Pelorus” e il “Luna” entrambi 115 metri, “Ecstasea” da 86 metri, il “Sussurro” da 49 metri e “l’Olympia” da 50 metri.